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Biblioteca Aperta • MANUALI E MATERIALI PER L’UNIVERSITÀ
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La collana Biblioteca Aperta propone strumenti innovativi per lo studio delle discipline di base del triennio, appositamente concepiti in conformità ai programmi della nuova università nata dalla riforma. A questi la collana affianca un progetto di recupero dei testi classici che appartengono alla tradizione del catalogo Sansoni.
Nella stessa collana Aurelio Musi, Le vie della modernità Giovanni Vitolo, Medioevo. I caratteri originali di un’età di transizione Ettore Paratore, Storia della letteratura latina G. Fink, M. Maffi, F. Minganti, B. Tarozzi, Storia della letteratura americana Theodor Mommsen, Storia di Roma antica Marco Polo, Milione Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo Armando Balduino, Manuale di filologia italiana Maria Pia Ellero, Matteo Residori, Breve manuale di retorica Leila Corsi, Aldo Pecoraro, Elena Virgili, La scrittura tra creatività e grammatica Giuseppe Sangirardi, Francesco De Rosa, Breve guida alla metrica italiana Giulio Carlo Argan, Storia dell'arte italiana, I. Dall'antichità a Duccio Giulio Carlo Argan, Storia dell'arte italiana, II. Da Giotto a Leonardo Giulio Carlo Argan, Storia dell'arte italiana, III. Da Michelangiolo al Futurismo Giulio Carlo Argan, L’Arte moderna 1770-1970 – Achille Bonito Oliva, L’Arte oltre il Duemila Gianfranco Contini, Antologia manzoniana Aurelio Musi, L’esame di storia. Test di ripasso lungo le vie della modernità Gian Mario Anselmi, Profilo storico della letteratura italiana
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Michele Rostovtzeff
Storia economica e sociale dell’impero romano Nuova edizione accresciuta di testi inediti a cura di Arnaldo Marcone
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Titolo originale: The Social and Economic History of the Roman Empire © 1926 Clarendon Press, Oxford Prima edizione italiana (riveduta e accresciuta dall’Autore rispetto all’edizione inglese del 1926 e a quella tedesca del 1931): 1933, La Nuova Italia, Firenze Prima edizione anastatica: © 1976, La Nuova Italia, Firenze Prima ristampa: 1980, La Nuova Italia, Firenze Seconda ristampa: 1992, La Nuova Italia, Firenze Traduzione dall’inglese di Giovanni Sanna Nuova edizione accresciuta: © 2003 R.C.S. Libri S.p.A., Milano Prima edizione Sansoni: febbraio 2003 Gli addenda alla seconda edizione sono pubblicati per gentile concessione dell’Universität Trier (Trier, D) Redazione: Enrica Fontani e Ugo Marelli, Reggio Emilia Progetto grafico: Daniela Dell’Aquila Copertina: Marco Capaccioli (C.D.&V.), Firenze Immagine di copertina: Palmira – La Grande Via Colonnata (fotografia di Alessia Uslenghi) Stampa: Legatoria del Sud, Ariccia, Roma ISBN 88-383-1918-9 L’Editore potrà concedere a pagamento l’autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore al 15% del presente volume. Le richieste di riproduzione vanno inoltrate all’Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere dell’ingegno (AIDRO), via delle Erbe 2, 20121 Milano, tel. e fax 02 809506.
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Indice
Introduzione Presentazione all’edizione italiana (1933) Prefazione all’edizione italiana (1933) Prefazione all’edizione tedesca (1931) Prefazione all’edizione inglese (1926) Nota redazionale I. II. III. IV. V.
VII XXV XXVII XXIX XXXI XXXVII
L’Italia e la guerra civile Augusto e la politica di rinnovamento e di ricostruzione I successori di Augusto. Giulii e Claudii Il governo dei Flavii e la monarchia illuminata degli Antonini L’Impero romano sotto i Flavii e gli Antonini. Le città. Commercio e industria L’Impero romano sotto i Flavii e gli Antonini. La città e la campagna in Italia e nelle province occidentali di Roma L’Impero romano sotto i Flavii e gli Antonini. La città e la campagna nelle province asiatiche e africane di Roma La politica economica e sociale dei Flavii e degli Antonini La monarchia militare L’anarchia militare L’Impero romano durante il periodo dell’anarchia militare Il dispotismo orientale ed il problema della caduta della civiltà antica
1 47 103 151 181
Elenco degli imperatori da Augusto a Costantino Indice delle tavole Elenco dei documenti citati nel testo, nelle note, e nelle descrizioni delle tavole Indice dei passi degli autori antichi citati nel testo, nelle note e nelle descrizioni delle tavole Indice dei nomi e delle materie Indice degli autori moderni citati nel testo, nelle note, e nelle descrizioni delle tavole
789 793
VI. VII. VIII. IX. X. XI. XII.
297 397 549 603 663 699 745
795 819 829 875
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TAV. I – BUSTO DI UNA STATUA DI C. GIULIO CESARE (Roma, Palazzo dei Conservatori)
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Introduzione*
Michele Rostovtzeff: biografia e storiografia La Storia economica e sociale dell’Impero romano di Michele Rostovtzeff1 apparve per la prima volta in inglese in un unico volume pubblicato dalla Oxford University Press nel 1926. Opera a un tempo di ampia sintesi e di grande erudizione aveva pochi precedenti. Innovativo era soprattutto l’uso assai esteso delle fonti archeologiche, oltre che papirologiche ed epigrafiche, che avevano riscontro in un ricco corredo iconografico2. Il ricorso tanto ampio all’archeologia da parte di Rostovtzeff dipendeva essenzialmente da un’inclinazione personale. Essa era maturata nel contatto diretto con le vestigia del mondo classico, reso possibile da una lunga stagione di viaggi in tutti i principali siti del Mediterraneo oltre che dalla visita ai grandi musei d’Europa. Il Rostovtzeff grande viaggiatore è indissociabile dallo storico del mondo antico3.
*. Desidero esprimere la mia gratitudine per il permesso di pubblicazione ai professori Heinz Heinen e Günter Grimm (Università di Treviri), che hanno acquisito dal lascito del professor Gilliam, per il centro di ricerca «Mare Ponticum» del loro Ateneo, la copia di lavoro personale di M. Rostovtzeff, contenente le sue annotazioni. Sono grato anche al prof. Bongard-Levin (Accademia delle Scienze di Mosca) per avermi reso accessibile il materiale di archivio relativo alle relazioni intercorse tra Rostovtzeff e la Oxford University Press e a tutti coloro che mi hanno assistito in questo delicato lavoro. A Glen Bowersock devo dieci anni di generoso sostegno alle mie ricerche rostovtzeffiane e la generosa ospitalità accordatami all’Institute for Advanced Study di Princeton nell’autunno del 2002. 1. In quest’edizione si è preferito adottare, come trascrizione del nome dello storico russo, quella da lui utilizzata stabilmente per firmare le sue opere in inglese dopo l’esilio. Tale scelta implica il consapevole abbandono della trascrizione Rostovzev, impiegata nelle traduzioni italiane sia della Storia economica e sociale dell’Impero romano che della Storia economica e sociale del mondo ellenistico, impiego che ha contribuito alla sua fortuna in Italia sino a poco tempo fa. 2. Nella prefazione a Iranians and Greeks in South Russia (Oxford, 1922), ROSTOVTZEFF aveva scritto che si stava ormai imparando a scrivere la storia con l’aiuto dell’archeologia. 3. Cf. GL. BOWERSOCK, The Social and Economic History of the Roman Empire by Michael Ivanovitch Rostovtzeff, «Dedalus», 103 (1974), pp. 15-23.
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Nella ricostruzione rostovtzeffiana colpirono subito altri aspetti che suscitarono reazioni discordanti. In primo luogo era evidente che lo storico russo era fortemente influenzato dalla storia contemporanea, soprattutto quella del suo paese di origine, la Russia, e che faceva ricorso con disinvoltura a concetti come «borghesia», «capitalismo», «proletariato» e così via4. Essi presupponevano un’idea fondamentalmente modernizzante dell’economia antica che era ed è tutt’altro che pacifica5. Ma a colpire era soprattutto la sua interpretazione della fine del mondo, attribuita a una fatale coalizione realizzatasi tra i contadini poveri e i soldati nel III secolo contro la civiltà urbana6. Fu facile per i critici vedere in questa tesi la trasposizione della situazione che aveva portato in Russia, nel 1917, alla rivoluzione sovietica7. Non c’è dubbio che Rostovteff fosse emotivamente coinvolto dalla fragilità della borghesia del suo paese che non era stata in grado di resistere alla rivolta delle masse «bramose di livellamento generale». Il celebre interrogativo con cui si chiude la Storia («È possibile estendere una civiltà elevata alle classi inferiori senza degradare il contenuto di essa e diluirne la qualità fino all’evanescenza? Non è ogni civiltà destinata a decadere non appena comincia a penetrar nelle masse?»), tuttavia, riflette preoccupazioni che, dopo la tragedia del primo conflitto mondiale, erano generalmente diffuse nella cultura occidentale: Spengler e Ortega y Gasset, per fare solo i nomi più famosi, si erano posti, in quei medesimi anni, analoghi interrogativi8. Per capire la forza permanente del quadro ricostruttivo proposto nella Storia si deve tener presente una caratteristica di fondo dello studioso
4. La rivisitazione della crisi del III secolo in chiave di storia contemporanea era peraltro comune a molti storici attivi subito dopo la fine della Prima Guerra Mondiale. In proposito ha ben scritto S. MAZZARINO: «Poco a poco, il crepuscolo di Roma finì con l’apparire, a molti degli storici fra il 1920 e il 1930, quasi una pagina di storia contemporanea» (IDEM, La fine del mondo antico, Milano 1959; 19882, p. 178). 5. Tale modernizzazione dell’economia antica ha trovato un severo censore in M. FINLEY seguito da molti suoi allievi. Per una riconsiderazione della questione da parte anglosassone si veda ora J.K. DAVIES, Hellenistic Economies in the Post-Finley Era, in Z.H. ARCHIBALD, J.K. DAVIES, V. GABRIELSEN e G.J. OLIVER (eds.), Hellenistic Economies, London-New York, 2001, pp. 11-62. In questo stesso volume si veda Z.H. ARCHIBALD, Away from Rostovtzeff. A new SEHHW, pp. 379-388. 6. La tesi è in qualche modo anticipata alla fine del capitolo IV ove si parla di una crescente ruralizzazione nel reclutamento delle legioni soprattutto a partire dal regno di Marco Aurelio. 7. Particolarmente severa fu la recensione di H. LAST apparsa sul «J. R. S.», 16 (1926), pp. 120-128. Last, che più tardi sarebbe diventato titolare della Camden Chair di Storia Antica a Oxford, riconosceva, peraltro, che l’opera aveva un carattere tale da farne un «classico». La critica meglio documentata all’opera di Rostovtzeff resta quella di MEYER REINHOLD, Historian of the Classic World: a critique of Rostovtzeff, «Science and Society», 10 (1946), pp. 361-391, ora in IDEM, Studies in Classical History and Society, Oxford, 2002, pp. 82-100 (testo), 132-137 (note). 8. Nello Untergang des Abendlandes di SPENGLER è espressamente citato dallo stesso Rostovtzeff nella Storia (p. 783, n. 17).
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Rostovtzeff, quella di ispirarsi ad idee-guida forti attorno alle quali organizzare il discorso. Essa è già ben riconoscibile nella sua prima monografia sull’appalto di Stato nell’Impero romano, apparsa nel 1901 in tedesco9. Già nell’introduzione si enunciava l’audace obiettivo di ricercare le relazioni intercorrenti tra l’Oriente ellenistico e l’Occidente romano, sia quando esistevano monarchie ellenistiche indipendenti, sia quando si affermò l’Impero mondiale di Roma. La tesi è che gli imperatori romani non crearono nulla ex novo ma, se mai, attinsero a piene mani a quanto avevano trovato nell’organizzazione statale ellenistica adattandolo alle nuove necessità. Per gli istituti imperiali Rostovtzeff invita dunque a guardare all’Egitto: così è per la tassa di successione, la vigesima hereditatum, così è per l’organizzazione del suo modo di riscossione e per la concessione delle proprietà del princeps a grandi appaltatori, i conductores10. Qui vediamo già un Rostovtzeff attento a questioni specifiche di storia agraria, che dà spazio alle innovazioni conosciute dal sistema di conduzione con le peculiari trasformazioni che avevano interessato il grande e il piccolo affitto. Il saggio più significativo, che indica il senso profondo della prospettiva rostovtzeffiana in merito a quest’ordine di problemi, è del 1901. Sul primo numero della rivista tedesca «Klio», egli pubblica una breve nota, perentoria nel contenuto oltre che nel titolo: L’origine del colonato11. La sua tesi è che il colonato, inteso come legame del piccolo fittavolo alla terra, si era sviluppato in forma consuetudinaria sulle grandi proprietà africane ricevendo solo in un secondo tempo un riconoscimento legale. Il nocciolo del colonato, tuttavia, va visto nell’amministrazione delle proprietà fondiarie in Oriente, da cui sarebbe stato trapiantato in Occidente, con poche modifiche, dagli imperatori romani. Per il vincolo economico e amministrativo dei contadini alla terra l’Oriente offriva dunque dei termini di riferimento assai precisi. La soluzione del problema del colonato tardoantico è dunque posta da Rostovtzeff nell’ottica che gli è peculiare e, cioè, nei termini di un’evoluzione all’interno di strutture fondamentalmente immutate. Così, a suo parere, quando gli imperatori romani fecero ricorso al vincolo dei contadini alla terra, tornò in vita il colonato che, in realtà, non era mai morto12.
9. Geschichte der Staatspacht in der römischen Kaiserzeit bis Diokletian, «Philologus» Ergänzungsband 9, Leipzig, 1902, pp. 351-512 (tr. it., L’Erma di Bretschneider, Roma, 1971). Si tratta della versione tedesca della sua tesi di dottorato apparsa in russo nel 1899 e inserita nelle «Memorie della Facoltà di Storia e di Filologia dell’Università di San Pietroburgo», n. 51, 1899. 10. Cf. H. HEINEN, Das hellenistische Ägypten im Werk M.I. Rostovtzeffs, in Offenheit und Interesse. Studien zum 65. Geburtstag Gerhard Wirth, Amsterdam, 1993, pp. 237-263; P.G. MICHELOTTO, La riflessione storico-economica di M.I. Rostovtzeff: il “caso” dell’Egitto ellenistico-romano, «Memorie dell’Istituto Lombardo» Classe di Lettere, Scienze Morali e Storiche, vol. XLI, fasc. 1 (1999). 11. «Klio», 1 (1901), pp. 295-299. La versione in lingua russa era apparsa sulla «Riv. di filol.», 19 (1900), pp. 105-109. 12. Cf. A. MARCONE, Il colonato tardoantico nella storiografia moderna (da Fustel de Coulanges ai nostri giorni), Como, 1988 («Bibl. di Athenaeum», 7), pp. 60-61.
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Uno dei grandi temi su cui Rostovtzeff riflette sin dai suoi primi scritti riguarda il ruolo dello Stato nell’economia13. Per uno studio di questo genere per il mondo antico nessun paese si prestava meglio dell’Egitto, in ragione e della sua situazione naturale e di una base documentaria particolarmente ricca grazie ai papiri. La visione di Rostovtzeff dell’Egitto fu soggetta ad oscillazioni anche notevoli. La sua tesi che l’Egitto fosse un paese ad economia centralizzata e pianificata è svolta in un saggio specifico, tratto da una conferenza letta a Oxford, The Foundations of Social and Economic Life in Egypt in Hellenistic Times. Rostovtzeff sostiene che, poiché il paese era condizionato dalla necessità obbiettiva di organizzare l’agricoltura in rapporto alle inondazioni periodiche del Nilo, la risposta inevitabile non poteva che essere la centralizzazione e la nazionalizzazione di tutta la produzione agricola e industriale14. Per sostenere questa tesi Rostovtzeff si rifaceva a un ampio documento amministrativo conservato da un papiro15. Esso conteneva le istruzioni del ministro delle finanze di Evergete I al capo dell’amministrazione finanziaria di uno dei nomoi, che doveva occuparsi delle coltivazioni, dell’allevamento, della sorveglianza e persino del morale dei contadini. Il sostegno più importante per la sua tesi veniva a Rostovtzeff dalla cosiddetta diagrafh; tou` spovrou, il piano di semina annuale documentato con particolare evidenza proprio dal papiro di Tebtynis16. In quegli stessi anni un circostanza fortunata aveva portato alla scoperta di uno straordinario corpus documentario, il cosiddetto «archivio di Zenone».
13. Cf. M. MAZZA, “Was ist (die antike) Wirtschaftsgeschichte?” Teoria economica e storia antica prima di Bücher, Meyer e Rostovtzeff, «Med. Ant.», 3, 2 (2000), pp. 499-547. 14. Il saggio fu pubblicato sul «Journ. of Eg. Arch.», 6 (1920), pp. 161-178; ora anche in M. ROSTOVTZEFF, Scripta varia. Ellenismo e Impero romano, a cura di A. Marcone, Bari, 1995, pp. 77-99; e in trad. it. in M.I. ROSTOVTZEFF, Per la storia economica e sociale del mondo ellenistico-romano. Saggi scelti, a cura di T. Gnoli e J. Thornton, intr. di M. Mazza, Catania, 1995, pp. 29-61. Scrive Rostovtzeff: «Tutto era per lo Stato e per mezzo dello Stato, nulla per l’individuo, eccetto la mera possibilità di una grigia esistenza che salvava il lavoratore dall’inedia. Da nessuna parte, in tutta l’evoluzione dell’umanità, si possono trovare limitazioni così estese e sistematiche come quelle applicate alla proprietà privata nell’Egitto tolemaico» (trad. di T. Gnoli). 15. Lo pubblicherà poi nel 1933 nel III volume dei papiri di Tebtynis (P. Tebt. 703) come «Istruzioni di un dieceta a un subordinato» (ora anche in M. ROSTOVTZEFF, Scripta varia, cit., pp. 265-304). 16. Si tratta, in realtà, di un istituto che sembra aver avuto una durata limitata a un periodo attorno alla metà del III sec. a.C., ma che si chiama in causa come espressione del tentativo del governo centrale di fissare di autorità il tipo delle varie culture sulle terre coltivate. Contrariamente a quanto si era pensato oggi in verità si ritiene che non consista già in un piano di produzione prestabilito ad Alessandria, ma semplicemente in uno strumento di previsione a scopo fiscale, elaborato solo dopo che erano giunte le informazioni necessarie dai villaggi e dai vari nomoi. L’aspetto «centralistico» di questo piano, redatto a posteriori e non imposto a priori, risulta quindi fortemente ridimensionato. Cf. P. VIDAL-NAQUET, Le Bordereau d’ensemencement dans l’Egypte ptolémaique, Bruxelles, 1967.
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La corrispondenza intercorsa fra il grande ministro di Tolemeo Filadelfo, Apollonio, e l’intendente della tenuta avuta in dono dal sovrano nel Fajiûm, Zenone, offriva agli studiosi uno spaccato di eccezionale interesse per cogliere le dinamiche economiche di un periodo cruciale di storia tolemaica. In particolare, soprattutto se considerato nel suo isolamento, tale archivio poteva rappresentare un ulteriore supporto alla tesi dello sviluppo in senso dirigistico dato dal Filadelfo all’economia tolemaica17. Anche in questo caso Rostovtzeff fu il primo a reagire alle novità che emergevano dai testi che erano venuti alla luce con una sintesi di prim’ordine. Il risultato è il volume A Large Estate in Egypt in the Third Century B.C. (Madison, 1922). Una monografia di insieme come questa, che tratta in modo sistematico in primo luogo della dwreav di Apollonio e, quindi, della colonizzazione del Fajiûm e della politica economica generale del Filadelfo poteva apparire prematura. Rostovtzeff Si mostra di nuovo all’altezza della sfida. Anche se molte delle sue supposizioni sono state riviste talvolta in misura radicale, il quadro generale rimane con tutta la forza e la lucidità con il quale è stato delineato. Il libro, per impianto e argomentazioni, appartiene alla migliore storiografia rostovtzeffiana. Apparsa la Storia economica e sociale dell’Impero romano nel 1926, nessuno studioso appariva più qualificato di Rostovtzeff a scrivere un libro di sintesi sul mondo ellenistico analogo a quello sul mondo romano. In un certo senso tutta la sua produzione precedente, in cui l’Ellenismo appariva il serbatoio e la premessa dei fondamentali istituti di età romana, appariva come una preparazione a quest’opera. Già in una severa recensione al libro di Bouché-Leclercq sui Seleucidi Rostovtzeff giudicava decisive, per una adeguata storiografia dell’Ellenismo, tematiche come la forma della proprietà agraria, il rapporto tra cittadino e Stato, tra città e campagna18. Si aggiungeva ora la coinvolgente esperienza di archeologo militante fatta nell’area vicino-orientale grazie agli scavi condotti a Dura-Europos, la piazzaforte ellenistico-romana sull’Eufrate. I risultati di tali scavi costituivano una formidabile occasione per rinnovare le prospettive della ricerca. Essi furono diretti, a partire dal 1928, per dieci stagioni successive (sino al 1936-37) da Rostovtzeff insieme a Franz Cumont, sulla base di una missione congiunta dell’Università di Yale, dove lo storico russo insegnava dal 1925, e dell’Académie des Inscriptions et Belles Lettres di Parigi19.
17. Su Zenone e il suo archivio si vedano, tra gli altri, CL. PRÉAUX, Les Grecs en Egypte d’après les archives de Zénon, Bruxelles 1947; CL. ORRIEUX, Les papyrus de Zénon. L’horizon d’un grec en Egypte au III siècle avant J.C., Paris 1983. 18. La recensione a A. BOUCHÉ-LECLERQ, Histoire des Séléucides, Paris 1913 fu pubblicata da Rostovtzeff in russo sulla «Rivista scientifico storica», 1 (1913), pp. 39-63. Si può leggere ora nella traduzione italiana, a cura di A. Marcone, in «Quaderni di Storia» 40 (1994), pp. 9-31 e in M. ROSTOVTZEFF, Scripta varia, cit., pp. 435- 452. 19. Sulla storia di questa spedizione cfr. CL. HOPKINS, The Discovery of Dura-Europos, New Haven, 1979, sul carattere peculiare della direzione degli scavi di Rostovtzeff, fatta in gran parte da lontano, si veda F. MILLAR, Dura Europos under Parthian Rule, in J.
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Rostovtzeff anche questa volta reagì da par suo. Si deve riconoscere al suo intuito e alla sua intelligenza storica il merito di aver reso popolare, soprattutto grazie all’esempio di Palmira, l’associazione di fioritura economica all’idea di città centro di direzionale di traffici commerciali a lungo raggio in aree desertiche in un libro di grande efficacia ricostruttiva: Città carovaniere20. Non a caso, a partire dagli anni Trenta, Rostovtzeff accentua la sua tendenza a vedere, proprio nel commercio, l’ambito privilegiato in cui si potevano verificare gli aspetti di modernità dell’economia antica21. Le scoperte fatte a Dura e a Palmira negli anni Venti e nei primi anni Trenta ebbero sul mondo scientifico un impatto paragonabile a quello del rinvenimento delle grandi iscrizioni africane e dei papiri egiziani all’inizio del secolo. Sembrarono, cioè, fornire la chiave per giungere alla soluzione di questioni controverse. Cumont, che aveva iniziato gli scavi a Dura nel 1922 sotto la tutela dell’esercito francese, aveva cercato di ritrovarvi gli elementi greco-orientali che fecondarono la cultura e la religiosità greco-romana di età tarda22. Nel caso specifico esse sembrarono colmare la lacuna che riguardava le conoscenze della civiltà artistica dell’Iran e della Mesopotamia in età partica: la scarsità della documentazione induceva addirittura a dubitare che si potesse parlare di un’arte partica in senso proprio. Rostovtzeff, in particolare, individuò nella «frontalità» il segno distintivo di tale arte23. E la sua tipica inclinazione a valorizzare la dina-
WIESEHÖFER (Hg.), Das Partherreich und seine Zeugnisse. The Arsacid Empire: Sources and Documentation, Stuttgart, 1995 («Historia Einzelschriften»), pp. 473-492. Rostovtzeff curò, in parte come coeditore, dieci volumi del Preliminary Report sulle prime nove campagne di scavo e sei volumi del Final Report (il primo Preliminary Report risale al 1929) ma fu presente di persona sul sito di Dura solo nella primavera del 1928 e in quella del 1934. Cf. anche S.B. MATHESON, The Tenth Season at Dura-Europos 1936-1937, «Syria», 69 (1992), pp. 121-140. 20. Caravan Cities. Petra, Jerash, Palmira, Dura, Oxford, 1932; trad. it. di Ch. Cortese de’ Bosis, Città carovaniere, Bari, 1933; nuova ediz. a cura di G. Pugliese Carratelli, Bari, 1971. Per capire il modo in cui Rostovtzeff concepiva una città carovaniera e le implicazioni che ne derivavano alla sua valutazione della vita economica della Siria romana basterà rifarsi a queste riflessioni presenti nell’opera (cito dall’ediz. del 1971): «Il tempio e la strada carovaniera, religione e lucro: sono questi i principali interessi di una città carovaniera» (p. 130); (Palmira) «città magica creata dalle carovane e intesa per il commercio carovaniero» (p. 136). 21. Cf. J. ANDREAU, Introduction, in M.I. ROSTOVTZEFF, Histoire économique et sociale de l’Empire romain, trad. française, Paris, 1988, p. LVI. 22. F. CUMONT, Fouilles de Dura-Europos, Paris, 1926 (un libro di oltre 500 pagine). La prima edizione di Les Religions orientales dans le paganisme romain di F. Cumont, il libro tratto dalle sue conferenze al Collège de France del 1905, risale al 1907 (nel 1929 era già giunto alla quarta edizione). 23. M. ROSTOVTZEFF, Dura and the Problem of Parthian Art, «Yale Class. Studies», 5 (1935), pp. 157-307. La frontalità è oggi per lo più considerata come un’espressione artistica propria della Mesopotamia e, quindi, di aree periferiche dell’Impero partico. In essa si vede una manifestazione tipica di un’arte ibrida, risultato dell’incontro di civiltà diverse e, comunque, di una convenzione raffigurativa e non un dato iconografico: cfr. E.
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mica dei fattori culturali, il loro aspetto genetico, lo induce a cercare nelle manifestazioni artistiche di Dura le premesse di quelle bizantine24. Rostovtzeff risponde anche alle sollecitazioni propostegli dalle vicende contemporanee. Nel dicembre del 1935, nella veste di presidente dell’«American Historical Association», legge un intervento dedicato allo sviluppo economico nel mondo ellenistico25. Rostovtzeff ritorna sui temi da lui già trattati in precedenza del dirigismo e della pianificazione economica dei Tolemei. Ribadisce la propria ammirazione per un’età nella quale si realizzò l’unità economica del mondo civilizzato e in cui si sviluppò una borghesia greco-orientale mentre il commercio diveniva vieppiù libero e ecumenico. In questa circostanza, nel sottolineare come un’altra novità dell’età ellenistica sia il suo carattere capitalistico, Rostovtzeff si preoccupa di precisare che cosa lui intenda quando parla di «capitalismo» per il mondo antico. La sua è chiaramente una concezione assai modernizzante: a suo modo di vedere il capitalismo antico si fondava sulla libertà dell’attività economica individuale diretta verso la libera accumulazione del capitale. Essa inoltre presupponeva un’agricoltura e un’industria organizzate razionalmente e finalizzate non al soddisfacimento dei bisogni dei produttori e di un mercato locale ristretto, ma a quelli di un mercato indefinito tendendo a una produzione di massa di beni specializzati26. Rostovtzeff ha chiaramente ben presente la novità rappresentata, per l’economia americana dal New Deal roosveltiano. Ad esso non a caso accosta la pianificazione economica introdotta dai Tolemei – di per sé non considerata in contraddizione con lo sviluppo capitalistico – degenerata in aperto sfruttamento della popolazione da parte di una torma di avidi funzionari e di appaltatori delle imposte. Rostovtzeff, incalzato dalle aspettative generali e, in particolare, della Casa Editrice, oltre che della moglie e dell’amico Franz Cumont, pubblicò nel
WILL, Art parthe et art grec, ora in IDEM, De l’Euphrate au Rhin. Aspects de l’Hellénisation et de la Romanisation du Proche Orient, Beyrouth, 1995, pp. 783-793; M. GAWLIKOWSKI, Some Directions and Perspectives of Research, «Mesopotamia», 22 (1987), pp. 11-17 (Proceedings of the Symposium Common Ground and Regional Features of the Parthian and Sasanian World, Torino 1985). 24. Dura Europos and its Art, Oxford, 1938. Rostovtzeff era stato preceduto in questa direzione già da J.H. BREASTED, Oriental Forerunners of Byzantine Paintings. First-Century Wall Paintings from the Fortress of Dura on the Middle Euphrates, Chicago, 1924. Sui condizionamenti che erano alla base di queste tendenze si veda A.J. WHARTON, Refiguring the Post Classical City. Dura Europos, Jerash, Jerusalem and Ravenna, Cambridge, 1995, pp. 1563, 171-178 (note). Si veda inoltre R. BIANCHI BANDINELLI, Forma artistica tardo-antica e apporti parthici e sassanidi nella cultura e nella pittura, ora in IDEM, Dall’Ellenismo al Medioevo, Roma, 19802, pp. 79-95. 25. The Hellenistic World and its Economic Development, «American Historical Review», 41 (1936), pp. 233-252; rist. in M. ROSTOVTZEFF, Scripta varia, cit., pp. 351369, trad. it. in ROSTOVTZEFF, Per la storia, cit., pp. 63-87. 26. Si veda: Scripta varia, p. 367 e Per la storia, p. 85. Rostovtzeff attribuisce all’età ellenistica la creazione della mentalità dell’homo oeconomicus che poi questa avrebbe trasmesso alla civiltà occidentale.
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1941 la Storia economica e sociale del mondo ellenistico27. Questa volta però si tratta di un’opera sofferta, la cui conclusione era stata più volte rimandata. Forse anche perché veniva dall’esperienza, nel complesso non felice, fatta con la Storia del mondo antico, Rostovtzeff dichiarava di provare disagio a scrivere un libro di così ampia sintesi. A creargli inquietudine era anche il proliferare di una bibliografia che non credeva di poter più controllare. Merita di citare per esteso un passo tratto da una delle molte lettere indirizzate a F. Cumont sull’argomento risalente al 24 ottobre del 1937. «Noi siamo di ritorno a New Haven e in piena attività, cosa che mi lascia troppo poco tempo per lavorare al mio libro sull’Ellenismo. È così difficile redigerlo in forma definitiva! Avevo appena completato la redazione dei capitoli che mi sembrava finale ed ecco che devo rimaneggiarli. Un libro di Heuss, Stadt und König, un altro di Bikermann, Institutions des Séléucides, un mirabile grande volume di Robert sull’Asia Minore che ho appena letto e uno di Tarn sull’India ellenistica: tutto questo deve essere letto, digerito e assimilato. E ancora la gentile Mlle. Préaux stampa il suo libro sull’Egitto ellenistico. Che valanga! E contemporaneamente le mie lezioni, delle visite da fare, la visita di Levi della Vida e poi le cene e le conferenze. La vita non è un letto di rose. Un libro di sintesi è sempre una tortura, soprattutto quando si occupa di un periodo così poco conosciuto e così poco comprensibile. Scrivere un libro sulla storia politica è semplice. Ma sociale e economica! Mi piacerebbe sapere che cosa vuol dire “sociale”. Tutto o niente. Storia economica è un concetto un po’ più preciso ma sfortunatamente mancano i dati per scriverne una. Come invidio le persone più sagge di me che si limitano a un solo argomento e si accontentano di scrivere articoli ben documentati cui dedicano tutto il tempo necessario! Se io dovessi fare la stessa cosa per il mio libro dovrei lavorarci, dopo aver concluso la sua redazione, per una decina d’anni e questo non basterebbe»28. Queste preoccupazioni si riflettono sull’opera che alla fine, per quanto molto simile per impianto a quella sul mondo romano, proprio perché più equilibrata e attenta nel controllo della documentazione, risulta meno partecipata e, alla fine, meno godibile. A buon diritto Arnaldo Momigliano ha scritto che il quadro che si ricava dalla Storia economica e sociale del mondo ellenistico, se è più esatto e più minutamente lavorato, tuttavia è meno vivace e drammatico29.
27. La dedica alla moglie Sophie, che aveva redatto l’indice, e a F. Cumont («senza l’incoraggiamento e il caloroso sostegno dei quali nel corso di penose ore di dubbio il libro non avrebbe mai visto la luce») non è stata riprodotta nella trad. italiana del 1966. 28. A queste preoccupazioni di Rostovtzeff il 9 novembre dello stesso anno Cumont rispose in questi termini: «Tentare una sintesi è sempre un’impresa ardua quando non ci si accontenta di approssimazioni. Ma a che cosa servono tutte le nostre ricerche minute se non devono condurre a una sintesi?»: cfr. G. BONGARD-LEVIN, Y. LITVINENKO, C. BONNET, A. MARCONE, Aperçu préliminaire de la correspondance entre Franz Cumont et Mikhail Rostovtzeff, «Bull. de l’Inst. hist. belge de Rome», 70 (2000), pp. 390 e 392. 29. In memoria di Michele Rostovtzeff (1870-1952), «Rivista Storica Italiana», 65 (1953), pp. 489; rist. col titolo, Michael Rostovzev, in M. ROSTOVZEV, Storia economica e sociale del mondo ellenistico, Firenze, 1966, p. XVII).
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A proposito di un libro, tutto sommato di sobria erudizione, merita di rilevare come Rostovtzeff, nel complesso poco interessato all’opera di conquista di Alessandro Magno in quanto tale, celebri la vitalità delle istituzioni del mondo ellenistico anche a dispetto della fine della libertà greca a seguito della sconfitta di Cheronea del 338 a.C.30 In un itinerario storiografico tanto complesso ribadire con fermezza la vitalità dei caratteri essenziali delle istituzioni greche è di fatto una dichiarazione di fedeltà alle idee che avevano ispirato già gli studi giovanili. Non si può capire Rostovtzeff se non si capisce il suo modo di concepire l’Ellenismo.
L’edizione italiana della Storia economica e sociale dell’Impero romano Rostovtzeff, nato nel 1870 nei pressi di Kiev, aveva lasciato da esule il suo paese nel 1918 quando era uno studioso già affermato grazie a una serie di pubblicazioni importanti, oltre che in russo, in tedesco, italiano, francese e, da ultimo, in inglese31. La sua notorietà nel campo antichistico gli derivava essenzialmente dalle sue pubblicazioni in tedesco, la lingua del paese dove sino al momento dello scoppio del primo conflitto mondiale aveva le sue più importanti relazioni scientifiche. Tra i maggiori estimatori di Rostovtzeff c’erano personalità eminenti come il filologo U. von Wilamowitz-Möllendorf e il papirologo U. Wilcken alla cui sollecitazione si devono gli Studi per la storia del colonato romano, pubblicati nel 1910 a Berlino32. La fama di Rostovtzeff in Germania aveva conosciuto la sua consacrazione nel 1914 con la nomina a membro corrispondente dell’Accademia di Berlino33. E proprio in questo periodo Wilamowitz e il più eminente storico antico dell’epoca, Ed. Meyer, gli rivolsero l’invito a scrivere una storia economica e sociale del mondo ellenistico e una del mondo romano. Tale invito può essere considerato la premessa alla vicenda che stiamo per trattare. Nell’estate di quel medesimo anno scoppiò il conflitto mondiale. Questo conflitto ebbe conseguenze irreparabili. Rostovtzeff, che attribuiva alla Germania la responsabilità di averlo scatenato, rese impossibile per lui mantenere i rappor-
30. U. FANTASIA, Ellenismo e mondo ellenistico in Rostovtzeff, in A. MARCONE (a cura di), Rostovtzeff e l’Italia, Napoli, 1999, pp. 257-306, spec. p. 293. 31. Si veda la fondamentale raccolta di materiali curata da G. BONGARD-LEVIN, Skifskii Roman (Romanzo scita), Mosca 1997. Una secondo volume, sempre a cura di Bongard-Levin, è in corso di stampa. 32. Cf. A. MARCONE, Gli «Studi per la storia del colonato romano» di Michele Rostovtzeff, «Ostraka», II, 1 (1993), pp. 177-86; IDEM, Introduzione, in M. ROSTOVTZEFF, Per la storia del colonato romano, Brescia, 1994, pp. 7-23. 33. Cf. CHR. KIRSTEN (Hg.), Die Altertumswissenschaften an der Berliner Akademie, Dokument Nr. 58, Berlin, 1985, pp. 158-159.
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ti personali e scientifici con i rappresentanti di quel paese da lui sino ad allora considerato il referente fondamentale per la sua attività di storico34. Costretto dalla Rivoluzione di ottobre a recarsi in esilio Rostovtzeff escluse di recarsi in Germania, un paese contro il quale, durante la guerra, aveva scagliato implacabili filippiche. Optò quindi per Oxford. Il severo ambiente oxoniense non si rivelò pero congeniale alla irruente personalità dello storico russo. Rostovtzeff si affrettò a cogliere l’opportunità offertagli da un incontro da lui avuto nel giugno del 1919 a Parigi. Fu qui infatti che egli incontrò uno storico americano, William L. Westermann, per l’occasione consulente della delegazione americana alla Conferenza di Pace. Rostovtzeff era a sua volta a Parigi nelle veste di presidente del Comitato di Liberazione della Russia fondato a Londra pochi mesi prima. Westermann, che stava per lasciare l’Università di Madison (Wisconsin) per la Cornell University di New York, offrì al collega russo conosciuto in quella circostanza di divenire il suo successore a Madison. E Rostovtzeff partì effettivamente, nell’agosto del 1920, per Madison35. Le difficoltà ambientali non impedirono peraltro a Rostovtzeff di guadagnarsi anche a Oxford amicizia e apprezzamento. J. Anderson, il titolare della Camden Chair di Storia Antica, sollecitò la University Press a pubblicare in forma di libro la rielaborazione delle conferenze sulla storia economica e sociale del mondo romano tenute a Oxford da Rostovtzeff. Dal materiale di archivio risulta che i primi contatti ebbero luogo già alla fine del 191936. Il 19 dicembre, a seguito di un incontro con Rostovtzeff nella sede della Press, furono definite le condizioni di massima alle quali il lavoro doveva essere realizzato. Tali condizioni contrattuali furono ribadite con un memorandum del 5 marzo 1923. Nel gennaio del 1924 Rostovtzeff inviò alla Press i primi quattro capitoli della Storia economica. E già nel giugno del 1925 K. Sisam, un
34. Rostovtzeff si risentì in particolare per il pamphlet antiinglese scritto da Meyer nel 1915, England. Seine staatliche und politische Entwicklung und der Krieg gegen Deutschland, Stuttgart-Berlin, 1915. 35. Cf. G. BONGARD-LEVIN, M.I. Rostovtzeff in England: a Personal Experience of West and East, in G.R. TSETSKHLADZE (ed.), Ancient Greeks: West and East, Leiden, 1999, pp. 1-45; sugli anni trascorsi da Rostovtzeff a Madison si veda GL. BOWERSOCK, Rostovtzeff in Madison, «The American Scholar», 1985-86, pp. 391-400. 36. Così scriveva Anderson al segretario della Press il 9 dicembre del 1919: «Per completezza e originalità Rostovtzeff è indiscutibilmente la più grande autorità vivente del campo e queste conferenze rappresentano il coronamento di un lungo lavoro di ricerca». In realtà, come ben mostra Bongard-Levin, il progetto del libro era stato sottoposto alla Oxford University Press già in agosto, dunque prima ancora che le conferenze avessero avuto luogo. Il progetto originario riguardava un’opera in due volumi: Studies in the Economic History of the Hellenistic and Roman Worlds, vol. I: The Hellenistic Age, with special reference to Egypt; vol. II: The Roman Age (cfr. G. BONGARD-LEVIN, M.I. Rostovtzeff in England, cit., p. 20). Il testo integrale della lettera di J. Anderson (cui poi il libro sarà dedicato) a J. de Monis Johnson (Assistant Secretary e poi Printer della Press) è riprodotto alle pp. 26-27.
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personaggio di primo piano nella storia della University Press e, in generale nella vita culturale di Oxford tra i due conflitti mondiali, registrava il progetto di Rostovtzeff di una Storia economica e sociale del mondo ellenistico in due volumi destinata a rappresentare un eccellente Companion a quello romano37. E già nella nota 2 nella seconda pagina della Storia economica e sociale dell’Impero romano compare un riferimento agli argomenti che saranno trattati in quella sul mondo ellenistico. La Storia fu accolta da un generale favore ma non mancarono sin dall’inizio le voci critiche, soprattutto a Oxford. Ben presto, comunque, fu chiaro che si aveva a che fare con un’opera destinata a segnare un’epoca, un classico che avrebbe influenzato in modo permanente la storia degli studi. Un contributo non secondario venne dalla pronta traduzione dell’opera in Germania e, quindi, in Italia. In Italia Rostovtzeff era arrivato per la prima volta poco più che ventenne, nel 1892, per visitare Pompei su cui aveva scritto la sua tesi di laurea. L’Italia, oltre che rappresentare il luogo privilegiato di incontro con la civiltà antica, favorì il suo ingresso nella comunità scientifica internazionale. I contatti professionali di Rostovtzeff con i colleghi tedeschi iniziarono nel 1895 all’Istituto Archeologico Germanico, all’epoca ubicato a Rocca Tarpea al Campidoglio. Una borsa triennale, concessagli dal Ministero della Pubblica Istruzione russo, gli diede infatti la possibilità di fare lunghi soggiorni di studio nei principali centri di ricerca dell’Europa occidentale38. Nello stesso anno, nel corso di un viaggio in Grecia, Rostovtzeff, dotato di una notevole capacità di dar vita alle relazioni che contano, ebbe modo di conoscere il coetaneo Gaetano De Sanctis con cui strinse un solido legame di amicizia39. La perdurante fortuna di Rostovtzeff nell’Antichistica italiana è legata essenzialmente alla traduzione italiana della Storia economica40. De Sanctis è l’autore della recensione più significativa apparsa alla pubblicazione del libro41.
37. K. Sisam, di origine neozelandese fu segretario effettivo della Oxford University Press solo per 6 anni, tra il 1942 e il 1948, ma la sua influenza andò sempre ben al di là della carica da lui ricoperta. La sua carriera alla Oxford University Press si spiega con il mancato conseguimento della cattedra di Letteratura Inglese Medievale: cfr. P. SUTCLIFFE, The Oxford University Press. An Informal History, Oxford, 1978, pp. 197198 e passim. Sisam peraltro specificava che le condizioni a cui Rostovtzeff avrebbe dovuto sottostare sarebbero state più vicine a quelle riservate agli altri autori, intentendo con questo che il trattamento a lui riservato per l’opera sul mondo romano era stato troppo generoso. 38. A. MARCONE, Pietroburgo-Roma-Berlino: l’incontro di M.I. Rostovtzeff con la Altertumswissenschaft tedesca, «Historia», 41 (1992), pp. 1-13. 39. Cf. L. POLVERINI, Rostovzev e De Sanctis, in A. MARCONE (a cura di), Rostovtzeff e l’Italia, cit., pp. 97-113. 40. Cf. A. MARCONE, La storia di una riedizione difficile: la «Social and Economic History of the Roman Empire» di M. Rostovtzeff, «Historia», 48 (1999), pp. 254-256. 41. La recensione fu pubblicata in «Rivista di Filologia e d’Istruzione Classica», 54 (1926), pp. 537-554; rist. in G. DE SANCTIS, Scritti minori, vol. VI/1, Roma 1972, pp. 295-313.
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Sempre De Sanctis collaborò con una presentazione molto efficace nella sua brevità alla traduzione italiana finita di stampare nel 1933. Nel 1933 apparve una recensione alla traduzione italiana da parte di Giorgio Pasquali, pubblicata su «Il Corriere della Sera» del 22 novembre42. Pasquali, che si rivolgeva in generale al pubblico colto, si sofferma sull’accresciuto corredo di illustrazioni fotografiche fornite per questa pubblicazione «dai direttori dei nostri scavi di Ercolano, di Ostia, di Leptis Magna» di cui magnifica l’apparato iconografico. La traduzione italiana, a cura di Giovanni Sanna, va considerata, a rigore, come la terza edizione dell’opera (dopo l’inglese del 1926 e la tedesca, opera di L. Wickert, del 1931, chiusa in verità già nel 1929) l’ultima «riveduta ed aumentata dall’autore»43. Tra le aggiunte presenti nell’edizione italiana va ricordato l’inserimento di un nuovo paragrafo sulla Tripolitania nonché la revisione di un altro sulla Cirenaica da porre in relazione al viaggio intrapreso da Rostovtzeff nel 1930 in quella regione. Rostovtzeff in una lettera inviata all’amico Westermann da Lido di Camaiore il 14 agosto 1932 mentre era impegnato nella revisione della traduzione italiana si esprime in questi termini: «alla prova dei fatti la traduzione italiana sarà una nuova edizione del mio libro: ho aggiunto alcune tavole nuove e alcuni paragrafi nuovi e rivedo con attenzione sia il testo sia le note»44. La traduzione apparve dunque a Firenze nel 1933 inserita nella prestigiosa collana della Nuova Italia, «Il pensiero storico», sotto gli auspici dell’Ente Nazionale di Cultura, in quegli anni presieduto dal gentiliano Ernesto Codignola45. L’autore manifestò la sua soddisfazione per questa edizione italiana, in una lettera del 10 marzo 1933, a Codignola. A proposito di Sanna Rostovtzeff
42. La recensione di Pasquali è stata ristampata in «Critica Storica» 24 (1987), a cura di A. Saitta, pp. 379-384. 43. Lo stesso Rostovtzeff sottolinea gli elementi di novità alle pp. IX-X della premessa all’edizione italiana. Nel 1937 apparve una traduzione spagnola basata sull’edizione inglese. In Francia la traduzione della Storia, fallito negli anni Trenta un primo progetto patrocinato da J. Carcopino, è recente e risale al 1988 (è apparsa a Parigi nella serie dei «Bouquins Laffont»). Tale traduzione, che si deve a O. DEMANGE, è preceduta da un’importante introduzione di Jean ANDREAU, cui si deve anche la più completa bibliografia degli scritti di Rostovtzeff oggi disponibile. Sulla figura di Sanna, che fu un oppositore attivo del fascismo cfr. G. BANDELLI, Un momento della fortuna di Rostovzev in Italia. Il dibattito su “Economia antica e moderna”, in A. MARCONE (a cura di), Rostovtzeff e l’Italia, cit., pp. 131-160. 44. Cf. M.A. WES, The Correspondence between Rostovtzeff and Westermann. A Note on Gaetano De Sanctis, «Historia», 42 (1993), pp. 125-128. 45. M. CAGNETTA, Rostovtzeff in Italia: mediazioni culturali e vicende editoriali, in A. MARCONE (a cura di), Rostovtzeff e l’Italia, cit., pp. 161-186; rist. in «Storia della Storiografia», 29 (1996), pp. 3-20; cfr. S. GIUSTI, La Nuova Italia. Una casa editrice negli anni del fascismo (1926-1943), Firenze, 1983, spec. pp. 186-190. La traduzione italiana fu ristampata poi nel 1946 in circostanze che provocarono il risentimento di Sanna che arrivò a far causa alla casa editrice.
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si esprime in questi termini: «Sanna ha fatto un lavoro ammirabile. Il suo indice è una meraviglia. Lui è certamente un genio per bibliografia o indici»46. Nell’ambiente della Nuova Italia nasce anche la recensione di alto profilo che all’opera dedica Arnaldo Momigliano cui era stata commissionata personalmente da Codignola. Scrive tra l’altro Momigliano: «La Storia economica di Rostovtzeff non solo è, ma ha piena consapevolezza di essere, una reinterpretazione dei valori della civiltà romana imperiale»47. A partire dal 1933 noi abbiamo a che fare a rigore con due libri destinati ad avere un destino diverso48. Il problema della riedizione dell’edizione inglese del 1926 si pose quasi subito. Tuttavia negli anni successivi questo passò in secondo piano per varie ragioni. Rostovtzeff nel 1925 aveva accettato la chiamata a Yale e, come abbiamo visto, a partire dal 1928 fu impegnato nella direzione, con l’amico F. Cumont, degli scavi di Dura-Europos49. Nello stesso tempo era incalzato dalla preparazione della Storia economica e sociale del mondo ellenistico e della riedizione dei due volumi della Storia del mondo antico50. La questione della riedizione inglese, fortemente voluta da Sisam, tornò di attualità a partire dal 1937, quando ci si attendeva che Rostovtzeff, completato il lavoro per la Storia economica e sociale del mondo ellenistico, si potesse dedicare a tempo pieno alla riedizione di quella precedente sull’Impero romano. Rostovtzeff, da parte sua, si era espresso in termini molto chiari: in una lettera a Sisam del 12 giugno 1939 si raccomandava che non si trattasse di una semplice ristampa senza le correzioni almeno degli errori più evidenti. Auspicava inoltre che si potesse affidare a qualcuno l’incarico di fra l’edizione inglese e quell’italiana. Alla preparazione della nuova edizione inglese lavorò intensamente, per un breve periodo, Arnaldo Momigliano, arrivato esule in Inghilterra a seguito
46. La lettera è riprodotta in A. PICCIONI (a cura di), Una casa editrice tra società, cultura e scuola. La Nuova Italia 1926-1986, Firenze, 1986, p. 219. Va detto che la fortuna dell’edizione italiana nasce anche dall’incontro felice tra due personalità diversissime e complementari: il vulcanico, geniale, ma inevitabilmente impreciso Rostovtzeff e il diligente e accurato Sanna. 47. A. MOMIGLIANO, Aspetti di Michele Rostovtzeff, «La Nuova Italia», 4 (1933), pp. 160-164; rist. in IDEM, Contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma, 1955, pp. 327-335. 48. P.G. MICHELOTTO, La «History» di Rostovtzeff dal 1926 al 1933: intorno ad alcune varianti, in A. MARCONE (a cura di), Rostovtzeff e l’Italia, cit., pp. 187-209. 49. H. VON STADEN, Rostovtzeff a Yale, in A. MARCONE (a cura di), Rostovtzeff e l’Italia, cit., pp. 63-95. Dai documenti di archivio citati da von Staden risultano evidenti l’impegno e la capacità di Rostovtzeff nell’ottenere finanziamenti per la missione di Dura. 50. La prima edizione della Storia del mondo antico, apparsa a Oxford nel 1926-27, era in realtà una traduzione dall’originale russo del 1924. La seconda edizione, del 1928-30, è alla base della trad. it. del 1965, pubblicata a Firenze da Sansoni (2a ediz. 1975), con un’introduzione di A. Momigliano. Una ristampa in paperback dell’opera è apparsa a Milano presso Bompiani, nel 1999.
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delle leggi razziali italiane, attorno al 1941. A proposito di questo lavoro di revisione Momigliano ha lasciato un notevole memorandum manoscritto, con considerazioni nel complesso piuttosto critiche, destinato al segretario della Oxford University Press, K. Sisam51. Quanto a Rostovtzeff, la sua presa di posizione ultima sulla Storia, di cui si abbia notizia, risale al 22 ottobre 1942, in una lettera indirizzata a Sisam. Merita di essere riportato il passo più significativo: «Il problema della nuova edizione del mio libro romano è molto complesso. Tanto è stato scritto dopo il 1931 sugli argomenti trattati nel mio libro ed è venuto alla luce tanto nuovo materiale che è impossibile che ci si possa accontentare nella nuova edizione inglese di riprodurre la nuova edizione italiana del 1931 (in realtà 1933). Io non ho mutato le mie idee di fondo e non penso che vada cambiata la struttura dell’opera nel suo insieme. Ma in alcuni punti specifici nuovo materiale e nuovi punti di vista ben documentati dei miei colleghi mi costringono ad abbandonare alcune delle mie affermazioni. Questo significa che diverse formulazioni nel testo dovranno essere riscritte. Ancora più difficile è sistemare le note. Non posso ignorare i nuovi contributi e lasciare la bibliografia nello stato in cui il libro fu pubblicato nel 1931. Nella mia copia personale dell’edizione italiana ho già scritto o abbozzato alcuni dei necessari cambiamenti [cors. mio]. Ma questo lavoro di revisione è stato fatto in un modo piuttosto occasionale e non sistematico. Se si dovesse arrivare a una revisione finale delle note, saranno necessari uno studio accurato e un lungo lavoro. Sono ormai un uomo vecchio. Posso vivere per diversi anni, ma potrei anche andarmene presto. La mia salute al momento è buona ma Lei sa come vanno le cose. Se me ne dovessi andare, ho chiesto a mia moglie di mandarLe una copia dell’edizione italiana con le mie correzioni ed integrazioni e due buste contenenti delle note sulla bibliografia attuale [cors. mio]. Lei farà quello che riterrà opportuno. Se Dio mi concederà ancora qualche anno di vita, farò del mio meglio per aggiornare nei limiti del possibile il mio libro. In questo caso devo avere le schede di Momigliano inserite al posto giusto nella mia prima edizione inglese, così che quel testo e le aggiunte costituiscano, quando si può, un testo continuo. Ciascuna pagina dovrà avere dei pezzi di carta incollata con margini sufficienti larghi per piccoli cambiamenti e correzioni. Se ci fosse necessità di modifiche più consistenti, sostituirò le pagine cancellate con delle nuove scritte a macchina. Questa è l’unica via in cui mi sembra possibile procedere nella mia revisione». Si noti che qui Rostovteff, che ribadisce l’importanza della traduzione italiana come base per la riedizione (in qualunque lingua) della sua opera, fa
51. Scrive tra l’altro Momigliano: la tesi essenziale di Rostovtzeff sull’Impero romano implica alcuni «technical shortcomings». Il libro gli pare ben documentato per quello che non deve dimostrare, ma più affrettato quando si tratta di provare una tesi. Questo testo di Momigliano è pubblicato integralmente in A. MARCONE, Momigliano e la riedizione inglese della «Social and Economic History of the Roman Empire» di Rostovtzeff, «Athenaeum», 88 (2000), pp. 604-607.
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riferimento a una sua copia di lavoro della traduzione italiana della Storia, che deve costituire la base per l’auspicata riedizione. Nel giro di qualche anno le condizioni di salute di Rostovtzeff resero consapevole Sisam dell’impossibilità di realizzare il progetto originario. Dopo aver consultato nel 1945 la moglie Sophie e avere ottenuto, tramite suo, il consenso del marito, si risolse a procedere nella riedizione con l’aiuto di Momigliano. Ormai il problema della riedizione si poneva in termini del tutto diversi rispetto a prima. La soluzione arrivò poco dopo la morte di Rostovtzeff, avvenuta nel 1952. Davin, un giovane neozelandese che si era formato alla Oxford University Press sotto la guida di Sisam, consultato Ronald Syme, decise di rivolgersi a P. Fraser che aveva già aggiornato la Storia economica e sociale del mondo ellenistico (Oxford 1953, in tre volumi). Fraser, sia pure con molte riserve, accettò e la riedizione inglese della Social and Economic History of the Roman Empire apparve effettivamente nel 1957. Fraser, in verità, si limitò ad un aggiornamento minimo di quella del 1926 e finì per tener conto solo delle aggiunte presenti nelle traduzioni italiana e tedesca52. La vicenda sembrava conclusa quando una circostanza fortunata mi ha consentito di ritrovare, nel marzo del 1997, la copia personale di lavoro della Storia cui Rostovtzeff faceva riferimento nella lettera del 1942. Essa era conservata, insieme ad altro materiale, in un bel contenitore rettangolare, di cartone rigido, nel «fondo Gilliam». Alla morte dello studioso, allievo di Rostovtzeff, tale fondo era stato acquistato per l’Istituto di Storia Antica di Trier, da parte di Heinz Heinen e Günter Grimm. Il volume era in un discreto stato di conservazione anche se sembrava evidente che da tempo non era stato aperto. Disseminate un po’ dovunque vi si possono trovare note di pugno di Rostovtzeff, scritte qualche volta a lapis ma, per lo più, con una stilografica, di solito in inglese ma qualche volta anche in italiano. E – fatto ancora più notevole – in più punti erano collocati dei foglietti scritti questi tutti in inglese che contenevano passi per i quali era previsto l’inserimento in sedi specifiche. La cosa che colpiva immediatamente era che, pur non trattandosi di un lavoro sistematico, non presupponeva interventi casuali, episodici, ma una precisa destinazione editoriale. Si tratta precisamente del tipo di procedimento che Rostovtzeff segnalava nella lettera a Sisam del 1942. D’altra parte quest’uso di Rostovtzeff di continuare a intervenire direttamente con note a margine sui suoi libri già stampati è ben attestato. Si veda l’Avvertenza, che precede la traduzione italiana della Storia economica e sociale del mondo ellenistico, di M. Liberanome e di G. Sanna, per La Nuova Italia (Firenze, 1966): «Il materiale raccolto negli Addenda et Corrigenda delle edizioni inglesi del 1941 e del 1953 è stato inserito nel testo, tra parentesi quadre. Altre aggiunte e modifiche, che il Rostovtzeff venne segnalando sulla sua copia personale dell’opera, ci sono state comunicate dal professor C. Bradford
52. Questa riedizione è stata ristampata a Oxford nel 1998 così come quella del mondo ellenistico.
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Welles e sono state poste, nel testo della presente edizione, tra parentesi quadre con asterisco». Quanto al valore e al carattere degli inediti rostovtzeffiani merita di sottolineare come, al di là delle correzioni, delle aggiunte, dei rinvii a nuova bibliografia, si riscontri in essi, da una parte, l’esito del lavoro serrato per la preparazione del libro ellenistico, dall’altra la riproposizione o la riformulazione aggiornata di tesi svolte nella prima edizione della Storia. A Rostovtzeff era stato rimproverato il ricorso a formulazioni imprecise e vaghe. Nella prefazione originale alla Storia egli riconosceva, non senza una punta di polemica, che esso dipendeva da una caratteristica tipica della sua mente slava. La breve annotazione contenuta nel capitolo I è significativa e può essere confrontata con quanto si è detto a proposito del suo intervento all’American Historical Association del 1935. Facendo riferimento a quanto scritto a proposito dell’agricoltura scientifica in Italia e a un saggio di G. Mickwitz (Economic Rationalism in Graeco-Roman Agriculture, apparso sulla «English Historical Review» del 1937) in una breve annotazione riferita alla n. 19 (p. 13, qui p. 22) scrive: «Parlando di “metodo scientifico” io usavo in entrambi i casi termini moderni ma nel loro senso antico. L’agricoltura era scientifica dal momento che si basava su trattati scientifici. Questi trattati naturalmente erano scientifici nel senso antico del termine. La scienza antica che si occupava di agricoltura non aveva basi sperimentali, ma empiriche, in quanto i trattati non erano altro che raccolte sistematiche di esperienze passate e presenti nelle agricolture locali e straniere. Non era un’economia pianificata nel senso stretto dal momento che Mickwitz mostra che il nuovo sistema di contabilità sul quale si basa l’economia pianificata matura è quello che fu inventato da Young. Con “capitalistico” io intendo anche i meccanismi del capitalismo antico che lo rendono identico al moderno». Il capitolo V è quello che contiene le più ampie parti di testo nuove. Palmira è la grande protagonista di queste inserzioni, contenute in diversi fogli e schedine inserite tra le pp. 183-185, cosa che si spiega bene alla luce dell'intenso lavoro fatto per la preparazione al libro su Città carovaniere e dei risultati degli scavi di Dura53. Si è già accennato a come, proprio a partire dagli anni Trenta, Rostovtzeff accentui la sua tendenza a vedere nello sviluppo del commercio un indicatore di modernità. In verità Rostovtzeff, assolutizzando la componente commerciale negli introiti di Palmira, finisce per sottovalutare l’importanza dell’agricoltura della Siria romana in generale e di quella palmirena in particolare54. La questione dello
53. Si veda in particolare P.V.C. BAUR e M.I. ROSTOVTZEFF (eds.), The Excavations at Dura-Europos, Preliminary Report of First Season of Work. Spring 1928, Yale, 1929, pp. 58-59. 54. Si veda anche il suo La Syrie romaine, «Rev. hist.», 1 (1935), pp. 1-40; rist. in IDEM, Scripta varia, cit., pp. 317-350. Proprio all’importanza che Rostovtzeff attribuiva a Palmira come centro carovaniero si possono far risalire i preconcetti che informano la sua ricostruzione della vita sociale ed economica della Siria romana (cfr. GL. BOWERSOCK, Social and Economic History of Syria under the Roman Empire, ora in IDEM,
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Introduzione
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status della città siriaca è stata a lunga dibattuta tra gli studiosi. Tale dibattito fu particolarmente intenso negli anni Trenta e Quaranta. Rostovtzeff prende di mira in particolare la tesi di H. Seyrig, secondo cui la città, già civitas stipendiaria all’inizio del I secolo d.C., ottenne lo status di civitas libera con Adriano55. Le sue idee in merito, che presuppongono implicitamente o esplicitamente la trattazione nella Storia economica e sociale del mondo ellenistico, sono molto articolate. Esse si traducono, peraltro, in una sorprendente formulazione riassuntiva. Scrive infatti Rostovtzeff: «Palmira era una città-stato semitica. E rimase semitica dopo l’insediamento romano? La costituzione greca di età postadrianea era un’interpretatio graeca della tradizionale costituzione semitica di Palmira» (p. 288). E poco oltre parla di Palmira come di una «città-stato aramaica» (p. 289). È difficile capire che cosa Rostovtzeff intenda veramente con «città statosemitica», un concetto che sembra appartenere a quella tipologia di formule forti, efficaci, che gli erano care. È lecito immaginare che, se mai avesse avuto l’opportunità di riprendere il discorso, avrebbe giustificato quest’enunciazione. Rostovtzeff torna con caparbietà sulla sua tesi relativa alla fine dell’Impero romano come risultato di una coalizione tra esercito e ceti rurali contro la borghesia cittadina (qui pp. 785-786)56. Respinge con decisione l’accusa che gli era stata mossa da più parti di aver trasposto nel mondo romano la situazione che era alla base della rivoluzione sovietica e contrabatte gli argomenti dei suoi avversari. Rostovtzeff inoltre sottolinea il suo tentativo di aver voluto prendere in considerazione la psicologia di massa che invece in genere era stata trascurata. È una considerazione che merita attenzione perché riflette un suo interesse crescente, legato probabilmente alla sua esperienza americana. Rostovtzeff era attratto dalle problematiche religiose ma era consapevole della sua inesperienza in questo campo. Si deve segnalare come la religiosità del mondo ellenistico, che pure alla fine ha poco spazio nella Storia economica e sociale del mondo ellenistico, sia
Studies on the Eastern Roman Empire, Goldbach, 1994, p. 165) in cui è innegabile un certo impressionismo. 55. La statut de Palmyre, «Syria», 22 (1941), 155-175. La tesi del pieno e precoce assorbimento di Palmira all’interno dell’Impero romano è stata in genere accolta soprattutto dalla storiografia francese. Cf. da ultimo M. SARTRE, D’Alexandrie à Zénobie. Histoire du Levant antique IVe-IIIe siècle apres J.-C., Paris, 2001, pp. 496-497, secondo cui Palmira fu pienamente incorporata nell’Impero romano al più tardi nel 19 d.C. Per serie riserve in proposito si vedano ora le osservazioni di T. GNOLI, Roma, Edessa e Palmira nel II sec. d.C. Problemi istituzionali, Pisa-Roma, 2000, pp. 127-137. 56. Si veda A. MARCONE, Un inedito di Rostovtzeff sulle cause della caduta dell’Impero romano, «Historia», 48 (1999), pp. 254-256. Rostovtzeff aveva discusso le varie teorie sulle cause della fine del mondo antico in un saggio, Il declino del mondo antico e le sue spiegazioni economiche, pubblicato in una sede, l’«Economic History Review» (II, 1930, pp. 197-214) in cui, spiegando le ragioni per aver accettato l’invito a pubblicare in una sede inconsueta per uno storico antico, faceva riferimento alla sua innata avversione per ogni «teorizzazione» della storia (Scripta varia, pp. 215-30; Per la storia, pp. 199-218).
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affrontata in diversi lavori preparatori57. Per Rostovtzeff, che rifiutava la spiegazione economicistica come causa primaria della fine del mondo antico, la considerazione della psicologia di massa sembra una via per avvicinarsi al fenomeno della «mentalità» e della religione che lo affascinavano proprio perché sembravano sfuggirgli. Scrive in uno dei testi inediti, contenuti in una schedina (qui pp. 785-786), con riferimento alla tesi svolta da Corrado Barbagallo nel 1933, secondo cui era stata l’organizzazione finanziaria dell’Impero romano che, impiegando la ricchezza delle classi agiate, provocò la fine della civiltà antica con la grave crisi del III secolo: «Ho molti dubbi che i metodi finanziari possano essere resi i soli responsabili del declino di una grande civilizzazione. Essi non sono una bella creazione del governo. Come la vita costituzionale essi da una parte dipendono dalle tradizioni e, dall’altra, dallo sviluppo sociale ed economico che non può essere modificato a piacimento. Metodi finanziari sbagliati contribuiscono al declino ma non ne sono la causa ultima. Ma noi sappiamo davvero quale sia il sistema finanziario migliore? Siamo sicuri che la libertà economica in quanto opposta al dirigismo sia la sola forma sana di organizzazione finanziaria di uno stato?». Non è un caso, forse, che, come già la prima edizione della Storia, anche questa si concluda con un interrogativo importante. In un caso come nell’altro le questioni poste da Rostovtzeff appaiono di singolare attualità. Va ascritto a merito di un Editore aperto e sensibile l’aver accettato la proposta di ripubblicare la traduzione italiana della Storia tenendo conto delle integrazioni e delle correzioni originali dell’autore58. È assai probabile che quest’iniziativa non avrebbe avuto l’approvazione di Rostovtzeff, così caparbiamente geloso dei suoi scritti. Noi riteniamo tuttavia che la vicenda che abbiamo sintetizzato meritasse una conclusione tale da riportare alla luce un intreccio tanto peculiare tra ricerca scientifica, itinerario biografico, vicissitudini politiche e editoriali. Anche per questo non secondario aspetto la Storia economica e sociale dell’Impero romano di Michele Rostovtzeff merita davvero di essere considerata un classico della storiografia del ventesimo secolo sul mondo romano. ARNALDO MARCONE
57. Cf. FANTASIA, cit., p. 293. È significativo come, prima di scrivere l’articolo, The Mentality of the Hellenistic World and the After-Life (The Ingersoll Lecture for the Academic Year 1937-38), in «Harvard Divinity School Bulletin», 1938, pp. 5-25) si fosse rivolto per soccorso bibliografico all’amico Cumont in una lettera in cui ribadiva il proprio «dilettantismo» in materia di storia religiosa: cfr. C. BONNET, La correspondance scientifique de Franz Cumont conservée à l’Academia Belgica de Rome, Bruxelles-Rome 1997, p. 430; P.L. MICHELOTTO, Un’opera “anomala” di M.I. Rostovtzeff, «Acme», 54 (2001), pp. 3773, specialmente pp. 41-42. 58. Un ringraziamento particolare devo alla dr. Alessia Uslenghi e ai suoi colleghi per l’esemplare collaborazione.
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Presentazione (1933)
La Storia economica e sociale dell’Impero romano di Michele Rostovtzeff che, per iniziativa dell’Ente Nazionale di cultura, è messa oggi in una versione tanto lucida quanto fedele a disposizione del pubblico italiano, è una delle opere storiche piu importanti e nello stesso tempo più significative dell’ultimo ventennio. In questo periodo l’attenzione degli studiosi è tornata a rivolgersi, con rinnovato fervore e con l’ausilio del prezioso materiale epigrafico, papirologico ed archeologico che vede giornalmente la luce in tutte le parti del mondo mediterraneo, alla storia dell’Impero romano. Le dure esperienze attraverso cui la società moderna va passando dopo l’inizio della guerra mondiale hanno acuito l’interesse per il grave problema che è forse il problema massimo, non solo della storia antica, ma della storia dell’umanità in generale, quello della decadenza dell’antica civiltà classica e quello, strettamente connesso all’altro, della caduta di quell’Impero che aveva assunto la missione di sostenerla e diffonderla. Il problema complesso non può esser risoluto con formole monche ed unilaterali. La sua soluzione si identifica con la storia stessa dell’Impero romano e della sua civiltà. Noi siamo lontani dall’avere una tale storia. Teodoro Mommsen si è arrestato sulla soglia dell’età imperiale, e per quell’età non ci ha dato se non un volume sulla storia delle province da Cesare a Diocleziano; un capolavoro, senza dubbio, della storiografia moderna, ove sono alcune delle pagine piu belle e più dense che il grande storico abbia mai scritte, ma esso non fa se non rendere in noi più vivo il rimpianto di quella storia dell’Impero romano davanti alla quale egli ha lasciato cadere la sua penna. E i due volumi che ha pubblicati col titolo, Geschichte der römischen Kaiserzeit, uno dei più valorosi scolari del Mommsen, H. Dessau, non attenuano certo quel rimpianto e sono a gran pezza lontani dal colmare, anche per un periodo ristretto, quella lacuna. Il maggior sussidio che noi abbiamo per colmarla, per intendere cioè, nei suoi elementi essenziali, la storia dell’Impero Romano nei primi tre secoli, è il libro di Michele Rostovtzeff che qui si presenta ai lettori italiani, capolavoro anch’esso della moderna storiografia, che sta degnamente accanto al V volume della storia romana del Mommsen. Michele Rostovtzeff aveva, nell’accingersi a quest’opera, una larghissima preparazione di studi e di ricerche. Archeologo militante, acuto interprete dei
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testi, egli porta, nell’apprezzare documenti e monumenti, un senso vivissimo della concretezza storica che a molti archeologhi e filologi difetta, e mentre la sua esposizione è sempre aderente ai dati di fatto, che domina con sicura padronanza, vi associa larghezza di visione, sforzo di penetrazione, audace originalità nel coordinarli ed interpretarli. Perché egli non è soltanto un insigne studioso che padroneggia, come forse nessuno, lo smisurato materiale muto e parlante che abbiamo intorno alla storia dell’Impero, ma è un uomo che ha vissuto, partecipandovi con tutto l’animo, la recente storia d’Europa, e in particolare della propria patria. E queste esperienze che sono state per lui, come per molti, assai dure, gli hanno temprato l’animo, gli hanno dato un senso profondo di umanità che si manifesta nel contenuto pathos con cui affronta il problema della decadenza della civiltà antica. Altrove ho sottoposto a critica la soluzione che egli ne dà («Rivista di Filologia», LIV, pp. 537 sgg.). Ma se anche quella soluzione non si accetta integralmente, se anche si ritiene che il ricordo delle vicende della sua patria russa abbia troppo influito sulla sua visione delle vicende dell’Impero romano, le sue conclusioni sono però sempre degne di studio, altamente suggestive e ricche di elementi di verità. Certo, è assai sconsolato il quesito con cui egli chiude la sua storia, e al quale il suo libro pare abbia voluto dare una risposta negativa e dolorosa. «È possibile estendere una civiltà elevata alle classi inferiori senza degradare il contenuto di essa e diluirne la qualità fino all’evanescenza? Non è ogni civiltà destinata a decadere appena comincia a penetrare nelle masse?». Forse la risposta è che l’esperienza dell’Impero romano non ci chiarisce intorno a questo problema, poiché la civiltà dell’Impero è stata eminentemente aristocratica, e non ha fatto mai vera prova di penetrazione nelle masse. E forse capovolgendo quella che sembra l’intuizione fondamentale del nostro storico, si può con questa mancata o insufficiente penetrazione nelle masse, con l’abbrutimento delle masse incatenate quasi in una condizione di inferiorità economica e civile, spiegare il totale disinteressamento di esse per l’Impero e per la civiltà nei giorni in cui l’uno e l’altra declinarono. Ma se a tale quesito può darsi una risposta assai più ottimistica di quella che non dia virtualmente l’autore, assai più lieta di speranze per la vita della nostra civiltà moderna che penetra ormai, senza decadere, nelle masse assai più di quel che non abbia fatto in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo (salvo forse l’Attica nell’età classica, ma quella non era davvero un’età di decadenza) la civiltà antica, alla nostra visione ottimistica di tutta la storia umana conferisce lo stesso quadro grandioso che il Rostovtzeff ha delineato della civiltà romana nell’età degli Antonini. Vediamo infatti che, nonostante le apparenze contrarie, nulla in realtà è perduto dell’opera di incivilimento compiuta da Roma, che quell’opera è perenne guadagno dell’umanità, è passato che vivifica il presente nella storia di tutti i popoli civili. GAETANO DE SANCTIS
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Prefazione all’edizione italiana (1933)
È un grande onore e un piacere per me che il mio libro sia stato tradotto in italiano. Sono lietissimo di sapere che i fatti raccolti e le idee espresse nel mio libro saranno ormai accessibili non solo agli studiosi, ma anche ai giovani studenti e ai lettori italiani colti, eredi gloriosi della grande tradizione dell’Impero romano. L’edizione italiana non è una semplice traduzione di quella inglese. Essa è di fatto una terza edizione (la seconda è costituita dall’edizione tedesca del 1931). Quando l’Ente nazionale di cultura mi ha proposto di pubblicare il mio libro in una versione italiana, sapevo bene che dal 1929 (data della revisione del libro per l’edizione tedesca) si è accumulato parecchio materiale nuovo e sono usciti studi pregevolissimi e importantissimi sulla storia sociale ed economica dell’Impero romano. Non ho voluto che il mio libro si presentasse ai lettori italiani in una forma antiquata e mi sono accinto a rivederlo, sotto i suoi tre aspetti: il testo, le illustrazioni e le note. Nel testo sono state introdotte parecchie mutazioni nei particolari e qualche aggiunta. Nel 1930 ho avuto il gran piacere di visitare la Cirenaica e la Tripolitania. Ne è risultata una revisione del mio paragrafo sulla Cirenaica e l’aggiunta di un paragrafo nuovo sulla Tripolitania. Le illustrazioni sono state rivedute e accresciute. Le illustrazioni dell’edizione inglese sono state riprodotte quasi integralmente. Le aggiunte dell’edizione tedesca non mancano neppure nell’edizione italiana. Grazie alla cortesia del prof. A. Maiuri, del prof. G. Calza e del prof. G. Guidi ho potuto aggiungere due tavole che illustrano gli scavi nuovi di Ercolano, due altre che danno un’idea della vita sociale di Ostia e tre che riproducono i monumenti più importanti di Leptis Magna. Il prof. A. Maiuri, il prof. G. Calza ed il prof. G. Guidi hanno avuto la cortesia non solo di mettere a mia disposizione delle belle fotografie, ma anche di fornirmi una descrizione delle tavole rispettive. Ne li ringrazio di tutto cuore. Ma le aggiunte più importanti sono state fatte nelle note. Ho fatto del mio meglio per incorporare in esse i dati recenti e completare la bibliografia1. Nel terminare questa breve
1. A proposito della bibliografia mi rincresce di non aver potuto far uso dell’importante libro di C. PATSCH, Beiträge zur Völkerkunde von Südosteuropa, Bd. V: Aus 500
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prefazione mi preme di menzionare con gratitudine l’aiuto che ho sempre avuto dall’Ente nazionale di cultura e dal suo presidente prof. E. Codignola, che non hanno risparmiato né fatica né spese perché l’edizione italiana riuscisse non meno completa delle edizioni inglese e tedesca. Devo ringraziare anche il traduttore prof. G. Sanna, che ha voluto rivedere e correggere parecchie note e si è dato la pena di preparare indici completissimi e utilissimi. Sono molto lieto di vedere precedere al mio libro una nota del mio vecchio e carissimo amico prof. G. De Sanctis, il cui nome è ben noto a tutti gli studiosi di storia romana. MICHELE ROSTOVTZEFF
Jahren vorrömischer und römischer Geschichte Südosteuropas, 1. Bis zur Festsetzung der Römer in Transdanuvien, 1932, che dà la storia dell’occupazione romana dei paesi danubiani (v. la mia recensione dell’ottobre 1931).
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Prefazione all’edizione tedesca (1931)
Debbo ringraziare coloro che mi hanno reso possibile l’aggiunta delle nuove tavole. Il prof. A Maiuri (Napoli) mi ha inviato le fotografie dei monumenti pompeiani, il prof. M. Abramicˇ (Spalato) ha avuto la grande cortesia di mettere a mia disposizione una serie di nuovi rilievi d’importanti monumenti dalmatini. Il prof. G. Brusin mi ha indicato certi errori nella descrizione dei monumenti di Aquileia; il prof. R.A. Boak e la Commissione che presiede agli scavi eseguiti dall’Università di Michigan in Caranis (Egitto) hanno avuto la grande bontà di concedermi amichevolmente la riproduzione d’una parte del loro materiale ancora inedito. Ai signori H. Jayne e Fiske Kimball debbo le fotografie d’alcuni monumenti cinesi e nubiani dei musei di Filadelfia (University Museum e Pennsylvania Museum); lo stesso favore mi è stato reso dai direttori dei musei del Cairo e di Alessandria, signori Lacau e Breccia. Infine, debbo le fotografie d’alcune terrecotte africane alla cortesia del conservatore del Louvre, sig. A. Merlin. Come sempre, non mi e venuto meno l’ausilio del direttore generale R. Paribeni (Roma).
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Prefazione all’edizione inglese (1926)
Nello scrivere questo libro non ho avuto in animo d’aggiungere un’altra storia dell’Impero romano a quelle che già esistono: il mio intento è ben più modesto e limitato. Possediamo eccellenti trattazioni intorno alla politica estera degli imperatori romani, alla storia costituzionale dell’Impero, al suo sistema di amministrazione civile e militare, all’ordinamento del suo esercito; possediamo lavori di pregio intorno alla vita municipale d’Italia e di alcune province; non sono mancati tentativi di presentare il quadro complessivo dello svolgimento storico compiutosi in qualcuna delle zone provinciali sotto il governo romano: non abbiamo invece un libro speciale, una monografia che s’occupi della vita economica e sociale dell’Impero romano nel suo complesso, e che tracci le linee principali dello svolgimento di essa. Non mancano, in verità, pregevoli contributi alla soluzione di qualche problema parziale o alla conoscenza di qualche speciale periodo. Ma la maggior parte di questi studi (ad esempio l’eccellente libro di L. Friedländer) sono stati scritti con intenti antiquari, non già storici, e nessuno si è ancora proposto di ricollegare l’evoluzione sociale ed economica dell’Impero con quella degli ordinamenti costituzionali ed amministrativi o con la politica interna ed estera degli imperatori. Il presente volume è il primo tentativo di questo genere. Non mi nascondo certamente ch’esso è ben lontano dall’essere soddisfacente. Il compito era arduo e complesso: il materiale è scarso e frammentario, mancano dati statistici sicuri, l’interpretazione dei pochi dati che si posseggono è controversa, e la maggior parte delle conclusioni, che da essi hanno tratto gli studiosi moderni sono ipotetiche e spesso arbitrarie. Tuttavia, ad onta di tutte questè difficoltà, il compito è in se stesso attraente: ho infatti la convinzione che senza un’investigazione esauriente delle condizioni economiche e sociali dell’Impero romano non si possa tentare con speranza di buon risultato di scriverne la storia generale. A chiarimento del mio punto di vista e del mio metodo ritengo opportuno riassumere brevemente i principali risultati cui sono pervenuto con lo studio accurato dell’elemento sociale ed economico della storia imperiale. Questo quadro riassuntivo potrà inoltre aiutare il lettore a formarsi un concetto proprio durante la lettura dei capitoli di questo libro.
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L’alleanza tra la borghesia e il proletariato d’Italia, strettasi sotto la guida di uomini politici ambiziosi e di comandanti militari, sboccò nel crollo dell’egemonia goduta dai due ordini privilegiati di Roma, il senatorio e l’equestre, ciascuno dei quali costituiva una classe di grandi proprietari semifeudali e di uomini d’affari, che dovevano la loro prosperità materiale allo sfruttamento delle risorse dello Stato e il loro potere politico alla loro ricchezza. L’opera d’Augusto fu l’espressione di questa vittoria delle classi medie ed inferiori della cittadinanza romana, e costituì un compromesso tra forze opposte. I Giulii e i Claudii condussero a termine la lotta: la loro politica infatti fu volta a costruire uno Stato fondato sulla totalità della borghesia urbana dell’Impero e a dare il colpo di grazia, col suo terrorismo crudele e spietato, all’influenza e alle aspirazioni di quelli ch’erano stati i magnati dell’ultimo periodo della repubblica. I resti di questa classe, e così pure coloro che temporaneamente la sostituirono, i favoriti degli imperatori, vennero tolti di mezzo dai Flavii, allorché lo scoppio d’una nuova guerra civile ebbe dimostrato la stabilità della nuova forma di governo, sorretta dalla classe media di tutte le città dell’Impero. Questa vigorosa classe media, che costituiva l’ossatura economica dello Stato, venne coscientemente favorita dagli imperatori che seguirono una ferma politica volta a promuovere la vita di città, così nelle province occidentali come nelle orientali. Senonché essa, per mezzo del corpo che la rappresentava nella capitale – il nuovo Senato imperiale dei Flavii – e per mezzo dell’aristocrazia municipale, mostrò d’esser poco disposta a sorreggere il sistema di governo in cui sotto i Giulio-Claudii era degenerato il principato augusteo, cioè quella tirannide militare personale, che, dopo il tentativo fatto da Vespasiano di restaurare il principato augusteo, era ricomparsa nel regime autocratico di Domiziano. Il risultato fu lo stabilimento della monarchia costituzionale degli Antonini, che s’appoggiò sulla classe media urbana di tutto l’Impero e sull’autogoverno delle città. Nonostante il suo potere autocratico, il monarca venne considerato come il primo magistrato del popolo romano, a lato del quale, come corpo consultivo, stava il Senato in rappresentanza della borghesia municipale. La burocrazia imperiale e l’esercito furono coordinati ai corpi amministrativi autonomi d’Italia e delle province. Quest’adattamento della costituzione dell’Impero alle forze sociali prevalenti presentava un lato debole: la classe media urbana, su cui l’Impero si fondava, non era abbastanza forte da reggere l’edificio dello Stato mondiale. Traendo il proprio benessere dal lavoro delle classi inferiori – dai contadini della campagna e dai proletari della città – la borghesia municipale, al pari dell’aristocrazia imperiale e della burocrazia, era restia ad aprir le sue file ai ceti inferiori. Tutti e tre i gruppi superiori divennero sempre più esclusivi, e la società dell’Impero venne sempre più separandosi in due classi o caste: la borghesia e le masse, gli honestiores e gli humiliores. Sorse un aspro contrasto, che a poco a poco assunse aspetto di antagonismo tra campagna e città. Gli imperatori cercarono di rimuovere quest’ostilità svolgendo una politica di urbanizzazione e di protezione dei contadini e dei proletari urbani; ma i loro sforzi furono vani. Quest’antagonismo per l’appunto fu la causa decisiva della crisi del III secolo, allorché le aspirazioni delle classi inferiori trovarono espressione nell’esercito e favore negli imperatori. Falliti gli sforzi fatti dai Severi per tro-
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Prefazione
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vare un modus vivendi tra le due classi, la lotta degenerò in guerra civile e sociale e condusse all’anarchia politica della seconda metà del secolo III. La borghesia e le classi superiori della società rimasero distrutte, e sorse una nuova forma di governo più o meno conforme alle nuove condizioni: il dispotismo orientale dei sec. IV e V, appoggiantesi sull’esercito, su una forte burocrazia e sulla massa dei contadini. Non è necessario insister molto sullo stretto nesso che corre tra l’evoluzione sociale e lo sviluppo graduale, se pur lento, della vita economica. Io non intendo affatto sopravalutare l’importanza storica dei fatti economici; ma ritengo che un quadro della vita sociale, che non s’accompagnasse con quello delle condizioni economiche che ne formano il sostrato sarebbe incompleto e ingannevole. Mi sono perciò proposto di presentare, parallelamente col mio studio sulla storia sociale dell’Impero romano, un corrispondente quadro delle linee generali secondo le quali si svolse la sua vita economica. Anche in questo campo non ho avuto predecessori. È vero che le condizioni economiche dell’Impero sono state spesso studiate, e che molte indagini pregevoli sono state compiute in campi speciali; ma nessuno aveva tentato finora di tracciare le linee fondamentali dell’evoluzione economica dell’Impero nella sua totalità, nessuno aveva cercato di mostrare come e perché cangiasse a mano a mano il suo assetto materiale, come e perché lo splendore della prima età imperiale degenerasse così completamente nella vita primitiva e semi-barbara dell’ultimo periodo. Dirò in breve i risultati cui la mia indagine mi ha condotto. Alla prima fase dell’evoluzione sociale – la caduta del dominio dei grandi proprietari terrieri e degli uomini d’affari – corrispose, nel campo economico, la rovina di quella tipica forma di capitalismo feudale, che aveva contrassegnato l’ultimo periodo della repubblica ostacolando il sano sviluppo economico del mondo antico. Crollate le immense fortune dell’aristocrazia imperiale, e raccoltasi la loro ricchezza nelle mani degli imperatori, rivissero le forme ellenistiche del capitalismo urbano, fondate sul commercio, sull’industria, sull’agricoltura metodica, sviluppandosi rapidamente sotto l’influsso benefico della pace e della tranquillità ristabilite da Augusto. Rappresentante di questa forma di capitalismo fu la borghesia cittadina, che vide aumentare continuamente il numero dei suoi membri e la sua importanza politica e sociale. L’urbanizzazione dell’Impero fu per lo meno il fattore principale e la manifestazione più evidente di siffatto processo. Ne risultò uno sviluppo, senza precedenti rapido e meraviglioso, del commercio, dell’industria, dell’agricoltura; e il costante accrescimento del capitale accumulato nelle città dette vivace impulso alla magnifica efflorescenza della vita cittadina in tutto l’Impero. Tuttavia questo capitalismo urbano andò a mano a mano degenerando. L’aspirazione dominante della borghesia municipale era quella del rentier: principale scopo dell’attività economica era assicurare all’individuo o alla sua famiglia una vita serena e inattiva, fondata su un’entrata sicura, se pure modesta. Le forze creatrici, che nel primo periodo dell’Impero avevano prodotto il rapido incremento dell’attività industriale in tutte le regioni dell’Impero, promovendo un alto grado di progresso tecnico nel commercio, nell’industria, nell’agricoltura, andarono soggette a graduale atrofia, che mise capo nel crescente ristagno della vita economica. L’attività della classe media urbana degenerò nello
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sfruttamento sistematico delle classi inferiori lavoratrici. La ricchezza da quella accumulata venne per lo più investita nella terra. Commercio e industria s’andarono decentrando, e infine non furono più praticati se non come mezzi sussidiarii d’accrescer le entrate derivanti principalmente dall’agricoltura. L’esclusivismo della borghesia e questo sistema di produzione impedivano alle classi inferiori d’ascendere a un livello superiore e di migliorare le loro condizioni materiali d’esistenza. D’altra parte lo Stato, per poter mantenere la pace interna e la sicurezza, requisiva sempre maggior quantità di denaro. Limitando la propria attività ai problemi della vita statale, e tenendosi indifferente verso il progresso economico, il Governo niente fece per promuoverlo e alimentarlo: anzi contribuì ad accelerare il processo di stagnazione col proteggere la borghesia cittadina senza darsi alcun pensiero della prosperità delle masse. In tal modo il peso della vita statale restò addossato interamente alle classi lavoratrici, causando una rapida decadenza del loro benessere economico. Ma esse erano le principali consumatrici dei prodotti industriali delle città; quindi la diminuzione del loro potere d’acquisto reagì negativamente sullo sviluppo del commercio e dell’industria, aggravando notevolmente il torpore in cui essi erano caduti. Le guerre di questo secolo dimostrarono quanto fosse disperata la debolezza economica dell’Impero e destarono l’interessamento degli imperatori per i problemi economici. Ma se essi scorsero il pericolo, furono però impotenti a curare il male. I loro provvedimenti positivi furono puerili e non recarono alcun sollievo: per salvare lo Stato essi allora fecero ricorso all’antica politica di violenza e di coazione. Violenza e coazione furono applicate tanto alla borghesia cittadina quanto alle classi inferiori col risultato d’inasprirle l’una contro l’altra. Ne venne il collasso del capitalismo cittadino e l’acuta crisi economica del sec. III, che causò quel rapido declinare dell’attività economica in generale, quel risorgere delle primitive forme d’economia, quel crescere del capitalismo di Stato, che furono i caratteri salienti della vita nel secolo IV e nei secoli successivi. Sono dolente di non aver potuto trattare, nel presente volume, del terzo aspetto della medesima evoluzione: la vita spirituale intellettuale, artistica dell’Impero. Evidentemente senza uno studio esauriente di questi lati il quadro deve riuscire unilaterale e incompleto. Senonché l’includerli non soltanto avrebbe raddoppiato la mole del volume, ma mi avrebbe costretto a passare continuamente dall’uno all’altro aspetto, non permettendomi così d’indagare adeguatamente nessuno di essi. Una siffatta esposizione dovrebbe trovare il suo posto in un’opera che si proponesse di dare il quadro completo dell’Impero romano; cosa che, come ho già detto, non si è proposta questo libro. È certo che la vita spirituale, intellettuale, artistica dell’Impero si svolse sulle stesse linee della sua vita economica e sociale. L’ultimo periodo della repubblica e il primo dell’Impero avevano prodotto una civiltà raffinata, delicata, sommamente aristocratica, estranea così alla classe media urbana come alle masse. Lo stesso deve dirsi per l’elevata religione filosofica delle classi superiori. Coll’andar del tempo quest’elevata cultura fu gradualmente assorbita dalla classe media in via di sviluppo, adattandosi al suo tenor di vita e ai suoi bisogni. Diffondendosi così ampiamente, la delicata creazione del primo secolo necessariamente andò sempre più semplificandosi, diventando sempre più elementare, sempre più
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Prefazione
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materialistica. Ma anche questa civiltà ridotta rimase estranea alle classi inferiori, che infine nel loro assalto furibondo alle città e alla borghesia cittadina la distrussero. La nuova cultura del Basso Impero fu da un lato un dilavatissimo decotto dell’antica, diffuso tra le masse dalla Chiesa cristiana, dall’altro lato, nelle classi elevate, tanto pagane quanto cristiane, alcunché d’esotico, di raffinatissimo ma vuoto e arcaistico. Circa la distribuzione della materia e il modo di usare il libro dirò quel poco che può riuscire più utile al lettore. Il primo capitolo, che tratta del periodo finale della repubblica, è un semplice schizzo. Per un’indagine più profonda sarebbe stato necessario un intiero volume: spero di poterlo far presto, in occasione di uno studio sulla vita economica e sociale del periodo ellenistico in generale. I due capitoli successivi, concernenti Augusto e la tirannide militare dei Giulii e Claudii, non sono così particolareggiati come quelli relativi ai secoli II e III, perché per i punti essenziali della mia esposizione ho potuto ivi rinviare il lettore a opere moderne, in cui l’argomento è trattato esaurientemente e con copiosa citazione di fonti. Il nucleo del mio libro è la parte (cap. IV-XI) che si occupa dei sec. II e III, vale a dire del periodo più negletto di tutta la storia dell’Impero romano. L’ultimo capitolo è anch’esso soltanto uno schizzo, destinato a illustrare in modo generalissimo le differenze di struttura sociale ed economica che si riscontrano tra il primo e l’ultimo periodo dell’Impero romano. L’opera è divisa in due parti, testo e note. Nel testo ho cercato di dare dell’evoluzione sociale ed economica dell’Impero un’esposizione leggibile e intelligibile per chiunque s’interessi dell’argomento. Le note si dividono in due categorie. Ogniqualvolta mi è stato possibile rinviare, per tutti i particolari, a buoni libri o ad articoli moderni, ed il mio giudizio si è fondato su lavori altrui, in generale ho dato alle relative note mero carattere bibliografico. Non mi sfugge certamente che questa bibliografia è tutt’altro che completa: infatti io non ho voluto fare né un libro di testo né un manuale. Di regola mi sono astenuto dall’ammassare citazioni di libri e articoli antiquati. I libri e articoli che cito sono soltanto quelli che ho letti accuratamente e dai quali ho tratto la mia informazione; quelli che non mi sono riusciti di giovamento li ho tralasciati, pensando ch’essi difficilmente riuscirebbero utili neppure al lettore. Mi sono astenuto, in generale, dal fare nelle note la critica di opere moderne: l’ho fatto soltanto quando su un dato argomento ho citato come lavoro fondamentale un libro che tragga conclusioni diverse da quelle cui in base agli stessi dati sono pervenuto io. Tuttavia la maggior parte delle note non sono di carattere bibliografico. In quelle sezioni in cui non ho potuto giovarmi di libri moderni, e in cui quindi ho dovuto io stesso raccogliere e delucidare i dati, generalmente ho inserito note che in realtà sono altrettanti brevi studi su varii punti speciali, ed hanno piuttosto il carattere di excursus o di appendici. Alcune di queste note sono lunghe e dense di citazioni; e soltanto gli specialisti saranno capaci di leggerle per intiero. Le illustrazioni aggiunte al testo non hanno l’intento di piacere o di divertire: esse sono anzi parte essenziale del libro, altrettanto essenziale, in realtà, quanto le note e le citazioni di fonti letterarie o documentarie. Esse son tratte da quel vasto materiale archeologico, che per chi indaga la vita economica e sociale è non meno importante e indispensabile dei dati scritti. Alcune
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delle mie deduzioni e conclusioni si fondano essenzialmente su materiale archeologico. Sono dolente di non aver potuto dare un numero maggiore d’illustrazioni e d’essere stato costretto a limitarmi alla riproduzione di esemplari dell’arte realistica dell’Impero, tralasciando i prodotti dell’attività industriale, come ceramiche, lucerne, vetri, residui di tessuti, gioielli, lavori di metallurgia e via dicendo. Essendomi impossibile offrire un’adeguata collezione di tavole di questo tipo, ho preferito fare del tutto a meno di questo genere d’illustrazioni. Al termine della prefazione l’autore è solito concedere a se stesso il piacere e l’onore di menzionare coloro che cortesemente vollero assisterlo nell’opera sua. Il mio elenco è lungo. Esso mostra quanto seriamente io mi sia adoperato per dare alla mia informazione la maggior compiutezza possibile, e quanto poco i disastri della guerra e della rivoluzione abbiano nociuto alla solidarietà internazionale degli studiosi. L’unica melanconica eccezione è l’attuale Governo russo che impedisce, almeno a me, di adoperare a fini scientifici i tesori posseduti dalla Russia. Il volume è dedicato al mio caro amico J. G. Anderson, come attestazione (se pur tenue) dell’alto pregio da me attribuito alla sua collaborazione, e della mia profonda gratitudine. Il signor Anderson non soltanto ha riveduto il mio manoscritto, rendendo leggibile il mio inglese – magni sudoris opus –, ma ha anche letto tutte le bozze, introdotto un razionale sistema di citazioni, e verificato buona parte di esse. Infine, e non è il meno, mi ha indotto a fare affermazioni determinate in alcuni casi in cui io inclinavo a rimaner nel vago: evidentemente alla mente inglese, dissimile in questo dalla slava, ripugna la mancanza di precisione nel pensiero o nell’espressione. Spessissimo invece egli mi ha trattenuto dal formulare conclusioni affrettate e quindi erronee. Finalmente, in parecchie occasioni le sue vaste conoscenze e i suoi saggi suggerimenti mi hanno aiutato a delucidare dei punti che mi erano rimasti oscuri. Nella composizione dei capitoli riguardanti le province romane, e nella raccolta dei materiali illustrativi del volume, molti miei colleghi mi sono stati larghi di liberalissima assistenza. In Inghilterra: Sir Frederic Kenyon, H.J. Bell, O.M. Dalton, H.R. Hall, G.F. Hill, H. Mattingly e A.H. Smith, del British Museum, D.G. Hogarth, E. Thurlow Leeds, la signorina M.V. Taylor, e B. Ashmole dell’Ashmolean Museum di Oxford, A.E. Cowley e la direzione della Bodleian Library; in Francia E. Babelon, R. Cagnat, J. Carcopino, R. Dussaud, E. Espérandieu, P. Jouguet, A. Merlin, E. Michon, P. Perdrizet, L. Poinssot, E. Pottier, M. Prou; in Germania, G. Rodenwaldt, K. Schumacher e R. Zahn; in Italia, W. Amelung, S. Aurigemma, G. Brusin, G. Calza, M. Della Corte, A. Minto, R. Paribeni, A. Spano, P. Sticotti; in Austria, R. Egger, J. Keil, E. Reisch; in Polonia, P. Bienkowski; in Serbia, N. Vulicˇ ; in Bulgaria, B. Filov e G. Kazarov; in Romania, V. Parvan; nel Belgio, F. Cumont e F. Mayence; negli Stati Uniti, E. Robinson e la signorina G.R. Richter del Metropolitan Museum, il Field Museum of Natural History di Chicago e l’Università e la Biblioteca del Wisconsin: – tutti questi si sono volonterosamente adoperati per far sì che il mio lavoro per questo volume riuscisse meno tedioso e difficile. Li prego di gradire i miei ringraziamenti più sinceri.
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Nota redazionale
Rispetto all’edizione italiana della Storia economica e sociale dell’Impero romano del 1933 le note manoscritte di Rostovtzeff ai margini della sua copia di lavoro sono state evidenziate con un carattere diverso, secondo la proposta formulata dall’Editore nel suo progetto grafico. In questo modo sono state segnalate quelle annotazioni per le quali era stata indicata dall’autore la sede in maniera precisa, nel testo o in nota, mentre le integrazioni più consistenti, vergate su fogli e schede inseriti tra le pagine del volume, sono state collocate alla fine dei capitoli e richiamate nel testo da rimandi in grassetto ([F1], [F2], [S1], [S2] ecc.). Tutti gli interventi dell’autore che hanno comportato anche l’espunzione di alcune parti del testo edito sono riconoscibili, oltre che dall’uso del carattere tipografico diverso, dal barrato, che cancella quei passi che l’autore intendeva correggere o aggiornare. Nei testi aggiunti i riferimenti bibliografici sono stati integrati nella loro forma completa, almeno alla prima occorrenza. Per quanto riguarda il ricco apparato bibliografico delle note della prima edizione italiana non si è proceduto a una revisione sistematica, che avrebbe richiesto ulteriore lavoro, ma si sono compiuti solo alcuni interventi di uniformazione. Tra le modifiche apportate si segnala l’indicazione degli autori antichi nella forma latina e l’adozione di un sistema di abbreviazione dei periodici, riviste e pubblicazioni in serie, più esplicito rispetto al precedente (tra «virgolette basse»). Tra parentesi quadre rimangono le aggiunte presenti nell’edizione del 1933 rispetto a quella inglese del 1926. I dati documentari più significativi segnalati dall’autore nel corso della sua revisione sono stati inseriti nell’elenco dei papiri e delle iscrizioni in fondo al volume. Le fonti letterarie e gli autori moderni citati sono stati raccolti in due indici separati nei quali le nuove integrazione sono evidenziate secondo i criteri del progetto editoriale. ENRICA FONTANI Per i criteri di presentazione dei materiali inediti che sono stati adottati in questa edizione molto si deve a Luigi Reitani, che si ringrazia per i preziosi suggerimenti (A.M.)
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Questa riedizione della Storia economica e sociale dell’Impero romano si colloca all’interno di un progetto di ricerca di più ampio respiro che si propone l’edizione e lo studio degli scritti inediti di Rostovtzeff e di altri materiali (lettere, recensioni ecc.), tuttora dispersi in varie istituzioni scientifiche europee e statunitensi, in biblioteche e negli archivi di Case Editrici. Il suo obiettivo è la creazione di un sistema informativo integrato che favorisca la cooperazione internazionale nello studio dell’opera di Rostovtzeff. Il progetto, di cui è responsabile scientifico il prof. Arnaldo Marcone, utilizza un server messo a disposizione dall’Università di Bologna che partecipa, all’iniziativa con un’Unità di Ricerca diretta dal prof. Giovanni Geraci e avente come collaboratori i drr. Alessandro Cristofori, Enrica Fontani e Carla Salvaterra. Attraverso il sito internet: http: //www.telemaco.unibo.it:591/michele/home.html saranno resi disponibili: 1) un inventario delle Istituzioni e degli studiosi che conservano o studiano materiale di e su Rostovtzeff; 2) una bibliografia elettronica di studi di Rostovtzeff e di studi sull’opera di Rostovtzeff con edizione di recensioni di lavori di Rostovtzeff; 3) un inventario dei documenti inediti (lettere, contratti, appunti, libri, pamphlets, testi di conferenze) che possono essere considerati parte dell’archivio Rostovtzeff o comunque legati alla sua persona o alla sua opera; 4) la catalogazione dei documenti in formato standard; 5) un’edizione elettronica codificata di documenti inediti e di documenti editi particolarmente significativi e creazione di un sistema integrato di informazioni disponibile in Internet.
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L’Italia e la guerra civile
L’Impero romano, quale venne costituito da Augusto, fu il risultato di quel turbolento e confuso periodo di guerra civile, che, con pause più o meno lunghe, aveva imperversato sia in Italia sia nelle province romane per più di ottant’anni. Due cause principali avevano dato origine alle guerre civili e ne avevano determinato il corso: da un lato, la posizione dominante assunta nel III e II sec. a.C. da Roma e dall’Italia nella vita politica di tutto il mondo civile e il conseguente stabilimento dello Stato mondiale romano, dall’altro lato il graduale sviluppo dell’antagonismo di classe e della guerra di classe in Roma e in Italia; sviluppo strettamente connesso a sua volta con l’incremento dello Stato mondiale romano. All’esposizione dell’evoluzione economica e sociale dell’Impero romano deve perciò precedere un quadro sommario delle cause che condussero all’assoggettamento del resto del mondo civile all’Italia, e conseguentemente alle guerre civili in Roma, in Italia, nelle province. L’aspetto che presentava il mondo antico prima che a Roma e in Italia scoppiasse la guerra civile può essere rappresentato nel modo seguente. Nel corso del cosidetto periodo ellenistico il centro della vita civile s’era venuto a mano a mano trasferendo dall’Occidente all’Oriente. Alla testa della civiltà non era più Atene; erano Alessandria sul Nilo, Antiochia sull’Oronte, Pergamo sul Caico. La Grecia, e specialmente Atene, che nei secoli V e IV a.C. avevano svolto, nel campo economico, un fiorente commercio a tinta capitalistica1, andavano perdendo sempre più l’antica importanza. La causa prima della progres-
1. Sulle condizioni economiche della Grecia, e specialmente di Atene, nei secoli V e IV a.C., vd. G. GLOTZ, Le Travail dans la Grèce ancienne (1920); J. BELOCH, Griechische Geschichte, vol. III (19222), pp. 313 sgg. (IX cap., L’evoluzione economica dopo la guerra del Peloponneso); F. OERTEL presso R. VON POEHLMANN, Geschichte der sozialen Frage und des Sozialismus in der antiken Welt (19253), II, pp. 511 sgg. Cf. H. KNORRINGA, Emporos (1926); J. HASEBROEK, Staat und Handel im alten Griechenland (1928); G.M. CALHOUN, The Business Life of Ancient Athens (1926); A.M. A ∆ ndreavdou, Suvsthma ÔEllhnikh`~ Dhmosiva~ Oijkonomiva~ I, 1, 1928 (traduz. tedesca d’un capitolo in «Vierteljahresschrift
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siva decadenza della vita economica nella Grecia propriamente detta era la continua, quasi ininterrotta serie di guerre, nelle quali furono coinvolte le città greche nel corso dei secoli IV e III a.C. Queste guerre, ad onta di varii sforzi fatti per ridurre al minimo i loro effetti disastrosi e per assoggettarle a certe norme internazionali, divennero sempre più accanite, sempre più crudeli, sempre più rovinose per tutti i partecipanti, vinti o vincitori. Sempre più generale diventò il sistema di devastare il paese nemico, di distruggerne i seminati, i vigneti, gli oliveti, di incendiarne le fattorie, di rapirne e vendere uomini e bestiame come preda di guerra, di mantenere le truppe con le risorse del paese invaso. Alcuni Stati, ad esempio la lega etolica e le città cretesi, si specializzarono nell’arte di condurre guerre di rapina per terra e per mare; e gli altri Stati, non eccettuate le grandi monarchie ellenistiche, li seguirono in questo sentiero funesto2. A un tempo con le guerre esterne infuriava nelle città così della Grecia propriamente detta come della maggior parte delle isole un’incessante guerriglia di classe, causata dal progressivo sviluppo della borghesia agiata e dal corrispondente impoverimento delle masse. La guerra di classe poi, rendendo quasi impossibile in seno alle città-Stato una regolare vita economica, poneva il più grave ostacolo al sorgere e allo svilupparsi di un sano sistema capitalistico. Nelle città greche il contrasto assunse sempre più il carattere di lotta quasi unicamente sociale ed economica. Essa tendeva essenzialmente non già ad aumentare la produzione migliorando le condizioni di lavoro e correggendo e regolando le relazioni tra capitale e lavoro, ma a redistribuire la proprietà, generalmente con violenti mezzi rivoluzionarii. Da lunghissimo tempo il grido di guerra era gh`" ajnadasmov" kai; crew`n ajpokophv, redistribuzione della terra e abolizione dei debiti. Questo grido era così generalmente in uso, almeno sin dalla fine della guerra del Peloponneso, che nel 401 gli Ateniesi introdussero nel giuramento degli Eliasti una clausola, che vietava di votare su consimili proposte. Nel IV secolo l’incubo della rivoluzione sociale era senza tregua presente al pensiero di uomini come Aristotele e Isocrate; e nel 338 la confederazione corinzia formò una specie di lega difensiva contro siffatto pericolo. Caratteristico per le condizioni della Grecia nel III secolo e posteriormente è il fatto che ad Itanos
f. Sozial u. Wirtschaftsg.», 20 (1928), pp. 283 sgg.); E. ZIEBARTH, Beiträge zur Geschichte des Seeraubes und Seehandels im alten Griechenland (1929); J. HASEBROEK, Griechische Wirtschafts- und Gesellschaftsgeschichte, 1931. Debbo avvertire che adopero l’espressione «capitalismo» nel suo significato più ampio, cioè come forma economica che mira al guadagno, non al consumo. Naturalmente il capitalismo moderno è di tutt’altra specie, e nelle sue tipiche forme odierne non fu conosciuto dal mondo antico. Cf. la relativa letteratura alla nota 91 del cap.VII. 2. Quest’importante argomento sarà lungamente trattato nel mio prossimo libro: Social and Economic History of the Hellenistic Period. Intorno ad esso abbiamo una miniera d’informazioni nella narrazione che Polibio ci dà delle guerre combattutesi nella Grecia propriamente detta, nelle isole, nell’Asia Minore, tra la fine del III e gli inizi del II sec. a.C. Ho veduto con piacere gli argomenti addotti da U. KAHRSTEDT («Gött. gel. Anz.», 1928, p. 85) per dimostrare che nel periodo ellenistico la guerra assunse forme sempre più umane. Anche se vi fosse qualche motivo per ammettere tale mitigazione nel primo periodo ellenistico, esso non potrebbe valere per l’età di Filippo II e dei suoi contemporanei.
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nell’isola di Creta fu introdotta nel giuramento dei cittadini una clausola che vietava la redistribuzione della terra e la cancellazione dei debiti3. Le rivoluzioni tendenti alla redistribuzione della proprietà furono disastrosissime per la Grecia. Rivoluzione e reazione si alternavano a brevi intervalli, accompagnate dall’eccidio totale o dall’espulsione dei migliori cittadini. Gli esuli poi naturalmente s’adoperavano per rientrare e prender vendetta degli avversari, o emigravano nelle monarchie orientali in qualità di soldati mercenari, di coloni delle nuove città fondate dai monarchi ellenistici in tutto l’Oriente, di funzionari civili degli Stati ellenistici, di mercanti, d’uomini d’affari. Poche furono le città che, come Atene, rimasero più o meno immuni da queste crisi periodiche e quindi conservarono una relativa prosperità4. Quel che perdevano le città greche del continente europeo e della maggior parte delle isole, lo guadagnavano le monarchie ellenistiche, e più specialmente le città greche dell’Oriente5. La maggior parte di queste città sottosta-
3. DEMOSTH., Contra Timocr., 149 (p. 746): oujde; tw`n crew`n tw`n ijdivwn ajpokopa;~ oujde; gh`~ ajnadasmo;n th`~ A ∆ qhnaivwn oujdæ oijkiw`n, cf. DITTENBERGER, Syll.3, 526, 22 sgg.: ouj⁄ªde; ga`~º ajnadasmo;n oujde; oijkia`ªnº⁄ªoujde; oºijkopevdwn oujde; crew`n aj⁄ªpokopºa;n poihsevw, e ISOCR., Panath. (12), 259 (p. 287b). Nella persona di Cercidas (fr. 1, vd. J.U. POWELL and E.A. BARKER, New Chapters in the History of Greek Literature, Oxford, 1921; cf. A.D. KNOX, The First Greek Anthologist, Cambridge, 1923) abbiamo oggi uno dei predicatori e riformatori politici e sociali del III sec., che, sebbene appartenessero alla classe borghese, furono costretti ad accettare gh`~ ajnadasmovn e crew`n ajpokophvn come misura preventiva contro la rivoluzione sociale. Cf. R. VON POEHLMANN, Geschichte der sozialen Frage und des Sozialismus in der antiken Welt, I, 19253, pp. 332 sgg. e W.W. TARN, The Social Question in the Third Century, in The Hellenistic Age, Cambridge, 1923, pp. 108 sgg. [e lo stesso, Hellenistic Civilisation, 1927, pp. 69 sgg.]. 4. W. FERGUSON, Hellenistic Athens (1911). 5. Il problema della vita economica e sociale dell’età ellenistica verrà trattato nel libro indicato nella nota 2. Un riassunto delle condizioni di questo periodo è dato approssimativamente da BELOCH, Griech. Gesch., IV, 1 (19252); P. JOUGUET, L’Impérialisme macédonien et l’hellénisation de l’Orient (1926, traduz. inglese 1928); J. KAERST, Gesch. d. Hellenismus, II (19262); W.W. TARN, Hellenistic Civilization (1927); [F. HEICHELHEIM, Wirtschaftliche Schwankungen der Zeit von Alexander bis Augustus, 1930]. Circa l’Egitto tolemaico, vd. M. ROSTOVTZEFF, Ptolemaic Egypt, in C. A. H., VII (1928), pp. 533 sgg. (con bibliografia), cf. W.W. TARN, Ptolemy II, «Journ. of Eg. Arch.», 14 (1928), pp. 246 sgg. Per la Siria vd. M. ROSTOVTZEFF, Syria and the East, ibid., pp. 587 sgg. (con bibliografia), cf. W. OTTO, Beiträge zur Seleukidengesch. des III Jahrh. v. Chr., «Abhandl. Münch. Akad.», 34, 1 (1928). Sul regno di Pergamo, vd. il mio articolo negli Anatolian Studies presented to Sir W.M. Ramsay (Manchester, 1923), che discute i dati da noi posseduti intorno all’agricoltura sistematica e capitalistica dell’età ellenistica; cf. il mio capitolo Pergamum nella C. A. H., VIII [pp. 590 sgg.]. Vd. anche i miei capitoli Rhodes and Delos e The Bosporan Kingdom, ibid. [pp. 619 sgg. e 561 sgg.]. Una copiosa fonte d’informazioni su tale oggetto sono i papiri contenenti la corrispondenza di Zenone, amministratore di una gran tenuta di Apollonio dioiketes di Tolomeo Filadelfo: vd. in proposito M. ROSTOVTZEFF, A Large Estate in Egypt in the Third Century B.C. (1921), p. 49 (granicoltura), pp. 93 sgg. (viticoltura), pp. 107 sgg. (allevamento del bestiame), pp. 117 sgg. (cavalli); [C.C. EDGAR, Zenon Papyri in the University of Michigan Collection, 1931, introduz., pp. 1 sgg. (biogra-
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vano direttamente o indirettamente all’autorità dei sovrani ellenistici e non godevano reale libertà politica: quindi ogni tentativo di rivoluzione sociale entro le loro mura veniva represso dalla mano pesante di quei re, mentre solo assai di raro le città erano coinvolte in guerre esterne. Così in Oriente l’accumulazione del capitale e l’introduzione di migliori metodi commerciali e industriali procedevano con minori ostacoli e con miglior successo che nelle città della Grecia propriamente detta. Per questi motivi il capitalismo commerciale delle città greche, già caratteristico per il sec. IV, raggiunse ora un grado di sviluppo, che condusse gli Stati ellenistici assai presso a quello stadio di capitalismo industriale che contrassegna la storia economica dell’Europa nei secoli XIX e XX. Le città ellenistiche dell’Oriente disponevano di un largo mercato locale; esercitavano, in concorrenza l’una con l’altra, un importante e sempre crescente commercio esterno; miglioravano sempre più la tecnica della produzione agricola e industriale con l’aiuto della scienza pura e applicata, che andava facendo rapidi progressi in tutti i regni ellenistici; adoperavano sia nell’agricoltura (compreso l’allevamento del bestiame) sia nell’industria i metodi dell’economia capitalistica, fondata in parte sul lavoro degli schiavi; introducevano per la prima volta la produzione in massa di merci destinate ad un mercato indefinito; sviluppavano le banche e il credito e pervenivano a creare non soltanto regole generali per il commercio marittimo (la così detta legge marittima di Rodi) ma anche una specie di diritto civile comune, valido in tutto il mondo ellenistico. La stessa tendenza verso l’unificazione si rivela nei tentativi di stabilizzare la circolazione monetaria, o almeno di determinare relazioni stabili tra le valute dei vari Stati commerciali indipendenti. Considerando la posizione preponderante assunta dai monarchi ellenistici nella vita commerciale e industriale dei rispettivi paesi, e il gran peso che le considerazioni commerciali avevano nel determinare la loro politica estera, saremmo tentati di paragonare le condizioni economiche di queste monarchie con quelle del periodo mercantilistico della moderna storia d’Europa. Ben presto però questo sano sviluppo economico fu prima arrestato e poi a poco a poco atrofizzato da varie cause. Come nel IV sec. a.C., anche ora la causa principale fu il permanente stato di guerra che infuriò quasi senza tregua in tutto il mondo ellenistico. Non posso qui indugiarmi su questo argomento: il fatto in sé e le cause di esso sono ben noti. Sotto l’aspetto economi-
fie di Apollonio e Zenone)]. Cf. ROLF JOHANNESEN, Ptolemy Philadelphus and Scientific Agriculture, «Class. Philol.», 18 (1923), pp. 156 sgg., [e H.A. THOMPSON, Syrian Wheat in Hellenistic Egypt, «Arch. f. Pap.-F.», 9 (1930), pp. 207 sgg.]. Nuovi dati interessanti sono stati pubblicati da C.C. EDGAR, Miscellanea, «Bull. de la Soc. archéol. d’Alex.», 19 (1923), pp. 6 (117) sgg., circa un tentativo d’acclimatare maiali siciliani in Egitto fatto da Zenone, cf. P. VIERECK, Philadelpheia (1928), («Morgenland», fasc. 16), pp. 40 sgg.; IDEM in «Gnomon», 6 (1930), pp. 115 sgg. Che Teofrasto fosse letto nell’Egitto ellenistico è attestato dalla scoperta di un frammento del peri; zw/w v n. Cf. il notevole libro dello SCHNEBEL, Die Landwirtschaft im hellenist. Aegypten (1925); W.L. WESTERMANN, Egyptian Agricultural Labour, nella Agricultural History, I (1927), pp. 34 sgg., e le mie osservazioni sul P. Tebt. 703 (in The Tebtunis Papyri, vol. III, 1, 1933, pp. 66-102).
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co queste guerre interminabili divennero a poco a poco per il mondo greco una vera calamità. Non soltanto vasti tratti di paese rimasero devastati, molte città saccheggiate, i loro abitanti venduti schiavi: assai più importante fu il fatto che le guerre costrinsero gli Stati ellenistici, grandi e piccoli, a concentrare i loro sforzi nella preparazione militare, nel creare gli eserciti e le flotte più grandi che potessero, nell’inventare nuovi trovati dell’ingegneria militare, e a sperperare in tal modo immense somme di denaro, come avvenne, per esempio, nell’assedio posto a Rodi da Demetrio Poliorcete. Quasi tutta l’entrata dello Stato era assorbita dalla preparazione militare. Questo stato di cose in un primo tempo spinse i re ellenistici a fare sani sforzi per accrescere, in rivalità scambievole, la produzione dei rispettivi paesi con lo sfruttamento razionale e scientifico delle loro risorse naturali; ma a poco a poco questa maniera salutare e progressiva d’aumentare le entrate dello Stato fece posto ad una serie di provvedimenti più agevoli e più immediatamente proficui, il più importante dei quali fu la nazionalizzazione (étatisation) della produzione e dello scambio, quale venne attuata almeno in qualcuna delle monarchie ellenistiche, specialmente in Egitto. Per nazionalizzazione intendo l’accentramento dei rami più essenziali della vita economica nelle mani dello Stato, cioè del re e dei suoi funzionari. Questo sistema, proficuo allo Stato in un primo momento, a poco a poco sboccò nella disonestà e illegalità dei funzionari e nella quasi completa scomparsa della concorrenza e del libero spiegamento di energia individuale da parte della popolazione. Di pari passo con questa tendenza verso il controllo statale procedette l’elaborazione di un minutissimo sistema di tassazione, che colpiva ogni lato della vita economica. Esso si fondava sull’esperienza delle monarchie orientali, ma la sopravanzò di gran lunga sia nello scoprire nuovi oggetti tassabili sia nel perfezionare il sistema di riscossione delle tasse. Grave era il peso che la tassazione addossava alle popolazioni del mondo ellenistico; e per gli elementi indigeni di esse era reso ancor più grave dal primitivo sistema della prestazione d’opera coattiva, delle corvate. Questo, al pari del sistema di tassazione, venne portato alla massima perfezione dalla mente logica e inventiva dei Greci; e a poco a poco le corvate divennero una regolare partita addizionale nella lunga lista di obbligazioni alle quali i sudditi delle monarchie ellenistiche erano tenuti verso lo Stato e il re. Quelli che maggiormente soffrivano per la politica di nazionalizzazione e per il raffinato sistema fiscale dei monarchi ellenistici non erano certo i nuovi residenti dei paesi orientali, gli immigrati, per lo più Greci o Asiatici ellenizzati. Essi sapevano sottrarsi a tali pesi o riversarli sulle spalle della popolazione indigena. Infatti i più tra gli immigrati servivano al re da strumenti per opprimere l’elemento indigeno, in qualità di appaltatori delle imposte, di sovrintendenti alle corvate, di concessionari dei commerci e industrie statali, di amministratori delle grandi tenute regie, e via dicendo. Il rovinoso sistema economico delle monarchie ellenistiche cagionò tra le masse degli indigeni sempre più vivo malcontento. Dalla fine del III secolo in poi la popolazione indigena dell’Egitto, per esempio, insorse ripetutamente contro gli oppressori stranieri. Capi di queste ribellioni erano generalmente i sacerdoti indigeni, il cui fine ultimo era l’espulsione degli stranieri, compresi i re –
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lo stesso scopo perseguito già dagli Egiziani, spesso con successo, contro gli antichi dominatori d’Assiria e di Persia. Le rivolte spinsero i re a rafforzare i loro eserciti mercenari, a largire nuovi privilegi agli oppressori stranieri, ad aggravare ancor più i pesi della tassazione e del lavoro coattivo. Il sistema opposto di far concessioni alla popolazione indigena, seguito qualche volta dai Tolomei, aggravava il male, generando l’opinione che il governo non fosse sufficientemente forte da poter imporre i suoi voleri. Questo processo impedì alle monarchie ellenistiche di diventare Stati nazionali. Esse, salvo poche eccezioni, rimasero ciò ch’erano state sin da principio: tirannidi militari dominanti su una popolazione schiava e sorrette in ultima analisi da eserciti mercenari6. Per questi motivi la civiltà del periodo ellenistico non diventò mai civiltà greco-orientale: essa rimase in complesso puramente greca, con tenuissima mistura di elementi orientali. Quel che vi fu di nuovo nella civiltà greca del periodo ellenistico fu principalmente non il suo carattere greco-orientale, ma il suo carattere cosmopolitico, che la rese accettabile ai nuovi Stati nazionali sorti tutto all’intorno, in Oriente e in Occidente. In Oriente, tuttavia, nessuno dei nuovi Stati – Partia, Battria, India, Armenia eccetera –, accettò integralmente la cultura greca. Forme e idee greche rimasero sottile vernice sovrapposta a un sostrato locale, puramente orientale. Inoltre, l’influenza greca rimase limitata, in Oriente, alle classi superiori della popolazione, e non discese mai nelle masse. Più profondamente essa penetrò nella vita delle nazioni occidentali, Italici, Celti, Iberi, Traci. Ma anche qui rimase fedele alla sua origine e al suo carattere reale: fu, e rimase, civiltà di città e di loro abitanti. Cosicché la civiltà ellenistica fu semplicemente una nuova fase nello svolgimento della città greca. Nelle stesse monarchie ellenistiche, nell’Asia Minore, in Siria, in Egitto, sulle rive del Mar Nero, le masse rurali non furono mai tocche dalla cultura greca e conservarono tenacemente i loro antichi costumi e abitudini, e le credenze religiose dei loro antenati. L’improvviso intervento di Roma nelle vicende del mondo civile, durante e dopo le guerre puniche, non recò alcun giovamento7, anzi complicò ancor
6. Un’interessante caratteristica delle monarchie ellenistiche (esagerata però nelle parti negative) è data da ELIO ARISTIDE nella sua mirabile orazione Eij~ ÔRwvmhn (Or. 26, ed. Keil; 14, ed. Dindorf ), 27: Makedovne~ oujk ejn Makedoniva/, ajll jou| duvnainto basileuvonte~ e{kastoi, w{sper frouroi; ma`llon tw`n povlewn kai; tw`n cwrivwn o[nte~ h] a[rconte~, ajnavstatoiv tine~, basilei`~ oujc uJpo; tou` megavlou basilevw~ ajll j uJf j eJautw`n aujtoi; gegenhmevnoi, eij de; oi|ovn te eijpei`n, satravpai e[rhmoi basilevw~. kaivtoi th;n toiauvthn katavstasin povteron lh/steiva/ ma`llon h] basileiva/ proseoikevnai fhvsomen; 7. Le migliori trattazioni dell’importante problema relativo ai primi tentativi fatti da Roma per creare uno Stato mondiale, un Imperium Romanum, sono quelle di TENNEY FRANK, Roman Imperialism, 1913 (cf. IDEM, A History of Rome, 1923, pp. 136 sgg.; traduzione italiana di M. Fazio con appendice bibliografica di G. Sanna, Firenze, La Nuova Italia, volume I, 1932, pp. 177 sg.), e specialmente di M. HOLLEAUX, Rome, la Grèce et les monarchies hellénistiques au IIIme siècle avant J.C. (273-205), nella «Bibl. des Éc.», 124 (1921) e di G. DE SANCTIS, Storia dei Romani. Volume IV. La fondazione dell’Impero
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più le cose, e favorì le forze di distruzione. Scopo della repubblica romana in via di sviluppo fu d’impedire che si formasse in Oriente una qualsiasi potenza politica capace di diventar pericolosa allo Stato romano. Quanto maggior confusione, dunque, tanto meglio; quanto maggiore il numero degli Stati indipendenti, tanto maggior vantaggio per Roma; quanto maggiori i grovigli interni di ciascuno Stato, tanto maggiori probabilità per Roma di diventare in Oriente il potere tutorio, cioè dominante. La libertà proclamata per le città greche dopo la prima (chiamata talora seconda) guerra macedonica, ed estesa alle città greche dell’Asia avanti, durante e dopo la prima guerra siriaca, rese quasi disperata la condizione interna di queste città. Le città greche dell’Asia Minore andarono avviandosi alla stessa decadenza economica che s’andava continuamente intensificando nella Grecia propriamente detta. D’altra parte, il pericolo romano rafforzò la tendenza delle grandi monarchie ellenistiche a insistere nell’incremento delle forze militari a detrimento del sano progresso economico dei paesi più prosperi dell’Oriente. Tuttavia le risorse accumulate dalle monarchie ellenistiche, eccettuata la Macedonia, furono adoperate non per combattere Roma, ma in continue rovinose guerre reciproche, nelle quali gli Stati più deboli vennero protetti e aiutati da Roma nei loro sforzi volti ad indebolire gli Stati maggiori, specialmente la Macedonia, la Siria, l’Egitto. L’intervento romano nelle cose d’Oriente passò per varie fasi. La prima, costituita dalla prima (o seconda) guerra macedonica e dalla prima guerra siriaca, fu, come si è detto, la fase della guerra preventiva, condotta principalmente allo scopo di difendere Roma e l’Italia contro le supposte tendenze imperialistiche della Macedonia e della Siria. A questo primo violento colpo seguì la seconda fase del regolare protettorato sulle città greche e su alcune minori
(1922), pp. 1 sgg. Cf. F.B. MARSH, The Founding of the Roman Empire (19272), cap. I e II e L. HOMO, L’Italie primitive et les débuts de l’impérialisme romain (1925). Intorno alla rinascita economica della Grecia nella seconda metà del sec. II a.C., A. WILHELM, Urkunden aus Messene, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 17 (1914), pp. 84 sgg. Circa le esazioni compiute in Oriente dai capi rivoluzionari, e specialmente da Silla, vd. lo stesso articolo, pp. 97 sgg., cf. R.O. JOLLIFE, Phases of Corruption in Roman Administration in the Last Century of the Roman Republic, Chicago, 1919. Nuove notizie sulle rapine dei pirati nel Mediterraneo sono fornite dall’iscrizione di Delfo, che è la trascrizione greca d’una delle leggi che dettero a un generale poteri straordinari per operare contro i pirati (S. E. G. I, n. 161, cf. gli Addenda). La data dell’iscrizione è tuttora controversa, vd. POMTOW in «Klio», 17 (1920-21), pp. 171 sgg.; E. CUQ, nei «C. R. Acad. Inscr.», 1923, pp. 129 sgg.; M.A. LEVI nella «Riv. di filol.»., 52 (1924), pp. 80 sgg.; G. COLIN nel «B. C. H.», 48 (1924), pp. 58 sgg.; J. COLIN nella «Rev. Arch.», 18 (1923), pp. 289 sgg. e 1925, I, pp. 342 sgg.; E. CUQ, ibid., 19 (1924), pp. 208 sgg.; H. STUART JONES, A Roman Law Concerning Piracy, «J. R. S.», 16 (1926), pp. 155 sgg.; A. RADIN, nel «Class. Journ.», 23 (1927), pp. 678 sgg. Le date assegnate alla legge sono il 101 a.C. (G. COLIN, M. LEVI, H. STUART JONES), 74 a.C. (J. COLIN), e 67 a.C. (E. CUQ). Cf. anche H.A. ORMEROD, Piracy in the Ancient World (1924) ed E. ZIEBARTH, Beitr. z. Gesch., d. Seeraubes u. Seehandels im alten Griechenland (1929), p. 33. Una notevole iscrizione metrica rinvenuta a Corinto parla del trasporto della flotta di M. Antonio (102 a.C.), su per l’Istmo. L. ROSS TAYLOR e ALLEN B. WEST, Corinth, VIII, 2 (1931), pp. 1 sgg., n. 1.
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monarchie ellenistiche, destinato ad impedire il risorgere delle due potenze umiliate. L’evento più notevole di questo periodo fu la seconda (o terza) guerra macedonica: la Macedonia, che aveva tentato di sottrarsi alla grave oppressione dell’ingerenza romana, fu completamente disfatta e scomparve dal numero delle grandi potenze del mondo ellenistico. Da tale scomparsa risultò la trasformazione del protettorato romano in una temperata forma di dominio, che costituisce la terza fase dell’intervento romano. Tanto le città greche quanto le monarchie ellenistiche furono trattate da Roma come vassalle, tenute ad obbedire ai suoi ordini. Esasperate dal duro modo con cui Roma usava della sua potenza, la Macedonia e la Grecia tentarono di liberarsi dal suo dominio e di riacquistare la loro indipendenza politica: Roma considerò il tentativo come una ribellione e lo represse con ferocia terribile. Il modo con cui essa trattò i due paesi creò condizioni caotiche, pericolosissime per lei non meno che per i vinti. L’odio contro Roma divenne ora il sentimento dominante della popolazione greca in tutto l’Oriente. Inoltre, le forze nazionali della Grecia e della Macedonia non erano più sufficienti a difender le loro frontiere settentrionali contro i barbari, Celti, Traci, Illirii. Identiche condizioni si svolsero a poco a poco anche nell’Asia Minore. Infine, divenne sempre più complicata e turbolenta nelle città greche anche la vita interna: la guerra di classe infuriò in Grecia e nell’Asia Minore, assumendo il carattere di un’aspra lotta tra l’aristocrazia, protetta da Roma, e il resto della popolazione, ostile così all’aristocrazia indigena come alla dominazione romana. Queste condizioni condussero alla quarta fase nello svolgimento delle relazioni tra Roma e il mondo greco-orientale: la fase della soggezione completa. Roma introdusse ormai anche nell’Oriente lo stesso sistema provinciale che aveva già attuato nel governo degli antichi dominii cartaginesi (Sicilia, Sardegna, Corsica, Spagna) nonché nel territorio stesso di Cartagine (provincia d’Africa): vale a dire l’occupazione militare sotto la direzione di uno dei magistrati annui di Roma. La Macedonia fu la prima provincia romana dell’Oriente greco. Alcuni anni dopo Attalo III, ultimo re di Pergamo, in punto di morte ritenne opportuno sottoporre il suo regno allo stesso regime, probabilmente perché convinto che un vassallo, un re asservito, non avrebbe avuto forza sufficiente a difendere il paese contro l’anarchia crescente nell’Asia Minore. Lasciò quindi per testamento il suo regno al Senato e al popolo romano; ma alla sua morte scoppiò una sanguinosa rivoluzione sociale, repressa la quale Roma trasformò il regno di Pergamo in provincia d’Asia. È significativo che, secondo quanto si desume da un’iscrizione di Cirene tuttora inedita, anche un altro contemporaneo di Attalo, e cioè Tolomeo Euergete II, seguì la stessa politica, almeno nei riguardi di Cirene. La riduzione di una parte del mondo greco-orientale ad una serie di province, insieme con la stretta tutela esercitata da Roma sui rimanenti Stati ellenistici ancora giuridicamente indipendenti, fu causa di temporaneo sollievo per l’Oriente greco. La ferrea mano di Roma fece cessare per sempre le guerre esterne e le interne lotte di classe, sicché alla fine del sec. II a.C. nella Grecia e nell’Oriente ellenizzato cominciò a rifiorire la vita economica. Ma il governo provinciale di Roma si mostrò tosto tutt’altro che efficiente. Roma si die’
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pochissimo pensiero della prosperità dei suoi nuovi dominii, come attestava il costante aumento della pirateria nell’Egeo e nel M. Nero, che costituiva un grave impedimento allo svolgersi di sane condizioni economiche nel mondo greco. Inoltre, il governo romano andò diventando sempre più egoistico. Governatori e capitalisti romani ebbero per lo più mani libere nello sfruttare le province, cosa che di solito fecero con lo spirito più egoistico, nel loro esclusivo personale interesse. La loro condotta suscitò crescente malcontento tra i Greci, com’è dimostrato dal consenso largo, per quanto non generale né durevole, ch’essi dettero a Mitridate, il celebre re del Ponto, che si presentò come campione della libertà greca contro l’oppressione romana. Con la guerra mitridatica coincide l’inizio delle aspre guerre civili d’Italia. In queste guerre, delle quali si parlerà in seguito, i capi rivali dei partiti politici che si combattevano a Roma consideravano l’Oriente come semplice campo di sfruttamento, come sorgente alla quale rifornirsi di denaro. Siccome esse furono per buona parte combattute in territorio greco, la Grecia e l’Asia Minore ne soffersero terribilmente. Le requisizioni di vettovaglie per gli uomini e per i cavalli degli eserciti contendenti, le requisizioni di lavoro, di mezzi di trasporto, di alloggiamenti per soldati e ufficiali, e soprattutto le pesanti contribuzioni addossate alle città per aiutare l’uno o l’altro dei belligeranti dopo una sconfitta, causarono la rovina quasi completa delle città greche della penisola balcanica e dell’Asia Minore. Il disastro fu aggravato dai capitalisti romani, sempre pronti a prestar denaro alle città, a condizione ch’esse acconsentissero a pagare interessi esorbitanti. Al termine delle guerre civili l’Oriente greco giaceva rovinato e prostrato sotto il tallone dei capitalisti e profittatori romani. Mentre in Oriente procedeva siffatta decadenza economica, l’Italia diventava il paese più ricco del mondo antico8. Abbiamo scarse notizie sulle
8. TENNEY FRANK, An Economic History of Rome to the End of the Republic, (Baltimore, 19272), dà un ottimo ragguaglio dei principali fenomeni della vita economica svoltasi a Roma e in Italia nel periodo repubblicano. Negli ultimi cinque capitoli l’autore include nella sua trattazione l’evoluzione economica dell’Impero. Le mie vedute coincidono con le sue nei punti più importanti: nelle note seguenti indicherò i punti nei quali m’allontano da lui. Cf. [C. A. H., voll. VII e VIII (capitoli di varii autori sulla storia interna di Roma repubblicana)]; T. RICE HOLMES, The Roman Republic and the Founder of the Empire, vol. I, 1923, pp. 65 sgg., e il buon riassunto di H. NISSEN, Italische Landeskunde, vol. II, 1902, pp. 80 sgg. Sulle condizioni dell’Italia meridionale, dell’Etruria, della Sicilia nel periodo preromano vd. E. PAIS, Storia dell’Italia antica, III (1925), cf. E. CIACERI, Storia della Magna Grecia, I-II (1924-27). Per l’Etruria vd. P. DUCATI, Etruria antica, I-II (1925), DAVID RANDALL MAC IVER, The Etruscans (1927). Per il periodo primitivo della storia economica di Roma, vd., oltre le opere citate precedentemente, I. GREAVES, Saggio sulla storia dei sistemi romani di proprietà della terra (in russo), 1899, pp. 496 sgg.; cf. E. KORNEMANN in «R. E.», Suppl. IV, coll. 84 sgg. e coll. 238 sgg. (artt. Bauernstand e Domänen), e ORTH, ibid., XII, coll. 624 sgg., (art. Landwirtschaft). Non ho la stessa fiducia che sembra avere il FRANK, e che ha W. SOLTAU (nei suoi recenti articoli su «Philologus»), sull’attendibilità delle nostre fonti in ciò che riguarda l’evoluzione costituzionale ed economica della primitiva repubblica romana. È ovvio che gli annali fossero per alcuni politicanti del sec. II e I a.C. un campo magnifi-
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condizioni economiche dell’Italia anteriormente alle conquiste orientali di Roma e alla redazione del primo quadro generale dell’economia romana (e più particolarmente dell’agricoltura romana) dato da Catone nel suo trattato De agri cultura; ma dai pochi dati disponibili possiamo inferire che anche nel più antico periodo della sua storia l’Italia non era mai stata un paese povero. L’Italia meridionale, la Sardegna, la Sicilia furono a lungo i più ricchi mercati granari del mondo. Le città greche della penisola esportavano grandi quantità di frumento in Grecia, mentre i dominii cartaginesi (Sardegna e parte della Sicilia) e l’Etruria approvvigionavano coi loro cereali le città puniche dell’Africa, che alla loro volta si dedicavano alla produzione e al commercio di vino, olio d’olive, frutti per il mercato occidentale. Oltre al grano, certe regioni d’Italia, e specialmente l’Apulia e alcune parti della Sicilia, da tempo immemorabile producevano alcune delle migliori qualità di lana. La Campania e l’Etruria accanto ad un’agricoltura fiorente possedevano un’industria sviluppatissima, celebre per i suoi manufatti metallurgici e per le sue ceramiche. È probabile inoltre che sin da tempi molto remoti le città greche dell’Italia meridionale e della Sicilia avessero introdotto su larga scala la coltivazione della vite e dell’olivo in concorrenza con la madre patria e con le città puniche d’Africa; anzi esse, come pure le città puniche dell’Africa e dei dominii esterni di Cartagine, parteciparono all’evoluzione economica della Grecia, diventando gradatamente altrettanti centri d’economia di tipo ellenistico, vale a dire capitalistico. L’organismo economico della Sicilia sotto Gerone II quale ci è fatto conoscere dalle orazioni di Cicerone contro Verre, nelle quali è continuamente citata la legge fiscale fondamentale di quel re, non differiva molto da quello degli altri Stati ellenistici contemporanei. Sappiamo d’altra parte quanto fosse fiorente il territorio di Cartagine e delle altre città puniche quanto intensamente la loro agricoltura si applicasse alle forme superiori della produzione, con quanta gelosia la città dominante sorvegliasse i suoi sudditi, vassalli, alleati, per impedir loro d’introdurre queste forme superiori di coltivazione e obbligarli ad accontentarsi di produrre grano, che veniva poi importato nelle città puniche. Questa politica di Cartagine è attestata dai provvedimenti ch’essa prese tanto in Sardegna quanto in Sicilia per promuovervi la granicoltura, e dal carattere del trattato di Magone sull’agricoltura, trattato che altro era se non l’adattamento punico dei corrispondenti trattati scientifici greci alle condizioni dell’Africa settentrionale.
co in cui combattere una battaglia politica sulla base di azioni economiche, adoperando come armi suppositizi fatti storici del remoto passato. Perfino le date di fondazione delle più antiche colonie (p. es. Ostia) alla luce di nuove scoperte appaiono mere invenzioni. Nel trattare dell’evoluzione economica della primitiva repubblica romana dobbiamo dunque accontentarci di conclusioni affatto generali, fondate non su presunti fatti storici, specialmente di carattere legislativo, ma sulle sopravvivenze di talune istituzioni e su considerazioni generali. [Sullo stato attuale del problema delle fonti cf. E. KORNEMANN, Niebuhr und die Aufgaben der altrömischen Geschichte, «Hist. Zeitschr.», 145 (1931), pp. 277 sgg.].
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Nell’Italia centrale e settentrionale le cose stavano altrimenti. A quanto ci è dato giudicare, le popolazioni celtiche dell’Italia settentrionale facevano vita di pastori e agricoltori primitivi, con prevalenza della pastorizia sull’agricoltura. L’allevamento di maiali e di pecore costituiva la loro principale occupazione. Non si hanno dati da cui risulti che i Celti dell’Italia settentrionale abbiano partecipato al graduale progresso compiuto dalle altre tribù celtiche in Gallia. Prima ch’essi potessero iniziarlo, furono soggiogati dai Romani, e in gran parte espulsi dai distretti più fertili. L’organismo economico dell’Etruria era simile a quello svoltosi in alcune città greche dell’Asia Minore nel periodo arcaico. A quanto possiamo desumere dai dati disponibili le città dell’Etruria erano residenze dell’aristocrazia etrusca, composta di grandi proprietari di terre, di proprietari di botteghe e fabbriche, mercanti all’ingrosso. La sua prosperità si fondava sul lavoro della popolazione asservita, cioè dei servi della gleba che coltivavano per conto dell’aristocrazia etrusca le sue tenute e pascolavano le sue greggi, dei servi e degli schiavi che faticavano nelle sue officine. Mi sembra molto improbabile che, all’infuori dei giardini suburbani dell’aristocrazia, siano mai stati introdotti in Etruria i tipi superiori di agricoltura; non possediamo alcun dato dal quale desumere che le condizioni arcaiche stabilitesi probabilmente fin dal tempo della conquista siano andate soggette ad alcun mutamento nel corso dei sei secoli d’esistenza della confederazione delle città etrusche. Gli affreschi delle tombe etrusche, che ritraggono alcuni aspetti della vita di quel popolo, rimasero quasi affatto immutati, in ciò che riguarda i soggetti, almeno per tre secoli (dal V al III a.C.), e riproducono per tutto questo periodo la stessa vita d’agiatezza e di comodità. Le nostre informazioni intorno alla più antica vita economica dei Latini, della città di Roma, degli Umbro-Sabelli e dei Sanniti, sono in verità assai scarse. È inoltre cosa notissima che le questioni principali relative alla vita agricola della primitiva comunità romana sono tuttora argomento di vive dispute: i lettori però non debbono aspettarsi di vederle esaminate a fondo in un volume dedicato all’Impero romano. Basterà dare un succinto quadro delle condizioni che a mio giudizio probabilmente prevalevano nel Lazio e nelle altre parti dell’Italia centrale. Quali che possano essere stati i più remoti inizi di vita economica nel Lazio, è certo che per l’ulteriore svolgimento di essa fu decisiva la dominazione etrusca. Gli Etruschi, insieme con alcune famiglie dell’aristocrazia romana, costituirono a Roma una classe dominante di grandi proprietari e mercanti: le masse della popolazione indigena furono verosimilmente costrette a lavorare e sudare per i nuovi padroni. L’abbattimento della dinastia etrusca per opera dell’aristocrazia romana non mutò le condizioni esistenti. Molto più importanti conseguenze ebbe il fatto che Roma abbia dovuto darsi una forte organizzazione militare atta a difenderla contro gli assalti provenienti dal settentrione e contro la rivalità delle altre città latine. Appunto in questo periodo oscurissimo della storia di Roma furono poste le fondamenta dello Stato contadinesco romano. Non sappiamo come e quando coloro che verosimilmente erano stati un tempo servi dell’aristocrazia siano diventati contadini liberi, proprietari di piccoli lotti di terreno e membri della classe plebea: è probabile tuttavia che non si sia trattato di una riforma radi-
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cale del tipo di quella attuata da Alessandro II in Russia, sibbene di un’evoluzione graduale, che abbia dato luogo a un tempo all’emancipazione degli antichi servi e all’aumento numerico dei liberi proprietari plebei, i quali non erano mai scomparsi dalla vita economica romana, neppure sotto il dominio etrusco. Entrambi i momenti di sviluppo vanno probabilmente spiegati con le necessità militari della comunità romana, che avranno agito specialmente in momenti critici della vita di essa, quali la guerra contro Veii, le invasioni dei Galli, la lotta con le città latine, coi Volsci, con gli Equi, e, finalmente, le guerre latine e sannitiche della fine del quarto secolo. La riforma serviana, che nella forma pervenutaci non risale oltre il secolo quarto a.C., fu la formulazione e la consacrazione dei risultati di un processo economico e sociale svoltosi nell’oscurità del quinto secolo. Ad ogni modo, nel quarto secolo, e specialmente nella seconda metà di esso, Roma era una città di contadini. Non vedo alcuna ragione per porre in dubbio che le leggi licinie (376-366 a.C.) abbiano contribuito all’incremento di questo Stato di contadini, arginando l’indefinito accrescimento del terreno posseduto da una sola famiglia a titolo di proprietà o di fitto. Il numero preciso delle unità di superficie (iugera) prescritto dalla legge licinia per i lotti massimi può essere l’antidatazione di prescrizioni contenute in una posteriore legge agraria del secondo secolo, ma è probabilissimo che anche più anticamente esistesse una legislazione informata allo stesso spirito. L’esistenza di siffatte leggi spiegherebbe sia il carattere della cosidetta costituzione serviana, sia il fatto che nel quarto secolo ogni nuovo aumento territoriale dello Stato romano riuscì in un incremento della popolazione contadinesca di Roma. Non v’è il minimo motivo per negar fede alle notizie di alcune tra le nostre fonti, che rappresentano certe famiglie dell’aristocrazia romana come famiglie di contadini ricchi, che facevano la stessa vita di tutti gli altri cittadini romani. Sicché la vita romana nel quarto secolo si fondava sull’economia contadinesca, su un primitivo sistema di vita agricola, in cui tutti i membri della famiglia lavoravano accanitamente i campi, servendosi soltanto in casi eccezionali del sussidio di alcuni schiavi e clienti, legati da tempi immemorabili alle famiglie dell’aristocrazia per vincoli religiosi. Economia contadinesca e coltivazione esclusiva del grano erano i caratteri fondamentali della vita economica del Lazio in generale, come pure dei nuovi territori assegnati alle nuove tribù (tribus) e alle nuove colonie romane e latine che via via vennero incorporandosi nell’ager Romanus. Ogni nuova fondazione romana era uno stanziamento di contadini; ogni nuovo centro di vita urbana, ogni nuova colonia, un villaggio fortificato di contadini. Il poco che sappiamo intorno alle condizioni del paese montuoso compreso tra il Lazio e la Campania, della Sabina, dell’Umbria, del Piceno, del Sannio, sembra indicare stretta rassomiglianza col Lazio, con prevalenza forse del pascolo collettivo di tribù sulla proprietà individuale e sull’agricoltura. In queste regioni era lento lo sviluppo della vita urbana, limitata per lo più alle zone limitrofe alle città greche e alle città ellenizzate della Campania. Nella stessa Campania una città come Pompei, colle sue primitive case di tipo ad atrio e orto, era più un centro di contadini agiati che non di ricchi mercanti e di grandi proprietari di terre.
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1. Guerrieri latini
2. Contadini etruschi che arano
TAV. II – ROMA NELL’ETÀ REPUBBLICANA
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DESCRIZIONE DELLA
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II
1. ANSA DI BRONZO DEL COPERCHIO D’UNA CISTA PRENESTINA. Rinvenuta a Palestrina nel «terreno Franciosi»; conservata già nel Museo delle Terme, ora nel Museo di Villa Giulia (Roma). Probabilmente inedita; menzionata in W. HELBIG e W. AMELUNG, Führer, II, n. 1519, p. 220. Queste anse sono relativamente frequenti nelle cistae di Preneste vd. R. SCHOENE, «Ann. d. Inst.», 1866, pp. 151 sgg., 1868, pp. 413 sgg., nn. 21 e 42, cf. n. 58; «Mon. d. Inst.», Suppl. 13, 14; A. MAU, «R. E.», III, coll. 2593 sgg.; HELBIG e AMELUNG, Führer, II, n. 1768, p. 318; G. MATTHIES, Die praenestinischen Spiegel (1912), p. 71. L’ansa della cista (scatola cilindrica di bronzo usata per tenervi oggetti occorrenti nel bagno, nella palestra, o da toeletta; queste ciste generalmente sono ornate di disegni incisi, e si rinvengono di frequente nelle tombe prenestine dei sec. IV-III a.C.) rappresenta due guerrieri barbati, coperti d’elmo e d’armatura completa, compresi gli schinieri, e appoggiati a robuste lance. Essi trasportano il cadavere d’un camerata, imberbe, rivestito dello stesso genere d’armatura, tranne l’elmo e la lancia. L’aspetto generale delle figure è arcaico, ma esse appartengono certamente alla stessa età delle incisioni del coperchio, che non possono essere anteriori al sec. IV a.C. Il motivo dei due guerrieri che trasportano un compagno morto è ben noto nell’arte greca arcaica: l’esempio più noto è la kylix spartana a figure nere che si trova nel Museo di Berlino, e che raffigura un corteo di Spartani che trasportano i cadaveri dei caduti in battaglia, vd. E. PERNICE, «Jahrb. d. d. arch. Inst.», 16 (1901), pp. 189 sgg., tav. III; E. BUSCHOR, Greek Vasepainting (1921), p. 92, tav. XLV. La cista prenestina riproduce, certamente con alcune modificazioni, originali di tal genere. Io sono tuttavia convinto che lo stile pesante delle figure, il loro peculiare aspetto arcaico, e alcune particolarità della loro armatura (per es. l’elmo) garantiscono l’origine latina delle statuette, che vennero fatte probabilmente a Preneste da artisti latini o latinizzati. Ritengo certo, anzi, che i proprietari delle cistae vedevano in queste figure altrettante raffigurazioni dei loro propri soldati, e che si possa ammettere che l’aspetto dei soldati romani del sec. IV a.C. non fosse molto diverso da quello delle figure delle cistae prenestine. Il gruppo è molto impressionante, e può considerarsi simbolo espressivo della vita romana e latina del sec. IV, allorché lo Stato romano si fondava sul valore militare e sullo spirito di sacrificio dei suoi membri. Confrontare le figure consimili su placche d’osso che originariamente adornavano una scatola di legno, rinvenute anch’esse a Palestrina (E. FERNIQUE, Étude sur Préneste, pp. 208 sgg., tavv. III-IV; HELBIG e AMELUNG, Führer, II, n. 1768, w., pp. 323 sgg.) e alcune gemme incise di lavorazione italica di data poco posteriore (A. FURTWAENGLER, Die antiken Gemmen, tav. XXII, 46 e XXIII, 24-29; cf. vol. III, pp. 232 sg., 235 sg., 268). Sul carattere generale dell’arte italica del sec. IV d.C., G. MATTHIES, op. cit., pp. 123 sgg. 2. GRUPPO DI FIGURINE D’UN VASO VOTIVO ETRUSCO DI BRONZO. Rinvenuto accanto ad Arezzo nell’Etruria. Già nel Museo Kircheriano, ora nel Museo della Villa Giulia. HELBIG e AMELUNG, Führer, II, n. 1723, p. 297 (con bibliografia). Sec. VI a.C. Il gruppo (tolta la figura di Minerva retrostante al contadino, la quale è addizione moderna, non parte dell’originale) rappresenta un contadino etrusco che ara il campo proprio o del padrone. Porta cappello, chiton, una pelle, e fors’anche stivali. L’aratro è fatto di un legno ricurvo d’un sol pezzo (buris), d’un vomere di metallo (vomer) e di un manico di legno (stiva). Un aratro simile a questo (sec. IV-III a.C.) è stato rinvenuto presso Telamone («Not. d. scavi», 1877, p. 245; A. MILANI, Studi e materiali di archeol. e numism., I, p. 127). Benché etrusco ed arcaico, il gruppo può servire sicuramente ad illustrare la vita agricola del Lazio nel periodo repubblicano. La maggior parte dei contadini dell’Etruria erano d’origine non etrusca, ma italica. Lo stesso aratro è usato tuttora dai contadini di alcune delle più remote contrade d’Italia.
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Col crescere dell’influenza di Roma, coll’estendersi delle sue conquiste, col moltiplicarsi delle sue colonie, andò sempre più allargandosi a tutta l’Italia l’area dell’economia contadinesca, e nel tempo stesso decaddero i centri isolati di economia capitalistica. Non è necessario rifare qui la storia delle città greche dell’Italia meridionale: una dopo l’altra, con poche eccezioni, esse caddero nelle mani dei limitrofi Sanniti. Alcune di esse scomparvero; altre – cioè tutte le città della Campania, tranne Napoli e poche altre – iniziarono una nuova vita come città sannitiche, vale a dire come città di contadini sul tipo di Pompei. Non si sa quale sorte sia toccata alle città etrusche dopo la conquista romana. La maggior parte di esse furono popolate di coloni romani, alcune probabilmente continuarono la loro antica vita di grandi signori terrieri e di servi. Le guerre puniche da un lato accentuarono la decadenza dei pochi centri di vita economica progressiva esistenti in Italia e nei dominii cartaginesi nonché nella zona greca della Sicilia, dall’altro lato aumentarono l’area della colonizzazione romana. Coloni latini e romani si stanziarono nei paesi già celtici dell’Italia settentrionale, e un certo numero se ne stabilì anche nelle regioni devastate dell’Italia centrale e meridionale. Le nuove province romane – Sicilia e Sardegna, probabilmente anche Spagna – lì per lì non attrassero molto i coloni romani, e conservarono il tipo di vita economica prevalente prima della conquista romana. L’antico regno di Gerone continuò ad essere governato secondo i criteri e i metodi di questo re. Le zone puniche della Sicilia, della Sardegna, della Spagna, rimasero per lo Stato romano quello ch’erano state per Cartagine: granai e depositi di svariati metalli. In effetti anche la porzione greca della Sicilia, come appare dal quadro datone da Cicerone, fu ridotta a granaio di Roma. Nonostante queste prime annessioni di dominii del Senatus populusque romanus, lo Stato romano rimase ancora per un certo tempo Stato di contadini. Furono eserciti di contadini quelli con cui Roma vinse i Fenici; e i medesimi contadini furono i conquistatori dell’Oriente. Quest’ultima conquista è stata già raccontata precedentemente. Quali furono le conseguenze economiche delle vittorie conseguite da Roma su Cartagine e sugli Stati orientali? Dobbiamo tener presente ch’esse erano state vittorie dello Stato romano, cioè del popolo di contadini, e a un tempo dei capi politici e militari di questo Stato, membri dell’aristocrazia ereditaria dirigente, del Senato romano. In quanto le vittorie erano opera dello Stato, significavano per lo Stato come tale un grandissimo e incessante aumento di ricchezza. Oltre all’acquisto di immense somme di denaro e di innumerevoli oggetti preziosi d’oro e d’argento, Roma diventò grande proprietaria di terre. Divennero proprietà dello Stato, così in Italia come negli antichi dominii cartaginesi trasformati ora in province romane, ampie estensioni di terre da aratura e da pascolo, foreste, pescherie lacustri e fluviali, miniere, cave. Le terre aratorie, che a mano a mano vennero così accumulandosi, furono per la maggior parte divise tra cittadini romani, ivi trasferiti a formarvi nuove colonie di contadini. Tuttavia l’aumento numerico dei cittadini romani e latini non procedè, neppure in Italia, di pari passo con l’incremento dell’ager Romanus, specialmente dopo le guerre galliche e puniche. La fondazione di nuove colonie fu suggerita più da considerazioni politiche che da
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necessità economiche. Non deve parerci strano che la maggior parte di esse sia stata inviata nell’Italia settentrionale: si trattava infatti di difender la penisola contro le pericolose invasioni nordiche. Roma non dimenticò mai ch’era stata una volta presa dai Galli, né che questi avevano fornito ad Annibale i suoi migliori soldati. Il mezzogiorno d’Italia, devastato e in decadenza, era meno esposto al pericolo, e naturalmente meno attraente per i coloni romani e latini, fatta eccezione della Campania, che però fu anch’essa solo parzialmente colonizzata da cittadini romani e conservò sostanzialmente la sua fisionomia sannitica. Dobbiamo ammettere che la maggior parte delle città campane durante le guerre puniche si fossero conservate fedeli a Roma. In tal modo vasti tratti di terreno, anche di terreno arabile, pervennero nelle mani dello Stato romano, non di singoli contadini romani. Ma non soltanto lo Stato si arricchì per effetto delle guerre puniche e orientali: anche i cittadini romani parteciparono ai benefici di esse. La parte del leone toccò ai comandanti degli eserciti romani, membri dell’aristocrazia senatoria. Da tempi immemorabili costoro erano i più ricchi tra i contadini romani, allo stesso modo che la classe corrispondente delle città latine e alleate. Le guerre di conquista aumentarono grandemente la loro ricchezza, mettendo nelle loro mani gran quantità di schiavi e di capi di bestiame9, e la parte migliore della preda delle città saccheggiate. Essi ritornavano in Italia con le «cinture» (o, diremmo noi, con le tasche) piene di monete, o almeno con folte schiere di schiavi e greggi di bestiame che non avessero macellato sul posto. Inoltre, dalla classe senatoria erano presi gli uomini che il Senato mandava ad amministrare le nuove province, gli antichi dominii cartaginesi. Abbiamo visto che questi dominii, come pure la zona greca della Sicilia, l’antico regno di Gerone II, rimasero nell’antica condizione, vale a dire furono considerati dal popolo romano come parti della sua proprietà, come suoi possessi (praedia populi Romani). Come terre di conquista, essi furono governati da ufficiali militari, magistrati del popolo romano, forniti di poteri quasi illimitati. Lo stesso sistema, come s’è già visto, fu applicato ai territori annessi in Oriente. In tal modo il governo delle province divenne per la classe senatoria nuova fonte di ricchezza. Infine la forza stessa delle circostanze, e anzitutto la crescente ricchezza, indusse questa classe a partecipare sia alle operazioni di credito, che, come abbiamo visto, furono naturale conseguenza delle conquiste orientali, sia,
9. Nel mio libro indicato nella nota 2 si dimostrerà che la preda di guerra fatta dai Romani in Grecia e nell’Asia Minore consisté principalmente in uomini e in bestiame (uno dei più importanti testi che danno luce su quest’argomento è PLUT., Luc., 14, 25, che parla dell’Asia Minore). In questo periodo la Grecia era paese poverissimo già rovinato dalle guerre barbaricamente condotte della fine del III e degli inizi del II sec. a.C. Intorno alla povertà della Grecia in questo periodo vd. POLYB., II, 62, e l’articolo magistrale di A. WILHELM, Urkunden aus Messene, negli «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 17 (1914), pp. 90 sg. e 107 sgg., cf. H. LIPSIUS nel «Rh. Mus.», 71 (1916), pp. 161 sgg. L’Asia Minore era più ricca, ma anche la sua ricchezza consisteva principalmente in bestiame e uomini, ch’era assai più facile catturare e vendere che non il denaro monetato e gli oggetti di valore delle case.
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2. Buoi con aratro
3. Vacche con carro
1. Porcaro
4. Maiali, pecore, capre
5. Vita contadinesca
TAV. III – QUADRI DI VITA ITALICA DELLA
TARDA ETÀ REPUBBLICANA
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III
1. STELE FUNERARIA DI BOLOGNA. Museo civico di Bologna. G. DALL’OLIO, Iscrizioni sepolcrali romane scoperte nell’alveo del Reno presso Bologna (1922), pp. 121 sgg., n. 59 fig. 27; «Not. d. scavi», 1898, pp. 479 sgg. n. 15 fig. 3. L’iscrizione della stele è un ammonimento metrico al lettore perché non profani il sepolcro: non contiene il nome del defunto. La figura rappresenta un suarius (porcaro) in tunica con cintura, appoggiato ad un bastone: davanti a lui un branco di sette maiali. Si osservi che l’Italia settentrionale ebbe un allevamento di maiali rinomato dall’età preistorica fino al periodo romano; POLYB., II, 15 dice che la carne di maiale prodotta dalla regione padana serviva ad alimentare non soltanto la popolazione dell’Italia, ma anche l’esercito; STRABO, V, 218 aggiunge che da questa regione si portavano grandi quantità di carni di maiale a Roma. Cf. la stele funeraria d’un mercator frumentarius presso DALL’OLIO, op. cit., p. 118 n. 58 fig. 26. Inizi del sec. I d.C. 2-4. GRUPPO DI FIGURINE DI BRONZO. Rinvenute presumibilmente a Civita Castellana. Metropolitan Museum of Art, New York. G.M. RICHTER, «Bulletin of the Metr. Mus.», 1910, aprile, pp. 95 sgg., fig.; Catalogue of Bronzes of the Metr. Mus., nn. 712-725; H. MC CLEES, The Daily Life of the Greeks and Romans (1924), pp. 109 sgg.; M. ROSTOVTZEFF, Ein spätetruskischer Meierhof, in Antike Plastik. Festschr. W. Amelung, pp. 213 sgg. tav. 17. L’età e incerta (vd. infra). Il gruppo è composto di due tori, due vacche, un cinghiale, una scrofa, un montone, una capra. S’aggiungono due gioghi, un aratro, un carro. L’ordine delle figure 2-4 è quello del Metrop. Museum. I due buoi vanno certamente uniti all’aratro e a uno dei gioghi, le due vacche al carro e all’altro giogo, o viceversa. Il tutto offre una perfetta rappresentazione dell’inventario vivo e morto d’una fattoria contadinesca. L’aratro rassomiglia a quello della tav. II, 2. È di legno, e conserva accuratamente le connessure del legname originario. Il timone è assicurato alla stanga con cavicchi, il vomere alla parte ricurva del legno con cinghie o corde. Il carro è «una semplice piattaforma con un telaio anteriore e uno posteriore, poggiata su due massicce ruote». Il complesso è affatto realistico, e lo stile non permette di assegnargli una data anteriore al periodo ellenistico; tuttavia il lavoro è italico, non greco. È una coincidenza notevole che animali domestici simili a questi si trovino raffigurati sulle barchette arcaiche rinvenute di frequente in tombe paleoetrusche, italiche, sarde. Il migliore esempio è quello della Tomba del duce a Vetulonia. Sulla bastinga della navicella trovata in questa tomba sono legati un cane, un paio di buoi aggiogati (con resti d’un aratro di ferro), maiali, capre, pecore; quasi tutte queste bestie sono provvedute di cesti, dai quali mangiano. Nell’interno della barca si vedono sparse delle spighe di grano oppure della paglia. Se siamo nel vero assegnando le figurine di Civita Castellana all’età ellenistica, dobbiamo ammettere una singolare continuità di tradizione secolare, nella quale non intervenne quasi alcun mutamento. Vd. FALCHI, «Not. d. scavi», 1887, p. 503 e tav. XVII; IDEM, Vetulonia, pp. 109 sgg.; MONTELIUS, La Civilisation prim. en Italie, tavv. 184-188; D. RANDALL MAC IVER, Villanovans and Early Etruscans (1924), p. 118, tav. XXII, 1. 5. PARTE D’UN MONUMENTO FUNERARIO. Sulmona. Museo di Sulmona. M. BESNIER, «Mém. de la Soc. d. antiqu. de France», VIIème série, 1 (1906), pp. 242 sgg.; M. ROSTOVTZEFF in Antike Plastik. Festschrift W. Amelung, p. 215 fig. 1. Tardo sec. I a.C. o inizi del I d.C. Il frammento offre scene della vita contadinesca. A sinistra un contadino appoggiato ad un bastone o ad un aratro, sorveglia le sue pecore (e maiali?). A destra di lui un altro contadino rattiene una pariglia di cavalli o di muli attaccati ad un carro carico. Più a destra ancora una donna, verosimilmente la moglie del precedente. Il rilievo raffigurerebbe forse la transumazione annua dalla montagna alla pianura (o viceversa)? L’iscrizione corrosa dice: «Avverto gli uomini: non diffidate di voi stessi», cioè lavorate di buona lena e sarete ricchi e felici.
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nonostante i divieti legali, all’attività commerciale che tenne dietro all’avvenuta concentrazione del capitale nelle mani di cittadini romani o italici10. Oltre alla classe senatoria di Roma e alla classe corrispondente delle città italiche alleate, un numero considerevole d’altri cittadini romani o italici partecipò ai profitti derivanti dalla posizione dominante assunta da Roma nel mondo civile. Tanto a Roma quanto in tutta l’Italia sorse una numerosa e influente classe di uomini d’affari. I membri di essa iniziarono la loro carriera di prosperità economica assistendo lo Stato, comprese le città alleate, nella messa in valore del vasto patrimonio reale da esso posseduto: terre aratorie, miniere, foreste, peschiere, case, botteghe ecc.; durante le guerre di conquista rifornirono gli eserciti di viveri, indumenti, armi; comperarono prede di guerra dallo Stato e dai comandanti, dagli ufficiali, dai soldati; nel corso delle campagne venderono a soldati svariate merci; e così via. Cessate le guerre, prestarono il denaro così acquistato agli alleati e vassalli di Roma, re o città; appaltarono la riscossione delle imposte e di altri pubblici proventi nelle province; si stabilirono in numero sempre maggiore nelle province medesime, prendendo parte attiva alla sviluppatissima vita d’affari dell’Oriente in qualità di prestatori di denaro, di mercanti, di proprietari di terreni e di bestiame in campagna, di case e botteghe nelle città11.
10. Nella letteratura moderna non esiste una buona trattazione dell’importante questione relativa alle sorgenti dei redditi della classe senatoria in generale. I libri più recenti intorno ad essa, cioè quelli di M. GELZER, Die Nobilität der römischen Republik (1912) e di F. MUENZER, Römische Adelsparteien und Adelsfamilien, 1920 (cf. M. GELZER, Die röm. Gesellschaft zür Zeit Ciceros, «Neue Jahrb. f. Klass. Alt.», 45 (1920), pp. 1 sgg.; W. KROLL, Die röm. Gesellschaft in der Zeit Ciceros, «Neue Jahrb. f. Wissensch. u. Jugendb.», 4 (1928), pp. 308 sgg. e Die Privatwirtschaft der Zeit Ciceros, «Neue Jahrb. f. Wissensch. u. Jugendb.», 5 (1929), pp. 417 sgg.), si occupano soltanto dell’aspetto politico e sociale dell’argomento. Non esiste neppure una buona monografia intorno a un così caratteristico rappresentante della nuova nobilitas (J. VOGT, Homo novus. Ein Typus d. röm. Republik [1926]) quale Cicerone, di cui conosciamo abbastanza bene la vita economica; vd. la più recente biografia di Cicerone scritta da T. PETERSSON, Cicero. A Biography, Berkeley (California), 1920, pp. 212 sgg., e la bibliografia molto incompleta ch’egli dà (ignora, p. es. la monografia di A. LICHTENBERGER, De Ciceronis re privata, Parigi, 1895), cf. FRUECHTL, Die Geldgeschäfte bei Cicero (1912). Son certo che uno studio accurato delle nostre fonti relative all’età repubblicana offrirebbe su questo problema materiali copiosi e istruttivi. 11. L’osservazione fatta nella nota 10 vale anche per la classe equestre in generale, vd. la mia Geschichte der Staatspacht in der römischen Kaiserzeit, 1902, pp. 367 sgg. Tuttavia sono state pubblicate due buone monografie intorno al membro più rappresentativo di questa classe, T. Pomponio Attico: I. GREAVES, Saggi sulla storia dei modi di proprietà della terra a Roma (in russo), vol. I, Pietroburgo, 1899, pp. 246 sgg., ed A.H. BYRNE, Titus Pomponius Atticus, Bryn Mawr, 1920. È a deplorarsi che la signorina Byrne non si sia avvalsa per il suo primo capitolo (Attico come uomo d’affari) dello studio del GREAVES, che avrebbe potuto trovar citato nel noto volume di G. SALVIOLI, Le Capitalisme dans le monde antique (1906), trad. tedesca 19222, ediz. ital. 1929. Il Salvioli ha su Attico alcune acute osservazioni (pp. 46 sgg.), che la Byrne ignora. Il notevole libro di A. STEIN, Der röm. Ritterstand (1927), dedica solo un breve capitolo alla più antica storia dell’ordine equestre anteriore all’Impero. Cf. B. KUEBLER, «Zeitschr. d. Savigny-St.», 48 (1928), pp. 651 sgg.
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Alcuni di questi uomini d’affari non si mossero mai dall’Italia, alcuni si recarono in Oriente, vi si fermarono a lungo, e a poco a poco restarono assorbiti dalla popolazione locale12. Ma forse la maggior parte di questi scaltri ed energici cacciatori di fortuna, dopo aver fatto denari in Oriente, se ne ritornava in Italia e v’investiva i suoi capitali. Quando la Sicilia, la Sardegna, porzioni della Spagna, della Gallia, dell’Africa furon diventate province romane, anche in esse gli affari romani estesero la loro attività. I membri più ricchi di questo nuovo ceto di capitalisti, cioè la classe dei cavalieri, vivevano per lo più a Roma e aspiravano all’onore di entrare a far parte della classe senatoria mediante l’elezione ad una magistratura. I più tuttavia restavano nelle loro città native, ch’erano le colonie romane o latine d’Italia o città italiche alleate. Ivi prendevano posto accanto alla classe senatoria municipale, se pure non appartenevano ad essa, e insieme con essa formavano lo strato superiore della popolazione. L’influenza esercitata dal denaro, dagli schiavi, dai prodotti di varia specie, dal bestiame, venuti dalle province, stimolò poderosamente la vita economica dell’Italia. Il capitale ormai concentrato nelle mani di cittadini romani e di abitanti delle città italiche rimaneva in parte nelle province, ma per la maggior parte affluiva in Italia. Questi nuovi ricchi acquistavano le loro fortune per lo più mediante speculazioni; ma, una volta conseguita la ricchezza, naturalmente cercavano per essa l’investimento più sicuro, che assicurasse loro una vita comoda e piacevole nel proprio ambiente. L’investimento più sicuro e più atto a garantire una vita di riposo e di godimento nelle città era l’acquisto di terre, e subito dopo il prestito di danaro e l’impiego di esso in qualcuna delle industrie italiche. Questa tendenza dei ricchi capitalisti riusciva ben accetta allo
12. Intorno al gran numero d’Italici che affluivano in Oriente vedi l’ottimo libro di J. HATZFELD, Les Trafiquants italiens dans l’Orient hellénique, 1919 («Bibl. des Éc.», 115), cf. T. FRANK, Economic History, 19272, p. 290; P. ROUSSEL, Délos colonie athénienne, 1916 («Bibl. des Éc»., 111), pp. 72 sgg.; CH. PICARD nel «B. C. H.», 44 (1920), pp. 263 sgg.; M. BESNIER nel «Journ. Sav.», 1920, pp. 263 sgg.; P. ROUSSEL, Délos (1925), pp. 15 sgg. e le note del DURRBACH, Choix d’inscriptions de Délos (1921-1922) ai nn. 64, 65 e specialmente 66, cf. 132, 138 e 141. Cf. M. BULARD, La Religion domestique dans la colonie italienne de Délos, 1926 («Bibl. des Éc.», 131); cf. il mio capitolo Rhodes and Delos nella C. A. H., VIII (con bibliografia). Dall’Italia meridionale provengono anche i cittadini romani menzionati nel terzo editto augusteo di Cirene (vd. cap. II, n. 5 e 5a), A. VON PREMERSTEIN, «Zeitschr. d. Savigny-Stif.», 48 (1928), pp. 458 sgg. [e 51 (1931), pp. 431 sgg.]; J. STROUX e L. WENGER, Die Augustusinschrift auf dem Marktplatze von Kyrene, «Abh. Bayr. Ak.», 34 (1928), Abh. 2. La forte corporazione di cittadini romani in Laconia, menzionata in un’iscrizione di Gythion dell’età di Tiberio, era senza dubbio d’origine più antica (vd. infra). Intorno alla famiglia degli Apustii di Abdera, vd. A. WILHELM nei «Sitzb. Wien. Akad.», 183 (1921), pp. 21 sgg., e M. HOLLEAUX nel «B. C. H.», 38 (1914), pp. 63 sgg., cf. G. SEURE, ibid., 36 (1912), p. 614. La maggior parte dei negotiatores italici erano senza dubbio semi-Greci dell’Italia meridionale, ma alcuni provenivano certamente da altre parti d’Italia, se non dalla stessa Roma, vd. J. HATZFELD, op. cit., pp. 238 sgg., S.B. KUGEAS, ∆Epigrafikai; ejk Guqeivou sumbolaiv, «ÔEllhnikav», I (1928), pp. 7 sgg. e 152 sgg., e M. ROSTOVTZEFF, L’Empereur Tibère et le culte impérial, «Rev. hist.», 163 (1930), pp. 1 sgg. con indicazione della letteratura relativa all’iscrizione di Gythion.
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Stato. Questo, come si è detto, possedeva ormai un immenso patrimonio immobiliare così in Italia come nelle province; orbene, se non si volevano lasciare inoperose queste grandi risorse – il che sarebbe stato contro il pubblico interesse, che richiedeva molto denaro per gli edifici pubblici, per gli acquedotti, per la costruzione di strade militari, per il culto pubblico delle divinità, compresivi i giuochi – bisognava in qualche maniera sfruttarle; il che non era possibile se non attirando a valorizzarle il capitale privato. Non deve quindi recar meraviglia che lo Stato abbia incoraggiato i nuovi capitalisti ad investire il loro denaro soprattutto nell’acquisto dei vasti tratti di terreno aratorio e da pascolo, che giacevano incolti, specialmente nell’Italia settentrionale e meridionale, dopo gli orrori delle guerre galliche e puniche. Non vi era alcun altro modo di ridare questi terreni alla coltivazione. Il numero dei cittadini romani ed italici residenti in Italia era scemato a motivo non soltanto delle perdite sofferte nelle guerre, ma anche della sempre crescente emigrazione diretta in un primo tempo verso l’Oriente, e poi anche verso l’Occidente. In Italia non v’erano più abbastanza contadini da allogare nelle terre incolte. Invece v’erano grandi masse di schiavi e uomini desiderosi di adoperarle nella coltivazione del suolo. È naturale che il Senato romano abbia dato a questi uomini ogni opportunità di restaurare la sconvolta vita economica d’Italia, sia affittando loro in via regolare, per il tramite dei censori incaricati appunto di queste operazioni, ampi tratti di terreno, sia permettendo loro di occuparli senza formalità legali, col solo obbligo di pagare allo Stato una parte del prodotto dei fondi così acquistati. Questa è la ragione per cui nel secolo II a.C. si verificò una sempre più rapida concentrazione della proprietà agraria. I possessori di essa erano membri delle classi senatoria ed equestre di Roma, oppure i più energici, accorti ed esperti fra gli abitanti delle città italiche e alleate o delle colonie romane e latine. Questi uomini però non intendevano affatto stabilir la loro dimora nelle tenute e lavorar la terra con le proprie mani: fin dal primo momento essi furono semplici possessori della terra, non coltivatori diretti di essa, e perciò andarono ad accrescere il numero dei proprietari agrari residenti nelle città, a detrimento dei contadini che abitavano sui fondi e li lavoravano con le proprie mani. Dall’altro lato questo stesso ceto di persone, investendo il suo denaro in intraprese industriali e creando nuove botteghe e fabbriche gestite col lavoro di schiavi, fece rivivere le antiche industrie della Campania e dell’Etruria a spese dei piccoli artigiani liberi13.
13. Non occorre insistere su questi punti, che sono stati trattati diligentemente da T. FRANK, Economic History, 19272, pp. 90 sgg. (agricoltura) e pp. 108 sgg., 219 sgg. (industria); cf. H. GUMMERUS, Handel und Industrie in «R. E.», IX, 2, coll. 1444 sgg.; W. HEITLAND, Agricola. A Study of Agriculture and Rustic Life in the Greco-Roman World from the Point of View of Labour, Cambridge, 1921, che dà una buona collezione di citazioni di autori greci e romani cronologicamente disposte; e R. SCALAIS, La Production agricole dans l’État romain et les importations de blés provinciaux jusqu’à la 2me guerre punique, «Musée Belge», 1925, pp. 143 sgg. [Cf. G. CURCIO, La primitiva civiltà latina agricola e il libro dell’agricoltura di M. Porcio Catone, 1929]. Sull’agricoltura scientifica in
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I membri dell’antica e della nuova aristocrazia di Roma e dell’Italia per lo più avevano acquistato la loro ricchezza in Oriente e s’erano famigliarizzati col sistema capitalistico ivi predominante: ora lo introdussero nell’agricoltura e nell’industria italica, valendosi a tal fine dei manuali greci d’agricoltura scientifica e capitalistica, che vennero tradotti dalle lingue punica e greca in latino, diventando così accessibili a tutti in Italia. Possiamo tener per sicuro che manuali consimili siano esistiti anche per l’industria, o almeno trattati che mirassero a rendere generalmente accessibili i progressi fatti in questo campo speciale dalla tecnica greca. Nell’Oriente ellenistico l’attività capitalistica, in quanto applicata all’agricoltura, si concentrava quasi interamente nella produzione del vino e dell’olio d’oliva, principali articoli d’esportazione degli agrari ellenistici, si avevano buoni proventi anche dall’allevamento metodico del bestiame; invece la produzione del grano era abbandonata quasi affatto ai contadini, ch’erano in parte piccoli proprietari in parte affittuari o servi dei grandi proprietari. È cosa del tutto naturale che questo sistema sia stato imitato dai discepoli ed eredi degli agrari ellenistici, dall’aristocrazia e dalla borghesia di Roma e delle città italiche. Costoro applicarono il sistema capitalistico di produzione anche alle aziende industriali, specialmente a Roma, in Etruria, nella Campania. Per alcune parti dell’Italia le tendenze capitalistiche della seconda meta del sec. II a.C. e l’introduzione dei sistemi economici ellenistici nell’agricoltura erano, come si è visto, non già novità, ma rinascita d’antiche forme economiche. Lo svolgimento del sistema capitalistico fu favorito, oltreché dall’esistenza di un’antica tradizione e dalle ricche risorse naturali dell’Italia, anche da vari altri fattori, e in prima linea dall’abbondanza e dal buon mercato della mano d’opera. Ingenti masse di schiavi, provenienti per lo più dalla Grecia e dall’Asia Minore, vennero riversate in Italia: si trattava in parte di abili artigiani, in parte di uomini usi a lavorare sulle tenute gestite sistematicamente dei re ellenistici e della borghesia ellenistica. Questo afflusso non cessò mai per tutto il corso dei secoli II e I. D’altro canto si offrivano adesso magnifiche occasioni per lo smercio dei prodotti italici, specialmente olio di olive, vino, oggetti metallici, ceramiche. I principali mercati di vendita della produzione italica erano le parti occidentali del mondo antico: la Gallia, la Spagna, l’Africa da un lato, i paesi settentrionali e danubiani dall’altro. Dopo la seconda guerra punica Cartagine aveva cessa-
Italia: G. MICKWITZ, Economic Rationalism in Graeco-Roman Agriculture, «Engl. Hist. Rev.», vol. 52, fasc. 208 (1937), pp. 577-589. Parlando di metodo scientifico io usavo in entrambi i casi termini moderni ma nel loro senso antico. L’agricoltura era scientifica dal momento che si basava su trattati scientifici. Questi trattati naturalmente erano scientifici nel senso antico del termine. La scienza antica che si occupava di agricoltura non aveva basi sperimentali ma empiriche, in quanto i trattati non erano altro che raccolte sistematiche di esperienze passate e presenti nelle agricolture locali e straniere. Non era un’economia pianificata nel senso stretto, dal momento che Mickwitz mostra che il nuovo sistema di contabilità sul quale si basa l’economia pianificata matura è quello che fu inventato da Young. Con «capitalistico» io intendo anche i meccanismi del capitalismo antico che lo rendono identico al moderno.
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to d’essere la prima potenza commerciale dell’Occidente, e aveva ristretto la sua attività al perfezionamento della propria agricoltura, specialmente al giardinaggio intensivo e alla coltivazione della vite e dell’olivo14. L’eredità di Cartagine era passata ai suoi antichi rivali, ai Greci di Sicilia e dell’Italia meridionale, diventati fedeli alleati di Roma: non vi aveva avuto parte invece la sezione orientale del mondo greco, avviata in quel momento a graduale decadenza economica. La distruzione di Cartagine portò alla definitiva e completa scomparsa della città punica dal novero delle potenze commerciali ed economiche. Verosimilmente furono i capitalisti e gli agrari italici, con alla testa Catone, a volere la distruzione della città. Essi erano diventati grandi produttori di vino e olio, e avevano quindi buone ragioni per volersi disfare di quella pericolosa rivale e per trasformarne il territorio, da paese di frutteti, vigneti, oliveti, in vasti campi di grano15.
14. S. GSELL, Histoire de l’Afrique du Nord, IV (1918), pp. 1 sgg., e specialmente pp. 18 sgg. Lo sfruttamento del suolo del territorio di Cartagine venne certamente intensificato dopo la seconda guerra punica, giacché era rimasto ormai l’unica sicura fonte di proventi tanto per lo Stato quanto per l’aristocrazia cartaginese. Si osservi che subito dopo la seconda guerra punica Cartagine, insieme con la Numidia, la Sicilia, la Sardegna, poteva fornire grandi quantità di cereali per l’approvvigionamento della città di Roma e dell’esercito romano: LIV., 31, 19 (200 d.C.) - 200.000 modium tritici per Roma e ugual quantità per l’esercito di Macedonia; 35, 3, 1 sgg. (191 a.C.) - Cartagine offre gratuitamente una grande quantità di frumento; il Senato è disposto ad accettarla, purché però Roma possa pagarla. Cf. il mercante cartaginese che vende grano alla città di Istros all’inizio del II sec. a.C.: S. LAMBRINO, Fouilles d’Histria, «Dacia», 3-4 (1927-1932), p. 401, n. 3.
15. La parte decisiva avuta dai grossi proprietari di terre nella decisione di distrugger Cartagine è illustrata dal noto aneddoto del ritorno di Catone da un’ambasceria sostenuta in quella città e della sua comparsa in Senato col grembo pieno di fichi freschi. Non dobbiamo dimenticare che Catone era uno dei proprietari agrari più progressivi del suo tempo, e che nel suo manuale di agricoltura patrocinò vigorosamente la causa della piantagione di vigneti, oliveti, frutteti; vd. H. GUMMERUS, Der römische Gutsbetrieb ecc., in «Klio», Suppl. V (1906), pp. 19 sgg., cf. E. CAVAIGNAC, Population et capital dans le mond méditerranéen antique, 1923 (Fac. des lettres de l’Univ. de Strasbourg), pp. 95 sgg. (generalizzazioni audaci fondate su scarsi dati). Cartagine, coi suoi fiorenti verzieri ed oliveti, era rivale pericolosa per i proprietari agrari italici, specialmente a motivo delle sue antiche relazioni commerciali coi mercati d’Occidente. Non posso in questo punto andar d’accordo col FRANK, Economic History, 19272, p. 115, nota 15, il quale ritiene che nel sec. II a.C. l’Italia non avesse alcuna importanza nella vita economica del mondo. I dati riferiti nella nota 12 mostrano l’importanza che avevano per la vita economica della Grecia, agli inizi del sec. II a.C., i banchieri e grandi mercanti italici (DURRBACH, Choix, 64 e 66), e quella dell’esportazione del vino e dell’olio dall’Italia agli inizi del sec. I a.C. (DURRBACH, Choix, 141 e 142). L’esportazione di vino e d’olio cominciò indubbiamente in una data anteriore a quella cui risalgono le due iscrizioni conservate (cf. il gran numero d’anfore con marchi italici, rinvenute a Delo). Il FRANK ritiene che dopo la seconda guerra punica il territorio di Cartagine non sia stato più sufficiente neppure a nutrire la popolazione della città. Ne dubito molto (vd. supra, nota 14). Ma se anche ciò fosse, sarebbe questo appunto il motivo per cui Cartagine moltiplicò i suoi frutteti e oliveti. Coltivato a frutteto, il territorio poteva produrre frutta e olio in quantità sufficien-
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Non dobbiamo sminuire l’importanza dei mercati settentrionali e occidentali e del loro potere d’acquisto. La Gallia era un paese ricco, molto propenso a comperar vino, olio, e merci manifatturate, che le città greche della Gallia e (nell’ultimo quarto del sec. II) quella parte del paese che era stata occupata dai Romani non producevano in quantità sufficiente. Nella Spagna e in Britannia vigevano condizioni di vita a un dipresso identiche a quelle della Gallia. La classe dominante in Britannia e anche in una parte della Spagna apparteneva allo stesso ceppo celtico. La parte iberica della Spagna era poi assuefatta da secoli alle importazioni greche e fenicie. Perfino la Germania e i paesi danubiani andavano a poco a poco accostumandosi ai prodotti dell’attività economica greco-italica16.
te a coprire la spesa dell’importazione del grano. Naturalmente dopo l’ultima guerra punica Roma non distrusse anche le altre città che al pari di Cartagine producevano olio. Crede forse il FRANK che i senatori romani fossero privi d’ogni sentimento di onore? Il commercio del vino e dell’olio era la sorgente principale della crescente prosperità dell’Italia, cf. le iscrizioni attestanti che il vino della Campania s’esportava persino in Africa (166-157 a.C.) C. I. L. VIII, 22637, 62; X, 8051, 20; S. GSELL, Histoire de l’Afrique du Nord, IV, p. 150; e PLIN., Nat. hist., XIV, 1 (nel terzo consolato di Pompeo, 52 a.C., l’Italia forniva olio alle province; Plinio probabilmente pensa alle province orientali). Cf. nota 16. 16. Circa le condizioni vigenti in Gallia prima della conquista romana vedi l’opera eccellente di C. JULLIAN, Histoire de la Gaule, II, 1908, p. 330. Cf. A. GRÉNIER, La Gaule romaine, in T. FRANK, An Economic Survey of Ancient Rome, III, Baltimore, 1937, pp. 382 sgg. Si osservi che l’Italia esportava allora in Gallia molti prodotti di fabbrica (metallur-
gici e tessili); verosimilmente era vietata l’esportazione di cavalli (LIV., 43, 5, 8 sgg.). La merce che principalmente s’importava dall’Italia era tuttavia il vino, come dimostrano le numerose anfore di tipo italico e con marchii italici, che sono state trovate nelle città celtiche di tutta la Gallia centrale, vd. O. BOHN, Die ältesten römischen Amphoren in Gallien, «Germania», 7 (1923), pp. 8 sgg. [e 9 (1925), pp. 78 sgg.]. Cf. GRÉNIER, loc. cit., p. 431 sgg. (con buona bibliografia). Il BOHN ha dimostrato che già verso la metà del sec. II a.C. s’iniziò un vivo commercio di vino italico e che le anfore (dello stesso tipo di quelle rinvenute in Delo e a Cartagine), provenivano dall’Italia meridionale e dalla Sicilia. I marchii di queste anfore sono raccolti nel C. I. L. XIII, 3. Il vino italico indubbiamente si fece strada anche nella regione del Reno. È molto interessante uno dei marchii che lo attestano (trovato a Coblenza): reca il nome di Postumo Curio, la stessa persona che poi trasformò il suo nome in quello di C. Rabirio Postumo e che è nota quale cliente di Cicerone, cuius res in pluribus provinciis versata est (CIC., Pro Rab., 4). Lo stesso marchio (DESSAU, 9445; C. I. L. I2, 2340) è stato trovato su anfore dell’Italia meridionale e della Sicilia. Cf. H. DESSAU, in «Hermes», 46, p. 613; 47, p. 320; O. BOHN, op. cit., p. 15. Cf. A. OXÉ, in «Germania», 8 (1924), pp. 80 sgg. L’OXÉ ha dimostrato che la maggior parte dei nomi che in questi marchii appaiono scritti per intiero appartengono a persone di grado senatorio ed equestre dell’età di Cicerone e di Cesare. Indubbiamente questi individui erano proprietari di vigneti nell’Italia meridionale e in Sicilia. L’importanza del mercato danubiano è messa in rilievo dal rapido sviluppo di Aquileia, centro del commercio italico coi paesi del Danubio. L’esportazione di vino e olio in queste regioni trasformò a poco a poco l’Italia settentrionale, da paese di maiali, pecore, grano, in paese di vigneti; vedi il quadro che ne dà ERODIANO per la fine del II e gli inizi del III sec. d.C. (VIII, 2, 3): hJ de; A ∆ kulhvia […] w{sper ti ejmpovrion ∆Italiva~ ejpi; qalavtth/ prokeimevnh
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I su descritti mutamenti, verificatisi in Italia nel corso del secolo II a.C., ebbero gravi ripercussioni sulla vita politica, economica, sociale del paese. Roma non fu più uno Stato di contadini governato da un’aristocrazia di più ricchi proprietari terrieri anch’essi per lo più diretti agricoltori: in tutta l’Italia si costituì ora non solo una potente classe di uomini di affari, ma anche una borghesia urbana realmente agiata. In realtà soltanto nel II secolo l’Italia divenne paese di città nel senso greco di questa parola. Parecchie antiche città, in parte di origine etrusca o greca, videro inaspettatamente rinascere l’antica prosperità. Molti piccoli centri urbani, villaggi, luoghi di mercato, borgate, non soltanto ricevettero costituzioni urbane, ma assunsero l’aspetto economico e sociale di vere città. Ciò si doveva alla crescente importanza della menzionata classe di commercianti e proprietari di terre residenti nelle città, i quali durante la loro dimora nell’Oriente ellenistico s’erano abituati alle comodità della vita cittadina e avevano fatto propri gli ideali della classe borghese; al ritorno essi promossero la vita di città e gli ideali borghesi anche in Italia. Questa nuova borghesia urbana non prendeva parte attiva alla vita politica dello Stato, in cui la parte direttiva era tuttora tenuta dall’aristocrazia romana. La borghesia, tutta assorbita nell’opera di organizzare la propria vita economica e di edificare le sue città (ad esempio Pompei, con le sue belle case del periodo del tufo, ornate di artistiche facciate, di sfarzose pitture parietali e di mosaici), non aspirava affatto a partecipare alla vita politica della capitale. Del resto essa era perfettamente contenta della politica seguita dai capi dello Stato romano. I suoi interessi materiali del pari che i suoi ideali politici per lo più si accordavano con quelli dell’aristocrazia romana. Al pari dei membri di quest’ultima classe, anche la borghesia municipale generalmente investiva il suo denaro in terreni italici, coltivati principalmente a vigneto o ad oliveto o lasciati a pascolo. Così si spiega il tacito consenso da essa dato alla spietata politica romana verso Cartagine e a certi provvedimenti del Senato, fra cui il divieto di piantar vigne nelle province occidentali novellamente acquistate da Roma17.
kai; pro; tw`n ∆Illurikw`n ejqnw`n pavntwn iJdrumevnh […] pro;~ oi\novn te mavlista poluvgonon cwvran gewrgou`nte~ ajfqonivan potou` parei`con toi`~ a[mpelon mh; gewrgou`sin. Cf. VIII, 4, 5: descrizione del territorio di Aquileia interamente coperto di vigneti; e STRABO, IV, 207; V, 214; VII, 314. Su Aquileia e la sua importanza commerciale, E. MAIONICA, Aquileia zur Römerzeit, Gorizia, 1881; H. NISSEN, Italische Landeskunde, II, pp. 229 sgg.; CH. HUELSEN, «R. E.», II, coll. 318 sgg., cf. H. WILLERS, Neue Untersuchungen über die römische Bronzeindustrie (1907), pp. 27 sgg.; A. GNIRS, negli «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 18 (1915), p. 143 (commercio d’oggetti d’avorio); H. GUMMERUS, «R. E»., IX, 2 col. 1469; L. FRIEDLAENDER e G. WISSOWA, Sittengeschichte Roms, I, 9a-10a ediz., p. 375; K. HERFURTH, De Aquileiae commercio, Halle, 1889; A. CALDERINI, Aquileia romana (1929); G. BRUSIN, Aquileia. Guida storica e artistica (1929). Do qui la bibliografia per non dover ripetere i riferimenti allorché riparlerò di Aquileia. Cf. cap. II, nota 33. G. BRUSIN, La vita ad Aquileia all’epoca dei Giulio-Claudii, «Atti dell’Accademia di Udine», VI ser., 3 (19361937), pp. 17 sgg. Per gli scavi: «Aquileia nostra. Bollettino dell’Associazione nazionale per Aquileia», voll. I-IX, 1929-1938.
17. Non vedo perché il FRANK persista nel ritenere che il provvedimento del Senato, preso all’incirca nel 154 (o 125) a.C., fosse inteso a proteggere la viticoltura di Marsiglia,
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Come i senatori e i cavalieri romani, anche i borghesi dei municipi investivano il loro denaro in vigneti e oliveti di Grecia e d’Asia Minore18. Per conseguenza essi appoggiavano la politica che il Senato seguiva in Oriente, prendendo anzi larga parte allo sfruttamento economico e finanziario delle province in generale. Furono perciò convinti sostenitori del governo, allorché esso mosse i primi passi sulla via dell’imperialismo. Il crescente arricchimento delle due classi superiori dei cittadini romani ebbe profonda influenza sulla vita politica, sociale, economica dello Stato.
non quella dell’Italia, e fosse quindi limitato ad una ristrettissima zona delle vicinanze di quella città (Roman Imperialism, p. 280; Economic History, 19272, p. 116, nota 19). CICERONE (De Rep., III, 6, 9) attesta positivamente che il provvedimento era volto a proteggere gli interessi dell’Italia, non quelli di Marsiglia. Nel 76-74 a.C. s’importava in Gallia grande quantità di vino (CIC., Pro Font., 9, 9, cf. DIOD. V, 26, 3; O. BOHN, in «Germania», 7 (1923) p. 9. La proibizione fu tolta probabilmente più tardi, nel sec. I a.C., allorché la Gallia meridionale divenne paese d’intensa colonizzazione italica, in fatto una parte dell’Italia; vedi S. REINACH, nella «Rev. Arch.», 1901 (II), p. 350-74; M. BESNIER, ibid., 1919 (II), p. 34; C. JULLIAN, Hist. de la Gaule, III, p. 99; IV, pp. 183 sgg., cf. O. BOHN, loc. cit., p. 13. Non v’era niente di nuovo o di speciale in questo trattamento fatto da Roma alla Gallia. Roma sotto questo riguardo era l’erede di Cartagine, che s’era sempre studiata d’impedire alle sue province (Sicilia, Sardegna, Spagna) di coltivare la vite e l’olivo. Per Cartagine le province erano a un tempo mercati per la vendita del vino e dell’olio prodotti nel territorio delle città puniche d’Africa, e granai che permettevano alle città medesime di svolgere la coltivazione della vite e dell’olivo. Quindi i provvedimenti di Cartagine volti a favorire la granicoltura e la proibizione della viticoltura nelle sue province. La concorrenza nel commercio del vino e dell’olio (in parte importati, in parte prodotti sul luogo) fu la causa principale delle guerre incessanti fra Cartagine e le città greche della Sicilia e dell’Italia meridionale. Poiché l’Etruria non produceva vino né olio, era una naturale cliente, amica e alleata di Cartagine. La politica seguita da quest’ultima almeno verso la Sicilia e la Sardegna, e più tardi anche verso l’Africa medesima, fu ereditata e attuata dai Romani con lo stesso spirito e per le stesse ragioni. Quindi il quadro che Cicerone dà della Sicilia come provincia produttrice principalmente di grano; la mancanza dl vigneti e di oliveti in Sardegna fino al tardo periodo imperiale; il tardo sviluppo della viticoltura e dell’olivicoltura in Africa. La Gallia naturalmente venne sottoposta alla medesima politica, e così pure verosimilmente la Spagna nel sec. II a.C. (il FRANK, loc. cit., contro le mie vedute relative alla Spagna cita POLYB. 34, 8, che però parla della Lusitania preromana, e le note descrizioni di Varrone e di Strabone, che si riferiscono all’ultima parte del sec. I d.C.). L’azione di Domiziano rispetto alla piantagione di viti nelle province fu un ritorno a siffatta politica, vedi cap. VI. Intorno alla politica di Cartagine in Sardegna vedi E. PAIS, Storia della Sardegna e della Corsica durante il dominio romano (1923), II, pp. 505 sgg.; S. GSELL, Hist. ancienne de l’Afrique du Nord, IV, pp. 20 sgg., e sulla viticoltura p. 18 sgg. Una parte del vino esportato dai Cartaginesi veniva probabilmente dalla Grecia, GSELL, op. cit., IV, pp. 152 sg. Intorno alla politica dei Romani, PAIS, op. cit., I, pp. 329 sgg. 18. J. HATZFELD, Les Trafiquants italiens, pp. 212 sgg.; F. DURRBACH, Choix, n. 141. Circa i banchieri italici a Delo vd. le iscrizioni ricordate nella nota 12 del presente capitolo.
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L’investimento di molti capitali in vigneti e oliveti rialzò il valore dei terreni in molte parti d’Italia e indusse molti contadini a vendere le loro proprietà e ad andarsi a stabilire nelle città o ad emigrare in Oriente. Scemò così a poco a poco il numero dei contadini nei distretti adatti alla piantagione di vigneti o d’oliveti o all’allevamento del bestiame con sistemi capitalistici. Le guerre incessanti condotte dal Senato romano dopo la sconfitta di Annibale indebolirono economicamente i contadini italici: e questa fu una delle cause principali che permisero al capitale d’impossessarsi di vasti tratti di terreno non soltanto nell’Italia settentrionale ma anche nella centrale, la roccaforte del contadiname italico, e che trasformarono gran parte degli abitanti dell’Italia centrale da proprietari di terre in affittuari che coltivavano le terre di proprietà dei capitalisti romani e municipali. In Etruria questo male era largamente diffuso sin dalla prima metà del secolo II: caso speciale, questo, che si spiega con le condizioni particolari ivi prevalenti. Infatti sin dall’antichità più remota l’Etruria era stata un paese di grandi tenute e di folte masse di servi19. Come è ben noto, questi importanti mutamenti causarono in Italia un’acuta crisi. La diminuzione dei contadini proprietari e l’aumento numerico degli schiavi e degli affittuari, di conserva con l’accumulazione del capitale verificatasi specialmente nella città di Roma, fecero correre grave pericolo alla comunità romana. Il tradizionale regime aristocratico romano, fondato su un esercito di contadini-proprietari, a mano a mano degenerò in un’oligarchia di opulente famiglie nobili, mentre scompariva il nerbo militare dell’Italia, fondato sull’elemento contadinesco. Va ricordato infatti che al servizio militare erano tenuti soltanto i proprietari di terre: altro motivo, questo – è bene notarlo – che spingeva i contadini, per sottrarsi ai pesi militari, a vendere le loro terre ai grandi proprietari, rimanendovi in qualità di semplici affittuari. Il primo atto del dramma politico e sociale, di cui ora cominciò ad esser teatro l’Italia, fu il tentativo di radicale riforma politica, economica, sociale, fatto da Tiberio Gracco e rinnovato dopo la sua morte dal fratello Caio. Entrambi furono sostenuti dalla popolazione rurale d’Italia e dal proletariato senza terra delle città italiche. Il loro intento principale era simile a quello che già s’erano proposti molti capipopolo rivoluzionari nelle città della Grecia: infatti il punto di partenza e il punto d’arrivo delle loro riforme erano costituiti rispettivamente dalla redistribuzione della terra e dalla conseguente restaurazione del ceto contadinesco e dell’esercito, mentre lo stabilimento di un governo popolare sotto la direzione d’un solo uomo non era che la conseguenza necessa-
19. W. HEITLAND nel «J. R. S.», 8 (1918), p. 38, trova che il quadro da me dato nelle Studien zur Geschichte des römischen Kolonates, p. 313, dove parlo di eserciti reclutati da Pompeo e da Domizio Enobarbo tra i numerosi loro schiavi e coloni, «è grandemente esagerato». Ma i testi, specialmente quelli di Cesare, sono espliciti e non possono venir soppressi né esagerati; cf. J. KROMAYER nei «Neue Jahrb. f. Klass. Alt.», 33-34 (1914), p. 162; FRANK, Economic History, 19272, pp. 293 sg.; T. RICE HOLMES, The Roman Republic, I, pp. 106 e 56. Cf. E. WIEHN, Die illegalen Heereskommanden in Rom bis auf Caesar (1926), pp. 27 sgg. (Sul reclutamento dell’esercito di Pompeo nel Piceno tra i clienti privati della sua famiglia).
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ria di siffatto movimento rivoluzionario. È affatto naturale che i fittuari e il proletariato nullatenente dessero ai Gracchi il loro più cordiale appoggio20. Non è qui il luogo di descrivere i torbidi interni che accompagnarono questo primo tentativo di rivoluzione politica e sociale: basterà indicare brevemente le forze latenti che dettero al movimento il suo aspetto peculiare e complesso. I Gracchi non riuscirono ad aver ragione della crisi che travagliava lo Stato romano. La loro azione non potè neppure ottenere una vasta redistribuzione della terra; tanto meno essi conseguirono il mutamento completo della struttura politica dello Stato romano o la rigenerazione del ceto dei contadini. Lo Stato contadinesco non poteva più restaurarsi a Roma: era morto per sempre. È vero che furono create alcune nuove piccole proprietà di contadini, che un certo numero di proletari nullatenenti furono provveduti di terra, che furono confiscate alcune vaste tenute; ma ben presto questo processo fu ostacolato e infine arrestato dall’ostinata resistenza dell’oligarchia dominante. L’unico risultato della rivoluzione graccana fu l’eccitamento ch’essa destò tra le grandi masse della popolazione italica, e il formarsi, per la prima volta nella storia d’Italia, di una netta linea di separazione tra ricchi e poveri, tra «oppressori» e «oppressi». Da questo punto cominciò tra le due classi una lotta che non doveva più cessare.
20. Sui Gracchi vd. gli eccellenti articoli di F. MUENZER, Ti. e C. Sempronius Gracchus, in «R. E.», II, A; cf. T. FRANK, Economic History, 19272, pp. 126 sgg.; G. DE SANCTIS, Rivoluzione e reazione nell’età dei Gracchi, «Atene e Roma», 1921, pp. 209 sgg.; W. ENSSLIN, Die Demokratie und Rom, «Philologus», 82 (1927), pp. 313 sgg.; D. KONTCHALOVSKY, Recherches sur l’histoire du mouvement agraire des Gracques, «Rev. hist.» 153 (1926), F.B. MARSH, In Defense of the Corn-Dole, «Class. Journ.», 17 (october 1926); P. TERRUZZI, La legislazione agraria in Italia all’epoca dei Gracchi, «Riv. d’Italia», 5 (1926), pp. 1 sgg., e Studi sulla legislaz. agraria di Roma, «Arch. giurid.», 47 (1927), pp. 1 sgg.; E. FABRICIUS, «Zeitschr. d. Savigny-Stif.», 47 [1927], p. 488; U. KAHRSTEDT, Die Grundlagen u. Voraussetzungen der röm. Revolution, «Neue Wege zur Antike», 4 (1927), pp. 97 sgg.; J. CARCOPINO, Autour des Gracques. Études critiques (1928); IDEM, Les Lois agraires des Gracques et la guerre sociale, «Bull. de l’Assoc. G. Budé», 1929; [IDEM, La Republique romaine de 133 à 44 avant J. C., nella «Histoire ancienne» di G. GLOTZ: III, Hist. romaine, vol. II, 1929]; M. GELZER, in «Gnomon», 5 (1929), pp. 648 sgg. Per i lavori più antichi vd. la pregevole bibliografia del MUENZER. Intorno alla legge del III a.C., CH. SAUMAGNE, «Rev. de philol.», 1927, pp. 50 sgg.; cf. M.A. LEVI, Intorno alla legge agraria del III a.C., «Riv. di filol.», 1929, pp. 231 sgg. Sulla lex Mamilia Roscia Peducaea Alliena Fabia, verosimilmente l’ultima tra quelle che liquidarono la legislazione graccana, vedi E. FABRICIUS, Ueber die Lex M. R. P. A. F., nei «Sitzb. Heidelb. Akad.», 1924-5, I; cf. M. GELZER, in «Gnomon», I, p. 103; HARDY, in «Class. Quart.», 1925, p. 185. Circa le leggi agrarie in generale, vd. l’articolo recente, ma antiquato e superficiale, del VANCURA in «R. E.», XII (1924), coll. 1150 sgg. Sulle posteriori leggi agrarie, e specialmente su quella di Servilio Rullo, vd. E.G. HARDY, Some Problems in Roman History (1924), pp. 43 sgg., 68 sgg.; M.A. LEVI in «Atene e Roma», n. s., 3 (1922), pp. 239 sgg. (storia dell’ager Campanus); W. ENSSLIN nei «Neue Jahrb. f. Klass. Alt.», 53 (1924), pp. 15 sgg.; S. GSELL, Hist. de l’Afr., VII (1928), pp. 74 sgg. Il rapido incremento del lavoro servile, avveratosi nel sec. II a.C., è attestato dalle frequenti rivolte di schiavi nel Lazio (LIV., 32, 26, 4), nell’Etruria (LIV., 33, 36, 1) e in Apulia (LIV., 39, 29, 8 sgg.; 41, 6).
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Tuttavia nella fase immediatamente successiva delle lotte civili d’Italia rimase alquanto nell’ombra la posta principale della lotta, la questione cioè della riforma agraria. Invece di essa, o insieme con essa, per qualche tempo passò in prima linea un’altra questione meramente politica: quella dei diritti politici degli alleati di Roma, specialmente della borghesia delle città italiche. Le promesse dei Gracchi avevano fatto sperare agli alleati di poter diventar membri della comunità romana con gli stessi diritti dei cittadini romani: ma queste speranze erano rimaste deluse, e pareva senza speranza, col trionfare della reazione oligarchica. Ma gli alleati non cedettero: e ne seguì una guerra aspra e sanguinosa, che causò la devastazione e la rovina dell’Italia centrale e specialmente dei fiorenti territori abitati dalle stirpi sannitiche settentrionali. La guerra terminò con un compromesso, per cui gli alleati rinunziarono al loro proposito di creare un nuovo Stato federale italico, e i Romani alla loro volta concessero la cittadinanza, in pratica, a tutti i cittadini delle città alleate. Non si potevano infatti respingere le richieste degli alleati, se si voleva che lo Stato italico-romano continuasse ad esistere21. Terminato quest’episodio riarse più ampia la lotta principale. L’introduzione degli Italici nella cittadinanza romana vi accrebbe il numero dei malcontenti, tra i quali erano in numero preponderante i proletari nullatenenti, quasi tutti desiderosi di partecipare attivamente alla contesa. Dall’altro lato, la borghesia municipale veniva a rafforzare le file dei sostenitori dell’ordine esistente. E la lotta non soltanto fu resa dai nuovi partecipanti più vasta e complessa, ma cambiò quasi interamente di aspetto. La pericolosa invasione d’alcune tribù celto-germaniche in Italia, verificatasi poco prima della guerra «sociale», e la guerra «sociale» medesima, avevano chiaramente dimostrato l’impossibilità di conservare il principio d’arruolare nell’esercito soltanto una parte della popolazione, cui appartenevano in prima linea i proprietari di terre: quindi il carattere dell’esercito romano e la sua composizione sociale soggiacquero a un mutamento radicale. Dopo le riforme di Mario, l’esercito romano non fu più una milizia di contadini proprietari italici, ma un corpo professionale di proprietari e contadini poveri, tenuti a lungo servizio. D’altro lato, l’assemblea popolare di Roma, che dopo la guerra «sociale» non costituiva più che un’infima minoranza del complesso dei cittadini romani, non rappresentava più fedelmente le aspirazioni della cittadinanza romana, e divenne docile strumento di abili politicanti. Molto più atto ad esprimere le vedute di un considerevole numero di cittadini romani, e molto più efficace strumento nelle mani di capi ambiziosi, era il nuovo esercito.
21. I nuovi dati sulla guerra «sociale», forniti dalla nota iscrizione di Pompeo Strabone (C. I. L. I2, 709; DESSAU, 8888), hanno dato origine a importanti discussioni su questa guerra in generale e sull’estensione della cittadinanza romana in particolare. Cito soltanto i due ultimi lavori che sono stati pubblicati su quest’argomento: in entrambi il lettore troverà buone bibliografie. C. CICHORIUS, Römische Studien, 1922, pp. 130 sgg. (testo riveduto dell’iscrizione), e (G.H. STEVENSON nel «J. R. S.», 9 (1919), pp. 95 sgg.; cf. T. RICE HOLMES, op. cit., p. 46, ed E. WIEHN, Die illegalen Heereskommanden in Rom bis auf Caesar (1926).
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Quest’ultimo doveva la sua nascita non soltanto al pericolo barbarico e alla guerra civile, ma anche e principalmente, al pari della guerra civile medesima, all’Imperium Romanum, al fatto dell’esistenza dello Stato mondiale romano. Senza un esercito di questo tipo lo Stato mondiale non avrebbe potuto reggersi, e sarebbe andato in frantumi, come era stato dimostrato da tutte le guerre combattute da Roma nell’intervallo tra la fine delle grandi guerre orientali e la riforma mariana. Piccole guerre come quelle contro Giugurta in Africa e contro i Celtiberi di Spagna erano costate allo Stato romano sacrifici immensi d’uomini e di denaro, senza conferire affatto alla gloria delle armi romane. Un pericolo serio, cioè l’invasione di tribù celtiche e germaniche in Italia, dimostrò definitivamente tanto la debolezza della milizia romana quanto l’incapacità dei comandanti non di professione a fare di questa milizia una vera forza combattente. Si resero quindi necessarie due innovazioni, strettamente connesse l’una con l’altra: la formazione cioè di una forza armata avente più o meno il carattere di un esercito stanziale, e di nuovi generali di professione dedicanti ai problemi militari tutta la loro vita e la loro attività. Poiché l’esercito in questo suo nuovo aspetto era la più grande forza organizzata che vi fosse a Roma, i suoi capi dovevano necessariamente non soltanto rappresentare la potenza militare dello Stato, ma anche divenirne capi politici, deponendo così tanto il Senato quanto l’assemblea popolare romana, Senatus populusque Romanus, dal posto ch’essi avevano fin allora tenuto. Il compito principale che incombeva a questi nuovi duci era di adattare il sistema della città-Stato ai bisogni di uno Stato mondiale, di trasformarlo in una nuova forma politica idonea a reggere i vasti territori che ormai costituivano l’Impero romano. Così la lotta iniziata dai Gracchi in nome della restaurazione dell’antico Stato di contadini, e sostenuta dalle masse dei proletari nullatenenti e dei contadini poveri sotto l’antico grido di battaglia della «redistribuzione della terra», divenne lotta per il completo rimodellamento dello Stato e per la rifusione del suo meccanismo in uno strumento meglio adatto ai bisogni d’un Impero mondiale. Il primo che comprese il nuovo carattere della lotta, e che seppe mettere a servizio della propria politica il nuovo fattore apparso nella vita pubblica romana, fu L. Cornelio Silla, uno dei generali romani che avevano combattuto nella guerra «sociale». L’idea politica fondamentale, che lo inspirò nella sua aspra lotta contro i partigiani del programma graccano – «tutto il potere all’assemblea politica di Roma guidata dai magistrati elettivi del proletariato cittadino, e restaurazione dell’antico Stato dei contadini» – fu di adattare la signoria della minoranza senatoria alle necessità dell’Impero. Il suo ufficio specifico nel nuovo Stato fu quello di un mentore e di un moderatore, la cui influenza sugli affari pubblici derivava dalla popolarità ch’egli godeva personalmente sia tra i soldati sia tra gran parte dei cittadini romani, e specialmente fra le classi superiori. Può sembrare strano che in una lotta di questo genere egli sia stato sorretto da un esercito formato di proletari e di contadini poveri, che propriamente avrebbe dovuto schierarsi coi nemici di Silla. Ma dobbiamo ricordare che il nuovo esercito aveva sempre di mira soltanto il suo personale tornaconto, e che Silla promise alle sue truppe maggiori e più tangibili benefici che non i suoi avversari: la preda durante la guerra mitridatica, terra e denaro al ritorno in Italia, e (attrat-
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tiva non minore) un’alta posizione sociale nelle città native per il resto della vita. Dobbiamo inoltre ricordare che l’esercito di Silla era ancor formato di antichi cittadini romani, ostili alle nuove masse di cittadini ammessi per effetto della guerra «sociale». Le richieste di questi ultimi furono invece appoggiate da Mario e dai suoi partigiani e successori. Dopo la morte di Silla la guerra civile si riaccese immediatamente, e divenne essenzialmente lotta per il potere tra i più abili ed ambiziosi membri dell’aristocrazia senatoria disputantisi la direzione dello Stato. I combattenti non avevano alcun preciso programma politico né si proponevano radicali riforme sociali od economiche: era una lotta di mera potenza e ambizione personale quella che si combatteva tanto nella città quanto sui campi di battaglia. Un comando militare straordinario, ch’era l’unico mezzo di venire a capo delle crisi che periodicamente sorgevano dalla complessa vita politica e militare dell’Impero mondiale, dava ai migliori uomini dell’aristocrazia l’opportunità di mettersi in contatto diretto con l’esercito e di affezionarselo personalmente coi tenaci vincoli dei doni e delle promesse; e l’esercito a sua volta faceva del suo comandante il padrone dello Stato, finché egli sapeva conservarsi popolare tra i soldati. I suoi rivali si servivano degli stessi metodi e degli stessi mezzi. In tal modo la guerra civile divenne in realtà guerra tra eserciti bene ordinati e bene equipaggiati, diretti da politicanti ambiziosi. A queste guerre la maggioranza dei cittadini romani e, naturalmente, la popolazione delle province non presero alcuna parte: tutto quello ch’esse desideravano era pace e ordine. I combattenti erano i soldati di professione dell’Impero romano, che lottavano perché al termine della lotta aspettavano un cospicuo compenso sotto forma di terra e denaro22. Questa è la ragione per cui il successivo atto della tragedia della guerra civile, la contesa tra Cesare e Pompeo, è così confusa e così poco chiara nei suoi elementi principali. La guerra fu vinta da Cesare perché egli era un migliore organizzatore, un vero genio militare, che godeva immenso ascendente personale sui suoi soldati. La carriera pubblica di Pompeo era stata assai poco diversa da quella di Cesare, e la differenza, senza dubbio, non era capita dai soldati delle due parti. L’appoggio dato da Pompeo al regime senatoriale non fu mai preso sul serio neppure dagli stessi senatori, i quali non fecero altro che scegliere a loro duce un uomo che sembrava loro meno pericoloso di Cesare, e in cui speravano, se avesse vinto, di trovare un padrone più mite. La massa dei cittadini romani prese partito per l’uno o per l’altro dei contendenti solo quando vi fu costretta a forza. Cesare perì per mano d’un gruppo di congiurati mentre era in procinto di por mano alla sua opera civile. Non abbiamo elementi per giudicare che cosa avrebbe fatto se avesse avuto il tempo di riordinare lo Stato: non mancano indizi ch’egli avesse in animo un concreto programma di riforme, ma non siamo più
22. Circa i comandi militari straordinari vedi il pregevole articolo di A.R. BOAK, nell’«American Historical Review», 24 (1918-1919), pp. 1 sgg. Silla cercò di rendere il comando straordinario il meno possibile dannoso alla classe senatoria, ma era naturale ch’esso fosse la prima cosa a rinascere dopo la morte di lui e che a poco a poco diventasse il puntello dello Stato romano. [Cf. J. CARCOPINO, Sylla ou la monarchie manquée, 1931].
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in grado di ricostruirlo nei particolari. Alcuni tra gli storici antichi e la più gran parte degli studiosi moderni ritengono che Cesare avesse in animo di creare una vera monarchia, fondata non sulla sola cittadinanza romana, sibbene sull’Impero romano nella sua totalità, mentre Pompeo sarebbe stato il rappresentante di un’idea, che godeva grandi simpatie tra gli strati superiori della popolazione di Roma, e che aveva per oggetto la possibilità di un «Principato», cioè del comando dell’ottimo tra i buoni – cioè tra i membri dell’ordine senatorio23. Il susseguente conflitto tra gli uccisori di Cesare da un lato, i generali di Cesare e i suoi figli adottivi dall’altro, presenta i consueti caratteri caotici d’ogni lotta per il potere. I veterani di Cesare sostennero Antonio e Ottavio perché speravano da essi, e da essi soltanto, l’adempimento delle promesse di terra e di denaro fatte loro da Cesare. Con Bruto e Cassio pugnarono alcuni entusiasti, per lo più intellettuali, convinti che Cesare fosse stato un tiranno e avesse oltraggiato la libertà, secondoché affermavano il Senato e gli uccisori del dittatore; gli altri con qualunque partito si schierassero, lo facevano per il semplice fatto d’essere stati da esso mobilitati, o perché anch’esso aveva promesso loro terra e denaro, o perché ritenevano di combattere per la restaurazione della pace e dell’ordine. La vittoria di Antonio e di Ottavio non chiarì la situazione. Ottavio – chiamato talvolta Ottaviano dopo essere stato adottato da Cesare, e da ultimo Augusto – mirava a creare a poco a poco nella popolazione italica l’impressione, già sfruttata a scopi di propaganda dagli uccisori di Cesare, che questi avesse avuto l’intenzione di stabilire una monarchia pura e che Antonio tendesse allo stesso scopo. Poiché Ottaviano dimorò quasi sempre in Italia, e invece Antonio quasi sempre lontano, in Oriente, la propaganda del primo ebbe pieno successo. Gli errori commessi da Antonio, la sua relazione e poi il suo matrimonio con Cleopatra, contribuirono a far apparire credibili ai cittadini romani d’Italia le voci sparse da Ottaviano, secondo cui il suo rivale si proponeva di fare dell’Italia una provincia egiziana, il che naturalmente era un perfetto nonsenso. I cittadini romani ad ogni modo furono spaventati dalla possibilità di perdere i loro privilegi e di restar sommersi nella popolazione provinciale. Per conseguenza, nella contesa tra Ottaviano e Antonio i cittadini romani, e specialmente la potente borghesia cittadina di tutta Italia e perfino la maggioranza della più alta classe, dei senatori e dei cavalieri, erano disposti a sostenere Ottaviano contro Antonio, e ciò non soltanto per desiderio di terra e di denaro. La battaglia di Azio fu la prima, in tutto il corso della guerra civile, che sia stata vinta non dal proletariato armato combattente per guadagni materiali, ma dalla massa dei
23. Su Pompeo e Cesare vd. E. MEYER, Caesars Monarchie und das Principat des Pompeius: innere Geschichte Roms von 66 bis 44 v. Chr., Stuttgart-Ber1in, 19192; T. RICE HOLMES, The Roman Republic and the Founder of the Empire, III, 1923, p. 335. Aggiungere alla bibliografia data dal MEYER e da HOLMES: F.B. MARSH, The Founding of the Roman Empire, Oxford, 1927; l’articolo di P. GROEBE su Cesare in «R. E.», X, 1, coll. 186 sgg.; M. GELZER, Caesar der Politiker und Staatsmann, nei «Meister der Politik», Stuttgart-Berlin, 1921 e lo stesso, Caesars Monarchie und das Prinzipat des Pompeius, «Vierteljahresschrift f. Sozial u. Wirtschaftsg.», 15 (1919), pp. 522 sgg.
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cittadini romani, animati dalla convinzione di lottare per l’esistenza dello Stato romano e della libertà contro la barbarie e la schiavitù orientale. Ottaviano combatté la sua ultima battaglia della guerra civile non in qualità di capoparte lottante per il potere personale, ma come campione delle idee romane, del passato e dell’avvenire di Roma, contro il fantasma di una monarchia orientale. Perché il potere conquistato da Ottaviano ad Azio fosse duraturo, era essenziale ch’egli non dimenticasse mai come e perché aveva conseguito la vittoria. Il periodo delle guerre civili aveva arrecato grandi sofferenze a quasi tutti i membri dello Stato romano, non solo in Italia ma anche nelle province. In Italia molti erano periti in battaglia o nei disagi delle campagne; molti eminenti capipartito avevano perduto la vita negli intermittenti periodi di terrorismo politico; molti, ricchi e poveri, erano stati spogliati dei loro beni, venduti dai capi per riempire i loro tesori vuoti o divisi tra i soldati vittoriosi, i veterani degli eserciti rivoluzionari. Le condizioni economiche erano diventate del tutto instabili: nessuno poteva dire con sicurezza che cosa sarebbe avvenuto di lui l’indomani. L’Italia si trovava psicologicamente fuori di equilibrio, e bramava una cosa sola: pace. Quanto fosse ardente questo desiderio di pace è dimostrato, tra l’altro, dai canti di Orazio e di Virgilio che risalgono a data più antica. È molto istruttivo seguire, come spesso è stato fatto, l’evoluzione psicologica di Orazio durante i torbidi anni che tennero dietro alla battaglia di Filippi. Al pari d’altri milioni d’abitanti dell’Impero romano, e specialmente di cittadini romani, anch’egli, dopo un periodo di assoluta disperazione, pose le sue speranze nella vittoria finale di Augusto, che prometteva di por fine alla guerra civile. Augusto era ben conscio dei sentimenti prevalenti tra la popolazione dell’Impero. Il grido universale era: pace! Ognuno era pronto ad accettare Augusto e il suo governo, purché egli sapesse ristabilire la pace e la tranquillità. Ad Augusto s’imponeva dunque il compito della restaurazione della pace: era questa, si può dire, la conditio sine qua non della stabilità del suo potere. Vedremo nel capitolo seguente ch’egli sentì e capì i sentimenti del popolo, e che operò in conseguenza24. Per quanto completo sia stato il mutamento nei sentimenti della popolazione, anche in confronto col periodo immediatamente precedente e susseguente alla morte di Cesare, è chiaro che sotto l’aspetto economico e sociale le condizioni dell’Italia non cambiarono molto nel corso delle guerre civili. Essa rimase al centro della vita economica del mondo antico, quasi altrettanto fiorente e prospera quanto per l’avanti. Nella seconda metà del periodo delle guerre civili Varrone rappresentava l’Italia come il paese più prospero del mondo per risorse naturali e per buona coltivazione25. Ed aveva perfettamente ragio-
24. Su Augusto, vd. cap. II, nota 1. 25. VARRO, De re rustica., I, 2, 3: cum consedissemus, Agrasius: Vos, qui multas perambulastis terras, ecquam cultiorem Italia vidistis? inquit. Ego vero, Agrius, nullam arbitror esse quae tam tota sit culta». Cf. 6 sg.: «contra quid in Italia utensile non modo non nascitur, sed etiam non egregium fit? quod far conferam Campano? quod triticum Apulo? quod vinum Falerno? quod oleum Venafro? non arboribus consita Italia, ut tota pomarium videatur? […] in qua terra iugerum unum denos et quinos denos culleos fert vini, ut quaedam in Italia regiones? ecc. Ho riportato questo notissimo testo per dimo-
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ne. Le guerre civili non indebolirono le fondamenta della vita economica e sociale del passato. J. CARCOPINO, La République romaine de 133 à 44 avant J. C., in Histoire romaine, a cura di G. Bloch e J. Carcopino, II, 2, Paris, 1937, p. 960, attribuisce la fiorente condizione dell’Italia alla colonizzazione attuatavi da Cesare e ai dazi sulle merci importate dall'estero imposti da Cesare (SUET., Caes., 43: peregrinarum mercium portoria instituit). Il De re rustica fu scritto sette anni dopo la morte di Cesare. In sette anni questo semplice provvedi-
strare che non può esservi dubbio di sorta intorno alla fertilità dell’Italia e all’alto grado della sua agricoltura nella seconda metà del sec. I a.C. Non so vedere alcuna esagerazione patriottica nelle parole di Varrone, né vedo contraddizione tra questo quadro e le parole di Gracco intorno alla «solitudo Italiae» (vd. J. KROMAYER nei «Neue Jahrb. f. Klass. Alt.», 33 (1914), pp. 145 sgg.). Il quadro di Gracco deve limitarsi ad alcune sole parti dell’Etruria. Inoltre, ciò che Gracco aveva in mente, non erano le condizioni economiche in generale, sibbene la condizione dei contadini d’Italia, e specialmente d’Etruria. Non so vedere dove il FRANK, Economic History, 19272, p. 329, abbia trovato, nelle parole di Varrone precedentemente riferite, che «Varrone dice che l’Italia andava di nuovo acquistando l’aspetto d’un giardino». «Andava di nuovo acquistando» non è quel che dice Varrone. Né vedo contraddizione tra le riferite affermazioni di Varrone e le sue lagnanze sulla necessità per l’Italia d’importar grano e persino vino da lontano (De re rustica, II, pr.). Varrone desiderava che l’Italia bastasse a se stessa ed era un fervente predicatore dell’agricoltura e nemico della pastorizia: quindi le sue invettive contro i capitalisti romani, che attendevano redditi migliori dal pascolo che non dalla coltivazione del grano e della vite. Non mi è dato scorgere il minimo indizio che ai tempi di Varrone l’Italia soffrisse di esaurimento del suolo. Le lagnanze contro l’esaurimento sono uno dei luoghi comuni che ricorrono quando i proprietari di terre discutono della loro condizione: ma esse non si fondano su niente di reale, o soltanto su certi fenomeni accidentali come le condizioni del territorio della tribus Papinia nel Lazio (VARRO, De re rustica, I, 9); cf. T. FRANK, nell’«Amer. J. Ph.», 51 (1930), pp. 70 sg. Nel cap. VIII ritornerò sulla teoria dell’esaurimento del suolo e citerò i numerosi libri e articoli che sono stati pubblicati in proposito. Un esempio istruttivo dello sviluppo preso dall’Italia nei secoli II e I a.C. può darcelo la storia di Pompei, quale ci è stata rivelata dagli scavi e dagli studi storici di H. NISSEN, di G. FIORELLI, di A. MAU. La piccola e povera città del primitivo periodo sannitico, con case modeste e abbastanza piccole senza pitture parietali e con un pezzettino di orto dietro il rustico atrium, si trasformò a poco a poco nel tardo periodo sannitico (secolo II a.C.), sotto l’influenza della crescente ricchezza e per effetto di maggior raffinatezza di gusti, nella splendida città dai grandi e begli edifici, pubblici e privati, del periodo cosidetto del «tufo», con colonne accuratamente lavorate, atrii spaziosi ampi peristilii con giardini e fontane zampillanti e con eleganti pitture parietali del cosidetto primo stile pompeiano, cioè ellenistico comune. Da ciò possiamo scorgere con quale rapidità fosse venuta crescendo la ricchezza della città nel periodo posteriore alla seconda guerra punica, e specialmente nella seconda meta del secolo II. Allo stesso periodo appartiene la prima industrializzazione della vita di Pompei, la comparsa cioè delle prime botteghe-officine annesse a grandi case (p. es. nella cosidetta casa di Pansa). Non vi è soluzione di continuità tra questo periodo e quello che segue allo stabilimento della colonia di Silla. Le case e alcune villae rusticae (p. es. la villa Item e alcune ville di Boscoreale) rimangono grandi e belle come per l’innanzi. S’introdussero bensì un nuovo sistema di costruzione e un nuovo stile decorativo, ma questi nuovi stili non erano meno belli e costosi degli antichi. In questo periodo non v’è traccia a Pompei di qualche cosa che
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mento di Cesare ripristinò la prosperità dell’Italia! È un miracolo! Le stesse ville
sontuose dai porticati marmorei, circondate d’ombrosi boschetti, facevano pompa di sé sulle colline e sulle spiagge marine del Lazio, dell’Etruria, della Campania. Le stesse fattorie modello, amministrate su basi capitalistiche e ordinate secondo il tipo ellenistico con una densa popolazione di schiavi, nelle quali si praticava la coltivazione di vigneti, di oliveti, di orti, di campi, di prati, sotto la sorveglianza di fattori presi anch’essi tra gli schiavi, erano disseminate in tutta l’Italia centrale e meridionale. Proprietari di tali villae rusticae erano i grossi capitalisti di Roma e i ricchi borghesi dei municipi. Resti di ville siffatte sono stati dissotterrati dal secolo XVIII in poi nei dintorni di Pompei, di Stabia, di Ercolano; alcune di esse verosimilmente risalgono al secolo I a.C.26
accenni a durevole decadenza economica. Lo stesso deve dirsi del periodo augusteo col suo raffinato terzo stile pittorico, che certamente risente assai l’influenza alessandrina, mentre il secondo attesta piuttosto un’arte locale influenzata dall’Asia Minore. Il mutamento rispecchia quello avvenuto nell’orientamento economico. Nel periodo augusteo il porto di Pompei, anziché con l’Asia Minore, fu in vive relazioni con Alessandria, e la Campania in generale cominciò a competere con Alessandria in alcuni rami della produzione industriale. L’ultimo periodo, post-augusteo, il periodo del quarto stile, fu anche quello dell’industrializzazione intensiva della città e del grandeggiare di alcune famiglie di nuovi ricchi, alcuni dei quali erano antichi schiavi, come il Trimalcione di Petronio. Di questo periodo parlerò nei due prossimi capitoli. Concludendo, il periodo sillano e post-sillano, il periodo cioè delle guerre civili non segnò affatto decadenza, né sotto l’aspetto economico né sotto l’aspetto culturale. Non dobbiamo dimenticare infatti che fu il periodo di Cicerone, di Catullo, di Cesare, di Varrone. Né Pompei e la Campania sembrano aver costituito eccezione: la storia economica della restante Italia mostra le stesse linee di sviluppo. Poiché nel periodo repubblicano e in quello d’Augusto la ricchezza di Pompei poggiava principalmente sull’agricoltura, e specialmente sulla produzione del vino (vedi cap. II, nota 23), non vi è la minima ragione per supporre un esaurimento del suolo della fertile Campania né nel sec. I a.C. né nel sec. I d.C. 26. Sulle villae rusticae in generale vd. G. FIORELLI, Ville Stabiane, in appendice alla traduzione italiana del Dictionary del RICH (Dizionario delle antichità greche e romane, Firenze, 1864-5, vol. II, pp. 423 sgg.), ed A. MAU, Pompeji in Leben und Kunst (19182), pp. 382 sgg. Alcune ville sono enumerate da H.F. DE COU, Antiquities from Boscoreale in Field Museum of Natural History, 1912 («Field Museum of N.H. Public.», 152, Anthropological Series, vol. VII, 4), cf. PERNICE nel «Jahrb. d. d. arch. Inst.», 15 (1900), Arch. Anz., p. 177. [Cf. R.C. CARRINGTON, Studies in the Campanian «Villae rusticae», «J. R. S.», 21 (1931), pp. 110 sgg.; IDEM, Pompeii, Oxford, 1936, pp. 90 sgg. J. DAY, Agriculture in the Life of Pompeii, «Yale Class. Studies», 3 (1932). Entrambi questi autori hanno dato Day dà elenchi di ville: al Day io debbo d’aver potuto completare il mio elenco, arricchendolo di sette numeri (12a, 13a, 37-41). Ripeto qui l’elenco per comodità del lettore]. Sui vari tipi di villa pompeiana dal punto di vista archeologico R.C. CARRINGTON, in «Antiquity», 1939, pp. 261 sgg.
Sono state scavate le ville seguenti (l’enumerazione è fatta in ordine cronologico): 1-12. Le ville scavate nel sec. XVII, XVIII, quattro delle quali sono state accuratamente descritte dal Fiorelli nell’articolo dianzi citato, mentre le altre sono state pubblicate da M. Ruggiero (con piante e diario degli scavi). Le descrizioni del Fiorelli sono state riprodotte dal Ruggiero, poiché per le quattro ville descritte dal primo non esistono negli
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Gli ampi terreni da pascolo, sui quali centinaia di migliaia di pecore, capre, buoi, vacche erano governate da gruppi di schiavi-pastori armati, costituivano
archivi diari del Vega. M. RUGGIERO, Degli scavi di Stabia dal 1749 al 1782, Napoli, 1881, tavv. IX-XIX. 12a. Contrada Moregine, a oriente di Pompei; «Not. d. scavi», 1880, pp. 495 sgg.; 1881, pp. 25 sgg. Proprietario ne era M. Ampio, «Neapolis», 2 (1914), p. 169. 13. La villa di Boscoreale, dove fu trovato il celebre tesoro di oggetti d’argento, che oggi si trovano in parte al Louvre, in parte nella collezione del barone E. Rothschild. A. HÉRON DE VILLEFOSSE nei «Mon. Piot», vol. V (1899), pp. 7 sgg.; MAU-KELSEY, Pompeii, cap. 45; PASQUI nei «Mon. ant. dei Lincei», vol. VII (1897). 13a. Boscoreale. «Not. d. scavi», 1895, pp. 207 sgg. 14. Boscoreale, Giuliana (F. Zurlò). «Not. d. scavi», 1895, p. 214; 1897, pp. 391 sgg. 15. 16. Boscoreale, Grotta Franchini (F. Vona). «Not. d. scavi», 1898, pp. 419 sgg. 16. 15. Boscoreale, Villa accanto alla piazza del Mercato. Proprietario della villa P. Fannius Synistor o più probabilmente L. Herius Florus (M. Della Corte in «Neapolis», 2 (1914), p. 172). Belle decorazioni del secondo stile più antico. Affreschi nel Metropolitan Museum e nel Museo di Napoli. Strumenti agricoli nella nostra tav. X. F. BARNABEI, La villa pompeiana di P. Fannio Sinistore (1901). 17. Scafati, Muregine (Maria Liguori). «Not. d. scavi», 1898, pp. 33 sgg. 18. Scafati, Muregine (Pasquale Malerba). «Not. d. scavi», 1900, pp. 203 sgg. 19. Scafati, Spinelli (M. Acánfora). «Not. d. scavi», 1899, pp. 392 sgg. Era proprietario probabilmente Cn. Domitius Auctus. 20. Torre Annunziata accanto alla Porta Vesuvio di Pompei (D’Aquino Masucci). Il proprietario era probabilmente T. Siminius Stepanus. «Not. d. scavi», 1897, pp. 337 sgg.; 1898, pp. 494 sgg.; 1899, p. 236, cf. 1900, pp. 69 sgg. 21. Fondo Barbatelli, presso Porta Vesuvio. «Not. d. scavi», 1899, pp. 439, 493; 1900, pp. 30, 70, 500, 599, cf. 584. 22. Boscoreale, contrada Centopiedi al Tirone (P. Vitiello). «Not. d. scavi», 1903, pp. 64 sgg. Decorazioni parietali del primo e secondo stile. 23. Boscotrecase, contrada Setari (N. Vitelli). Proprietario L. Arellius Successus. Sala N decorata nel primo stile. «Not. d. scavi», 1899, p. 297; M. DELLA CORTE, nelle «Mem. d. R. Accad. di Napoli», 2 (1911), p. 191 «Memorie di Napoli», 2 (1913), partic. p. 191.
24. La villa Item con decorazioni del secondo stile. «Not. d. scavi», 1910, pp. 139 sgg. e 1922, pp. 480 sgg.; [A. MAIURI, La villa dei misteri, 1931, pp. 89 sgg.]. 25-30. Sei ville illustrate da M. DELLA CORTE, nelle «Not. d. scavi», 1921, pp. 415 sgg. Una di esse (n. III) apparteneva a un certo Asellius, di cui era procuratore Thallus, un’altra (n. V) a un membro della nota famiglia aristocratica pompeiana dei Popidii (N. Popidius Florus); cf. M. DELLA CORTE in «Neapolis», 2 (1914), p. 173. 31. La villa della contrada Rota (comune di Boscotrecase), scavata da E. Santini nel 1903-5 (oggi ricoperta dalla corrente lavica del 1906); vd. M. DELLA CORTE nelle «Not. d. scavi», 1922, pp. 459 sgg. La villa apparteneva certamente all’ultimo figlio di Agrippa, Agrippa Postumo (vd. A. MAU nel C. I. L. IV, 6499 nota). Dopo la morte di costui essa passò ai successori d’Augusto e probabilmente diventò demanio imperiale. Questo fatto, non intraveduto da M. Della Corte, è dimostrato dai documenti seguenti. Su quattro amphorae rinvenute nella villa erano scritti a inchiostro i nomi greci di alcuni schiavi o liberti di Agrippa. Uno di questi individui ha il titolo di actor: C. I. L. IV, 6499, Neikasivou A ∆ gr(ivppou) [ac]toris; cf. 6995-6997, dove lo stesso nome greco è connesso con quello d’Agrippa e in 6997 col titolo dis(pensavtwr?). Nella stessa villa fu trovata
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la caratteristica della vita economica dell’Apulia del Sannio, di alcune parti del Lazio, di una buona porzione della Sicilia, della Sardegna, della Corsica27.
una tegola recante questa marca: Pupil(li) Agrip(pae) Tub(erone) (et) Fabio co(n)s(ulibus), 11 a.C. (Sul prenome Pupillus di Agrippa Postumo vedi C. I. L. VI, 18548). Nel C. I. L. X, 924 si enumerano quattro schiavi primi ministri del Pagus Augustus Felix Suburbanus (7 a.C.): il primo è Dama pup(i) Agrippae (cf. C. I. L. II, 1528). Finalmente in un graffito della stessa villa si legge il seguente sarcastico pentametro (C. I. L. IV, 6893): Caesaris Augusti femina mater erat, che certamente si riferisce a Giulia, figlia di Augusto, madre di Agrippa Postumo. Senza dubbio la villa appartenne originariamente ad Agrippa Postumo e venne probabilmente costruita dal padre di lui (vedi la bella decorazione murale in parte del secondo stile e in parte del terzo priore). I due sigilli di Ti. Claudius Eutychus Caesaris l(ibertus), che furono trovati in un armadio della villa («Not. d. scavi», 1922, p. 460), appartenevano dunque non al proprietario (come pensa il Della Corte), ma all’amministratore della villa, agente dell’imperatore. 32. Residui di una villa in contrada S. Abbondio (Comune di Scafati) scavati nel 1908, vd. M. DELLA CORTE nelle «Not. d. scavi», 1922, p. 479. 33-36. Quattro ville, due presso Stabiae e due presso Scafati (contrada Spinelli e contrada Crapolla). M. DELLA CORTE nelle «Not. d. scavi», 1923, pp. 271 sgg. 37. Scafati, contrada Acquavitrara. «Not. d. scavi», 1928, pp. 375 sgg. 38. Boscoreale, «Not. d. scavi», 1929, pp. 178 sgg. N’era proprietario M. Livius Marcellus. 39. Boscotrecase, «Not. d. scavi», 1929, pp. 189 sg. Proprietario Eros (L. Eumachius Eros?). 40. Valle di Pompei. «Not. d. scavi», 1929, pp. 190 sgg. 41. Domicella, «Not. d. scavi», 1929, pp. 199 sgg. Alcune tra le ville campane, come dimostra lo stile delle pitture parietali, appartengono alla tarda età repubblicana o ai primi anni d’Augusto, alcune possono essere sono più antiche. Cf. CARRINGTON, loc. cit., p. 125 (elenco cronologico delle villae). 27. Sulla Sicilia, vd. R. SCALAIS, La Propriété agricole et pastorale de la Sicile depuis la conquête romaine jusqu’aux guerres serviles, «Mus. belge», 1925, pp. 77 sgg.; J. CARCOPINO, La Sicile agricole au dernier siècle de la republique romaine, nella «Vierteljahresschrift f. Sozial. u. Wirtschaftsg.», 4 (1906), pp. 128 sgg.; le mie Studien zur Geschichte d. röm. Kolonates (1910), pp. 229 sgg., e il mio articolo Frumentum in «R. E.», VII, 1, coll. 129 sgg.; F.H. COWLES, Caius Verres, 1917 («Cornell Studies in Class. Philol.»); E.S. JENISON, The History of the Province of Sicily, Boston, 1919; J. CARCOPINO, La Loi d’Hiéron et les Romains (1919); ZIEGLER, «R. E.», II A, coll. 2502 sgg.; M.A. LEVI, La Sicilia e il dominium in solo provinciali, «Athenaeum», n. s., 7 (1929), pp. 514 sgg. V.M. SCRAMUZZA, Roman Sicily, in T. FRANK, An Economic Survey of Ancient Rome, III, Baltimore, 1937, pp. 225-377; U. KAHRSTEDT, Die Gemeinden Siziliens in der Römerzeit, «Klio» 35 (1942), pp. 246-267; sul dominium in solo provinciali, A.H.M. JONES, In eo solo dominium populi Romani est vel Caesaris, «J. R. S.» 31 (1941), pp. 26-31. Siamo bene informati sulla vita
della Sicilia ai tempi di Cicerone e di Verre; ma dopo regna oscurità completa. Può esser che la Sicilia abbia molto sofferto nelle ultime fasi della guerra civile, allorché divenne la principal fonte d’entrate di Sesto Pompeo. Ma questa temporanea calamità non basta a dare ragione della scomparsa dell’isola dal novero dei paesi produttori ed esportatori di grano. Le parti montagnose rimasero, come per l’innanzi, terre da pascolo; ma che cosa avvenne delle vallate? Inclino a credere ch’esse a poco a poco abbiano subito la stessa trasformazione dell’Italia, e specialmente dell’Italia meridionale; che cioè i bassopia-
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Invece in una parte dell’Etruria, dell’Umbria, del Piceno, della valle del Po prevalevano ancora i villaggi e le sparse fattorie di piccoli proprietari. In villaggi e fattorie dello stesso tipo vivevano anche gli affittuari dei grandi proprietari producendo grano per sè e per il mercato delle città vicine. In queste parti d’Italia uomini come Domizio Enobarbo, contemporaneo di Cesare e di Pompeo, possedevano così ampie zone di terreno da poter promettere a migliaia di propri soldati nullatenenti lotti di terra idonei ad assicurar loro congrui mezzi di sussistenza. Lo stesso Enobarbo, e così pure Pompeo, poterono trarre eserciti in piena regola dalle file dei loro affittuari (coloni) e dei loro schiavi. Pompeo non esagerava dicendo che gli bastava battere il piede sul terreno per ottenerne migliaia di soldati: senza dubbio pensava principalmente ai veterani suoi clienti e alla gente delle sue tenute28. Le città d’Italia erano abitate da una borghesia benestante, talvolta addirittura ricca. La maggior parte di essa era costituita da proprietari di terre; ma in parte la formavano anche proprietari di case date in fitto e di botteghe, e un certo numero di prestatori di denaro e di persone dedite a operazioni bancarie. La città più grande e più ricca era Roma, febbrilmente ingranditasi nei secoli II e I a.C. I punti migliori della città erano occupati dagli splendidi palazzi dei potenti magnati romani, senatori o cavalieri. Un vivo movimento d’affari si svolgeva quotidianamente nella Borsa situata accanto al tempio di Castore sulla grande piazza pubblica di Roma, il Foro. Ivi folle d’uomini compravano e vendevano azioni e obbligazioni di compagnie appaltatrici d’imposte, merci svariate, in contanti o a credito, fattorie e tenute in Italia e nelle province, case e botteghe a Roma e altrove, navi e magazzini, schiavi e bestiame. Nelle botteghe del Foro e delle vie adiacenti migliaia d’artigiani e di merciai liberi, e migliaia di schiavi, agenti e fattori di ricchi capitalisti, fabbricavano merci e le vendevano ai clienti. Nelle parti meno centrali di Roma masse di proletari disoccupati od oziosi vivevano in grandi caseggiati d’affitto, pronti, per potere sbarcare il lunario, a vendere i loro voti e i loro pugni a chiunque avesse denaro da pagarli29.
ni e le colline siano diventati centri di viticoltura e di frutticoltura. A un tempo essa produceva ancora grandi quantità di grano (vd. il mio articolo Frumentum, col. 131; aggiungere alle fonti ivi citate: ELIO ARISTIDE, Eij~ ÔRwvmhn (Or. 26, ed. Keil), 13; il mosaico di Ostia con le personificazioni delle quattro province granifere Spagna, Sicilia, Africa, Egitto, vd. G. CALZA, «Boll. Comm. arch com. di Roma», 1912, pp. 103 sgg. (secondo il competente giudizio di M. BLAKE il mosaico appartiene agli inizi del sec. I d.C.); e per un periodo ancor più tardo CASSIOD., Var., 4, 7. Non mi riesce di aver fede nella teoria del completo esaurimento del fertile suolo siculo. Per quel che concerne la mano d’opera adibita in Sicilia, mi sento indotto a pensare che i gewrgoiv di Cicerone (da 12 a 13.000 circa) fossero agiati proprietari che coltivavano le loro tenute e fattorie allo stesso modo dei proprietari italici, cioè in parte mediante schiavi, in parte mediante coloni e servi degli antichi gewmovroi. Sui Killuvrioi, servi dei gewmovroi nel V sec. a.C., vd. J. BELOCH, Gr. Gesch., I2, 1, p. 305, nota 3. Sulla Sardegna e Corsica vd. E. PAIS, Storia della Sardegna ecc., I e II (1923). 28. Vedi nota 19. 29. T. FRANK, Economic History, 19272, pp. 324 sgg.
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TAV. IV – TOMBA DEL FORNAIO EURYSACES
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DESCRIZIONE DELLA
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TOMBA DI M. VERGILIUS EURYSACES. Roma, via Casilina, presso Porta Maggiore. CANINA e O. JAHN, «Ann. d. Inst. di corr. arch.», 1838, pp. 219 sgg. (monumento) e pp. 240 sgg. (rilievi); cf. «Mon. d. Inst.» II, tav. 58; H. BLUEMNER, Technologie und Terminologie, I, 2 (1912), pp. 40 sgg. figg. 13-15 (da fotografie). Fine dell’età repubblicana o primi anni d’Augusto. Il monumento è di forma singolare non facilmente spiegabile. L’intenzione di Eurysaces fu di ricordare all’osservatore il proprio mestiere sia con la forma del sepolcro sia con le iscrizioni e i rilievi. In tutti i lati del monumento è ripetuta la stessa iscrizione: Est hoc monimentum Marcei Vergilei Eurysacis, pistoris, redemptoris; apparet (con lievi varianti). Vd. C. I. L. I, 1013-15; VI, 1958; DESSAU, 7460 a-c; cf. l’i-
1.
2.
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RILIEVI DELLA TOMBA DI EURYSACES
scrizione sepolcrale della moglie d’Eurysaces, C. I. L. I, 1016; VI, 1958; DESSAU, 7460 d; e quella di un amico di lui, C. I. L. I, 1017; VI, 9812. L’iscrizione significa: «Questo è il sepolcro del fornaio e impresario Marco Vergilio Eurisace; egli fu anche apparitor» (assistente d’un magistrato). I rilievi, qui riprodotti dai disegni dei «Mon. ant. dei Lincei», rappresentano vari momenti del mestiere del fornaio: dapprima la pulitura e lavatura del grano, poi la macinazione, indi l’impastamento della farina, l’arrotolamento della pasta e la cottura (2 e 3), infine la consegna del pane ai magistrati, per i quali Eurisace lavorava in qualità d’impresario (1). È la raffigurazione tipica d’una grande intrapresa industriale della tarda età repubblicana o della prima età imperiale, nella quale erano adibiti numerosi lavoratori, forse centinaia, schiavi e liberi.
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Le ondate di terrorismo, gli spasimi della guerra civile si succedevano gli uni agli altri, trascinando via un certo numero di membri dei gruppi su menzionati; ma il gruppo in sè rimaneva intatto e immutato, i perduti essendo compensati dai loro eredi e da nuovi venuti. Un gruppo di proprietari fondiari, residente in una delle città italiche, veniva spogliato delle terre avite, e veterani degli eserciti rivoluzionari – nati anch’essi in Italia –, agricoltori, contadini, proprietari di terre, diventavano padroni delle ville rurali degli espropriati, dei loro campi, talvolta delle loro dimore urbane. I proprietari scacciati erano, senza dubbio, rovinati: emigravano nelle grandi città o nelle province, andavano ad aumentar le file del proletariato disoccupato, si arruolavano negli eserciti rivoluzionari; e così via. Ma difficilmente il mutamento veniva risentito dall’Italia in generale. I veterani erano tutti cittadini romani; tutti, o quasi, erano nati sui campi o sulle montagne d’Italia. È improbabile che neppure a Roma esistesse un proletariato urbano di nascita. Il proletario d’oggi era il proprietario rurale d’ieri, il soldato; l’agente d’affari, l’artigiano, l’operaio di domani. In un paese così densamente popolato, i nuovi venuti erano rapidamente assorbiti, così nella campagna come nelle città. Quanto fosse agevole l’assorbimento è dimostrato dall’esempio di Pompei, dove una colonia di veterani sillani si fuse a poco a poco con la popolazione originaria della città. Certo non dobbiamo troppo svalutare l’importanza della periodica redistribuzione della proprietà rurale avveratasi nel corso della guerra civile. Secondo calcoli accurati, non meno di mezzo milione di persone ricevettero terre in Italia negli ultimi cinquant’anni di quel torbido periodo30. Dopo i grandi mutamenti cagionati dalla guerra «sociale», queste redistribuzioni furono forse il fattore più efficace di romanizzazione e latinizzazione dell’Italia: ne fa testimonianza appunto Pompei, dove nel corso del secolo I a.C. la lingua osca fu completamente soppiantata dalla latina. D’altra parte, non dobbiamo neppure esagerare l’importanza che sotto il mero aspetto economico può aver avuto questo mutamento delle persone dei proprietari. Anche ammettendo che la maggior parte dei veterani siano diventati contadini agricoltori e abbiano lavorato la terra con le loro mani – il che, però, è vero soltanto per una parte di essi – la creazione di queste nuove proprietà contadinesche difficilmente può aver cambiato l’indirizzo economico, che tendeva alla formazione di grandi tenute possedute da proprietari che non dimoravano in esse e le consideravano semplicemente come una delle fonti dei loro redditi. In ogni caso è certo che, a mano a mano che la guerra civile faceva il suo corso, le concessioni di terre ai veterani tendevano propriamente a creare, non nuovi poderi contadineschi, ma nuove tenute rurali di possidenti urbani. Ciò è dimostrato dall’estensione sempre maggiore dei fondi assegnati ai veterani. La maggior parte di costoro andava dunque ad aumentare il numero non già dei contadini ma degli abitanti di città, non della classe lavoratrice ma della borghesia italica31. Né la distribuzio-
30. J. KROMAYER nei «Neue Jahrb. f. Klass. Alt.», 33 (1914), pp. 157 sgg. 31. E. KORNEMANN, Colonia, «R. E.», IV, col. 575; E. PAIS, Serie cronologica delle colonie romane e latine dall’età regia fino all’Impero, «Mem. d. Acc. dei Lincei», V ser., vol XVII, fasc. VIII (1924), TH. MOMMSEN, Zum römischen Bodenrecht, nelle Hist.
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ne delle terre arrestò l’incremento dei grandi dominii fondiari. Qualcuna delle grandi tenute confiscate dai capi militari nel corso della guerra civile può essere stata bensì frazionata tra piccoli proprietari; ma di regola esse o rimanevano nelle mani di chi per il momento dominava lo Stato a costituire il fondamento della sua personale influenza, poggiante sul numero dei clienti, o erano vendute a pronti contanti per riempire i tesori sempre esausti di questi capipartito. Assai più importanti mutamenti s’ebbero nelle province. Sebbene queste, eccettuati i cittadini romani in esse dimoranti, non abbiano partecipato alle guerre civili, furono quelle che maggiormente ne soffrirono. Esse appunto dovettero sostenere le immense spese di queste guerre. Il peso più grave cadde sulle province orientali, come abbiamo già visto. Diamo adesso per un momento uno sguardo alla situazione creatasi in Occidente. Per la prima volta nella storia romana le province occidentali furono sottoposte a una sistematica colonizzazione italica. I tentativi fatti da C. Gracco e da qualcun altro dei suoi successori per attuare siffatta colonizzazione dell’Occidente erano riusciti vani, e non avevano messo capo a niente di importante. Ma nel corso della guerra civile ondate di emigranti romani si riversarono l’una dopo l’altra sulla Gallia, sulla Spagna, sull’Africa. Gli stanziamenti più notevoli furono le colonie romane costituite dai capi del movimento rivoluzionario specialmente quelle di Mario in Africa*, e di Antonio, Cesare, Augusto in Gallia, Spagna, Africa, e anche in alcune parti dell’Oriente, specialmente nell’Asia Minore. Ma questi stanziamenti regolari non furono i soli che si ebbero nelle province nel corso delle guerre civili: gruppi considerevoli d’Italici vi si stabilirono di propria iniziativa. In qualità di intraprenditori, prestatori di denaro, agenti delle compagnie appaltatrici delle imposte, essi si univano coi coloni romani e con la popolazione indigena delle città della Gallia, della Spagna, dell’Africa, della Numidia. La storia di non poche città africane e numidiche mostra quale elemento importante costituissero nella vita civica di queste regioni quei gruppi di cittadini romani. Possiamo prendere ad esempio la città di Thugga in Africa e quella di Cirta, l’antica capitale dei re numidici, in Numidia: né l’una né l’altra erano state in origine colonie militari (Cirta ebbe una colonia romana solo nel 44 a.C.), ma in entrambe i cittadini romani avevano la direzione della vita economica e sociale. Indubbiamente somiglianti emigra-
Schr., vol. II, p. 87; H. NISSEN, Ital. Landeskunde, II, pp. 27 sgg. e 32 sgg. Sulle colonie militari degli imperatori romani da Augusto a Traiano, vd. RITTERLING «R. E.», XII (1924), pp. 1213 sgg. Fin dal 189 e 181 a.C., quando furono create le colonie di Bononia e di Aquileia, i lotti assegnati ai colonisti giunsero fino a 50 e 140 jugera, quasi una centuria (H. NISSEN, op. cit., II, p. 230 e 264). È difficile supporre che appezzamenti di tale estensione potessero venir coltivati da una sola famiglia. È probabile adunque che questi colonisti ronani fossero proprietari che risiedevano in città e coltivavano le loro terre per mezzo di schiavi o di coloni affittuari. Date queste condizioni è facile capire come Aquileia sin da principio sia stata una ricca città di proprietari agiati prima ancora di diventar centro commerciale. *. Vd. infra, cap. VII, p. 495.
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zioni si ebbero anche nelle città preromane, greche e semigreche, della Spagna meridionale e della più antica provincia romana della Gallia. E sebbene non si posseggano dati diretti si può supporre che alcuni degli emigranti italici, i poveri coloni delle grandi tenute italiche, abbiano prestato facile ascolto ai suggerimenti dei loro padroni, che li avranno consigliati ad emigrare nelle terre promesse d’Africa, dove avrebbero potuto prendere in fitto fondi più estesi e migliori dai ricchi proprietari della provincia. La corrente dei cittadini romani, che nei primi tempi s’era avviata di preferenza verso l’Oriente, nel I secolo a.C. piegò in tal modo verso Occidente. Le condizioni dell’Oriente erano così infelici, i pericoli che vi minacciavano i residenti romani così reali (come aveva dimostrato il massacro ordinato da Mitridate), le buone occasioni così diminuite per effetto del malgoverno romano, che la gran massa degli emigranti preferiva recarsi a cercar fortuna nei nuovi paesi d’Occidente. Se la Gallia, la Spagna, l’Africa più o meno si romanizzarono, ciò fu dovuto all’intensa colonizzazione di questi paesi operatasi durante le guerre civili. Le province occidentali ricevettero dall’Italia nuovi capitali, nuove energie, nuove abitudini di vita; e dopo gli Italici vennero i Greci e gli Orientali. Non sappiamo quanti di questi nuovi abitanti siano venuti a stabilirsi nelle province in qualità di lavoratori manuali e di contadini, ma i più non erano certamente semplici contadini, affittuari, artigiani, sibbene proprietari fondiari, intraprenditori, uomini d’affari, che si stabilivano non già in campagna, ma in città32.
32. W. HEITLAND (vedi nota 19) non crede a una larga emigrazione di contadini italici nelle province: e ciò per la ragione che nel secolo I a.C. non vi sarebbero stati in Italia contadini liberi. Ma è indubbio che nel I sec. a.C. e anche più tardi parecchie regioni d’Italia erano ancora paesi di contadini, alcune anzi di contadini poverissimi, coloni affittuari di grandi proprietari. Ho già citato i dati relativi al gran numero di coloni dell’Italia centrale che nel sec. I a.C. vivevano sulle tenute dei magnati romani. Nell’Italia settentrionale il contadiname era formato dai residui della popolazione celtica e dagli abitanti dei territori «attribuiti» (vd. cap. V). Certamente non abbiamo alcuna prova che questa classe di Italici abbia emigrato nelle province al pari della borghesia benestante delle città; ma non posso non pensare, tuttavia, che le violente convulsioni che nel sec. I agitarono l’Italia e le frequenti distribuzioni di terre (dopo Filippi i territori di intiere città vennero donati ai veterani da Augusto) abbiano colpito non soltanto la borghesia cittadina ma anche i piccoli proprietari, sia contadini indipendenti sia coloni. Se ciò non si ammette, non si può spiegare la completa romanizzazione della Gallia meridionale, della Spagna meridionale, di alcune parti dell’Africa. E chi erano i colonisti stanziati da Augusto in Macedonia (DIO CASS., Li, 4)? Erano tutti agiati proprietari di terre? È vero che, al pari di tanti altri punti della storia antica, l’emigrazione da me ammessa non può rigorosamente provarsi; ma lo stesso HEITLAND nel combatter la mia ipotesi ha recato buoni elementi in favore di essa; cf. il suo Agricola, p. 274 (con una nota insufficiente del Reid sulle città africane). Mi rincresce che perfino il KUBITSCHEK parlando, nel suo pregevole lavoro sulle città di Palestina, delle doppie comunità dell’Africa (cittadini romani e indigeni), non prenda in considerazione il complesso del materiale disponibile (Zur Geschichte der Städte des römischen Kaiserreichs, nei «Sitzb. Wien. Akad.», 177 (1916), 4, pp. 97 sgg.); cf. R. CAGNAT, L’Annone d’Afrique, «Mém. de l’Inst.», 40 (1916), p. 258, e
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È difficile racchiudere in una formula breve e comprensiva le condizioni politiche, economiche e sociali dello Stato romano nel secolo I a.C. Sotto l’aspetto politico, lo Stato romano era un Impero governato de iure dalla massa dei cittadini romani, che in realtà però erano rappresentati da un corpo dirigente di cittadini nobili e ricchi, membri del Senato. Le province erano considerate come predi di questa comunità dominante. Nell’interno di quest’ultima si conservava quasi intatta con leggiere modificazioni, la costituzione della città-Stato. Sotto l’aspetto sociale, la comunità si componeva di una classe dominante piuttosto esigua, residente a Roma, e costituita in massima parte di proprietari di vaste tenute in Italia e nelle province. Insieme con questa classe senatoria un’altra numerosa e influente classe di uomini d’affari e di proprietari terrieri costituiva lo strato superiore della popolazione, così nella capitale come nelle città italiche, e per lo più viveva di rendita. La vera classe lavoratrice era composta di piccoli intraprenditori e di artigiani nelle città, di schiavi nelle botteghe e negli uffici della borghesia, di liberi contadini possidenti nella campagna, e di una moltitudine ognor crescente di schiavi e di coloni nelle tenute della borghesia agraria. Lo stesso raggruppamento si ripeteva tra i nuclei di cittadini romani stabiliti nelle province. Nei riguardi della vita economica, troviamo quasi lo stesso tipo di capitalismo che si era svolto in Oriente prima del periodo ellenistico e durante il medesimo. Le merci venivano liberamente scambiate all’interno dello Stato romano e coi suoi vicini. Il ramo più importante di questo commercio era costituito non da oggetti di lusso, ma da articoli di prima necessità: grano, pesci, olio, lino, canapa, lana, legname, metalli, prodotti manifatturati. Dalle zone più esterne del mondo greco-romano venivano derrate alimentari e materie prime; dalle città greche e dall’Italia, olio, vino, manifatture. Gli affari di denaro e di banca erano diventati privilegio quasi esclusivo dell’Italia e soprattutto di Roma, dacché la più gran parte della moneta era ormai concentrata nelle mani di capitalisti romani. Le condizioni politiche contribuivano ampiamente non soltanto a fare di questo genere di attività un monopolio romano, e specialmente dei banchieri della capitale, ma anche a dargli un carattere d’usura, che minacciava assai gravemente il sano svolgersi di un normale sistema capitalistico. Altro ostacolo era il lento sviluppo dell’industria, l’arresto sia dei progressi tecnici nell’industria sia della trasformazione delle botteghe d’artigiani in vere fabbriche. La piccola officina dell’artigiano continuava ad essere il modo principale di produzione, e neppure il fatto che varie officine di questo tipo appartenessero ad uno stesso proprietario riusciva a trasformarle in una fabbrica nel senso moderno della parola. Dobbiamo tuttavia tener presente che in queste officine il lavoro era già assai differenziato, e che la maggior parte di esse, specialmente nei grandi centri industriali, lavorava
infra, cap. VII, nota 60. Sulla colonia di Gracco a Cartagine, vd. C. CICHORIUS, Römische Studien (1922), pp. 113 sgg. A giudicare dagli esempi addotti dal KUBITSCHEK, sembrerebbe che il sistema della doppia comunità sia stato applicato dai Romani soltanto ad alcune antiche città fenicie dell’Africa e della Fenicia (doppia comunità di Ascalona).
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I. L’Italia e la guerra civile
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non su commissione ma per un mercato indefinito. Tra i grandi centri industriali del mondo antico cominciavano ad assumer posto preminente alcune città italiche, come Capua e Cales per la metallurgia e la ceramica, Taranto per le stoffe di lana e per l’argenteria, Arezzo e Puteoli per un tipo speciale di ceramica verniciata di rosso. Ma l’Italia non fu mai alla testa dello sviluppo industriale: questa funzione era riservata alle città dell’Oriente Greco33.
33. Posso limitarmi a queste brevi osservazioni sul commercio, le banche, l’industria del mondo antico nel sec. I a.C., dacché questa materia costituisce l’argomento principale del libro del FRANK, Economic History, 19272, pp. 219 sgg.: industria alla fine della repubblica; pp. 275 sgg.: capitale; pp. 298 sgg.: commercio; cf. T. FRANK, Rome and the Italy of the Republic, in An Economic Survey of Ancient Rome, I, Baltimore, 1933, pp. 352 sgg.), ed è stata anche trattata, con competenza e dottrina, da H. GUMMERUS, Industrie
und Handel, «R. E.», IX, 2, coll. 1444 sgg.; cf. R. SCALAIS, Le Développement du commerce de l’Italie rom. entre la première guerre punique et la deuxième, «Musée Belge», 32 (1928), pp. 187 sgg.; H.J. Loane, Industry and Commerce of the City of Rome (50 B.C.-200 A.D.), Baltimore, 1938. Intorno alla mano d’opera adibita nelle fabbriche di ceramiche ad Arezzo, cf. M.E. PARK, The Plebs in Cicero’s Days, Bryn Mawr College, 1918; H. COMFORT in T. FRANK, An Economic Survey of Ancient Rome, V, Baltimore, 1940, pp. 188 sgg. Nuovi interessanti dati, che attestano il largo uso di lavoro libero nelle opere pubbliche, sono forniti dalle importanti iscrizioni che riguardano l’organizzazione del lavoro per l’assestamento del fiume Athesis (Adige) dopo la battaglia d’Azio. Può essere che gli uomini ivi adoperati fossero alcuni dei veterani dell’esercito di Augusto e che quel provvedimento fosse uno dei mezzi escogitati per tenere occupato quest’elemento irrequieto frattanto che Augusto andava cercando terre da poter dare ai veterani (C. I. L. V, 2603, e F. BARNABEI, nelle «Not. d. scavi», 12 (1915), p. 139; R. CAGNAT e BESNIER nella Ann. ép., 1916, n. 60). Merita attenzione l’iscrizione di Delo, recentemente studiata da E. CUQ nel «B. C. H.», 46 (1922), pp. 198 sgg., cf. DURRBACH, Choix, 163, cf. 165, la quale mostra come alcuni capipartito romani (Gabinio e probabilmente dopo lui Pompeo) cercassero di restaurare la prosperità di Delo dopo la guerra piratica di Pompeo (58 a.C.). È noto che la crescente prosperità dell’Italia, specialmente meridionale, e il corrispondente incremento del bel porto di Puteoli impedirono a Delo di riacquistare neppure una piccola parte della sua antica importanza e concentrarono in buona parte il commercio mondiale (in concorrenza con Alessandria) a Puteoli: vd. CH. DUBOIS, Pouzzoles antique (1907); R. CAGNAT, Le Commerce et la propagation des religions dans le monde romain, nelle «Conférences faites au Musée Guimet», 31 (1909), pp. 131 sgg. (su Delo, Puteoli, Roma); cf. K. LEHMANN-HARTLEBEN, Die antiken Hafenanlagen des Mittelmeeres, «Klio», Suppl. 14 (1923), pp. 152 sgg. (Delo), pp. 163 sgg. (Puteoli). È altresì interessante seguire lo sviluppo delle banche romane su modelli ellenistici, specialmente ateniesi, rodii, delii; vedi R. HERZOG, Aus der Geschichte des Bankwesens im Altertum. Tesserae nummulariae, 1919 (cf. M. CARY, nel «J. R. S.», 13 (1923), pp. 110 sgg. e J. BABELON, in «Aréthuse», 1928, pp. 6 sgg.); F. PRINGSHEIM, Zum römischen Bankwesen, nella «Vierteljahresschr. f. Sozial. u. Wirtschaftsg.», 15 (1919), pp. 513 sgg.; B. LAUM, «R. E.», Suppl. IV, coll. 72 sgg., cf. SALIN, «Schmoller’s Jahrb. f. Gesetzg. etc.», 45 (1921), pp. 196 sgg.; E. ZIEBARTH, Beiträge zur Gesch. d. Seeraubes ecc. (1929), pp. 85 sgg.
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TAV. V – STATUA D’AUGUSTO RINVENUTA A PRIMA PORTA (Roma, Vaticano)
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Le opinioni degli studiosi moderni intorno al carattere e al significato dell’attività di Augusto sono non poco divergenti. Senza dubbio egli fu un grand’uomo, e la costituzione da lui data allo Stato romano rimase a fondamento dell’evoluzione di almeno due secoli. Senza dubbio, inoltre, con lui s’inizia nella storia del mondo antico una nuova età, che siamo soliti chiamare età dell’Impero romano. Su questi punti v’è completo accordo fra tutti gli studiosi moderni. Ma non appena si passa a definire più precisamente quelle che si chiamano le riforme d’Augusto, sorgono le divergenze, apparentemente inconciliabili. Alcuni studiosi ritengono che quella d’Augusto sia stata opera di pura e semplice restaurazione, e che egli non si sia proposto se non di ricondurre lo Stato romano al passato; altri reclamano per lui il titolo di riformatore rivoluzionario, che sotto il manto di certe antiche formule sarebbe riuscito a creare una costituzione affatto nuova, cioè il governo prettamente monarchico del duce dell’esercito romano. Altri ancora assumono una posizione intermedia1.
1. Le migliori esposizioni dello stato della controversia, insieme con buone bibliografie comprendenti anche i lavori più recenti, sono date da E. KORNEMANN, Die römische Kaiserzeit, in A. GERCKE e E. NORDEN, Einleitung in die Altertumswissenschaft, III, 1912 (1914), pp. 266 sgg. (Repubblica e monarchia) e da E. SCHOENBAUER, Untersuchungen zum römischen Staats und Wirtschaftsrecht I. Wesen und Ursprung des römischen Prinzipats, «Zeitschr. d. Savigny-Stif.», 47 (1927), pp. 264 sgg. Nell’articolo di K. FITZLER e O. SEECK su Augusto, «R. E.», X, coll. 275 sgg., la controversia non è neppure menzionata e la bibliografia è assolutamente antiquata. Nell’articolo dello SCHOENBAUER il lettore troverà anche una buona esposizione (cf. O. PLASBERG, Cicero in seinen Werke u. Briefen (1926), pp. 135 sgg.) dello stato attuale della questione relativa all’influenza che le teorie svolte da Cicerone intorno al princeps (o rector) nel De re publica ebbero su Augusto, e una buona analisi (con relativa bibliografia) del concetto di auctoritas adoperato da Augusto medesimo per definire la propria posizione nello Stato romano (Res gestae, cap. 34); cf. W.M. RAMSAY e A. VON PREMERSTEIN, Monumentum Antiochenum, «Klio», Suppl. 19 (1927). Sono lieto di constatare che le vedute dello SCHOENBAUER intorno al carattere giuridico del Principato d’Augusto concordano con quelle da me formulate nel testo di questo capitolo. Come lui, anch’io credo che il Principato augusteo sia stato una nuova forma di governo accetta-
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Io non intendo discutere queste teorie in tutte le loro varianti, ma soltanto addurre alcuni fatti e proporre la mia spiegazione di essi, concentrando l’attenzione sui lati economici e sociali del problema. Nel capitolo precedente è stato mostrato come la cessazione della guerra civile sia stata imposta dalla volontà quasi unanime delle popolazioni dell’Impero romano, e specialmente
ta con tacito consenso dalla massa della popolazione dell’Impero, e specialmente dai cittadini romani. Sull’Italia che sosteneva Augusto nella guerra civile: G. CARDINALI, Amministrazione territoriale e finaziaria, in Augustus. Studi in occasione del bimillenario augusteo, Roma, 1938, partic. pp. 168 sgg. e la bibliografia (gli importanti contributi di A. Ferrabino e Cardinali stesso sono elencati da Cardinali, loc. cit., p. 169, nota 1). Intorno
ad Augusto e al suo governo, vd., oltre gli scritti citati dallo SCHOENBAUER e da E. KORNEMANN, Mausoleum u. Tatenbericht des Augustus (1921); H. DESSAU, Gesch. der röm. Kaiserzeit, I (1924); T. RICE HOLMES, The Architect of Roman Empire (1928); D. MC FAYDEN, The History of the Title Imperator (1920); IDEM, The Rise of the Princeps’ Jurisdiction within the City of Rome, «Washington Univ. St.», 10, pp. 181 sgg; IDEM, The Princeps and the Senatorial Provinces, «Class. Philol.», 16 (1921), pp. 34 sgg.; H. WILLRICH, Augustus bei Tacitus, «Hermes», 62 (1927), pp. 54 sgg.; M. GOTSCHALD, Augustus u. seine Zeit (1927). Va rilevato in modo speciale che l’antica controversia relativa al maius imperium d’Augusto nelle province senatorie, per cui fu messa definitivamente da parte la teoria della «diarchia», è stata risolta da uno degli editti recentemente rinvenuti a Cirene (cf. note 3a, 5 e 6a al presente capitolo; A. VON PREMERSTEIN, «Zeitschr. d. Savigny-Stif.», 48 (1928), p. 435). [Si può aggiungere che nuovi e importanti dati, utili per una migliore intelligenza di Augusto, sono stati messi in luce dall’escavazione completa del suo mausoleo. L’importante gruppo d’iscrizioni ivi trovato non è stato ancor pubblicato: un’interessante notizia preliminare ne dà l’opuscolo di A. MUNZO e A.M. COLINI, Il Mausoleo di Augusto, 1930]. Lo stato attuale del dibattito sul carattere del Principato augusteo e un elenco completo dei moderni contributi alla discussione del problema, specialmente in relazione alle celebrazioni del bimillenario della nascita di Augusto, si troveranno nei capp. V e VI di sir HENRY STUART JONES della C. A. H. X, Cambridge, 1934 (bibliografia pp. 913 sgg.); in E. KORNEMANN, Die römische Keiserzeit, in A. GERCKE e E. NORDEN, Einleitung in der Altertumswissenschaft, III, 2, Leipzig-Berlin, 19333, pp. 57 sgg.; E. KORNEMANN, Römische Geschichte II. Die Kaiserzeit, Stuttgart, 1939, pp. 128 sgg. (bibl. p. 535). Cf. la bibliografia nella recensione di E. MÜLLER all’Augustus di K. HÖNN del 1938 («Philol. Woch.», 60 (1940), coll. 92 sgg.) e le vecchie bibliografie che riguardano opere recenti nel campo della storiografia antica su varie riviste. I più importanti contributi recenti al problema sono quelli di E. SCHOENBAUER, Untersuchungen zum römischen Staatsund Wirtschaftsrecht I. Wesen und Ursprung des römischen Prinzipats, «Zeitschr. d. Savigny-Stif.», 47 (1927), pp. 264 sgg., M. HAMMOND, The Augustan Principate in Theory and Practice during the Julio-Claudian Period, Cambridge Mass., 1933; A. VON PREMERSTEIN, Vom Werden und Wesen des Prinzipats, München, 1937; H. VOLKMANN, Zur Rechtsprechung im Prinzipat des Augustus, München, 1935 («Münchener Beiträge zur Papyrusforschung», 21); cf. IDEM, Der Prinzipat des Augustus, «Neue Jahrb. f. Wissensch. u. Jugendb.», 113 (1938), pp. 16 sgg.; A.D. WINSPEAR e L.K. GEWEKE, Augustus and the Reconstruction of Roman Government and Society, Madison, 1935 («Univ. of Wisconsin Studies in Soc. Sc. and Hist.», 24); W. WEBER, Princeps, I, Berlin, 1936 [cf. E. KORNEMANN in «Gnomon», 14 (1938), pp. 489 sgg. e 548 sgg.]; E. KORNEMANN, Römische Geschichte II. Die Kaiserzeit, Stuttgart, 1939; F. DE MARTINO, Lo Stato di Augusto, Napoli, 1936, e R. SYME, The Roman Revolution, Oxford, 1939.
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dello strato più attivo e influente di esse, la grande massa dei cittadini romani di Italia e delle province. Tutte le classi, in cui quest’elemento era diviso, insistevano su questo punto essenziale: la cessazione della guerra civile e la restaurazione della pace. Se Augusto desiderava di consolidare il suo potere, prima d’ogni altra cosa doveva assicurare il ristabilimento della pace. Tutti erano stanchi e disgustati, e confidavano che la battaglia di Azio dovesse esser l’ultima della guerra civile. Tuttavia la parte dirigente della popolazione dell’Impero non era affatto disposta ad accettare ogni e qualsiasi soluzione del problema. I cittadini romani avevano combattuto per la restaurazione dello Stato romano, non per la creazione di una monarchia orientale più o meno larvata. Essi bramavano pace, ma pace per uno Stato veramente romano: vale a dire erano disposti a sostenere Augusto solo in quanto egli mostrasse volontà e capacità, nel ristabilire la pace, di conservare tutti i privilegi goduti nello Stato dai cittadini romani d’ogni classe. Facendo appello, nella lotta contro Antonio, al patriottismo dei cittadini romani, Augusto s’era impegnato a mantenere la promessa loro fatta tacitamente di non diminuire i loro diritti e privilegi e anzi di accrescerli, o almeno di definirli e consolidarli meglio. Solo a queste condizioni i cittadini di Roma erano disposti a riconoscere ben volentieri Augusto come loro capo e come capo costituzionale della comunità romana del Senatus populusque Romanus. In questo senso Augusto aveva davanti a sé un compito chiaro e relativamente facile; ed era compito di restaurazione. Riforme radicali non erano né necessarie né desiderate. La maggior parte delle riforme dettate dalla necessità d’adattare la costituzione romana, la costituzione d’una città-Stato, ai bisogni d’uno Stato mondiale, erano state già attuate dai predecessori d’Augusto, da coloro che avevano guidato gli eserciti romani nel periodo delle guerre civili: da Mario, da Silla, da Pompeo, da Cesare, da Antonio, da Augusto medesimo. Tutto ciò che ora si richiedeva era di rimettere in movimento il meccanismo dello Stato romano e di guidarne il lavoro. Ma la semplice restaurazione non assicurava una rigenerazione duratura dello Stato romano. La guerra civile aveva introdotto nel congegno dello Stato due nuovi elementi, che non potevano essere trascurati o messi da parte, come sarebbe dovuto avvenire in un’opera di mera restaurazione; essi, infatti, costituivano ormai in quel congegno le vere ruote motrici. Questi due nuovi elementi erano l’esercito diventato permanente e il suo comandante in capo, l’imperatore Augusto, Imperator Caesar divi filius Augustus. L’esercito era là, né poteva venir disciolto, in quanto era urgentemente necessario per tutelare la pace esterna e interna. Non vi poteva essere né tranquillità, né ordine, né pace, né prosperità, senza un forte esercito ben disciplinato e ben pagato. Quest’esercito, o almeno il nucleo di esso, doveva inoltre esser composto di cittadini romani, se si voleva che questi conservassero nell’Impero la loro posizione di padroni e dominatori. La guerra civile d’altra parte aveva dimostrato che un esercito permanente e disciplinato era strumento efficace solo se comandato da un uomo solo, da un uomo che l’esercito accettasse come suo capo, non che gli fosse imposto dal popolo o dal Senato di Roma; un uomo che, se pure non eletto formalmente dai soldati e dagli ufficiali, godesse il loro affetto e la loro fiducia. In questo stava la grande antinomia risultante dalle nuove condi-
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zioni generali dell’Impero romano. Il nuovo Stato doveva essere la restaurazione dell’antico, dello Stato costituzionale del periodo repubblicano, ma a un tempo doveva anche assumere in sé i principali strumenti del periodo rivoluzionario, l’esercito rivoluzionario e il suo duce. Varie soluzioni di siffatto problema erano state tentate dai predecessori d’Augusto. Una, quella di Silla e fors’anche di Pompeo, era che l’esercito si subordinasse al Senato e che il comandante governasse in qualità di magistrato ordinario dello Stato romano. Un’altra, che sembra la soluzione accarezzata da Cesare, consisteva nel tenere l’esercito sotto il comando del supremo magistrato del popolo romano, togliendo al Senato ogni rapporto con esso. Augusto scelse in sostanza, questa seconda via. Che l’esercito potesse venir riconsegnato al Senato, non era cosa fattibile: ciò avrebbe significato senz’altro il rinnovarsi delle guerre civili, giacché l’esercito non era affatto disposto ad accettare una soluzione come questa. Non vi era per Augusto altra possibilità che quella di rimaner lui alla testa dell’esercito, come comandante in capo, e di non permettere che altri potesse partecipare al comando con pari autorità. Ciò significava in pratica creare accanto allo Stato costituzionale restaurato una tirannide militare, e mantenere un’istituzione rivoluzionaria a fianco della normale amministrazione dello Stato. E – cosa di non poco momento – significava pure che in teoria l’esercito aveva piena libertà di darsi un altro comandante, se l’attuale non godeva più il suo affetto e la sua fiducia o non adempiva alle obbligazioni assunte verso di esso. L’opera politica di Augusto consisté adunque non nel restaurare ciò che esisteva prima delle guerre civili, ma nel consolidare e riadattare con le necessarie modificazioni ciò ch’era stato creato dalle guerre civili. Egli prese alcuni provvedimenti per rendere quant’era possibile innocuo l’esercito nei riguardi politici. Le legioni, infatti, furono stanziate non già in Italia, ma alle frontiere dello Stato romano: in Italia stazionava soltanto un piccolo corpo di truppe, la guardia pretoriana dell’imperatore. Tanto le legioni quanto la guardia erano composte soltanto di cittadini romani, e comandate da ufficiali appartenenti esclusivamente alle due classi superiori della cittadinanza romana, alla classe senatoria, cioè, e alla classe equestre. Le forze ausiliarie, fornite dalle province, erano considerate come truppe irregolari, truppe di «alleati», e stavano al comando di ufficiali romani. La flotta di stazione in Italia aveva ciurme levate nello strato inferiore della cittadinanza romana, tra i liberti e i provinciali. Liberti prestavano servizio anche nei sette reggimenti di vigili urbani, che insieme con le coorti urbane facevano il servizio di polizia nella capitale. Tutti questi accorgimenti tuttavia furono vani. In realtà l’esercito era padrone dello Stato, e nella restaurata repubblica romana l’imperatore governava soltanto in quanto disponeva dell’esercito e finché questo era disposto a tenerlo e ad obbedirgli. Un esercito di soldati di professione, che prestavano servizio per sedici, venti, venticinque anni (secondoché appartenevano all’arma dei pretoriani, o dei legionari, o degli ausiliari), un esercito di attuali o futuri cittadini romani, di attuali o futuri membri del sovrano popolo romano, non lo si poteva tanto facilmente eliminare dalla vita politica dello Stato; e se non era eliminato, doveva per necessità diventare praticamente (se non costituzionalmente) la forza politica decisiva.
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Non era possibile alcun’altra soluzione del problema. Perché i cittadini romani, che avevano vinto la guerra in favore di Augusto, potessero rimanere nell’Impero classe dominante, dovevano compiere il primo dovere connesso con tale posizione, quello cioè di difender lo Stato contro i nemici e di tutelare il proprio potere all’interno. L’esercito doveva essere permanente e professionale: una milizia non poteva più difender le frontiere dello Stato romano. La tecnica militare di quest’età era diventata così complicata, da non poter venire appresa in breve tempo; nell’Impero romano la brevità del servizio militare era cosa impossibile poiché per costituire un’efficiente forza di combattimento occorrevano vari anni di allenamento assiduo. Ma se l’esercito doveva esser formato di soldati di professione a lunga ferma, non poteva esser normalmente levato in via coattiva, e doveva reclutarsi più o meno tra volontari, fintanto almeno che se ne offrivano in numero sufficiente. Uomini levati obbligatoriamente non sarebbero mai stati dei buoni soldati di professione, disposti a dedicare al servizio tutta la loro vita. Ciò posto, l’esercito doveva esser pagato adeguatamente, e il servizio reso quanto più fosse possibile attraente. In tal modo le spese per l’esercito divennero un onere molto grave per le finanze dello Stato. In realtà, tuttavia, l’esercito si mantenne quieto per tutto il lungo governo d’Augusto, anche verso la fine di esso, quando le gravi difficoltà sorte sul Danubio e sul Reno – la «ribellione» dei Pannoni e dei Dalmati e il «fronte unico» delle tribù germaniche – ebbero reso pericolosissimo il servizio militare e difficilissimo il compito di completare e aumentare le legioni, le coorti, le formazioni montate. Ma anche in mezzo a queste difficoltà, che obbligarono a fare ricorso alla leva coattiva, l’esercito rimase quasi sempre tranquillo e non fece alcun tentativo di assumere una parte qualsiasi nella vita politica. Il fatto si spiega osservando il modo com’esso era composto. L’esercito di Augusto non era più formato esclusivamente di proletari. Il servizio militare, specialmente nei primi anni del governo d’Augusto, era relativamente remunerativo e non molto pericoloso. I pretoriani avevano una posizione privilegiata, un elevato livello sociale, una buona paga e speranza di carriera. Non c’è da stupirsi che ci fossero moltissimi candidati per questa attività tra la borghesia municipale. Meno attraente era il servizio nelle legioni. Si capisce bene come buoni volontari non fossero così numerosi come nel caso dei pretoriani e come il governo fosse costretto a reclutare proletari. Ma ancora, specialmente nell’Italia Occidentale, soldati legionari appartenenti a buone famiglie compaiono frequentemente nella nostra documentazione. Lodevole servizio
significava avanzamento, e l’avanzamento poteva continuare anche dopo il termine normale del servizio; infatti i buoni ufficiali subalterni e i sottufficiali o rimanevano sotto le armi con paga maggiore o entravano nelle file degli impiegati civili come agenti personali dell’imperatore. I soldati semplici erano sicuri di ricevere al termine del servizio un piccolo fondo o una bella sommetta sufficiente a metter su casa e famiglia o a nutrir quella che s’erano formata di fatto, se anche non in forma legale, durante il servizio. Molta gente, perciò, anche di condizione sociale in qualche modo elevata, ambiva era pronta ora ad entrare nelle file dell’esercito. Per giunta, questo non era più composto esclusivamente di nati in Italia. Questa dopo le guerre civili non era più in grado di fornire da sola all’esercito tutte le reclute occorrenti, sicché dovettero venire alla riscossa le
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province romanizzate, anche di alcune parti dell’Oriente, fornendo buoni e fedeli soldati, pochi dei quali, probabilmente, proletari. Non tutti costoro erano neppure cittadini romani, giacché Augusto non esitava, in caso di necessità, a conceder la cittadinanza a ogni recluta che promettesse di diventare buon soldato e che fosse abbastanza romanizzata da capire la scrittura e la parlata latina, o abbastanza civile da impararle presto e bene. Questi soldati provinciali erano anzi forse più leali e più fidi degli Italici, giacché per alcuni di essi il servizio militare significava cospicuo miglioramento di condizione sociale. Altrettanto fide erano le truppe ausiliarie, composte di provinciali poco romanizzati o anche non tocchi affatto dalla civiltà greca o romana: per costoro infatti l’arruolamento nell’esercito voleva dire può aver significato, come regola o come eccezione – la questione è discussa –, alla fine del servizio l’acquisto della cittadinanza romana; e questo era un grande privilegio. Nessuna meraviglia che per essi non esistessero in realtà questioni e aspirazioni politiche2.
2.
Tutte le affermazioni sull’esercito del periodo augusteo sono congetturali. Molto lavoro è stato fatto sull’esercito di Augusto (vd. la magistrale rassegna fattane da A. MOMIGLIANO, I problemi delle Istituzioni militari di Augusto, in Augustus. Studi in occasione del bimillenario augusteo, Roma, 1938, pp. 195 sgg. Ne conosciamo abbastanza bene l’ordinamento, ma siamo male informati sulla composizione sociale della guardia imperiale, delle legioni, delle truppe ausiliarie, della marina, delle forze di polizia. Quel che ci occorrerebbe sapere è non soltanto il sistema di reclutamento dell’esercito romano, ma anche la condizione sociale dei soldati d’Augusto. La magistrale trattazione della questione del reclutamento, fatta da TH. MOMMSEN (Die Conscriptionsordnung der römischen Kaiserzeit, «Hermes», 19 (1884), pp. 1-79, 210-234: Ges. Schr., VI, pp. 20 sgg.), è divenuta classica, e i risultati di essa sono accettati da tutti gli studiosi che si sono occupati recentemente dell’argomento (buone bibliografie si hanno nell’articolo di W. LIEBENAM, «R. E.», V, coll. 615 sgg.; cf. R. CAGNAT in DAREMBERG e SAGLIO, Dict. d. ant., III, 2, pp. 1047 sgg.; A. VON DOMASZEWSKI, Gesch. d. röm. Kaiser, vol. I, pp. 170 sgg.; IDEM, Die Rangordnung des römischen Heeres, «Bonn. Jahrb.», 117 (1908), pp. 192 sgg.; RITTERLING, s. v. Legio, «R. E.», XII (1924), coll. 1213 sgg.; H.M.D. PARKER, The Roman Legions (1928), pp. 169 sgg.). Nuovo materiale hanno arrecato: M. DURY, Les Cohortes prétoriennes, Paris, 1938; A. PASSERINI, Le coorti pretorie, Roma, 1939; L. LEE HOWE, The Pretorian Prefect from Commodus to Diocletian A.D. 180-305, Chicago, 1942; R. CAGNAT, L’Armée romaine d’Afrique (19132),
pp. 287 sgg.; J. LESQUIER, L’Armée romaine d’Égypte (1918), pp. 203 sgg. L’unico studioso che abbia manifestato vedute diverse da quelle del MOMMSEN è O. SEECK nel «Rh. Mus.», 48 (1893), pp. 616 sgg.: il suo articolo tuttavia è raramente citato. Per l’età d’Augusto purtroppo le nostre informazioni sono scarsissime; ma è verosimile che mentre prima del 43 a.C. le legioni degli eserciti occidentali venivano reclutate quasi esclusivamente fra i cittadini romani dell’Italia, della Gallia Narbonese, della Betica, quelle d’Oriente avessero nelle loro file, accanto ai cittadini romani occidentali, molti Galati e un certo numero di Cappadoci. Il posto occupato dai Galati si spiega indubbiamente in parte con una tradizione che risaliva ad Antonio, in parte con la buona qualità dei soldati forniti dalla Galazia. Possiamo supporre anche in Augusto e nei suoi successori il desiderio di romanizzare quelle parti dell’Asia Minore, la cui popolazione era d’origine occidentale e pareva quindi più accessibile alle influenze romanizzatrici che non le parti ellenizzate della regione. Non dobbiamo dimenticare che la Galazia e la Cappadocia erano province molto importanti militarmente, e che quindi si doveva cercare che vi fosse un
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Il punto più importante, tuttavia, era che l’esercito si traeva ormai dalla popolazione di tutto l’Impero, e rappresentava tutte le classi della popolazione medesima, tanto gli ordini senatorio ed equestre, quanto i cittadini romani d’Italia e delle province, gli abitanti romanizzati ed ellenizzati delle province orientali (vivessero essi in città o nella campagna) e le innumerevoli tribù e popolazioni che non partecipavano ancora all’antica civiltà urbana. Così composto, l’esercito rispecchiava i sentimenti della popolazione. Per giunta, i cittadini romani avevano appreso da tempo immemorabile ad obbedire allo Stato. Questo era adesso personificato in Augusto, che ne era il capo legale, riconosciuto tale dal Senato e dal popolo romano: obbedire ad Augusto era dunque dovere di ogni cittadino, e a più forte ragione d’ogni alleato e d’ogni provinciale. Indubbiamente tra le popolazioni dell’Impero Augusto era popolarissimo, se possiamo adoperare questo termine moderno per indicare il sentimento quasi religioso che i Romani nutrivano verso il nuovo capo del governo. Per essi egli era veramente un essere sovrumano, di natura superiore, il salvatore che guariva le piaghe e apportava pace e prosperità. Noi oggi possiamo spiegare a nostro talento la cessazione delle guerre civili, e possiamo dire ch’esse cessarono perché la popolazione dell’Impero romano era stanca e disgustata e non voleva più combattere; ma dobbiamo pur riconoscere che la personalità d’Augusto ebbe una parte di prim’ordine nell’impedire il rinnovarsi
buon numero di veterani romanizzati, originari del paese medesimo. Cf. la creazione di colonie romane nell’Asia Minore per opera di Augusto (p. es. Antiochia di Pisidia). [Intorno ai soldati d’origine orientale negli eserciti di Antonio e d’Augusto vd. ora la raccolta del materiale fatta da O. CUNTZ, Legionäre des Antonius u. Augustus aus dem Orient, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 25 (1929), pp. 20 sgg. Il CUNTZ ha riunito i nomi dei veterani orientali che appaiono nelle più antiche iscrizioni dell’Illirico, della Macedonia, dell’Asia Minore, dell’Egitto, giungendo alla conclusione che per le legioni orientali Augusto si servì largamente di reclute levate nell’Asia Minore, in Egitto, in Macedonia]. Anche più difficile è la questione dell’ambiente sociale cui le reclute appartenevano. L’ordinamento sistematico dato da Augusto tanto a Roma quanto nelle città italiche alla giovane generazione dei cittadini romani di nascita libera, ordinamento del quale parlerò in seguito (vedi nota 4), e il fatto che ai tempi di Augusto sembra ch’esso fosse limitato soltanto all’Italia e forse alle città provinciali abitate da cives Romani, mostrano quanto Augusto ritenesse importante educare la gioventù italica allo spirito militare e religioso e al lealismo. Egli certamente si proponeva di riempire con questi elementi assolutamente fidi il suo riformato esercito permanente, tanto il corpo degli ufficiali quanto la massa dei soldati semplici. Va anche rilevato che la maggior parte dei soldati levati in Italia provenivano dalle colonie romane dell’Italia superiore – l’idea di SYME, op.cit., secondo la quale la maggior parte dei soldati provenienti dalla Gallia Cisalpina fossero populi attributi è respinta da Chilver –, e altrettanto può dirsi della Gallia Narbonese e della Spagna (vd. il
quadro dei materiale riunito dal RITTERLING, op. cit., presso H.M.D. PARKER, The Roman Legions (1928), pp. 169 sgg.). Sono quindi propenso a ritenere che Augusto si proponesse di creare non un esercito di proletari, ma un esercito fondato sulle classi abbienti delle città di cives Romani. Menziono qui i pretoriani che erano certamente in maggioranza o almeno in larga misura membri di buone famiglie municipali: vedi Passerini contro Dury. È anzi difficile perfino ritenere che i soldati degli auxilia fossero reclutati dalle classi inferiori della popolazione delle province romane, dai peregrini. Ma qui siamo in piena oscurità.
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delle guerre civili. E se anche crediamo (– il che a me non avviene –) che la parte di Augusto si sia limitata a raccogliere quel ch’era stato seminato dai suoi predecessori, non dobbiamo dimenticare che la popolazione dell’Impero invece collegava il ristabilimento della pace e della prosperità con la persona d’Augusto. Per me è indubbio che l’espressione «ufficio di propaganda» adoperata da alcuni studiosi per qualificare l’attività dei poeti augustei, sia del tutto erronea. Ma anche se ammettiamo che Virgilio e Orazio abbiano operato d’accordo con Mecenate e con Augusto e si siano proposti di dar diffusione alle idee di questi due uomini e di patrocinare le loro vedute – concezione, questa, che mi sembra troppo angusta – bisogna pur dire che questa propaganda ebbe pieno successo. Lo attesta l’immensa popolarità che questi poeti godevano in tutto il mondo romano. Ma nessuna propaganda può riuscire, se non rispecchia il sentimento prevalente nelle masse e non fa appello ad esso. Possiamo quindi essere ben sicuri che le idee di Virgilio e d’Orazio erano quelle stesse di migliaia e migliaia di persone di tutto l’Impero, le quali pen savano con Orazio (per il quale personalmente però questa può essere stata senza dubbio una semplice circonlocuzione poetica) che Augusto era una delle divinità più potenti, Mercurio, o Apollo, o Ercole, apparsa tra gli uomini (ejpifanhv~), quale Messia e Salvatore del grande e santo romano Impero. Un’altra forma di «propaganda» era costituita dai bei monumenti artistici eretti in onore di Augusto dal Senato, dal popolo romano, da cittadini privati. Questi monumenti facevano impressione non soltanto perchè erano belli, ma principalmente perché col loro linguaggio plastico dicevano le stesse cose ch’erano cantate dai poeti, cose che tutti sapevano assolutamente vere. Un esempio fra i tanti è quello che ci offre l’altare della Gens Augusta scoperto recentemente in un santuario privato eretto a Cartagine da un cittadino romano, e che probabilmente riproduceva qualche monumento consimile della capitale. Una delle scolture dell’altare mostra la potente dea Roma, assisa su una catasta di armi. Il suo braccio sinistro poggia su uno scudo; con la mano destra distesa essa sorregge una colonna sostenente un clipeus rotondo, lo scudo consacrato ad Augusto dal Senato e dal popolo romano e custodito nella casa di lui sul Palatino. Lo scudo è stato or ora portato giù dalla Vittoria discesa dal cielo e tenuta sulla mano da Roma. Davanti alla dea si vede un altare sul quale è collocata una grande cornucopiae con un caduceus, e di fronte ad essa un globo, l’orbis terrarum. Non è questo forse un bello e fedele simbolo della Roma augustea, del potente Impero quale era uscito dalle mani di Augusto? La maestosa figura di Roma è in riposo. La guerra è finita, Roma è vittoriosa, non v’è più bisogno di armi: queste ormai possono servire come principale fondamento della potenza romana. La pace è ristabilita; Roma guarda con orgoglio i simboli del suo Impero mondiale: esso ha per fondamento la pietà, la religione, indicata sensibilmente dall’altare, e per sostegno la prosperità universale, simboleggiata dalla cornucopiae, dal caduceus, dal globo. Le stesse idee ricompaiono nelle classiche sculture, inspirate al migliore spirito romano, dell’Ara Pacis di Roma, l’altare della Pace eretto sul Campo di Marte, specialmente nelle scene idilliache raffiguranti la Terra Mater circondata
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dagli elementi, simbolo delle forze creatrici della natura che grazie ad Augusto potevano nuovamente spargere le loro benedizioni3. Quanto abbiamo detto circa i sentimenti della popolazione dell’Impero romano in generale non va inteso nel senso che proprio tutti fossero della stessa opinione: non mancavano certamente eccezioni, specialmente nella classe senatoria. Non si poteva pretendere, infatti, da questi Stoici ed Epicurei che scorgessero in Augusto un essere divino, figlio dell’altrettanto divino Giulio: lo consideravano semplicemente come uno di loro, che si distingueva solo perchè più fortunato. Alcuni di essi lo odiavano perchè effettivamente aveva messo fine al dominio esclusivo del Senato, altri per motivi personali, altri erano punti da gelosia in quanto ritenevano di aver anch’essi lo stesso diritto d’Augusto ad essere capi dello Stato, principes. Quindi i non infrequenti complotti e attentati contro la vita d’Augusto. Ma l’atteggiamento della classe senatoria non aveva ormai importanza. Del resto, tanto la maggioranza di essa quanto quella del Senato,
3. Ho esposto le mie vedute su quest’argomento in un breve articolo, Augustus («Univ. of Wisconsin Studies in Language and Literature», n. 15 (1922), pp. 134 sgg.), cf. «Röm. Mitt.», 38-39 (1923-24), pp. 281 sgg., e il mio libro Mystic Italy (1928), del quale qui riproduco un passo. È inutile citare la sterminata bibliografia relativa all’atteggiamento dei poeti dell’età augustea verso la politica di Augusto: essa può agevolmente consultarsi nelle ultime edizioni delle storie della letteratura romana del TEUFFEL e dello SCHANZ. Cf. T. FRANK, Vergil. A Biography (1922), pp. 174 sgg.; K. ALLEN, The Fasti of Ovid and the Augustan Propaganda, «Amer. J. Ph.», 43 (1922), pp. 250 sgg. Sulle condizioni religiose dell’età augustea si hanno ora le eccellenti osservazioni di W. WEBER, Der Prophet und sein Gott, nei «Beihefte zum alten Orient», 3 (1925), pp. 28 sgg.; cf. E. NORDEN, Die Geburt des Kindes (1924) e F. BOL, Sulla quarta ecloga di Virgilio, «Mem. d. R. Accad. di Bologna, Sc. Mor.», II ser., voll. V-VII (1923), pp. 1 sgg.; J. CARCOPINO, Virgile et le mystère de la IVe éclogue (1930). Intorno al nome di Augusto vd. i lavori relativi al concetto di auctoritas nelle Res gestae, cap. 34 (cf. nota 1); cf. G. HIRST, The Significance of Augustior as Applied to Hercules and to Romulus, «Amer. J. Phil.», 47 (1926), pp. 347 sgg.; K. SCOTT, The Identification of Augustus mit Romulus-Quirinus, «Trans. Amer. Phil. Ass.», 56 (1925), pp. 86 sgg. [Sul culto imperiale nell’età di Augusto vd. il libro ben documentato di L.R. TAYLOR, The Divinity of the Roman Emperors, 1931 («Philol. Monogr. publ. by the Amer. Philol. Assoc.», I)]. Intorno ai monumenti artistici dell’età augustea vd. Mrs. A. STRONG, La scultura romana, I (1923), II (1926), e Apotheosis and After-Life, 1915; LILY ROSS TAYLOR, The Worship of Augustus in Italy during his Lifetime, «Trans. Amer. Phil. Ass.», 51 (1920), pp. 116 sgg.; e The Altar of Manlius in the Lateran, «Amer. J. Arch.», 25 (1921), pp. 387 sgg.; HELEN COX BOWERMANN, Roman Sacrificial Altars, Bryn Mawr, 1913, e il mio articolo Le Gobelet d’argent du trésor de Boscoreale dans la collection de M. le baron E. Rothschild, «Mém. Acad. Inscr.», 13 (1925). Cf. K. SCOTT, Mercur-Augustus u. Horaz C. I., 2, «Hermes», 63 (1928), pp. 15 sgg.; K. LEHMANN-HARTLEBEN, Der Altar von Bologna, «Röm. Mitt.», 42 (1927), pp. 163 sgg.; E. LOEWY, Zum Augustus von Prima Porta, «Röm. Mitt», 42 (1927), pp. 204 sgg. (con bibliografia delle diverse interpretazioni che sono state date dei rilievi della corazza di questa statua). Sarebbe uno studio attraente ed importante riunire ed investigare tutti i monumenti d’arte pura e d’arte industriale riferentisi al culto d’Augusto e della sua famiglia: tutti insieme questi monumenti rappresentano un’altra forma non scritta delle Res gestae divi Augusti.
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liete di veder ristabilita la pace, si abbandonavano a dimostrazioni non tanto di spirito repubblicano quanto di vergognoso servilismo. Anche nelle province non mancarono di tratto in tratto agitazioni, che dimostravano come Augusto non si sia mai sentito del tutto sicuro e come tanto lui quanto i governatori provinciali ritenessero opportuno prendere adeguati provvedimenti. Una di siffatte agitazioni – naturalmente di poca importanza – s’ebbe a Cirene nel 7/6 a.C. o poco prima3a. Tuttavia le preoccupazioni di Augusto e dei governatori provinciali erano senza dubbio esagerate. Il contegno quieto dell’esercito, che rispecchiava quello del popolo in generale, permise ad Augusto, nonostante la contradizione latente nel sistema politico dello Stato romano, di procedere nell’opera di restaurazione senza essere ostacolato dallo scoppio di nuove discordie civili. Per adempiere le promesse fatte ai cittadini romani occorreva non soltanto conservare i loro privilegi politici, ma soprattutto evitare ogni peggioramento della loro posizione economica e sociale, e anzi aumentare i loro reali vantaggi in confronto a qualunque altra classe sociale dell’Impero. Anche in questo campo ciò che s’attendeva da Augusto non era una mera restaurazione di condizioni antiquate, ma il consolidamento di ciò che egli aveva trovato saldamente sta-
3a.
Vd. il secondo editto di Cirene (cf. nota 5 e 6a) e il commentario fattone da A.
VON PREMERSTEIN, «Zeitscr. d. Savigny-Stif.», 48 (1928), pp. 458 sgg.; cf. V. ARANGIORUIZ, «Riv. di filol.», 6 (1928), pp. 334 sgg. A Cirene era avvenuto questo: alcuni cit-
tadini romani, che affermavano di sapere qualche cosa «che riguardava la sicurezza del princeps e i pubblici interessi», (l. 45: o} pro;~ th;n ejmh;n swthrivan tav te dhmovs ia pravgmata ajnh`ken) vennero dal governatore fatti arrestare e mandati a Roma in catene. A Roma la causa venne istruita personalmente dall’imperatore; il quale constatò che quegli uomini «non sapevano assolutamente nulla, e che tutto quello che avevano detto nella provincia era stato pura invenzione e menzogna». Li rinviò quindi al loro paese, fatta eccezione di uno, che da un’ambasceria cirenaica era stato accusato di aver rimosso da una piazza pubblica una statua dell’imperatore. Tutto ciò è raccontato da quest’ultimo in un editto speciale da lui inviato alla città nell’intento di assolvere da ogni rimprovero il buon nome del governatore. A mio parere il fatto va spiegato come segue. Tra i cittadini romani e i Greci di Cirene v’era contrasto continuo: nella loro collera contro i Greci, i cittadini romani si recarono dal governatore ad accusare, a quanto pare in termini ambigui, verosimilmente di cospirazione alcuni dei loro avversari. Poiché così s’ingerivano nelle faccende del governatore e inoltre v’era sospetto che essi stessi non fossero estranei all’affare, il governatore montò in collera; trattò i delatores da delinquenti e li mandò a Roma in istato d’arresto. Contemporaneamente partì da Cirene, indubbiamente col permesso del governatore, un’ambasceria che recava a Roma accuse precise contro i delatores. Nel suo verdetto l’imperatore cercò di accontentar tutti: il governatore, i cittadini romani – assai malcontenti del trattamento inflitto ai loro concittadini – e i Greci. Il fatto, per quanto di scarsa importanza e affatto locale, mostra pur sempre quanto allora fosse diffusa l’idea di attentati e di cospirazioni, e quanto ansiosamente il governo cercasse di venire informato di tutto quel che a questo riguardo avveniva nelle province. Esso inoltre getta molta luce sulla giurisdizione imperiale (A. VON PREMERSTEIN, loc. cit.), e sulla storia dei crimina maiestatis; cf. J. STROUX e L. WENGER, Die Augustus-Inschr. auf d. Marktpl. von Kyrene, «Abh. Bayr. Ak.», 34, 2 (1928), p. 72, n. 2 e W. VON UXKULL, in «Gnomon», 6 (1930), p. 127, cf. 125.
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1. Altare di Cartagine
2. Una delle lastre dell’«Ara Pacis»
TAV. VI – LE IDEE FONDAMENTALI DELLA POLITICA D’AUGUSTO
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DESCRIZIONE DELLA
TAVOLA
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VI
1. UNO DEI LATI DELL’ALTARE MARMOREO DI CARTAGINE. Cartagine, casa di Ch. Saumagne presso la collina di St. Louis, A. MERLIN, «Bulletin arch. du Comité d. travaux histor.», 1919, pp. CLXXXVI sgg. e CCXXXIV nota 1; G. GASTINEL, Carthage et l’Énéide, «Rev. Arch.», 1926, I, pp. 40 sgg.; M. ROSTOVTZEFF, Augustus, 1922 («Univ. of Wisconsin Studies in Language and Literature», 15), tav. I, e «Röm. Mitt.», 38-39 (1923-24), pp. 281 sgg. Cf. S. GSELL, «Rev. hist.», 156 (1926), pp. 12 sg. [L. POINSSOT, L’Autel de la Gens Augusta, 1929 («Gouv. Tun., Notes et Documents», 10); J. SIEVEKING, in «Gnomon», 1931 (recensione del libro del Poinssot)]. L’iscrizione del tempio, cui apparteneva l’altare, dice: Genti Augustae P. Perelius Hedulus sac(erdos) perp(etuus) templum solo privato primus sua Pecunia fecit: «P. Perelio Edulo, sacerdote a vita, eresse alla gente Augusta questo tempio su terreno proprio e a proprie spese; e fu il primo a far ciò». Intorno al contenuto del rilievo vd. p. 50. 2. LASTRA DI MARMO SCOLPITA DEL MUSEO DI FIRENZE (Uffizi). Rinvenuta a Roma nel 1568. Si ritiene generalmente trattarsi d’un rilievo d’uno degli accessi al territorio sacro dell’Ara Pacis d’Augusto sul Campo di Marte a Roma. Buona bibliografia e pregevole descrizione dei rilievi offre Mrs. STRONG, La scoltura romana da Augusto a Costantino (1923), p. 38 e tav. VI. Il rilievo offre una bella illustrazione delle idee favorite d’Augusto. Al centro si vede la Terra Mater con frutti in grembo e due bambini sulle ginocchia, assisa su una rupe circondata di fiori e di spighe di grano. È la Tellus del Carmen saeculare d’ORAZIO (29 sgg.): Fertilis frugum pecorisque Tellus Spicea donet Cererem corona; Nutriant fetus et aquae salubres Et Jovis aurae. I due animali collocati ai piedi della Terra Mater simboleggiano l’agricoltura (il toro) e la pastorizia (la pecora). Le due figure a sinistra e a destra, una delle quali è assisa su un cigno, l’altra su un mostro marino, sono personificazioni dei fiumi e del mare, oppure dell’aria e dell’acqua, o fors’anche di quelle Aurae di cui parla Orazio. Io le ritengo combinazione del primo e dell’ultimo di questi motivi: sono le belle Aurae, che se ne vanno lievemente sul mare e sui fiumi. Cf. le figure consimili della corazza della statua d’Augusto (tav. V) e della patera d’Aquileia (tav. XIII, 1).
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bilito nella vita economica e sociale dello Stato romano e che in gran parte era creazione delle guerre civili. Nel corso di tali guerre le differenze di classe esistenti tra i cittadini romani non erano affatto sparite. La classe senatoria rimaneva esclusiva quanto prima; i cavalieri sentivano la grande importanza che avevano nello Stato e tenevano per esseri inferiori quelli che non avevano la loro condizione e i loro mezzi. La medesima stratificazione sociale esisteva anche nelle città italiche. La classe superiore era costituita dall’aristocrazia senatoria, i cui membri, tra i quali alcuni cavalieri romani, formavano i senati municipali; accanto ad essa, ma un po’ più in basso, vi era la massa della borghesia benestante, costituita in parte da uomini e donne di nascita non libera. La distinzione tra i diversi gruppi di queste classi superiori era rigidissima, così nella città di Roma come nei municipi italici. Tra i senatori venivano considerati appartenenti alla «nobilitas» soltanto quelli ch’erano membri del patriziato e quelli che tra i loro antenati annoveravano un console. Agli occhi di questi nobiles tutti gli altri erano più o meno dei parvenus. I cavalieri romani, che riuscivano a far breccia nel baluardo circondante l’aristocrazia senatoria, erano tenuti per intrusi, per «uomini nuovi»; i senatori e i cavalieri della capitale sorridevano della boria dei gransignori* municipali. Questi alla loro volta guardavano dall’alto in basso i ricchi liberti. Separate da tutti costoro stavano poi le classi inferiori della popolazione di nascita libera, la massa dei contadini liberi, dei liberi artigiani, dei coloni semiliberi, dei lavoratori manuali. Fra queste classi inferiori, poi, quelli che risiedevano in città guardavano con un certo disprezzo i contadini, i pagani o rustici. In fondo a tutto stava la massa immensa degli schiavi: servitori, artigiani, coltivatori, minatori, marinai e così via. Tutto questo lo diciamo non per le province, ma per le divisioni sociali esistenti fra i cittadini romani domiciliati in Italia. Augusto non pensò mai a mutare queste condizioni, che considerava naturali. Anzi egli ebbe cura di segnare più rigidamente le linee di separazione, di scavare ancor più l’abisso tra le varie classi, e di assegnare a ciascuna di esse una parte speciale nella vita dello Stato. Se i cittadini romani dovevano essere padroni e dominatori, ciascun loro gruppo doveva avere il suo compito particolare nella difficile impresa di governare l’Impero mondiale. L’opera compiuta da Augusto in questo campo è ben nota e non richiede una descrizione minuta. La classe senatoria forniva allo Stato i membri del consiglio supremo – del Senato –, i magistrati della città di Roma, i governatori delle province (tanto quelli nominati dal Senato quanto quelli che rappresentavano l’imperatore nelle province ch’egli s’era riservate), i generali e gran parte degli ufficiali dell’esercito cittadino. La classe equestre dava i giurati dei tribunali romani, una parte dei governatori provinciali i comandanti della flotta e delle truppe urbane, gli ufficiali delle truppe ausiliarie e in certi limiti anche quelli delle legioni, e finalmente la massa ognor crescente dei funzionari civili addetti al servizio personale dell’imperatore. Le città italiche, eccezion fatta della più alta aristocrazia per lo più ascritta all’ordine equestre, dovevano provvedere allo
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In italiano nel testo inglese. [N.d.T.].
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Stato buoni soldati per la guardia pretoriana e per le legioni, e sottufficiali per la guardia, per le legioni, per le truppe ausiliarie. I liberti davano marinai alla flotta e vigili alla capitale. Infine, uno strato superiore di schiavi e di liberti – quelli dell’imperatore – serviva negli uffici dell’amministrazione patrimoniale dell’imperatore, che aveva diramazioni in tutto l’Impero. Questa distinzione tra le varie classi non era cosa nuova: proveniva, anzi, dalle abitudini e consuetudini stabilitesi già negli ultimi tempi della repubblica. I criteri della distinzione erano di natura affatto materiale. Fino a un certo punto entrava in giuoco la nascita, ma il momento essenziale era l’agiatezza materiale, la maggiore o minore fortuna, un census di determinata entità. A nessuno, intanto, si richiedeva uno speciale grado d’educazione: questo era sottinteso, come uno dei segni distintivi delle classi elevate in generale. L’unica preparazione educativa richiesta dallo Stato alla gioventù aristocratica e ingenua della capitale e delle città italiche era un certo grado di allenamento fisico e militare. Poichè la promozione dall’una all’altra classe dipendeva in sostanza dall’imperatore, la fedeltà verso quest’ultimo costituiva una delle condizioni più importanti4. Questa era dunque la situazione dell’Italia. Era il consolidamento e la consacrazione delle condizioni che avevano prevalso durante il periodo delle guerre civili. La medesima politica fu seguita da Augusto nelle province. Nessuna cosa di rilievo fu fatta per dar loro una parte nell’amministrazione dello Stato: le province rimasero quello ch’erano state per l’avanti, predii del popolo romano. Era sempre difficile come per l’innanzi ad un provinciale l’ot-
4. Circa la politica seguita da Augusto verso le varie classi della popolazione italica, vd. in generale L. FRIEDLAENDER, Sittengeschichte Roms, (hrsg. G. Wissowa), I, 19199, pp. 114 sgg. Sulla classe senatoria, la nobiltà, vd. specialmente M. GELZER in «Hermes», 50 (1915), pp. 395 sgg.; E. STEIN, ibid., 52 (1917), pp. 564 sgg.; W. OTTO, ibid., 51 (1916), pp. 73 sgg.; L. FRIEDLAENDER, op. cit., p. 115; A. STEIN, Der römische Ritterstand (1927), pp. 30 e 103; E. GROAG, in Strena Bulicˇiana. Commentationes gratulatoriae in hon. F. Bulicˇ (1924), pp. 254 sgg. TH.A. ABELE, Der Senat unter Augustus, 1907 («Stud. z. Gesch. u. Kult. d. Alt.», I, 2), si occupa soltanto delle funzioni politiche del Senato. Sull’atteggiamento politico del Senato sotto Augusto vd. G. BOISSIER, L’Opposition sous les Césars (19137); E. GRIMM, Indagini sulla storia dello svolgimento del potere imperiale I. Il potere imperiale romano da Augusto a Nerone, Pietroburgo, 1900 (in russo). Sulla classe equestre, L. FRIEDLAENDER e G. WISSOWA, op. cit., I, pp. 145 sgg.; A. STEIN, Der römische Ritterstand (1927). Circa la «terza» classe, ibid., pp. 158 sgg. Intorno all’organizzazione della gioventù a Roma e nelle città d’Italia vd. il mio articolo, Römische Bleitesserae, «Klio», Suppl. III (1905); cf. gli articoli di C. JULLIAN, Juvenes, in DAREMBERG e SAGLIO, Dict. d. ant., III, 1, pp. 782 sgg., e dello ZIEBARTH, «R. E.», X, 2, coll. 1357 sg. Nuovi dati per Pompei sono stati raccolti da M. DELLA CORTE, Iuventus, Arpino, 1924; si veda anche la relazione sui graffiti trovati nella palestra nel ginnasio vicino all’anfiteatro di Pompei, «Not. d. scavi», 1939, pp. 239-318 (A. Maiuri); cf. A. ROSENBERG, Der Staat der alten Italiker (1913),
pp. 93 sgg., e in «Hermes», 49 (1914), pp. 267 sgg.; L. CESANO nella «Rassegna Numismatica», 1911, pp. 51 sgg.; L.R. TAYLOR, Seviri, «J. R. S.», 14 (1924), pp. 158 sgg., cf. A.D. NOCK, Seviri and Augustales, nei Mélanges Bidez, Bruxelles, 1934, pp. 627 sgg., e G.E.F. CHILVER, Cisalpine Gaul. Social and Economic History from 49 B.C. to the Death of
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tenere la cittadinanza; anzi in questo campo la politica di Augusto, paragonata con quella di Pompeo, Cesare, Antonio, può dirsi reazionaria. Assai poco fu fatto anche per promuovere le città di provincia al grado superiore della dignità municipale, cioè per assimilare i loro diritti a quelli delle città italiche e di talune città provinciali che avevano già ricevuto i diritti italici. Unica eccezione notevole fu il trattamento fatto alla più antica provincia dell’Impero romano, alla Sicilia, che praticamente venne a formare una parte dell’Italia, al pari della valle del Po. I progressi fatti in questo senso furono piuttosto lenti in quel periodo del governo di Augusto che seguì immediatamente alla fine delle guerre civili. Ciò ch’egli fece, lo fece per lo più durante la tormenta delle guerre civili e immediatamente dopo la fine di esse5. Tuttavia le province, specialmente quelle dell’Oriente, furono le prime a risentire i benefici effetti del nuovo regime. Senza apportare alcun mutamento nel sistema dell’amministrazione provinciale, Augusto riuscì a migliorare
Trajan, Oxford, 1941, pp.198 sgg.; A. STEIN, Der röm. Ritterstand (1927), pp. 82 sgg. Circa i Iuvenes in Africa, S. GSELL, I. L. Al., I, 3079 nota). Sulla Iuventas Manliensium a Virunum (Norico), R. EGGER, Führer durch die Antikensammlung des Landesmuseum in Klagenfurth (1921), p. 24, e nei «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 18 (1915), p. 115. Si può anche ricordare un passo di FILONE, Leg. ad G., 30, dove questo scrittore evidentemente pensa alla preparazione militare della nobile gioventù romana: oujde; h[skhtov pw tai`~ oJplomacivai~ ai} melevtai kai; progumnavsmata paivdwn ejf j hJgemoniva/ trefomevnwn eijsi; dia; tou;~ ejnistamevnou~ polevmou~. S.L. MOHLER, The Iuvenes and Roman Education, «Trans. Amer. Phil. Ass.», 68 (1937), pp. 442 sgg, ritorna all’opinione di Demoulin e cerca di dimostrare che le associazioni di iuvenes in Italia e nelle province romanizzate erano semplici istituzioni educative, vale a dire un’italianizzazione dell’associazione greca dello stesso tipo. Non ho mai negato che esse certamente fossero istituzioni educative, ma continuo a credere che Augusto e i suoi successori nel sostenerle si rifacessero alle antiche tradizioni italiche (p. es. pompeiane?) e accentuassero l’addestramento militare dei giovani e la loro lealtà al loro leader imperiale. I iuvenes in Italia esistevano prima dell’età imperiale romana. Associazioni di adolescenti sono tipiche della vita sociale degli Indoeuropei sin dall’età più remota. In Italia, specialmente in Campania (Pompei), l’organizzazione dei iuvenes italici si sviluppò sotto l’influenza greca sulle linee dell’efebia greca. In età augustea e nel primo Impero romano le associazioni dei iuvenes sottostarono a uno sviluppo peculiare. Questi membri erano allo stesso tempo ragazzi che andavano a scuola. Ma il loro ruolo sociale nella vita di Roma e delle città italiane era peculiare sin da Augusto. Essi ricevevano la loro formazione nelle arti liberali nelle scuole ma il ruolo era soprattutto militare e sportivo. Nella vita della comunità essi svolgevano un ruolo di primo piano. Miss Mohler si è sforzata di dimostrare il fatto evidente che i membri delle associazioni dei iuvenes erano ragazzi che andavano a scuola. Ma non è riuscita allo stesso tempo a dimostrare che queste organizzazioni erano scuole, come le istituzioni ginnasiali greche. Le associazioni di iuvenes avevano una loro piena vita matura nelle scuole. Ma questa vita era centrata prevalentemente sulla preparazione, attraverso sport e giochi, per il servizio militare.
5. E. KORNEMANN, «R. E.», Suppl. I, col. 315, ll. 50 sgg.; A. VON PREMERSTEIN, Jus italicum, ibid., X, 1, col. 1239. Nel terzo editto di Cirene (vd. la bibliografia nella nota 6a) Augusto mette in rilievo l’obbligo che hanno i cittadini romani d’origine greca di Cirene di assoggettarsi nell’interesse delle comunità greche (cf. p. 362) al peso delle «liturgie» municipali (con questo termine egli indica tanto i munera personalia quanto i
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immensamente la prassi di governo. Le province continuarono ad esser governate da membri della classe senatoria, in nome dell’imperatore o sotto la sua continua sorveglianza; ma il governo della classe senatoria come tale cessò, e a un tempo i metodi di governo divennero assai migliori e più umani. Con lo stabilimento della pace vennero a cessare le requisizioni e le contribuzioni e con esse terminò anche il dominio degli usurai romani. Fu attuata a poco a poco la tassazione diretta, e quindi l’affare della riscossione non offrì più attrattiva alle compagnie esattoriali romane, che vennero sparendo, sostituite gradualmente (per esempio in occasione delle nuove tasse addossate da Augusto ai soli cittadini romani) da agenti governativi in rapporto diretto coi contribuenti. Le imposte non furono ridotte, anzi per certe sezioni della popolazione vennero aumentate; ma il miglior sistema di riscossione costituiva pur sempre un grande sollievo per le province6. Per giunta, i provinciali sapevano che, ove credessero di dover presentare qualche reclamo all’imperatore o al Senato, o personalmente o per il tramite dei delegati delle città che convenivano annualmente per celebrare le feste del culto imperiale, sarebbero stati ascoltati assai più benignamente e avrebbero ottenuto maggiore soddisfazione6a che per il passato. In caso di conflitto col governatore della provincia, il concilio provinciale poteva sempre adire l’imperatore in persona. E, cosa non meno importante, i provinciali sapevano anche benissimo che tutto ciò che accadeva nelle province veniva a conoscenza
munera patrimonii, inclusevi le imposte municipali). Questa distinzione fra i cittadini romani di Cirene, secondochè sono di stirpe italica o greca, è molto significativa per la politica di Augusto. A quanto pare, nell’età augustea in molte comunità greche d’Oriente, se non in tutte, v’erano numerosi cittadini romani d’origine greca. Costoro senza dubbio avevano ottenuto la cittadinanza in massima parte durante le guerre civili fra Pompeo, Cesare, Antonio e Augusto medesimo (A. VON PREMERSTEIN, «Zeitschr. d. Savigny-Stif.», 48 (1928), p. 472; cf. il mio articolo Caesar and the South of Russia, «J. R. S.», 7 (1917), pp. 27 sgg.). Poiché questi nuovi cittadini erano indubbiamente i membri più cospicui e facoltosi delle loro comunità, la questione della loro immunitas era per le città greche della massima importanza. Questa è la ragione per cui tanto Cesare (I. G. XII, 2, 35, cf. ROSTOVTZEFF, loc. cit., p. 32) quanto Augusto nell’editto in parola ordinarono ai cittadini romani rispettivamente di Mitilene e di Cirene di partecipare alle liturgie municipali. Mentre però Cesare estende evidentemente il suo provvedimento a tutti i cittadini romani, Augusto, conformemente alla sua politica generale, fa distinzione tra Italici e Greci e così dà vita in Oriente a una classe di cittadini romani di minori diritti. Naturalmente il provvedimento non aveva vigore per coloro che avevano ricevuto l’immunitas come privilegio personale (l. 59: oi|~ … hJ ajneisforiva oJmou` su;n th`i polithvai devdotai). Cf. cap. III, n. 5 e J. STROUX e L. WENGER, op. cit., pp. 58 sg. Vedi anche A.N. SHERWIN-WHITE, The Roman Citizenship, Oxford, 1939, pp. 219 sgg.; CARDINALI, loc. cit., p. 165, nota 6.
6. Nel regno d’Augusto cominciò il processo che condusse alla soppressione dell’appalto dei tributi. È vero che sotto Augusto i publicani continuarono ad esistere quasi in ogni ramo delle riscossioni tributarie; ma non mancano dati che stanno ad indicare come la via verso la graduale trasformazione del sistema sia stata additata anzitutto da Augusto, vd. la mia Gesch. d. Staatspacht, 1902 («Philologus», Suppl., IX, 3, 1902), pp. 387 sgg. 6a. Nuovi dati intorno al modo con cui Augusto, per il tramite del Senato, concepì il difficile problema di render giustizia alle province malmenate, ci sono insperatamente offerti dall’ultimo dei cinque editti dell’imperatore (con annesso senatus consultum), che
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dell’imperatore per il tramite dei suoi agenti personali, i procuratori che amministravano gli affari privati dell’imperatore nelle province senatorie e riscotevano le imposte nelle altre7. Negli affari interni le città delle province orientali (eccezion fatta dell’Egitto) conservarono tutta l’antica autonomia, anzi divennero forse più indipendenti di quanto non fossero mai state. Augusto non tentò di apportare alcun mutamento alle condizioni sociali prevalenti in queste province, la maggior parte delle quali erano aggregati di città greche o ellenizzate. L’amministrazione civica coi suoi magistrati e il suo consiglio (boulhv) era un mezzo così comodo per giungere sino alle masse popolari, che ogni mutamento di questo sistema sarebbe stato un conato insensato di deviare il corso dell’evoluzione naturale. Nell’età di Augusto le città dell’Oriente greco non pensavano neppure per sogno alla possibilità di riacquistare l’antica liberta della città-Stato. Esse accettavano con piena acquiescenza il fatto che la loro libertà politica fosse scomparsa per sempre, ed erano ben liete di poter conservare almeno la loro autonomia locale. Il governo romano dal suo canto desiderava che nelle città imperassero l’ordine e la pace. Il tempo delle rivoluzioni politiche e sociali era passato; e la miglior garanzia di stabili condizioni interne nelle città la offriva appunto il governo dei cittadini più ricchi. Questa classe aveva goduto la protezione dei Romani sin dal loro primo apparire in Oriente, e a questa politica tradizionale s’attenne anche Augusto. L’unico elemento nuovo, se era nuovo, che possa scorgersi nella politica orientale d’Augusto è il vigoroso impulso dato al movimento iniziato già da alcuni sovrani ellenistici e tendente a trasformare rapidamente i territori sforniti di città in regolari città-Stato. In tutto l’Oriente Augusto seguì fedelmente la politica di Pompeo, Cesare,
furono resi pubblici dalla città di Cirene e sono stati ivi rinvenuti recentemente. Il S. C., che ha la data del 4 a.C., contiene essenzialmente i provvedimenti proposti al Senato da Augusto e dal suo consiglio (xumbouvlion, consilium). Esso presenta un nuovo e più efficace ordinamento della procedura de repetundis. Non mi è dato qui esaminare a fondo questo documento (vd. le pregevoli trattazioni – versione e commentario – che ne hanno fatto A. VON PREMERSTEIN, in «Zeitschr. d. Savigny-Stif.», 48 (1928), pp. 478 sgg., e J. STROUX e L. WENGER, Die Augustus-Inschr. auf. d. Marktpl. von Kyrene, «Abh. Bayr. Ak.», 34, 2 (1928), pp. 94 sgg.; cf. J.G.C. ANDERSON, in «J. R. S.», 17 (1927), pp. 33 sgg.; G. KLAFFENBACH, in «Hermes», 63 (1928), pp. 368 sgg.; E. MALCOVATI, Caesaris Augusti operum fragmenta (1928), V. ARANGIO-RUIZ, L’editto di Augusto a Cirene, «Riv. di filol.», 6 (1928), pp. 321 sgg.; W. VON UXKULL, in «Gnomon», 6 (1930), pp. 121 sgg. (L’UXKULL a p. 128 tenta di dimostrare che col IV editto Augusto si proponeva di abolire la giurisdizione autonoma delle città e di far andare in vigore con la maggior ampiezza possibile nella provincia il diritto romano); [A. VON PREMERSTEIN, in «Zeitschr. d. Savigny-Stif.», 51 (1931), pp. 431 sgg.]. Mi accontento di riferire le ultime parole dell’editto imperiale (ll. 79 sgg.): ejx ou| dh`lon e[stai pa`sin ⁄ toi`~ ta;~ ejparchva~ katoikou`s in, o{shn frontivda poiouvme⁄qa ejgwv te kai; hJ suvgklhto~ tou` mhdevna tw`n hJmi`n uJpotasãsÃo⁄mevnwn para; to; prosh`kovn ti pavscãeÃin h] eispravtãtÃesqai. 7. Sui procuratori d’Augusto, vd. O. HIRSCHFELD, Die kaiserlichen Verwaltungsbeamten (19052), H. MATTINGLY, The Imperial Civil Service of Rome (1910); W.T. ARNOLD, Roman Provincial Administration, 19143.
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Antonio, e s’allontanò invece da quella del Senato, trasformando in città-Stato i villaggi, le borgate, i territori appartenenti a templi. L’Impero romano tendeva a diventare un aggregato di città autonome8. Si fece eccezione soltanto per l’Egitto con la sua organizzazione caratteristica, rimontante a tempi immemorabili e così diversa dal sistema greco della città-Stato9. A splendida conferma di quanto ho detto dell’opera di Augusto in Oriente si possono addurre due dei cinque editti di lui (il primo e il quarto, cf. anche il terzo), venuti recentemente alla luce nella città di Cirene (vd. note 5 e 5a 6a), nei quali si trattano diversi problemi interessanti la vita cittadina,
8. Vd. le mie Studien z. Gesch. d. röm. Kol. (1910), p. 289, nota 1. Purtroppo su questo punto non sono mai stati riuniti completamente tutti i dati disponibili. Il libro di F.F. ABBOTT e A.CH. JOHNSON, Municipal Administration in the Roman Empire (1926), non contiene alcun capitolo che tratti del processo d’urbanizzazione dell’Impero. Un buon quadro delle province romane sotto Augusto e dei progressi fatti sotto il governo di lui dall’urbanizzazione può trovarsi in T. FRANK, An Economic History of Rome (19272), cap. XVIII (pp. 347 sgg.). Ritengo però che il FRANK dia troppo valore alle tendenze «paternalistiche» di Cesare nei riguardi dei problemi economici e sociali dell’Impero, e troppo poco ne dia invece alla politica del laissez faire seguita da Augusto. Anche senza offrire ricompense a quelli che prendevano domicilio in una città si poteva rendere la vita urbana più comoda e lucrosa: questo è appunto ciò che in tutto l’Impero fece Augusto e che indusse le popolazioni provinciali a creare nuovi centri di vita urbana. Vd. ora anche DESSAU, Gesch. der röm. Kaiserzeit, II, 2 (1930). 9. Non occorre citare opere notissime relative al riordinamento dell’Egitto compiuto da Augusto: basterà menzionare L. MITTEIS e U. WILCKEN, Grundzüge und Chrestomathie der Papyruskunde (1912); W. SCHUBART, Einführung in die Papyruskunde (1918); IDEM, Aegypten von Alexander d. Grosse bis Mohammed (1922); A. STEIN, Untersuchungen zur Geschichte und Verwaltung Aegyptens unter römischen Herrschaft (1915); J. GRAFTON MILNE, History of Egypt under the Roman Rule (19243); B.A. VAN GRONINGEN, L’Égypte et l’empire, «Aegyptus», 7 (1926), pp. 189 sgg.; J. SCHUBART, The Ruin ot Egypt by Roman Mismanagement, «J. R. S.», 17 (1927), pp. 1 sgg.; M.A. LEVI, L’esclusione dei senatori dall’Egitto augusteo, «Aegyptus», 5 (1924), pp. 231 sgg.; M. ROSTOVTZEFF, The Roman Exploitation of Egypt in the First Century A. D., «Journ. of Econ. and Business History», 1 (1929), pp. 337 sgg.; CARDINALI, loc. cit., pp. 162 sg.; DESSAU, Gesch. der röm. Kaiserz., II, 2, (1930), pp. 635 sgg. [Nuovi dati interessanti intorno alla questione della storia della boulhv di Alessandria sono contenuti in un frammento papiraceo recentemente pubblicato e illustrato da M. NORSA e G. VITELLI, Da papiri greci d. Società Italiana, «Bull. de la Soc. archéol. d’Alex.», 25 (1930), pp. 9 sgg., e in base all’accennata pubblicazione studiato da U. WILCKEN, «Arch. f. Pap.-F.», 7 (1930), pp. 253 sgg. Cf. P. S. I. X, n. 1160]. Il frammento fa sorgere vari problemi, che qui naturalmente non possono venire discussi. [Secondo l’opinione degli editori, alla quale aderisce anche il WILCKEN, il frammento sarebbe la parte finale di un trattato intervenuto fra Augusto e un’ambasceria alessandrina poco prima del 30 a.C., cioè subito dopo la presa di Alessandria. L’ambasceria era venuta a chiedere la conservazione o restaurazione della boulhv. Si domanda: abbiamo qui un frammento d’un vero e proprio documento? In favore di questa tesi milita il fatto della doppia numerazione delle pagine, il che farebbe supporre di trovarci dinanzi ad un tovmo~ sugkollhvs imo~, e anche la forma, che è di un uJpomnhmatismov~, vi contrasta invece la lingua del frammento, che contiene espressioni che non rientrano nell’ambito
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specialmente il punto difficile dei rapporti tra i cittadini romani residenti nella città e i Greci, che in complesso non erano necessariamente cittadini della città di Cirene o cives delle città della Pentapoli. I privilegi dei pochi cittadini romani domiciliati in Cirene e in parte di stirpe greca – del resto non molto facoltosi – rimasero quelli di prima, ma alcuni lievi ritocchi assicurarono ai Greci non trascurabili miglioramenti, specialmente in ciò che riguardava l’ordinamento dei tribunali e la questione delle liturgie e imposte municipali. Era importante la questione dei privilegi dei nuovi cittadini romani d’origine greca: verosimilmente si deve pensare a quelli che avevano ricevuto in massa la cittadinanza da Pompeo, da Cesare, da Antonio, dallo stesso Augusto. L’imperatore risolse di considerarli come una classe speciale di cittadini romani, fornita di diritti minori. In ciò che riguardava le imposte e le liturgie essi continuarono ad essere membri delle comunità greche, fatta eccezione per quelli cui era stata concessa personalmente l’immunitas; e anche quest’ultimo privilegio valeva soltanto per il patrimonio già posseduto, non per quello che si sarebbe potuto acquistare in seguito (vd. nota 5).
dello stile ufficiale sibbene in quello del linguaggio comune (ejpivtropo~ invece di e[parco~, che, come ha messo in rilievo il WILCKEN, ricorre anche in Filone; così pure devspota). Si potrebbe pensare anche ad un prodotto letterario del tipo dei cosidetti Atti dei martiri alessandrini, cioè a un libello politico a proposito della boulhv. Debbo confessare di non veder ancora ben chiaro in quest’alternativa. Una cosa tuttavia mi sembra assai inverosimile, che cioè il documento (dato che si tratti di un documento) appartenga al 30 a.C. Contro quest’ipotesi stanno gli argomenti addotti dall’oratore, che nel 30 a.C. sarebbero riusciti ad Augusto poco comprensibili. Vi si trattano infatti le questioni più ardenti della vita alessandrina, le quali tali divennero soltanto sotto il dominio romano: la questione del mantener la purezza della cittadinanza, quella delle violenze dei funzionari – dell’Idios logos e dei praktores – quella della composizione delle ambascerie. É per me molto dubbio che tutti questi problemi fossero diventati acuti già fin dagli ultimi tempi dei Tolomei: che nell’età romana siano diventati scottanti, lo sappiamo molto bene, specialmente per il secondo di essi, quale si presentò dopo le confische ordinate da Augusto. Se il frammento è realmente un documento ufficiale, dato che la scrittura di esso non permette d’assegnarlo ad un periodo posteriore (per l’età di Augusto in generale sta anche il fatto che questi è designato col titolo di Kai`sar, ma non per il periodo anteriore al 27 a.C., giacché Augusto in Egitto fu sempre indicato con quel titolo), inclinerei ad assegnare il documento agli ultimi tempi del governo augusteo. Vero è che gli Alessandrini si recarono più volte dall’imperatore a motivo della loro boulhv: sicché le trattative debbono essersi svolte a Roma. Purtroppo non posso qui discutere la questione in tutti i suoi particolari: occorrerebbe troppo tempo e troppo lavoro, mentre queste aggiunte debbono inviarsi immediatamente alle stampe. Cf. ora G. DE SANCTIS, La Bule dcgli Alessandrini, «Atti d. R. Accad. d. scienze di Torino», 61 (1930), pp. 513 sgg.; J. H. OLIVER, The boulhv Papyrus, «Aegyptus», 11 (1931), pp. 161 sgg.; e W. SCHUBART, Die boulhv von Alexandria, «Bull. de l’Inst. franç. d’arch. or.», 30 (1930), pp. 407 sgg. (cf. E. BRECCIA, ibid., 26 (1931), pp. 352 sgg.); nonché la risposta di M. NORSA e G. VITELLI a questi articoli, Sul papiro della boulhv d’Alessandria, «Bull. de la Soc. archéol. d’Alex.», 27 (1932), pp. 1 sgg.]. A. VON PREMERSTEIN, Alexandrinische Geronten vor Kaiser Gaius. Ein neues Bruchstück der sogenannten Alexandrinischen Märtyrer-Akten, Giessen, 1939 («P. Bibl. Univ. Giessen», 46), pp. 62-65.
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Lo stesso principio Un simile indirizzo politico fu da Augusto applicato da Augusto all’Occidente, alla Gallia, alla Spagna, all’Africa. Non contento di crearvi nuove colonie di cittadini romani, egli si propose di favorire lo svolgimento della vita di città nei cantoni certamente guardava con favore e incoraggiava la graduale introduzione della vita urbana nel sistema tribale delle popolazioni celtiche della Gallia Comata e della Spagna, e di farla rinascere nell’antico territorio cartaginese d’Africa. Non è qui il luogo di trattare a fondo questo punto: d’altronde l’importanza che per l’avvenire delle province occidentali doveva avere questa politica volta a rimuovere ogni ostacolo dall’urbanizzazione della vita sociale ed economica sarà senz’altro evidente per ogni lettore. (in quest’ultima costrinse in alcuni casi gli Spagnoli a scendere dalle loro colline fortificate nelle pianure), e la sua rinascita nell’antico stato cartaginese dell’Africa. Sarebbe fuor di luogo discutere qui a fondo della questione. L’importanza per il futuro delle province occidentali della graduale urbanizzazione della loro vita sociale ed economica sarà evidente ad ogni lettore.
Anche in queste nuove città la classe dirigente era naturalmente quella dei cittadini ricchi, zelanti sostenitori del regime romano10. In conseguenza soprattutto di questa politica l’aspetto esterno di molte regioni cominciò a cambiare completamente. Nell’Asia Minore e nella Siria il mutamento fu meno sensibile, perchè ivi (come abbiamo visto) il processo di
10. Circa il riordinamento augusteo della Gallia vd. O. HIRSCHFELD, Die Organisation der drei Gallien durch Augustus, «Klio», 8 (1908), pp. 464 sgg. (Kl. Schr., pp. 112 sgg.). Secondo lo HIRSCHFELD, la riforma d’Augusto legalizzò l’antica condizione delle tribù galliche, sfornite di città. Questa tesi dello HIRSCHFELD ha indotto il KORNEMANN a fare un parallelo non convincente tra la Gallia e l’Egitto («Klio», 11 (1911), p. 390, e Die römische Kaiserzeit, pp. 275 sg.). Sulla riorganizzazione della Gallia da parte di Augusto E. KORNEMANN, Zur Stadtentstehung in den ehemals keltischen und germanischen Gebieten des Römerreichs, 1898 (Diss. Giessen); O. HIRSCHFELD, Die Organisation der drei Gallien durch Augustus, «Klio», 8 (1908), pp. 464 sgg. (Kleine Schriften, Berlin, 1913, pp. 112 sgg.); cf. E. KORNEMANN, Römische Kolonien ohne Autonomie, «Klio», 11 (1911), pp. 390 sgg. Secondo Hirschfeld la riforma di Augusto legalizzava l’antica condizione delle tribù galliche prive di città. La sua opinione fu accettata da T. FRANK, An Economic History of Rome, Baltimore, 19272, pp. 368 sgg. e sviluppata de N.J. DE WITT, Urbanization and the Franchise in Roman Gaul, Lancaster, 1940 (Diss. J. Hopkins University). Sono propenso a credere che Hirschfeld e i suoi seguaci abbiano esagerato il carattere rurale delle civitates galliche. Non vedo ragione per presumere che la Gallia rimanesse sotto Augusto un paese di proprietari agrari semibarbari e che Augusto tollerasse ma non incoraggiasse mai l’urbanizzazione della Gallia. La Gallia era un paese civilizzato prima della conquista romana e Cesare e Augusto contribuirono indubbiamente molto alla sua urbanizzazione. L’urbanizzazione in Gallia non era esattamente simile a quella delle altre province, ma è un fatto accertato. Cf. infra, cap. VI, pp. 337 sgg. Senza dubbio lo HIRSCHFELD ha esagerato
il carattere rurale delle civitates galliche: le città cominciarono a svilupparsi rapidamente in Gallia subito dopo il riordinamento di Augusto, vedi C. JULLIAN, Hist. de la Gaule, IV (1914), pp. 67 sgg. e 316 sgg., cf. H. DESSAU, loc. cit., pp. 480 sgg. Per la Spagna, vd. A. SCHULTEN, «R. E.», VIII (1913), coll. 2037 sg.; J.J. NOSTRAND, The Reorganization of Spain by Augustus (19l6); IDEM, Roman Spain, in T. FRANK, An Economic Survey of Ancient
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trasformazione delle tribù, dei villaggi, dei territori di templi in territori di città s’era già iniziato con Alessandro Magno e forse anche prima; ma nell’Occidente fu veramente straordinario. Scomparvero a poco a poco le rocche celtiche appollaiate sulle cime di colline e di montagne, che avevano servito a un tempo da rifugi fortificati e da mercati: l’aristocrazia dominante delle tribù celtiche scese a stabilirsi al piano, accanto ai grandi corsi d’acqua della Francia e della Spagna, e vi edificò le sue case ed i consueti edifici pubblici. I nuovi centri di vita richiamarono mercanti, artigiani, marinai: così sorgevano vere città. nelle province occidentali era molto evidente. Alcune delle città celtiche sulla cima di colline e montagne, rifugi fortificati, località di mercato e centri di produzione industriale scomparvero. Alcuni altri, meglio attrezzati per uno sviluppo interno, crebbero in dimensione e importanza. Nuovi centri urbani furono organizzati nelle pianure vicino alle strade e ai grandi fiumi di Francia e Spagna. Il nucleo della loro popolazione può essere stato costituito dai mercanti, dagli artigiani e dai marinai. Ma a questo si aggiunse presto l’aristocrazia dominante delle città celtiche, che vi costruì le sue case e vi eresse i consueti edifici di pubblica utilità. Alcune di queste città più grandi e più belle divennero centri amministrativi delle antiche civitates celtiche e ricevettero il titolo onorifico di «colonia». Esse svolsero quindi nella vita di un grande distretto rurale mutatis mutandis lo stesso ruolo delle città dell’Italia e dell’Oriente ellenistico nella vita dei rispettivi territori. Il risultato fu che la Gallia e la Spagna rimasero paesi essenzialmente agricoli, forse in origine organizzati ancora in forme tribali, mentre le loro antiche città incominciarono a svolgere gradualmente, nella vita delle loro comunità, le funzioni tipiche delle città dell’Oriente ellenistico nella vita di questi paesi. L'Occidente progressivamente si urbanizzò. In Africa fu riedificata e riprese a fiorire la grande città
di Cartagine; le antiche comunità fenicie della costa s’avviarono a nuova vita; i comuni misti punico-berberi delle fertili pianure dell’Africa e della Numidia, alcuni dei quali albergavano già comunità di emigrati romani, si riebbero dagli effetti rovinosi delle guerre civili e ripresero l’antica attività economica. Sotto la protezione dei soldati romani si formarono nelle zone meridio-nali, orientali, occidentali, nuove agglomerazioni di case, che ben presto assunsero l’aspetto di regolari città. In Africa e altrove – sul Reno, sul Danubio, nella Spagna – intor-
R. KNOX MC ELDERRY nel «J. R. S.», 8 (1918), pp. 53 sgg.; E. ALBERTINI, Les Divisions administratives de l’Espagne romaine (1923). Per l’Africa, vd. A. SCHULTEN, Das römische Afrika (1899), cf. cap. VII, note 57-59. Mi sembra che T. FRANK nel quadro che fa delle province romane durante i tre primi secoli dell’Impero (Economic History, 19272, specialm. pp. 368 sgg.), si attenga un po’ troppo, almeno per quanto riguarda la Gallia, allo Hirschfeld, non tenendo conto del nuovo materiale accumulatosi nei musei francesi e sempre in aumento. Non so su che cosa si fondi la sua affermazione che «in complesso la Gallia rimase sotto Augusto, e anche lungo tempo dopo, un paese di grandi proprietari barbarici che bevevano, andavano a caccia e giostravano, e di gente sottoposta a duro lavoro nelle loro tenute» (p. 370). Non conosco alcuna lapide sepolcrale, su cui sia rappresentato un magnate barbarico di tal tipo, mentre costituiscono parte considerevole dell’inventario dei musei francesi i monumenti sepolcrali (in parte del sec. I d.C.) in cui si raffigurano abitanti di città che lavorano assiduamente e godono l’agiatezza. Sarebbe questo un semplice caso? Rome, III, Baltimore, 1937, pp. 145 sgg.;
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no ai campi fortificati delle legioni e delle truppe ausiliarie, lungo le vie d’accesso ad essi, sorsero vasti agglomeramenti, formati da serie di botteghe e di abitazioni, chiamati canabae, nuclei anch’essi di future città. Soldati pensionati andavano ad aumentare la popolazione di questi nuovi stanziamenti, o ricevevano, in gruppi, terreno su cui stabilirsi ed edificare una città. Così l’Impero romano, grazie agli sforzi coscienti del suo capo, andava a poco a poco trasformandosi in un’aggregazione di città-Stato. Augusto appariva capo non soltanto dei cittadini romani residenti a Roma, in Italia, nelle province, ma anche, in generale, di tutti gli elementi urbani, cioè civili, dell’Impero: un capo ben sicuro del loro appoggio. Questo fatto aveva la sua più piena espressione nella composizione della guardia imperiale e delle legioni romane, che rappresentavano tanto i cittadini romani quanto la popolazione urbana dell’Impero, sebbene i primi fossero, naturalmente, l’elemento predominante. Agli elementi non urbani, alle tribù e ai villaggi ascritti a qualche città, era assegnata nella vita dell’Impero soltanto una parte secondaria: dovevano lavorare e obbedire, non erano liberi nel senso che a questa parola davano gli antichi. Volgiamoci ora alla politica economica d’Augusto. Il suo proposito fondamentale fu di adempiere la promessa di ristabilire pace e prosperità: ed egli vi riuscì ottimamente. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che doveva tener conto delle tradizioni del passato di Roma, dei ricordi gloriosi delle conquiste romane, del desiderio di pace nutrito dalla maggior parte dei cittadini romani. Questi bramavano pace, ma pace onorevole, vale a dire, secondo il concetto romano, continuazione delle conquiste e delle annessioni. Non dobbiamo dimenticare, a questo proposito, che Augusto era anch’egli un Romano aristocratico e che per lui, come per tutti gli uomini maggiori di Roma, gli scopi più ambiti della vita umana erano la gloria e gli allori militari, le vittorie e i trionfi. Inoltre, l’edificio dell’Impero romano era tutt’altro che completo. Augusto era figlio adottivo di Cesare, e tutti sapevano che Cesare s’era proposti due compiti principali: consolidare la potenza romana a settentrione e a greco e ristabilire l’onore delle armi romane, così gravemente compromesso a oriente e a scirocco dalla disfatta di Crasso e dai dubbi successi di Antonio. Per la politica estera di Augusto basteranno poche parole. Il suo governo non fu per niente un periodo di riposo. La pace dell’Impero non poteva venire assicurata con una politica di resistenza passiva, ma con indefessi e strenui sforzi militari. Il problema essenziale era di trovare e fissare per l’Impero frontiere che dessero stabilità e sicurezza e così rendessero possibile una pace durevole11. Grazie agli sforzi di Augusto medesimo, del suo amico e compagno d’armi Agrippa, del suoi figliastri Tiberio e Druso, si conseguì la completa pacificazione della zona delle Alpi, della Gallia, della Spagna. La conquista della Britannia fu per il momento rinviata. Lo sforzo maggiore fu fatto per risolvere il difficile problema del consolidamento dell’Impero a settentrione e a greco,
11. Per quel che concerne la politica estera, l’articolo di K. FITZLER e O. SEECK nella «R. E.» dà un buon e accurato quadro di tutti gli avvenimenti svoltisi sotto Augusto. Cf. H. DESSAU, Gesch. der röm. Kaiserzeit, vol. I, pp. 360 sgg.; RITTERLING, «R. E.», XII, coll. 1213 sgg.
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sul Reno e sul Danubio. Ne fu risolta soltanto una parte: la pacificazione dei paesi posti a mezzogiorno del Danubio; ed essa richiese una lotta lunga e sanguinosa contro i Pannoni e i Dalmati. La seconda parte del compito, la protrazione della frontiera romana sino all’Elba, non si poté condurre a termine. La rotta subita da Varo in Germania, colpo sensibile ma non esiziale, indusse Augusto ad abbandonar l’idea d’aggiungere la Germania alle province romane. Dobbiamo tener presente che questo disastro avvenne nella seconda metà del suo regno, quando l’imperatore era ormai vecchio. Il passo decisivo nelle relazioni tra Roma e la Germania fu fatto non da Augusto ma dal suo figliastro e successore Tiberio. In Oriente non si fece alcun serio sforzo militare per riscattare la vergogna della disfatta inflitta a Crasso dai Parti. Per soddisfare l’opinione pubblica, i Parti furono minacciati di grave guerra e così indotti a restituire a Roma le insegne catturate. Lo stesso scopo si proponeva la spedizione condotta contro l’Armenia da Caio Cesare, nipote dell’imperatore. I fattori principali dell’ampliamento e consolidamento dell’influenza romana in Oriente furono la diplomazia e il commercio, sostenuti però da considerevoli forze armate e da intensa attività militare. Identica politica fu seguita in Egitto, in Arabia, nell’Africa settentrionale. La spedizione di Elio Gallo in Arabia non fu certamente un successo completo, ma ad ogni modo assicurò ai commercianti romani alcuni buoni porti lungo la via dall’Egitto all’India12. Quest’attività procurò all’Impero una lunga pace. Il magnifico altare eretto sul Campo di Marte (Campus Martius) alla «pace di Augusto» (Pax Augusta) simboleggiò il fatto che la pace aveva preso il sopravvento sulla guerra e dava l’impronta al governo di Augusto. La stessa idea venne espressa con la ripetuta chiusura delle porte del tempio di Giano e con le feste celebranti la «nuova età dell’oro» apertasi con Augusto per il mondo civile. La dea Roma poteva ormai riposare sulle armi tutrici della pace e della prosperità, fondate sulla pietà. Non occorre insistere sul fatto che lo stabilimento di condizioni pacifiche in terra e in mare fu della massima importanza per la vita economica dell’Impero. Per la prima volta dopo secoli di guerre incessanti il mondo civile godeva veramente la pace. Il sogno che le menti maggiori del mondo antico avevano invano accarezzato per tanti secoli era finalmente diventato realtà. Nessuna meraviglia, quindi, che la vita economica abbia assunto splendido slancio in tutta l’estensione dell’Impero. Rivissero i tempi migliori dell’età ellenistica, con la sola differenza che invece che da una serie di Stati rivali, intenti a sperperare le loro risorse economiche in obbiettivi politici, l’intiero mondo civile era adesso formato da un unico vastissimo Stato, che comprendeva tutti i regni dell’età ellenistica. La rivalità tra gli Stati era ormai scomparsa, la com-
12. Sulle guerre d’Africa vd. R. CAGNAT, L’Armée romaine d’Afrique (19132), pp. 4 sgg.; IDEM, Comment les Romains se rendirent maîtres de toute l’Afrique du Nord, nelle «Ann. du Musée Guimet», 38 (1912), pp. 155 sgg. Intorno ai risultati della guerra di Arabia vd. il mio articolo nell’«Arch. f. Pap.-F.», 4 (1907-8), pp. 306 sgg. Cf. i lavori del KORNEMANN e dello SCHUR citati nel cap. III, note 16 e 17, [e O. CUNTZ, in «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 25 (1929), pp. 80 sgg.].
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petizione si riduceva a mera concorrenza economica tra uomini d’affari e si svolgeva senza interferenza di considerazioni politiche. In questa concorrenza né lo Stato romano né l’imperatore s’ingerirono mai. Essi lasciarono che la vita economica si svolgesse liberamente. L’unico ostacolo che nell’Impero si frapponesse al commercio erano i dazi non molto alti levati ai limiti di ciascuna provincia. Non conosciamo l’entità del peso con cui le imposte gravavano l’agricoltura e l’industria; ma per esempio l’ammontare delle tasse pagate dai cittadini romani sulle successioni e sulla manomissione di schiavi (entrambe del 5 per cento) – la prima introdotta, la seconda ordinata da Augusto – non può chiamarsi eccessivo. Dobbiamo tener presente, è vero, che oltre alla tassazione dello Stato vi erano anche tasse municipali di varie specie, sulle quali sappiamo pochissimo; ma la crescente prosperità delle città, sia italiche sia provinciali, dimostra che in ogni caso questa tassazione non costituiva un reale ostacolo allo sviluppo delle intraprese private e dell’attività economica. All’infuori della tassazione non si vede che il governo abbia preso alcun altro provvedimento di carattere economico. Il periodo di Augusto e dei suoi successori immediati fu un tempo di quasi completa libertà commerciale e di congiunture magnifiche per l’iniziativa privata. Né sotto la repubblica né sotto la guida di Augusto e dei suoi successori Roma accolse mai la politica seguita da alcuni Stati ellenistici, e particolarmente dall’Egitto, volta a statizzare commercio e industria e a farne più o meno completamente un monopolio dello Stato impersonato nel re. Tutto era lasciato all’iniziativa privata. Nello stesso Egitto – paese di cui Augusto dopo la sua vittoria su Cleopatra ed Antonio aveva fatto una provincia riservata alla sua personale amministrazione – in questa medesima terra classica della étatisation*, col suo complicato sistema d’ingerenze dello Stato in ogni ramo della vita economica, furono introdotti alcuni mutamenti volti in prima linea a ridurre la pressione dell’ingerenza statale. Così, per esempio, Augusto favorì in Egitto lo sviluppo della proprietà fondiaria privata, garantita dallo Stato allo stesso modo che nelle altre province. Fecero allora la loro apparizione in Egitto un buon numero di fiorenti tenute, grandi e piccole, appartenenti a proprietari privati, specialmente a veterani romani13. Nella vita economica dell’Impero sembra abbiano conservato la posizione dominante i grandi capitalisti dell’età repubblicana, alcuni dei quali appartenevano all’ordine senatorio, altri all’equestre, mentre i più molti erano exschiavi, liberti. Uno di questi capitalisti, e il maggiore di tutti, era precisamente l’imperatore. A differenza dai monarchi ellenistici, che identificavano la loro fortuna privata con quella dello Stato e affermavano il loro diritto di proprietà su tutta la terra e su tutte le risorse dello Stato, Augusto, al pari di altri con-
*. In francese nel testo inglese. [N.d.T.]. 13. Per le tenute private dell’Egitto, vd. cap VII, nota 43. Sui veterani come coltivatori vd. W.L. WESTERMANN, An Egyptian Farmer, nei Classical Studies in hon. of Ch.F. Smith, Madison, 1919 («Univ. of Wisconsin Studies in Language and Literature», 3), pp. 171 sgg.; cf. il mio libro A Large Estate in Egypt, p. 13, nota 27 e BROR OLSSON, Papyrusbriefe aus der frühesten Kaiserzeit (1925).
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temporanei magnati della finanza, amministrava la sua immensa fortuna privata per mezzo dei suoi schiavi e dei suoi liberti; ma, sebbene ne avesse il desiderio, non poté separare in maniera precisa la sua fortuna privata dal denaro che gli affluiva come supremo magistrato della repubblica romana, come governatore di molte alcune province, come signore dell’Egitto in diretta successione dei Tolomei. La sua cassa privata (arca), ben presto si mescolò irrimediabilmente con la sua cassa di magistrato (fiscus): era forte la tentazione e grande la facilità di servirsi di entrambe nella stessa maniera e con l’opera degli stessi organi. In tal modo gli schiavi dell’azienda domestica dell’imperatore, i suoi segretari privati, e specialmente il suo «ragioniere capo» (a rationibus) tennero in lor mani la direzione finanziaria così del patrimonio privato dell’imperatore come dell’Egitto e delle province sebbene distinta dalla sua cassa di magistrato (fiscus), fu successivamente destinata a sostenere il bilancio dello Stato in caso di emergenza. Così era naturale che i segretari e i tesorieri privati avessero fino a un certo punto il controllo delle province sotto la loro diretta amministrazione e specialmente il «ragioniere capo» (a rationibus), che aveva la direzione finanziaria tanto del patrimonio privato dell’imperatore come dell’Egitto e delle province da lui amministrate.
Il Senato aveva una via comoda d’esimersi dagli obblighi connessi con l’amministrazione finanziaria delle province imperiali, nelle quali era acquartierata la massa principale dell’esercito romano: trasferirne l’amministrazione all’imperatore, dandogli piena libertà di riscuotervi le imposte e di provvedere alle spese come a lui piacesse. Se, come può supporsi, certe province, come per esempio la Gallia con la sua frontiera renana, le province danubiane con la frontiera del Danubio, e la Siria con la frontiera dell’Eufrate, costavano molto più di quel che rendessero, l’amministrazione di esse, compreso il soldo delle truppe, doveva importare un costante disavanzo, cui doveva far fronte probabilmente la cassa privata dell’imperatore. Così dunque per la forza stessa delle circostanze, per il peso dell’immensa fortuna personale accumulatasi nelle mani dell’imperatore nel corso delle guerre civili, si produssero nell’Impero romano condizioni delinearono all’orizzonte nuovi fenomeni molto simili a quelle delle monarchie ellenistiche. Quanto più l’imperatore spendeva del suo per servizi pubblici – per nutrire e divertire il proletariato romano, per fare di Roma la degna capitale del mondo, per regolare il corso del Tevere, per aprire nuove strade militari in tutto l’Impero – tanto più difficile riusciva segnare il limite tra le sue risorse private e le entrate dello Stato. Ciò tuttavia non voleva dire che il patrimonio dell’imperatore restasse assorbito in quello dello Stato, anzi aveva l’effetto contrario di far sì ch’egli potesse disporre delle risorse dello Stato al modo stesso che disponeva delle sue rendite private o che gli introiti dello Stato fossero spesi da Augusto senza consultare il senato, ma la linea di demarcazione tra la cassa statale e quella di Augusto fu gradualmente cancellata. Posso citare di nuovo il caso delle province che erano sotto il suo controllo diretto. Augusto probabilmente spese il denaro derivantegli dalle province senza consultare il senato benché probabilmente tenesse in ordine i suoi conti come governatore di diverse province senza verifica da parte del senato. Questa condizione di cose fu poi ereditata da Tiberio
e dai suoi successori, che a mano a mano s’assuefecero a considerare le entrate
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dello Stato come loro rendita personale e ad usarle per ogni scopo che loro talentasse14. L’imperatore non era tuttavia il solo possessore di un’immensa fortuna privata. Non sappiamo quante delle antiche famiglie aristocratiche avessero salvato la loro ricchezza dalla tempesta delle guerre civili; ma il fatto che Augusto spesso dovette venire in aiuto di casate aristocratiche impoverite dimostra che non poche di esse erano completamente rovinate e dipendevano interamente dalla carità imperiale. Sappiamo tuttavia che i più ricchi tra i magnati di Roma erano precisamente quelli che avevano stretta attinenza con Augusto, i membri cioè della sua famiglia e i suoi amici personali come Agrippa e Mecenate. Possiamo ammettere senza esitazione che altri numerosi gruppi di persone meno cospicue, che davano ad Augusto il loro appoggio, possedessero vaste e ognor crescenti fortune e le dovessero alle loro strette relazioni con lui15. Ma per quanto questi nuovi ricchi costituiscano un notevole fenomeno, non rappresentavano tuttavia il tipo prevalente nella vita economica dell’età
14. Vd. il mio articolo Fiscus in DE RUGGIERO, Dizionario epigrafico, e in «R. E.». Per i paralleli ellenistici vedi il mio articolo su Pergamo negli Anatolian Studies Presented to Sir William Ramsay (Manchester, 1923). Cf. A. VON PREMERSTEIN, in «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 15 (1912), pp. 200 sg.; F.F. ABBOTT e A.CH. JOHNSON, Municipal Administration in the Roman Empire (1926), pp. 117 sgg. La questione del sistema tributario romano nelle province dovrebbe essere fatta oggetto di particolare indagine. Temo che sia un semplificare troppo le cose l’accentuare il contrasto tra l’Egitto e le altre province nei riguardi della valutazione e della riscossione dell’imposta fondiaria. Igino (LACHMANN, Grom. veteres, p. 205) nella sua descrizione generale delle varie forme d’imposta sui fondi rustici parla d’un estimo assai complicato e individuale. Sulle imposte municipali vd. cap. V, nota 7. Le spese sostenute da Augusto con la sua cassa privata per fini di pubblica utilità sono messe in rilievo come caposaldo della sua politica economica da M.P. NILSSON, Den ekonomiska Grundvalen for Augustus’ principat, «Eranos», 12 (1912), pp. 95 sgg. Cf. F. PETRI, Die Wohlfartspflege des Augustus, «Neue Jahrb. f. Wissensch. u. Jugendb.», 3 (1927), pp. 286 sgg. É molto probabile che le expensae elencate nelle Res Gestae fossero coperte con le risorse personali e private di Augusto. [U. WILCKEN, Zu den Impensae der Res gestae divi Augusti, «Sitzb. Berl. Akad.», 27 (1931) ritiene che tutte le «impensae» menzionate nelle Res gestae siano state fatte dal privatum e dal patrimonium di Augusto senza toccare i fondi del fisco]. Cf. T. FRANK, Rome and the Italy of the Empire, in An Economic Survey of Ancient Rome, V, Baltimore, 1940, pp. 7-18, che dà nelle pagine menzionate prima un calcolo appropriato delle expensae e del reddito di Augusto e nelle pagine precedenti una simile (molto ipotetica) stima degli introiti e delle spese dello Stato. Cf. CARDINALI, loc. cit., pp. 176 sgg.
15. Non sono mai stati riuniti e studiati i dati sui patrimoni dei membri della famiglia d’Augusto e dei suoi amici e socii. Qualche accenno può trovarsi in O. HIRSCHFELD, Der Grundbesitz der römischen Kaiser, «Klio», 2 (1902), e Kl. Schr., pp. 516 sgg. e in FRIEDLAENDER e WISSOWA, Sitteng. Roms, vol. I, 19199, pp. 121 sgg. Sul patrimonio di Mecenate vd. FRANDSEN, C. Cilnius Maecenas, Altona, 1842, pp. 97; cf. sulle sue tenute egiziane le opere citate nella nota 43 del cap. VII. Per le grandi tenute di Agrippa vd. DIO CASS., LI, V, 29; HOR., Epist., I, 12 (vasto allevamento di bestiame in Sicilia); I. GREAVES,
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augustea. I favoriti dell’imperatore non erano molto numerosi e per lo più vivevano sulle rendite di ciò che già possedevano, o, se ingrandivano le loro fortune, lo facevano nella stessa maniera della più energica e produttiva classe di quegli uomini d’affari, che più di tutti s’avvantaggiarono della pace e dell’ordine ristabiliti. Questi uomini d’affari non si trovavano soltanto a Roma: anzi la maggior parte di essi viveva nelle altre città italiche e nelle province. Essi costituivano quella borghesia cittadina di cui s’è parlato nel capitolo precedente, la classe ch’era venuta sviluppandosi in Italia e nel resto dell’Occidente durante i secoli II e I a.C., e che non era stata sconquassata dalle guerre civili nella stessa misura dell’aristocrazia, della classe senatoria e dello strato superiore dell’equestre. Non appena ristabiliti l’ordine e la pace, questi uomini ripresero in pieno la loro attività economica, e la maggior parte, indubbiamente, con ottimo risultato. Tipo rappresentativo di siffatta classe è un riccone ritiratosi dagli affari, dimorante in una città dell’Italia meridionale: quel liberto Trimalcione, di cui Petronio ha così vivacemente fatto il ritratto. La parte attiva della sua vita certamente si era svolta ai tempi di Augusto: Petronio lo dipinge già vecchio, quando aveva già portato a termine l’opera della sua vita. Egli aveva iniziato la sua carriera da semplice schiavo, favorito del suo padrone; aveva poi ereditato da quest’ultimo una cospicua fortuna e l’aveva investita in intraprese commerciali, specialmente nel proficuo commercio del vino. Al termine dei suoi giorni egli viveva nella sua bella casa, in una città campana, con i redditi delle sue vaste tenute e con gli interessi del denaro dato a prestito su sicure garanzie16. Trimalcione è uno dei tipi di quest’età. Egli, cosa caratteristica, vive non a Roma, ma in Campania: vedremo che in questo periodo la Campania era un posto molto
Saggi sulla storia dei modi di proprietà della terra presso i Romani, vol. I, pp. 143 sgg. (in russo). Su C. Iulius Eurycles, uno dei minori favoriti di Augusto, il re senza corona della Laconia, vd. E. KJELLBERG, C. Julius Eurycles, «Klio», 17 (1920), pp. 44 sgg.; L.R. TAYLOR e ALLEN B. WEST, Corinth, VIII, 2, nn. 67, 68, pp. 42 sgg.; cf. le iscrizioni di Gythion menzionate precedentemente, cap. I, nota 12. Allorché Orazio parla di grandi fortune, si riferisce quasi esclusivamente alle grandi tenute d’Italia e delle province (Sardegna, Sicilia, Africa, Gallia), specificando i tipi di prodotti caratteristici di ciascuna: Carm., I, 31, 3 sgg.; III, 16, 25 sgg.; I, 1, 9; II, 16, 33; Epod., I, 25; IV, 13 sgg. Grandi proprietà (Sextus Pompeius): TAC., Ann., III, 32; 72; OV., Ep. ex Ponto, IV, 15, 15 sgg.: «Quam tua Trinacria est regnataque terra Philippo, / quam domus Augusto continuata foro, / quam tua, rus oculis domini, Campania, gratum, / quaeque relicta tibi, Sexte, vel empta tenes».
16. Intorno a Trimalcione, al suo patrimonio e alla sua attività economica, vedi l’eccellente studio di I. GREAVES, Indagini sulla storia della proprietà terriera presso i Romani. La grande azienda domestica nel periodo del massimo fiore economico del mondo romano. I dati di Petronio sulla storia agraria del sec. I d.C., nel «Giornale del Ministero della pubblica educazione», 361 (1905), pp. 42 sgg. (in russo); S. DILL, Roman Society from Nero to M. Aurelius (1921), pp. 128 sgg. e le note del FRIEDLAENDER al testo di PETRONIO nella sua ediz. della Cena Trimalchionis. Certamente Trimalcione iniziò la sua carriera nell’età augustea. Altro tipo somigliante è il libertino possessore di mille iugera di terra nello ager Falernus di cui parla HOR., Epod., IV, 13 sgg. Combinazione di commercio marittimo e di proprietà agraria come principali fonti di ricchezza, in HOR., Carm., I, 31, 3 sgg.: non opimae Sardiniae segetes feraces, non aestuosae grata Calabriae armenta, non aurum aut ebur
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più adatto di Roma per chi volesse crearsi una fortuna. È caratteristico, inoltre, che la sua principale occupazione sia stata dapprima il commercio, e solo in un secondo tempo l’agricoltura e la banca; può essere ch’egli rappresenti un tipo anche nella sua qualità di liberto, sebbene io inclini a credere che Petronio abbia scelto il tipo del liberto per aver modo di fare del nuovo ricco la figura più volgare che fosse possibile. Per me è certo che non pochi fra gli abitanti di città come Pompei, di nascita libera e probabilmente non del tutto incolti, avevano percorso la stessa carriera d’affari di Trimalcione. Erano essi i proprietari delle grandi e belle case e ville che sorsero a Pompei, a Stabia, ad Ercolano nel periodo augusteo, in quel periodo cioè in cui nelle dette città fiorì il più raffinato, fresco e artistico stile della pittura decorativa: gli uomini che facevano decorare le loro case con pitture del secondo e terzo stile possedevano certamente buona educazione e al tempo stesso buona fortuna negli affari. Abbiamo larga conoscenza del modo com’era composta a Pompei la classe dirigente nell’età d’Augusto. La maggior parte di queste persone erano discendenti dei veterani sillani, alcune appartenevano all’antica aristocrazia sannitica di Pompei, pochissimi erano i liberti17. Lo stesso deve ritenersi avvenisse nelle città maggiori,
Indicum, non rura, quae Liris quieta mordet aqua taciturnus amnis. premant Calena falce quibus dedit fortuna vitem, dives ut aureis mercator exsiccet culillis vina Syra reparata merce. Il mettere in rilievo queste due principali sorgenti di ricchezza è caratteristico dei poeti dell’età augustea (vedi E.H. BREWSTER, Roman Craftsmen and Tradesmen of the Early Roman Empire (1917), pp. 30 sgg.). Per ciò che concerne il carattere del commercio dell’età augustea, è importante rilevare la parte considerevole che in questo periodo l’Italia e i mercanti italici avevano nella vita commerciale dell’Oriente: vedi l’iscrizione di Puteoli posta in onore di due Calpurnii dai mercatores qui Alexandr[iai] Asiai Syriai negotiantu[r] (C. I. L. X, 1797). I Calpurnii erano certamente ricchi mercanti che esercitavano influenza predominante nei mercati d’Oriente: uno di essi fu il primo ad edificare a Puteoli un tempio ad Augusto (C. I. L. X, 1613). A queste medesime relazioni con l’Oriente (sotto Tiberio) accenna il fatto che gli Augustales (cioè ricchi liberti) di Puteoli eressero una copia o imitazione del gran monumento elevato a Roma in onore di Tiberio dalle quaranta città dell’Asia Minore dopo i terribili terremoti del 17, 23 e 29 d.C. (C. I. L. X, 1624). Indubbiamente quest’atto degli Augustali fu dovuto in parte al fatto ch’essi erano di origine asiatica, e in parte ancora maggiore al loro interessamento per la prosperità delle città asiatiche, cioè per lo sviluppo del proprio commercio con l’Asia Minore: vedi CH. DUBOIS, Pouzzoles antique («Bibl. des Écoles», 98), 1907, pp. 77 e 104; V. PÂRVAN, Die Nationalität der römischen Kaufleute im römischen Kaiserreiche (1909), p. 12; U.E. PAOLI, Grossi e piccoli commercianti nelle liriche di Orazio, nella «Riv. di filol.», 52 (1924), pp. 45 sgg. Cf. i negotiatores romani di Gythion in Laconia sotto Tiberio, menzionati nell’iscrizione ricordata nel cap. I, nota 12, e l’influente conventus c. R. qui in Asia negotiantur sotto Claudio (43-44 d.C.), J. KEIL, Forsch. in Ephesos, III, n. 19 (p. 110). 17. Per Puteoli vedi la nota 16; per Pompei, il materiale raccolto da M. DELLA CORTE, Le case e gli abitanti di Pompei, in «Neapolis» e nella «Rivista indo-greco-italica», voll. IVII (1917-1923), cf. ZOTTOLI, Publio Paquio Proculo panettiere, «Rendic. Lincei», 17 (1908), pp. 555 sgg. (cf. però M. DELLA CORTE, in «J. R. S.», 16 (1926), pp. 145 sgg., il quale ha dimostrato che P. Paquio Proculo non era affatto panettiere); M. DELLA CORTE, Fullones, nel Volume in onore di Mons. G.A. Galante, Napoli, 1920.
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come a Puteoli, e nell’Oriente ellenistico18. Io son convinto che nell’età augustea la vita economica pulsò con ritmo accelerato tanto in Italia quanto nelle province. La borghesia di questo periodo non era affatto oziosa, e l’ideale di viver di pura rendita non era più diffuso tra i membri di essa di quel che sia tra i membri della medesima classe ai nostri giorni. La miglior prova di queste mie osservazioni può trarsi da un esame delle rovine di città italiche. Queste nel I sec. a.C. non si trovavano affatto in cattive condizioni, sebbene alcune avessero sofferto duramente dalle guerre civili. Ma il periodo della vera prosperità fu per l’Italia l’età d’Augusto. Uno sguardo anche superficiale dato alle rovine di tutte le città italiche, e specialmente a quelle dell’Italia settentrionale e centrale, mostra ch’esse per lo più assunsero il loro aspetto definitivo precisamente in questo periodo, e che in questo appunto furono eretti gli edifici più belli e più importanti. Non parlo di città come Torino e Susa, ed altre dell’Italia settentrionale, che furono create precisamente da Augusto, e neppure di Aquileia; ma se prendiamo anche le città dell’Umbria, centri di vita agricola quasi affatto senza commercio né industria – come Perusia, Asisium, Hispellum, Aquinum ecc. – la lettura della descrizione dei resti tuttora esistenti ci convincerà che la maggior parte dei loro più begli edifizi sono creazioni dell’età augustea. Non però creazioni di Augusto in persona. Questi ebbe parte nella costruzione del magnifico sistema stradale italico; ma le città furono create dalla borghesia cittadina, tanto dalle antiche famiglie municipali quanto dai nuovi abitanti, veterani delle guerre civili. Alcuni nuovi edifici furono aggiunti più tardi, nel corso del sec. I d.C. Alcune città prosperavano ancora nel sec. II; ma, come si è detto, la vera età d’oro delle città e della loro borghesia (ancora per lo più composta di elementi di nascita libera) fu il periodo d’Augusto, cioè lo spazio di tempo compreso tra il 30 a.C. e il 14 d.C.19.
18. Qualche dato in proposito si trova nel mio articolo Caesar and the South of Russia, «J. R. S.», 7 (1917), p. 36. Cf. la parte rappresentata nella vita delle loro rispettive città da Aristagoras di Istros (DITTENBERGER, Syll.3, 708), Niceratus di Olbia (ibid., 730) e Acornion di Dionysopolis (ibid., 762). Allo stesso periodo appartengono quel Chaeremon di Nysa, che nell’88 a.C. poté fare a C. Cassio un dono di 60 mila modii d’orzo (DITTENBERGER, Syll.3, 741), nonché quello Stratonax di Apollonia, che venne in aiuto della città di Kallatis messa alle strette dai barbari (CROENERT, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 11 (1908), Beibl., p. 105), e alcune note famiglie dell’Asia Minore, per es. quelle di Pythodoros, Polemon, Mithradates di Pergamo, e C. Julius Eurycles di Sparta (nota 15). Più modesto era il ricco mercante di Leros menzionato in MICHEL, Recueil, 372. Sarebbe opera meritoria raccogliere i dati che si hanno su questi magnati locali d’Oriente dei secoli I a.C. e I d.C.; cf. il mio cap. Rhodes and Delos nella C. A. H., VIII, p. 649. 19. Vedi le descrizioni generali dell’Italia date da STRABONE (lib. V, cf. IV e VI) e da PLINIO (III, 5 sgg.), e cf. la breve descrizione di POMPONIO MELA. Un’accurata lettura di queste fonti e specialmente del secondo volume di H. NISSEN, Ital. Landeskunde (1902), nonché del delizioso libretto di L.A. FROTHINGHAM, Roman Cities in Italy and Dalmatia (1910), permetterà al lettore di giudicare dell’accuratezza delle mie constatazioni. Con la sua accurata indagine, condotta sotto l’aspetto architettonico, degli avan-
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Un’altra prova è fornita dal rapido sviluppo assunto in quest’età dalla vita economica. Ciò risulterà evidente da un breve esame di essa quale è rappresentata nelle fonti contemporanee. Le nostre informazioni, è vero, si limitano quasi esclusivamente all’Italia e alle condizioni economiche ivi prevalenti. Che ciò sia mero caso? O non mostra piuttosto che l’Italia era il paese dominante economicamente non meno che politicamente? L’Oriente solo lentamente andava riparando le sue forze infrante dalle guerre civili; le province occidentali, troppo giovani, non erano ancora in grado di dar vita a una brillante vita economica. Tuttavia, come vedremo in seguito, l’Oriente si riebbe più rapidamente nell’industria e nel commercio che non nell’agricoltura. Abbiamo già visto che le guerre civili non turbarono lo sviluppo dell’agricoltura in Italia. Quando esse furono cessate, le condizioni dell’agricoltura rimasero quelle di prima, salvo che divennero più stabili. Nei suoi caratteri fondamentali la situazione agraria non soggiacque ad alcun notevole mutamento. I latifondi crescevano costantemente, a spese soprattutto dei poderetti di contadini. Accanto alle grandi tenute andavano in certa misura aumentando d’importanza anche le tenute di media e piccola estensione: processo questo al quale contribuì notevolmente la spartizione delle terre confiscate tra i veterani. Ma tanto le grandi quanto le medie proprietà avevano in comune il fatto d’essere condotte su basi sistematiche e capitalistiche e di essere possedute in larga misura da persone che risiedevano in città, non in campagna. A questa classe appartenevano quasi tutti i molti veterani che avevano ricevuto le loro terre da Silla, da Pompeo, da Cesare, da Augusto. L’amministrazione delle tenute medie è ben illustrata dalla descrizione che Orazio fa del suo fondo nella Sabina. Questo suo Sabinum Orazio l’aveva ricevuto in dono da Mecenate, sicché egli rientrava nella stessa categoria di proprietari agrari cui appartenevano i veterani dei capi rivoluzionari. L’accurato esame, fatto da I. Greaves20, degli accenni a questa tenuta disseminati negli scritti di Orazio, dimostra ch’essa era ampia abbastanza da assicurare al suo proprietario un reddito sufficiente. Il poeta dedicava molte cure alla sua proprietà, e di una parte di essa fece una fattoria modello, gestita con metodo. Ma
zi romani esistenti, il FROTHINGHAM ha dimostrato quanto sia stata fondamentale l’opera compiuta nelle città nell’età augustea; cf. TH. ASHBY, The Roman Campagna in Classical Times (1927), p. 44. 20. I. GREAVES, Indagini cit., vol. I, pp. 94 sgg. Intorno ai recenti scavi fatti per cura del governo italiano nel supposto sito della villa d’Orazio, vd. H. LUGLI, La villa sabina di Orazio, «Mon. ant. dei Lincei», 31 (1927), pp. 457 sgg., [e la sua deliziosa Guida della villa pubblicata nel 1931]. Cf. l’articolo Villa del LAFAYE in DAREMBERG e SAGLIO, Dict. d. ant., V, p. 883, nota 23; J. HAMMER nella «Class. Weekly», 17 (1924), pp. 201 sgg.; G.H. HALLAM, Horace at Tibur and the Sabine Farm (19272), e l’articolo Sabinum di H. PHILIPP, «R. E.», II ser., I, coll. 1590 sgg., con la pianta alla col. 2554. Intorno all’agricoltura italica vd. R. BILLIARD, L’Agriculture dans l’antiquité d’après les Géorgiques de Virgile (1928), cf. P. D’HÉROUVILLE, Virgile Apiculteur, «Musée Belge», 30 (1926), p. 161; 31 (1927), pp. 37 sgg.; IDEM, Zootechnie Virgilienne. Les bovidés, «Rev. de philol.», 49 (1925), pp. 143 sgg.
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1. Coppa d’argento di Boscoreale
2. Bicchiere d’argilla del Museo di Berlino
TAV. VII – CONCEZIONE DELLA VITA NELL’ETÀ D’AUGUSTO
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DESCRIZIONE DELLA
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VII
1. COPPA DEIL TESORO DI BOSCOREALE. Rinvenuta nelle rovine d’una villa presso il villaggio di Boscoreale (Pompei). Parigi, Louvre. A. HÉRON DE VILLEFOSSE, «Mon. Piot», 5 (1899), tav. VIII, 2. La coppa riprodotta dalla nostra fotografia è una delle due d’una coppia ornata di scheletri umani, alcuni dei quali rappresentano famosi scrittori e filosofi greci. La scena raffigurata nella fotografia è la migliore illustrazione dello spirito cui è informata la decorazione della coppa. Il lato sinistro è occupato da un altare su cui poggiano due cranii; dietro, su una colonna, la statuetta d’una delle divinità del fato (con la leggenda Klwqwv). Al disopra del cranio di sinistra una borsa di denaro con la leggenda Sofiva (sapienza), alla quale superiormente all’altro cranio fa riscontro un rotolo di papiro con la leggenda Dovxai (opinioni). Il campo è riempito da tre grandi scheletri. Quello più vicino alla colonna tiene nella destra una grande borsa piena di denaro, con la sinistra una farfalla (raffigurazione dell’anima), porgendola al secondo scheletro. Accanto alla borsa è incisa la parola Fqovnoi (invidie). Il secondo scheletro è intento a mettersi sul capo una corona di fiori: tra i due v’è un altro scheletro più piccolo, che suona la lira, con l’iscrizione Tevryi~ (letizia). Il terzo scheletro esamina un cranio che tiene nella destra, mentre con la sinistra afferra un fiore che ha accanto la leggenda “Anqo~ (fiore). Fra il secondo e il terzo scheletro, di nuovo un altro più piccolo, che batte le mani. Al disopra corre un’iscrizione che riassume i concetti fondamentali dell’opera d’arte: Zw`n metavlabe to; ga;r au[rion a[dhlovn ejsti: «godi la vita, finché ce l’hai; ché il domani è incerto». 2. COPPA FITTILE A VERNICE VERDE. Museo di Berlino. R. ZAHN, Ktw` crw`, 81. Winkelmanns Progr. (Berlino, 1921), tavv. I-III. Scheletro umano, circondato da una corona, un prosciutto, un piffero, un flauto e un’anfora da vino. A destra e a sinistra due pigmei danzanti, uno dei quali tiene una borsa. A sinistra e a destra del capo dello scheletro l’iscrizione graffita: ktw` crw` («guadagna e usa»). Cf. I. G. XII 9, 1240 (Aidepsos, PREUNER, «Jahrb. d. d. arch. Inst», 40 (1925) pp. 39 sgg.): un antico armatore, al momento della sua morte comandante d’una nave, nella sua iscrizione funeraria dà ai superstiti il consiglio: ktw` crw`. Queste due coppe sono soltanto due esemplari d’una lunga serie d’oggetti, che rispecchiano la concezione della vita comunemente corrente nell’età ellenistica e ancor più nei primi tempi dell’età romana. Non occorre neppure ricordare i noti esempi, che sono stati spesso raccolti e illustrati, come il piccolo scheletro d’argento, che nel romanzo di PETRONIO adorna la tavola nel banchetto del nuovo ricco Trimalcione (Sat., 34, 8). Riproduciamo qui le due coppe perché illustrano con evidenza insuperabile il modo di pensare prevalente nel popolo, e specialmente tra la borghesia agiata delle città, nei primi tempi dell’Impero. Un materialismo superficiale e una specie d’epicureismo triviale furono la conseguenza naturale della pace e del benessere, che dall’età d’Augusto in poi erano sottentrati agli sconquassi della guerra civile. «Godi la vita, finché ne sei ancora in tempo» è la parola d’ordine. «Ciò che v’ha di meglio al mondo è una borsa piena e quel che si può comperare con essa: mangiare e bere, suonare e danzare». Queste sono le cose reali; le speculazioni dei filosofi e dei poeti, uomini mortali, sono come sei tu stesso, non sono altro che opinioni (dovxai); oppure, per adoperare le parole di Trimalcione: eheu nos miseros, quam totus homuncio nil est! sic erimus cuncti, postquam nos auferet Orcus. ergo vivamus, dum licet esse bene (Sat., 34, 10). È interessante confrontare questa filosofia della vita di sapore epicureo con le prescrizioni metriche, che sono venute alla luce sulle pareti d’un triclinio della casa di Epidius Hymenaeus, e che ci ricordano Ovidio, M. DELLA CORTE, «Rivista indogreco-italica», 8 (1924), p. 121.
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II. Augusto e la politica di rinnovamento e di ricostruzione
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non vi dimorava a lungo. La gestione era tenuta non da lui personalmente, ma da un suo fattore (vilicus), ch’era uno schiavo. Sotto l’aspetto economico la tenuta si divideva in due parti: una fattoria modello gestita dal proprietario col lavoro di otto schiavi, e cinque poderi affittati a famiglie di coloni, che un tempo forse erano stati proprietari degli stessi fondi che adesso coltivavano come affittuari di Orazio. Nella fattoria modello una parte del terreno era tenuta a vigneto, un’altra parte a frutteto e ad orto; la parte maggiore però era coltivata a grano. I prati e boschi pertinenti alla tenuta fornivano pascolo a buon numero di buoi, pecore, capre, maiali. Senza dubbio tenute di estensione e carattere consimili, appartenenti a persone dimoranti in città, erano uno dei contrassegni dell’Italia centrale. Queste tenute di media estensione probabilmente erano per la proprietà contadinesca rivali più pericolose che non i latifundia dei grandi proprietari. Alquanto diverse erano le aziende rurali dell’Italia meridionale. Ne conosciamo alcune nei territori di Pompei, Stabia, Ercolano, le rovine delle quali sono state più o meno completamente e sistematicamente rimesse in luce. Certamente la maggior parte di queste ville non facevano parte di un latifundium. Proprietari che non avessero voluto dimorare su queste tenute non le avrebbero certamente provvedute di abitazioni così comode, talvolta perfino lussuose. Si può concludere adunque che la maggior parte dei proprietari di queste ville rustiche furono fin da principio cittadini e alcuni di loro residenti di in Pompei, Stabia, Ercolano, non già senatori e cavalieri abitanti a Roma. A quanto si può inferire da un accurato studio degli avanzi di esse, le fattorie campane erano più o meno somiglianti alla tenuta d’Orazio, e comprendevano anche i prati e i boschi sui pendii del Vesuvio. Esse dovevano essere di estensione relativamente grande, com’è dimostrato dai capaci magazzini vinari e oleari: circa l00 iugeri può essere considerata un’estensione media. I prodotti principali di esse erano infatti il vino e l’olio d’oliva, indubbiamente destinati al mercato delle città campane delle vicinanze. Poiché la pianta e la distribuzione degli ambienti di queste ville corrisponde perfettamente alle descrizioni di Varrone e di Columella, è evidente ch’esse erano gestite a norma dei manuali metodici d’agricoltura, e che vi si adoperava il lavoro di schiavi. Difficilmente v’era posto in esse per poderi contadineschi simili a quelli di Orazio. Le ville campane erano del tutto a base capitalistica, senza alcun residuo dell’economia contadinesca del passato21.
21.
Rivedere questa nota alla luce degli articoli di DAY, CARRINGTON and FRANK, An Economic Survey of Ancient Rome, V, Baltimore, 1940. Un elenco delle villae rusticae cam-
pane finora scavate lo abbiamo dato nel cap. I, nota 26. Alcune di esse appartengono certamente agli ultimi anni della repubblica o ai primi d’Augusto. È notevole che parecchie di esse, e proprio le più belle, furono edificate ai tempi d’Augusto, come mostra la loro decorazione parietale del secondo o terzo stile pompeiano. Ricorderò al lettore, come uno degli esempi più belli, la villa d’Agrippa Postumo. Un’analisi economica d’una di queste ville è stata data dal FRANK, Economic History (19272), pp. 209 sgg.; cf. History of Rome (1923), pp. 404 sgg. Non tutte le ville scavate, tuttavia, rientrano nello stesso tipo economico. A quanto io ho potuto sinora rilevare, si hanno in Campania tre quattro
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Indubbiamente quelle porzioni delle grandi tenute, che erano adibite alla produzione del vino e dell’olio, constavano di fattorie piuttosto piccole dello stesso tipo di quelle che sono state scavate in prossimità di Pompei. Il latifundium campano era certamente una combinazione di parecchi fundi e di
diversi tipi di ville. (1) Una villa come residenza estiva non intesa per qualsiasi forma di attività economica. (2) La combinazione di un’ampia, e talvolta lussuosa, residenza estiva con una vera villa rustica fornita di locali appropriati alla valorizzazione economica d’una tenuta piuttosto ampia. A questo tipo appartengono le due ville meglio conservate di Boscoreale, probabilmente la villa Item, e i nn. III, V, VI delle ville pubblicate dal DELLA CORTE, nonché la villa di Agrippa Postumo; e ad esso vanno assegnati anche alcuni esemplari stabiani. Si deve ritenere che i proprietari di queste ville risiedevano non in esse ma nelle città, e solo di tratto in tratto si recavano a soggiornare nella villa. Almeno il proprietario d’una di esse (n. V del DELLA CORTE), N. Popidio Floro, risiedeva certamente a Pompei. (2) (3) La vera fattoria agricola, modesta, spaziosa, pulita, costruita per un coltivatore agiato che probabilmente viveva nella villa tutto l’anno. A questo tipo appartengono i nn. I e IV del DELLA CORTE e il n. XVI di Stabia. Due di esse vendevano il loro vino ai viaggiatori che andavano a Pompei o a Stabia o ne tornavano, e ai vicini. Nel n. I del DELLA CORTE e nel n. XVI di Stabia è annesso alla fattoria un grande spaccio di vini (trattoria). (3) (4) Un terzo quarto tipo è rappresentato dal n. II del DELLA CORTE. Sono d’accordo con lui nel ritenere che questo tipo di casa, affatto sfornita di decorazione parietale, con locali abitabili piccoli e nudi, con ampie cantine e pigiatoi, non possa interpretarsi se non come un’azienda agricola gestita da schiavi e solo di tratto in tratto visitata dal proprietario. Nella tavola IX di questo volume potrà trovarsi l’illustrazione di una di queste ville modeste, quasi semplici case di contadini; nella tav. VIII vedute di ville ch’erano semplici rifugi estivi, e nella tav. X alcuni strumenti agricoli trovati nelle ville di Boscoreale. Una più particolareggiata classificazione delle ville secondo la logica della vita economica si troverà nei lavori di CARRINGTON citati al cap I, nota 26. È notevole che quasi tutte le ville di cui si conoscono i proprietari, eccettuata quella di Agrippa Postumo, appartenevano a cittadini ricchi o agiati di Pompei. Si vede che la maggior parte del territorio di Pompei e Stabia apparteneva a cittadini di queste due città, che risiedevano in queste ultime e ricavavano la maggior parte delle loro entrate dai loro vigneti. Altro fatto importante, già messo in rilievo dal FRANK, è che tutte le ville sinora scavate, senza eccezione, erano simili a fattorie americane, cioè non semplici case di contadini ma vere aziende agricole, che producevano vino e olio all’ingrosso per la vendita. Non vi è in esse la minima traccia della famosa «economia domestica». L’entità della loro produzione è dimostrata dall’ampiezza dei torchi e dalla notevole capacità delle cantine della maggior parte delle ville pompeiane e stabiane. Importanti testimonianze offrono anche i graffiti scoperti nella villa n. I del DELLA CORTE, la villa del ricco coltivatore, C. I. L. IV, 6886: palos acutos DCCCXL qui non acuti CDLX summa MCCC, e nella villa d’Agrippa Postumo, C. I. L, IV 6887: in acervo magno pali sunt MXXIII, e 6888: in ba… pali quadri nov[i] (su questo graffito vi è un numero, sembra il 500); cf. la grande quantità di pali trovati nella villa n. VII del DELLA CORTE, «Not. d. scavi», 1923, pp. 271 sgg. Tali quantità di pali attestano la grandezza dei vigneti; cf. H. GUMMERUS, «R. E.», IX, 2, col. 1455, rigo 48. Per lo studio della vita economica di queste ville abbiamo alcuni dati che non sono stati utilizzati dai miei predecessori. [vd. ora gli articoli del CARRINGTON e del DAY citati nella nota 26 del cap. I, che contengono un’analisi economica delle ville pompeiane]. Posso citare a titolo di esempio alcuni interessanti fatti sparsi. In un’iscrizione parietale (C. I. L. IV, 6672) è raccomandato un Casellius dai vindemiatores, probabilmente ausiliari salariati assunti
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1. Edificio principale d’una villa campana
2. Villa campana
3-4. Ville romane sulle rive del mare
TAV. VIII – VILLE ROMANE
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DESCRIZIONE DELLA
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VIII
1. PARTE DELLA DECORAZIONE PARIETALE DEL TABLINO DELLA CASA DI LUCREZIO FRONTONE A POMPEI. Pompei. Vd. il mio articolo, «Jahrb. d. d. arch. Inst.» 19 (1904), pp. 103 sgg., tav. V, 1; descrizione precisa ibid., pp. 104 sgg. Età d’Augusto. Prospetto d’una ricca villa, formato da magnifici colonnati (a due piani) e dall’ingresso al locale centrale (atrium). Davanti all’ingresso un tempietto rotondo con cupola. Dietro la villa un bel parco, in cui sono sparsi diversi edifici. Tra le ale del porticato un prato di stile inglese con aiuole di fiori. 2. Come il N. 1. Vd. il mio articolo, loc. cit, tav. VI, 2. Prospetto di un’altra villa dello stesso tipo, formato da un lungo porticato. Dietro questo sono sparsi gli edifici della villa in un magnifico parco ricoprente i due declivi d’una collina che sorge dietro la villa. Il porticato frontale segue la riva d’un piccolo porto o laghetto. La riva è trasformata in una banchina ornata di erme. Accanto alla riva due piccoli templi; sull’acqua un battello da diporto. 3. PARTE DELLA DECORAZIONE PARIETALE D’UNA CASA A STABIA. Napoli, Museo Nazionale. Vd. il mio articolo Die hellenistische Architekturlandschaft, «Röm. Mitt.» 26 (1911), p. 75, tav. VII, 1. Grande villa, dall’aspetto di palazzo, su un promontorio, circondata dal mare. Il porticato frontale ha due piani; dietro, l’alta torre dell’atrio e svelti pini. Due moli o rompiflutti proteggono la banchina. 4. Come il N. 3. Vd. il mio articolo, loc. cit., p. 76, tav. VII, 2. Gigantesco palazzo d’estate a forma di basilica a tre piani su un promontorio o un’isola. Dietro la villa una pineta. Questi e altri numerosi paesaggi consimili, che ricorrono tra le pitture parietali dell’età imperiale, offrono splendide illustrazioni alle descrizioni d’Orazio e dei suoi contemporanei, e fanno capire ch’egli e l’opinione pubblica in generale non esageravano allorchè sferzavano il lusso dell’età augustea. A chi allora viaggiava, per acqua o per terra, lungo le coste della Campania, del Lazio, dell’Etruria, dei laghi dell’Italia settentrionale, indubbiamente le grandi, splendide ville apparivano tratto caratteristico del paesaggio. Certamente i proprietari di queste ville non erano esclusivamente membri della casa imperiale o dell’alta nobiltà, ma in molti casi anche ricchi liberti.
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parecchie villae. In Apulia, in Calabria, in Etruria, in Sardegna, in Africa, i latifundia erano invece evidentemente d’altro tipo, a giudicare dalle allusioni di Orazio, Tibullo, Properzio. Per questi poeti, il carattere saliente di tali grandi tenute erano le migliaia di schiavi, di buoi, di aratri adoperati a coltivarvi il terreno. Dobbiamo quindi supporre che al centro della tenuta vi fosse una grande villa, e intorno a questa un villaggio abitato dagli schiavi e dagli operai presi a mercede22. La graduale scomparsa dei contadini proprietari e la trasformazione della maggior parte di essi in coloni dei grandi proprietari era un fatto ben noto ai
in tempo di vendemmia. La qualità della mano d’opera usata da questi proprietari è mirabilmente illustrata dalla pianta della villa d’Agrippa Postumo. La parte retrostante di essa conteneva l’alloggio degli schiavi e le stalle: gli schiavi vivevano in piccole stanzette quasi identiche a quelle della caserma dei gladiatori di Pompei, accanto vi era l’ergastulum, la prigione degli schiavi, dove furono trovati anche ceppi di ferro, che al momento della catastrofe non erano adoperati. Le grandi scuderie per i cavalli erano situate tra l’alloggio degli schiavi e l’ergastolo. Abbiamo veduto che anche gli amministratori delle ville erano essi medesimi schiavi oppure liberti. Da codesti fattori era probabilmente occupata la bella parte residenziale della villa, costruita però per visite occasionali del padrone. Un’interessaute annotazione scritta su una delle pareti dell’alloggio menziona foraggio per i cavalli, C. I. L. IV, 6892, I, 5: pabu[li] spo[rtae] XX e forse medica, trifoglio. Gli stessi caratteri generali e la stessa disposizione dei locali per gli schiavi mostrano la pianta della grande villa situata accanto a Stabia (n. VIII del DELLA CORTE) e gli oggetti ivi rinvenuti, «Not. d. scavi», 1923, pp. 275 sgg. Peculiari di questa villa sono le vacche tenute nello stabulum, e il grande caseificio. Sicché gli scavi eseguiti nelle ville adiacenti a Pompei e a Stabia confermano in tutti i particolari le descrizioni offerteci dai trattati di Varrone e di Columella. L’importanza che aveva per Pompei la produzione del vino è attestata anche dalle iscrizioni delle amphorae ivi trovate. Esse infatti quasi tutte danno i nomi di notissimi cittadini di Pompei, proprietari di grandi case in città e di vigneti nel territorio. Queste iscrizioni possono agevolmente consultarsi nel supplemento del C. I. L IV (A. MAU). Cf. la raccolta del materiale fatta da P. REMARK, De amphorarum inscriptionibus latinis (1912), pp. 11 sgg., specialmente pp. 17 e 22, le osservazioni di M. DELLA CORTE nei suoi articoli su Case ed abitanti di Pompei, in «Neapolis» e nella «Rivista indo-greco-italica», voll. I-VII, [e l’analisi data da J. DAY nell’articolo citato nella nota 26 del cap. I]. 22. I. GREAVES, op. cit., pp. 133 sgg. Orazio fa frequenti allusioni a queste grandi tenute, per es. Epod., 1, 25 sgg.: non ut iuvencis inligata pluribus aratra nitantur mea pecusve Calabris ante sidus fervidum Lucana mutet pascuis […]. Cf. Carm., I, 1, 9. Egli menziona spesso tenute di personaggi storici, talvolta senza nominarli (Epod., IV, 13: arat Falerni mille fundi iugera), talvolta facendo invece i nomi dei proprietari e rivolgendosi ad essi come a suoi amici e conoscenti personali, Sat., I, 5, 50 (villa di Cocceio Nerva); Epist., II, 2, 160 (tenuta di un certo Orbio); Carm., II, 16, cf. Epist., I, 12, 22 (tenute di Pompeo Grosfo), e questa stessa epistola, ch’è una lettera al suo amico Iccio, amministratore del latifundium di Agrippa in Sicilia (vedi l’analisi istrutttiva di questa lettera fatta da I. GREAVES, op. cit., pp. 143 sgg.). La più caratteristica descrizione dello stesso genere che sia stata data da Tibullo si ha in III, 3, 11: nam grave quid prodest pondus mihi divitis auri arvaque si findunt pinguia mille boves? È impossibile spiegare queste e successive affermazioni come una sorta di topos; i fatti menzionati hanno un colore locale. Inoltre nessun topos impressiona il lettore a meno che non corrisponda a fatti ben noti.
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contemporanei di Augusto. L’antica Italia andava scomparendo, rimpianta dagli spiriti romantici come Virgilio, Orazio, Tibullo, Properzio. Ma non essi soltanto erano preoccupati. Il graduale cambiamento della stratificazione sociale dell’Italia, il crescente ammassarsi di schiavi e liberti anche nei campi dell’Italia settentrionale e centrale – già rocche dell’economia contadinesca –, la degradazione dei contadini proprietari in coloni, tutti questi fenomeni non erano del tutto nuovi, ma davano molto da pensare: erano indizi di una fase nuova nella storia del paese. A giudicare da alcuni carmi di Orazio, che senza dubbio erano l’eco delle conversazioni che si facevano alla tavola di Mecenate e d’Augusto, l’argomento della scomparsa dei contadini proprietari era frequentemente discusso tra gli uomini dirigenti del periodo augusteo23. Per bocca di Romani leali e patriottici la pubblica opinione faceva appello ad Augusto perché salvasse i contadini; in realtà tuttavia non abbiamo alcuna notizia di un suo intervento nei rapporti di proprietà in Italia. Gli attacchi dei poeti contro l’immoralità della società contemporanea, contro il lusso dei ricchi, trovano riscontro in certe leggi d’Augusto: invece dopo le guerre civili non abbiamo notizia di leggi agrarie. Le leggi agrarie avevano contrassegnato in maniera così spiccata il periodo delle guerre civili, che non era più possibile ormai parlarne, anche se urgentemente necessarie. Oltre all’agricoltura uno dei fattori principali della vita economica era certamente, nel periodo più antico dell’Impero romano, il commercio. Ampie opportunità si aprirono in questo campo alle popolazioni dell’Impero dopo che furono cessate le guerre civili. L’unificazione del mondo civile, la trasformazione effettiva di esso in un unico Stato mondiale; la pace interna ed esterna; l’assoluta sicurezza del mare, tutelata dalle flotte romane divenute permanenti; il numero sempre maggiore di strade ben lastricate, costruite a scopi militari ma adoperate anche per gli scambi commerciali; l’assenza d’intervento statale nell’attività commerciale dei singoli; la graduale apertura di nuovi e sicuri mercati in Gallia, nella Spagna, nelle province danubiane; la pacificazione della zona alpina; la restaurazione di Cartagine e di Corinto, e così via: tutti questi fattori concorrevano nel determinare una magnifica rinascita e un notevole incremento dell’attività commerciale dell’Impero. Non ebbe molta importanza nella vita economica del primo periodo dell’Impero il commercio con popoli confinanti e con paesi molto lontani, come la Cina e l’lndia. Questo ramo di commercio colpì la fantasia dei contemporanei come colpisce quella di certi studiosi moderni: gli uni e gli altri ne hanno esagerato l’importanza. Anche lo stagno proveniva prevalentemente dalla Spagna e non già dalla Britannia; per giunta il bronzo, la cui manipolazione richiedeva appunto lo stagno, non aveva più nella vita dell’Impero romano l’importanza che aveva avuto nel periodo ellenistico. Dalla Germania venivano ambra, pelli, schiavi. La Russia meridionale riforniva ancora di
23. I. GREAVES, op. cit., pp. 178 sgg. e 164 sgg.; HOR., Carm., II, 18. Nella Sat., II, 2 (GREAVES, op. cit., p. 173) Orazio presenta un vecchio colono, già proprietario del fondo che ora coltiva come affittuario d’un veterano.
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1. Villa campana sul mare
2. Gruppo di edifici di una villa campana
TAV. IX – VILLE ROMANE
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DESCRIZIONE DELLA
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1. PARTE DELLA DECORAZIONE PARIETALE DI UNA CASA DI STABIA. Napoli, Museo Nazionale. Vd. il mio articolo Die hellenistisch-römische Architekturlandschaft, «Röm. Mitt.», 26 (1911), p. 75, tav. V, 2. Sontuosa villa costruita sulla riva del mare, probabilmente in Campania. Nel mare s’avanza un molo ad arcate; accanto ad esso, nel porto, un battello. Sul molo alcune figure vanno a diporto, mentre un pescatore corre velocemente coi suoi arnesi di pesca. La villa, ornata di bei porticati sul fronte, segue la linea sinuosa della spiaggia. Dietro ad essa sono altri edifici e un parco. 2. PARTE DELLA DECORAZIONE PARIETALE DEL TABLINUM DELLA CASA DI LUCREZIO FRONTONE A POMPEI. Pompei. Vd. il mio articolo nel «Jahrb. d. d. arch. Inst.», 19 (1904), pp. 103 sgg., tav. VI, 1. Altra villa a mare. I porticati e l’approdo, che sembra costituito da un prato, sono dello stesso tipo. Dietro i porticati si vede una serie d’edifici separati, sparsi tra gli annosi alberi d’un bel parco. Lo sfondo è formato da graziose colline non molto elevate.
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grano la Grecia, ed esportava una certa quantità di canapa, pellicce, cera e forse anche miele. Anche qualche po’ d’oro può essersi importato dai monti Urali. I Beduini del Sahara possono aver esportato datteri e un numero considerevole di alcuni schiavi negri. Più importante era il commercio dell’Egitto con l’Africa centrale: gli articoli principali di esso erano l’avorio, certe specie di legni preziosi, oro, sostanze aromatiche, spezierie diverse. Lo stesso tipo di commercio si svolgeva con l’Arabia. Quivi fu inviata da Augusto una spedizione apposita per assicurare a Roma i porti più importanti della costa meridionale della penisola. Le principali esportazioni arabe erano gli aromi, le spezierie, le pietre preziose, i cammelli. Un consimile commercio di oggetti di lusso si svolgeva tra India ed Egitto, tra India-Cina (seta) e Siria. Gli articoli comperati nei paesi esteri settentrionali venivano pagati quasi interamente con l’esportazione di vino, di olio, di manifatture. Le merci orientali senza dubbio erano pagate in parte con oro e argento coniato, come dice Plinio, ma in parte maggiore con merci prodotte dall’Impero, specialmente ad Alessandria. In complesso, il commercio con l’estero era alimentato quasi completamente da articoli di lusso e non aveva importanza reale per la vita economica dell’Impero24. Di assai maggior momento era il commercio interno dell’Impero dell’Italia con le province e di queste tra loro25. Come nel periodo ellenistico, era un commercio per lo più di generi di prima necessità. S’importavano ed esportavano anzitutto grandi quantità di grano. L’ltalia non poteva vivere
24. Sulle relazioni commerciali dell’Impero romano, e specialmente dell’Egitto, con l’Oriente, vd. il diligente studio del fu M. CHVOSTOV, Storia del commercio orientale dell’Egitto greco-romano (332 a.C.-284 d.C.), Kazan, 1907 (in russo); cf. la mia recensione di questo libro in «Arch. f. Pap.-F.», 4 (1907), p. 298. Cf. cap. III, note 16 e 17. 25. Non esistono opere speciali sul commercio interno dell’Impero romano. Le migliori trattazioni della materia, sebbene troppo brevi, sono quelle di L. FRIEDLAENDER e G. WISSOWA, Sitteng. Roms, I, 19199, pp. 363 sgg., e di R. CAGNAT e M. BESNIER, art. Mercatura in DAREMBERG e SAGLIO, Dict. d. ant., III, 2, pp. 1772 sgg.: vd. specialmente l’indice a p. 1778 e l’enumerazione dei principali mercati provinciali alle pp. 1777 sgg. L’articolo Industrie und Handel di H. GUMMERUS, «R. E.», IX, 2, coll. 1454 sgg., si occupa più dell’industria che del commercio. Un punto particolare è stato ottimamente trattato da V. PÂRVAN, Die Nationalität der Kaufleute im römischen Kaiserreiche (1909). Il più recente libro su questa materia, quello di M. CHARLESWORTH, Trade Routes and Commerce of the Roman Empire (19262), contiene una buona rassegna delle vie commerciali e degli articoli che si trafficavano, ma non dà sufficiente conto dell’ordinamento del commercio e della sua importanza economica, cf. la mia recensione nel «J. R. S.», 14 (1924), p. 268. Utilissima ed esauriente è la trattazione del commercio del piombo fatta da M. BESNIER, Le Commerce du plomb à l’époque romaine, nella «Rev. Arch.», 12 (1920), p. 211; 13 (1921), pp. 36 sgg.; 14 (1921), pp. 98 sgg. Cf. H. BREWSTER, Roman Craftsmen and Tradesmen of Early Empire, 1917 (utilissima raccolta di testi desunti dai poeti della età augustea e flavia). Nelle note seguenti enumero alcuni dati sfuggiti al CAGNAT, al BESNIER, al GUMMERUS. [Buoni quadri dei vari aspetti del commercio antico si trovano nel recente libro di H. SCHAAL, Vom Tauschhandel zum Welthandel, 1931, p. II: Ellenismo ed età imperiale romana].
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del solo grano prodotto da essa; lo stesso certamente accadeva per la Grecia e per le isole greche, non però per la Sicilia, sebbene sembri che quest’ultima fosse diventata in larga misura un paese di pascoli e di vigneti, di oliveti, di frutteti26. Non poche città commerciali e industriali della costa preferivano ricevere il loro grano per mare anziché pagare i costi elevati del trasporto per via di terra. Senza dubbio s’importavano ed esportavano grandi quantità di legname per le costruzioni navali. Il celebre battello di Catullo era fabbricato con legname del monte Ida (Asia Minore). Cera, canapa, pece, catrame non possono prodursi dovunque in grandi quantità, ed erano articoli indispensabili per tutte le province dove si costruivano battelli per la navigazione fluviale e marittima. I metalli occorrenti all’Italia per la coniazione e ai piccoli e grandi centri metallurgici non erano prodotti in quantità sufficiente né in Italia né nelle vicinanze della maggior parte delle città celebri per i loro lavori in metallo (per esempio Capua e Taranto nell’Italia meridionale, Alessandria in Egitto, forse alcune città dell’Asia Minore e della Grecia e alcune località della Gallia). I metalli si estraevano principalmente nella Spagna, nella Gallia, nelle province danubiane: le miniere dell’Oriente nel periodo imperiale sembra abbiano avuto minore importanza. Lo zolfo si ricavava quasi esclusivamente dalle miniere siciliane: esso era indispensabile a tutte le province dove si coltivava la vite. Il commercio dell’olio d’oliva e del vino costituiva come per il passato il fattore principale della vita economica dell’Italia, della Grecia, dell’Asia Minore. Uno dei più grandi consumatori di questi prodotti era senza dubbio l’esercito romano. La Grecia e l’Asia Minore rifornivano di olio e di vino le province romane dell’Oriente e le rive del Mar Nero, specialmente le settentrionali. L’Italia era la principale fornitrice di essi per le province danubiane, per la Germania, per la Britannia, per l’Africa, fino a un certo punto ancora per la Gallia e la Spagna. Attivissimo era lo scambio delle manifatture non di lusso ma di uso corrente. L’Egitto rimaneva l’unico un grande centro di produzione delle stoffe di lino e l’unica fonte del papiro. Grandi quantità di pannilani si esportavano dall’Asia Minore, dall’Italia, dalla Gallia. Le ceramiche italiche verniciate di rosso dominavano tutti i mercati; e gli arredi metallici di Capua e di Alessandria non avevano rivali. Il vetro si produceva in Siria, ad Alessandria, e specialmente nell’Italia meridionale. Una delle principali specialità italiche erano le lucerne fittili. Articoli da toeletta in ambra si fabbricavano soltanto precipuamente ad Aquileia, che importava la materia prima dalla Germania e ne faceva eleganti specchietti, scatolette, boccettine ecc., per l’esportazione.
26. Vedi cap. I, nota 27 e nota 15 di questo capitolo. Il vino siciliano è menzionato quarto tra i migliori da PLINIO (Nat. hist., XIV, 66). I centri principali di produzione erano Messana e Tauromenium; cf. le anfore di vino di Tauromenium rinvenute a Pompei, C. I. L. IV, 2618, 5563-5568; «Not. d. scavi», 1914, p. 199, e 1915, p. 335, n. 5. Deve tuttavia ricordarsi che nell’età d’Augusto e per tutto il sec. I d.C. la Sicilia era ancora una fertile terra di grano.
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1. Villa rustica, Pompei
2. Ceppi di ferro per schiavi, Pompei
TAV. X – VILLA RUSTICA, POMPEI
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DESCRIZIONE DELLA
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1. PARTE DELLA DECORAZIONE PARIETALE DELLA CASA DELLA «FONTANA PICCOLA». Pompei, Casa della fontana piccola. Vd. il mio articolo in merito, Die hellenistisch-römische Architekturlandschaft, «Röm. Mitt.» 26 (1911), p. 95, tav. XI, 1. Casa di campagna a forma di torre, dentro un cortile cinto di muri con un’ampia porta d’ingresso. Nel cortile palme e altri alberi, ad una parete della casa una tettoia a riparo dai raggi del sole; più lontano un alto edificio a padiglione, forse la sovrastruttura d’un pozzo. Ad un lato dell’ingresso un aratro, dall’altro lato tre donne che conversano sedute su una panca. L’aspetto di quest’edificio non dà a divedere ch’esso appartenga al medesimo tipo delle ville che sono state scavate nei dintorni di Pompei. Si potrebbe pensare piuttosto alla casa d’un contadino egiziano; ma adesso mi sembra meno sicuro d’una volta che quest’ipotesi colga il vero. Il quadro può ben raffigurare la casa d’un contadino campano, costituente un tipo diverso da quello delle ville di Pompei e Stabia; cf. tav. XXXIII, 1. 2. CEPPO DA PIEDI IN FERRO, RINVENUTO IN UNA VILLA RUSTICA PRESSO GRAGNANO. M. DELLA CORTE. «Not. d. scavi», 1923, p. 277, fig. 4. Questi ceppi destinati agli schiavi incarcerati d’una villa rustica furono trovati nell’ergastulum (carcere) d’una villa ch’è stata scavata nel «Fondo Marchetti» (com. di Gragnano). Questa è un esempio tipico delle villae rusticae dei dintorni di Pompei, delle quali si parla nel testo (pp. 32 sg.), e specialmente delle parti di esse destinate ai lavori. Do qui la pianta della villa secondo la pubblicazione delle «Not. d. scavi».
DESCRIZIONE DELLA PIANTA. I locali d’abitazione del proprietario o dell’amministratore non sono stati ancora scavati. A. Ingresso principale. B. Grande cortile centrale con la portineria (1) e la stalla (stabulum) (2), nella quale sono stati trovati scheletri di cavalli e di vacche o buoi, e inoltre due mangiatoie di terracotta (a e b) e un serbatoio d’acqua in muratura (c). C, D. Cortili laterali con dormitori per gli schiavi, diversi granai e altri locali. Uno degli ambienti del cortile D era un carcere (ergastulum), uno di quelli della corte C verosimilmente un piccolo caseificio. I locali 14 e 15, tra i due cortili, erano occupati da una panetteria bene impiantata. E. Magazzini (cella vinaria e olearia) con grandi giarre (dolia), in cui si conservava vino, olio d’olive e grano. Il locale 28 era un pressatoio di vino (torcular). Nel locale 27 v’era una tettoia, sotto cui si conservava una quantità di legname da costruzione. Alcune delle travi ivi rinvenute si trovano ora nel Museo di Pompei. La disposizione generale della villa è una magnifica prova dell’esattezza con cui VARRONE ha descritto una villa rustica. Si tratta di una grande azienda agricola a tipo di fabbrica, fondata sul lavoro degli schiavi; essa per quanto era possibile provvedeva a tutto da sé, costituendo un piccolo mondo a parte.
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Non possiamo qui enumerare tutti gli altri minori centri dell’Impero romano ch’erano famosi per certe specialità e ne facevano larga esportazione nelle altre parti dell’Impero. In confronto con questo scambio di merci di prima necessità, quello dei generi di lusso appare, come già si è notato, assai meno importante, sebbene qualcuna delle nostre fonti, per esempio i poeti dell’età augustea, trattando l’argomento del lusso romano rivolgano la loro attenzione principalmente a questi articoli. Ma è indizio significativo del grande sviluppo preso in questo periodo dagli scambi il fatto che i buongustai d’Italia potessero ottenere senza difficoltà da luoghi molto lontani primizie d’ogni stagione e speciali leccornie. Né avevano bisogno di commissionarle direttamente: grandi negozi appositi tenevano depositi di tali merci. Nella vita commerciale dell’Impero l’Italia durante il periodo augusteo ebbe parte preponderante, ancor più che nel sec. I a.C. Ciò derivava non soltanto dalla crescente importanza di Roma come uno dei massimi centri di consumo del mondo: tutta l’Italia con le sue numerose città era per il resto del mondo civile un gigantesco e ricco mercato. Varrebbe la pena di studiare sotto quest’aspetto gli innumerevoli oggetti che sono stati ritrovati a Pompei, allo scopo di constatare quali siano di produzione locale e quali importati, e in quest’ultimo caso se importati da altre città italiche o da province transmarine. Tuttavia difficilmente si può sostenere che Roma e l’Italia pagassero le importazioni con le imposte delle province. Non abbiamo dati statistici in materia; ma ciò che si può raccogliere relativamente alla produttività industriale dell’Italia mostra che la massima parte dell’importazione era compensata da altrettanta esportazione. La principale esportazione italiana era quella del vino e dell’olio. L’aspetto della Campania, ch’era tutta un immenso vigneto, e il rapido sviluppo preso dalla viticoltura nell’Italia settentrionale, non si spiegano se non ammettendo che il vino e l’olio d’Italia fossero esportati in grandi quantità nelle province occidentali e settentrionali dell’Impero, e perfino nelle orientali. Puteoli, porto principale dell’Italia meridionale, e gli altri porti campani trafficavano su vastissima scala in vino ed olio, e così pure Aquileia nel settentrione. Ricordiamo che Trimalcione aveva acquistato la sua fortuna esportando vino, e che aveva relazioni con l’Africa27. Oltre al vino e all’olio, l’Italia esportava in Occidente grandi quantità di manifatture. Abbiamo già osservato che le ceramiche di Arezzo e di altri centri di produzione nell’Italia settentrionale e
27. PETR., Sat., 76: nemini tamen nihil satis est. concupivi negotiari. ne multis vos morer, quinque naves aedificavi, oneravi vinum – et tunc erat contra aurum – misi Romam. putares me hoc iussisse: omnes naves naufragarunt, factum, non fabula. uno die Neptunus trecenties sestertium devoravit. putatis me defecisse? non mehercules mihi haec iactura gusti fuit, tamquam nihil facti. alteras feci maiores et meliores et feliciores […] oneravi rursus vinum, lardum, fabam, seplasium, mancipia. Cf. C. I. L. IV, 5894, con Add.; A. SOGLIANO nelle «Not. d. scavi», 1905, p. 257: M. Terenti Artritaci in nave Cn. Senti Omeri Ti. Claudi Orpei vect(a) – vino o garum importato a Pompei da una compagnia di armatori (?). Cf. nota 20.
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meridionale, cioè la più antica terra sigillata fabbricata in Italia, dominarono per un certo tempo il mercato mondiale, a settentrione fino alla Britannia, all’oriente fino alle rive del Mar Nero. Grandi quantità di vasi metallici capuani sono state ritrovate fino nel Caucaso e sulle rive del fiume Kama28. Gli spilli di sicurezza di Aucissa, specialità del periodo augusteo, si fecero strada in tutte le province occidentali e perfino sulle rive del Mar Nero29. Le lucerne della fabbrica di Fortis presso Modena nella Gallia Cisalpina furono esportate dappertutto durante il periodo augusteo: ne sono state ritrovate in ogni parte molte parti dell’Impero romano, e si tratta di prodotti originali, non di imitazioni locali. Imitazioni campane dei vetri soffiati siriaci, in esemplari veramente eleganti, sono state trovate in grandi quantità, insieme coi modelli siriaci, in non poche tombe della Russia meridionale appartenenti all’età augustea30. Di fronte a questi fatti, come affermare che l’esportazione italica fosse così esigua da non coprire i costi dell’importazione? Se Roma ed il governo romano pagavano una parte del grano importato, le bestie feroci che venivano ammazzate negli anfiteatri, nonché il lusso e le stravaganze degli imperatori, con l’oro e con l’argento provenienti dall’Egitto, dalla Siria, dalla Gallia, dalla Spagna, la borghesia italica ristabiliva la bilancia con la sua produzione; e la maggior parte delle navi che importavano merci dalle province ritornavano indietro con cospicui carichi di ritorno.
28. Grandi quantità di vasellame bronzeo di Capua, insieme con altro fabbricato probabilmente ad Alessandria e nell’Asia Minore, formano la caratteristica dei grandi cimiteri dell’età augustea che si trovano nella regione del Caucaso. Vedi, p. es., la necropoli di Bori di cui ha dato notizia E. PRIDIK nei «Materiali per l’archeol. d. Russia merid.», 34 (1914), (in russo). Alcuni vasi capuani di bronzo sono stati rinvenuti fino in fondo al governo di Viatka, «Resoconto della Commiss. archeol.», 1913-15, p. 213, fig. 261 (in russo): il tipo d’una delle padelle di bronzo è simile alle caratteristiche padelle del sec. I d.C. Vd. H. WILLERS, Neue Untersuchungen über die römische Bronzeindustrie, 1907, pp. 77 sgg. Un altro deposito dello stesso periodo è stato rinvenuto nel governo di Podolia, «Resoconto della Commiss. archeol.», 1913-15, p. 201, fig. 255 (in russo). In generale le suppellettili capuane di bronzo sono comunissime nella Russia meridionale, specialmente nel sec. I d.C. È tuttavia difficile stabilire se il commercio della Russia orientale con l’Italia sia cominciato già fin dai tempi di Augusto o soltanto sotto i successori di lui. Nel sec. I d.C. troviamo oggetti d’importazione italica (vetri e bronzi) in grande quantità a Panticapaeum (vd. nota 30): e alcune delle tombe di questa città con vetri e bronzi dell’Italia meridionale si possono già assegnare all’età augustea; ma la maggior parte sono di data un po’ più tarda. È evidente che gli oggetti di bronzo rinvenuti nella Russia settentrionale vi giunsero per Panticapaeum e non per il Baltico: gli inizi di questo commercio appartengono quindi verosimilmente al sec. I d.C. Intorno allo sviluppo del commercio della Germania orientale e della Scandinavia con l’Italia nel sec. I d.C., vd. cap. III, nota 18a; cf. J. KOSTRZEWSKI, Reall. d. Vorgeschichte, III, pp. 280 sgg. 29. Alcuni spilli di Aucissa rinvenuti nella regione del Don sono stati illustrati dall’autore nel «Bull. de la Commiss. archéol. de Russie», 65 (1917), pp. 22 sgg. (in russo); cf. C. JULLIAN, Histoire de la Gaule, V, p. 304, nota 6; F. HAVERFIELD, «Archaeological Journal», 60 (1903), pp. 236 e 62 (1905), p. 265. 30. Vd. p. es. la mia Antica pittura decorativa della Russia meridionale (1914), pp. 206 sgg. (in russo).
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TAV. XI – STRUMENTI AGRICOLI, POMPEI
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1-9. STRUMENTI AGRICOLI DI FERRO TROVATI A POMPEI, nella grande villa di L. Helius Florus (detta comunemente di P. Fannius Synistor, ma vd. M. DELLA CORTE, in «Neapolis», 2 (1914), p. 172) non lungi da Boscoreale. «Field Museum of Natural History» di Chicago. H.F. COU, Antiquities from Boscoreale in the Field Museum of Natural History, 1912 («Field Museum of N. H. Public.», 152, Anthropological Series VII, 4), pp. 210 sgg., e tavv. CLXIII-CLXVI; confrontare gli strumenti consimili rinvenuti nella famosa villa di Boscoreale, «Mon. ant. dei Lincei», 1897, pp. 436-440. Numerosi strumenti consimili si vedono anche nel Museo di Napoli. 1. Zappa romana della consueta forma. 2. Rastrello a sei denti. 3. Zappa a punta. 4. Arpione, usato probabilmente per rimondare. 5. Piccone e ascia. 6. Falce. 7. e 9. Forche. 8. Coltello da sarchiare. La maggior parte di questi oggetti sono strumenti caratteristici della viticoltura, alcuni dei quali conservano tuttora, in Italia e in Francia, la forma che avevano nell’antichità. Ne ho visto recentemente parecchi, per esempio, in Borgogna. Una bottega piena di strumenti di questo genere è stata scoperta a Pompei. Essa apparteneva ad un certo Iunianus: vi si trovarono falces strumentariae, serae, compedes, falces vinitariae, catene, ed altri arnesi d’uso non solo agricolo, ma domestico (M. DELLA CORTE «Riv. indo-greco-italica», 7 (1923), p. 113). Accanto v’era la bottega di un altro faber ferrarius (M. DELLA CORTE, ibid., p. 115).
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Sebbene il vino, l’olio d’oliva, il grano, e le materie prime come legname da costruzione, metalli ecc., rappresentassero una parte importante negli scambi interprovinciali dell’Impero, tuttavia nel valutare il commercio dell’età augustea non bisogna, come abbiam visto, far poco conto dei prodotti dell’industria. Per quel che riguarda l’industria, la regione più prospera dell’Impero romano era certamente l’Italia, e, in Italia, la Campania e l’Etruria. I dati relativi a questo punto sono stati raccolti da Tenney Frank, e non occorre ripetere le pagine ch’egli nei suoi due recenti libri ha dedicate a quest’argomento. Egli ha messo in rilievo la crescente importanza della ceramica a vernice rossa, che si produceva in grandi quantità nell’Etruria per il gran consumo e la grande esportazione. Ben note sono anche la rinomanza e la finezza dei vasi d’argento e di bronzo fabbricati a Capua31. Abbiamo poc’anzi accennato alla fabbricazione di lucerne che prosperava nell’Italia settentrionale. Si può aggiungere che nell’età augustea le città campane svolsero, ad imitazione di Alessandria e in concorrenza con essa, alcune nuove branche d’industria, di cui è difficile trovar notizia in Campania nel periodo precedente, in primo luogo bei manufatti di vetro, specialmente oggetti colorati e vasi ornati di rilievi. In questo ramo di commercio la Campania ebbe quasi completo sopravvento tanto sulla Siria quanto su Alessandria, come provano i ritrovamenti della Russia meridionale. Nello stesso tempo le città della Campania indubbiamente cominciarono a servirsi del loro ottimo olio per fabbricare profumi, e a ravvivare l’antica industria della gioielleria, che aveva prosperato in Etruria nel periodo ellenistico ed ora passò in Campania. Ritorneremo su questo argomento nel capitolo seguente. Anche più importante fu il rapido sviluppo della manifattura dei pannilani, nella quale si adoperavano le buone qualità di lana che forniva l’Italia meridionale32. Ma la Campania e l’Etruria non erano le sole regioni in cui nell’età augustea fiorisse l’industria italica. Allora sorse una seconda Puteoli in Aquileia, che divenne nel settentrione prospero centro di vita commerciale e industriale. Abbiamo già parlato dell’importanza commerciale di questa città e del commercio di vini ch’essa faceva con le regioni del Danubio e con le rive orientali dell’Adriatico. Sorta come colonia di veterani – proprietari di terre attivi e intraprendenti, che seppero rapidamente fare del territorio della loro città tutto un fiorente vigneto e acquistare grandi fortune esportando il loro vino nei paesi danubiani – Aquileia rapidamente si rese conto delle opportunità che la sua mirabile posizione offriva per l’ulteriore sviluppo del suo commercio. La pacificazione del Norico rese accessibili ai cittadini di essa le miniere di ferro di questo paese; l’esportazione del vino faceva affluire nella città grandi quantità di ambra; l’ottima qualità della sabbia e dell’argilla locali permetteva larghe esportazioni di oggetti di vetro e d’argilla fabbricati sul luogo (non importati) presso i clienti delle regioni
31. 32.
Vd. cap. I, nota 13. Vd. cap. III, nota 19. Cf. T. FRANK, Rome and the Italy of the Empire, in An
Economic Survey of Ancient Rome, V, Baltimore, 1940, pp. 199 sgg. Sulla lana apula e gli indumenti di lana in Puglia: N. JACOBONE, Un’antica e grande città dell’Apulia. Canusium. Ricerche di storia e di topografia, Lecce, 1925, pp. 137 sgg.; nella Gallia Cisalpina, CHILVER, Cisalpine Gaul, cit., pp. 163 sgg.
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del Danubio; l’antica tradizione dell’industria del bronzo, esistente nell’Italia nordoccidentale, e l’abbondanza di rame e d’argento delle vicine miniere del Norico, della Rezia, della Dalmazia, stimolarono l’attività dei fonditori di bronzo e d’argento. Si fabbricavano strumenti agricoli e armi di ferro: è significativa la menzione di un aciarius in un’iscrizione della città. La scoperta di giacimenti auriferi nei pressi di Virunum offrì buone occasioni ai gioiellieri, che potevano altresì adoperare le pietre semi-preziose che forniva questa regione. Così Aquileia divenne a poco a poco non soltanto una città di coltivatori di vigne e di mercanti, ma anche uno dei più importanti centri industriali. Chi visita il museo della città resta sorpreso alla vista di quella gran copia di vetrerie ben finite e originali, e specialmente di imitazioni di pietre incise e cammei, e di vasi di forme diverse, di quella quantità d’oggetti d’ambra, di utensili in ferro, di alcuni pregevoli lavori toreutici in bronzo e argento, e del gran numero di gioielli d’oro. I più antichi esemplari appartengono sempre all’età di Augusto. Senza dubbio Aquileia divenne la Puteoli dell’Italia settentrionale sin dal tempo di Augusto, probabilmente grazie agli sforzi dell’imperatore medesimo e di qualche altro membro della sua famiglia che dimorava spesso in quella città. Uomini come i Barbii e gli Statii furono certamente pionieri non soltanto del commercio ma anche dell’industria d’Aquileia33.
33. Per Aquileia, vd. le opere citate nel cap. I, nota 16. Non è stata ancor fatta alcuna indagine sugli articoli prodotti da questa città; né è stata mai illustrata la mirabile raccolta d’oggetti d’ambra che si trovano nel museo della città ed in una collezione privata di Udine. Questi articoli venivano esportati fino a Roma, a Pompei, nella costa della Dalmazia, in Africa, nel Belgio: vedi, p. es., F. CUMONT, Comment la Belgique fut romanisée, (19192), p. 51, fig. 20; G. SMIRICH, Führer durch das K.K. Staatsmuseum zu Zara (1912), p. 103. Cf., p. es., alcuni oggetti di ambra probabilmente di artigianato aquileiese ritrovati recentemente a Treja (prov. Macerata): «Jahrb. d. d. arch. Inst.», 55 (1940), Arch. Anz., col. 419. Una grande collezione d’oggetti d’ambra rinvenuti nell’Italia meridionale
si trova nel British Museum, un’altra nel museo delle Terme a Roma. Si potrebbe qui ricordare anche una perla d’ambra ornata d’una testa di montone, ch’è stata rinvenuta a Butzke in Pomerania, vd. E. JUNGKLAUS, Röm. Funde in Pommern (1924), p. 89. Proviene essa forse da Aquileia? Un’ottima relazione sugli oggetti conservati nel pittoresco e ben ordinato museo di Aquileia è stata fatta da E. MAIONICA, Guida dell’I.R. Museo dello Stato in Aquileia, Vienna, 1911; cf. ora G. BRUSIN, Aquileia Guida stor. ed artist. (1929). Particolarmente interessanti sono i capitoli reiativi ai vetri (MAIONICA, pp. 87 sgg., BRUSIN, pp. 221 sgg.) e alle ambre (MAIONICA, pp. 88 sgg., BRUSIN, pp. 162 sgg.). Le iscrizioni di due bottiglie di vetro rinvenute a Linz sul Danubio (Sentia Secunda facit Aquileiae vit(ra)) mostrano che questa città esportava vetri di sua propria produzione (BRUSIN, pp. 10 e 222). Tra gli oggetti di ferro i più cospicui e interessanti sono gli svariati strumenti agricoli, che gli Aquileiani stessi adoperavano in grandi quantità (MAIONICA, pp. 97 sgg.; BRUSIN, pp. 200 sgg.). Varrebbe la pena di studiare gli strumenti dello stesso genere rinvenuti in Dalmazia e nelle province danubiane. Può esser ch’essi provenissero dalle officine di Aquileia: vedi il bassorilievo del monumento funerario d’un faber ferrarius, MAIONICA, p. 56, nota 36; BRUSIN, pp. 118, n. 18, fig. 71. Naturalmente non possiamo aspettarci di trovare ad Aquileia le armi che vi si fabbricavano per l’esercito del Danubio. Sotto un bell’altare sepolcrale con una lunga iscrizione, recentemente rinvenuto, era sepolto un faber aciarius chiamato L. Herennius, BRUSIN, p. 48, fig. 25. Circa il ritrovamento di oro, vd. POLIBIO presso STRABO, IV, 208.
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II. Augusto e la politica di rinnovamento e di ricostruzione
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Un altro momento importante dello sviluppo dell’industria in Italia fu il graduale svolgersi della vita industriale non soltanto in grandi città come Puteoli e Aquileia, ch’erano a un tempo grandi porti d’esportazione e centri di importanti linee di traffico, ma anche in centri e porti più piccoli. Un buon esempio ne dà Pompei. Questa città, ch’era stata sempre centro di una prospera regione agricola e porto di una certa importanza per il gruppo delle prossime città interne, indubbiamente divenne a poco a poco anche sede di un’industria locale che vendeva le merci prodotte nelle sue officine a clienti non solo del luogo ma anche delle città vicine e delle fattorie dei dintorni. Già fin dai tempi di Catone vi si fabbricavano certi strumenti agricoli; nel periodo posteriore a Silla e specialmente sotto Augusto nacquero e si svilupparono altri rami d’industria. Indizio evidente dell’industrializzazione della città è la comparsa di un nuovo tipo di case circondate da botteghe. Queste erano in parte gestite dagli stessi proprietari, in parte affittate ad artigiani e commercianti al minuto. Sembra che fin da principio una delle specialità di Pompei sia stata la produzione di stoffe e abiti di lana di vario tipo, che in parte venivano anche colorati nella città. Vedremo in seguito come questo traffico si sia sviluppato, e come la città sia diventata sempre più industriale. Qui basterà notare che l’inizio di questo processo risale al regno di Augusto. Allo stesso periodo probabilmente deve attribuirsi il sorgere o il rinascere di un’altra specialità pompeiana: la celebre salsa di pesce, il garum di Pompei. L’organizzazione dell’industria pompeiana, quale è descritta dal Frank, risultante dalla combinazione di una piccola fabbrica con una bottega di vendita al minuto, può aver costituito il carattere di un piccolo centro locale di commercio e d’industria, così come la casa pompeiana ad atrio e peristilio dava il suo carattere ad una città rurale di tipo arcaico anzichenò. Ma gli scavi di Ostia rivelano lo sviluppo, non posteriore in ogni caso al sec. I d.C., di un tipo più moderno di casa e di bottega, che sta ad indicare condizioni diverse e più somiglianti alle odierne. Non possiamo certo formarci un concetto adeguato della vita economica dell’Europa e degli Stati Uniti d’America studiando soltanto le botteghe di Foligno e di Urbino in Italia o di Madison negli Stati Uniti34.
34. Vedi cap. I, nota 13; cf. T. FRANK, A History of Rome, 1923, pp. 375 sgg. Non posso tuttavia consentire col Frank che a Roma e nelle altre maggiori città l’ordinamento dell’industria e del commercio fosse identico a quello di Pompei. Le non poche lapidi tombali di artigiani, trovate a Roma, attestano bensì che ivi esistevano piccole officine, ma non ci dicono nulla intorno all’ordinamento delle grandi: per giunta in questi monumenti veniva adoperato uno stile speciale, per così dire un linguaggio convenzionale. Queste iscrizioni possono bensì servire allo studio del lato tecnico d’un dato mestiere, ma difficilmente sono abbastanza individuali da permetterci di trarre conclusioni sulla condizione sociale e sullo stato economico del defunto. Gli scavi sistematici di Ostia hanno dimostrato che le case di questa città erano assolutamente diverse da quelle di Pompei: vedi la casa privata ben conservata di tre piani recentemente scavata a Ostia, «Jahrb. d. d. arch. Inst.», 55 (1940), Arch. Anz., coll. 434 sg. G. CALZA, La preminenza dell’insula nell’edilizia
romana, nei «Mon. ant. dei Lincei», 23 (1916), pp. 541 sgg.; E. CUQ, Une statistique des locaux affectés a l’habitátion dans la Rome impériale, nelle «Mém. Acad. Inscr.», 11 (1915), pp. 279 sgg.; G. CALZA, La statistica delle abitazioni e il calcolo della popolazione in Roma
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Purtroppo sono assai scarse le notizie che abbiamo, per l’età augustea, sulla vita delle maggiori città di Italia e delle province. Nessuna delle grandi città commerciali e industriali è stata dissotterrata; per molte non si può farlo. Ostia comincia appena adesso a svelarci i più antichi periodi della sua vita, ma a Puteoli, a Napoli, a Brindisi non è possibile fare scavi di qualche entità; ad Aquileia vi sono maggiori opportunità, ma l’opera è stata appena iniziata. Lo stesso va detto per le province, in non pochi centri delle quali la vita economica si avviò a rinnovellata prosperità. In realtà ad Alessandria l’industria non aveva mai cessato di produrre grandi quantità di merci per il consumo locale, per la vendita nel resto dell’Egitto, e per l’esportazione; ma non sappiamo quasi nulla sull’organizzazione industriale di questa città, e dobbiamo riconoscere che, fino a tanto che sapremo così poco, la nostra informazione sull’industria
imperiale, nei «Rendic. Lincei», 26 (1917), pp. 3 sgg., e le sue relazioni nelle «Not. d. scavi», cf. un sommario di esse dato dal Calza medesimo in «Atene e Roma», 3 (1922), pp. 229 sgg. e il suo eccellente articolo Le origini latine dell’abitazione moderna, in «Architettura e arti decorative», 3 (1923) nonché J. STUTTEN, Wohnhäuser der römischen Kaiserzeit, in «Bauamt und Gemeindeleben», 15 (1924), pp. 146 sgg., e i diversi, eccellenti studi di A. BOETHIUS, tra cui il suo articolo: Appunti sul carattere razionale e sull’importanza dell’architettura domestica di Roma imperiale, in Scritti in onore di Bartolomeo Nogara raccolti in occasione del suo LXX anno, a cura di R. Paribeni, Città del Vaticano, 1937, pp. 21 sgg. In quest’articolo egli fornisce un elenco dei suoi contributi (p. 23, n. 5) e degli studi recenti di altri studiosi (p. 26 e note 1-6). Sugli scavi recenti di una gran parte delle rovine di Ostia e sui tipi di case private: A.W. VAN BUREN nelle sue relazioni sui nuovi scavi a Roma e in Italia in generale nell’«Amer. J. Arch.»: cf. il suo libro Ancient Rome as Revealed by Recent Discoveries, London, 1936 e G. CALZA (a cura di), Le più recenti scoperte in Ostia antica, «Capitolium», 13 (1938), pp. 1 sgg.
Dagli stessi scavi abbiamo appreso altresì che non solo lo Stato, ma anche trafficanti privati adibivano grandi e begli edifici per depositarvi merci ed eseguirvi le operazioni relative al magazzinaggio (vedi gli articoli Horrea in «R. E.» e in DAREMBERG e SAGLIO, Dict. d. ant.; cf. P. ROMANELLI nel Diz. ep., III (1922), pp. 967 sgg.); e non possiamo ignorare il grandissimo pericolo che v’è a parlare di grandi città commerciali e industriali fondandosi su uno studio limitato ad alcuni piccoli centri di vita provinciale. Io per me non dubito che Roma fosse molto più somigliante ad Alessandria che non a Pompei, e che Ostia fosse una piccola Roma. Caratteristico della prima età imperiale (forse proprio dell’età augustea) è il blocco di costruzioni prossime al Foro recentemente scavato da G. CALZA («Not. d. scavi», 1923, pp. 177 sgg. e tavv. IV sgg.). Tre grandi edifici commerciali e industriali (accanto alla curia) presentano ciascuno un nuovo tipo che non si riconosce a Pompei. Il più interessante è il grande «bazar» (segnato con C sulla pianta del CALZA, tav. IV), un cortile (o una specie di piazza privata) accessibile da due strade e circondato da grandi e alte botteghe diversissime dalle piccole e oscure botteghe pompeiane. Alcune di queste botteghe s’aprono sulla strada, altre sulla corte. [Cf. G. CALZA, Ostia. Guida storico-monumentale (ultima edizione) e J. CARCOPINO, Ostie («Les Visites d’art»), 1929. Quanto «moderno» fosse il commercio di Roma nell’età di Trajano è dimostrato dai recenti mirabili scavi del «palazzo del mercato» di quell’imperatore, in prossimità del suo Foro. Ho osservato questa «sala di mercato», che serviva per la vendita delle ultime novità librarie e ho potuto constatare che la disposizione di essa rispondeva perfettamente a tutti i bisogni del commercio moderno. Vd. C. RICCI, Il mercato di Traiano (1929); cf. IDEM, Il Foro di Augusto e la Casa dei Cavalieri di Rodi, 1930 («Capitolium»)].
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1. Porto campano
2. Commercio di schiavi
3. Manomissione
TAV. XII – VITA ECONOMICA IN ITALIA NELL’ETÀ DI AUGUSTO
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DESCRIZIONE DELLA
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XII
1. PARTE DELLA DECORAZIONE PARIETALE DI UNA CASA DI STABIA. Trovata a Gragnano, Napoli, Museo Nazionale. Pitture di Ercolano, II, tav. LVI o? (da cui è riprodotta la qui unita illustrazione). Cf. K. LEHMANN-HARTLEBEN, Die antiken Hafenanlagen des Mittelmeeres, «Klio», Suppl. 14 (1923), pp. 224 sgg. [e G. SPANO, La «Ripa Puteolana», «Atti d. R. Acc. di Napoli», 8 (1930), pp. 295 sg., e special. pp. 323 sg.]; sul porto di Pompei vd. anche L. JACONO, in «Neapolis», I (1913), pp. 353 sgg. Tipico porto campano con moli, edifici vari, una piccola isola rocciosa, archi «trionfali» e colonne con statue. Non può esser con certezza identificato con uno qualsiasi dei porti campani (per es. Puteoli), ma si può sicuramente affermare che l’aspetto generale di Puteoli non doveva esser molto diverso da quello della nostra pittura, sebbene indubbiamente ogni cosa dovesse avervi maggiori proporzioni. 2. PARTE DI UNA STELE FUNERARIA DI CAPUA. Museo di Capua. Vd. GUMMERUS, in «Klio», 12 (1912), pp. 500 sgg., cf. un bassorilievo di Arlon pubbl. da B. LAUM, in «Germania», II, p. 108. Ultimi anni della repubblica o primi di Augusto. La parte superiore della stele è occupata da due figure maschili stanti, il Satur e lo Stepanus dell’iscrizione incisa aldisotto di esse: M. Publilius M. l. Satur de suo sibi et liberto M. Publilio Stepano. Arbitratu M. Publili M. l. Cadiae praeconis et M. Publili M. l. Timotis (CIL X, 8222). La parte inferiore della lapide porta i rilievi qui riprodotti. In uno di essi è rappresentato un uomo nudo stante su una base di pietra. Alla sua sinistra si avanza sollecitamente un uomo, probabilmente parlandogli e additandolo; questi indossa il chiton e la chlamys greci. All’altro lato v’è un altr’uomo, vestito di toga, che stende pacatamente la destra verso la figura nuda. La scena indubbiamente rappresenta la vendita di uno schiavo. L’uomo nudo è appunto lo schiavo, l’uomo vestito alla greca è il venditore, il togatus il compratore. Indubbiamente i due esecutori della volontà di Publilius Satur hanno voluto rappresentare un antico episodio della sua vita – la compera di lui fatta dal suo padrone, poscia patronus – allo scopo di mostrare gli umili inizi d’un uomo divenuto poi personaggio importante di Capua, la cui personalità e la cui storia erano probabilmente note a ciascuno nella città. Un’idea consimile ebbe Trimalcione adornando il peristilio della sua casa con pitture raffiguranti episodi della propria vita, a cominciare dal venalicium cum titulis pictum (PETR., Sat., 29, 3). 3. FRAMMENTO DI BASSORILIEVO DELLA COLLEZIONE WAROCQUÉ. Mariemont (Belgio). F. CUMONT, Collection Warocqué, n. 70; DAREMBERG e SAGLIO, Dict. d. Ant., III, p. 1585, fig. 4827 (Ch. Lécrivain); E. CUQ, Une Scène d’affranchissement par vindicte au premier siècle de notre ère, «C. R. Acad. Inscr.», 1915, pp. 537 sgg.; S. REINACH, Rép. d. rel., II, p. 164, 3. I sec. d.C. (?). Frammento di bassorilievo rappresentante la manumissio vindicta. Uno degli schiavi manomessi è inginocchiato davanti al littore, che lo tocca con la verga della manomissione (vindicta): porta il pileus, simbolo di libertà. L’altro, già manomesso, stringe la mano al magistrato o al suo antico padrone (a simboleggiare la fides che deve osservarsi tra lui e il suo patronus). Non vedo alcuna ragione per ritenere questo frammento contraffazione moderna.
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antica in generale sarà disperatamente insufficiente. I miei studi sul materiale archeologico rinvenuto nella Russia meridionale mostrano che la vita industriale non fu mai così rigogliosa ad Alessandria come dopo le guerre civili. Alessandria produceva per tutto il mondo civile papiro, alcune qualità di tele di lino, profumi, certe vetrerie (specialmente perline), oggetti d’avorio, un tipo speciale di gioielli, gran parte dell’argenteria che andava per il mondo antico, ed altre merci. Abbiamo già parlato dei tentativi che si facevano per introdurre nelle città campane alcuni di questi rami d’industria35. Alessandria non era la sola città dell’Oriente greco che sviluppasse la propria industria. La Siria inventava e perfezionava quella del vetro soffiato, che fu presto imitata dai più progrediti centri industriali d’Italia. I manufatti metallici e le tele di lino di Siria competevano coi prodotti alessandrini. Nell’Asia Minore cominciava a rifiorire l’antica industria delle lane; e non se ne esportavano soltanto tappeti, anzi la specialità del paese erano le stoffe e gli indumenti a colori, specialità in cui poteva rivaleggiare soltanto la Siria. L’Italia produceva, s’intende, alcune buone qualità di pannilani di colore naturale, che in parte venivano anche colorate sul luogo (ricordiamo gli infectores di Pompei); e anche nelle altre parti dell’Impero romano, all’infuori dell’Italia, può ben darsi che l’industria domestica provvedesse le famiglie di indumenti quotidiani ordinari a un sol colore, ma io inclino a credere che perfino questi ultimi si comprassero al mercato e nelle botteghe, e che le botteghe cittadine offrissero stoffe e abiti colorati di poco prezzo. Ma nessun altro luogo poteva competere con l’Egitto, con l’Asia Minore, con la Siria nella fabbricazione di stoffe di lino e di lana a vari colori. Basta ricordare quanto fosse considerevole l’esportazione di stoffe colorate da Mosca nell’Asia centrale e perfino in India, paesi dove pure prospera ancora l’industria domestica, per farsi un’idea dell’importanza che aveva nell’Asia Minore e nella Siria la fabbricazione delle stoffe colorate36.
35. Sull’industria alessandrina, vd. W. SCHUBART, Aegypten von Alexander dem Grossen bis Mohammed (1922), pp. 51 sgg.; E. BRECCIA, Alexandrea ad Aegyptum, (19222), p. 41 (con bibliografia). Conosciamo abbastanza bene l’ordinamento dell’industria nei villaggi e nelle piccole città dell’Egitto grazie ai volumi del REIL, Beiträge zur Kenntniss des Gewerbes im hellenistischen Aegypten (1913) e di M. CHVOSTOV, Studi sull’organizzazione dell’industria e del commercio nell’Egitto greco-romano I. L’industria tessile, 1914 (in russo); cf. la mia recensione di quest’ultimo libro nel «Giornale del Ministero della Pubbica Educazione», 1914 (in russo), e U. WILCKEN, Grundzüge, pp. 239 sgg.; W. SCHUBART, Einführung, pp. 414 sgg. e 428 sgg., con un’enumerazione dei vari rami di commercio. Però è pericoloso applicare questo quadro ad Alessandria, perché v’è la stessa relazione che tra Roma e Pompei. Questa, e così le città minori dell’Egitto, lavoravano principalmente per il mercato locale; Alessandria e, fino a un certo punto, Roma, per l’esportazione mondiale. 36. Per l’industria tessile dell’Asia Minore, vedi il mio articolo sullo sviluppo economico del regno di Pergamo negli Anatolian Studies presented to Sir William Ramsay, Manchester, 1924. Cf. ORTH, «R. E.», XII, coll. 606 sgg. (art. Lana), ed infra, cap. IV nota 42.
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La situazione economica dell’età augustea è contrassegnata da due fatti, che occorre mettere in rilievo particolare. Abbiamo parlato del non-intervento del governo nella vita economica dell’Impero: Augusto, è bene ripeterlo, non ebbe una politica economica, e la questione del lavoro per lui non esisté affatto. Se prese alcuni provvedimenti di carattere protettivo o restrittivo, lo fece soltanto per ragioni politiche o morali: così le leggi restrittive sul lusso (leges sumptuariae) o i provvedimenti ideati a favore degli agricoltori italici – i piccoli proprietari d’Italia; provvedimenti invocati bensì da Orazio in qualcuna delle sue odi, mai però attuati. Prevaleva la politica del laissez faire. Il secondo punto che dobbiamo mettere in rilievo è l’importanza assunta nella vita economica dell’Impero dall’Italia. Essa restava il più ricco paese dell’Impero, ancora senza rivali. Essa era il più grande centro agricolo, commerciale, industriale dell’Occidente. Potrebbe sembrare che già gettasse la sua ombra il tempo in cui la supremazia economica dell’Italia sarebbe stata messa in questione, allo stesso modo ch’essa aveva tolto la supremazia alla Grecia, ad Alessandria, all’Asia Minore; ma non si scorge ancora il minimo segno dell’inizio di questo nuovo periodo. La produzione dei più pregiati articoli dell’agricoltura e dell’industria era ancora accentrata, come nelle età greca ed ellenistica, in pochi punti, specialmente nell’Asia Minore, ad Alessandria, nella Siria, nella Fenicia, in Italia: il rimanente dell’Impero non produceva quasi altro che materie prime. Ma appunto nelle province occidentali la vita economica cominciava in generale a diventar sempre più complessa, e andava avvicinandosi il giorno dell’emancipazione. Nell’astenersi dal tentativo di regolare la vita economica dell’Impero romano, Augusto seguì la stessa politica che giudicava opportuna anche nei riguardi politici e sociali. In questi campi egli accettò le condizioni esistenti, o non le modificò se non leggermente e in caso di assoluta necessità. Anche nel campo economico egli fece politica di restaurazione e di ricostruzione, cioè, in realtà, politica di adattamento alle condizioni esistenti.
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I successori di Augusto Giulii e Claudii
Alla morte d’Augusto il suo potere passò al figliastro Tiberio, da lui adottato negli ultimi anni del suo governo. A Tiberio successe uno dei figli di Germanico suo nipote, Caligola, a questo suo zio Claudio, a Claudio il figlio della sua seconda moglie Agrippina, una delle sorelle di Caligola, cioè Nerone. Sicché il potere rimase nelle mani della famiglia di Augusto per un secolo circa. Tuttavia il Principato allora esistente non può considerarsi monarchia ereditaria: infatti la trasmissione del potere da un membro all’altro della famiglia d’Augusto fu dovuta unicamente alla popolarità che Augusto stesso aveva goduto tra i soldati dell’esercito romano. Quasi tutti gli imperatori del primo secolo furono creati dall’esercito, e segnatamente dai pretoriani: fece eccezione soltanto Tiberio, al quale del resto l’esercito s’affrettò a prestare giuramento. Legalmente e costituzionalmente gli imperatori ricevevano il potere dalle mani del Senato e del popolo romano: in realtà il Principato dei successori di Augusto dipendeva dalla volontà dell’esercito. Questo fatto tutti nell’Impero romano lo capivano e riconoscevano, e in prima linea gli imperatori medesimi. Questi sapevano benissimo che il loro potere si fondava unicamente sulla loro parentela con Augusto e sull’appoggio loro dato dall’esercito. Sapevano altrettanto bene che qualsiasi membro della classe senatoria aveva teoricamente ugual diritto alla suprema magistratura dell’Impero: lo sapevano e agirono in conformità. Indi il carattere arbitrario, spietato, crudele del loro governo nella capitale, il loro costante timore di cader vittime di qualche cospirazione, lo sterminio sistematico di tutti i membri della famiglia di Augusto e di tutti i personaggi più cospicui dell’aristocrazia imperiale, quelle persecuzioni sanguinarie che sono così drammaticamente descritte da Tacito. Quindi, ancora, la loro condotta quasi servile verso la guardia pretoriana e la popolazione della città di Roma. Quindi anche la loro immorale e dissoluta vita privata: sentivano d’essere «califfi per un’ora». Tutti gli imperatori della dinastia augustea sentirono acuto bisogno di dare stabilità al loro potere, di conferirgli più che una base meramente legale. Naturalmente la sanzione legale era data al potere imperiale dall’atto del Senato che concedeva al nuovo princeps tutti i poteri ch’erano stati già posseduti da Augusto e che di questo avevano fatto il primo magistrato della città di Roma
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e dell’Impero romano; ma gli imperatori avevano bisogno d’una più alta e più solida sanzione, che fosse indipendente dal Senato e s’applicasse non soltanto all’istituto dell’Impero, ma anche alla persona dell’imperatore. A tal fine due dei successori di Augusto, Caligola e Nerone, fecero reiterati sforzi per porre le basi del culto imperiale e farne un’istituzione dello Stato. Da ciò nacquero anche i tentativi fatti da quegli stessi imperatori per collegare i sentimenti religiosi della popolazione dell’Impero con la persona dell’imperatore, dando a questo nomi e attributi divini e identificandolo con qualcuna delle divinità del pantheon greco-romano, specialmente con Apollo e con Ercole, entrambi promotori di vita civile e protettori del genere umano contro le forze delle tenebre. Tiberio e Claudio, uomini di cultura elevata, versati nel pensiero filosofico, capirono benissimo l’assurdità di tali pretese e resistettero tanto all’adulazione quanto all’espressione di genuini sentimenti religiosi, provenienti soprattutto dalle province orientali. L’atteggiamento di Tiberio è attestato all’evidenza da un’epigrafe recentemente rinvenuta a Gythion nella Laconia, e contenente una breve lettera di quest’imperatore. La città aveva inviato una speciale ambasciata per offrire a lui e alla madre onori divini. Nella lettera di risposta, Tiberio proclama con la massima brevità la stessa massima, che è svolta ampiamente nel famoso discorso dell’imperatore al Senato, come lo riferisce Tacito*. Questo discorso fu tenuto da Tiberio in risposta ad una richiesta della provincia della Spagna ulteriore, che chiedeva di poter erigere un tempio all’imperatore e a sua madre. Il concetto fondamentale così del discorso come della lettera è questo: «Io sono uomo mortale, e gli onori divini spettano soltanto ad Augusto, vero salvatore dell’umanità». Una serie di richieste analoghe, venute dall’Oriente, fu probabilmente quella che indusse Tiberio ad emanare l’editto di cui parla Svetonio**. Lo stesso modo di vedere, con la stessa motivazione, ebbe Claudio, come è dimostrato in maniera perspicua da un papiro recentemente trovato a Philadelphia, una lettera da lui inviata agli Alessandrini per notificare loro il suo reciso rifiuto di accettare onori divini. Eppure proprio Tiberio e Claudio furono costretti da considerazioni politiche a permettere che loro si prestasse un certo culto, specialmente nelle province orientali e in quelle recentemente annesse dell’Occidente1.
*. TAC., Ann., IV, 37, 38. **. SUET., Tib., 26. 1. La storia degli imperatori romani è stata scritta da non pochi eminenti studiosi moderni. Non occorre farne il lungo elenco; basterà menzionare le migliori tra le opere recenti: A. VON DOMASZEWSKI, Geschichte der römischen Kaiser, 19223; H. STUART JONES, The Roman Empire, 1908; J.B. BURY, History of the Roman Empire, 1893; E. KORNEMANN, Die römische Kaiserzeit, in A. GERCKE e E. NORDEN, Einleitung in die Altertumswissenschaft, vol. III, 19142; G. BLOCH, L’Empire romain. Évolution et décadence, 1922; L. HOMO, L’Empire romain, 1925; M.P. NILSSON, Imperial Rome, 1925; H. DESSAU, Gesch. d. röm. Kaiserzeit, I (1924), II, 1 (1926); II, 2 (1930); V. CHAPOT, Le Monde Romain, 1927; E. ALBERTINI, L’Empire romain, Paris, 1929; E. HOHL, Die römische Kaiserzeit, Berlin, 1931; E. KORNEMANN, Römische Geschichte II. Die Kaiserzeit, Stuttgart, 1939 (con eccellente bibliografia). Su Tiberio F.B. MARSH, The Reign of Tiberius, Oxford, 1931; E. CIACERI, Tiberio successore di Augusto, Roma, 1934. Su Caius J.P.V.D. BALSDON,
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III. I successori di Augusto. Giulii e Claudii
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Ma la crudeltà sanguinaria del governo dei Giulii e Claudii fu tuttavia soltanto uno degli aspetti della vita dell’Impero romano dopo la morte
The Emperor Gaius (Caligula), Oxford, 1934; J. GAGÉ, Un manifeste dynastique de Caligula d’après une nouvelle interprétation du grand camée de Paris, «Rev. Et. An.», 37 (1935), pp. 165-184. Su Claudio e Nerone vd. S. EITREM, Zur Apotheose, «Symbolae Osloenses», 10 (1932), pp. 31-56; A.L. ABAECHERLI, The Institution of the Imperial Cult in the Western Provinces of the Roman Empire, «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», 41 (1935), pp. 153-186. D.M. PIPPIDI, Recherches sur le culte impérial, Paris, 1941 («Inst. Roumain d’Et. Latines. Coll. Scient.», 2). Per l’evoluzione costituzionale vedi E. GRIMM, Studi sulla sto-
ria dello svolgimento del potere imperiale romano, voll. I-II, 1900-1901 (in russo); O.TH. SCHULZ, Das Wesen des römischen Kaisertums der ersten zwei Jahrhunderte, 1916; IDEM, Die Rechtstitel u. Regierungsprogramme auf röm. Kaisermünzen, 1925. E. TAEUBLER, Römisches Staatsrecht und römische Verfassungsgeschichte, nella «Hist. Zeitschr.», 120 (1919), pp. 189 sgg.; cf. cap. II, nota 1. Le opere fondamentali su questo argomento sono ancora, senza dubbio, la seconda parte del secondo volume dello Staatsrecht del MOMMSEN ed E. HERZOG, Geschichte und System der römischen Staatsverfassung, vol. II (pp. 233 sgg. e 332 sgg. sul Principato romano considerato come tirannide). [Uno studio interessante sulla storia costituzionale dell’Impero romano è stato testé pubblicato da E. KORNEMANN, Doppelprinzipat u. Reichsteilung im Imperium Romanum, 1930]. La dipendenza degli imperatori (dopo Tiberio) dai pretoriani è messa in rilievo dalle medaglie di Caligola, Claudio, Nerone. Il primo di costoro coniò monete di bronzo con la leggenda adlocut(io) coh(ortium), senza l’abituale S. C., e con quattro aquilae simboleggianti le coorti pretoriane (MATTINGLY, Coins of the R. E., 1923, p. CXLV). Anche più esplicite sono le monete di Claudio con la leggenda imper(ator) recept(us) e un disegno del campo pretoriano, alludenti alla proclamazione di quell’imperatore per opera dei pretoriani. A questo tipo fa riscontro un altro con la leggenda praetor(iani) recept(i), che presenta le figure dell’imperatore e d’un pretoriano che si stringono la mano (MATTINGLY, op. cit., pp. CLII sg.). Il tipo di Caligola fu ripetuto da Nerone (ibid., p. CLXXVI). Per quel che riguarda le fonti, l’opera più recente è il sommario di A. ROSENBERG, Einleitung und Quellenkunde zur römischen Geschichte (1921), che non può sostituire l’opera fondamentale di H. PETER, Die geschichtliche Literatur über die römische Kaiserzeit, 1897. Sul culto imperiale, E. BEURLIER, Le Culte impérial, Paris, 1891; E. KORNEMANN, Zur Gesch. der ant. Herrscherkulte, «Klio», 1 (1901), pp. 51-146; J. TOUTAIN, Les Cultes paiens dans l’Empire romain, vol. I, 1907, pp. 42 sgg.; F. BLUMENTHAL, Der ägyptische Kaiserkult, nell’«Arch. f. Pap.-F»., 5, pp. 317 sgg.; A. DEISSMANN, Licht vom Osten (19234), p. 287 sgg.; H. HEINEN in «Klio», 11 (1911), p. 129 sgg.; L.R. TAYLOR nelle «Trans. Amer. Phil. Assoc.», 51 (1920), pp. 116 sgg.; W. OTTO in «Hermes», 45 (1910), pp. 448 sgg.; G. HERZOG-HAUSER, «R. E.», Suppl. IV, coll. 820 sgg. (art. Kaiserkult); E. BICKERMANN, Die römische Kaiserapotheose, «Arch. f. Rel.», 27 (1929), pp. 1 sgg.; [L.R. TAYLOR, The Divinity of the Roman Emperor, 1931]. Intorno a Tiberio vd. l’iscriz. di Gythion (cf. cap. 1, nota 12), [e L.R. TAYLOR, Tiberius’ Refusals of Divine Honours, «Trans. Amer. Phil. Assoc.», 60 (1929), pp. 87 sgg.; cf. K. SCOTT, in «Class. Philol.», 27 (1932), pp. 435 sgg. e J. GAGÉ, La Victoria Augusta et les Auspices de Tibère, «Rev. Arch.», 32 (1930), pp. 15 sgg.]; intorno a Claudio, per questo riguardo, vedi H.I. BELL, Jews and Christians in Egypt, 1924, pp. 5 sgg. e Juden u. Griechen im römischen Alexandreia (1926), e infra, nota 2. Circa l’identificazione di imperatori con divinità, specialmente con Ercole, vedi P. RIEWALD, De imperatorum Romanorum cum ceteris dis et comparatione et equatione, nelle «Diss. philol. Halenses»,
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d’Augusto. All’ombra di esso continuava intanto a svolgersi lentamente, non disturbato dalla lotta sanguinosa che infieriva a Roma, il processo di rimodellamento della struttura dell’Impero iniziato da Augusto; processo, i cui momenti più importanti erano il graduale sviluppo della burocrazia, l’esclusione del Senato dall’attività amministrativa, l’accentramento di questa nelle mani dell’imperatore. Il momento più importante di quest’opera fu il passaggio di tutte le risorse dello Stato romano nelle mani dell’imperatore, il diritto esclusivo da questo acquistato di disporre delle entrate dell’Impero e di ordinare le spese. La ripartizione delle imposte dirette e indirette, la riscossione delle tasse indirette, la gestione dei demani dello Stato, tutto s’andò riducendo a poco a poco nelle mani dell’amministrazione imperiale: il Senato infine non conservò che il maneggio delle somme che venivano pagate alla tesoreria del popolo romano dalle città delle province senatorie. Sotto questo riguardo furono di somma importanza il regno di Tiberio e ancor più quello veramente notevole di Claudio. Non è necessario ripeter qui quanto O. Hirschfeld e vari altri studiosi hanno messo in rilievo relativamente all’opera compiuta dal secondo di questi due imperatori. In più d’un campo egli fece i passi decisivi e creò i precedenti sui quali doveva poi fondarsi, specialmente sotto i Flavii e gli Antonini, il futuro svolgimento della burocrazia imperiale. L’attenta diligenza con cui egli seguiva i particolari anche più minuti della vita amministrativa dell’Impero è provata, per esempio, dal gran numero di iscrizioni e papiri pervenutici, che riproducono lettere ed editti di lui, e dalla frequente menzione che di siffatti documenti si fa nelle nostre fonti letterarie. Di essi, i più notevoli sono forse i frammenti, trovati a Tegea, di un editto relativo all’ordinamento del servizio imperiale di posta (cursus publicus), e la già menzionata lettera agli Alessandrini. Occupandosi, in quest’ultimo documento, del complesso problema dell’ordinamento municipale d’Alessandria (la questione della boulhv) e del delicato argomento delle relazioni tra gli Ebrei e i Greci di quella città, Claudio mostra una sorprendente quantità di conoscenze, una perfetta comprensione delle condizioni attuali,
20, 3 (1912), e il mio articolo Commodus-Hercules in Britain, nel «J. R. S.», 13 (1923). Cf. cap. II, nota 3. Altri libri e articoli verranno citati nelle note seguenti. La parte che nell’età augustea e posteriormente ebbero nella storia del culto imperiale i tentativi d’identificare gli imperatori con le grandi divinità promotrici di civiltà e benessere – Ercole, Mercurio, Apollo, Bacco –, e le imperatrici con le corrispondenti dee – Venere, Giunone, Minerva –, si spiega con l’importanza che queste divinità avevano nel culto domestico dell’Italia, nel culto cioè del Genio, dei Lari, dei Penati. Di ciò si hanno eccellenti illustrazioni negli altari domestici di Pompei, p. es. quello della casa della Reg. I, ins. IX, n. 1 («Not. d. scavi», 1913, pp. 34 sg.), in cui sono rappresentati Ercole, Mercurio, Apollo, forse Bacco, nonché (Venere), Giunone, Minerva. Cf. «Not. d. scavi», 1899, p. 340, fig. 2 (la stessa serie di divinità) e numerosi altri esempi. Cf. G.K. BOYCE, Corpus of the Lararia of Pompeii, Roma, 1937 («Mem. of Amer. Acad. in Rome», 14), Index, sv. Penates e App. II. Lo stesso si ha ad Ostia e a Delo. L’argomento richie-
de una nuova trattazione. Non si fa alcuna menzione di siffatte correlazioni nel recente articolo del BOEHM, Lares, «R. E.», XII (1924), coll. 806 sgg.
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osservate dal loro lato pratico e non già teoricamente, e un tatto squisito. Non si riesce a capire come mai un tal uomo possa essere stato contemporaneamente uno zimbello nelle mani di mogli e di liberti. Tutti i documenti firmati da lui sono stati certamente o scritti o accuratamente riveduti da lui personalmente, dacché tutti presentano non solo lo stesso stile peculiare, ma anche la stessa peculiare logica e la stessa maniera di ragionare. Il vero è Può essere, come suggerisce l'Anderson, che soltanto negli ultimi suoi anni, quando il suo potere mentale andava continuamente declinando, Claudio si lasciò dominare dalla volontà di coloro che lo attorniavano; e può darsi che ma a mio modo di vedere anche per questo periodo la realtà dei fatti sia è stata alquanto esagerata da Tacito e dagli altri scrittori di parte senatoria2.
2. O. HIRSCHFELD, Die kaiserlichen Verwaltungsbeamten bis auf Diocletian, 19052; IDEM, Kleine Schriften, 1913; i miei articoli sul Fiscus, «R. E.», VI e in DE RUGGIERO, Diz. ep.; M. BANG in FRIEDLAENDER e WISSOWA, Sittengeschichte Roms, IV, 10a ediz., pp. 26 sgg. (cap. V e VI). Cf. A.N. SHERWIN-WHITE, Procurator Augusti, «Pap. Br. Sch. of Rome», 15 (1939), pp. 11-26 [recensione di A. MOMIGLIANO, nel «J. R. S.», 30 (1940), p. 213] e IDEM, The Roman Citizenship, Oxford, 1939, pp. 181 sgg. [recensione di A. MOMIGLIANO nel «J. R. S.», 31 (1941), pp. 158-165]. Intorno all’ager publicus ed alla graduale incorpo-
razione di esso (dal lato amministrativo) nei demani imperiali, vedi le mie Studien z. Gesch. d. röm. Kol., p. 326. Editto di Claudio sul cursus publicus, C. I. L, III, 7251; I. G. V, 2, p. 5; F.F. ABBOTT e A.CH. JOHNSON, Municipal Administration in the Roman Empire, 1926, p. 354, n. 51; cf. O. HIRSCHFELD, op. cit., p. 191, nota 1: (T[i]. Claudius Caesar Aug. G[erm]anicus) pontif. max. trib. pot. VIIII imp. XVI p. p. (49-50 d.C.) dicit: cu[m] et colonias et municipia non solum Ita[lia]e verum etiam provinciarum item civita[ti]um (lege civitates) cuiusque provinciae lebare oneribu[s] veh[iculo]rum praebendorum saepe tem[ptaviss]em [e]t c[um sati]s multa remedia invenisse m[ihi viderer p]otu[it ta]men nequitiae hominum [non satis per ea occurri …]. Sulla lettera agli Alessandrini (41 d.C.) vd. H.I. BELL, Jews and Christians in Egypt, 1924, pp. 1 sgg.; IDEM, Juden und Griechen im römischen Alexandreia, 1926 («Beitr. z. alt. Orient», 9); H. STUART JONES, Claudius and the Jewish Question at Alexandria, «J. R. S.», 16 (1926), pp. 17 sgg. e le bibliografie contenute nel libro tedesco del BELL e nell’articolo del JONES. Cf. E. GRUPE, in «Zeitschr. d. Savigny-Stif.», 48 (1923), p. 573 (sullo stile dell’editto in confronto con quello dell’editto per gli Anauni e del discorso tenuto in Senato a proposito del jus honorum dei Galli), [e S. LOESCH, Epistula claudiana: Der neuentdeckte Brief des Kaisers Claudius v. J. 41 n. Chr. und das Urchristentum, 1930]. Intorno a quest’ultimo discorso vd. PH. FABIA, La Table claudienne de Lyon (1929), cf. DE SANCTIS, nella «Riv. di filol.», 7 (57), 1929, p. 575. Nuovi dati relativi all’ordinamento definitivo del fiscus come amministrazione finanziaria imperiale, fatto da Claudio, ci forniscono due iscrizioni: una di Lycosura nell’Arcadia in cui appare che il fisco nel 42 d.C. riceve pagamenti dalle città (I. G. V, 2, 516; DITTENBERGER, Syll.3, 800; A. VON PREMERSTEIN nei «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 15 (1912), pp. 200 sgg.) e un’altra di Volubilis in Mauretania, vd. infra, nota 5. Dello spirito che animò il governo di Claudio offre una preziosa testimonianza l’editto di Paulo Fabio Persico (44 d.C.), proconsole d’Asia (Efeso; R. HEBERDEY, Forsch. in Ephesos, II, pp. 112 sgg., nn. 21 e 22; J. KEIL, nei «Jahresh.Österr. Arch. Inst. Wien», 23 (1926), Beibl., pp. 282 sgg. F.K. DÖRNER, Der Erlass des Statthalters von Asia Paullus Fabius Persicus, Greifswald, 1935). Il pensiero dominante nell’editto è quello di un’amorevole sollecitudine per la provincia e di un profondo sentimento del dovere:
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Il Senato non protestò mai contro queste usurpazioni dei suoi diritti compiute dal potere imperiale. La ragione era la stessa che ai tempi d’Augusto: il timore di assumere la responsabilità delle spese immense richieste dal governo dello Stato. Le entrate, di cui disponeva adesso il Senato per coprire queste spese, erano ancora più scarse che all’inizio del Principato; al contrario gli imperatori, che al termine delle guerre civili s’erano trovati ad essere le persone più ricche dello Stato, che avevano ereditato da Antonio e da Cleopatra le risorse dell’Egitto, che andavano accrescendo continuamente il loro patrimonio per confische ed eredità, avevano la volontà e la possibilità di sovvenire lo Stato con le proprie entrate, assumendosi le gravi spese della ricostruzione e manutenzione della capitale, dell’approvvigionamento e dell’esibizione di spettacoli alla popolazione di Roma, della distribuzione di doni ai soldati, della formazione di un fondo speciale per le pensioni ad essi pagabili al termine del servizio, della costruzione di strade in Italia e nelle province, e di altri servizi pubblici. In tutto ciò essi seguirono le orme di Augusto. Sovvenendo in tal modo ai bisogni dello Stato, gli imperatori s’addossavano un onere gravissimo, e avevano pieno diritto di esigere la direzione e la sorveglianza delle pubbliche finanze. Quest’assunzione di responsabilità, che condusse gradatamente al miglioramento dei metodi amministrativi, specialmente nelle province, rese il nuovo regime sempre più popolare tra le masse della popolazione e di altrettanto fece scapitare l’autorità del Senato. In tal guisa il Principato infine si consolidò saldamente come stabile istituto.
sotto questo riguardo l’editto di Fabio è legittimo precursore di alcuni altri documenti del periodo della monarchia illuminata. Si osservi anche l’accenno di Fabio (KEIL, loc. cit., 283, 11 sgg.) al principio direttivo della politica di Claudio: h{deion o{mw~ oJmologw`i (sic!) pro;~ tauvthn ejpitetavsqaªi th;nº gnwvmhn tw`i uJpodeivgmati tou` krativstou kai; ajlªhºqw`~ dikaiotavtou hJgemovno~, o}~ pa`n to; tw`n ajnqrwv⁄pwn gevno~ eij~ th;n ijdivan ajnadeigmevno~ (sic!) khdemoniv⁄an ejn toi`~ prwvtoi~ kai; pa`sin hJdivstoi~ filanqrwv⁄poi~ kai; tou`to kecavrisqai (sic!) to; ta; i[dia eJkavstwi ajpokatastaqh`nai. Sul principio suum cuique, L. WENGER, Suum cuique in antiken Urkunden, in Aus der Geisteswelt des Mittelalters. Studien und Texten M. Grabmann zur Vollendung der 60. Lebensjahres von Freunden und Schülern gewidmet, 1935, pp. 145 sgg., e DÖRNER, op. cit.; J. KAERST, Geschichte des Hellenismus, II, Leipzig-Berlin, 19262, p. 128 n. 3: Ulpiano: iustitia est constans et perpetua voluntas suum cuique tribuendi; cf. Stoic. vet. Frg. III, 262, 263, 280. Ancor più importante è il discorso di
Claudio, B. G. U. 611, quale oggi lo abbiamo dopo l’eccellente revisione del testo fatta da J. STROUX, Eine Gerichtsreform des Kaisers Claudius, «Sitzb. Münch. Akad.», 1929, cf. le ottime osservazioni dello STROUX sulla personalità dell’imperatore, pp. 80 sgg. [Non ho visto A. MOMIGLIANO, L’opera dell’imperatore Claudio, 1932]. Una discussione di tutti i problemi relativi alla personalità e al governo di Claudio e un equilibrato apprezzamento delle sue realizzazioni si troveranno in due recenti ed eccellenti monografie di A. MOMIGLIANO, Claudius, the Emperor and His Achievement, Oxford, 1934 e V.M. SCRAMUZZA, The Emperor Claudius, Cambridge Mass., 1940. Negli stessi libri il lettore troverà studi penetranti e riferimenti bibliografici completi in relazione ai documenti menzionati nel testo e in questa nota. Non ho cambiato alcunché nel mio testo e molto poco in questa nota dopo uno studio attento dei libri menzionati prima. Cf. M.P. CHARLESWORTH, Documents Illustrating the Reigns of Claudius and Nero, Cambridge, 1939.
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Per illustrare questo processo essenziale della storia dell’Impero, sceglierò due punti particolari, e mi soffermerò per il momento su di essi. Si tratta di fatti notissimi, ma può esser utile metterli in rilievo particolare. L’amministrazione della città di Roma costituiva per lo Stato un onere assai grave. Oltre alla necessità di fare di Roma una bella città, degna della sua condizione di capitale del mondo, oltre all’obbligo di assicurare alla sua crescente popolazione il soddisfacimento dei bisogni elementari della vita come il rifornimento dell’acqua, la fognatura, gli impianti sanitari, la tutela contro incendi e inondazioni, strade ben pavimentate, ponti sul Tevere, un’adeguata forza di polizia – tutte cose già possedute nel periodo ellenistico dalle più importanti città del mondo Greco – v’erano le immense spese necessarie per alimentare e divertire la popolazione della capitale. Le centinaia di migliaia di cittadini romani dimoranti a Roma poco si curavano dei diritti politici, e s’adattarono facilmente a veder ridotta, sotto Augusto, l’assemblea popolare a mera formalità, né protestarono minimamente quando Tiberio abolì anche questa formalità; ma insistettero sul diritto, acquisito nel corso delle guerre civili, di essere nutriti e divertiti dal governo. Nessun imperatore, neppure Cesare o Augusto, osò contestare questo sacro diritto del proletariato romano: essi si limitarono a ridurre e fissare il numero degli aventi diritto alla distribuzione del grano e a disporre un sistema efficace di distribuzione. Fissarono anche il numero dei giorni in cui la popolazione romana era ammessa a godere un bello spettacolo nei teatri, nei circhi, negli anfiteatri: ma non misero mai in questione l’istituzione in sé stessa. Non già ch’essi temessero la plebaglia romana: avevano sottomano i pretoriani per reprimere ogni eventuale rivolta; ma preferivano tener di buon umore la popolazione della capitale. Mantenendo in mezzo alla cittadinanza romana un grosso gruppo di circa 200 mila pensionati privilegiati dello Stato, membri delle antiche tribù romane, gli imperatori si assicuravano accoglienze entusiastiche nei giorni in cui comparivano in mezzo alla folla per celebrare trionfi, compiere sacrifici, presiedere le corse del circo o i giuochi gladiatorii. Di tratto in tratto, tuttavia, occorreva avere un’accoglienza particolarmente entusiastica; a tal fine gli imperatori disponevano spettacoli straordinari, largizioni supplementari di grano e denaro, banchetti per centinaia di migliaia di persone, distribuzioni di oggetti svariati. Con tali espedienti si manteneva «alto il morale» della popolazione e «si formava la pubblica opinione» della città di Roma. Le spese per siffatta formazione della pubblica opinione, aggiunte a quelle necessarie per mantenere la città in buone condizioni, erano senza dubbio immense. Il Senato, le cui risorse finanziarie, come abbiamo visto, si riducevano ormai al gettito delle imposte dirette delle province senatorie, non era in condizione di sostenere siffatte spese, mentre gli imperatori erano pronti ad assumerne il carico, a condizione però che il Senato lasciasse tutto l’affare nelle loro mani. Questo, insieme col governo dell’esercito, fu uno degli arcana imperii della prima età imperiale3.
3. Circa la distribuzione di grano e di denaro vedi M. ROSTOVTZEFF, Die römischen Bleitesserae, «Klio», Suppl. 3 (1905), pp. 10 sgg.; O. HIRSCHFELD, Die k. Verwaltungsb.,
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Coll’accentrarsi del maneggio delle pubbliche entrate e delle pubbliche spese nelle mani dell’imperatore s’accompagnò un sempre più esteso diritto di sorveglianza imperiale sull’amministrazione delle province senatorie. Fin da principio gli imperatori avevano nelle province senatorie – quelle, cioè, i cui governatori erano nominati dal Senato – i loro procuratori, agenti personali che vi amministravano le proprietà private dell’imperatore; e fin da principio i procuratori erano stati «gli occhi e gli orecchi» dell’imperatore in quelle province. Essi lo tenevano informato di tutto quel che vi accadeva, sì da permettergli in caso di necessità di portare in Senato l’accusa di malgoverno; e il Senato, sotto la pressione della pubblica opinione, naturalmente non osava coprire della sua autorità le malefatte dei suoi governatori. Quanto più il numero degli agenti imperiali s’aumentava nelle province per effetto dell’incremento del demanio imperiale e del trasferimento ad essi della riscossione delle imposte indirette, tanto più effettiva diventava la sorveglianza degli imperatori sui governatori senatorii. D’altra parte, quanto più larga parte assumevano gli imperatori nella nomina dei nuovi senatori per via della raccomandazione di candidati e della revisione periodica dell’albo senatorio, tanto piu decisiva diventava la loro voce nella scelta dei senatori destinati a governare le province. In realtà già nel sec. I d.C. i governatori provinciali in pratica erano tutti nominati dall’imperatore, direttamente per le sue province, indirettamente per quelle del Senato4. In tal modo l’amministrazione imperiale divenne sempre più burocratica e si formò una nuova classe di funzionari imperiali, in parte presi dall’ordine equestre, ma per lo più tra gli schiavi e i liberti dell’imperatore; classe che sotto Augusto esisteva soltanto in germe ma che crebbe rapidamente di numero e d’influenza sotto i successori di lui, e specialmente sotto Claudio.
19052, pp. 230 sgg.; G. CARDINALI, Frumentatio, in DE RUGGIERO, Diz. ep., III, pp. 224 sgg.; IDEM, Amministrazione territoriale e finanziaria, in Augustus. Studi in occasione del bimillenario augusteo, Roma, 1938, pp. 171 sgg., nonché i miei articoli Frumentum, «R. E.», VII, 1, coll. 172 sgg., e Congiarium, ibid., vol. IV, coll. 875 sgg.; D. VAN BERCHEM, Les Distributions de blé et d’argent à la plèbe romaine sous l’Empire, Genève, 1939. I difficili problemi relativi al carattere delle professiones della cosidetta lex Julia municipalis, e al carattere della legge medesima, sono ormai risolti dall’ stati discussi nell’acuto articolo di A. VON PREMERSTEIN, Die Tafel von Heraclea und die Acta Caesaris, «Zeitschr. d. Savigny.Stif.», 43 (1922), pp. 45 sgg. (sulle professiones vedi pp. 58 sgg.). Senza dubbio le professiones erano intese a regolare le distribuzioni frumentarie di Cesare. Cf. T. RICE HOLMES, The Roman Republic, vol. III, pp. 553 sgg., ed E.G. HARDY, Some Problems in Roman History (1924), pp. 239 sgg. Una discussione sistematica di tutti i problemi relativi alle frumentazioni si possono trovare nel libro di VAN BERCHEM citato prima. Alcune delle sue teorie sono per me inaccettabili, ma io non le posso discutere qui. Circa gli spettacoli,
FRIEDLAENDER e WISSOWA, Sitteng. Roms, vol. IV, 10a ediz., pp. 205 sgg. (DREXEL, capp. XVI-XVIII); O. HIRSCHFELD, op. cit., pp. 285 sgg. 4. Sui procuratori delle province, O. HIRSCHFELD, Die k. Verwaltungsb., 19052, pp. 343 sgg. e pp. 410 sgg.; il mio articolo Fiscus, «R. E.», VI, coll. 2865 sgg.; R. CAGNAT in DAREMBERG e SAGLIO, Dict. d. ant., IV, pp. 662 sgg.; H. MATTINGLY, The Imperial Civil Service of Rome (1910), pp. 102 sgg.
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Non meno importante fu l’opera compiuta dagli imperatori allo scopo di urbanizzare l’Impero, vale a dire le province romane dell’Oriente e dell’Occidente. Molti volumi sono stati scritti intorno all’ordinamento municipale dell’Impero, ma nessuno di essi si è occupato di questo problema dell’urbanizzazione, cioè del sorgere di nuove città dove prima erano tribù, villaggi, templi e così via. È urgentemente necessaria la compilazione d’un elenco delle città secondo le varie province, che dia l’ordine cronologico della loro esistenza come città. Fra queste se ne troverebbero indubbiamente in ogni provincia molte che iniziarono la loro vita urbana soltanto dopo la cessazione delle guerre civili. La maggior parte si formarono ai tempi d’Augusto, alcune sotto i suoi successori, particolarmente sotto Claudio, che in questo campo spiegò non minore attività e tenacia che nel promuovere la burocrazia imperiale. Ciò è provato, per esempio, dalla fondazione, da lui ordinata, di nuove colonie. L’incorporazione della stirpe degli Anauni nel municipio di Tridentum e la concessione del ius Latii agli Octodurenses e ai Ceutrones della Vallis Poenina, che equivaleva alla loro urbanizzazione – i centri urbani erano Forum Claudii Vallensium e Forum Claudii Ceutronum – sono in perfetto accordo con gli sforzi fatti dall’imperatore per urbanizzare le diverse parti dell’Impero romano, e specialmente l’Occidente. Allo stesso indirizzo è dovuto il provvedimento per cui dopo una guerra locale Claudio concesse nel 44 d.C. agli abitanti di Volubilis in Mauretania la cittadinanza romana. e incorporò nella città, urbanizzandole, un certo numero di stirpi indigene mauretaniche, assegnate alla città in qualità di incolae. Così facendo Claudio si propose non soltanto di ricompensare Volubilis per la fedeltà mostrata alla causa romana, ma anche di creare baluardi romani in paesi la cui popolazione si atteneva ancora per molti lati alle forme di vita della tribù. Senza dubbio l’urbanizzazione delle province, iniziata sotto Augusto, fece rapidi progressi sotto Claudio. Un buon esempio ne dà danno la Spagna e il Noricum, di cui parleremo in seguito, quando verremo a trattare l’argomento generale delle relazioni tra città e campagna nell’Impero. Per intendere il processo dell’urbanizzazione dell’Impero sotto i successori d’Augusto dobbiamo tener presente che si tratta qui sia di uno svolgimento affatto naturale, i provinciali essendo attratti dal più alto tenore di vita civile che s’accompagnava all’organizzazione cittadina, sia degli effetti di una politica cosciente degli imperatori, che desideravano favorire il processo e imprimergli lo stampo ufficiale allo scopo di ampliare i fondamenti su cui poggiava il loro potere, ch’erano costituiti precisamente dall’elemento civile dell’Impero, dagli abitanti delle città. Il modo più agevole sarebbe stato di procedere per la via tracciata dalla guerra «sociale» e seguita da quasi tutti i capi rivoluzionari, da Silla, da Pompeo, e specialmente da Cesare, conferendo la cittadinanza romana a tutti gli elementi urbanizzati dell’Impero. Ma dobbiamo ricordare che la vittoria d’Augusto era stata dovuta principalmente all’appoggio datogli dai cittadini romani d’Italia, e che questi erano molto gelosi dei loro privilegi e della posizione dominante che occupavano nello Stato romano. Ciò spiega la circospetta moderazione d’Augusto e di Tiberio nel concedere la cittadinanza, nonché il sorgere di una vigorosa opposizione contro Claudio, che lo costrinse, probabilmente contro le sue convinzioni, ad aderire fino a un certo punto benché questi aderisse in generale e a questo riguardo alle tradizioni
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STORIA ECONOMICA E SOCIALE DELL’IMPERO ROMANO
d’Augusto e ad essere fosse piuttosto guardingo nel concedere il privilegio della cittadinanza romana. Anche in questo punto i creatori del Principato, i cittadini romani, imposero la loro volontà ai rappresentanti del potere da loro creato, e riuscirono a ritardare quanto era possibile quel processo di livellamento, ch’era inerente al Principato. Maggior libertà ebbero gli imperatori nel promuovere la vita di città nel seno dell’Impero, dacché siffatta politica non incontrava l’opposizione delle classi superiori o dei cittadini romani in generale. Questo è il motivo per cui Augusto, lo stesso Tiberio, ma in prima linea Claudio, si mostrarono cosi propensi a fondare nuove città. Dovendo procedere parcamente nella concessione della cittadinanza romana, essi crearono almeno un numero sempre maggiore di abitanti di città. Sentivano bene, infatti, che questi ultimi, una volta iniziati nella vita civile, sarebbero stati i migliori sostenitori di un regime che assicurava loro importanti ed estesi benefici. Dobbiamo tener presente che insieme coi cittadini romani fu la massa degli abitatori delle città, e specialmente la borghesia provinciale, quella che sostenne Augusto e ch’era disposta a sostenere i suoi successori, a condizione ch’essi le garantissero, insieme con la pace e l’ordine, anche la sua posizione privilegiata in mezzo alle masse della popolazione rurale delle province. Per il momento, però, quelle città che non erano colonie romane o latine dovettero in complesso accontentarsi d’una cittadinanza di second’ordine, della posizione di città «alleate» o suddite; ma s’avvicinava il giorno in cui, sotto i Flavii, sarebbe stata attuata una politica più coerente, nei riguardi sia delle antiche sia delle nuove città dell’Impero5.
5. La migliore rassegna dello sviluppo generale della vita urbana nell’Impero romano è quella data da TH. MOMMSEN nel quinto volume della sua Storia romana. Una quantità ingente di materiali si trova riunita nel Corpus inscriptionum Latinarum: le introduzioni generali ai singoli volumi, dedicate alla storia d’Italia e delle province, e le introduzioni speciali alle iscrizioni delle varie città, costituiscono la base per una storia dell’urbanizzazione dell’Impero. Disgraziatamente non abbiamo niente di somigliante per l’Oriente greco, salvo per la Grecia medesima e per alcune delle sue isole: ma l’una e le altre ebbero poca importanza nell’Impero. Ma benché si abbia pronto e ben preparato per l’uso un assai copioso materiale, non esiste alcun’opera che esponga il generale sviluppo dell’urbanizzazione dell’Impero. I libri più recenti su quest’argomento, quelli cioè di J.S. REID, The Municipalities of the Roman Empire, Cambridge, 1913, e di F.F. ABBOTT e A. CH. JOHNSON, Municipal Administration in the Roman Empire, 1926 (con una raccolta di documenti relativi all’ordinamento municipale: Part. II, 1: Municipal documents in Greek and Latin from Italy and the Provinces; 2: Documents from Egypt) non possono sostituire il vecchio ma ancora indispensabile libro di E. KUHN, Die städtische und bürgerliche Verfassung des römischen Reiches, voll. I e II, 1864-1865, e specialmente il vol. II; cf. IDEM, Die Entstehung der Städte der Athen, 1878. Cf. W.E. HEITLAND, Last Words on the Roman Municipalities (1928). L’atteggiamento di Claudio nei riguardi dell’urbanizzazione è illustrato dall’attività da lui svolta nell’Italia settentrionale, dove si doveva risolvere l’importante problema della latinizzazione e urbanizzazione delle svariate stirpi abitanti nelle valli subalpine, ch’erano state definitivamente conquistate e pacificate da Augusto. L’intiera questione è stata recentemente trattata da E. PAIS, Dalle guerre puniche a Cesare Augusto, II, 1918, pp. 375 sgg.: Sulla romanizzazione della Valle d’Aosta; pp. 427 sgg.: Intorno alla
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1. Patera di Aquileia
2. Coppa di Boscoreale
TAV. XIII – TIBERIO E CLAUDIO
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DESCRIZIONE DELLA
TAVOLA
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XIII
1. PATERA D’ARGENTO TROVATA AD AQUILEIA. Museo di Vienna. Questa patera è stata pubblicata molte volte; vd. la bibliografia relativa in S. REINACH, Rép. d. rel., II, p. 146, 1; cf. E. LOEWY, Ein römisches Kunstwerk, in Studien zur Geschichte des Ostens. Festschrift J. Strzyrgowski, 1923, pp. 182 sgg. e tav. XX. La composizione, in bassorilievo, è un’imitazione romana, o una copia leggermente modificata, della celebre «Tazza Farnese», ellenistico-egiziana lavorata secondo lo stile neoattico. Un imperatore romano eroizzato è rappresentato quale novello Trittolemo, recante prosperità e fertilità alla Terra, raffigurata in aspetto di donna seminuda e inginocchiata, accanto alla quale è una vacca in atto di riposo (cf. tav. VI, 2). L’imperatore è appena disceso dal suo cocchio, tirato da serpenti, e compie un sacrificio a Demetra, assisa in trono nello sfondo su una roccia e sotto un vecchio olivo o fico. Su in cielo testa e parte superiore del corpo di Zeus. L’imperatore è circondato dalle quattro stagioni (Horae), due delle quali cibano e accarezzano i serpenti. Due fanciulli e una fanciulla fungono da camilli. I fanciulli tengono due paterae, la fanciulla reca un cesto pieno di frutti e di spighe di grano; dietro di lei v’è un altro cesto. Non è facile identificare l’imperatore: io lo crederei Caligola o Nerone piuttosto che Claudio. Non credo che i fanciulli siano i figli di Claudio: essi simboleggiano in generale la fertilità e prosperità dell’età dell’oro. La patera illustra ammirabilmente la fedeltà con cui gli imperatori del sec. I si attenevano alle idee di Augusto e si sforzavano d’essere, al pari di lui, divini apportatori di pace e di prosperità, grandi protettori e restauratori dell’agricoltura. 2. COPPA D’ARGENTO DEL TESORO DI BOSCOREALE. Trovata a Boscoreale nelle adiacenze di Pompei. Collezione del barone E. De Rothschild, Parigi. A. HÉRON DE VILLEFOSSE, nei «Mon. Piot», 5 (1899), pp. 31 e 134 sgg., tav. XXXII, 1 e 2; S. REINACH, Rép. d. rel., I, pp. 92 sgg.; M. ROSTOVTZEFF, nelle «Mém. Acad. Inscr.», 14 (1924), cf. IDEM, L’Empereur Tibère et le culte impérial, «Rev. hist.», 163 (1930), pp. 1 sgg. ?@e?@
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La coppa, di cui la tavola riproduce un lato, e il grafico qui sopra (da «Atene e Roma», 6, pp. 111 sgg.) entrambi i lati, può venir chiamata coppa di Augusto-Tiberio. Infatti Augusto vi è glorificato da Tiberio come il grande eroe militare, il grande restauratore della gloria delle armi romane, il più eccelso membro della famiglia divina dei Giulii. Accanto a lui compaiono la madre divinizzata di Tiberio e Tiberio medesimo, in qualità del più fedele e fortunato aiutante dell’imperatore e di suo unico erede. Da un lato della coppa si vede Augusto seduto sulla sella curulis, con in mano un globo ed un rotolo (come padrone e legislatore dell’orbis terrarum). Egli è rivolto ad un gruppo di divinità ch’è alla sua destra: Venus Genetrix (coi lineamenti di Livia?), che gli presenta una Vittoria, inoltre Honos e Virtus del popolo romano. Alla sinistra, Marte, il divino antenato dei Giulii, conduce un gruppo di sette popoli soggiogati. Sull’altro lato della coppa Augusto riceve la sottomissione dei Sugamori alla presenza del loro vincitore Tiberio. La coppa è testimonianza evidente degli sforzi fatti da Tiberio e dai suoi successori per collegare se stessi alla memoria gloriosa di Augusto (cf. l’iscrizione di Gythion, della quale parlo nel su citato articolo della «Rev. hist.»). Il bassorilievo d’un’altra coppa, riprodotto nel disegno inferiore, rappresenta il trionfo di Tiberio sui Sugambri (?).
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Il risultato di questo processo fu che la struttura dell’Impero romano divenne sempre più somigliante a quella delle monarchie ellenistiche. Rimasero tuttavia alcune differenze fondamentali. Il potere dell’imperatore romano si
gente degli Euganei, pp. 477 sgg.: Intorno alla conquista ed alla romanizzazione della Liguria e della Transpadana occidentale (Piemonte), e da G.E.F. CHILVER, Cisalpine Gaul. Social and Economic History from 49 B.C. to the Death of Trajan, Oxford, 1941, pp. 23 sgg., cf. 16 e 71 sgg., che non menziona PAIS. Cf. E. HOWALD e E. MEYER, Die römische Schweiz, Zürich, 1940, pp. 195 sgg. e F. STÄHLIN, Die Schweiz in römicher Zeit, Basel, 19312. Un’importante iscri-
zione di Augusta Praetoria («Not. d. scavi», 1894, p. 369; PAIS, loc. cit., p. 375 e tav. VIII), dedicata dai Salassi incol(ae) qui initio se in colon(iam) con(tulerunt) in onore di Augusto loro patrono (23-22 a.C.), mostra che appunto Augusto cominciò a incorporare le parti romanizzate delle stirpi alpine nelle colonie, cui le stirpi medesime erano attribuite. Il largo uso delle popolazioni alpine nella guardia pretoriana e nelle legioni (E. RITTERLING, in «Klio», 21 (1926 ), pp. 82 sgg.) ebbe per effetto un’ampia diffusione della civiltà romana e la concessione del diritto latino a quelle stirpi, e favorì la trasformazione dei loro abitati rurali in città. Questa trasformazione si compì a poco a poco: ma non a caso troviamo collegato il nome di Claudio sia con l’estensione del diritto latino alle stirpi alpine e ai loro centri urbani, sia con l’incorporazione degli incolae di una colonia romana, cioè dei membri d’una stirpe alpina, nella colonia medesima. Per il primo di questi casi è tipica la storia della stirpe euganea degli Octodurenses e Ceutrones (PAIS, loc. cit., 460 sgg., cf. intorno agli Euganei di Val Trompia e Val Camonica, ibid., 468 sgg.); per il secondo la concessione della cittadinanza romana agli Anauni nella città di Tridentum nel 46 d.C. (cf. l’editto di Claudio, C. I. L. V, 5050; DESSAU, I. L. S., 206, BRUNS, Fontes, 7a ediz., n. 79, p. 253; ABBOTT e JOHNSON, op. cit., p. 347, n. 49, cf. REID, op. cit., pp. 166 sgg.; PAIS, op. cit., 469 sgg. e passim). Questa trasformazione di gran parte dell’Italia settentrionale fu terminata dai Flavii (PAIS, loc. cit., p. 468), cf. però per Trieste C. I. L. V, 532 (Antonino Pio). La nostra documentazione relativa alla politica degli imperatori romani del I secolo d.C. è stata riassunta da A.N. SHERWIN-WHITE, Roman Citizenship, Oxford, 1939 e quella di Claudio da V.M. SCRAMUZZA, The Emperor Claudius, Cambridge Mass., 1940, pp. 129 sgg. Nella prima edizione di questo libro ho espresso l’opinione che la politica di Claudio in materia di cittadinanza non fosse quella di Cesare, anzi piuttosto la cauta politica di Augusto. Il primo imperatore che abbandonò la tradizione di Augusto fu Vespasiano. Il mio punto di vista è stato adottato da SHERWIN-WHITE e SCRAMUZZA. Dopo la pubblicazione di queste monografie è superfluo dare i riferimenti minuti così come ho fatto nella prima edizione di questo libro. Circa la concessione della cittadinanza agli incolae di Volubilis in Mauretania,
fatta da Claudio, vd. L. CHATELAIN, nei «C. R. Acad. Inscr.», 1915, p. 396: E. CUQ, nel «Journ. Sav.», 1917, pp. 480 e 538, e nei «C. R. Acad. Inscr»., 1918, p. 227, e ibid., 1920, p. 339; G. DE SANCTIS negli «Atti d. R. Accad. d. scienze di Torino», 53 (1918), pp. 451 sgg.; E. WEISS nella «Zeitschr. d. Savigny.-Stif.», 42 (1921), p. 639; R. CAGNAT e L. CHATELAIN, Inscriptions latines de l’Afrique (1923) n. 634; ABBOTT e JOHNSON, op. cit., p. 356, n. 53. Un’iscrizione di Volubilis recentemente scoperta menziona la medesima concessione della cittadinanza fatta da Claudio, vd. L. CHATELAIN nei «C. R. Acad. Inscr.», 1924, pp. 77 sgg.: muni(cipium) Volub(ilitanum) impetrata c(ivitate) R(omana) et conubio, et oneribus remissis (44 d.C.). Cf. L.A. CONSTANS nel «Musée Belge», 28 (1924), pp. 103 sgg.; WUILLEUMIER, nella «Rev. Ét. An.», 28 (1926), pp. 323 sgg.; G. DE SANCTIS, nella «Riv. di filol.», 53 (1925), pp. 372 sgg. Circa le colonie di Claudio vedi E. KORNEMANN, Colonia, «R. E.», IV, coll. 535 sgg. e RITTERLING, ibid., XII, pp. 1251 sgg.; per la Mauretania cf. E. CUQ nel «Journ. Sav.», 1917, p. 542. Circa la propensione di Claudio ad estendere la
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fondava, è vero, come quello dei monarchi ellenistici, sull’esercito; ma egli non era uno straniero, e il suo potere non s’appoggiava su soldati stranieri e mercenari. Egli era romano, membro della nazione dominante dell’Impero, era il primo tra i cittadini romani. Il suo era un esercito di cittadini romani e serviva, non l’imperatore personalmente, ma lo Stato romano e le divinità romane. L’imperatore invero era egli stesso una divinità, ma il suo culto aveva carattere meno personale di quello dei monarchi ellenistici: egli era una divinità soltanto finché governava lo Stato e in quanto lo governava; in lui s’impersonava la santità dello Stato. Dopo la sua morte egli poteva venire aggiunto al numero degli dei celesti, ma anche poteva non esservi aggiunto: tutto dipendeva dal modo con cui aveva governato lo Stato. Il reggimento della famiglia d’Augusto, dei Giulii e dei Claudii, terminò col suicidio di Nerone, causato da una rivolta militare, e sboccò in una guerra civile che infuriò per un anno, l’«anno dei quattro imperatori». Le cause di questa nuova crisi dello Stato romano non sono recondite. Il potere di Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone in realtà s’era fondato sull’esercito romano. Per forza di circostanze la parte decisiva nella nomina del nuovo imperatore toccava non all’esercito nella sua totalità, ma alla guardia pretoriana, ch’era stanziata a Roma e che prendeva parte attiva alla vita politica; e la scelta fatta dai pretoriani era generalmente accettata senza opposizione dagli eserciti provinciali. Questa prassi però a poco a poco degenerò in una specie di dittatura dei pretoriani, che concedevano il loro appoggio a chi voleva pagarlo. Allorché questo fatto fu diventato palese ad ognuno, in tutto l’Impero e specialmente fra i soldati stanziati nelle province si formò una atmosfera di invidia, di sospetto, di disgusto contro i pretoriani e le loro creature. Per giunta, gli ultimi imperatori della dinastia augustea trascurarono le loro relazioni con l’esercito e ben raramente comparvero tra le truppe. Essi divennero imperatori della città di Roma, quasi affatto sconosciuti ai soldati e alla popolazione civile d’Italia e delle province. Inoltre essi, per raccogliere il denaro occorrente alle loro spese personali e agli sperperi, con cui cercarono di assicurarsi il favore della guarnigione e della plebaglia di Roma, indubbiamente aggravarono troppo le province, mentre erano meno zelanti di Augusto e di Tiberio nel sorvegliare i loro funzionari provinciali e i governatori. Finalmente, la scandalosa vita privata degli imperatori, i loro delitti spaventevoli, la loro cinica condotta non s’accordavano al concetto che i Romani, e particolarmente i soldati degli eserciti provinciali, avevano del primo cittadino e capo dello Stato romano. Soprattutto Nerone, l’uccisore della madre e del fratello, l’istrione e l’auriga, l’imperatore che non
cittadinanza a molti provinciali vedi SENECA, Apoc., 3, 3; J.S. REID, op. cit., p. 191; H. DESSAU, Gesch. d. röm. Kaiserzeit, II, 152. Ma le affermazioni dell’Apocolocyntosis sono esagerate secondo lo spirito dell’opposizione senatoria. Nel concedere la cittadinanza e l’immunità a Volubilis, Claudio usò una circospezione che ci ricorda Augusto piuttosto che Cesare (cf. cap. II, nota 5); cf. anche la sua condotta di fronte agli Alessandrini e alle loro richieste d’avere un Consiglio civico e certi altri privilegi, H.I. BELL, op. cit. Il primo imperatore che veramente s’allontanò dalla tradizione augustea fu Vespasiano (sulle colonie militari di quest’imperatore vedi RITTERLING, loc. cit., p. 1273).
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aveva mai visitato gli eserciti e aveva sciupato tutta la sua vita tra la feccia urbana e i Greci, distrusse completamente il prestigio della dinastia augustea. Il movimento rivoluzionario militare degli anni 69-70 fu dunque la protesta degli eserciti provinciali e in genere della popolazione dell’Impero contro il degenerato reggimento dei successori d’Augusto. Esso cominciò sotto forma di una ribellione dei Celti contro la dominazione di Nerone, ma ben presto divenne rivolta degli eserciti di Spagna e di Germania contro l’imperatore. I soldati di Spagna proclamarono Galba imperatore di Roma. Riconosciuto dapprima dall’esercito e dal Senato, Galba fu ben presto messo a morte dai pretoriani, che vendettero la porpora a Ottone, intimo amico di Nerone. Contemporaneamente le legioni di Germania elevavano Vitellio, al quale riuscì di vincere Ottone e i pretoriani. Ma costui si mostrò assolutamente inetto a regger lo Stato e dovette affrontare un nuovo pronunciamento, questa volta in Oriente. Le truppe orientali dettero il potere imperiale a Vespasiano, che fu riconosciuto anche dall’esercito del Danubio: alcuni ufficiali, che operavano in suo nome, disfecero le forze di Vitellio. So bene che questa mia concezione della guerra civile del 69 d.C. non corrisponde all’opinione corrente. La maggior parte degli studiosi che si sono occupati dell’anno dei quattro imperatori sono infatti propensi ad ammettere come causa ultima di questa sanguinosa rivoluzione una specie di movimento separatista delle province e degli eserciti provinciali esprimenti i sentimenti dei provinciali. Ma io non vedo il minimo indizio che autorizzi a supporre tendenze separatiste nei soldati romani. Senza dubbio i Galli cercarono di mettere la rivoluzione a servizio delle loro vaghissime aspirazioni nazionali, ma il primo gesto dell’esercito romano fu precisamente quello di schiacciare, contro la volontà dei suoi comandanti, la rivolta locale dei Galli. Per giunta il nucleo principale dell’esercito romano era ancora formato dalle legioni, composte in gran parte d’uomini di origine italica, per lo più anzi nati ed allevati in Italia. È difficile credere che costoro avessero così facilmente dimenticato il loro passato, che avessero smarrito il sentimento d’essere i padroni delle province e pensassero ad imporre la volontà delle province nello Stato romano. Ciò che realmente avvenne è, come si è detto, che l’esercito romano dette sfogo al suo malcontento per la forma che il Principato aveva assunto con gli ultimi reggitori della casa giulio-claudia. I soldati dimostrarono che i padroni erano loro, e che niente li legava alla casa giulio-claudia. Essi desideravano che fosse princeps, primo personaggio dell’Impero e duce dell’esercito romano, il migliore Romano di classe senatoria: e in questo punto erano in perfetto accordo con la pubblica opinione della gran massa dei cittadini romani. Al pari di questi ultimi, neanche i soldati pensarono mai ad abolire il Principato, e si opposero con energia e risolutezza a tutti i tentativi di disintegrazione dell’Impero romano, fatti prima dai Celti della Gallia e poi da alcuni corpi ausiliari, composti per la maggior parte di Germani dell’esercito del Reno. In se stesso il movimento era una sana reazione contro la degenerata «tirannide» di Nerone, contro la sua scandalosa vita privata di despota orientale, contro la sua negligenza d’ogni dovere civile e militare, contro la sua aperta simpatia per tutto quel che non era romano, nel che egli era stato fedele, sebbene incosciente, seguace di Caligola. La lotta contro Nerone si trasformò a poco a poco in una
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vera guerra civile a motivo delle ambizioni politiche dei comandanti e dell’aspra rivalità esistente tra le varie sezioni dell’esercito romano6.
6. Intorno alla guerra civile del 69-70 vedi B.W. HENDERSON, Civil War and Rebellion in the Roman Empire, 1908; cf. N. FELICIANI, L’anno dei quattro imperatori, nella «Riv. di st. ant.», 11 (1906), pp. 3 sgg. e 378 sgg.; P. ZANCAN, La crisi del principato nell’anno 69 d.C., Padova, 1939; E. HOHL, Der Prätorianeraufstand unter Otho, «Klio», 32 (1939), pp. 307-324, nonché le opere generali indicate nella nota 1. Da certi fatti, come la condotta di Vindice e di Verginio Rufo, il giuramento prestato «al Senato e al popolo di Roma», da due legioni del Reno superiore ribellatesi a Galba, e il frequente uso fattosi nel 69 e posteriormente della parola libertas, che era stata adoperata già dallo stesso Augusto, e posteriormente al tempo di cui ci occupiamo fu usata tanto dal partito fedele agli imperatori quanto dall’opposizione, non si può legittimamente inferire che non pochi senatori ritenessero possibile farla finita col Principato e restaurare l’antico regime senatorio. Per la gran maggioranza della popolazione dell’Impero libertas significava il Principato costituzionale instaurato da Augusto: combattere per la libertas contro singoli principes voleva dire combattere contro la tirannide. La definizione di quest’ultima s’aveva a portata di mano nelle opere dei filosofi greci, specialmente in quelle della media Stoa (Panezio) rese popolari da CICERONE nel suo De Republica (vd. R. REITZENSTEIN nelle «Nachr. Ges. d. Wiss. Göttingen», 1917, pp. 399 sgg. e 481 sgg., cf. R. HEINZE in «Hermes», 59 (1924), pp. 73 sgg., e il REITZENSTEIN, ibid., pp. 356 sgg.; cf. anche lo scritto dello SCHOENBAUER citato nella nota 1 del cap. II). Tuttavia dobbiamo evitare ogni esagerazione. Dopo la morte di Caligola una considerevole frazione del Senato desiderò senza dubbio di metter fine al Principato: vedi DIO CASS., 60, I, 1 sg.; SUET., Cal., 60 e Claud., 11, 1: imperio stabilito nihil antiquius duxit quam id biduum, quo de mutando rei publicae statu haesitatum erat., memoriae eximere. L’idea certamente era ancor viva nel 69, ma non era abbastanza vigorosa da eccitare all’azione. Intorno al concetto di libertas nel primo penodo imperiale, vd. PH. FABIA in «Klio», 4 (1904), pp. 42 sgg.; E. KORNEMANN in GERCKE e NORDEN, Einleitung in die Altertumswissenschaft, III, 19142, pp. 274 sgg.; O.TH. SCHULZ, Das Wesen des röm. Kaisertums, 1916, p. 39. Il malcontento crebbe nelle province sotto Nerone a causa della pesante tassazione di quest’imperatore e specialmente della disonestà dei procuratori imperiali: è notevole che uno dei primi provvedimenti presi da Galba nella Spagna, appena proclamato imperatore, fu l’abolizione d’una tassa del due e mezzo per cento, verosimilmente la nota quadragesima Galliarum et Hispaniarum (C. I. L. XIV, 4708). Quadragensuma remissa dice la leggenda di alcune delle monete coniate da Galba nella Spagna: esse recano la figura di tre prigionieri che un ufficiale fa passare sotto una specie di arco. Credo che il Mattingly sia nel vero allorché nei tre prigionieri riconosce i procuratori di Nerone e riferisce la figurazione all’esecuzione di Obultronio Sabino e di Cornelio Marcello ordinata da Galba (TAC., Hist., I, 37), cf. la condotta generale di Galba verso i procuratori di Nerone (PLUT., Galba, 4); MATTINGLY, Coins of the R. E., 1923, p. CCIX. Cf. H. DESSAU, Gesch. d. röm. Kaiserz., II, p. 305, che rifiuta tacitamente la spiegazione del MATTINGLY. Cf. il comportamento dei veterani (e dei soldati delle legioni) in Egitto sotto C. Caecina Tuscus. Riguardo alle condizioni dell’Impero romano dell’epoca di Nerone, e specialmente dell’Egitto, si osservi come due papiri di Yale e del Cairo riflettano lo stato d’animo dei soldati e dei veterani stanziati in Egitto: C.B. WELLES, The Immunitas of the Roman Legionaries in Egypt, «J. R. S.», 28 (1938), pp. 41-49; cf. U. WILCKEN, nell’«Archiv f. Pap.-F.», 13 (1939), pp. 237 sgg.; L. WENGER, Zu drei Fragen aus dem römischen Zivilprozessrechte, «Zeitschr. d. Savigny-Stif.», 59 (1939), partic. pp. 376 sgg.: P. Yale 1528 e P. Fouad 21. Sulle relazioni tra i due vd. W.L. WESTERMANN, Tuscus the Prefect and the Veterans in Egypt (P. Yale Inv. 1528 and P. Fouad Ier 21), «Class. Philol.», 36 (1941), pp. 21-29 e A. Segré, P. Yale Inv. 1528 and P. Fouad 21, «J. R. S.», 30 (1940), pp. 153-154.
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Ma questa guerra civile venne rapidamente a termine sotto la pressione, possiamo ritenere, della pubblica opinione, specialmente dell’Italia, che fu il campo di battaglia degli eserciti contendenti ed era paese nativo della maggior parte dei soldati. Dobbiamo ricordare infatti che la maggior parte di queste truppe era ancor composta di Romani, cresciuti nello stesso ambito d’idee e d’abitudini dei borghesi e dei contadini italici, che parlavano ancora lo stesso buon latino che si parlava in Italia, e che esse s’incontrarono in Italia con non pochi veterani fedeli alle tradizioni dell’esercito augusteo. Possono addursi due prove del disgusto che tra costoro, come in generale tra la popolazione dell’Italia, suscitava la guerra civile: le togliamo dal mirabile quadro che di questa ci ha dato il più grande psicologo tra gli storici. Nelle sue Storie (III, 25) Tacito dice: «Uno Spagnuolo chiamato Giulio Mansueto, arruolato nella legione denominata rapax, aveva lasciato a casa un figliuoletto. Cresciuto, questi venne ascritto da Galba tra i soldati della settima legione; e, scontrato il padre sul campo di battaglia, lo atterrò. Mentre spogliava il moribondo, padre e figlio si riconobbero. Gettate le braccia intorno al corpo insanguinato, con voce rotta dalle lacrime il giovane implorò lo spirito paterno che si placasse e non volesse aborrirlo come parricida. Non io solo, gridò, ma tutti siamo colpevoli: un semplice soldato non è che una goccia d’acqua nell’oceano della contesa civile! Così dicendo sollevò il cadavere, scavò una fossa, e rese al padre gli estremi onori. Il fatto fu appreso da quelli ch’erano più vicini, poi da altri, finché per tutto l’esercito corse un senso di stupore e di orrore e si levarono imprecazioni contro quella guerra crudele. Tuttavia – soggiunge Tacito – essi non s’intiepidirono nel loro zelo di uccidere e spogliare amici, parenti, fratelli». Tacito giustamente rileva che i soldati, ad onta del loro sentimento di disgusto, continuarono a combattere; ma quel sentimento senza dubbio dovette andar crescendo, e a ricordare ai soldati la responsabilità ch’essi avevano della guerra e l’inutilità di continuarla valse certamente l’atteggiamento dei loro concittadini d’Italia verso essi e le loro gesta. Anche la seconda illustrazione la prendiamo da Tacito. Dopo una battaglia campale e un breve assedio, i partigiani di Vespasiano presero Cremona tra scene di orrore: saccheggio completo, stragi, stupri. Vivacissimo fu il risentimento dell’Italia per questo delitto. «Antonio – dice Tacito – vergognandosi di tali atrocità e ben conoscendo la crescente riprovazione pubblica, vietò che alcun cittadino di Cremona fosse tenuto prigioniero di guerra; in realtà siffatte prede avevano già perduto ogni valore per i soldati, giacché per tutta l’Italia era corsa l’intesa di non comperare di questi schiavi. Allora i soldati si dettero a massacrare i loro prigionieri, costringendo così, allorché la cosa divenne nota, i loro amici e parenti a riscattarli segretamente» (Hist., III, 34). È chiaro, dunque, che la guerra civile del 69-70 fu essenzialmente un moto politico; ma si complicò anche con altri moventi, che lo resero assai pericoloso per l’avvenire dell’Impero. L’asprezza e ferocia della lotta, la tragedia del sacco di Cremona, il massacro in massa dei ricchi, perpetrato in Italia ed a Roma7 dai soldati così vincitori come vinti, mostrano che anche tra i soldati
7. TAC., Hist., I, 85: non tamen quies urbi redierat: strepitus telorum et facies belli, militibus ut nihil in commune turbantibus, ita sparsis per domos occulto habitu et maligna
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legionari, a tacere degli ausiliari, esisteva un crescente sentimento d’ostilità contro la classe dirigente d’Italia e contro i suoi campioni, i pretoriani, che rappresentavano la popolazione, specialmente borghese, delle città italiche. Non dobbiamo dimenticare che al termine della guerra civile Vespasiano ridusse a poco a poco il numero dei legionari levati in Italia, non esclusa l’Italia settentrionale. mostra che non era tutto in ordine nell’esercito romano. C’era un’allarmante mancanza di disciplina tra i soldati tanto delle coorti pretorie che delle legioni. La scomparsa delle due qualità fondamentali dei soldati romani – virtus e modestia – fu attribuita da Tiberio, nel suo famoso discorso al senato dove deplorava in generale la condizione dell’esercito romano, al sistema di reclutamento su base volontaria: nam voluntarium militem deesse ac, si suppeditet, non eadem virtute ac modestia agere, quia plerumque inopes ac vagi (proletari senza fissa dimora) sponte militiam sumant (TAC., Ann., IV, 4). È probabile che avesse ragione. Questo è il motivo per cui gli imperatori prima di Vespasiano senza passare alla coscrizione ricorrevano al reclutamento dei legionari nell’Italia settentrionale, nella Gallia romanizzata e nella Spagna. Vespasiano, che conosceva bene l’esercito romano, non poteva ignorare questo fatto. Si spiega così perché egli abbia fatto un ulteriore passo verso il reclutamento del suo esercito legionario non in Italia ma nelle province, riducendo anche il numero dei soldati reclutati nella Gallia Cisalpina. Egli credeva, ed aveva probabilmeute ragione, che i soldati presi dalle città provinciali romanizzate rappresentassero non l’inaffidabile e indisciplinato proletariato ma persone rispettabili e solide che avrebbero continuato le tradizioni militari del passato romano. La Gallia Cisalpina non veniva trascurata, dal momento che tali elementi erano meglio rappresentati qui che nell’Italia centrale e meridionale. Il sistema di reclutamento delle coorti pretorie non fu né poteva essere cambiato, ma la turba riottosa dei pretoriani di Vitellio fu gradualmente eliminata, probabilmente fu ridotto il numero delle coorti (da 16 a 9 a o 10) e probabilmente le nuove reclute non furono mai selezionate con cura all’interno della giovane generazione della borghesia municipale. Il reclutamento non cessò mai del tutto in Italia,
neppure dopo Adriano; ma le legioni romane dei Flavii e di Traiano non erano più le rappresentanti della cittadinanza romana dell’Italia: in massima parte i soldati erano ormai cittadini romani, sì, ma delle province romanizzate8. Era
cura in omnes, quos nobilitas aut opes aut aliqua insignis claritudo rumoribus obiecerat. Ibid., II, 56: ceterum Italia gravius atque atrocius quam bello adflictabatur. dispersi per municipia et colonias Vitelliani spoliare, rapere, vi et stupris polluere […] ipsique milites regionum gnari refertos agros, dites dominos in praedam aut, si repugnatum foret, ad excidium destinabant […]; cf. 62: exhausti conviviorum apparatibus principes civitatum; vastabantur ipsae civitates, e IV, 1: nec deerat egentissimus quisque e plebe et pessimi servitiorum prodere ultro dites dominos; alii ab amicis monstrabantur. Cf. TH. MOMMSEN, Ges. Schr., VI, p. 38. 8. Com’è noto, il Mommsen (Ges. Schr., VI, pp. 36 sgg.) dalle notizie sul luogo d’origine contenute nelle iscrizioni sepolcrali di veterani dell’età vespasianea, e specialmente di soldati della legio I Adiutrix, ha concluso che Vespasiano avrebbe escluso gli Italici dal servizio militare. Quest’affermazione è troppo spinta. Il RITTERLING, «R. E.», XII, col. 1386 (cf. anche «Westd. Zeitschr.», 12 (1893), pp. 105 sgg.), ha dimostrato essere
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questo forse un privilegio concesso all’Italia, che non aveva dato favore a Vespasiano nella sua lotta per il potere? Era il riconoscimento dell’incapacità dell’Italia a fornire alle legioni un numero sufficiente di soldati? Io inclino piuttosto a credere che la causa vada cercata altrove.
assai verosimile che il prevalere dell’elemento illirico tra i soldati della I Adiutrix defunti a Magonza si debba attribuire al fatto che questi uomini erano stati un tempo soldati di marina, e che, com’è noto, questa legione fu costituita nel 68 d.C. con personale preso dalle ciurme. D’altra parte, le liste di soldati con l’indicazione del luogo di nascita compilate dal Ritterling, mostrano indubbiamente che il numero dei soldati reclutati in Italia – non esclusa la settentrionale – andò a poco a poco scemando, sicché l’esercito di Domiziano, e soprattutto quello di Traiano, risultò composto principalmente di soldati nati nelle province, con una piccola certa mistura di Italici settentrionali. Questo processo è ottimamente illustrato dalla storia della legio XV Apollinaris. Essa agli inizi del sec. I e fino alla metà del governo di Nerone aveva la sua sede a Carnuntum: possediamo per questo periodo molte inscrizioni di soldati ad essa appartenenti, e quasi nessuno di essi è provinciale. La medesima legione fu stanziata una seconda volta a Carnuntum dopo il 69, sotto i Flavii e Traiano; abbiamo nuovamente un gruppo d’iscrizioni: alcuni dei soldati cui esse si riferiscono sono ancora italici, ma la maggior parte sono nati in provincia, e propriamente nelle città della regione (vd. RITTERLING, loc. cit., pp. 1752 e 1758). Identico è il caso di Vindonissa, dove sono attestati centurioni dell’Italia settentrionale. Non fu prima della fine di questo secolo che nella legio XI Claudia Pia Fidelis fanno la loro comparsa, insieme a soldati dell’Italia settentrionale, un numero sempre crescente di soldati dalla Gallia: vedi HOWALD e MEYER, Die römische Schweiz, Zürich, 1940, p. 283. Cf. H.
DESSAU, Gesch. d. röm. Kaiserz. I, p. 288; H.M.D. PARKER, The Roman Legions (1928), pp. 178 sgg.; R. PARIBENI, Optimus Princeps, I, 1928, pp. 59 sgg. E tuttavia l’Italia offriva ancora grande facilità di reclutamento, come è dimostrato dal fatto che nel 66 o 67 Nerone non trovò alcuna difficoltà a creare una nuova legione (I Italica) di sole reclute italiche. L’ambiente sociale cui queste nuove reclute appartenevano risulta manifesto dalla promessa fatta da Nerone ai marinai di arruolarli in una nuova legione (I Adiutrix), promessa che poi Galba fu costretto a mantenere. Lo stesso fece Vespasiano, sotto l’Im-pero delle circostanze, per la II Adiutrix (RITTERLING, «R. E.», XII, pp. 1260 e 1267). Il RITTERLING (loc. cit.) suppone che anche le due nuove legioni di Vespasiano siano state reclutate per la maggior parte in Italia: ma questa naturalmente è mera congettura. Nel sec. II rimasero le stesse condizioni. È noto che M. Aurelio poté raccogliere in Italia due nuove legioni, la II Pia e la III Concors, entrambe soprannominate Italica (RITTERLING, loc. cit., pp. 1300 sg.; J. SCHWENDENMANN, Der historische Wert der Vita Marci bei den S. H. A. (1923), pp. 43 sgg.; C. I. L., VI, 1377; DESSAU, I. L. S., 1098). Se, dunque, agli Italici non difettava la volontà d’entrare nelle file dell’esercito, il fatto ch’essi da Vespasiano in poi a poco a poco scompaiono dalle legioni è significativo ed indica una speciale tendenza degli imperatori. Contro il mio punto di vista G.E.F. CHILVER, Cisalpine Gaul. Social and Economic History from 49 B.C. to the Death of Trajan, Oxford, 1941, e A. PASSERINI, Le coorti pretorie, Roma, 1939, pp. 164 sgg. Secondo il loro punto di vista ci fu un processo graduale e un passo decisivo da parte di Vespasiano. I dati della legio XV Apollinaris vanno in senso contrario. Certamente il processo iniziò presto, ma sino a Vespasiano i provinciali erano un’eccezione, una minoranza, dal momento che rimanevano nelle coorti pretorie. Dopo Vespasiano è vero il contrario. E certamente la maggioranza degli italici nelle legioni erano proletari. La situazione nella Cisalpina sotto questo profilo all’epoca era differente. I cittadini romani mantenevano di più lo spirito puritano del
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Come abbiamo visto, le legioni romane di regola non erano reclutate coattivamente, ma mediante arruolamento volontario. Già i predecessori di Vespasiano avevano preferito nel reclutamento l’Italia settentrionale alla centrale e meridionale. La ragione di questo fu fornita da Tiberio nel suo discorso citato sopra. Il fatto che Vespasiano, contrariamente alla pratica invalsa, escluse dalle legioni i abbia ridotto il numero dei volontari italici, ammettendoli soltanto nelle coorti pretoriane, mostra che qui non si trattava di un privilegio largito all’Italia. Come si spiega allora questo provvedimento? Io inclino a ritenere che Vespasiano, il quale doveva conoscere a fondo la storia e le cause della guerra civile, sia rimasto spaventato delle aspirazioni e dello stato d’animo mostrati dai volontari italici. Egli dovette desiderare di non avere nelle legioni soldati nati in Italia perchè essi in massima gran parte provenivano dalle file dei più riottosi malcontenti e infiammabili elementi della popolazione, dal proletariato urbano e rurale d’Italia. V’era pericolo che l’esercito ridiventasse un corpo armato di cittadini proletari di Roma, com’era stato negli ultimi tempi della repubblica, e rinnovasse l’età delle guerre civili. Sembra infatti È una plausibile congettura che gli elementi italici migliori riuscissero ad assicurarsi i posti migliori nell’esercito accedendovi per il tramite del servizio prestato nella guardia pretoriana, e che soltanto la parte più povera della popolazione italica servisse nelle legioni. Mentre riduceva il numero dei volontari italici, Vespasiano lasciò immutata la costituzione del corpo degli ufficiali e della guardia pretoriana, ma dette la prevalenza nelle legioni ai provinciali. Vedremo in seguito che questa interpretazione s’accorda ottimamente con l’attività svolta in generale da Vespasiano nelle province occidentali. I soldati tratti dalle città provinciali romanizzate rappresentavano non già il proletariato, ma la classe elevata della popolazione provinciale.
passato e gli indigeni non erano ancora abbastanza romanizzati. I soldati della Gallia Cisalpina non erano proletari. Ma per una corretta valutazione dei pretoriani vedi PASSERINI, op. cit., p. 167 contro M. DURY, Les Cohortes prétoriennes, Paris, 1938, pp. 252 sgg. Si
deve ricordare che secondo gli SCR. HIST. AUG., M. Aur., 11, 7 e Hadr., 12, 4, sotto Nerva, Traiano, Adriano, M. Aurelio gli oneri del reclutamento pesavano più gravemente non sull’Italia (salvo la regio Transpadana) ma su quegli abitanti della Spagna che già anteriormente godevano o avevano ricevuto da Vespasiano la cittadinanza romana o italica, vale a dire su provinciali romanizzati. È dunque manifesto che i Flavii e gli Antonini, per quanto avessero urgente bisogno di soldati romanizzati, tuttavia in generale si astennero dal servirsi dell’Italia come di zona di reclutamento, e preferirono aggravare la regione settentrionale della penisola e le parti romanizzate delle province occidentali. Cf. cap. IV, nota 34. Il mio punto di vista in merito al sistema di reclutamento di Vespasiano non è stato accolto dalla maggior parte degli studiosi modemi che hanno studiato il problema dopo la pubblicazione del mio libro; cito l’esempio di H. LAST, nella C. A. H., XI, pp. 393 sgg., di R. SYME, ibid., p. 134, e di A. PASSERINI, Le coorti pretorie, Roma, 1939, p. 162. Essi ipotizzano tutti un processo graduale di provincializzazione dettato da varie motivazioni non politiche. Ma il caso della legio XV Apollinaris suggerisce che la graduale provincializzazione dell’esercito che iniziò nel primo Principato fu accelerata da Vespasiano e che il ruolo di Vespasiano sotto questo profilo rappresenta un momento di rottura.
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Sorge tuttavia un quesito: come si spiega l’esistenza d’un proletariato relativamente numeroso in Italia? Per potervi rispondere, dobbiamo investigare i mutamenti avvenuti nella vita italica per effetto dello sviluppo economico avveratosi nell’Impero sotto i Giulio-Claudii. Non è facile confrontare le condizioni economiche vigenti sotto Augusto con quelle che furono peculiari al periodo dei Giulii e Claudii; ancor più difficile è segnare un confine tra quest’ultimo periodo e quello dei Flavii: ma è necessario fare questa distinzione, senza cui non riusciremmo a capire l’evoluzione della vita economica dell’Impero romano. Dobbiamo riflettere che tra la morte di Augusto e l’elevazione di Vespasiano passò oltre mezzo secolo, e che mezzo secolo è lungo, specialmente in un periodo così ricco di avvenimenti e di fenomeni nuovi come fu il sec. I dell’era nostra. Le difficoltà, che s’incontrano nell’investigare le condizioni economiche dell’età giulio-claudia, nascono dal carattere delle nostre fonti e dalla scarsità delle loro notizie. Gli storici non si interessavano della vita economica dell’Impero. La nostra seconda sorgente d’informazioni – i moralisti e gli scrittori scientifici – contiene materiali più utili: ai primi, infatti, le condizioni economiche del sec. I fornivano una buona illustrazione della perversità morale dei loro contemporanei, mentre i secondi o s’occupavano direttamente di problemi economici o erano indotti a menzionare fatti economici nel trattare argomenti scientifici. Così, mentre Tacito, Svetonio, Cassio Dione non ci danno che pochissime notizie sulla situazione economica dell’Impero tra il 14 e il 70 d.C., dati importanti ci son forniti da scrittori come i due Seneca, Persio, perfino Lucano, e soprattutto Petronio da un lato, Plinio il Vecchio e Columella dall’altro. Pur troppo però nessuno finora si è proposto di raccogliere e interpretare questi dati, tranne per Petronio e Columella9. Chi voglia studiare la vita economica di questo periodo può inoltre trarre giovamento da un’accurata investigazione delle iscrizioni e del materiale archeologico, specialmente da quello che offre Pompei. Nei limiti di questo libro è impossibile affrontare un’indagine cosi ampia, e debbo restringermi ad esporre l’impressione su me prodotta dalla reiterata lettura di tutte le fonti suindicate. A prima vista sembrerebbe non esservi stata alcuna differenza tra le condizioni economiche del periodo augusteo e quelle dell’età giulio-claudia. Nel rappresentare quest’ultimo periodo, involontariamente incliniamo ad usare promiscuamente Virgilio, Orazio, Tibullo, Properzio, Ovidio da un lato, e Persio, Petronio, Seneca, Plinio dall’altro, nonché g1i scrittori del periodo flaviano, tanto latini quanto greci. In realtà è vero che i principali fenomeni non mutarono: la differenza consiste nel grado del loro sviluppo e nella comparsa d’alcuni fattori nuovi. La condotta degli imperatori nei riguardi della vita economica, la loro politica economica, o piuttosto la mancanza di questa politica, rimase quella di prima: continuò a prevalere la politica del laissez-faire. In occasione di
9. Su Petronio vd. l’opera di I. GREAVES citata al cap. II, nota 16. Su Columella, vd. H. GUMMERUS, Der römische Gutsbetrieb, «KIio», Suppl. 5 (1916): G. CARL, Die Agrarlehre Columellas, «Vierteljahresschrift f. Sozial u. Wirtschaftsg.», 19 (1926), pp. 1 sgg.
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grandi catastrofi lo Stato sentiva certamente d’esser tenuto a soccorrere le vittime, per esempio dopo il grande terremoto che sotto Tiberio sconvolse l’Asia Minore; si presero provvedimenti che possono aver avuto una certa influenza sulla vita economica in generale, per esempio quelli che migliorarono il sistema di riscossione delle imposte, o ne introdussero nuove, quelli relativi alle condizioni dei trasporti, e così via. Ma tali provvedimenti ogni volta erano presi per fini meramente fiscali; miravano a rinvigorire le finanze dello Stato, non a migliorare o ricostruire le condizioni economiche. La vita economica si svolgeva quasi senza alcuna perturbazione causata da intervento dello Stato: i suoi caratteri principali eran sempre quelli dell’età augustea, diventati però più precisi per effetto del libero giuoco delle forze naturali. Il più importante tra questi caratteri fu il graduale risorgere della vita economica delle province: risurrezione, questa, che nell’Oriente fu veramente notevole. Uno sguardo anche superficiale alle rovine delle città, e un rapido esame dell’epigrafia dell’Asia Minore e della Siria, bastano a dimostrare quanto siano stati rapidi i progressi economici dell’Oriente sotto Augusto e ancor più sotto i successori di lui10. Anche le province occidentali, e specialmente la Gallia, la Spagna, l’Africa, ritrovarono l’antica attività economica, ch’era stata arrestata prima dalla conquista e poi dalle guerre civili. Uno fra gli indizi di tale rinascita era il rapido incremento della vita urbana, promosso bensì dagli imperatori ma causato principalmente dal naturale sviluppo di questi paesi. Nella Spagna e in Africa, per lo meno, l’urbanizzazione non faceva che continuare un processo evolutivo iniziatosi già lungo tempo prima del dominio romano. La Spagna era sempre stata un paese di città, non meno dell’Italia e della Grecia. In Africa l’urbanizzazione era stata già attuata in larga misura dai Cartaginesi e
10. È impossibile citare tutte le testimonianze che si hanno relativamente al rapido sviluppo della prosperità delle province orientali; ma si può ricordare un esempio, quello di Prusa in Bitinia, la città natale di Dione Crisostomo. Dalle orazioni bitiniche di questo scrittore, e specialmente dall’Or. 46, conosciamo più o meno esattamente la storia economica della città quale si rispecchia nelle vicende della famiglia di Dione (cf. H. VON ARNIM, Leben und Werke des Dio von Prusa, 1898, pp. 116 sgg.). Il rapido sviluppo di questa città non è anteriore all’Impero. Il patrimonio della famiglia di Dione, sia della linea paterna sia della materna, fu costituito soltanto nei primi anni del sec. I d.C. Esso venne scemando dal tempo dell’avolo a quello del padre di Dione, poi crebbe sotto l’amministrazione del padre e di Dione medesimo. Era il tipico patrimonio del borghese del primo periodo imperiale (Or., 46, 6 sgg.). Era costituito principalmente di terreni, che anticamente erano stati coltivati per lo più a grano. Sotto l’amministrazione di Dione (il mutamento del resto può anche risalire a suo padre) le terre da grano furono piantate quasi interamente a vigneto. Insieme con la viticoltura, l’allevamento del bestiame era una delle fonti importanti delle rendite di Dione: la produzione del grano venne ridotta al minimo. Si vede qui l’influenza dei trattati d’agricoltura metodica. Come fonte secondaria di reddito, Dione era impegnato anche in affari di prestiti di denaro e di costruzione ed organizzazione di officine (ejrgasthvria), che certamente facevano parte delle sue case di città. Nel sec. I d.C. non v’è adunque differenza tra l’Italia e l’Asia Minore per ciò che riguarda le tipiche attività economiche della borghesia urbana.
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dagli indigeni viventi sotto il governo cartaginese e sotto i re di Numidia e di Mauretania11. Nei riguardi economici, l’urbanizzazione implicava la formazione d’una borghesia cittadina, d’una classe di possidenti, mercanti, industriali, che dimoravano in città e vi svolgevano intensa attività economica con indirizzo capitalistico. L’urbanizzazione significava quindi in Africa la reintroduzione, in molte parti della Gallia e della Spagna l’introduzione, di un’economia capitalistica simile a quella che prevaleva in Italia e in Oriente. Nell’agricoltura ciò importava il passaggio dalla fattoria contadinesca all’azienda dei grandi proprietari che gestivano le loro tenute metodicamente e su basi capitalistiche; e importava anche la tendenza a sostituire ai cereali altri tipi più redditizi di coltivazione, specialmente quella della vite e dell’olivo. Questa non era affatto una novità per considerevoli porzioni dell’Africa e della Spagna, nonché per le città greche della Gallia: senonché il loro naturale sviluppo in questa direzione era stato arrestato prima dall’egoismo dei magnati agrari del sec. II a.C., poi dalle guerre civili del sec. I. Sotto Augusto e i suoi successori, la viticultura e l’olivicoltura si svilupparono rapidamente, la prima specialmente in Gallia, la seconda principalmente nella Spagna e più tardi in Africa. Il ritmo di tal progresso fu accelerato da quell’emigrazione di Italici nelle province occidentali, che è stata descritta nel I capitolo12.
11. I progressi fatti dall’urbanizzazione nei regni di Numidia e di Mauretania fin da quando essi erano ancora Stati vassalli di Roma sono esposti da ST. GSELL, Hist. de l’Afrique, V, 1927, pp. 223 sgg., VII, 1928, pp. 123 sgg.; VIII, 1928, pp. 206 sgg. È un grande errore parlare della vita urbana nelle province occidentali come d’una creazione artificiale degli imperatori romani. La vita urbana non si creava con l’invio di una colonia, o con la concessione dei diritti delle colonie romane o latine o dei municipi romani: questi atti presupponevano l’esistenza della vita urbana prima che la colonia fosse inviata o fossero concessi quei privilegi. In tal guisa si effettuò indubbiamente l’urbanizzazione della Spagna (J.S. REID, op. cit., p. 243); cf. cap. VI. Il merito maggiore degli imperatori romani fu d’aver creato condizioni economiche e politiche tali da favorire la vita urbana in paesi dov’essa esisteva soltanto in germe. Ciò facendo, essi certamente si proponevano qualche scopo pratico (amministrazione e reclutamento piu agevoli, miglior gettito delle imposte ecc.). Perfino in Britannia i Romani trovarono già esistenti germi di vita urbana, e fecero del loro meglio per aiutare gli indigeni e gli immigrati dall’Italia e dalle province a svilupparli. 12. L’incremento preso nel sec. I d.C. in Gallia dalla viticoltura è attestato dal fatto che da quel secolo in poi si esportò vino gallico in Irlanda da molti fatti raccolti da A. GRÉNIER, La Gaule romaine, in T. FRANK, An Economic Survey of Ancient Rome, III, Baltimore, 1937, pp. 584 sgg. sull’esportazione di vino gallico verso l’Irlanda. Quest’isola
fu nota ai mercanti gallici sin dall’età augustea, e si trovava in relazioni dirette coi porti occidentali della Gallia. Vd. ZIMMER, nei «Sitzb. Berl. Akad.», 1909, pp. 370 sgg., cf. pp. 430 sgg.; E. NORDEN, Die germanische Urgeschichte in Tacitus’ Germania, terza ristampa, 1923, p. 439, e IDEM, Philemon der Geograph, «Janus», 1 (1921), pp. 182 sgg. Cf. però F. HAVERFIELD, nella «Engl. Hist. Rev.», 1913, pp. 1 sgg. e J.G.C. ANDERSON, Cornelii Taciti de Vita Agricolae, ed H. FURNEAUX (19222), introd. p. XLIX e nota al cap. XXIV, § 2.
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Altro fenomeno dello stesso tipo fu la graduale migrazione dell’industria verso la provincia. Sin da tempi antichissimi la Gallia aveva dimostrato straordinarie attitudini industriali. Sotto il governo romano essa continuò in larga misura su questa via, e ben presto si rivelò concorrente pericolosa dell’Italia nella produzione di articoli per lo più caratteristicamente italici, come vasi di creta a rilievi e manufatti metallici. Il mirabile sistema dei fiumi gallici e gli antichissimi rapporti della Gallia con la Britannia e la Germania rendevano agevole e proficuo il rapido sviluppo dell’industria gallica, come attestano in modo eloquente i trovamenti fatti or non è guari a Graufesenque e Lezoux nella Gallia meridionale. I prodotti italici cominciarono a scomparire dai mercati celtici e germanici13. Anche lo sviluppo del commercio assunse a poco a poco aspetti nuovi e inaspettati, specialmente in Oriente. Abbiamo già visto come il commercio con l’Arabia e con l’India, aggirantesi quasi esclusivamente su oggetti di lusso, avesse cominciato ai tempi di Augusto ad avere una parte importante nelle relazioni commerciali dell’Impero romano, e come la spedizione di Elio Gallo fosse stata suggerita in parte dalla necessità di proteggere questo crescente traffico. Questo continuò a svilupparsi costantemente sotto i Giulio-Claudii. La corrente principale del commercio indiano e central-asiatico si dirigeva dall’India all’Egitto o direttamente o per l’Arabia e si concentrava ad Alessandria. Nell’età ellenistica e romana Petra fu il grande centro commerciale dell’Arabia settentrionale. Nella più antica età ellenistica le merci indiane e arabiche andavano da Petra in Egitto per Leuke Kome, Aila, o Gaza. Posteriormente, quando la Siria e la Fenicia furono passate sotto i Seleucidi, questi si adoperarono a deviare il commercio arabico verso i porti della Palestina, della Fenicia, della Siria, e soppiantare così i loro rivali egiziani. A tal fine favorirono le antiche colonie militari paleoellenistiche della Transgiordania, specialmente Filadelfia nel paese degli Ammoniti (Rabbath-Ammon), Antiochia in quello dei Geraseni, Berenice, Gadara, Dion, e tentarono di farne regolari città carovaniere, che proteggessero
13. La storia della «terra sigillata» dell’Italia meridionale in Gallia nel sec. I è stata fatta più volte e non occorre ripeterla. È singolare vedere come la ceramica gallica realmente abbia ucciso l’importazione italica in Gallia, in Britannia, in Germania, nelle province danubiane, vd. H. GUMMERUS, «R. E.», IX, coll. 1475 sgg., cf. R. KNORR, Töpfer und Fabriken der verzierter Terra-Sigillata des I. Jahrhunderts, 1919, IDEM, Verzierte Sigillata des ersten Jahrhunderts mit Töpfernamen, in Schumacher Festschrift, Mainz, 1930, pp. 309-313 e la bella e completa disamina della storia della sigillata in Gallia da parte di A. GRÉNIER, La Gaule romaine, in T. FRANK, An Economic Survey of Ancient Rome, III, Baltimore, 1937, pp. 540-562. Per le lucerne, vd. S. LOESCHKE, Lampen aus
Vindonissa. Ein Beitrag zur Geschichte von Vindonissa und des antiken Beleuchtungswesens, 1919. Un brillante quadro generale s’ha in K. SCHUMACHER, Siedelungs- und Kulturgeschichte der Rheinlande, vol. II, 1923, pp. 262 sgg. La prova più decisiva della rapida diffusione della ceramica gallica è l’essersi scoperte a Pompei una o due casse piene di prodotti tra i migliori di La Graufesenque nella Gallia meridionale, e l’essersi trovate ceramiche identiche, con gli stessi ornamenti e le stesse impronte di fabbrica, a Rothweil Rottweil sul Neckar: vd. D. ATKINSON, A Hoard of Samian Ware from Pompeii, «J. R. S.», 4 (1914), pp. 27-64 e GRÉNIER, op. cit., p. 547 (R. KNORR, op. cit., p. 8).
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le carovane provenienti da Petra fino al loro arrivo a Damasco e ai porti siriaci. I Seleucidi non ebbero però mai completo successo: Petra rimase fedele ai Tolomei. Ma le condizioni cambiarono con l’inizio della signoria romana. Sotto la protezione di Pompeo le città greche della Transgiordania, la maggior parte delle quali erano state distrutte dal fanatismo di Alessandro Janneo (102-76 a.C.), ebbero una ripresa, ma non rifiorirono veramente se non verso la fine del sec. I. La pace e la sicurezza stabilite dall’Impero permisero loro di attrarre durevolmente verso i porti siriaci e fenicii una buora parte del commercio petreo, senza tuttavia danneggiare considerevolmente Alessandria14. Fin da tempi antichissimi il commercio indiano e centralasiatico si svolgeva anche per un’altra via, vale a dire per le vallate del Tigri e dell’Eufrate. Nel tardo periodo ellenistico le ostilità tra Parti e Seleucidi, e poi tra Parti e Romani, nonché l’anarchia dominante sull’Eufrate, concorsero a far sì che i trasporti provenienti dal Golfo Persico e dalla Persia rinunziassero a quest’antica strada e fossero costretti ad avviarsi trasversalmente per il deserto a Petra. Nel sec. I d.C., dopoché i Romani ebbero trovato un modus vivendi coi Parti, le cose mutarono d’aspetto. La via dell’Eufrate era ora di bel nuovo aperta. Il piccolo villaggio di Palmira, abitato da una tribù aramaica, capì il grande vantaggio della sua posizione, a mezza strada tra l’Eufrate e Damasco, in prossimità d’una delle poche sorgenti del deserto. Riuscì a Palmira, certamente d’accordo e colla protezione dei Romani e dei Parti, di unificare le tribù del circostante deserto e creare condizioni tali da garantire alle carovane provenienti da Seleucia-Ctesifonte quella sicurezza, che non esisteva più a settentrione, sul corso superiore dell’Eufrate. Ai tempi della fonte di Strabone, Palmira in realtà non esisteva ancora; sotto Augusto e Tiberio essa edificava già uno nel tardo I secolo a.C. Palmira costruì un magnifico tempio a Bel, che fu sostituito all’epoca di Tiberio da un altro molto più grande e molta più ambizioso, uno dei più bei templi della Siria, diventan-
do, sotto la doppia protezione dei Parti e dei Romani, una grande e ricca città carovaniera con belle strade e piazze e ragguardevoli edifici pubblici15.
14. Per Petra e le città a oriente del Giordano vd. la bibliografia data al cap. V, nota 4. Sul commercio in part., vd. H. GUTHE, Die griechisch-römische Städte des Ostjordanlandes, «Das Land der Bibel», II, 5 (1918), [e A. KAMMERER, Pétra et la Nabatène, 1930]. Gli scavi recentissimi fatti eseguire a Gerasa dal governo della Transgiordania e dall’Università di Yale hanno dimostrato che i più antichi monumenti della città romana risalgono all’età di Tiberio; sotto i Flavii osserviamo una molto intensa attività edilizia: sicché il rigoglio di essa non fu merito esclusivamente di Traiano. Vd. le iscrizioni rinvenute recentemente a Gerasa in A.H.M. JONES, Inscriptions from Jerash, «J. R. S.», 18 (1928), pp. 144 sgg. [e 20 (1930), p. 43 sgg.]. Per ciò che riguarda lo sviluppo del commercio di Petra nell’età ellenistica richiamo anche qui (cf. «Arch. f. Pap.-F»., 4 (1908), p. 306, nota 1) l’attenzione sul decreto onorifico di Priene per Moschion (129 a.C.). Quest’ultimo si recò, verosimilmente per affari commerciali, ad Alessandria e a Petra (I. v. Priene, 108, col. V, 163 sgg.). Un altro viaggio dello stesso genere in Siria è menzionato in ibid., 121, 49. Intorno al commercio svoltosi nel tardo periodo tolemaico con la Somalia, vd. U. WILCKEN, nella «Zeitschr. f. äg. Spr.», 60 (1925), pp. 90 sgg. 15. Sul commercio di Palmira in generale vedi la biliografia al cap. V, nota 20. Sul tempio arcaico di Bel a Palmira: H. SEYRIG, Antiquités Syriennes 32. Ornamenta Palmyrena
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Tuttavia il giro del commercio orientale era così vasto, che l’apertura della strada Petra-Transgiordania-Damasco e la riapertura della strada di Palmira non poterono rovinare Alessandria. Il traffico marittimo dell’Egitto con l’Arabia e per questa con l’India conservò l’antica importanza. Il rapido sviluppo di esso è illustrato da un libro interessante, il Periplus Maris Erythraei, scritto da un mercante alessandrino ai tempi di Domiziano, e dalle notizie di Plinio il Vecchio16. D’altra parte, copiosi trovamenti di monete romane, fatti
antiquiora, «Syria», 21 (1940), pp. 277-328 e IDEM, Antiquités Syriennes 34. Sculptures palmiréniennes archaïques, «Syria», 22 (1941), pp. 31-44. La protezione del commercio lungo la strada dell’Eufrate è attestata da tre iscrizioni che menzionano per il tardo I sec. d.C. due ufficiali romani che erano uno curator e l’altro praefectus ripae Euphratensis. Vedi H. SEYRIG, Antiquités Syriennes 38. Inscriptions de l’agora de Palmyre, «Syria», 22 (1941), pp. 236-240, nn. 6 e 7 (curator ripae superioris et inferioris) e DESSAU, I. L. S., 2709 (praefectus ripae Euphratis): cf. J.F. GILLIAM, The Dux Ripae at Dura, «Trans. Amer. Phil. Ass.», 72 (1941), pp. 157-175. L. FRIEDLAENDER e G. WISSOWA, Sitteng. Roms, vol. I,
19199, p. 375; M.P. CHARLESWORTH, Trade-routes and Commerce of the R. E., 1924, pp. 48 sgg.; [H. SCHAAL, Vom Tauschhandel zum Welthandel, 1931, p. 131 sgg.; ROSTOVTZEFF, Les Inscriptions caravanières de Palmyre, nei Mélanges Glotz, II, 1932, pp. 793 sgg.; IDEM., The Caravan Gods of Palmyra, «J. R. S.», 22 (1932), pp. 107 sgg.; IDEM, The Caravane Cities: Petra and Jerash, Palmyra and Dura, 1932]. Sullo sviluppo di Palmira hanno recentemente gettato nuova luce le scoperte fatte da H. BREASTED e F. CUMONT nella città e fortezza ellenistico-romana di Dura sull’Eufrate, vedi F. CUMONT, Fouilles de Doura-Europos (1922-1923), 1926, Introduct., specialm. pp. XXXI sg. (sul commercio di Palmira). Nel corso dei secoli Dura fu fortezza macedonica, poi partica, poi romana, e da ultimo palmirena. Sorvegliava il punto in cui le carovane, che venivano dal basso Eufrate per la via che seguiva le rive del fiume, se ne allontanavano per dirigersi attraverso il deserto verso Palmira. Gli scavi di Dura sono stati ripresi dalla Yale University, vd. The Excavations at Dura-Europos ecc., First Preliminary Report (1929); [Second (1931); Third (1932)]. Sulla storia dl Palmira vd. la bibliografia del cap. V, nota 4. Un vivo commercio tra le città fenicie, l’Egitto, e Meroe da un lato, e Palmira, cioè il regno dei Parti, dall’altro, è attestato da certi articoli di gioielleria (fibule circolari con pietre colorate), ch’erano una specialità dell’arte parto-sarmatica e alcuni esemplari dei quali sono stati rinvenuti in città fenicie e a Meroe; vd. il mio libro Iranians and Greeks in South Russia, 1922, pp. 133 e 233, e il mio articolo nei «Mon. Piot», 26 (1923), p. 161, cf. G.A. REISNER, The Meroitic Kingdom of Ethiopia, nel «Journ. of Eg. Arch.», 9 (1923), tavv. VIII e X, 2; IDEM nel «Museum of Fine Arts Bulletin», Boston, 21 (1923), p. 27 (figura). Io sono convinto che gli oggetti di gioielleria rinvenuti a Meroe erano per la maggior parte importati. Una somigliante fibula circolare fu trovata a Byblos nel tempio delle divinità egizie, dentro una giarra contenente oggetti di varia data, vedi P. MONTET nei «C. R. Acad. Inscr.», 1923, p. 91, fig. 3. Cf. cap. V, nota 20 e specialmente le parole di Elio Aristide riferite in quella nota. Aristide menziona i gioielli palmireni, cioè partici. Alcuni tipici esemplari partico-palmirenici furono rinvenuti nel 1929 a Dura vd. The Excavations at Dura-Europos ecc. Second Preliminary Report (1931), tavv. XLIV-XLVI. 16. Lo studio più recente sul Periplus e quello di E. KORNEMANN, Die historischen Nachrichten des Periplus Maris Erythraei über Arabien, «Janus», 1 (1921), pp. 54 sgg. Cf. W. SCHUR, Die Orientpolitik des Kaisers Nero, «Klio», Supl. 15 (1923), pp. 52 sgg.; D. LEUZE, nel «Or. Lit.-Zeitg.», 1924, pp. 543 sgg.; W. SCHUR, in «Klio», 20 (1925), pp.
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III. I successori di Augusto. Giulii e Claudii
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nell’India, ci permettono di verificare i dati delle fonti letterarie17. Sembra che questo commercio fino ai tempi di Claudio e di Nerone sia rimasto concentrato nei porti arabici. I mercanti arabi facevano da intermediari tra quelli dell’Egitto e quelli dell’India. Si trattava, come abbiam visto, in gran parte di articoli di lusso, che i Romani per lo più pagavano con oro e argento. Questa specie di scambio era inevitabile in un commercio che si svolgeva principalmente per intermediari. La scoperta del sistema dei monsoni, fatta da Ipparco di Alessandria nell’ultima età tolemaica o nella prima età romana, come pure la tendenza naturale d’ogni commercio in via di progresso a diventare qualcosa di più che un mero commercio d’articoli di lusso affatto passivo da una delle due parti, condusse allo stabilimento di comunicazioni marittime dirette tra Egitto ed India. Il centro principale di questo traffico fu adesso Alessandria. I porti arabici perdettero la loro importanza; alcuni di essi (Adana e forse anche Socotra) furono occupati dai Romani e servirono da stazioni di rifornimento d’acqua e di rifugio per i marinai, e, come le stazioni militari e navali della Crimea, anche per la protezione dei mercanti contro i pirati. Questo progresso fu dovuto ai mercanti egiziani del periodo imperiale, che seppero assicurarsi l’assistenza attiva del governo romano, prima sotto Augusto e più tardi sotto Claudio e Nerone. La nuova via marittima era già in piena attività allorché fu composto il Periplus,
215 sgg. [Una nuova edizione del Periplus è data da H. FRISK, Le Périple de la Mer Erythrée suivi d’une étude sur la tradition et la langue, «Göteborgs Högskoles Arsskrift», 33 (1921), 1]. 17. SEWELL nel «Journ. of the R. As. Soc.», 1904, pp. 591 sgg., cf. M.P. CHARLESWORTH, op. cit., p. 69 e nota a p. 255. Lo sviluppo di un sano commercio di scambio è dimostrato dal graduale decrescere del numero delle monete romane d’oro e d’argento trovate in India. La diminuzione si spiega in parte anche con la predilezione speciale dimostrata dagli Indiani per i tipi d’Augusto e di Tiberio; cf. la popolarità delle monete di Filippo in Gallia, di Lisimaco nella Russia meridionale, dei serrati e bigati in Germania. Cf. W. SCHUR, Die Orientpolitik des Kaisers Nero, «Klio», Suppl. 15 (1923), pp. 52 sgg., e specialmente 54 sgg.; K. REGLING, nella «Zeitschr. f. Numism.», 29 (1912), pp. 217 sgg.; B.L. ULLMANN nella «Philol. Quart.», 1 (1922), pp. 311 sgg. È possibile che le monete di Tiberio, a causa della loro popolarità in India, siano state coniate anche dai successori di lui come vera «moneta commerciale» (Handelsmünze); cf. su questo tipo di monete B. PICK, Die Münzkunde in der Altertumswissenschaft (1922), pp. 30 sgg. Sin dal periodo ellenistico vetrerie alessandrine s’importavano in India e di là in Cina. Una bella coppa di vetro alessandrina è stata recentemente acquistata dal Royal Ontario Museum di Toronto: essa è stata trovata in Cina (in una tomba della provincia di Honan) e appartiene certamente al periodo ellenistico: vedi J. PIJOAN nel «Burlington Magazine», 41 (1922), pp. 235 sgg. La coppa è fatta di getto, non soffiata, ed è adorna di medaglioni incisi (uno dei quali rappresenta la testa di Atena), dal che risulta che l’oggetto non puo esser di data posteriore al sec. II a.C. [La Freer Gallery di Washington possiede una bella testa di dragone in bronzo del periodo degli Han: negli occhi del dragone sono inserite due perle di vetro di fabbricazione certamente alessandrina]. Intorno alle influenze occidentali sull’arte cinese del periodo degli Han, vd. M. ROSTOVTZEFF, Inlaid Bronzes of the Han Dinasty in the Collection of C. T. Loo (1927). [Vd. anche A. HERRMANN, Loulan, 1931 (con eccellente bibliografia)].
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cioè sotto Domiziano. Il traffico con l’India a poco a poco si svolse in un regolare scambio di merci tra l’Egitto da un lato, l’Arabia e l’India dall’altro. Uno dei più importanti articoli importati dall’India era il cotone, un altro probabilmente la seta. Entrambi questi prodotti venivano lavorati nelle fabbriche di Alessandria – secondo la assai più tarda Expositio totius mundi et gentium, § 22, sembra che la lavorazione della seta si accentrasse principalmente nelle città fenicie – e Alessandria inviava in cambio vetrerie, prodotti metallici, e probabilmente tele di lino18. Il commercio romano fece importanti progressi anche verso settentrione. Da sparse notizie letterarie e da trovamenti archeologici fatti nella Germania orientale, nella Scandinavia (Svezia e Norvegia), nella Russia, sappiamo infatti che verso i tempi di Claudio o di Nerone i mercanti romani mantenevano un vasto traffico con la Germania orientale, con la Norvegia, con la Svezia. La più antica via da loro adoperata per giungere sino in Danimarca, nei paesi scandinavi, nella Germania orientale, era quella di mare, che moveva dai porti della
18. Circa lo sviluppo del commercio arabo-indiano nel sec. I, vedi i libri di M. CHVOSTOV (menzionati nel cap. II, nota 26), e gli articoli di E. KORNEMANN e di W. SCHUR (vd. nota 16); cf. H.G. RAWLINSON, Intercourse between India and the Western World from the Earliest Times to the Fall of Rome, 19262; M.P. CHARLESWORTH, op. cit., pp. 58 sgg.; E.H. WARMINGTON, The Commerce between the Rom. Empire and India (1928); [H. SCHAAL, Vom Tauschhandel zum Welthandel, 1931, pp. 149 sgg.]. Cf. cap. V, nota 19. Non credo che la scoperta della via diretta per l’India sia stata dovuta a sforzi diretti del governo romano: fu invece merito di mercanti alessandrini. Il governo romano li aiutò perchè la cosa era vantaggiosa per il fisco. Non vedo alcuna necessità di concentrare tutti i provvedimenti presi dal governo romano nel solo periodo di Nerone, al quale (o ai maestri e ministri del quale, Seneca e Burro) si attribuisce d’aver fatto una sistematica politica mercantile. È possibile (ma non abbiamo alcun dato in proposito) che sin dall’età di Augusto sia stata conclusa un’alleanza tra gli Himyariti e i Romani, che Augusto per primo abbia occupato Leuke Kome e forse Adana (?), che il passo successivo sia stato fatto da Claudio e da Nerone (occupazione di Syagros?) e altri poi dai Flavii. Non dobbiamo esagerare l’importanza di quest’attività governativa, né abbiamo il più lieve motivo per supporre l’osservanza di una qualsiasi politica economica da parte degli imperatori del primo secolo. Il commercio con l’India prosperò naturalmente nell’atmosfera d’un grande Impero: naturalmente l’Impero protesse questo commercio che esisteva e si sviluppava. Vedremo in seguito che nel sec. II d.C. vi era verosimilmente una squadra di navi da guerra che provvedeva alla sicurezza del Mar Rosso (cap. V, nota 19). Esisteva essa senza interruzione sin dall’età tolemaica, oppure era sparita al tempo di Augusto e fu creata di nuovo soltanto piu tardi, sotto i Flavii o posteriormente? La notizia di Plinio, secondo cui le navi che andavano in India recavano a bordo arcieri a scopo di difesa, sembra contrastare all’esistenza d’una flotta nel Mar Rosso, ma non la esclude. [Assai interessanti per la storia del commercio orientale e meridionale dell’Egitto nel primo periodo dell’Impero sono i numerosi ostraka trovati a Koptos, che si riferiscono al commercio di Coptos con Berenice e Myos Ormos. Essi si trovano a Londra nella collezione di W.M. Flinders-Petrie e sono stati pubblicati recentemente in modo magistrale da J.G. TAIT, Greek Ostraka in the Bodleian Library at Oxford and Various Other Collections, 1 (1930), nn. 220-304. Altre notizie in proposito si possono trovare nella mia recensione di questo libro in «Gnomon», 7 (1931), pp. 21 sgg.].
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1. Dioniso e Arianna
2. Vendemmia
3. Vendita di vini
4. Vendita di fiori
TAV. XIV – DIPINTI DELLA CASA DEI VETTII, POMPEI
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DESCRIZIONE DELLA
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XIV
1-4. QUATTRO PITTURE DELLA ZONA SOTTOSTANTE AI PANNELLI DELLA CAMERA NERA DELLA CASA DEI VETTII A POMPEI. Pompei, casa dei Vettii. A. MAU, Pompeji in Leben und Kunst, 19082, pp. 350 sgg.; IDEM, nelle «Röm. Mitt.», 1896, pp. 1 sgg.; A. SOGLIANO nei «Mon. ant. dei Lincei», 8, pp. 233 sgg.; M. ROSTOVTZEFF, nelle «Mem. della Soc. archeol. di Pietroburgo», 1899 (in russo); P. HERRMANN, Denkmäler der Malerei des Altertums, 1906 sgg., pp. 29 sgg., tavv. XX sgg. Tipico porto campano con moli, edifici vari, una piccola isola rocciosa, archi «trionfali» e colonne con statue. Non può esser con certezza identificato con uno qualsiasi dei porti campani (per es. Puteoli), ma si può sicuramente affermare che l’aspetto generale di Puteoli non doveva esser molto diverso da quello della nostra pittura, sebbene indubbiamente ogni cosa dovesse avervi maggiori proporzioni. 1. PROCESSIONE TRIONFALE DI BACCO E ARIANNA, accompagnata da Cupidi, Psichi, e da un Pan. 2. VENDEMMIA E VINIFICAZIONE. A sinistra: Cupidi che colgono grappoli da viti maritate ad alberi, nella sezione destra (di cui qui si riproduce soltanto una parte) Cupidi che fanno girare la vite di un torchio da vino per mezzo di lunghe leve. [Un torchio è stato ricostruito recentemente nella villa dei Misteri dall’ing. Jacono, vd. A. MAIURI, La villa dei misteri (1931), pp. 89 sgg.]. Cf. S. REINACH, Rép. d. peint., p. 85, 3. 3. VENDITA DI VINO. In un celliere, dove si conserva gran numero di anfore vinarie, il compratore, un rustico con una canna nella sinistra, assaggia un campione che gli è offerto da un’elegante uomo di città, il mercante, assistito dai suoi schiavi, che riempiono intanto un’altra coppa con un altro campione di vino. 4. VENDITA DI FIORI. Dal giardino si trasportano dei fiori sul dorso d’una capra. Cupidi ne fanno ghirlande, che sono esposte in vendita in un locale speciale, dove un’elegante signora ne sta prendendo una. Un Cupido alza due dita per indicare il prezzo (due assi). Cf. S. REINACH, Rép. d. peint., p. 92, 1 e 2. Per me la parte predominante che nell’ornamentazione della stanza è data a scene relative al vino e ai fiori sta indubbiamente ad indicare che i Vettii possedevano delle fattorie nei dintorni di Pompei e facevano largo traffico di questi prodotti. Quest’idea io la ebbi già da molto tempo prima di leggere l’accurato studio sulla casa dei Vettii fatto da M. DELLA CORTE, Case ed abitanti di Pompei, «Neapolis», 2 (1914), pp. 311 sgg. Il DELLA CORTE ha dimostrato che i Vettii possedevano parecchie vigne nei territori di Pompei e di Stabia, ed esercitavano un vasto ed importante commercio di vini. Ne producevano varie qualità, che sono menzionate nelle iscrizioni delle anfore vinarie rinvenute in gran numero nella loro casa. Le più caratteristiche fra queste iscrizioni sono: (1) XV Kal(endas) Ian(uarias) de Arriano dol. XV (C. I. L. IV, 5572); (2) Idibus Ian(uariis) de Asiniano racemat(o) dol. I (C. I. L. IV, 5573); (3) Idibus […] de Formiano dol. XXV (C. I. L. IV, 5577). Sono d’accordo col MAU nel ritenere che il vino delle anfore proveniva ai fratelli Vettii dalle loro varie fattorie, piantate a diverse qualità di viti, e che le anfore (dolia) di ogni qualità erano numerate. La diffusio vini, ricordata nelle nostre iscrizioni, è anche rappresentata nel bassorilievo di Ince-Blundell Hall, vd. tav. XXXIII, 2. Da notare anche l’evidente simbolismo della nota pittura che si trova nel vestibolo della casa (Priapo con una borsa e con frutti) e la frequenza, nella decorazione della casa medesima, di Cupidi e di Psichi che colgono fiori. Un simbolismo somigliante ricorre anche in varie altre case di Pompei, per es. in quella di Meleagro posseduta da L. Cornelio Primogene, con le note sue figure di Cerere o Demetra assisa e di Mercurio che le pone in grembo una borsa ben ricolma (M. DELLA CORTE, in «Neapolis», 2 (1914), p. 189). Ritengo che i Vettii proprietari di questa casa fossero liberti della illustre casata dei Vettii.
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Gallia settentrionale verso Oriente. Verso lo stesso tempo le merci romane, partendo dalle foci del Danubio e dalle città greche della costa del Mar Nero e risalendo il Dniepr, cominciarono ad inoltrarsi verso il Baltico e i paesi scandinavi. In questo torno di tempo il territorio del Dniepr venne a poco a poco occupato dai Germani. Ma la via più sicura era quella che da Aquileia per Carnuntum e per il regno di Maroboduo conduceva nella Germania orientale e di là nella Scandinavia. Gli articoli più importanti di questo commercio erano bronzi e vetrerie, gli uni e gli altri provenienti senza dubbio dalla Campania18a. L’Italia in un primo momento non risentì gli effetti di questa lenta emancipazione economica delle province. Come per l’avanti, i suoi proprietari agrari continuavano a produrre nelle loro fattorie gestite su basi capitalistiche quantità considerevoli di vino e olio d’oliva. Come per l’avanti, le officine della Campania e dell’Italia settentrionale continuavano a svolgere una vivace attività19. Ma cominciava già a sentirsi un certo disagio. Columella e Plinio
18a. Intorno ai primi rapporti commerciali dei Romani con la Germania vd. E. NORDEN, Die germanische Urzeit in Tacitus’ Germania (1923), pp. 428 sgg., O. BROGAN,Trade between the Roman Empire and the Free Germans, «J. R. S.», 26 (1936), pp. 195-222. Materiale archeologico della Germania nord-orientale: E. JUNGKLAUS, Römische Funde in Pommern (1924), specialmente pp. 102 sgg. Il prof. RODENWALDT ha richiamato la mia attenzione su un recente rinvenimento di antichità paleoromane di Lübsow (circolo di Greifenberg presso Stettino), che ora si trovano nel Museo di antichità della Pomerania: debbo alla cortesia del dottor KUNKEL una serie di fotografie di questi ritrovamenti, nonché di quelli fatti in alcune altre località, che attestano un vivace scambio di merci tra la Germania settentrionale e l’Italia. Vedi W. KUNKEL, «Mannus», Ergänzungsbd. V (1927), pp. 119 sgg. e J. KOSTRZEWSKI, Capuanisches Geschirr im Norden, «Reall. d. Vorgeschichte», III, pp. 280 sgg., tav. 132. Per la Scandinavia cf. O. MONTELIUS, Der Handel in der Vorzeit, «Praehist. Zeitschr.», 2 (1910); T. ARNE, Det Stara Svitgod (1917); IDEM, Tenetid och romersk jarnalder i Ryssland med sarskild hansyn til de romerska denarfynden, «Oldtiden», 7 (1918), pp. 207 sgg.; per la Norvegia, H. SHETELIG, Préhistoire de la Norvège (1926), pp. 136 sgg.; A.W. BROGGER, Kulturgeschichte des norwegischen Altertums (1926), pp. 232 sgg. Intorno alla «scoperta» della via passante per Carnuntum vd. PLIN., Nat. hist., XXXVII, 45: DC. m. p. fere a Carnunto Pannoniae abesse litus id Germaniae, ex quo invehitur (sc. sucinum, cioè l’ambra), percognitum est; nuper vivitque eques R. ad id comparandum missus ab Juliano curante gladiatorium munus Neronis principis; qui et commercia ea et litora peragravit. Circa la via marittima: K. FRIISJOHANSEN, Hoby-Fundet (1923); su quella del Dniepr, M. ROSTOVTZEFF, Iranians and Greeks in South Russia, p. 234 e nota 16; T. ARNE, Det Stara Svitgod, pp. 16 sgg.; [H. SCHAAL, Vom Tauschhandel zum Welthandel, pp. 165 sgg. e 182 sgg. Intorno alla scoperta di monete romane nella Germania indipendente, vd. ST. BOLIN, Fynden av Romerska mynt i det fria Germanien, 1926, cf. «Bericht der röm.-germ. Kommission» per il 1929 (1930), pp. 86 sgg.]. Cf. cap. V, nota 17. 19. L’aspetto di una prospera città campana di media importanza ci è mostrato dagli scavi di Pompei. Non occorre qui ripetere l’eccellente quadro che della vita economica di questa città ha dato T. FRANK (The Economic Life of an Ancient City, «Class. Philol.», 13 (1918), pp. 225 sgg.; ripetuto e allargato nella Economic History, 19272, pp. 245 sgg., e nella History of Rome, 1923, pp. 375 sgg.). Peccato però ch’egli non abbia tratto alcun partito dal magnifico materiale offerto dalle decorazioni parietali delle case di
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ancora propugnano la coltivazione della vite nella maggior misura possibile: ma entrambi sentono, tuttavia, ch’è necessario stimolare l’attività dei proprietari terrieri italici, non molto propensi ad investir denaro nel mantenere in buono stato
Pompei. Cf. IDEM, An Economic Survey of Ancient Rome, V, Baltimore, 1940. Quelle delle botteghe danno un quadro fedele e realistico di quel che vi si faceva (vedi, p. es., M. DELLA CORTE, art. Fullones citato nella nota 17 del cap. II). Di straordinario interesse sono le insegne di botteghe recentemente scoperte nella Strada dell’Abbondanza, una delle vie più commerciali e industriali di Pompei (vedine un esemplare nella tav. XVI): questi affreschi sono in parte pubblicati nelle «Notizie degli scavi» dal 1911 al 1916. Si attende ancora la pubblicazione dei trovamenti fatti sotto la direzione di V. Spinazzola, e quella degli interessantissimi affreschi della splendida tomba rinvenuta presso Porta Vesuvio, i quali illustrano l’attività d’ufficio di un edile pompeiano. Ancora più importanti sono le decorazioni parietali delle più grandi e ricche case della città. Alcuni dei proprietari di esse amavano infatti fare riprodurre sulle pareti non soltanto soggetti mitologici, ma anche scene della vita quotidiana, naturalmente tuttavia sostituendo ai veri operai, quali appaiono negli affreschi delle botteghe, dei piccoli e graziosi Cupidi, il che dà a queste scene un carattere idilliaco pienamente conforme ai gusti dell’età (cf. i Bucolica di VIRGILIO e i cosidetti «bassorilievi a paesaggio» di tipo idilliaco, non eroico). Per me è indubbio che sotto tale travestimento i proprietari delle case abbiano voluto fare ritrarre sulle pareti la vita economica della città e in parte la loro propria. L’esempio più celebre, sebbene non l’unico, è il noto fregio della sala «nera» della casa dei Vettii (vedi tavole XIV e XV): il soggetto principale di esso è la produzione e la vendita del vino. Certamente Vettio possedeva nel territorio di Pompei una o più ville del tipo precedentemente descritto. Disgraziatamente la scomparsa degli affreschi nel lato sinistro della sala fa sì che la serie delle rappresentazioni dei redditi, che il proprietario ritraeva dalla campagna, sia incompleta. Ciò che rimane si riferisce alla produzione del vino: voglio dire l’affresco che raffigura un negozio di vini all’ingrosso con un cliente che assaggia le varie qualità. La parete mediana è riempita da altre figurazioni dello stesso genere (vendemmia, pigiatura delle uve (?), corteo bacchico). La parete di destra è dedicata all’attività commerciale e industriale caratteristica di Pompei. I signori pompeiani dalle loro ville facevano venire anche fiori e li vendevano sotto forma di ghirlande; con una parte dell’olio prodotto nelle stesse ville fabbricavano profumi e li vendevano nelle loro profumerie. Inoltre vi erano a Pompei gioiellerie e numerose gualchiere. Tutte queste industrie, i cui prodotti prima per lo più venivano importati da Alessandria, erano ora ben rappresentate non soltanto a Pompei, ma in tutta la Campania (cf. cap. II, pp. 76 sgg. e note 28-30). Sul fregio della casa dei Vettii vedi A. MAU, Pompeji in Leben und Kunst, 19182, p. 351 (tavola), e pp. 354 sg., figg. 186 e 187. Le relazioni con Alessandria sono attestate non solo dai numerosi articoli di là importati a Pompei, ma anche dalle pitture che ornano i pilastri fiancheggianti l’ingresso alla casa della Regio II, ins. 2, n. 4 («Not. d. scavi», 1914, pp. 180 sgg.): essi rappresentano i protettori divini della casa e del proprietario, cioè Minerva (protettrice dell’industria) e la personificazione di Alessandria. Sotto il capo di Alessandria si vede la figura di Mercurio. Un altro punto importante che risulta dallo studio dei monumenti di Pompei è la progressiva industrializzazione della vita di questa città, come è dimostrato con tutta chiarezza dagli scavi eseguiti nella Strada dell’Abbondanza. Nel periodo più antico (fino alla fine del sec. I a.C.) Pompei era essenzialmente una città di proprietari agrari e di case residenziali. Con lo stabilimento dell’Impero s’inizia l’industrializzazione, che raggiunge l’apogeo nel periodo immediatamente anteriore alla distruzione della città. Nella prima parte del sec. I a.C. la Strada dell’Abbondanza era ancora fiancheggiata da case d’abitazione; ma al momento della
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1. Profumeria
2. Fullonica
3. Oreficeria
4. Festa dei «Vestfalia»
TAV. XV – DIPINTI DELLA CASA DEI VETTII, POMPEI
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DESCRIZIONE DELLA
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XV
1-4. QUATTRO DIPINTI DELLA ZONA SOTTOSTANTE AI PANNELLI DELLA CAMERA NERA DELLA CASA DEI VETTII A POMPEI. Pompei, casa dei Vettii. La stessa bibliografia della tav. XIV. 1. FABBRICANTI E VENDITORI DI PROFUMI OD OLIO PROFUMATO (UNGUENTARII). Una speciale qualità di olio d’oliva fino vien preparato in un tipo speciale di torchio da olio (a destra). L’olio vien fatto bollire. L’olio bollente vien mescolato con essenze speciali (probabilmente estratti di fiori). Viene subito dopo il banco del capo-fabbrica e contabile. Accanto a lui v’è un armadio con bottiglie di varia grandezza e forma contenenti le varie essenze (?). Il resto del dipinto mostra la vendita dell’olio profumato ad una signora, venuta nella bottega con la sua schiava. Vd. A. MAU, nelle «Röm. Mitt.», 15 (1900), pp. 301 sgg. Cf. S. REINACH, Rép. d. peint., pp. 86, 4; 91, 2. 2. GUALCHIERAI (FULLONES). Calcano i panni dentro tini, li cardano, esaminano le stoffe, avvolgono le pezze finite. 3. OREFICI (AURIFICES). Grande fornace a destra. Dietro la fornace un Cupido è intento a scalpellare un grande bacino di metallo, probabilmente un bacino di bronzo che si vuol preparare a ricevere la placcatura d’argento. (Un bacino di bronzo placcato d’argento è stato rinvenuto nella bottega d’un negotiator aerarius, M. DELLA CORTE, nella «Rivista indo-greco-italica», 6 (1922), p. 104). Un altro Cupido è intento a tenere la fornace in azione soffiando in un cannello e ad arroventarvi un pezzo di metallo che tiene fermo con delle tenaglie. Un altro martella un piccolo pezzo di metallo su un’incudine; accanto ad esso, un banco con tre cassetti aperti, una bilancia grande, una piccola. Una cliente esamina col proprietario il peso d’un gioiello. Dietro di lei due Cupidi martellano su un’incudine un gran pezzo di metallo. Indubbiamente queste scene illustrano la lavorazione e il commercio dei gioielli. (A. BLANCHET, «Procés de la Soc. fr. de numism.», 1899, pp. XVI sgg. e XLVIII sgg., cf. «Études de numism.», 2 (1901), pp. 195 sgg. e 224 sgg.; A. MAU, nelle «Röm. Mitt.», 16 (1901), pp. 109 sgg.). È strano che valenti studiosi abbiano potuto discutere seriamente l’opinione che qui sia rappresentata non la bottega d’un gioielliere ma una zecca («Röm. Mitt.», 22 (1907), pp. 198 sgg.; «Num. Chron.», 1922, pp. 28 sgg.; P. HERRMANN, Denkm. der Malerei, p. 37). Che cosa ci starebbe a fare quella signora in una zecca? Vi è, penso, ogni ragione per credere che non pochi dei pezzi d’argenteria trovati a Pompei siano stati fabbricati in officine pompeiane come quella di Laelius Erastus, proprietario d’una gran casa nella città (C. I. L. X, 8071, 10, 11; e DELLA CORTE, «Neapolis», 2 (1914), p. 184). Cf. l’officina di Pinarius Cerialis, caelator, recentemente scoperta a Pompei, M. DELLA CORTE, nella «Riv. indo-greco-italica», 8 (1924), p. 121. 4. LA FESTA DEI VESTAFALIA. Cupidi e Psichi a banchetto. Dietro si vedono degli asini, animali sacri a Vesta. I commensali sono i fornai (pistores)? Cf. un altro affresco col medesimo soggetto, S. REINACH, Rép. d peint., p. 88, 3. È stato già descritto il graduale passaggio di Pompei alla vita industriale (cap. I, nota 25, e cap. II, note 23 e 34). È probabilissimo – come abbiamo già detto – che i primi proprietari della bella casa dei Vettii abbiano scelto le occupazioni che sono rappresentate sulle pareti della stanza migliore per il fatto d’essere interessati personalmente ad esse: ed esse infatti erano le principali attività economiche della Campania in generale. Naturalmente i ricchi Pompeiani andavano orgogliosi d’esibire ai loro amici pitture che illustrassero – in maniera alquanto idilliaca (sostituendo agli uomini dei Cupidi) – le modeste occupazioni che contribuivano alla loro ricchezza e influenza. La borghesia delle città non si vergognava della sua prosaica professione: lo attesta per esempio, la schiettezza con cui il rappresentante tipico di questa classe, Trimalcione, racconta l’intiera storia della sua vita nella conversazione, nelle pitture adornanti la sua casa, nel suo monumento funebre, nonché la fierezza con cui il suo prototipo pompeiano Fabius Euporus, ricco uomo di affari, in un programma elettorale si qualifica princeps libertinorum (C. I. L. IV, 117).
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i vigneti esistenti e nel piantarne nuovi. Plinio racconta storie mirabolanti di successi favolosi ottenuti in Italia da certi piantatori di vigneti20. Ma i proprie-
catastrofe la maggior parte di esse erano possedute da industriali e bottegai, e la strada era diventata uno dei principali centri d’affari di Pompei. Le aziende più importanti erano quelle collegate con la fabbricazione delle stoffe: non è un caso che l’unico grande edifizio per contrattazioni sia stato costruito da Eumachia per i fullones, e che sia collegato con la Strada dell’Abbondanza. Immediatamente dopo la produzione dei pannilani (favorita dalla vicinanza delle grandi zone pastorali del Sannio e dell’Apulia) veniva la fabbricazione dei profumi (la Campania era ricca di fiori, specialmente di rose) e la salsa di pesce (garum), prodotto naturale in una città di mare. Intorno a Pompei come porto, vd. M. DELLA CORTE in «Ausonia», 10 (1921), p. 83. Il processo d’industrializzazione di Pompei è mirabilmente illustrato dalle case (Regio, I, ins. 7, nn. 3 sgg.) recentemente scavate da A. MAIURI e fatte da lui oggetto di una pregevole relazione («Not d. scavi», 1927 fascc. 13). È interesessante osservare come nonostante l’industrializzazione abbia continuato a sussistere una piccola casa d’abitazione, quella di M. Fabius Amandio, sebbene rinserrata fra la casa di un signore e numerose botteghe. Tali casi non sono eccezionali. Una tipica casa borghese del tardo periodo mercantile della vita pompeiana è quella di P. Cornelius Tages (o Teges) nn. 10-12, che risulta dal conglomerato di due case piu antiche (A. MAIURI, loc. cit., p. 32 sgg.). È la casa detta «dell’efebo di bronzo» (in realtà un Ganimede), bella statua greca convertita in portafiaccola. La decorazione della casa è quale appunto ci attendiamo da un nuovo ricco, vd. AMELUNG, Bronzener Ephebe aus Pompeji, «Jahrb. d. d. arch. Inst.», 42 (1927), p. 127 sgg.: il proprietario di questa casa, come quelli di molte altre belle case pompeiane già appartenenti alla nobiltà, era infatti un liberto. L’industrializzazione economica di Pompei è uno dei più importanti caratteri della sua vita economica nel sec. I d.C. Occorrerebbe studiare sotto quest’aspetto le arti e i mestieri di Pompei. Uno studio diligente degli edifici di Pompei darebbe certamente risultati insospettati per la storia del commercio e dei mestieri della città. Al medesinno risultato condurrebbe lo studio storico delle migliaia di prodotti dell’industria rinvenuti nella città. A tale indagine recherebbe grande giovamento una raccolta degli affreschi-reclame e di altre pitture affini. Ma le insegne dipinte vanno studiate non per se stesse, ma in relazione con le botteghe cui appartengono, coi programmi elettorali delle varie corporazioni, che ordinariamente si raggruppano intorno alle abitazioni dei rispettivi membri, coi graffiti delle botteghe e delle case, che ci danno notizie sui proprietari di esse e sui loro interessi, con i marchi di fabbrica e altre iscrizioni delle anfore e di vari altri prodotti industriali, e coi prodotti medesimi. L’industrializzazione della vita non era per nulla confinata soltanto in Pompei e nella Campania. Essa era un fatto generale: lo attesta Aquileia, di cui abbiamo parlato precedentemente. Con essa si connette uno dei problemi più importanti della vita economica dell’Impero. Perchè l’industrializzazione non progredì? Perchè sull’industria prevalse l’agricoltura? Noi siamo in grado di seguire lo sviluppo economico di Pompei a passo a passo: vediamo come gli agrari, pur rimanendo tali, abbiano investito capitali sempre più grandi nell’industria, e come l’industria capitalistica sia andata a poco a poco predominando sul piccolo artigianato. Perchè questo processo s’arrestò? A questo problema cruciale tenterò di dare una soluzione nei seguenti capitoli. Per l’Italia l’età degli imperatori Giulio-Claudii fu ancora periodo di progressiva industrializzazione. 20. COL., III, 3, 1; PLIN., Nat. hist., XIV, 3. Vedi i capitoli relativi a questi due autori in HEITLAND, Agricola, 1921, pp. 250 sgg. e 281 sgg.; G. CARL, nella «Vierteljahresschrift f. Sozial u. Wirtschaftsg.», 19 (1926), pp. 1 sgg. Non vedo alcuna ragione per ammette-
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tari non mostravano molta voglia di seguire tali consigli. Essi erano più propensi ad affittar le loro terre a coloni, ritornandosi così all’azienda contadinesca ed alla produzione di cereali21. Come spiegare questa tendenza? Comunemente si crede ch’essi lo facessero per non dovere sorvegliare di persona l’andamento dei loro poderi: per pigrizia e indolenza, insomma. A me tuttavia sembra difficile che questa sia stata la ragione principale; né credo che l’insufficienza della mano d’opera sia stata la causa prima del declinare dell’agricoltura metodica. Vi era ancora grande abbondanza di lavoro servile: gli schiavi erano adibiti in gran numero nei lavori domestici, nelle officine industriali, nel commercio, nella gestione delle banche, nell’amministrazione imperiale. Neppure per l’agricoltura v’era scarsità di schiavi. Se era divenuto più difficile importare schiavi dai luoghi consueti, divenne però sempre più comune il sistema di allettare con premi gli schiavi a contrarre matrimonio e ad allevare figli22.
re che la viticoltura fosse andata in decadenza nel periodo immediatamente anteriore a COLUMELLA e sia poi risorta per l’influenza esercitata da quest’ultimo, come congettura O. SEECK, Gesch. d. Unterg. d. antiken Welt, I, p. 371. Per lo sviluppo dell’agricoltura nell’Italia settentrionale, vd. MART., III, 56 e 57 (Ravenna). I bassi prezzi dei tempi di Marziale probabilmente erano dovuti alle guerre che si combattevano sul Danubio. Disgraziatamente non conosciamo né la data né la provenienza dell’interessante rilievo che ora si trova nel museo di Ince-Blundell (vd. il mio articolo nelle «Röm. Mitt.», 26 (1911), p. 281, fig. 3). Esso rappresenta un grande magazzino di vini, dello stesso tipo di quelli delle ville pompeiane: nell’angolo di destra il gestore seduto presso un banco sotto una speciale tettoia di protezione, attende ai suoi affari (vedi tav. XXXIII, 2). 21. Su questo punto vedi HEITLAND, Agricola, pp. 250 sgg., capitolo su Columella, e passim.; G. CARL, nella «Vierteljahresschrift f. Sozial u. Wirtschaftsgesch.», 19 (1926), pp. 1 sgg. 22. Circa gli schiavi nell’industria, SEN. RH., Controv exc., II, 7, p. 358 B; PLIN., Nat. hist., XXXVII, 203; circa le grandi masse di schiavi in generale vedi, p. es., LIV., VI, 12, 5; TAC., Ann., XII, 65. Circa la tendenza ad aumentare il numero degli schiavi favorendo tra essi la vita di famiglia, cf. il noto consiglio di COL., I, 8, 19, e PETR., Sat., 53 (relativamente ai figli nati nelle tenute cumane di Trimalcione). Il sistema non era affatto nuovo; cf. APP., Bell. civ., I, 7. Non posso accettare interamente le affermazioni del FRANK relative a Pompei. Egli ritiene (Economic History, 19272, p. 212) che la maggior parte delle botteghe di quella città, che non erano collegate coi locali d’abitazione delle rispettive case, e quindi probabilmente venivano affittate dai proprietari delle case ad estranei, fossero gestite da artigiani liberi. Io sarei piuttosto d’avviso che queste botteghe siano state affidate a schiavi (legalmente, s’intende, ai loro padroni) che lavoravano per i loro padroni in botteghe individuali. Dall’esistenza di associazioni d’artigiani non si può decidere se questi fossero schiavi o liberi di nascita, o liberti. Il fatto che molti individui comperavano vino e commestibili a piccoli banchi non dimostra ch’essi fossero liberi: gli schiavi artigiani possedevano certamente del denaro; come mai altrimenti avrebbero potuto acquistare un peculium? D’altra parte il fatto che certe prostitute, certamente schiave, raccomandavano candidati alle elezioni (vd. M. DELLA CORTE in «Not. d. scavi», 1911, pp. 419 sgg. e 455 sgg.; cf. C. I. L. IV, 1507, 6), e che i vico-ministri erano in gran parte schiavi, dimostra che una certa libertà d’azione e perfino una certa influenza politica erano godute anche da persone non libere. Il gran numero di schiavi posseduti da alcune delle ricche famiglie di Pompei è dimostrato dalle iscrizioni del
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TAV. XVI – INSEGNE DI BOTTEGHE POMPEIANE
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DESCRIZIONE DELLA TAVOLA XVI 1-2. AFFRESCHI DEI PILASTRI D’INGRESSO D’UNA BOTTEGA SULLA STRADA DELL’ABBONDANZA, POMPEI. (Reg. IX, ins. X, n. 7). M. DELLA CORTE nelle «Not. d.
scavi», 1912, pp. 176 sgg., figg. 2 e 3, e nella «Riv. indo-greco-italica», 7 (1923), pp. 110 sgg. (con bibliografia). La parte superiore del pilastro di destra è occupata da un tempietto elevato su un podium, con un pronaos a due colonne. Dalla cella del tempio esce Mercurio vestito di tutto punto: petasos, calzari alati, chiton e chlamys, caduceus e una borsa; è sul punto di partire, probabilmente per fare una visita alla bottega di Verecundus. Sul riquadro sottostante al tempietto è dipinta una bottega ben messa, al centro della quale è maestosamente seduta una signora che parla con un cliente e tiene nelle mani due pantofole a colori. Il cliente, seduto su un elegante sofà, discute con lei. Davanti alla mercantessa vi è una tavola ricoperta degli articoli ch’erano in vendita nella bottega – coperte o stoffe colorate e pantofole – mentre nella strada, di fronte alla bottega, vi è un banco di legname per esporvi la merce (DIG., 43, 10, 1, 4). Lo spazio sovrastante al tempietto e la pittura della bottega sono ricoperti di proclami elettorali: non così però la pittura del tempietto e la divinità. Sulla porta superiore del pilastro di sinistra è dipinta a vivaci colori Venus Pompeiana, la protettrice di Pompei, con corona murale, come Tyche della città. A destra e sinistra volano dei Cupidi; il figlio – anch’esso un Amor – le porge lo specchio. Essa procede su una barca (?) tirata da quattro elefanti africani. A sinistra la Fortuna ritta su un globo, a destra il Genio con patera e cornucopiae. La parte inferiore dell’area raffigura, come sembra, la piccola fabbrica in cui si producevano le merci vendute dalla signora. Al centro quattro operai sono intenti a riscaldare della lana che deve trasformarsi in feltro. Altri due operai a sinistra, e uno a destra, seggono accanto a panchetti, nell’atteggiamento tipico dei calzolai. All’angolo di destra il proprietario della bottega (il cui nome «Verecundus» è scritto accanto alla sua figura ed è ripetuto due volte in graffito) spiega trionfante una pezza di stoffa finita: una pesante coperta. La pittura della bottega è coperta da un avviso elettorale che dice: Vettium Firmum aed(ilem) quactiliar(i) rog(ant), «Not. d. scavi», 1912, p. 188, n. 29. Difficilmente siffatto oltraggio può essere stato perpetrato sull’insegna della bottega da altri che dal proprietario e dagli operai di essa. L’avviso, si osservi, non invade lo spazio occupato dalla figura della dea. Esso dimostra che «Verecundus» era un coactiliarius o lanarius coactiliarius (C. I. L. VI, 9494), cioè fabbricante di feltro (cf. «Not. d. scavi», 1912, p. 136, n. 2). Può darsi anche che fosse sarto; cf. C. I. L. IV, 3130: M. Vecilius Verecundus vestiar(ius), e un graffito che dice tunica lintea aur(ata), entrambi ricordati dal DELLA CORTE. Sulle insegne dei negozi in generale, vd. A. Mau, «R. E.», II, coll. 2558 sgg., e cf. Kubitschek, ibid., II ser., II, pp. 2452 sgg., 2565 sg. Queste pitture esprimono lo spirito dell’età, «affari sotto l’egida della reIigione». Mercurio era il dio principale; e accanto ad esso la dea patrona di Pompei, che proteggeva l’industria e il commercio della città e ne assicurava la prosperità: la Venus Pompeiana dispensatrice di vittoria e di fortuna, oggetto di culto e di adorazione per tutti i cittadini. Essa, in quanto regina, era portata in processione trionfale dagli animali regi, gli elefanti, al pari dei re ellenistici e degli imperatori romani. Intorno all’importanza dell’industria tessile di Pompei vd. cap. III, nota 19. Si può aggiungere che in quella parte della Strada dell’Abbondanza, ch’è stata scavata da poco, è stata trovata, oltre la bottega cui si riferisce questa tavola anche un’altra bottega di coactiliarii (DELLA CORTE, «Riv. indo-greco-italica», 7 (1923), p. 113), una di infectores (ibid., p. 112) – con cui può confrontarsi la bottega degli offectores (DELLA CORTE, loc. cit., 4 (1920), pp. 117 sgg.) – e non poche fullonicae, due delle quali di assai grandi dimensioni (DELLA CORTE, ibid., 7 (1923), pp. 114 e 123).
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La vera ragione, ben capita dagli agrari sebbene trascurata da Plinio e da Columella, era questa: le condizioni del mercato peggioravano di giorno in giorno a misura che si svolgeva la vita economica delle province occidentali. Quelle che maggiormente ne soffrivano erano l’Italia centrale e la Campania. Per l’Italia settentrionale v’era sempre aperto il mercato danubiano, ogni giorno più importante: quindi essa non risentì il mutamento delle condizioni così intensamente come l’Italia centrale e meridionale. Di tratto in tratto cominciò a farsi sentire una sovrapproduzione di vino, fenomeno questo ben noto all’Italia moderna, nonché alla Francia. La situazione non era certo disastrosa, ma era grave. Vedremo nel capitolo sesto come essa sotto Domiziano abbia condotto ad una seria crisi23. A questo mutamento s’accompagnò il crescente raccogliersi della proprietà rurale nelle mani di pochi ricchi proprietari. Tale concentrazione era in corso tanto in Italia quanto nelle province, e specialmente in Africa. Vi è forse dell’esagerazione nel noto racconto di Plinio (Nat. hist., XVIII, 35) secondo cui ai tempi di Nerone appena sei proprietari possedevano la metà del territorio africano; ma resta il fatto che le grandi tenute costituivano la caratteristica saliente delle condizioni agrarie di quella provincia. Il formarsi di grandi tenute si osserva parimenti in Egitto, dove sotto Augusto, e ancor più sotto Claudio e Nerone, vediamo comparire immense oujs ivai, la maggior parte delle quali erano doni d’imperatori a loro favoriti, uomini e donne. Tuttavia non dobbiamo esagerare l’importanza di questi fatti, né trarre conclusioni generali dalle condizioni prevalenti in Africa e gradatamente sviluppantisi in Egitto. Da tempo immemorabile l’Africa era la terra promessa delle grandi tenute, il paese caratteristico di quel tipo speciale di grandi piantagioni, ch’era stato largamente sfruttato dai magnati romani nel sec. I a.C. In Egitto, come s’è detto, le grandi tenute furono creazione degli imperatori, che donarono o vendettero vasti tratti di terreno a membri della loro famiglia e a loro favoriti. Pochissime notizie invece ci sono pervenute che accennino a con-
cimitero della familia (cioè il complesso degli schiavi e dei liberti) degli Epidii, che recentemente è stato scoperto nelle vicinanze della città (M. DELLA CORTE in «Not. d scavi», 1916, pp. 287 sgg.). Il cimitero era probabilmente usato dalla medesima familia fin dal periodo sannitico. Indubbiamente gli Epidii medesimi non erano deposti in questo cimitero, sibbene in ricche tombe lungo la strada che conduceva a Pompei. Il modesto cimitero veniva adoperato soltanto per la «famiglia», che continuò ad esistere riunita per oltre un secolo. Altre prove ci forniscono le ville di cui ho più volte parlato. In quella di Agrippa Postumo («Not. d. scavi», 1922, pp. 459 sgg.) otto camere di uno dei lati della parte retrostante dell’edificio erano destinate agli schiavi: ciò implica almeno ottanta schiavi, e probabilmente assai di più; e la villa di Agrippa non è più grande d’altre che sono state scavate. Quella prossima a Stabia, simile all’anzidetta di Agrippa (n. VIII del M. DELLA CORTE), ha per lo meno diciannove cubicula per gli schiavi ed un grande ergastulum («Not. d. scavi», 1923, p. 277, fig. 4). Da ciò si vede che nel 79 d.C. era assai grande il numero degli schiavi adibiti nei vigneti campani. Non si può dubitare che anche l’industria si fondasse sul lavoro degli schiavi. 23. Vd. nota 13.
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dizioni simili alle anzidette in Gallia e nella Spagna; e anche in Italia il processo sembra sia stato piuttosto lento. Ma indubbiamente anche in Italia le grandi tenute divennero sempre più estese. e a poco a poco assorbirono le fattorie di media estensione e i poderetti contadineschi. Seneca lo dice affatto esplicitamente; ed egli poteva ben saperlo, essendo uno degli uomini più ricchi d’Italia, se non addirittura il più ricco, sotto Claudio e Nerone, e proprietario egli stesso di vaste tenute. Anche di questo processo va cercata la spiegazione nelle condizioni dell’agricoltura quali le abbiamo esposte nelle pagine precedenti. Le tenute di media estensione furono a poco a poco rovinate dalla mancanza di vendita e vennero acquistate a buon mercato da grandi capitalisti. Questi ultimi naturalmente desideravano di semplificare la gestione delle loro proprietà, e, paghi di ottenerne un reddito sicuro se pur basso, preferivano dare la loro terra ad affittuari e produrre prevalentemente grano24.
24. Intorno alle vaste tenute di favoriti imperiali in Egitto vedi cap. II, nota 13 e cap. VII, nota 42. Atte, l’amante di Nerone, possedeva in Sardegna ampie tenute granicole, alle quali era annessa una fabbrica di tegole e di giarre: vd. E. PAIS, Storia della Sardegna e della Corsica durante il dominio romano, vol. I, 1923, pp. 342 sgg.; cf. p. 338. Allo stesso tipo di grandi proprietari di terre apparteneva anche Seneca, che possedeva parecchie tenute in diverse parti dell’Impero, specialmente in Egitto (la oujs iva Senekianhv è spesso menzionata accanto alle oujs ivai di altri favoriti, a cominciare da Mecenate). Una delle grandi tenute di Seneca è descritta da COLUMELLA, III, 3, 3: si trovava nei pressi di Nomento, ed era famosa per i suoi vigneti e per la sua amministrazione esemplare. I mirabili risultati conseguiti da Seneca nell’agricoltura ci ricordano la storia di Remmio Palemone raccontata da PLINIO (Nat. hist., XIV, 49-50). Intorno alla tenuta nomentana di Seneca, cf. PLIN., Nat. hist., XIV, 49-52; SEN., Epist., 104, 110 e Nat. quaest., III, 7, 1. Seneca nella sua celebre 89a epistola ci dà il quadro di questi latifondi in generale; cf. 90, 39: licet agros agris adiciat vicinum vel pretio pellens vel iniuria. Nella Epist. 41, 7, Seneca descrive brevemente il caratteristico patrimonio d’un ricco: familiam formosam habet et domum pulchram, multum serit, multum fenerat. Per lui, tuttavia, i ricchi per eccellenza sono i liberti, Epist., 27, 5. SENECA IL VECCHIO, Controv. exc., V, 5, menziona come luogo comune delle diatribaiv ciniche (cf. J. GEFFCKEN, Kynika und Verwandtes (1909), pp. 42 sgg.) l’esistenza di grandi proprietà e la perversità morale del sistema: arata quondam populis rura singulorum nunc ergastulorum sunt la tiusque vilici quam reges imperant; PERS., IV, 26; LUC., I, 158-82. È evidente che per tutto il sec. I i latifondi dettero l’impronta alla vita economica dell’Impero: non dobbiamo tuttavia dimenticare che non era affatto scomparsa, specialmente in Campania, la media proprietà. L’incremento dei latifondi nelle province a spese dei piccoli proprietari ci viene ritratto, p. es., da DIONE CRISOSTOMO, Or., 46, 7: e[sti me;n ga;r cwriva moi kai; pavnta tau`ta ejn uJmetevra/ gh`/: tw`n de; ejmoi; geitniwvntwn oujde;n pwvpote oujdei;~ ou[te plouvs io~ ou[te pevnh~ < polloi; de; kai; toiouvtwn moi geitniw`s in < hj/tiavsato ejme; wJ~ ajfairouvmenov~ tino~ h] ejkballovmeno~, ou[te dikaivw~ ou[te ajdivkw~. Un buon parallelo al sistema di accaparramento dei terreni, che nell’età romana era seguito da persone ricche e influenti tanto in Italia quanto nelle province, ce l’offrono le condizioni vigenti prima della guerra nell’Impero turco: esse sono dipinte vivacemente da C.L. WOLLEY, Dead Towns and Living Men (1920), pp. 222 sgg. Secondo questo scrittore, il latifondismo e l’accaparramento della proprietà della terra per opera di proprietari assenti e forestieri erano in continuo aumento in Siria. Carattere normale d’un villag-
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L’Italia adunque a poco a poco ridiventava paese granicolo. Questa conclusione non s’accorda con le opinioni correnti. Come mai, si domanda, l’Italia può aver ritenuto la produzione dei cereali più proficua di quella del vino? Non vi era sempre disponibile grano provinciale a buon mercato, e l’Italia poteva mai far concorrenza ad esso? In verità per me è molto dubbio se dopo le riforme di Augusto e di Tiberio molte province pagassero ancora il loro tributo in grano25. Il grano veniva adesso fornito all’Italia e specialmente a Roma dai demani imperiali d’Egitto e d’Africa; esso costituiva la principale entrata degli imperatori, che se ne valevano come strumento indispensabile di potere, per l’approvvigionamento dell’esercito e per l’alimentazione della plebe romana. Il resto lo vendevano allo stesso modo degli altri grandi proprietari. I prezzi erano fissati dalle condizioni del mercato, ch’erano favorevoli ai venditori di grano. Non vi era, infatti, sovrapproduzione di grano nell’Impero romano, specialmente in Italia, dove quello che consumava la maggior parte delle città era certamente prodotto nel territorio urbano, in ispecie nelle città dell’interno. Una delle più importanti bran-
che dell’amministrazione era in ogni città, e specialmente in quelle dell’Oriente, quella che provvedeva a procurare il grano per i bisogni della popolazione (eujqhniva): e tuttavia le carestie erano comunissime nella vita urbana dell’Impero26. Gli imperatori lo sapevano bene, e perciò incoraggiarono la produzione del grano e posero dei limiti, specialmente in Egitto, alla libertà del commercio granario. In tali condizioni la produzione del grano era certamente proficua per l’Italia, forse più proficua, o almeno più sicura, che quella del vino. Con la formazione di grandi tenute in Italia e nelle province s’accompagnava il rapido ridursi di molte di esse nelle mani degli imperatori. L’aspra lotta tra questi e l’aristocrazia senatoria terminò sotto Nerone con lo sterminio quasi completo delle più ricche e antiche famiglie senatoriali: poche, e le meno influenti, ne rimasero. Non poche casate nobili scomparvero anche a motivo
gio siriaco era l’esistenza, accanto alle casupole dei contadini, di una grande casa di pietra appartenente ad un Turco che possedeva metà del territorio del villaggio e cui i contadini «debbono servigi gratuiti per alcuni mesi dell’anno, diventando, in questo periodo, poco più che suoi servi». Il metodo di cui si servivano questi divoratori di terreni risaliva a tempi immemorabili. Il contadino si vede costretto, non dall’entità dell’imposta in se stessa (che corrisponde approssimativamente alla decuma romana), ma dal sistema di riscossione e dalla «spada alla gola» che gli mettono in combutta il latifondista e i funzionari governativi, a contrarre prestiti su prestiti e finalmente ad impegnare il suo podere. Oltre alla tassa anche le leve militari contribuiscono ad asservire la popolazione e a trasformare il contadino indipendente in un affittuario-servo. Non so se oggi le cose sono cambiate. 25. Vd. M. BANG, Die Steuer dreier römischen Provinzen, in L. FRIEDLAENDER e G. WISSOWA, Sitteng. Roms, vol. IV, 10a ediz., pp. 297 sgg., e il mio articolo Frumentum, «R. E.», VII, coll. 150 sgg. 26. Vd. il mio articolo Frumentum, «R. E.», VII, coll. 184 sgg. Le difficoltà cui perfino nelle città agrarie andava incontro il rifornimento dei cereali sono istruttivamente illustrate dai torbidi di Prusa, dei quali possediamo una bella narrazione nella 46a orazione di DIONE CRISOSTOMO; cf. H. VON ARNIM, Leben und Werke des Dio von Prusa, 1898, pp. 207 sgg. Cf. cap. V nota 9 e cap. VIII nota 20.
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dell’avversione dell’aristocrazia al matrimonio e alla figliolanza. Il risultato di questi due fattori fu il concentrarsi, per confisca ed eredità, di vaste proprietà nelle mani degli imperatori. Sebbene, infatti, le terre confiscate ai condannati per lesa maestà legalmente ricadessero allo Stato, in pratica se le prendevano gli imperatori, che continuavano così un sistema ereditato dai tempi delle guerre civili. Molti ricchi, specialmente celibi, legavano agli imperatori gran parte del loro patrimonio per potere assicurare il resto ai loro eredi naturali o testamentari. Sono questi fatti così noti che non occorre insistervi sopra. Le proprietà confiscate ed ereditate consistevano per lo più in immobili: infatti era impossibile celare una casa o un fondo rustico, mentre relativamente più facile era disporre preventivamente del proprio denaro. In tal modo gli imperatori divennero i più grandi proprietari d’immobili dell’Impero romano. Questo fatto è importante non solo nei riguardi politici: esso ha peso anche nella storia economica. Sebbene i latifondi siano rimasti tra i caratteri principali della vita economica dell’Impero, le persone dei proprietari di essi mutarono. Gli antichi magnati scomparvero, sostituiti dagli imperatori, e in parte dai favoriti imperiali, sebbene questi ultimi poi scomparissero anch’essi. A lato ad essi vi erano i nuovi ricchi proprietari, appartenenti alle file dell’aristocrazia municipale. Alla testa di tutta la classe era l’imperatore. L’amministrazione delle tenute imperiali era per gli imperatori un problema serio. Come ottenere da queste immense estensioni di terreno rendite sicure? Come risolvere la questione della mano d’opera? Questi punti saranno esaminati in seguito: l’età dei Giulii e dei Claudii fu l’età della confisca e dell’accentramento, non quella dell’ordinamento27. Ho ripetutamente parlato del crescente benessere di cui sotto i Giulii e i Claudii fruirono le province, specialmente quelle dell’Oriente. Tuttavia non mancano indizi da cui desumere che questo processo non si sia svolto in linea retta, mentre tutto il periodo nel suo insieme costituisce un progresso costante. Non abbiamo molte informazioni in proposito; ma se di fronte al panegirico che Filone tesse della felicità arrecata all’Egitto dal dominio romano sotto Tiberio poniamo il quadro che lo stesso autore fa dell’Egitto ai tempi di Caligola e di Claudio*, il confronto mostra che la signoria dei successori di Tiberio non fu per quel paese davvero una benedizione. Quest’impressione viene rafforzata da numerosi nuovi documenti del Fajiûm, che ci fanno conoscere come villaggi già fiorenti fossero abbandonati ai tempi di Nerone, probabilmente a motivo della pressione fiscale e della negligenza nei riguardi del sistema irrigatorio. Quest’ultimo inconveniente può spiegarsi con l’aumento delle grandi proprietà avveratosi in Egitto e con le preferenze che il governo usava verso i magnati romani a spese dei contadini e dei piccoli proprietari di terre. Il celebre editto di Ti. Giulio Alessandro** dimostra ch’egli aveva trova-
27. O. HIRSCHFELD, Der Grundbesitz der römischen Kaiser, nelle Kl. Schriften, pp. 516 sgg. *. PHILO IUD., Leg. ad G., 8 sgg., cf. 47 sgg., 141 sgg. (Tiberio), cf. In Flaccum 5 (condotta dei soldati), 150 (confische di patrimoni), 93 (ricerca di armi). **. DITTENBERGER, O. G. I. S., 669.
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to il paese in cattive condizioni e molto bisognoso di riforme. Tuttavia la decadenza dell’Egitto nell’ultima parte del sec. I può essere stata un caso eccezionale, causato dal trattamento senza riguardi fatto al paese come patrimonio dell’imperatore e magazzino granario dell’Impero romano. E inclino a ritenere che alla parziale rovina dell’Egitto non poco abbia contribuito la smania di sperpero degli ultimi anni di Nerone27a.
27a. Una serie di documenti dell’età di Claudio e di Nerone (tutti del Fajiûm) ci danno notizie preziose intorno al rapido spopolamento dei villaggi di quella regione. Nel P. Corn., 24 (56 d.C.) un esattore dell’imposta di capitazione e delle dighe racconta che nel villaggio di Filadelfia v’erano 44 individui a[poroi e ajneuvretoi, cioè «senza patrimonio fondiario tenuto a liturgie e imposte e irreperibili»: certamente costoro per sottrarsi alla pressione tributaria erano fuggiti in qualcuno degli altri villaggi dell’Egitto o delle paludi del Delta. La medesima situazione ci si ripresenta in un papiro anteriore (45 d.C.), P. Graux (H. HENNE, nel «Bull. de l’Inst. franç. d’arch. or.», 21, (1923), pp. 189 sgg.). Anche qui si tratta di Filadelfia. L’esattore dell’imposta di capitazione muove lagnanza presso il preposto del cantone perchè alcuni individui (a[pora ojnovmata, cioè uomini che non hanno pagato la loro imposta) si celavano, a quanto si diceva, nei villaggi di un altro cantone: per tal motivo il preposto del Fajiûm scrive ai suoi colleghi pregandoli di mettere a disposizione dell’esattore alcuni poliziotti per assisterlo nella riscossione. Infine nel P. Graux 2 (54-59 d.C.) sei esattori dell’imposta di capitazione di sei villaggi (tra i quali ancora Filadelfia), scrivono al prefetto, il celebre Ti. Claudio Balbillo (H. HENNE, loc. cit., pp. 211 sgg.; M. ROSTOVTZEFF, nel «Journ. of Eg. Arch.», 12 (1926), pp. 28 sgg.; H. STUART JONES, nel «J. R. S.», 16 (1926), p. 18; C. CICHORIUS, nel «Rh. Mus.», 76 (1927), p. 102), una lettera in cui a l. 7 sgg. si dice: «per il passato solevano abitare nei predetti villaggi numerose persone ricche, mentre adesso ve ne sono pochissime, perché alcune sono fuggite a motivo dei debiti d’imposta (a[poroi), altre sono morte senza lasciare parenti. Per tal motivo noi corriamo pericolo di essere costretti per esaurimento a cessare la nostra attività». Ciò concorda pienamente col testo di Filone (De spec. leg., III, 153-163) dove si tratta di un noto caso, probabilmente di data più recente: un esattore è riuscito ad ottenere il pagamento delle imposte facendo frustare, torturare e perfino uccidere gli eredi e i parenti di certuni ch’erano fuggiti (e[fugon) per non aver potuto pagare le loro quote a causa della loro poverta (dia; penivan oppure ajpovrw~ e[conte~). Il risultato di questo modo d’agire fu precisamente lo stesso che abbiamo veduto nei papiri su menzionati. Filone dice infatti (loc. cit., 162): kai; oJpovte mhdei;~ loipo;~ ei[h tw`n suggenw`n, dievbaine to; kako;n kai; ejpi; tou;~ geitniw`nta~, e[sti d jo{te kai; ejpi; kwvma~ kai; povlei~, ai} tacevw~ e[rhmoi kai; kenai; tw`n oijkhtovrwn ejgevnonto metanistamevnwn kai; skedannumevnwn e[nqa lhvsesqai prosedovkwn. Evidentemente il guaio maggiore non era costituito tanto dalla spietata esazione delle imposte, quanto principalmente dal sistema esiziale di rendere intieri gruppi responsabili per singoli individui (cf. U. WILCKEN, nella Festschrift f. O. Hirschfeld, pp. 125 sgg.; G. LUMBROSO, nell’«Arch. f. Pap.-F.», IV, pp. 66 sgg.; M. ROSTOVTZEFF, Studien z. Gesch. d. röm. Kol., p. 206). Il ritrovarsi così cospicua quantità di dati relativi a un periodo, che d’altronde fornisce solo pochissimi documenti, non può essere dovuto al caso. Indubbiamente la spietata esazione delle imposte, e specialmente della nuova ed oppressiva imposta di capitazione, fu una delle cause dell’impoverimento dei contadini. Non fu tuttavia la sola. Finché il terreno produce bene – ed
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È facile intendere come siffatte condizioni andassero operando un mutamento importante nella fisionomia sociale dell’Impero. L’antica aristocrazia della città di Roma scompariva, e nuovi uomini venivano a prendere il suo posto, usciti alcuni dalla nobiltà municipale d’Italia, alcuni dalle province più o meno romanizzate, altri dalle file degli avventurieri e dei favoriti imperiali. I dati statistici che possediamo, per quanto incompleti, mostrano lo svolgersi graduale di questo processo. La nobiltà equestre si accrebbe immensamente di numero. La maggioranza dei cavalieri viveva fuori di Roma, in Italia e nelle province: essi erano in parte agiati proprietari di terre, in parte ufficiali dell’esercito e funzionari imperiali28.
esso produce bene, specialmente nel Fajiûm, finché è irrigato – i contadini in complesso guadagnano abbastanza da poter pagare le imposte. È per contro assai verosimile che nella seconda metà del sec. I d.C. il sistema irrigatorio del Fajiûm fosse rimasto assai trascurato. Poiché sappiamo che in questo periodo gran parte dei migliori terreni appartenevano a persone dimoranti a Roma o in Alessandria (cap. VII nota 43), possiamo ritenere che quella negligenza derivasse dal fatto che gli interessi dei contadini venivano sacrificati a quelli dei grandi proprietari. Comunque, una cosa è certa: che nella seconda metà del sec. I d.C. le condizioni dell’Egitto erano tutt’altro che splendide. È naturale che l’uno o l’altro dei prefetti cercasse di trovar qualche rimedio: così i su menzionati prefetti Balbillo e Vestino, nonché quel Ti. Giulio Alessandro, che aveva tanta dimestichezza con Alessandria ed era coetaneo di Filone (vd. il suo editto presso DITTENBERGER, O. G. I. S., 669, cf. U. WILCKEN, nella «Zeitschr. d. Savigny-Stif.», 42 (1921), pp. 124 sgg. Cf. su Tiberio Giulio Alessandro, LE PAPE, nel «Bull. de la Soc. archéol. d’Alex.», 29 (1934), pp. 332 sgg. e sul suo editto vedi W. REINMUTH, The Edict of Tiberius Julius Alexander, «Trans. Amer. Phil. Ass.», 65 (1934), pp. 248-259; H.I. BELL, The Economic Crisis in Egypt under Nero, «J. R. S.», 28 (1938), pp. 1-8). Ma nessuno di essi
riuscì nell’intento. Soltanto quando Vespasiano ebbe attuato in Egitto le sue grandi riforme s’ebbe, seppure per breve tempo, un miglioramento. [Vd. M. ROSTOVTZEFF, The Roman Exploitation of Egypt in the First Century A. D., «Journ. of Econom. and Business Hist.», 1 (1929), pp. 337 sgg.; cf. J.G. MILNE, The Ruin of Egypt by Roman Mismanagement, «J. R. S.», 17 (1927), pp. 15 sgg.]. 28. Intorno agli importanti mutamenti avveratisi in seno alla classe senatoria, e così pure intorno alla scomparsa dell’antica aristocrazia patrizia e plebea della repubblica, e alla comparsa di nuove famiglie d’origine italica e provinciale, vd. P. WILLEMS, Le Sénat de la république romaine, vol. I, 18852, pp. 308 sgg. e 427 sgg.; O. RIBBECK, Senatores Romani qui fuerint idibus Martiis anni u. c. 710 (1899); F. FISCHER, Senatus Romanus qui fuerit Augusti temporibus (1908); P. WILLEMS et J. WILLEMS, Le Sénat romain en l’an 63 apres J. Chr., «Musée Belge», 4-6 (e separatamente Lovanio, 1902); B. STECH, Senatores Romani qui fuerint inde a Vespasiano usque ad Traiani exitum, «Klio», Suppl. 10 (1912); P. LAMBRECHTS, La Composition du sénat romain de l’accession au trône d’Hadrien à la mort de Commode, Antwerpen, 1936; G. LULLY, De senatorum Romanorum patria, Roma,
1918; E. GROAG, in Strena Bulicˇiana. Commentationes gratulatoriae in hon. F. Bulic (1924), pp. 254 sgg. Non occorre riprodurre qui le statistiche date da questi autori, e specialmente dallo Stech. Circa i cavalieri romani, vd. A. STEIN, Der röm. Ritterstand (1927). È urgentemente necessaria una buona indagine sulle famiglie più eminenti delle varie province dell’Impero romano.
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La crescente prosperità dell’Italia, la rinascita delle province orientali, l’urbanizzazione dell’Occidente e in parte anche dell’Oriente, fecero sorgere in tutto l’Impero romano una vigorosa e numerosa borghesia cittadina. Essa era la forza dirigente dell’Impero. Gli uomini anziani di essa erano membri dei consigli civici e dei collegi di magistrati e di sacerdoti; i giovani prestavano servizio nell’esercito e nella guardia pretoriana in qualità di ufficiali, di sottufficiali, di soldati. A tali uffici essi venivano accuratamente preparati nei loro circoli municipali, nei collegia iuvenum, che ai tempi della dinastia giulio-claudia ebbero la loro più salda e perfetta organizzazione. Su questa borghesia, oltreché sull’esercito, si appoggiava in sostanza il potere degli imperatori29. A Roma, in Italia, nelle province, accanto a questa borghesia di nascita libera s’andava formando una classe di uomini industriosi ed energici, quella dei liberti. La loro importanza nella vita dell’Impero era notevolissima. Nell’amministrazione essi, insieme con gli schiavi, avevano una parte di prim’ordine come aiutanti e agenti dell’imperatore. Gli imperatori conducevano ancora la vita dei magnati romani, e ordinarono la loro «azienda domestica» (domus) alla stessa maniera degli altri nobili romani, cioè col servizio dei loro schiavi e liberti privati. In realtà la loro «casa», sebbene non del tutto identica con lo Stato come quella dei monarchi ellenistici, era almeno altrettanto importante, e forse più importante ancora, del congegno dello Stato, sicché i loro schiavi e liberti – i Caesaris servi ed i liberti Augusti – formavano una nuova specie di aristocrazia, non meno ricca della borghesia ingenuile senatoria, equestre, municipale, e certamente non meno influente nel governo dei pubblici affari. Questi schiavi e liberti imperiali tuttavia erano soltanto una piccola porzione del complesso degli schiavi e dei liberti viventi nel mondo romano. Gli schiavi costituivano il sostrato della vita economica dell’Impero, specialmente nel commercio e nell’industria, dove fornivano la necessaria mano d’opera ai proprietari delle officine. Del resto questi ultimi erano molto spesso anch’essi antichi schiavi, riusciti ad ottenere o a comperare la loro libertà e ad acquistare una fortuna considerevole. I liberti formavano nei municipi una sezione inferiore dell’aristocrazia o plutocrazia municipale, così come i liberti imperiali erano lo strato inferiore dell’aristocrazia imperiale. Costituendo essi una classe influente, era loro dato un posto particolare nella società municipale mercé l’istituzione dei magistri e ministri (questi ultimi talvolta anche schiavi) di vari culti municipali, e specialmente con l’ufficio di Augustales che li aggregava al culto degli imperatori. Il loro ufficio era probabilmente di fornir il denaro necessario alle spese del culto: in compenso essi ricevevano il titolo di «Augustalis» e certi privilegi della vita municipale30.
29. Vd. i libri citati nel cap. II, nota 4. Per l’Italia settentrionale vedi CHILVER, Cisalpine Gaul. Social and Economic History from 49 B.C. to the Death of Trajan, Oxford, 1941, pp. 86 sgg. (età giulio-claudia) e pp. 95 sgg. (età flavio-traianea). Pochi all’inizio quindi frequenti (in ragione della prosperità della regione) in età flavio-traianea. 30. Intorno agli schiavi e ai liberti della Corte imperiale, vd. L. FRIEDLAENDER e G. WISSOWA, Sitteng. Roms, I, 10a ediz., pp. 34 sgg., cf. vol. IV, 10a ediz., pp. 26 sgg. e 47 sgg. (di M. Bang) e M. BANG, Caesaris servus, «Hermes», 54 (1919), pp. 174 sgg. Per gli
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La perturbazione, che cominciava a farsi sentire nella vita economica dell’Italia, nonché l’aumentato numero dei latifondi e degli affittuari, creò od accrebbe il proletariato urbano e rurale: disoccupati in città, affittuari e giornalieri in campagna. La maggior parte di essi – al pari di una parte della borghesia e del proletariato della città di Roma, e di non pochi abitanti delle città italiche e provinciali – non apparteneva al ceppo indigeno italico o provinciale: erano invece per lo più Orientali, importati in qualità di schiavi e fedeli per varie generazioni al loro carattere non romano31. Non è strano che non pochi
schiavi e liberti in generale, M. BANG, Die Herkunft der römischen Sklaven, «Röm. Mitt.», 25 (1910) e 27 (1912); M.L. STRACK, Die Freigelassenen in ihrer Bedeutung für die Gesellschaft der Alten, «Hist. Zeitschr.», 112 (1914), pp. 1 sgg.; A.M. DUFF, Freedmen in the Early Roman Empire (1928); B.H. BARROW, Slavery in the Roman Empire (1928), con buone bibliografie sull’istituto della schiavitù nel mondo antico; in queste tre opere ultimamente menzionate il lettore troverà citati anche i noti libri sulla schiavitù romana; e l’articolo Sklaverei di W.L. WESTERMANN in «RE», Suppl. VI (1935), coll. 894-1068; cf. L. FRIEDLAENDER e G. WISSOWA, op. cit., vol. I, 10a ediz., pp. 234 sgg.). [Cf. MARY L. GORDON, The Freedman’s Son in Municipal Life, «J. R. S.», 21 (1931), pp. 64 sgg.]. Un nuovo caso interessante di uno schiavo imperiale provvisto di una grande familia propria si può constatare nell’iscrizione di un certo Eleuther Tharsi Charitonis Aug. ser. dis(pensatoris) vic(arii) arc(arii) vicarius (P. MINGAZZINI, «Boll. comm. arch. com. Roma», 53 (1925), p. 218, fig. 2, cf. H. ERMAN, Servus vicarius, Lausanne, 1896, p. 438). Per gli Augustali come sostenitori delle spese del culto imperiale, vd. M. KRASCENINNICOV, Gli Augustali e il magistero sacrale, Pietroburgo, 1895 (in russo); cf. L.R. TAYLOR, Augustales, Seviri Augustales and Seviri, «Trans. Amer. Phil. Ass.», 45 (1914), pp. 231 sgg., cf. «J. R. S.», 14 (1924), pp. 158 sgg., e A.D. NOCK, Seviri and Augustales, nei Mélanges Bidez, Bruxelles, 1934, pp. 627-638. Vedi anche CHILVER, op. cit., pp. 198 sgg. L’importanza che nella vita d’una città avevano i magistri e ministri dei vari culti, e specialmente la parte che nella vita municipale tenevano le «associazioni dei crocevia», che quasi con gli stessi nomi hanno tuttora funzione importante nella vita dell’Italia meridionale, sono illustrate dalle cappelle di queste associazioni. Particolarmente caratteristiche sono le cappelle recentemente scoperte nella Strada dell’Abbondanza a Pompei: vd. M. DELLA CORTE nelle «Not. d. scavi», 1911, pp. 417 sgg., e 1913, p. 478. I quattro ministri di questo compitum erano schiavi, come pure quelli degli altri compita di Pompei, cf. BOEHM, «R. E.», XII, p. 810 [e G. GRETHER, Pompeian Ministri, «Class. Philol.», 27 (1932), pp. 59 sgg.]. 31. T. FRANK, Race Mixture in the Roman Empire, «American Historical Review», 21 (1915-16), pp. 689 sgg.; V. MACCHIORO, La Biologia sociale e la storia, Camerino, 1905, e Die anthropologischen Grundlagen des römischen Verfalls zur Kaiserzeit, «Politisch-anthropol. Revue», 5 (1907), pp. 557 sgg.; M.P. NILSSON in «Hereditas», 2 (1921), pp. 370 sgg.; MARY L. GORDON, The Nationality of Slaves under the Early Roman Empire, «J. R. S.», 14 (1924), pp. 93 sgg.; G. LA PIANA, Foreign Groups in Rome during first Two Centuries of the Empire, «Harvard Theological Review», 1927, pp. 383 sgg. Occorre un’indagine non soltanto sulla composizione etnica del proletariato romano e italico (inclusi gli schiavi), nonché dei pretoriani e delle altre truppe stanziate a Roma, indagine quest’ultima compiuta dal FRANK e dal MACCHIORO, ma anche e soprattutto sulla costituzione etnica della borghesia urbana, delle classi superiori cioè degli abitanti delle citta italiche. Fin dove ho potuto investigare personalmente questo problema, inclino a credere che gli abitanti di dette città nati in Italia, cioè il ceppo indigeno delle antiche famiglie e dei veterani delle guerre civili, siano andati a poco a poco scemando, anche
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di essi desiderassero di prender servizio nell’esercito, né che molti si mostrassero malfidi sia militarmente sia politicamente: ed era affatto naturale che Vespasiano si mostrasse ben lieto di potersene liberare.
nel secolo I d.C. Il loro posto fu preso gradualmente da liberti. Credo anche che questo processo si sia svolto in concomitanza con l’industrializzazione della vita urbana e con l’indebolimento dei medi proprietari di terre. Esso fu più rapido in Campania (per es. a Pompei), più lento nell’Italia centrale e settentrionale, specialmente nelle regioni agricole. Confrontare, tuttavia, il gran numero di liberti o discendenti di liberti che si annoverano tra i proprietari del territorio di Veleia sotto Traiano e precedentemente: F.G. DE PACHTÈRE, La Table hypothécaire de Veleia (1920), pp. 87 e 95. Il DE PACHTÈRE ha pure dimostrato quanto nel territorio di Veleia fossero di breve durata le famiglie dei proprietari di terre. [Cf. MARY L. GORDON, The Freedman’s Son in Municipal Life, «J. R. S.», 21 (1931), pp. 64 sgg.].
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Con la vittoria di Vespasiano su Vitellio ebbe termine l’orgia della guerra civile, evidentemente sotto la pressione della pubblica opinione italica e perché i soldati confidavano d’avere conseguito finalmente il loro scopo. Essi infatti avevano dimostrato che l’imperatore doveva essere, non una creatura dei pretoriani, ma il miglior uomo dell’Impero, riconosciuto tale dall’esercito, dal Senato e dal popolo di Roma, senza riguardo a relazioni di parentela con la famiglia d’Augusto. L’anno dei quattro imperatori non fu adunque che un episodio, ma un episodio ch’ebbe conseguenze importanti per le sorti dell’Impero e iniziò una fase nuova nella storia del Principato. Questa prese le mosse dal governo di ricostruzione attuato da Vespasiano e da suo figlio Tito. Nei suoi caratteri essenziali il loro governo somigliò a quello di Augusto e ai primi anni di quello di Tiberio. Il problema principale era anche ora il ristabilimento della pace: non a caso, ma a significazione delle idee inspiratrici di Vespasiano, uno dei suoi primi atti di governo fu la chiusura del tempio di Giano, il più splendido tra i suoi edifici fu il forum Pacis, che fa esatto riscontro alla ara Pacis di Augusto, e ricompare sulle sue monete la figura della Pax Augusta1. Condizione essenziale della pace era che l’esercito fosse obbediente e tranquillo: e non era compito facile quello di ristabilire la quiete e la disciplina nelle file dei pretoriani e dell’esercito provinciale. Esso fu in certo modo facilitato dalla depressione subentrata nell’animo dei soldati dopo i terrori dell’an-
1. Il materiale per la storia degli imperatori di casa flavia è stato diligentemente raccolto dal WEYNAND, «R. E»., VI (1909), coll. 2623 sgg. (Vespasiano); coll. 2695 sgg. (Tito); coll. 2542 sgg. (Domiziano); B.W. HENDERSON, Five Roman Emperors (1927); H. MATTINGLY ed E. SYDENHAM, The Roman Imperial Coinage 2. Vespasian to Hadrian (1926). Non mi occupo in questo capitolo delle riforme costituzionali di Vespasiano: è noto che anche in questo campo egli appare, almeno formalmente, come restauratore del Principato augusteo, vedi O. HIRSCHFELD, Die kaiserlichen. Verwaltungsb., 19052, p. 475, contro F.B.R. HELLEMS, Lex de imperio Vespasiani, Chicago, 1902; cf. i libri menzionati nel cap. II, nota 1, e nel cap. III, nota 1.
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no dei quattro imperatori, e dalla influenza della pubblica opinione dell’Italia e delle province. Ma non era affatto sicuro che questi due fattori avessero ad agire a lungo: quindi le riforme militari di Vespasiano. Non intendo con ciò accennare alla nuova distribuzione delle truppe da lui fatta, né allo scioglimento di alcune legioni e alla creazione d’altre nuove legioni. Per quanto importanti, questi mutamenti non potevano assicurare per l’avvenire la conservazione della pace e della quiete nell’esercito. L’opera fondamentale di Vespasiano consiste nell’aver egli riformato la composizione dell’esercito sotto l’aspetto sociale2. Ho già esposto quello che mi sembra il principio cui Vespasiano s’inspirò in questo campo: l’esclusione del proletariato italico dalle file dell’esercito. L’esercito, eccetto una parte dei pretoriani, doveva comporsi di provinciali; non però di provinciali presi da tutte le parti del mondo romano senza tener conto della loro origine e della loro condizione sociale. È vero che precisamente intorno al luogo d’origine dei soldati nel periodo flaviano – e specialmente intorno alla classe sociale cui essi appartenevano – abbiamo scarsissimi dati; ma il fatto che nell’indicare la loro provenienza essi fanno in generale il nome d’una città, e l’altro fatto che Vespasiano, come Augusto e Claudio, promosse continuamente l’urbanizzazione dell’Impero e favorì la massima estensione possibile della cittadinanza romana e latina alle zone urbanizzate, specialmente dell’Occidente3, dimostrano che la sua politica volta a render provinciale l’esercito non voleva dire che lo volesse render barbaro. Abbiamo ogni ragione per ritenere che la largizione d’una costituzione municipale a comunità rurali e a gruppi di tribù, e della cittadinanza romana o latina alle città esistenti, importasse non soltanto privilegi ma anche doveri, e presupponesse un forte grado di romanizzazione e d’ellenizzazione. Il primo dovere delle città novellamente costituite era d’inviare la loro gioventù nelle legioni. È notevole che appunto sotto i Flavii fu richiamata in vita e diffusa per tutte le province occidentali l’istituzione dei collegia iuvenum, questi seminari di futuri soldati, un tempo limitati all’Italia4. Sicché l’esercito legionario romano dell’età dei Flavii era reclutato principalmente tra le classi più elevate, cioè più incivilite e meglio educate, delle province urbanizzate dell’Impero. Era un esercito di «borghesi», per adoperare un termine moderno di cui i socialisti hanno fatto abuso, un esercito tratto
2. Circa il reclutamento dell’esercito sotto i Flavii vedi i libri e gli articoli citati nel cap. III, nota 8. È ovvio che i miei dati sulla composizione sociale dell’esercito romano abbiano carattere meramente ipotetico. Non possediamo statistiche che possano dirci in che proporzione le città partecipavano al reclutamento dell’esercito romano in confronto con la campagna. Certamente tuttavia il processo d’imbarbarimento di esso si compì solo gradualmente e lentamente. Naturalmente il contadino italico non è identico a quello della Gallia o dei paesi danubiani; e anche tra i contadini delle province v’erano gradazioni. [Interessantissimi dati fornisce l’Egitto (liste di soldati), vd. l’elenco dei relativi documenti in L. AMUNDSEN, A Latin Papyrus in the Oslo Collection, «Symb. Osl.», 10 (1932), pp. 27 sgg.]. 3. Su questo punto vedi le opere ricordate nel cap. II, nota 10, e nel cap. III, nota 5. 4. Vedi cap. II, nota 4.
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dalle classi abbienti delle città provinciali, dai proprietari e coltivatori di terre – sia che essi vivessero in città sia che continuassero a dimorare nelle loro fattorie e nelle loro case rurali – non dal proletariato urbano o rurale. Nella maggior parte delle città provinciali antiche e nuove il proletariato, come vedremo, non faceva parte del corpo cittadino: era quindi più facile nelle province che in Italia escludere questa classe dalle file dell’esercito. Un’altra riforma di Vespasiano, inspirata dallo stesso concetto, fu il nuovo sistema di reclutamento delle truppe ausiliarie. È molto probabile infatti ch’egli abbia abbandonato il sistema di trarle quasi esclusivamente dalle popolazioni e dalle tribù non aventi vita di città e formanti quindi l’elemento meno civile della popolazione provinciale. Dai tempi di Vespasiano in poi la differenza essenziale fra truppe legionarie e ausiliarie a poco a poco scompare: entrambi i corpi vengono reclutati nelle province, in entrambi troviamo un certo numero di cittadini romani di nascita, entrambi contengono un numero relativamente grande d’uomini (maggiore nelle legioni, minore nelle truppe ausiliarie) appartenenti per nascita ed educazione alla parte urbanizzata della popolazione. Per giunta, nonostante il loro appellativo etnico, le truppe ausiliarie non erano formate esclusivamente di uomini appartenenti alla rispettiva tribù o località. In una cohors Thracum, per esempio, v’erano non soltanto dei Traci, ma anche uomini d’altra origine. Questa politica di mescolare nei corpi militari nazioni e tribù diverse è stata seguita per molti anni anche nella Russia moderna, ed è politica saggia in ogni Stato composto di più nazionalità. Anzi dai tempi di Vespasiano in poi i corpi ausiliari reclutati sul luogo non formarono più neppure la maggioranza delle truppe ausiliarie d’una provincia: le cohortes, le alae, i numeri locali dell’Egitto o dell’Africa erano sempre meno numerosi di quelli recanti nomi non egiziani o africani, composti di soldati dei quali pochi o punti erano nati in Egitto o in Africa. Il medesimo sistema venne applicato ai corpi di truppa di stanza a Roma. Il doversi essi reclutare tra i cittadini romani dimoranti in Italia aveva fatto sì che nella scelta delle reclute non si procedesse con molto rigore. Ora invece nella guarnigione della capitale accanto agli Italici troviamo anche un certo numero di provinciali delle regioni urbanizzate, specialmente della Gallia meridionale, della Spagna, del Norico, della Macedonia, e inoltre anche uomini dei paesi alpini, della Lusitania, della Dalmazia, della Pannonia. I provvedimenti di Vespasiano per neutralizzare politicamente l’esercito si mostrarono non meno efficaci di quelli presi molti anni prima allo stesso fine da Augusto. Anche in questo Vespasiano fu buon discepolo e fedele continuatore della politica augustea. Il ristabilimento della disciplina e della forza combattiva dell’esercito romano fecero prova di sé nelle difficili guerre di Domiziano e nella crisi che tenne dietro alla sua uccisione. L’esercito, fatta eccezione dei pretoriani, non prese parte attiva agli eventi politici di questo agitato periodo e riconobbe tacitamente il fatto compiuto allorché Nerva fu eletto dal Senato e Traiano adottato da Nerva. Una vivace illustrazione di tali condizioni ci è offerta dalla nota esperienza fatta da Dione Crisostomo nel campo fortificato d’una delle legioni di Mesia. È difficile credere che la ribellione incipiente sia stata ivi quietata dal suo brillante discorso (tenuto in
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greco o in latino?): è più verosimile che l’agitazione fosse di natura affatto superficiale5. Al pari d’Augusto, anche Vespasiano non fu soltanto un restauratore. Egli proseguì energicamente l’opera iniziata da Augusto e da Claudio nei due rami più importanti dell’amministrazione imperiale: nel campo delle finanze, in cui continuò a sviluppare la burocrazia, e nel promuovere la vita di città nelle province. Non è necessario entrare in particolari in proposito. Quanto al primo campo, i punti essenziali sono stati fissati da O. Hirschfeld nel suo indispensabile libro e non occorre qui ripeterli6. Un solo particolare va messo in rilievo a motivo della sua immensa importanza per la storia economica del sec. II: la diligenza con cui Vespasiano curò i demani imperiali e pubblici. Le vaste confische di Nerone da un lato, e dall’altro lo scompiglio dell’anno dei quattro imperatori, in cui la soldatesca sfrenata e i suoi imperiali padroni massacrarono non pochi senatori e ricchi borghesi, avevano creato condizioni più o meno simili a quelle che Augusto aveva ereditato dalle guerre civili7. Il compito di Vespasiano era tutt’altro che facile; tuttavia egli pervenne a dare un ordinamento soddisfacente alle vaste tenute dello Stato e dell’imperatore e a fondere effettivamente questi due rami d’amministrazione in uno solo, il che portò ad un immenso incremento delle risorse finanziarie dell’imperatore. Lo Stato possedeva ancora in Italia e nelle province tratti considerevoli di terreno aratorio, nonché miniere, cave, peschiere, foreste e così via; e il raccogliersi di tutti questi beni nelle mani dell’imperatore richiedeva un ben definito sistema di messa in valore. Quale sistema avrebbe scelto il più grande proprietario dell’Impero, era tutt’altro che cosa indifferente: era anzi di suprema importanza per la vita economica dell’intiero mondo romano. Esamineremo quest’argomento nei capitoli sesto e settimo, ed esporremo le linee fondamentali della politica flaviana e l’importanza ch’essa ebbe per lo sviluppo ulteriore della vita economica dell’Impero in generale. Già fin d’ora tuttavia si può accennare che il riordinamento, iniziatosi con Vespasiano, della vita economica e sociale nei grandi demani dello Stato e dell’imperatore, si compì secondo il sistema ellenistico «normativo», come lo chiama lo Schönbauer, anziché secondo il sistema «liberale» del diritto civico romano, prendendosi a modello, probabilmente, le condizioni che anche sotto i Romani vigevano nell’Oriente ellenistico, e principalmente in Egitto7a.
5. H. VON ARNIM, Leben und Werke des Dio von Prusa (1898), pp. 304 sgg.; L. FRANÇOIS, Essai sur Dion Chrysostome, 1921. 6. O. HIRSCHFELD, op. cit., pp. 475 sgg. e 83 sg.; cf. il mio articolo Fiscus, «R. E.», VI, col. 2392. 7. Vd. le mie Studien zur Gesch. d. römischen Kolonates, pp. 379 sgg. 7a. Disgraziatamente conosciamo troppo poco intorno alla vita delle grandi tenute imperiali e statali d’Italia e delle province: il poco che sappiamo, tuttavia, basta a dimostrare che le condizioni vigenti nei grandi demanii imperiali d’Africa, quali furono stabilite principalmente dai Flavii, e in primo luogo i rapporti tra coloni e proprietari dei fondi, erano regolate in senso «normativistico», cioè ellenistico, non nel senso «liberale» del diritto civico romano. Ciò credo d’aver dimostrato nelle mie Studien zur Geschichte
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Vespasiano mostrò ugual vigore nell’attuare la sua politica intesa a promuovere lo sviluppo della vita urbana nelle province. Anche questo soggetto sarà trattato più particolareggiatamente nei capitoli sesto e settimo. Egli si propose evidentemente in prima linea di allargare la base su cui in sostanza s’appoggiava il potere imperiale. Gli avvenimenti sanguinosi dell’anno dei quattro imperatori avevano dimostrato quanto debole e infido fosse il sostegno porto dai cittadini romani, specialmente da quelli dell’Italia. Un Principato che si fondasse soltanto su tali elementi era necessariamente esposto a ricadere nell’anarchia e nella guerra civile. Abbiamo visto che Vespasiano era ben conscio di questo stato di cose, e che le sue riforme militari gli erano state suggerite appunto dal giusto apprezzamento dei fatti. Ma egli capiva anche benissimo che, allo stato delle cose, era impossibile allontanarsi dal principio costituzionale stabilito da Augusto secondo cui padroni e reggitori dell’Impero erano i cittadini romani e coloro che giuridicamente appartenevano al ceppo italico. Era impossibile dare uguaglianza alla totalità degli abitanti dell’Impero ed estendere a tutti indistintamente la cittadinanza; ma, d’altro canto, era pericoloso mantenere nella concessione della cittadinanza romana e latina la politica restrittiva dei Giulii e Claudii. Vespasiano, come vedremo, scelse la via di mezzo. Accelerò l’urbanizzazione delle province più o meno romanizzate, specialmente di quelle che costituivano le principali zone di reclutamento e di quelle dov’erano stanziati grossi corpi di soldati romani: Spagna, Germania, province danubiane. Creando nuovi municipi nel territorio delle tribù e stirpi mezzo romanizzate, egli promosse la formazione di un’aristocrazia romanizza-
des römischen Kolonates (1910). È molto verosimile la congettura dello GSELL (Hist. de l’Afr., V, pp. 208 sgg.) che le grandi tenute imperiali del Bagradas siano state prima ager publicus dei Cartaginesi, poi terre regie dei sovrani di Numidia; indi vennero nelle mani di magnati romani e infine, sotto Nerone e i Flavii, passarono agli imperatori romani. Mi sembra molto probabile che già i re di Numidia – se non pure i Cartaginesi – avessero regolato i rapporti tra coltivatori e proprietari del terreno in senso ellenistico, cioè che i coltivatori fossero trattati all’incirca come i basilikoi; gewrgoiv d’Egitto: quindi le cosidette operae, cioè corvées. Influenze ellenistiche debbono ammettersi, per esempio, allorché nel regno numidico troviamo menzionata l’ejxevtasi~ (nei documenti ajnagrafhv) dei poledri (STRABO, XVII, 3, 19, C 835, cf. GSELL, loc. cit., pp. 153, 181 e p. 20 nota 4). È la stessa norma che ritroviamo anche nel P. Tebt. 703. Questi rapporti furono accettati dai magnati romani e svolti dagli imperatori: né mi hanno convinto i motivi addotti in contrario da T. FRANK, nell’«Amer. J. Ph.», 1926, pp. 55 sgg., pp. 153 sgg. e Economic History, 19272, pp. 444 sgg. Il contrasto tra lo spirito «normativistico» delle ordinanze imperiali e lo spirito «liberale» del diritto civico romano è troppo grande e non può annullarsi con parole enfatiche. Il medesimo spirito «normativistico» informa anche l’ordinamento delle condizioni vigenti nel distretto minerario di Vipasca nella Spagna. È possibile che il primo regolamento si debba già ai Flavii; con lo stesso spirito operò poi Adriano. L’economia monopolistica introdotta e regolata a Vipasca da una legge imperiale (lex metallis dicta) è quasi identica con l’economia monopolistica dell’Egitto tolemaico e romano, come io dimostrai già nei miei St. z. Gesch. des röm. Kol., pp. 353 sgg. Ora E. SCHOENBAUER, Zur Erklärung der lex metalli Vipascensis, «Zeitschr. d. Savigny-Stif.», 45 (1925), pp. 352 sgg. e 46 (1926), pp. 181 sgg., ha svolto e motivato tale concetto.
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ta costituita principalmente da antichi soldati romanizzatisi durante il servizio; e a questi nuclei di civiltà romana dette diritti e privilegi, sia economici sia sociali, che facevano di essi i dominatori del rimanente della popolazione. L’urbanizzazione della Spagna, della Germania, dell’Illirico, e in minor misura, quella dell’Africa, della Gallia, della Britannia, importava perciò il raccogliersi di certi elementi in città, il che facilitava al governo la vigilanza su di essi e, per mezzo di essi, sulla massa della popolazione provinciale. Nelle province più romanizzate, ai nuovi centri urbani vennero concessi i diritti della cittadinanza romana o latina; nelle province meno romanizzate, come anche nelle parti ellenizzate dell’Impero, questa concessione fu evitata, almeno per il momento: ma dappertutto l’urbanizzazione fu sollecitata fino all’ultimo limite praticamente possibile. Si creava così un nuovo fondamento per il Principato, e in particolare per il potere della casa flavia. Poiché i nuovi elementi dovevano la loro promozione personalmente a Vespasiano e ai suoi figli, e poiché essi erano anche quelli che fornivano le reclute alle legioni e in parte anche alle truppe ausiliarie, sembrava che il Principato dei Flavii riposasse su fondamenti più sani e sicuri. Le nuove colonie e città erano destinate ad aver la stessa parte che dopo le guerre civili avevano rappresentato le colonie di Cesare e di Augusto. La politica di Vespasiano fu volta a spodestare le antiche città italiche e gli antichi centri provinciali di vita urbana delle province, anzi a spodestare l’antico ceppo dei cittadini romani che non poteva più sorreggere il Principato e a fare direttamente appello alle province contro l’Italia: egli con ciò attestava la sua riconoscenza per l’appoggio che le province medesime nell’anno dei quattro imperatori avevano dato al Principato in generale e a lui personalmente. Dopo la sua riforma il Principato rappresentava pur sempre il corpo dei cittadini romani, ma questo corpo non era più ristretto ai confini d’Italia. Di grande importanza per l’evoluzione sociale dell’Impero fu la politica seguita da Vespasiano e da Tito nei riguardi del Senato. Ci riferiamo qui non al lato costituzionale della questione, lato che è stato ripetutamente indagato ed illustrato da studiosi eminenti, e che d’altronde ha poca relazione coi problemi trattati in questo libro, sibbene alla restaurazione del Senato compiuta da Vespasiano, all’attività censoria da lui svolta col rimuovere certi membri di quel corpo e col riempire i vuoti con uomini nuovi. Abbiamo già rilevato nel capitolo precedente come questo argomento sia già stato fatto oggetto di accurate indagini8 dalle quali risulta che il Senato, quale fu costituito da Vespasiano, era ben differente da quello dei Giulio-Claudi. Esso infatti non rappresentava più né l’antica aristocrazia di Roma repubblicana, né le famiglie nobilitate e immesse nel Senato da Augusto, le quali, al pari dell’antica nobiltà, traevano origine per lo più anch’esse dalla città di Roma. Le persecuzioni degli imperatori di casa giulio-claudia e il «suicidio di razza» compiuto dalle famiglie senatoriali avevano quasi completamente distrutto l’antico ceppo. Gli uomini nuovi che ne pre-
8.
Vd. cap. III, nota 28. Cf. G.E.F. CHILVER, Cisalpine Gaul. Social and Economic History from 49 B.C. to the Death of Trajan, Oxford, 1941, p. 96.
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sero il posto erano d’origine varia e talora assai dubbia: ma tutta questa politica tendeva essenzialmente a sostituire all’antica nobiltà membri dell’aristocrazia municipale d’Italia e delle province occidentali. Quest’ultima formava la maggioranza della classe equestre; e la sua condotta negli uffici militari e civili l’aveva dimostrata fedele e zelante sostenitrice del Principato. Questo processo fu condotto a termine da Vespasiano, sotto cui il Senato fu tratto quasi completamente dagli strati superiori della borghesia municipale. Ma questo elemento municipale era per lo più di lingua latina: gli Orientali, compresi i Greci, di norma non ebbero accesso al Senato. Se non romana e italica in senso stretto, la politica dei Flavii fu ancora, come quella d’Augusto, ad ogni modo certamente latina: essi misero in rilievo l’importanza e la posizione dominante che avevano nell’Impero gli elementi di lingua latina9.
9. Intorno all’importantissimo problema dell’ammissione di uomini di lingua greca nell’aristocrazia equestre e senatoria, vedi H. DESSAU, Offiziere und Beamte des römischen Kaiserreiches, «Hermes», 45 (1910), pp. 14 sgg. e 615 sgg.; WEYNAND, «R.E.», VI, p. 2660; L. FRIEDLAENDER e G. WISSOWA, Sitteng. Roms., vol. I, 9a-10a ediz., pp. 109 sg.; B. STECH, Senatores Romani ecc., pp. 179 sgg. Cf. C.S. WALTON, Oriental Senators in the Service of Rome, «J. R. S.», 19 (1929), pp. 38 sgg.; sul periodo successivo (da Adriano a Commodo): P. LAMBRECHTS, La Composition du sénat romain de l’accession au trône d’Hadrien à la mort de Commode, Antwerpen, 1936, p. 195; cf. IDEM, La Composition du sénat romain de Septime Sévère à Dioclétien (193-284), Budapest, 1937, p. 83, nota 4. I
risultati del WALTON concordano in sostanza coi miei. Dei pochi senatori d’origine greco-orientale, che si conoscono sotto Vespasiano, due forse avevano iniziato la loro carriera già sotto Nerone, uno era stato partigiano di Vespasiano nella guerra civile, un altro almeno era un ex-re. Si raffrontino le famiglie degli Iulii Sereni e dei Serveni Cornuti. Entrambe queste famiglie rivendicavano una loro discendenza dagli Attalidi: I. G. R. R. III, 192 (Servenia Cornuta); I. G. R. R. III, 173 (Iulius Severus). Cf. «R. E.», X, 813 e DESSAU, 8971; I. G. R. R. IV, 1212 e «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 27 (1932), Beibl. 256. Iscrizione di questa famiglia ad Apollonia (Frigia): M. A. M. A. IV, p. 46, n. 139. La stessa
politica fu seguita da Domiziano. I primi imperatori che in ciò che riguarda l’assegnazione di cariche militari e civili trattarono i ricchi Greci, appartenenti all’aristocrazia, più o meno allo stesso modo dell’aristocrazia occidentale, furono Traiano e, ancor più, Adriano. Ciò in parte fu dovuto all’essere questi funzionari orientali più competenti negli affari dell’Oriente, in parte fu una concessione fatta dagli imperatori del sec. II allo stato d’animo dominante nell’aristocrazia delle città orientali, stato d’animo che si rispecchia in quanto dice Plutarco (Peri; Eujqumiva~, 10, p. 470 C) intorno alle ambizioni dei greci relativamente ai seggi senatoriali e alle magistrature. Il testo mostra che anche sotto Traiano i Greci non erano del tutto soddisfatti di ciò che avevano ottenuto, e chiedevano molto di più. Lo stesso può dirsi per l’ordine equestre, vd. le relative statistiche in A. STEIN, Der röm. Ritterstand (1927), pp. 412 sgg. Non prima del sec. II d.C. l’Oriente fu rappresentato in misura un po’ rilevante nell’ordine equestre: e più ci allontaniamo verso oriente, più tardi l’aristocrazia del relativo paese ebbe accesso nelle classi privilegiate. Cf. L. HAHN, Die römischen Beamten griechischer und orientalischer Abstammung in der Kaiserzeit seit Hadrians, in Festgabe Vierhundertjahrfeier des alten Gymnasiums zu Nürnberg, 1926. I primi consoli nativi dell’Asia Minore furono Polemaeanus di Sardi (92 d.C.) e Antius Quadratus (93 d.C.). I grandi possessi che quest’ultimo aveva nell’Asia Minore furono ereditati dagli imperatori, vd. W.M. CALDER, Monumenta Asiae Minoris
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La posizione del nuovo imperatore, in quanto imperatore, era molto più difficile di quella d’Augusto. La guerra civile aveva infierito soltanto per un anno, l’Oriente non ne era stato tocco, e neppure la Gallia, la Spagna, l’Africa erano state seriamente coinvolte in essa: chi ne aveva realmente sopportato il peso era stata l’Italia, e precisamente le sue parti più ricche, la settentrionale e la centrale. Vespasiano quindi non aveva agli occhi delle popolazioni l’aureola d’Augusto, il suo prestigio personale quasi divino: non era il Salvatore. E se non si può dubitare che lo stesso Augusto avesse incontrato l’opposizione di alcuni senatori che gli erano personalmente ostili, e che di tratto in tratto egli avesse dovuto venire alle prese con costoro, tanto più ciò accadde a Vespasiano. Da Tacito, da Svetonio, da Dione Cassio apprendiamo ch’egli trovò tra i senatori non pochi imperterriti e risoluti oppositori e che fu costretto, quasi contro voglia, a trattare duramente costoro e ad infliggere a qualcuno di essi la pena di morte. Le nostre informazioni sul regno di Vespasiano sono così magre e frammentarie, ch’è difficile capire quali fossero gli scopi dell’opposizione sorta contro di lui in Senato. Essa però certamente non era di carattere personale, come già sotto i Giulio-Claudii. Sappiamo che già fin dai tempi di Nerone all’avversione personale era sottentrata un’opposizione d’indole filosofica, della quale era stato uno dei rappresentanti più eminenti Trasea Peto. Questa nuova forma d’opposizione, che si fondava su ragioni teoriche e filosofiche, era certamente più vigorosa e tenace di quella che avevano dovuto affrontare i predecessori di Nerone. Dello stesso tipo fu l’opposizione diretta contro Vespasiano da Elvidio Prisco. Le nostre fonti c’indurrebbero a pensare, come fanno in generale gli storici moderni, che l’opposizione senatoria contro Vespasiano desiderasse il ristabilimento della repubblica, e che i suoi membri «professassero più o meno apertamente convinzioni repubblicane»10. È tuttavia difficile credere che un’opposizione seria abbia potuto fondarsi su siffatte idee utopistiche; ancor più difficile
antiqua, I, 1928, p. 17. [Vd. l’importante iscrizione di Mileto presso A.M. WOODWARD, negli «Ann. of the Brit. School at Athens», 28 (1926-27, pubblicato nel 1929), p. 120, dove si parla di una persona (il nome manca, la data è incerta) di Mileto che fu il quinto senatore di nascita asiatica e il primo nativo di Mileto: ll. 6 sgg.: aujto;~ de; platuvªshºmo~ dhvmou ÔRwmaivwn pevmpªto~º me;n ajpo; th`~ A ∆ siva~ o{lh~ ejk tªou` aijºw`no~ ajpo; de; Milhvtou kai; th`~ a[llhª~ ∆Iºwniva~ movno~ kai; ªpºrw`to~. 10. DIO CASS., 65 (66), 12, 2 (ed. Boissevain, vol. III, p. 148): basileiva~ te ajei; kathgovrei kai; dhmokrativan ejphv/nei. Cf., p. es., H. STUART JONES, The Roman Empire, London, 1922, p. 117. Lo spirito dell’opposizione senatoria trovò espressione principalmente nei non pochi libri riguardanti le vittime delle persecuzioni imperiali, p. es. quelli di C. FANNIO, Exitus occisorum aut relegatorum a Nerone (PLIN. IUN., Ep., V, 5), o di TITINIO CAPITONE, Exitus illustrium virorum (le vittime di Domiziano, PLIN. IUN., Ep., VIII, 12), che probabilmente furono molto adoperati da Tacito nelle sue opere storiche. Vedi R. REITZENSTEIN nelle «Nachr. Ges. d. Wiss. Göttingen», 1904, pp. 326 sgg.; IDEM nei «Sitzb. Heidelb. Akad.», 4 (1913), Abh. 14, pp. 52 sg.; A. VON PREMERSTEIN, Zu den sog. Alexandrinischen Märtyrerakten, «Philologus», Suppl. 16, 2 (1923), pp. 48 e 68. Dobbiamo ammettere che su questi scritti polemici abbiano esercitato forte influenza i filosofi cinici e stoici.
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è ammettere che il Senato romano, il quale certamente, data la sua composizione sociale, non poteva condividere le aspirazioni dell’antico Senato repubblicano, non avesse imparato nulla dall’anno dei quattro imperatori. Precisamente il carattere filosofico dell’opposizione senatoria è tutt’altro che favorevole all’idea che il fine politico di essa fosse principalmente il ritorno alla repubblica. Le due forme più popolari del pensiero filosofico del tempo, lo stoicismo e il cinismo, erano entrambe fondamentalmente non repubblicane10a. Vi è in quest’età una figura che ci è meglio nota d’ogni altra, meglio nota perfino di quelle di cui ci ha lasciato il ritratto Tacito. Sotto Vespasiano capitò a Roma un giovane ma già celebre sofista, Dione, cittadino di Prusa, più tardi chiamato Crisostomo. Ricco membro dell’aristocrazia della propria città, egli ebbe modo di stringere relazioni d’amicizia con non pochi tra i personaggi più autorevoli della capitale e anche con qualche membro della stessa famiglia imperiale. Nel primo periodo della sua dimora a Roma non sembra ch’egli si sia trovato in opposizione a Vespasiano, anzi sembra averlo approvato, anche nei provvedimenti presi dall’imperatore contro i filosofi e nel suo conflitto col celebre Musonio, uno dei capi dell’opposizione filosofica11. Ma Dione venne a contatto coi capi dell’opposizione senatoria, ed evidentemente ne accolse a poco a poco le vedute. Le opinioni politiche di Dione ci sono ben note: orbene, in nessuno dei suoi scritti si può riscontrare la minima traccia di simpatie repubblicane. La sua orazione ai Rodii, che probabilmente appartiene al periodo immediatamente anteriore al suo esilio e quindi al tempo delle sue più intime relazioni coi membri dell’opposizione senatoria al governo dei Flavii, non contiene alcun elogio della democrazia in sé stessa. È quindi impossibile credere che l’opposizione senatoriale propugnasse il ritorno alla repubblica pura e semplice, e volesse resuscitare l’aurea età del governo senatorio. È evidente ch’essa pensava a qualcos’altro.
10a. È urgentemente necessaria un’indagine sulle idee correnti nell’età ellenistica e nei primi due secoli d.C. intorno al potere supremo d’un singolo nello Stato. E.R. GOODENOUGH, The Political Philosophy of the Hellenistic Kingship, «Yale Class. Studies», 1 (1928), pp. 55 sgg. con l’analisi accurata di alcuni frammenti di scritti pitagorici peri; basileiva~ ha dimostrato quanto largamente fossero diffuse le idee pitagoriche intorno al re come novmo~ e[myuco~, e in quale stretto rapporto esse stiano con le concezioni persiane e indiane sul carattere del potere regio. Alcuni accenni di Filone e di Plutarco e un frammento di Musonio mostrano che le dottrine pitagoriche erano molto diffuse nel primo periodo dell’Impero, e che nei circoli intellettuali di quest’età non erano affatto onnipotenti le teorie stoiche e ciniche intorno alla monarchia. Molti importanti problemi relativi allo svolgimento delle idee politiche nell’Impero romano attendono ancora la loro soluzione. Qual è l’origine e la motivazione filosofica dell’idea del Principato (vd. cap. II nota 1)? Quando furono applicate al Principato romano le idee ellenistiche intorno al basileuv~? Quanti elementi pitagorici si trovano nella filosofia politica degli Stoici e dei Cinici? [Potrebbe essere di grande utilità un’accurata raccolta dei frammenti di Musonio e uno studio delle sue idee]. 11. Su Dione e il suo primo soggiorno a Roma vedi H. VON ARNIM, op. cit., pp. 142 sgg.; W. SCHMID in «R. E.», V, coll. 848 sgg.; CHRIST-SCHMID-STAEHLIN, Geschichte der griechischen Literatur, vol. II, 1, 6a ediz., pp. 361 sgg.
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L’opposizione senatoriale non era sola a combatter Vespasiano. Un singolare tratto del governo di quest’imperatore è ch’egli fu costretto ad espellere dalla città i cosidetti filosofi. In una nota orazione (agli Alessandrini, n. XXXII) Dione Crisostomo suddivide i filosofi dell’età sua in quattro classi: prima, i filosofi che non insegnavano affatto; seconda, quelli ch’erano effettivamente professori, cioè che davano lezioni a un determinato gruppo di studenti; terza, quelli che si davano all’oratoria pubblica, viaggiando di luogo in luogo e tenendo pubbliche letture; quarta, la classe più interessante, che il nostro autore descrive come segue (Or., XXXII, 10): «Dei cosidetti Cinici v’ha un gran numero nella città […]. Ai crocevia, negli angiporti, all’ingresso dei templi, questi uomini radunano e traviano schiavi e marinai ed altra simile gente, snocciolando scherzi e grande varietà di pettegolezzi e di arguzie volgari. In tal guisa essi non fanno alcunché di bene, ma invece gran male». Quest’ultima categoria di filosofi è famigliare a chiunque abbia studiato l’Impero romano: essi furono il tratto più cospicuo della vita cittadina dell’Oriente durante i secoli primo e secondo dell’era nostra. Era naturale che non pochi di essi andassero a finire a Roma, dove molta gente capiva il greco e prendeva interesse al loro insegnamento. Di questo sappiamo assai poco; ma certamente esso era informato allo spirito generale della dottrina cinica, che combatteva i convenzionalismi della vita e predicava il ritorno alla natura12. Orbene, se questa era la somma e la sostanza del loro insegnamento, perché essi poterono apparire a Vespasiano seriamente pericolosi, tanto da essere da lui espulsi da Roma insieme coi filosofi in generale, con quei filosofi ch’erano i maestri e gli inspiratori dei senatori dell’opposizione? Sembra impossibile trovare altra spiegazione all’infuori di questa: tutti i filosofi, alti e bassi, facevano una propaganda politica e sociale, che a Vespasiano parve assolutamente pericolosa13. Che cosa bandivano essi in sostanza? Già poteva suscitare non poche preoccupazioni il lato sociale dei loro sermoni, ch’era atto ad alimentare cattivi sentimenti nel proletariato. Quest’aspetto sociale non basta tuttavia di per sé a spiegare l’azione di Vespasiano; e d’altra parte era ristretto ai filosofi di strada. Vi deve essere stato anche qualche elemento politico nella propaganda dei Cinici di strada. L’unico argomento politico che fosse comune tanto all’insegnamento degli Stoici quanto a quello dei Cinici – argomento che può esser sembrato a Vespasiano realmente pericoloso – era il tema del tiranno in con-
12. Sui Cinici in generale, e su quelli della seconda metà del sec. I d.C. in particolare, vedi l’eccellente studio di J. BERNAYS, Lucian und die Kyniker, Berlin, 1879, cf. P. WENDLAND, Die philosophische Propaganda und die Diatribe, in Die hellenistisch-römische Kultur, 2a-3a ediz., 1912, pp. 75 sgg. Disgraziatamente il W. non tiene alcun conto del carattere politico che la propaganda cinica ebbe nel sec. I e nella prima parte del sec. II d.C. 13. Le migliori testimonianze sull’espulsione dei filosofi, ordinata da Vespasiano, sono fornite da DIO CASS., 65 (66), 13 e 13, 1a (ed. Boissevain, vol. III, pp. 146 sgg.), cf. 15 (ed. Boissevain, p. 149) e da SUET., Vesp., 15. La pena di morte cui nel 75 d.C. fu sottoposto Heras mostra che questi aveva aggredito l’imperatore in persona. Cf. M.A. LEVI, Studi sulla politica di Vespasiano, «Romana», 1 (1937), pp. 361 sgg.
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trapposizione al re, tema spesso trattato sia dai Cinici sia dagli Stoici, e svolto più tardi anche da Dione Crisostomo nel suo celebre discorso intorno alla tirannide e al regno. Una delle principali differenze tra il re e il tiranno si faceva consistere nel fatto che il primo ricevesse il suo grado da Dio, che lo sceglieva perché era il migliore tra gli uomini, sicché il suo potere non poteva essere ereditario. Se questo era il punto in cui si collegavano l’opposizione filosofica dei senatori e i discorsi di piazza dei Cinici, possiamo spiegarci la persecuzione che colpì tanto senatori quanto filosofi di strada, ed anche l’osservazione fatta in Senato da Vespasiano, dopo la scoperta di una congiura contro di lui, che il suo successore doveva esser suo figlio o nessuno. Questa dichiarazione, sia detto incidentalmente, non sembra contenere il minimo un accenno alle presunte aspirazioni repubblicane del Senato: essa è probabilmente soltanto una dura risposta a coloro che bandivano la dottrina che doveva essere l’uomo migliore – la dottrina dell’adozione14. Insieme con la forte corrente d’opinione pubblica che considerava tirannico il governo di Vespasiano perché questi voleva che gli succedesse suo figlio, fluttuava anche un’altra corrente, meno pericolosa ma molto caratteristica per le condizioni sociali di questo periodo. Sappiamo da Svetonio (Vesp., VIII, 2) che alcune province e libere città greche nonché alcuni regni vassalli sotto il regno di Vespasiano andarono soggetti ad agitazioni (tumultuosius inter se agebant) e furono perciò puniti con la perdita della «libertà». Svetonio nomina l’Acaia, la Licia, Rodi, Bisanzio, Samo, tutti luoghi prosperosi, alcuni dei quali erano anzi città commerciali e industriali di grande importanza. Contemporaneamente anche gli Alessandrini mostrarono malumore verso Vespasiano (Suet., Vesp., XIX, 2; cf. Strabo, XVII, 796). Come spiegare quest’atteggiamento dell’Oriente greco? Occorre osservare che questo malumore non fu una specialità dell’età dei Flavii: esso continuò sotto Traiano e perfino dopo Adriano, specialmente ad Alessandria. Dalle orazioni tenute da Dione Crisostomo in alcune città orientali sotto Traiano, come pure dal trattato di Plutarco «Intorno ai doveri dell’uomo di Stato», che probabilmente appartiene allo stesso periodo, sappiamo più o meno che cosa andasse accadendo nelle città greche15. Senza contare le loro per-
14. DIO CASS., 65 (66), 12 (dopo il discorso di Elvidio Prisco): sunecuvqh te oJ Oujespasiano;~ kai; dakruvsa~ ejk tou` bouleuthrivou ejxh`lqe tosou`ton movnon uJpeipw;n o{ti ejme; me;n uiJo;~ diadevxetai h] oujdei;~ a[llo~. Cf. SUET., Vesp., 25. Penso che Elvidio avesse insistito in Senato perché Vespasiano adottasse l’uomo migliore della classe senatoria, seguendo così le vedute degli Stoici e dei Cinici; ma Vespasiano rifiutò perfino di ascoltare tali suggerimenti. il parlare in generale della sostituzione delle istituzioni repubblicane potrebbe aver suggerito all’imperatore la peggiore delle soluzioni. Il senso delle sue parole è questo: «è meglio restaurare la Repubblica che non seguire il metodo indicato da Elvidio», cf. WEYNAND, «R. E»., VI (1909), coll. 2676 sg. Contro il mio punto di vista CHARLESWORTH, nella C. A. H., XI, p. 9.
15. Dall’orazione alessandrina di Dione apprendiamo che, probabilmente poco tempo prima ch’egli si fosse recato in quella città, vi erano state gravi sommosse, represse da soldati romani comandati da un certo Conone (Or., 32, 71 sg.). È possibile che queste sommosse si collegassero con una caccia agli Ebrei: vedi i cosidetti «Atti dei mar-
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petue reciproche rivalità e competizioni, ereditate dai tempi della libertà politica, vi erano due rilevanti fattori della vita urbana che turbavano tanto le autorità cittadine quanto il governo romano: la continua lotta sociale tra ricchi e poveri, e la forte avversione nutrita dall’intiera popolazione, ricchi e poveri indistintamente, contro i sistemi amministrativi dei governatori romani. Sicché il movimento sociale assumeva necessariamente nelle città, specie tra i proletari, netto carattere antiromano, poiché il governo romano sosteneva le classi dominanti, i manifesti oppressori del proletariato16. Io son convinto che questi due fattori politico-sociali siano stati la causa dei torbidi che periodicamente tenevano agitata Alessandria. Intorno a queste agitazioni possediamo ampie informazioni sia nelle fonti letterarie sia in certi documenti o frammenti di un libello politico, i cosidetti «Atti dei martiri pagani», curiosa collezione ch’ebbe molta diffusione tra la popolazione greca ed ellenizzata dell’Egitto. I torbidi assunsero la forma di cacce agli Ebrei, ma erano certamente rivolti contro il governo romano ed ebbero carattere quasi esclusivamente politico. È certo inoltre che, come nelle città dell’Asia Minore, così anche
tiri pagani» di Ermaisco. P. Oxy. 1242; W. WEBER in «Hermes», 50 (1915), pp. 47 sgg., cf. A. VON PREMERSTEIN, Zu den sogenannten Alexandrinischen Märtyrerakten, «Philologus», Suppl. 16, 2 (1923); H.I. BELL, Antisemitism in Alexandria, «J. R. S.», 31 (1941), p. 14; cf. P. Oxy 2177: un’udienza di fronte ad Adriano con la partecipazione di delegati ateniesi che apparentemente sostenevano gli Alessandrini in quanto cittadini della loro città-sorella.
16. Vi è una coincidenza notevole tra i Politika; Paraggevlmata di Plutarco e i discorsi pronunziati da Dione in alcune importanti città greche d’Oriente, specialmente ad Alessandria (32) e a Tarso (33 e 34). Le stesse idee fondamentali ricompaiono nei discorsi tenuti da Dione in Bitinia, specialmente in quelli indirizzati ai suoi concittadini di Prusa. Ai politicanti delle città greche, Plutarco avverte di cercare di capir meglio le condizioni reali, che non possono essere paragonate a quelle del passato glorioso (Praec. ger. reip., 17, Mor., 814a); raccomanda d’accontentarsi di quel tanto di libertà ch’era concesso loro dai Romani (ibid., 32, Mor., 824c); di sottomettersi onestamente ai governatori romani e di mantenere con essi relazioni amichevoli (ibid., 17, Mor., 813e; 18, Mor., 814c); di conservar la pace tra le due classi della popolazione, ricchi e poveri (ibid., 19, Mor., 815a; 32, Mor., 824b). Quasi identici sono i consigli dati da Dione alle suaccennate città. A Tarso imperversava un’incessante contesa civile sia tra diversi strati della classe dominante (DIO CHR., Or., 34, 16 sg.) sia tra quest’ultima e il proletariato (34, 213). Vi erano anche continui contrasti coi governatori e procuratori (34, 9 e 15, cf. 42). È noto che quasi identiche alle condizioni di Tarso erano quelle delle città di Bitinia, tanto sotto Vespasiano (Or., 46) quanto dopo il ritorno di Dione dall’esilio (vedi le sue orazioni bitiniche). La vita di queste città era caratterizzata prevalentemente da tentativi di rivoluzione sociale e da aspre lotte contro i governatori. È da deplorarsi che J. SOELCH nel suo studio Bithynische Städte im Altertum, «Klio», 19 (1924), pp. 165 sgg., non si addentri nei problemi economici e sociali che travagliavano queste città (cf. C.S. WALTON, nel «J. R. S.», 19 (1929), pp. 50 sgg.). La stessa lotta politica e sociale tra l’aristocrazia e il proletariato si svolgeva ai tempi di Nerone nelle città «erodiane» di Palestina: ne siamo bene informati per Tiberiade, dove il proletariato era composto di nau`tai a[poroi e di un certo numero di contadini, vd. IOS. FL., Ant. Iud., XVIII, 2, 3 (37-8) e Vita, 9 (32-6) e 12 (66); cf. le mie Studien, p. 305, e il cap. VII, nota 30.
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ad Alessandria i filosofi cinici di strada avevano grande ascendente sugli elementi più irrequieti della città, e specialmente sul proletariato. Quest’influenza è dimostrata dalla frequenza con cui negli «Atti dei martiri» di Alessandria compaiono temi cinici, come quelli «intorno al re e al tiranno», «intorno alla libertà e alla schiavitù», e così via17. Come s’era venuto formando questo stato di cose? Ad Alessandria i torbidi incominciarono già sotto Caligola; ma il resto dell’Oriente non mostra alcun segno di malcontento anteriormente ai Flavii. A spiegazione del fenomeno credo opportuno ricordare al lettore ciò che ho detto nel capitolo precedente intorno al mirabile risveglio economico avveratosi in Oriente dopo la fine delle guerre civili18. Il risorgimento economico fu seguito da una rinascita cul-
17. Sono lieto di constatare che l’opinione da me per primo formulata (vd. il mio articolo su I martiri della civiltà greca nel periodico mensile russo «Mir Bohzij», 1901), che cioè i cosidetti «Atti dei martiri pagani» rispecchino l’opposizione politica degli Alessandrini contro il governo romano e che questa si sia avvalsa dei processi intentati ai capi della caccia agli Ebrei come pretesto per esprimere il suo spirito antiromano, sembri oggi generalmente accolta, benché il mio articolo non venga quasi mai citato (Rossica sunt, non leguntur). Vedi U. WILCKEN, Zum Alexandrinischen Antisemitismus, nelle «Abh. d. sächs. Ges. d. Wiss.», 27 (1909), pp. 825 (45) e 836 (56); IDEM, Chrestomathie, Leipzig, 1912, pp. 44 sgg. (con un accenno al mio articolo); A. VON PREMERSTEIN, Zu den sog. Alexandrinischen Märtyrerakten, «Philologus», Suppl. 16, 2 (1923), IDEM, Alexandrinische Geronten vor Kaiser Gaius. Ein neues Bruchstück der sogenannten Alexandrinischen Märtyrer-Akten, Giessen, 1939 («P. Bibl. Univ. Giessen», 46), cf. cap. II, nota 9; H.I. BELL,
Juden und Griechen im römischen Alexandreia, 1926 («Beitr. z. alt. Orient», 9); cf. [W. Graf UXKULL-GYLLENBAND, Neues Bruchstück aus den sog. Märtyrerakten, «Sitzb. Berl. Ak.», 28 (1930), pp. 664 sgg.; H.I. BELL, A New Fragment of the Acta Isidori, «Arch. f. Pap.-F.», 10 (1931), pp. 5 sgg.; C. HOPKINS, The Date of the Trial of Isidorus and Lampo before Claudius, «Yale Class. Studies», 1 (1928), pp. 171 sgg.; P. Oxy. XVIII, 2177 (processo dell’epoca di Adriano); cf. O.M. PEARL, nell’«Amer. J. Arch.», 47 (1943), p. 499] e cap. III, nota 2. Non posso qui addentrarmi nella controversia relativa al carattere di questi «Atti», alla quale hanno partecipato recentemente parecchi studiosi. È possibile che i vari libelli redatti in forma di «Atti», che circolavano ad Alessandria e in generale tra la popolazione greca d’Egitto, siano stati riuniti in un codice in una località qualsiasi verso la fine del sec. II, e che la maggior parte dei nostri frammenti derivino da questo «libro» dei martiri alessandrini. Sono convinto che alcuni punti caratteristici degli «Atti», che ci ricordano i sermoni cinici (per es. l’importanza data da Isidoro al fatto ch’egli non è uno schiavo e che l’imperatore è un parafronw`n basileuv~, l’insistere che fanno gli Alessandrini sulla loro nobiltà e sulla loro splendida educazione in confronto con l’educazione degli imperatori ecc.), e il tono di recisa sfida al potere imperiale che costituisce il tratto distintivo di quasi tutti questi «Atti», siano stati introdotti in essi non alla fine del sec. II (data della presunta codificazione), ma molto prima e gradualmente. Un buon parallelo agli «Atti» è fornito dal II libro dei Maccabei, 6 (ed. Swete) e IV, 5 (relazione sul processo contro eminenti Giudei tenuto dinanzi al tuvranno~ Antioco Epifane). Nota il motivo sempre ripetuto del tuvranno~ e del basileuv~ nei lunghi, reboanti ed impertinenti discorsi dei Giudei processati. 18. Una buona illustrazione è data dai quadri che Dione Crisostomo traccia di Tarso in Cilicia e di Celene in Frigia: Or., 34, 8 (Tarso): o{qen tacu; meivzwn ejgevneto hJ povli~ kai; dia; to; mh; poluvn tina crovnon dielqei`n to;n ajpo; th`~ aJlwvsew~, kaqavper oiJ
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turale, cui l’Occidente aveva assai poco da contrapporre. La civiltà greca, l’arte greca, la letteratura greca vennero anzi nuovamente prese a modello dai Romani. Nerone fu il primo a proclamare urbi et orbi il nuovo vangelo e a condursi a norma di esso. Nelle città greche e specialmente nella loro classe più elevata, quella degli intellettuali, la stima di sé crebbe a dismisura, assai più di quanto fosse ragionevole. Sotto Vespasiano venne la reazione. L’Oriente, che per primo aveva riconosciuto Vespasiano, attendeva da lui ogni sorta di privilegi, una nuova età dell’oro: libertà, cittadinanza romana, seggi in Senato, e così via. Ma la delusione fu amara. Vespasiano, come abbiamo visto, si guardò bene dal seguire la via di Nerone. Egli non era né cosmopolita, né greco: italico di nascita, partecipava a tutti i pregiudizi degli Italici e non credeva nel primato dei Greci. Per giunta, egli sapeva bene di non poter far nulla senza l’appoggio dell’Occidente, e che l’opposizione orientale era un «vento di fronda», non un pericolo reale; anzi spinse questa politica forse un troppo oltre, suscitandosi così nuovi avversari in Roma medesima. Il discorso rodiese di Dione mostra che tanto lui quanto altri del suo tipo (egli non era a Roma il solo greco autorevole e stimato) partecipavano alla fede nella rinascita del mondo greco e chiedevano per esso maggiore rispetto. Uomini come Dione, è vero, non avrebbero mai predicato rivolte o agitazioni; ma alla loro moderazione si contrapponeva l’affaccendarsi dei filosofi di strada, che si servivano di ogni mezzo per diventare popolari tra le masse; altra ragione perché Vespasiano dovesse cercare di render loro impossibile la vita a Roma. La loro caratteristica tenacia è dimostrata dal fatto che, per quanto cacciati in bando, essi riuscirono poi a ritrovare la via di Roma e a riprendervi la loro predicazione sulle pubbliche piazze19. Il governo di Tito fu soltanto un breve episodio nella storia delle relazioni tra gli imperatori e le popolazioni dell’Impero. Le sue concessioni al Senato e la sua politica di mite tolleranza non arginarono il diffondersi del malcontento, soprattutto in Oriente. È notevole che proprio in questo momento apparve nell’Asia Minore un «falso» Nerone, che trasse a sé grosse schiere di seguaci20. La crisi divenne acuta allorché a Tito successe Domiziano. È inutile ripetere intorno al governo di costui fatti notissimi. Per coloro che avversavano la tirannide militare, il carattere personale ed egoistico assunto dal Principato sotto i Giulio-Claudii, e per i nemici della monarchia dinastica che ormai sembrava saldamente stabilita a Roma, il governo di Domiziano era una tirannide manifesta, un dispotismo nel senso che Stoici e Cinici davano a questa parola. Domiziano infatti non nascose le sue idee circa il potere imperiale. Con assoluta franchezza e sincerità, egli non volle mai accettare la dottrina stoica del «re» ideale. Egli voleva essere obbedito ed aver pieno potere autocratico come padrone e dio. Ciò non importava necessariamente alterazione dell’aspetto esteriore del Principato, quale era stato creato da Augusto e dai suoi successori. È possi-
megavlh/ me;n novsw/ crhsavmenoi, tacu; d jajnasfhvlante~, ejpeida;n tuvcwsin iJkanh`~ th`~ meta; tau`ta ejpimeleiva~, pollavki~ ma`llon eujevkthsan, e 35, 13 sgg. (Celene). 19. DIO CASS., 65 (66), 15 (ed. Boissevain, vol III, p. 150). 20. DIO CASS., 66, 19, 3 b (ed. Boissevain, p. 154); Orac. Sib., IV, 119, 137; WEYNAND, «R. E»., VI (1909), col. 2721.
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bile però che Domiziano sia stato costretto a gettar via ogni riguardo dai rinnovati attacchi dei nemici del regime esistente. Sono ben note le sue aspre crudeltà contro l’opposizione: tornavano i peggiori tempi di Tiberio, di Caligola, di Nerone. È certissimo che in tutto l’Impero le classi superiori erano unanimi nel condannare questa politica e nell’invocare un accordo tra il potere imperiale e le richieste dei suoi oppositori. Sembra anzi che perfino l’esercito, ad onta dei favori prodigatigli da Domiziano, non parteggiasse tutto per l’imperatore. È adunque molto probabile che la congiura di Corte, la quale mise fine ai giorni di Domiziano, non sia stata un caso isolato, ma avesse vaste diramazioni nelle province e tra le truppe. Se è così, possono soddisfacemente spiegarsi le singolari storie intorno alle profezie fatte in Germania da un tal Largino (?) Proclo (forse un soldato) e la visione avuta ad Efeso da Apollonio di Tyana: racconti, che Dione accetta come fatti certi21. Insomma, sotto Domiziano l’opposizione rinnovò i suoi attacchi contro il potere imperiale in generale e contro la persona dell’imperatore in particolare22. Né la lotta restò circoscritta alla città di Roma. Sappiamo che Dione Crisostomo, allorché fu bandito da Roma e gli fu vietata la dimora anche nella sua nativa Bitinia, condusse vita nomade, travestendosi, assumendo probabilmente falsi nomi, ma non cessando dal predicare dappertutto il nuovo vangelo stoico-cinico, ormai diventato anche suo. Egli si dedicò quasi interamente all’opera di diffondere le nuove idee, ed è notevole che in realtà la sua propaganda fosse diretta contro Domiziano e il suo sistema di governo. Ed è di molto significato, per caratterizzare le condizioni prevalenti in Oriente, il fatto che a Dione non fu permesso di vivere in Bitinia: il prestigio da lui goduto nel paese natio sarebbe potuto diventar pericoloso per il dominatore. Di che natura era mai questa propaganda? I discorsi di Dione e i dati che si hanno intorno all’attività svolta a Roma dai filosofi stanno a dimostrare che si trattava in prima linea di attacchi contro la tirannide, identificata col governo di Domiziano. Questo era il lato negativo; ma avevano gli avversari di Domiziano qualcos’altro, qualche cosa di positivo, da opporre alla tirannide? Più tardi, sotto Traiano, Dione espose all’imperatore e a noi che cosa egli pensasse intorno alla costituzione dell’Impero romano e allo Stato ideale in genere. Di contro alla tirannide egli pone il regno (basileiva) stoico e cinico, e lo dipinge con colori che sembrano presi, almeno in parte, dalla prassi del Principato di Traiano23. Secondo la comune opinione, Dione e l’opposizione,
21. DIO CASS., 67, 16 e 18 (ed. Boissevain, pp. 184 e 185). 22. Circa i provvedimenti di Domiziano contro i filosofi e la relativa cronologia vd. W. Otto nei «Sitzb. bayr. Akad.», 1919, 10, pp. 43 sgg.; W.A. BAEHRENS in «Hermes», 58 (1923), pp. 109 sgg.; W. OTTO, loc. cit., 1923, 4, pp. 10 sgg. 23. Vd. DIO CHR., Or., 6, peri; turannivdo~, cf. Or. 62, peri; basileiva~ kai; turannivdo~; cf. altresì DIO CASS., 67, 12, 5 (ed. Boissevain, p. 179): Mavternon de; sofisth;n, o{ti kata; turavnnwn eijpev ti ajskw`n, ajpevkteine. Dione ha composto quattro discorsi sulla basileiva, e anche negli altri discorsi dell’ultimo periodo della sua vita si trovano frequentissime allusioni alle sue idee in materia. Il tema della basileiva, diventato ormai comune in tutto l’Impero, ricompare in quasi tutte le orazioni compo-
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nel fare questa pittura, furono costretti a sottomettersi alla necessità, ad accettare la monarchia e fare buon viso ad avversa fortuna, identificando la monarchia traianea con la basileiva stoica: solo a malincuore essi avrebbero rinunciato al loro ideale repubblicano. Io non vedo alcuna ragione che possa indurmi ad accettare siffatte vedute; mi sembra anzi che fin dal principio l’opposizione, fatta forse qualche eccezione (se è vero che Elvidio Prisco era un vero repubblicano), abbia accettato il Principato ma, facendo proprio il pensiero di Antistene, dei Cinici recenti, e degli Stoici, chiedesse ch’esso fosse foggiato secondo il modello della basileiva cinico-stoica24. Il programma del regno stoico e cinico, quale è stato tracciato da Dione (Peri; basileiva~, I e III) è noto e non occorre qui esporlo particolareggiatamente. I punti fondamentali di esso sono i seguenti: l’imperatore è scelto dalla divina provvidenza e opera in pieno accordo col Dio supremo; vivente, non è egli medesimo un dio; egli considera il suo potere non come un privilegio personale, ma come un dovere; la sua vita è fatica (povno~), non piacere (hJdonhv); egli è il padre e il benefattore (path;r kai; eujergevth~) dei suoi sudditi, non il loro padrone (despovth~); i suoi sudditi sono uomini liberi, non già schiavi: lo devono amare, ed egli dev’essere a un tempo filopolivth~ e filostratiwvth~; egli dev’essere polemikov~ ma anche eijrhnikov~, nel senso che non lascia sopravvivere alcuno contro cui dover combattere; finalmente, deve circondarsi d’amici (allusione al Senato) che partecipino alla cura di tutti gli affari dello Stato, e siano uomini liberi (ejleuvqeroi) e nobili (gennai`oi). Senza dubbio, in questo programma specifico di Dione vari punti non sono teorici, ma rispondono al carattere e all’attività di Traiano25; ma un semplice sguardo al panegirico di Traiano reci-
ste da Dione in questo periodo. Intorno alle sue quattro orazioni peri; basileiva~ (Orr. 1-4) e alle orazioni 56 e 57, che a quelle si collegano strettamente, vedi H. VON ARNIM, op. cit., pp. 398 sgg. Un pregevole studio sui discorsi di Dione sotto l’aspetto politico è quello di E. GRIMM, Studi sulla storia dello sviluppo del potere imperiale romano, vol. II, 1901, pp. 160-256 (specialmente pp. 224-7), cf. la mia recensione nel «Giornale del Ministero della pubblica educazione», 341 (1902), pp. 148 sgg., e la replica del GRIMM, ibid., p. 172 (tutto in russo). 24. Circa le fonti delle orazioni di Dione peri; basileiva~ (fino a un certo punto Antistene, ma principalmente i Cinici e gli Stoici seniori), vedi E. THOMAS, Quaestiones Dioneae, Leipzig, 1909. 25. Specialmente i punti concernenti le sue relazioni coi soldati e la sua politica imperialistica (l’antitesi tra polemikov~ ed eijrhnikov~) Or. I, 27: kai; polemiko;~ me;n ou{tw~ ejsti;n w{st jep jaujtw`/ ei\nai to; polemei`n, eijrhniko;~ de; ou{tw~ mhde;n ajxiovmacon aujtw`/ leivpesqai. kai; ga;r dh; kai; tovde oi\den, o{ti toi`~ kavllista polemei`n pareskeuasmevnoi~ touvtoi~ mavlista e[xestin eijrhvnhn a[gein. Ibid., 28: o{sti~ me;n ga;r uJperovpth~ tw`n strateuomevnwn kai; oujdevpote h] spanivw~ ejwvrake tou;~ uJpe;r th`~ ajrch`~ kinduneuvonta~ kai; ponou`nta~, to;n de; ajnovnhton kai; a[noplon o[clon diatelei` qwpeuvwn, colui è simile a un pastore che non cura i suoi cani, col risultato che il gregge è distrutto così dalle fiere come dai cani. Questo passaggio è ottimamente appropriato al governo di Nerone, e ad esso certamente allude: com’è noto, Nerone è per Dione il tipo perfetto del tiranno. E finalmente, ibid. 29: o{sti~ de; tou;~ me;n stratiwvta~ diaqruvptei mhvte gumnavzwn mhvte ponei`n parakeleuovmeno~ è simile a un
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tato da Plinio nel prender possesso del consolato, e un confronto di esso con le orazioni prima e terza di Dione intorno al regno, mostrano in qual misura queste ultime fossero non una semplice registrazione di fatti attuali, ma, anzitutto e soprattutto, un’esposizione di norme eterne che Traiano doveva accettare o respingere26. Io ritengo pertanto che la maggioranza di coloro che avversavano il governo dei Flavii non fossero ostili al Principato in sé, ma che il loro atteggiamento nei riguardi di esso corrispondesse piuttosto a quello di Tacito. Essi lo accettavano, ma desideravano che fosse il più possibilmente vicino alla basileiva stoica e il più possibilmente diverso dalla tirannide stoica, identificata con la tirannide militare di Caligola e di Nerone in particolare e con quella di Domiziano. Con l’ascensione di Nerva e di Traiano si concluse la pace tra la massa della popolazione dell’Impero, e specialmente le classi colte della borghesia cittadina, e il potere imperiale. Le orazioni di Dione sul regno, pronunziate in presenza di Traiano e poi spesso ripetute dal loro autore, probabilmente per desiderio dell’imperatore, nelle città più importanti dell’Oriente, formulavano i punti della dottrina stoica che Traiano accettava e quelli in cui la dottrina medesima si adattava alle esigenze della vita pratica.
cattivo kubernhvth~: allusione tanto a Nerone quanto a Domiziano. Cf. le note affermazioni di EPITTETO, Diss., 4, 5, 17: tivno~ e[cei to;n carakth`ra tou`to to; tevtarton; Traianou`. Fevre. Nevrwno~. rJi`yon e[xw, ajdovkimovn ejsti, saprovn. PLUTARCO nel suo trattato pitagorico ad principem ineruditum (Mor. ed. Bernardakis, V, 11 sgg. ), parlando della stoltezza di certi regnanti che si fanno rappresentare col fulmine o con la corona radiata, pensa non soltanto ad alcuni sovrani ellenistici, ma anche a Caligola e a Nerone. Cf. la scena dell’arco di Benevento, in cui Traiano viene salutato da Giove e dalle altre divinità (cap. VIII, nota 6), e un’altra consimile rappresentata su alcune monete auree di Traiano (F.S. SALISBURY e H. MATTINGLY, The Reign of Trajan Decius, «J. R. S.», 14 (1924), pp. 10 sg.). Il contrasto è ovvio: Traiano è protetto da Giove, Caligola è addirittura Zeus Epiphanes. Nell’Or. 3, 133 sgg. di DIONE abbiamo un altro punto che si riferisce personalmente a Traiano. Parlando dei piaceri veramente degni di un re, Dione rifiuta la musica e il teatro (allusione a Nerone) e raccomanda invece la caccia, ch’era il divertimento favorito di Traiano e di Adriano (vedi i medaglioni circolari dell’arco di Costantino a Roma). Va notato che queste idee intorno alla basileiva compaiono già nel discorso di Borysthenes, che appartiene certamente al periodo immediatamente posteriore al ritorno di Dione dall’esilio. Su questo punto non posso associarmi alle idee di H. VON ARNIM, op. cit., pp. 483 sgg. A poco a poco i giudizi intorno agli imperatori, formulati dal punto di vista della filosofia della monarchia illuminata, si pietrificarono in un tipo, che per esempio compare presso FRONTONE, Ad Verum imp., II, 1 (NABER p. 119; HAINES, II, pp. 128 sgg.). Secondo questo passo, Cesare e Augusto sono i fondatori del Principato, Tiberio è messo da parte con un ille: imperatores autem deinceps ad Vespasianum usque eiusmodi omnes, ut non minus verborum puderet quam pigeret nomen et misereret facinorum. Questo tipo, illuminato da un grande artista, compare già in Tacito. 26. Per le relazioni esistenti tra la prima orazione di Dione peri; basileiva~ e il Panegyricus di Plinio (tenuti entrambi nel 100 d.C.), vd. H. VON ARNIM, op. cit., p. 325; J. MORR, Die Lobrede des jüngeren Plinius und die erste Königsrede des Dion von Prusa, Progr. Troppau, 1915; K. MUENSCHER nel «Rhein. Mus.», 37 (1920), p. 174.
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Il fatto che questa pace fu accettata dall’esercito, che rimase tranquillo ed obbediente per circa un secolo, mostra che i soldati non parteggiavano per la tirannide militare ma erano disposti ad accettare la soluzione propugnata dalle classi colte di tutto l’Impero. Il Principato del secolo secondo della nostra era, la monarchia illuminata degli Antonini, fu vittoria delle classi colte, come il Principato di Augusto era stato vittoria dei cives Romani. Lo spettro della monarchia orientale innestata sulla tirannide militare era stato ancora una volta scongiurato, ma, come vedremo ben tosto, per l’ultima volta. Nessun documento formulò i termini in cui fu concluso il compromesso tra le classi colte e gli imperatori. La costituzione dell’Impero romano rimase non scritta, com’era stata sin dagli inizi della storia romana. Ciò che avvenne fu un nuovo adattamento del potere imperiale alle condizioni reali, non una riduzione di esso. Il potere degli imperatori romani non fu sminuito, rimase anzi accresciuto: il governo d’un solo era stato ormai riconosciuto come fatto e come necessità da tutte le classi della popolazione, e senza una volontà singola l’Impero romano era destinato ad andare in frantumi. Lo sviluppo della burocrazia imperiale procedé senza ostacoli. Ma fu dato nuovo rilievo al principio fondamentale del Principato augusteo: l’imperatore non era un monarca di tipo orientale, era il magistrato supremo dell’Impero romano, sia dei cittadini romani sia dei provinciali. Egli non era eletto da alcun corpo costituzionale, ma il potere non si trasmetteva di padre in figlio per virtù di mere relazioni di sangue. L’imperatore adottava l’ottimo fra gli ottimi, scegliendolo cioè tra i membri della classe senatoria, tra i suoi pari, nel seminario degli imperatori. La classe senatoria era di per sé ben preparata a siffatto compito, in quanto i suoi membri dedicavano la propria vita al servizio dello Stato. Il potere imperiale inoltre venne considerato non come un privilegio ma come un onere, un servizio imposto da Dio e dal Senato al detentore del potere. L’imperatore personificava, per così dire, l’Impero; quindi il suo potere e la sua persona erano sacri ed egli medesimo era oggetto di culto. In lui assumeva corpo la maestà dell’Impero. Egli non era il padrone dello Stato, ma il suo primo servitore: servire lo Stato, ecco il suo dovere. Quando si trovava al campo, doveva sostenere tutti i disagi della vita militare al pari d’un semplice soldato. Se si trovava alla capitale, doveva attendere ai suoi doveri di reggitore dello Stato, lavorando accanitamente giorno e notte per la sicurezza e la prosperità dell’Impero. Doveva quindi condurre la vita di chi cammina al vertice dell’umanità, non già d’un comune mortale, e tuttavia esser quanto era possibile modesto e alieno da stravaganze. La sua fortuna privata era fusa nel patrimonio dello Stato: ciò ch’era dell’imperatore era dello Stato, e viceversa. Soltanto sotto quest’aspetto si può intendere un detto d’Antonino Pio. Discutendo con la moglie dopo essere stato adottato da Adriano egli disse (SCR. HIST. AUG., Ant. Pius, 4): «Pazza, ora che siamo stati promossi all’Impero, abbiamo perduto quel che avevamo prima!». Il motto può essere inventato, ma mette in evidenza quale fosse l’opinione dei contemporanei circa la posizione dell’imperatore. Nella sua vita domestica l’imperatore doveva trascurare l’amore pei propri figli: doveva sapere scorgere l’uomo migliore tra i suoi pari ed elevarlo al trono mediante l’adozione. Queste furono le massime di governo professate da tutti gli imperatori romani del sec. II fino a Commodo. Non è credibile che questa unità di vedu-
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te sia stata accidentale, per esempio che l’attuabilità del sistema dell’adozione sia stata dovuta soltanto al fatto che nessuno degli imperatori anteriori a M. Aurelio ebbe figli, e che la loro politica derivasse dal carattere personale di questi imperatori, tanto diverso dall’uno all’altro. Traiano, il grande guerriero e conquistatore; Adriano l’intellettuale, l’uomo di raffinati gusti artistici, l’ultimo grande cittadino di Atene, il romantico sul trono; Antonino Pio, il buon borghese italico della classe senatoria, sfornito di tendenze intellettuali ma ricco di buon senso e di buon umore; M. Aurelio, il filosofo austero, che viveva nei suoi libri e per i suoi libri, e trovava nella meditazione astratta la più gran gioia della vita: tutti costoro, nonostante la netta differenza dei loro caratteri, seguirono lo stesso sistema di attività imperiale. I fatti sono ben noti. Il quadro dato nelle pagine precedenti è tratto non dalle orazioni di Dione o dai trattati di M. Aurelio, ma dalla vita stessa degli imperatori in quanto imperatori. La loro condotta era imposta dall’opinione pubblica. I lunghi anni di governo imperiale, le lunghe ore di meditazione, il naturale processo di selezione che si compiva nella nuova classe senatoria – che all’infuori del nome non aveva nulla di comune con l’antica aristocrazia senatoria dei tempi di Augusto ed era composta ormai di esperti funzionari, generali, governatori provinciali – creavano uno stato d’animo che trovava la sua espressione nella vita degli imperatori, appartenenti tutti a questa classe. Disciplina austera, dovere, servizio dello Stato erano in questo periodo le parole d’ordine della classe dirigente del popolo romano. Gli imperatori si adoperavano a conformarsi essi medesimi a questi principii, ed esigevano che secondo essi vivessero almeno la classe dominante e l’esercito. Disciplina e obbedienza si chiedevano al Senato, alla classe equestre, ai funzionari dello Stato, militari o civili, ai soldati. Non fu un caso che il culto della «Disciplina» sia stato introdotto per la prima volta nell’esercito romano da Adriano, e va osservato che obbedienza e disciplina non soltanto esigevano gli imperatori, ma riconoscevano come loro imprescindibile dovere anche i soldati. Mai per l’innanzi l’esercito romano era stato così ben allenato e ben disciplinato, mai aveva compiuto l’opera sua così vigorosamente e lietamente come ai tempi della monarchia illuminata. La storia delle spedizioni di Traiano e quella delle difficili guerre combattute sotto M. Aurelio mostrano che l’esercito rispondeva alle più rigorose esigenze possibili, sebbene soffrisse forti perdite e provasse gravi disastri. Lo stesso va detto dell’amministrazione dell’Impero, che mai per l’innanzi era stata così liberale, così umana, così efficiente come sotto il forte governo degli Antonini. L’unica spiegazione di questo fatto, che io possa vedere, è che i sentimenti della popolazione erano mutati, che si era prodotta una reazione contro la frivolezza e il materialismo del sec. I, reazione che assicurò al mondo antico varie decine d’anni di pace e di tranquillità27.
27. Occupandoci qui d’un periodo ben conosciuto, non è necessario enumerare e valutare tutte le nostre fonti letterarie e i libri, monografie, articoli moderni (vedi cap. III, nota 1). I più importanti tra i libri e gli articoli relativi a quest’argomento saranno ricordati nelle note seguenti. Circa l’aspetto costituzionale, vd. le opere citate nel cap.
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Uno dei più importanti tratti di questo periodo è la politica degli imperatori nei riguardi delle province. La maggior parte degli imperatori del sec. II furono essi medesimi di nascita provinciale. Traiano e Adriano erano cittadini romani di Spagna, Antonino Pio e M. Aurelio erano oriundi della Gallia28. Essi appartenevano alla classe senatoria e conservarono i privilegi di essa, nonché quelli della seconda classe dell’Impero, l’equestre, né disconobbero in alcun modo ai membri di queste due classi il diritto d’essere i primi servitori dello Stato dopo l’imperatore. Ma la composizione delle due classi era ormai completamente mutata. Nessuna di esse era più ristretta alla sola Italia. È vero che a tutti i loro membri si richiedeva d’avere il domicilio e qualche proprietà in Italia, ma pochi di essi non più di una metà di loro vi erano nati. Usciti dall’aristocrazia municipale delle province, essi si conservavano in rapporto con i paesi d’origine, dell’Oriente e dell’Occidente. In tal modo le classi superiori della società romana, ormai immensamente cresciute di numero, rappresentavano non più l’aristocrazia di Roma o dell’Italia, ma l’aristocrazia dell’Impero, gli strati più ricchi e più colti della popolazione urbana di tutto il mondo romano. Questo fatto probabilmente basta a dar ragione del mutamento di concezioni morali accennato dianzi. La nuova nobiltà era scelta dagli imperatori, in vista del servizio dello Stato, fra gli uomini più ricchi e di più elevata educazione di tutto l’Impero. L’Impero romano invero era ancor governato da una classe aristocratica e plutocratica; ma la selezione dei membri di essa si fondava non tanto sulla nascita e sulla ricchezza quanto sui meriti personali, sulla capacità, sulle doti intellettuali29. La crescente importanza dell’Oriente è dovuta al suo splendido materiale e alla sua rinascita culturale.
La nuova aristocrazia, per lo più d’origine provinciale, naturalmente comprendeva meglio i bisogni delle province e apprezzava meglio il loro diritto ad essere considerate e governate non come predii del popolo romano, ma come parti
III, nota 1, e O.TH. SCHULZ, Vom Prinzipat zum Dominat, 1919 (prefazione e introduzione), cf. W. WEBER, Trajan und Hadrian, nei «Meister der Politik», 1923. 28. Sulla composizione della classe senatoria per il periodo da Adriano a Commodo vedi P. LAMBRECHTS, La Composition du sénat romain de l’accession au trône d’Hadrien à la mort de Commode, Antwerpen, 1936. Sul senato orientale, IDEM, ibid., p. 195. Per ciò
che riguarda l’origine e la storia della famiglia di Traiano vedi l’eccellente studio di J. RUBEL, Die Familie des Kaisers Traian, «Zeitschr. f. oest. Gymn.», 67 (1916), pp. 481 sgg.; R. PARIBENI, Optimus Princeps, I, 1928, pp. 45 sgg. Su Adriano, vd. W. GRAY, A Study of the Life of Hadrian Prior to his Accession, negli «Smith College Studies in History», vol. IV, 2, 1919; B.W. HENDERSON, The Life and Principate of the Emperor Hadrian, London, 1923. Su Antonino Pio e M. Aurelio, vd. P. VON ROHDEN, «R. E.», II, coll. 2493 sgg., e I, coll. 2279 sgg. (cf. II, col. 2434), e gli articoli della Prosop. imp. Rom.; cf. l’articolo di W. WEBER citato nella nota 27, ed E.E. BRYANT, The Reign of Antoninus Pius, 1895. Il quadro della vita famigliare di questi imperatori, quale si può desumere dall’epistolario di Frontone, può servire indubbiamente di tipo per quella della nobiltà di questo periodo, sia romana sia provinciale. È la vita di una nobiltà agraria: attaccata all’antico, fedele alla tradizione romana, angusta. [Cf. M. ROSTOVTZEFF, Hadrian und M. Aurel, «Menschen die Geschichte machen», I, 1931, pp. 184 sgg.]. 29. Vd. la nota 9.
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integranti dello Stato romano. Il mutamento cominciò sin dall’età dei Flavii. Alcuni provvedimenti in questo senso erano già stati presi da Augusto e da qualcuno dei suoi successori, specialmente da Tiberio e da Claudio: ma il punto culminante fu raggiunto sotto gli Antonini. Occorre notare che nessuno dei primi successori d’Augusto, ad eccezione di Tiberio, prima di diventar imperatore aveva governato una provincia; nessuno dei primi successori di Tiberio conosceva anche solo approssimativamente per visione diretta i bisogni e i desideri delle province; le visite di Caligola e di Claudio erano state fatte unicamente per fini militari. Tutti gli imperatori anteriori ai Flavii, eccettuati Galba e Vitellio, la cui elevazione era stata soltanto la reazione degli eserciti provinciali contro la pratica invalsa, erano stati Romani, avevano dimorato a Roma, e considerato Roma come centro dell’universo. Dai Flavii in poi s’ebbe un mutamento completo. Vespasiano aveva speso gran parte della sua vita nel comandare eserciti e nel governare province, e così pure Tito. Certamente Domiziano rappresentò ancora una volta l’antico tipo degli imperatori di città; ma dopo lui tutti gli imperatori fino a Commodo spesero quasi interamente nelle province la loro vita, anteriormente all’assunzione al trono, e alcuni, come Adriano, anche posteriormente. In tali condizioni è naturale che dovessero completamente scomparire l’antica teoria e pratica di governo provinciale, e che gli imperatori del secondo secolo si sentissero, non capi soltanto della città di Roma o dei cittadini romani, ma di tutto l’Impero. Ciò è dimostrato sia dal rapido allargamento del diritto di cittadinanza in tutto l’Impero, sia dall’uso sempre più frequente di conferire a città provinciali i diritti dei municipi romani oppure delle colonie romane o latine. Anche più importante è il fatto che le province sentivano ormai d’essere individualità, unità locali, «nazioni», se vogliamo adoperar qui questo termine. L’Impero romano era ormai costituito dall’unione di tali nazioni. Questo pensiero è brillantemente espresso dalla nota serie monetaria di Adriano, dalla serie delle province. Lo stesso indirizzo è attestato anche dal mutamento intervenuto in questo secolo nella politica finanziaria, economica, sociale degli imperatori: ma di ciò parleremo più tardi, dopo che avremo passato in rassegna le condizioni dell’Impero nel sec. II nei riguardi economici e sociali. A mano a mano che mutavano i sistemi del governo romano verso le province, alla loro volta anche queste nel loro complesso, e specialmente le loro classi superiori, si riconciliavano sempre più col regime romano. Per le province occidentali le nostre notizie in materia sono molto scarse; ma l’immensa quantità d’iscrizioni poste nelle città d’Occidente in onore degli imperatori del sec. II mostra quanto le loro classi superiori fossero soddisfatte delle condizioni esistenti. Anche in Oriente l’atteggiamento delle popolazioni cominciò a poco a poco a mutare. L’attività di Dione e di Plutarco, le orazioni di Elio Aristide, perfino le diatribe di Luciano, dimostrano che nelle parti di lingua greca dell’Impero romano le classi dirigenti a poco a poco s’acquetavano allo stato di cose esistente, rinunziando ai sogni di libertà e lavorando al consolidamento della potenza romana in Oriente30. I più recalcitranti furono gli
30. Lo stesso spirito d’abnegazione per il bene pubblico, che contraddistingue gli imperatori e i funzionari del sec. II, è dimostrato anche dai membri migliori delle città
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Alessandrini, che continuarono a combattere il governo romano e a vedere nel potere imperiale la «tirannide», anziché il «regno». Ma è da notare che questa
dell’Impero. Ottimo esempio ne porge Dione, che avrebbe potuto passar la sua vita nella capitale a fianco dell’imperatore suo amico e tuttavia preferì rimanere per lo più nella sua piccola città nativa; e sì che la sua vita a Prusa non era davvero piacevole, in quanto egli venne spesso assalito da nemici e corse pericolo di perdere la sua popolarità tra le masse popolari, vd. H. VON ARNIM, op. cit., passim. Altro esempio ben noto è quello del grande scrittore Plutarco. Niente vi può esser di più nobile che le parole da lui dette nei Politika; Paraggevlmata, 15 (Mor., p. 811 C), e specialmente queste: ejgw; d jajnavpalin pro;~ tou;~ ejgkalou`nta~ eij keravmw/ parevsthka diametroumevnw/ kai; furavmasi kai; livqoi~ parakomizomevnoi~, oujk ejmautw`/ ge < fhmiv < tau`t joijkodomw`n ajlla; th`/ patrivdi. Cf. VOLKMANN, Leben, Schriften und Philosophie des Plutarch von Chaeronea (1869), pp. 52 sgg.; CHRIST-SCHMID, Geschichte der griechischen Literatur, vol. II, 1, 6a ediz., p. 488; nella nota 4 lo SCHMID cita un epigramma molto interessante come manifestazione dei sentimenti nutriti dai Greci in questo periodo (J. GEFFCKEN, Gr. Ep., p. 82). Intorno a Plutarco come proconsole o procuratore romano, vedi H. DESSAU in «Hermes», 45 (1910), p. 616. Altro esempio è quello di Sostrato di Beozia, che viveva sul Parnaso, combatteva i briganti e costruiva strade (LUC., Dem., 1). Indubbiamente ci sentiamo tediati allorché in migliaia d’iscrizioni sparse in tutto l’Impero e poste per ricordare decreti delle città in onore di loro cittadini cospicui, leggiamo sempre gli stessi elogi sulla liberalità, onestà ecc. dei loro magistrati, ginnasiarchi, sacerdoti e così via: ma non bisogna dimenticare che quel che dicono queste iscrizioni risponde assolutamente a verità. Dove troveremmo oggi queste migliaia di persone ricche disposte a spendere non solo il loro tempo (senza compenso!) nel governare gli affari della città, ma anche il loro denaro sotto forma di summa honoraria e di donazioni volontarie? Si suol parlare d’ambizione, di meschino desiderio di celebrità locale, ma non dobbiamo disconoscere che quella di un Opramoas era una nobile ambizione, e che non pochi prendevano denaro in prestito per sovvenire la loro città e perciò si rovinavano, vedi PLUT., Peri; tou` mh; dei`n daneivzesqai (Mor., pp. 827 sgg.). È molto istruttiva a questo proposito la lettura dell’eccellente libro di B. LAUM, Die Stiftungen in der griechischen und römischen Antike (1914) (cf. J.C. ROCKWELL, Private Baustiftungen für die Stadtgemeinde auf Inschriften der Kaiserzeit im Westen des römischen Reiches (1909), e seguirvi la storia di queste infinite munifiche donazioni alle città, talvolta ammontanti a milioni. Lo spirito pubblico ch’esse attestano può paragonarsi soltanto con quello di cui sono oggi animati molti ricchi Americani: ma i Romani davano per fini di pubblica utilità relativamente più che non gli Americani moderni. Intorno ad Elio Aristide vedi A. BOULANGER, Aelius Aristides, Paris, 1923 («Bibl. des Éc.», 126); su Luciano, CHRIST-SCHMID, op. cit., vol. II, 2, 5a ediz., pp. 550 sgg. Un notevole compendio delle opinioni correnti nelle province orientali sugli imperatori romani del I e del II sec. (l’autore era ebreo, ma il suo giudizio non era influenzato dalla sua religione) ci è conservato nel libro XII degli Oracula Sibyllina (cf. libro V): vedi J. GEFFCKEN, Römische Kaiser im Volksmunde der Provinz, nelle «Gött. gel. Nachr.», 1901, pp. 183 sgg., e cf. RZACH, «R. E.», II ser., IV, coll. 2155 sgg. È interessante vedere che accanto agli imperatori del II sec., e specialmente a M. Aurelio, anche Domiziano vi è esaltato come grande benefattore dell’Impero. Questa può essere l’espressione dei sentimenti che a quel tempo nutrivano gli Ebrei, ma non era certamente l’opinione delle classi dirigenti dell’Asia Minore e dell’Egitto. Questo fatto è spiegato da A.N. SHERWIN-WHITE, The Roman Citizenship, Oxford, 1939, p. 262 come applicazione agli imperatori del test «pace e guerra», dal momento che
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resistenza si manifesta in un documento dell’età di Commodo e che in esso Commodo è messo in contrasto col padre31. Un altro fatto non trascurabile è che gli imperatori del sec. II non perseguitarono più i filosofi, neppure i Cinici. Il compito di combatterli e di metterli in ridicolo fu assunto dai filosofi e dai sofisti devoti: e in questa contesa letteraria il governo non si mischiò, sebbene si debba tener conto del fatto ch’esso favorì la diffusione della cultura nelle città così dell’Oriente come dell’Occidente e che sussidiò tanto singoli professori e retori quanto alcuni istituti d’istruzione32.
gli imperatori più popolari fra la massa della popolazione dell’Impero romano erano quelli che con maggiore efficacia difesero l’Impero dai nemici esterni. Posso tuttavia far notare che la reputazione di Domiziano sotto questo profilo non era molto alta.
31. Vd. i cd. «Atti» di Appiano, U. WILCKEN, Zum Alexandrinischen Antisemitismus, «Abh. d. sächs. Ges. d. Wiss.», 27 (1909), pp. 822 sgg., e Chrestomathie, 1912, n. 20; LIETZMANN, Griechische Papyri, Bonn, 19102 («Kl. Texte f. theol. u. philol. Vorles. u. Übung.», 14), n. 21; A. VON PREMERSTEIN, Zu den sog. Alex. Märtyrerakten, p. 28 sgg. Nuovi frammenti: CB. WELLES, A Yale Fragment of the Acts of Appian, «Trans. Amer. Phil. Ass.», 67, (1936), pp. 7-23; i frammenti di nuovi «Atti» di un processo di martiri sotto Adriano nel P. Oxy. XVIII, 2177. Impressionante è la poderosissima influenza cinica visi-
bile in questi libelli: l’opposizione del tuvranno~ al basileuv~; la turanniva, ajfilagaqiva, ajpaideusiva di Commodo, il tiranno, contrapposte alle doti di M. Aurelio (filovsofo~, ajfilavrguro~, filavgaqo~); l’orgogliosa sfida lanciata all’imperatore dal nobile ginnasiarca, che ci ricorda la condotta dei Cinici a Roma sotto Vespasiano e quella di Elvidio Prisco in Senato (SUET., Vesp., 15) ecc. È anche degno di rilievo che l’opposizione di Appiano era meramente politica: era diretta contro il «brigante» Commodo nello stesso senso dell’opposizione che a questo imperatore faceva il Senato romano. Come al tempo dei Flavii, anche ora gli Alessandrini erano altrettanto indignati contro l’imperatore quanto l’opposizione di Roma. Vedi Acta App., I, 6 sgg.: strªaºfei;~ kai; ijdw;n ÔHliovdwron ei\pen: ÔHliovdwre, ajpagomevnou mou oujde;n lalei`~; ÔHliovdwro~ ei\pen: kai; tivni e[comen lalh`sai mh; e[conªtºe~ to;n ajkouvonta; trevce, tevknon, teleuvta: klevo~ soiv ejstin uJpe;r th`~ glukutavth~ sou` patrivdo~ teleuth`sai: mh; ajgwniva (supplementi in parte del VON PREMERSTEIN); cf. IV, 3 sgg.: tiv~ h[dh to;n deuvterovn mou ”Aidhn proskunou`nta … metekalevsato; a[ra hJ sugklhto~ h] su; oJ lh/vstarco~; («Eliodoro, io son menato via e tu non dici nulla?» Eliodoro rispose: «A chi debbo io parlare, se non c’è nessuno che mi dia ascolto? Va’, figlio mio, muori. È una gloria per te morire per la patria diletta. Non angosciarti […]». «Chi mi ha richiamato, mentre io già salutavo l’Ade vicinissimo? È stato il Senato, o sei stato tu, capo-brigante?»). 32. La conclusione della pace tra i filosofi e gli imperatori romani è attestata da vari fatti. È noto l’atteggiamento di Plotina verso i filosofi, e così pure sono note le lettere di Plotina ad Adriano, di Adriano a Plotina, e di quest’ultima ai filosofi della scuola epicurea, C. I. L. III, 12.283, cf. 14.203, 15; I. G. III, 49; DITTENBERGER, Syll.3, 834 (I. G. II2, 1099). Cf. A. WILHELM nei «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 2 (1899), pp. 270 sgg.; J. RUBEL nella «Zeitschr. f. Österr. Gymn.», 67 (1916), pp. 494 sgg. Vd. in generale C.E. BOYD, Public Libraries and Literary Culture in Ancient Rome, Chicago, 1915; C. BARBAGALLO, Lo Stato e l’istruzione pubblica nell’Impero romano, Catania, 1911; specialm. L. HAHN, Ueber das Verhältniss von Staat und Schule in der römischen Kaiserzeit, «Philologus», 30 (1920), pp. 176 sgg., ed E. ZIEBARTH, «R. E.», II ser., II (1923), col. 766
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Tuttavia non può affermarsi che nel sec. II nell’Impero romano non vi fossero scontenti. Certamente, anche nell’Oriente le classi superiori si erano più o meno riconciliate con l’Impero; ma altrettanto non avvenne per le classi inferiori. L’esempio della Bitinia e i torbidi nati ad Alessandria sotto Traiano mostrano che mai cessò nell’Asia Minore né in Egitto l’antagonismo di classe del quale abbiamo parlato e che non era facile impresa per il governo romano e per i magistrati cittadini trattare con le classi inferiori della popolazione urbana33. Ritorneremo su quest’argomento nel capitolo prossimo. Poche parole aggiungeremo sulla composizione sociale dell’esercito romano sotto gli Antonini. È stato più volte constatato in questo capitolo che l’esercito romano era il fattore decisivo non solo nella vita politica, ma anche nella vita sociale ed economica dell’Impero. Sorge il quesito: sotto M. Aurelio e
(art. Schulen); [A. GWYNN, Roman Education from Cicero to Quintilian, 1926]; cf. CH.H. OLDFATHER, The Greek Literary Texts from Greco-Roman Egypt, 1923 («Univ. of Wisconsin Studies in the Soc. Sc. and Hist.», 9). Sul controllo statale dell’istruzione e i privilegi concessi a insegnanti e dottori vd. le iscrizioni di Pergamo (età di Vespasiano, 74 d.C.) pubblicate e discusse da R. HERZOG, Urkunden zur Hochschulpolitik der römischen Kaiser, «Sitzb. Preuss. Akad. Wiss.», 32 (1935), pp. 967-1019; M.A. LEVI, in «Romana», 1 (1937), pp. 361 sgg. Purtroppo si sa pochissimo intorno al grande Museo di Efeso con le sue associazioni di professori e dottori. Sui Musaea: su chi coltivava all’epoca dell’Impero romano professioni liberali con il titolo ajpo; Mouseivou vedi P. LEMERLE, «B. C. H.», 59 (1935), pp. 131-140, L. ROBERT, Études Anatoliennes. Recherches sur les inscriptions grecques de l’Asie Mineure, Paris, 1937, p. 146. Musaea provinciali: a Efeso, J. KEIL, Ärzteinschriften aus Ephesos, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 8 (1905), pp. 128, 135-136; IDEM, Forsch. in Ephesos, III, n. 68; HERZOG, loc. cit., p. 1005; ad Atene, J. H. OLIVER, in «Hesperia», 3 (1934), pp. 191 sgg.; a Smirne, ROBERT, loc. cit., pp. 146 sgg. (presiede un avvocato). L’istituto fioriva sotto
Traiano; e di esso s’interessò vivamente il noto C. Vibio Salutare, vd. J. KEIL, negli «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 8 (1905), pp. 128 sgg. e 135; Forsch. in Ephesos, II, nn. 28 g e 65; cf. III, n. 68 e J. KEIL, negli «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 23 (1926), Beibl., p. 263. È interessante il fatto che nel sec. II d.C. alcuni retori eminenti ebbero una parte importante nella vita municipale di Efeso. Quanto ampiamente fosse diffusa l’istruzione tra uomini e donne è dimostrato dal P. Oxy. XII, 1467, cf. TH. REINACH nella «Rev. Ét. anc.», 19 (1917), p. 32. Il mutamento di politica verso la cultura, attuato dagli imperatori del sec. II, non fu forse un’altra vittoria della pubblica opinione in quanto rappresentata dai filosofi? Vedi APOLLONIO DI TIANA, Epist., 54, I, (Kayser, p. 358): A ∆ pollwvnio~ dikaiwtai`~ ÔRwmaivwn: limevnwn kai; oijkodomhmavtwn kai; peribovlwn kai; peripavtwn ejnivoi~ uJmw`n provnoia, paivdwn de; tw`n ejn tai`~ povlesin h] nevwn h] gunaikw`n oujq u j m J i`n ou[te toi`~ novmoi~ frontiv~. La lettera può essere una falsificazione, ma rispecchia bene le opinioni del periodo precedente all’intervento dello Stato nelle cose scolastiche delle città. In generale lo Stato non solo continuava a favorire la diffusione della cultura attraverso le scuole in Oriente come in Occidente dando sussidi ad alcuni enti educativi ma anche, a partire dall’età di Vespasiano, con la nomina di alcuni professori, con un salario, con la concessione di numerosi privilegi personali e del diritto di formare associazioni. Questo segnò l’inizio del controllo dello stato sull’istruzione.
33. Vedi, p. es., l’interessante frammento d’un’iscrizione di Pergamo probabilmente dell’età di Adriano, A. CONZE nelle «Ath. Mitt.», 24 (1899), p. 197, nota 62; I. G. R. IV, 444, editto d’un proconsole che prende provvedimenti contro gli scioperanti adibiti alla costruzione d’un edificio pubblico a Pergamo.
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1. Traiano al campo: «adlocutio»
2. Traiano e i capi barbarici
3. M. Aurelio in marcia con l’esercito
TAV. XVII – SCENE GUERRESCHE DELL’ETÀ ROMANA IMPERIALE
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DESCRIZIONE DELLA
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XVII
1. BASSORILIEVO DEL MONUMENTO FUNEBRE DI TRAIANO, LA COLONNA DEL FORUM TRAIANI A ROMA. C. CICHORIUS, Die Reliefs der Traianssäule, tav. LXXVII, testo III, p. 169; K. LEHMANN-HARTLEBEN, Die Traianssäule, tav. 49, n. 104. Traiano col suo Stato maggiore su di un podium mentre tiene uno dei suoi discorsi (allocutiones) ai soldati del corpo di spedizione. La prima fila è formata dai portatori delle invincibili insegne (signiferi), dietro i quali stanno i soldati legionari e la cavalleria. Al pari delle altre scolture della colonna, questa scena raffigura in Traiano il gran duce dei Romani, il primo dei Romani, il princeps, che opera per il bene e la gloria dell’impero romano. 2. ALTRO BASSORILIEVO DELLA COLONNA DI TRAIANO. C. CICHORIUS, Die Reliefs der Traianssäule, tav. LXXIII, nn. 262-264, testo III, p. 142 sgg.; K. LEHMANNHARTLEBEN, op. cit., tav. 46, n. 100. Traiano circondato dal suo stato maggiore, tutti in abito civile, riceve un’ambasceria composta da un gruppo di capi nemici: Germani, Sarmati, Traci, e forse anche gli antenati degli Slavi. Sullo sfondo si vede una città fortificata, con un anfiteatro e una casa fuori le mura. La scoltura è realmente un capolavoro del grande artista che ha decorato la colonna: non è soltanto un gruppo bello artisticamente, ma anche un trionfo dell’intuizione psicologica. Due mondi l’uno incontro all’altro: l’orgoglioso mondo dei Romani, dei civili abitatori delle città, dei togati (rappresentato dall’imperatore, dai suoi ufficiali, dai soldati romani), e il mondo novello, il mondo dei Germani, dei popoli balcanici, degli Slavi, dei barbari, insomma, ch’erano pronti ad accogliere l’eredità del mondo romano e a dare inizio a una nuova vita sulle rovine delle antiche città. Essi son venuti a salutare il grande Romano non da schiavi o da sudditi, ma da uguali, non meno di lui fieri e fiduciosi in se stessi. Proprio allora s’era iniziato il duello tra i due mondi, e il profondo significato di esso fu ben capito dall’artista di genio che creò questa scena. Senza dubbio la grande importanza di questa lotta era sentita pienamente dai grandi imperatori del secondo secolo. 3. BASSORILIEVI DELLA COLONNA DI MARCO AURELIO A ROMA. Roma, Piazza Colonna. E. PETERSEN, A. VON DOMASZEWSKI, G. CALDERINI, Die Marcus-Säule auf der Piazza Colonna in Rom, 1896, tav. 119 A, CX-CXI. L’esercito romano in marcia. L’imperatore M. Aurelio, a capo scoperto, senz’armi, va a piedi come un semplice soldato fra due suoi generali atteggiati come lui e due vexilla (stendardi). Il suo cavallo è condotto da un soldato. Dietro di lui si vedono le bestie che la popolazione deve consegnare per nutrire i soldati, e davanti alcuni pesanti carri carichi di armi e trainati da cavalli e buoi requisiti nel paese nemico e nelle vicine province romane. Sotto il mero aspetto tecnico e artistico questa scoltura è assai inferiore a quelle della colonna di Traiano; ma è anch’essa piena di vita e di movimento, e la figura dell’imperatore, cospicua tra le altre, è una testimonianza impressionante del modo con cui M. Aurelio sapeva mettere in pratica la sua elevata idea del dovere. Infatti, che cosa se non la coscienza del dovere poteva indurre l’attempato filosofo a marciare per lunghe ore attraverso le foreste e paludi dei paesi danubiani quasi affatto selvaggi?
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Commodo l’esercito rimase precisamente quel ch’era stato sotto i Flavii e Traiano? Era esso ancora, essenzialmente, un esercito di attuali o futuri cittadini, comandato da cittadini romani nati a Roma o in Italia? Questo quesito è di grande importanza per l’esatta intelligenza degli avvenimenti dei sec. II e III. Fino a quel punto è possibile una risposta? È evidente che sotto l’aspetto della posizione politica di diritto dei singoli elementi dell’esercito, la composizione di esso non mutò. Per tutto il secondo secolo gli ufficiali dello stato maggiore vennero presi dalle file della classe senatoria e della classe equestre; i centurioni erano cittadini romani nati ed allevati per lo più in Italia o nelle parti romanizzate delle province occidentali; i soldati della guardia pretoriana erano italici o nati nelle province romanizzate della Spagna e del Norico o in Macedonia; i soldati legionari erano tutti de iure cittadini romani; i soldati dei reggimenti ausiliari si presumeva che almeno capissero il latino e conseguivano la cittadinanza al termine del servizio. Tuttavia è certo che, ad onta di queste qualificazioni politiche, quasi tutti i soldati erano provinciali, mentre gli Italici servivano soltanto nella guardia imperiale, che forniva una parte dei centurioni anche al resto dell’esercito. Dopo Adriano ogni provincia dovette fornire i suoi soldati. Questi fatti sono stati indagati a fondo dagli studiosi moderni e sono ben conosciuti. Molto meno nota è la composizione dell’esercito sotto l’aspetto sociale. A quale classe o a quali classi della popolazione appartenevano i soldati? Quale parte dell’Impero era maggiormente rappresentata nell’esercito, la città o la campagna? Il fatto che, dando il loro nome ufficiale completo, i soldati menzionavano quasi sempre una città come luogo d’origine, non risolve il problema. Il soldato può aver appartenuto al territorio d’una città e al tempo stesso essere stato contadino-proprietario o affittuario, colonus. Senza dubbio le truppe ausiliarie si reclutavano per lo più tra i contadini e i pastori. Ma i legionari? L’opinione corrente è che anch’essi fossero ormai per lo più contadini, gli abitanti di città non avendo inclinazione al servizio militare ed essendo d’altronde tenuti in poco conto dagli ufficiali. Quest’opinione a mio parere è giusta. Gli imperatori del secondo secolo cercavano, naturalmente, di arrolare nell’esercito quanta più gioventù romanizzata fosse possibile; e questa la si poteva trovare per lo più nelle città. Essi approvarono e favorirono la formazione di associazioni provinciali di giovani, che all’occorrenza operavano come milizia locale; ma in realtà proprio queste associazioni giovanili, questi semenzai di soldati delle legioni a poco a poco perdettero il loro carattere urbano, specialmente nelle province di frontiera. È interessante a questo riguardo, seguire l’evoluzione che si compì nei collegia iuvenum delle province del Reno nel periodo posteriore ai Flavii. Le associazioni di giovani di queste province non si restringevano infatti alle poche città delle due Germanie: le troviamo anche nelle civitates, nei pagi, nei vici, comunità tutte strettamente collegate con le tribù e stirpi celtiche e germaniche. E tali associazioni non erano per nulla somiglianti ai «collegi» delle città italiche. Nelle province di frontiera celtoromaniche esse si innestarono sulle istituzioni nazionali mezzo religiose, ch’erano comuni agli Indo-europei in generale e che erano esistite anche in Italia nell’età preromana. Può essere che in origine i iuvenes della Germania rappresentassero unicamente la classe migliore degli abitanti delle province germaniche, la classe dei coltivatori e proprietari terrieri agiati, sia di origine locale sia
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forestieri; ma è certo ch’essi a poco a poco giunsero ad abbracciare tutta la gioventù locale atta al servizio militare. In tal modo nel corso del secondo secolo l’esercito romano a poco a poco perse la sua connessione con le città e, ritornando al suo carattere originario, diventò un esercito di proprietari agrari e di contadini, di gente di campagna, che non aveva ancora perduto il contatto con i campi e con la vita agricola. Vedremo nei capitoli sesto e settimo che quest’elemento rurale costituiva la maggioranza della popolazione dell’Impero. I migliori soldati, naturalmente, erano forniti appunto dai paesi dove la vita di città si sviluppava solo lentamente e non assorbiva molta parte della popolazione agricola, cosa questa che avveniva, per esempio, in Grecia, in Italia, e fino a un certo punto persino in Gallia. È possibile che nella composizione dell’esercito possa trovarsi la ragione della tranquillità e dell’ossequio alla legge da esso mostrati per tutto il secolo II. Era più facile disciplinare e dominare un esercito di contadini, che mai avevano preso parte alcuna agli affari politici, anziché un esercito di proletari cittadini, più progrediti intellettualmente e più abituati alla vita politica in generale. L’ipotesi che nel secondo secolo, e specialmente nella seconda metà di esso (sotto il governo di M. Aurelio e di Commodo), l’esercito fosse composto prevalentemente di contadini, è corroborata dal fatto che esso non era più formato di volontari. Sotto M. Aurelio, quando l’imperatore si trovò impegnato in una difficile lotta sulle frontiere meridionali e settentrionali, quando i Germani stavano per invadere l’Italia, quando la peste devastava l’Oriente e l’Italia, non fu più possibile affidarsi soltanto all’arrolamento volontario. È ben noto che M. Aurelio dovette ordinare la coscrizione di schiavi, gladiatori, vigili municipali, e perfino di Germani e di briganti delle tribù di Dalmazia e di Dardania. Questo può essere stato un provvedimento eccezionale, ma esso sta ad indicare che anche in tempi meno gravi M. Aurelio difficilmente si sarà astenuto dal completare l’esercito mediante la coscrizione. Dobbiamo ricordare che il servizio militare era stato sempre un dovere così dei cittadini romani come dei provinciali, e che la coscrizione era il sistema normale di reclutamento delle truppe ausiliarie. Poiché la maggior parte della popolazione dell’Impero era costituita di gente di campagna, e poiché gli abitanti delle città, specialmente in questi tempi pericolosi, cercavano in un modo o nell’altro di sottrarsi al servizio militare, è evidente che l’esercito di M. Aurelio doveva esser composto principalmente di contadini provenienti specialmente dalle contrade meno civili dell’Impero romano, che fornivano i soldati più vigorosi34.
34. Tutti gli imperatori in tempi critici ricorsero all’arruolamento coercitivo; ma esso non divenne un’istituzione, un sistema più o meno regolare, prima di Traiano, com’è dimostrato dal fatto che in questo periodo si usava mandare all’esercito dei vicarii invece di determinati abitanti della provincia di Bitinia (PLIN. IUN., Ep. ad Tr., 30; TH. MOMMSEN, Ges. Schr., vol. VI, p. 36, nota 2). Va notato che la popolazione romanizzata della Spagna si lagnava amaramente delle reiterate leve forzose che erano state fatte sotto Traiano e Adriano, SCR. HIST. AUG., M. Aur., 11, 7, e Hadr., 12, 4; J. SCHWENDEMANN, Der historische Wert der Vita Marci bei den Scriptores Historiae Augustae (1923), p. 43; RITTERLING, «R. E.», XII, col. 1300. Son lieto di vedere che la
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Circa la composizione degli eserciti provinciali in confronto con la guardia pretoriana dà sufficiente lume il quadro tracciato da Cassio Dione (LXXIV, 2) parlando della riforma di Settimio Severo, che licenziò l’antica guardia pretoriana e la sostituì con soldati scelti degli eserciti provinciali. «In tal modo – dice Dione – egli rovinò completamente la gioventù italica, che si volse al brigantaggio e alla professione gladiatoria invece che al servizio militare, e riempì le città di una variopinta turba di soldati dall’aspetto selvaggio, di orribile favella» – evidentemente la maggior parte di essi non parlava latino – «e brutali di modi». Indubbiamente, adunque, l’esercito romano della fine del secondo secolo, sebbene composto ancora di Romani, nel senso di abitanti dell’Impero romano, divenne sempre più barbaro e sempre meno rappresentante degli strati colti della popolazione. Fatta eccezione degli ufficiali superiori e inferiori, non più gli elementi urbani, ma quasi esclusivamente i figli della campagna davano ormai l’impronta all’esercito romano.
mia interpretazione delle parole degli SCR. HIST. AUG. s’accorda con quella suggerita allo Schwendemann dal VON DOMASZEWSKI. Tuttavia debbo insistere nel concetto che Italica adlectio significhi arruolamento coercitivo di coloro che possedevano la condizione di Italici non soltanto nell’Italia settentrionale ma anche, e specialmente, nella Gallia e nella Spagna, cf. cap. III, nota 8. Cf. B.W. HENDERSON, The Life and Principate of the Emperor Hadrian, London, 1923, pp. 171 sgg. (sulla politica militare di Adriano in generale). Intorno alle leve coercitive di M. Aurelio vedi SCR. HIST. AUG., M. Aur., 21; DITTENBERGER, O. G. I. S., 511; A. VON PREMERSTEIN in «Klio», 11 (1911), pp. 363 sgg., (a Sparta, cf. L. ROBERT, nel «B. C. H.», 52 (1928), p. 417 circa I. G. V 1, 719) e «Klio», 13 (1913), p. 84 (i diogmitai). Il predominare nell’esercito di M. Aurelio di elementi rurali che neppure capivano il latino o il greco è illustrato da ciò che DIO CASS., 72 (71), 5, 2 (ed. Boissevain, p. 256) racconta intorno a Basseo Rufo, prefetto pretoriano di M. Aurelio: h\n de; tw`/ Mavrkw/ oJ ÔRou`fo~ oJ Bassai`o~ e[parco~, ta; me;n a[lla ajgaqov~, ajpaivdeuto~ de; uJp jajgroikiva~ kai; ta; prw`tav ge tou` bivou ejn peniva/ trafeiv~ […] o{ti oJ Mavrko~ ejlavlei prov~ tina th`/ Lativnwn fwnh`/, kai; ouj movnon ejkei`no~, ajll joujde; a[llo~ ti~ tw`n parovntwn e[gnw to; lalhqevn, w{ste ÔRou`fon to;n e[parcon eijpei`n: eijkov~ ejsti, Kai`sar, mh; gnw`nai aujto;n ta; par juJmw`n lalhqevnta, ou[te ga;r eJllhnisti; ejpivstatai […], cf. Exc. Val., 302 ecc.: o{ti oujde; eJkw;n ejstrateuveto, ajll jajnadendravda euJreqei;~ klw`n. La coscrizione dei latrones Dalmatiae atqae Dardaniae, ordinata da M. Aurelio, è brillantemente spiegata da C. PATSCH, Arch.-epigr. Untersuchungen zur Geschichte der röm. Provinz Dalmatien, vol. V, 1902 («Wiss. Mitt. aus Bosnien», vol. VIII), pp. 123 sgg., sulla base di alcune iscrizioni della Dacia e della Mesia superiore, come liquidazione d’una rivolta abbastanza pericolosa degli elementi indigeni della Dalmazia, avvenuta nel corso delle grandi guerre combattute sul Danubio, cf. SCR. HIST. AUG., Did., I, 9. [La mia affermazione che nel sec. II tutti i soldati legionari erano de iure cittadini romani, non va presa in senso strettamente giuridico. Come è stato dimostrato da A. SEGRE, in «Aegyptus», 9 (1928), pp. 303 sgg., in Egitto anche in età postadrianea gli Egiziani che servivano nelle legioni ottenevano la cittadinanza soltanto dopo la honesta missio. Si limitava forse questo trattamento alle reclute asiatiche? Cf. i tirones Asiani in P. S. I. IX, 1063 (117 d.C.), e L. AMUNDSEN, «Symb. Osl.», 10 (1932), pp. 22 sgg.].
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L’Impero romano sotto i Flavii e gli Antonini. La città e la campagna in Italia e nelle province occidentali di Roma
Non possediamo dati statistici intorno al numero della popolazione urbana in confronto con la rurale; ma poiché ogni città aveva un vasto «territorio», cioè un ampio tratto di campagna che con la città medesima costituiva un’unità politica, sociale, economica, e poiché oltre a questi territori cittadini v’erano vaste regioni che non avevano affatto vita di città, è ovvio affermare che tanto in Italia quanto nelle province la popolazione urbana costituiva una piccola minoranza in confronto con quella della campagna. Naturalmente la vita civile si restringeva alle città, e chiunque aveva una qualche inclinazione per la vita intellettuale e sentiva quindi bisogno di comunicare coi suoi simili, viveva in una città e non poteva neppure immaginare di vivere altrove: per lui il gewrgov~ o paganus era un essere inferiore, poco o niente tocco dalla civiltà. Non deve quindi sorprenderci che per noi la vita del mondo antico più o meno s’identifichi con la vita delle antiche città. Queste ci hanno raccontato la loro storia, mentre la campagna rimase sempre silenziosa e riservata. Il poco che conosciamo intorno ad essa ci viene da uomini di città, per i quali l’uomo di campagna, il contadino, era talvolta materia di riso, come nella commedia borghese greco-romana, talvolta la foglia di fico con cui ricoprire le vergogne della vita cittadina, come nelle opere dei filosofi morali, dei satirici, dei poeti idilliaci. Qualche volta, ma assai di raro, uomini di città, come Plinio il Giovine nelle sue lettere e Dione Crisostomo in certi punti delle sue orazioni, parlano della campagna nel suo aspetto pratico in relazione ad essi, come fonte di reddito; ma la voce medesima della popolazione rurale non la si ode che raramente. Dopoché Esiodo ebbe scritto il suo poema, la campagna tacque per molti secoli, rompendo solo a lunghi intervalli il suo silenzio per lamentarsi della durezza della sua vita e del cattivo trattamento fattole dalle città e dal governo, che ai suoi occhi le rappresentava. Questi lamenti son conservati in un certo numero di documenti, dei quali la maggior parte contenuti in papiri egiziani, alcuni incisi su pietre in altre parti del mondo antico. Indirettamente apprendiamo qualche cosa intorno alla popolazione rurale e alle sue condizioni economiche da documenti ufficiali e privati: leggi, editti e rescritti di imperatori e di funzionari imperiali, ordinanze di magistrati e decreti di senati municipali, atti dei corpi rappresentativi della popolazione rurale medesi-
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ma, decisioni di contestazioni giudiziarie, transazioni d’affari. Ma questa fonte d’informazioni è frammentaria e di difficilissimo uso. Non dobbiamo quindi meravigliarci se nella maggior parte delle opere moderne relative all’Impero romano la campagna e la popolazione rurale o non appaiono affatto o appaiono solo di tratto in tratto in collegamento con certi avvenimenti della vita cittadina o statale. Eppure la questione delle condizioni in cui si svolgeva la vita rurale è non meno vitale e importante di quelle che si riferiscono allo Stato e alle città, e senza un accurato esame di essa non potremo mai capire lo svolgimento sociale ed economico del mondo antico. In questo più che in ogni altro campo di indagine è pericolosissimo abbandonarsi a generalizzazioni e parlare della popolazione rurale come di un’unità. La vita rurale differiva nelle varie regioni dell’Impero a seconda delle condizioni economiche e sociali vigenti in ognuna di esse; e anche quando queste varie parti ebbero perduto la loro indipendenza politica e furono incorporate nell’Impero romano, rimase multiforme come per l’innanzi la vita economica delle campagne. Le classi superiori delle province romane e della popolazione urbana in generale erano più o meno romanizzate ed ellenizzate, la vita di città assumeva quindi forme più o meno simili in tutto l’Impero, e le occupazioni intellettuali e la vita d’affari erano più o meno uniformi nelle varie province; ma la vita rurale, la vita dei villaggi e delle fattorie, non fu quasi affatto tocca da questo processo di livellamento. Mentre nelle città la romanizzazione e l’ellenizzazione procedevano a vele gonfie, la campagna andava assai a rilento nell’accettare perfino le due lingue ufficiali dell’Impero. Le usava nei rapporti con le città e con l’amministrazione; ma tra loro, nelle loro fattorie e nei villaggi, i contadini parlavano ancora i loro idiomi indigeni. Questo fatto è notorio e non ha bisogno d’essere dimostrato. I contadini della Frigia e della Galazia parlavano i loro linguaggi nativi ancora ai tempi di S. Paolo e più tardi; lo stesso accadeva per i Berberi d’Africa, per i Celti di Britannia e di Gallia, per gli Iberi e i Celtiberi di Spagna, per i Germani del Reno, per i Traci e gl’Illirii della penisola balcanica, per i fellahîn d’Egitto, per le numerose stirpi, semitiche e non semitiche, dell’Asia Minore e della Siria, Aramei, Fenici, Giudei, Arabi, Caldei da un lato, Lidii, Frigii, Carii, Paflagoni, Cappadoci, Armeni, Licii ecc. dall’altro1. Tutti costoro inoltre s’at-
1. Persistenza dei linguaggi indigeni nell’Asia Minore: K. HOLL, Das Fortleben der Volkssprachen in Kleinasien in nachchristlicher Zeit, «Hermes», 43 (1908), pp. 240 sgg.; cf. H. DESSAU, Gesch. der röm. Kaiserzeit, II, 2, p. 576, nota 3; W. RAMSAY, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 1905, Beibl., pp. 79 sgg.; W.M. CALDER, «J. H. S.», 31, pp. 161 sgg. (Frigia); IDEM, Monumenta Asiae Minoris antiqua, I (1928), p. XII; J.G.C. ANDERSON nel «J. H. S.», 19 (1899), pp. 314 sgg; Sir W.M. RAMSAY, Hist. Comm. to Galatians (1900), pp. 147 sgg.; F. STAEHLIN, Gesch. kleinas. Galater, 1907, p. 104 (Galazia); F. CUMONT negli Anatolian Studies ecc., I, p. 115, nota 1 (Armenia); nei paesi celtici: F. HAVERFIELD, Romanization of Roman Britain, 19234, p. 18; F. CUMONT, Comment la Belgique fut romanisée, p. 95; C. JULLIAN, Hist. de la Gaule, vol. III, p. 521. Nuovi dati importanti si hanno nei conteggi dei figuli di La Graufesenque. Dalla migliore tra le indagini condotte su queste iscrizioni celto-latine (A. OXÉ, «Bonner
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tenevano gelosamente alle loro antiche credenze religiose, sebbene i loro dèi e le loro dee potessero anche assumere nomi e forme greco-romane. I nomi e le forme erano un prodotto della civiltà greco-romana, e dovevano quindi necessariamente esser greco-romani, dacché gli incisori di iscrizioni, gli scultori, i pittori erano cresciuti nelle scuole greco-romane e non avevano a loro disposizione altra lingua scritta e altre forme generalmente intelligibili all’infuori delle greco-romane. Ma quelle che s’adoravano sotto questi nomi ufficiali e queste forme irrilevanti erano le antiche divinità patrie, quali i contadini le avevano concepite molti secoli prima2. E – cosa non meno importante – la popolazione rurale conservava anche le forme tradizionali della sua vita economica e sociale, le abitudini e consuetudini antiche, che non di rado si mostravano più forti della stessa legislazione imperiale. In questo breve disegno dell’evoluzione economica e sociale dell’Impero non possiamo far più che tracciare le linee generali del problema com’esso si presenta oggi. E non è facile compito neppure segnare queste linee: esso implica il problema dello sviluppo dell’agricoltura in generale e dell’evoluzione delle forme di proprietà e di sfruttamento della terra; per giunta ciascuna parte dell’Impero va esaminata a sé. Cominciamo dall’ITALIA, sulla quale siamo meglio informati che su qualsiasi altra parte dell’Impero. Nel capitolo precedente abbiamo dimostrato che l’Italia era ancora, almeno nel primo secolo d.C. e nella prima metà del secondo, uno dei paesi meglio coltivati dell’Impero. Le merci importate dalle province e dall’estero venivano sempre pagate, in buona parte almeno, con l’eccellente vino che ancora si produceva in grande quantità in tutta la penisola, specialmente nella Campania e nel Settentrione. La produzione del vino si faceva con metodi sistematici e in forme capitalistiche, principalmente per la vendita e per l’esportazione. L’eruzione del Vesuvio, avvenuta nel 79 d.C., fu naturalmente una grande calamità anche sotto l’aspetto economico. Il fatto che le città arse non furono ricostruite, ad onta di tutti i provvedimenti del governo, e che in quella regione non sorse più alcuna nuova città, cosa che dopo alcuni decenni non sarebbe stata impossibile, è indizio caratteristico del declinare delle forze
Jahrb.», 130 (1925), p. 64) risulta che nel periodo 40-55 d.C. all’incirca il grado di romanizzazione dei figuli era assai basso e la loro conoscenza del latino molto superficiale. Nelle regioni illiriche: C. PATSCH, Historische Wanderungen im Karst und an der Adria, I, Herzegowina einst und jetzt, «Osten und Orient», II ser., 1 (1922), Wien, p. 95 (HIERON., Comment. VII in Isaiam, 19, 292); in Africa: W.I. SNELLMANN, De interpretibus Romanorum etc. (1914), vol. I, pp. 47 sgg. (su Apuleio, Settimio Severo, Agostino), cf. p. 50; vol. II, pp. 108, 110, 112, 113, 119, 120, 129, 140, cf. A. SCHULTEN, Das römische Africa, pp. 12, 25 sgg., 98; S. GSELL, Khamissa (1914), pp. 31 sgg.; e cap. V, nota 55. La persistenza delle lingue siriaca ed araba nel prossimo Oriente e dei linguaggi indigeni in Egitto è provata dal noto fatto del rinascimento siriaco, arabico, copto manifestatosi non appena il dominio romano si fu avviato al tramonto; per il rinascimento coptico vd. L. WENGER, Ueber Papyri und Gesetzesrecht, «Sitzb. Münch. Akad.», 1914, 5, p. 17. 2. J. TOUTAIN, Les Cultes païens dans l’empire romain, vol. III.
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economiche della Campania. Ma in verità non vi è ragione alcuna per ritenere che la catastrofe del 79 abbia seriamente colpito la produttività generale del distretto3. Come abbiamo rilevato nei capitoli precedenti, la piantagione di viti e l’economia dell’Italia, fondata sull’esportazione del vino, soffrirono invece gravemente a causa di un altro ordine di fatti, che si rivelarono molto più pericolosi per il paese che non fossero calamità occasionali come l’eruzione del Vesuvio: e cioè l’emancipazione economica delle province. La decadenza dell’industria e del commercio italici comportava il graduale impoverimento della borghesia cittadina, che, come abbiamo visto, era il sostegno principale dell’agricoltura metodica e capitalistica. Così si spiega in buona parte il fatto che il processo di concentrazione della proprietà agraria in mano di grandi capitalisti nel secolo secondo non solo non s’arrestò, ma anzi si accentuò e prevalse a spese non soltanto dei contadini ma anche della borghesia cittadina. Questo processo possiamo seguirlo anche in regioni poverissime come Veleia e Benevento. La storia di questi territori, quale ci è fatta conoscere dai documenti relativi agli alimenta*, consisté essenzialmente nella lenta concentrazione dei loro fundi nelle mani di pochi grandi proprietari, la maggior parte non nati nei territori di Veleia e di Benevento, e alcuni evidentemente liberti4. Anche le nostre fonti letterarie (per esempio Giovenale) ancora nel secondo secolo ripetono il motivo familiare ai poeti e ai moralisti del primo, cioè l’espulsione di piccoli possidenti dai loro fundi aviti per opera di grandi capitalisti insaziabili; e Plinio il Giovane, uno dei maggiori proprietari, parla senza reticenze dei suoi investimenti in terreno e dei suoi crescenti latifundia5. È facile indovinare donde venisse il capitale che s’investiva in terra italica. Abbiamo visto che l’antica aristocrazia di Roma era scomparsa; la terra già posseduta da essa nelle province divenne in massima parte proprietà degli imperatori. Intorno ai demani imperiali d’Italia si sa pochissimo: ma non è senza significato appunto che se ne parli così poco. Ciò si spiega soltanto ammettendo che gli imperatori non fossero propensi a conservare nelle loro mani queste tenute: probabilmente le riconcessero in una o in altra forma, specialmente a membri della nuova aristocrazia di servizio. Di questa classe è tipico rappresentante appunto Plinio il Giovine. Egli apparteneva a famiglia agiata, probabilmente di grandi proprietari, membri dell’aristocrazia municipale di Como. Egli e altri membri della sua famiglia accrebbero il patrimonio ereditario valendosi degli uffici importanti da loro ricoperti nell’amministrazione dello Stato, cominciando da quello di procuratore imperiale tenuto da Plinio
3. Riguardo ai provvedimenti presi dal governo per sovvenire alla popolazione e restaurare le città arse, vd. DIO CASS., 66, 24. In realtà nessuna delle città medesime fu ricostruita. *. Vd. cap. VIII. 4. F.G. DE PACHTÈRE, La Table hypothécaire de Veleia (1920), cf J. KROMAYER, «Neue Jahrb. f. Klass. Alt.», 33 (1914), pp. 145 sgg., e contro i suoi calcoli M. BESNIER, «Rev. Ét. An.», 24 (1922), pp. 118 sgg.; J. CARCOPINO, La table de Veleia, ibid., 23 (1921), pp. 287 sgg. 5. W. HEITLAND, Agricola, capitoli su Giovenale e Plinio Giuniore.
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1. Venditore al minuto di vino e carne di maiale
2. Parto con aiuto ostetrico
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XXX
1. Il rilievo ci presenta a destra una busta di strumenti chirurgici, a sinistra un medico seduto sopra uno sgabello, in atto di praticare un salasso alla gamba d’un paziente. Si vede infatti il medico in procinto di bendare il polpaccio di un uomo che gli sta innanzi seduto e che tiene la gamba operata entro un catino. 2. Il rilievo unico nel suo genere rappresenta una scena di parto. La partoriente, seduta sopra una sedia da gestante, è sostenuta sotto le ascelle da una infermiera mentre la levatrice seduta innanzi sembra premere il fondo dell’utero per raccogliere il bambino. (G. CALZA, La Necropoli del Porto di Roma nell’Isola Sacra, 1940, pp. 248 sgg., figg. 148-157).
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Seniore e passando, da ultimo, dopo l’ammissione nel Senato, a servire lo Stato e l’imperatore, come Plinio Juniore, in qualità di governatori di province e di capi di varie branche dell’amministrazione imperiale, specialmente a Roma. Non già che Plinio Juniore e gli altri personaggi della sua qualità avessero acquistato le loro fortune depredando le province, sebbene siffatte ruberie siano state abbastanza frequenti sia sotto i Flavii sia sotto gli Antonini. Ma anche i governatori onesti avevano non soltanto grossi stipendi, ma anche opportunità svariate d’arricchirsi pur senza varcare i limiti della legalità. Questi funzionari imperiali nati in Italia (come appunto Plinio) naturalmente cercavano un investimento sicuro per il loro denaro; e tanto per considerazioni di patriottismo locale quanto ai fini di una più efficace amministrazione preferivano terreni o ipoteche fondiarie in Italia. L’investire in terreni e, in minor misura, in prestiti ipotecari su terreni era il mezzo migliore d’ottenere dal capitale una rendita sicura, sebbene moderata; e l’ideale della nobilitas imperiale era ancor quello di coloro che i Francesi chiamano rentiers: godere, cioè, un reddito certo. Né dobbiamo ritenere esiguo il numero dei funzionari imperiali nati in Italia: essi costituivano ancora la maggioranza della burocrazia imperiale. Ma non pochi tra i membri di questa burocrazia e dell’aristocrazia senatoria erano nati nelle province, ed appartenevano alla ricca aristocrazia municipale della Spagna, della Gallia, dell’Africa in Occidente, dell’Asia Minore e più tardi della Siria in Oriente. I loro interessi economici, naturalmente, avevano il loro centro nelle province: la maggior parte di essi, se non tutti, erano ricchi agrari provinciali. Non pochi di essi, tuttavia, entrando nel servizio imperiale annodavano con Roma legami forse ancor più intimi che con le loro città natali. Essi prendevano domicilio nella capitale e investivano almeno una parte del loro denaro in terreni italici, sebbene naturalmente avessero la tendenza a ritornare nella loro provincia d’origine e a passarvi la vecchiaia circondati dalla stima e dall’ammirazione dei conterranei. Tale tendenza poteva durare per generazioni, ma poteva anche scomparire affatto, la seconda o terza generazione sentendosi più attratta dalla vita della capitale che dalla prospettiva della vita tranquilla del loro piccolo buco di provincia. Per giunta gli imperatori, come s’è già detto, desideravano che le famiglie senatorie avessero il loro domicilio in Italia e che investissero parte del loro denaro in terreni italici. Accanto all’aristocrazia imperiale, v’era a Roma e nelle altre città italiche conservatesi ricche e prospere, come Aquileia e in generale le città del Settentrione, un numero considerevole di mercanti all’ingrosso, di armatori di navi, di accorti liberti e schiavi imperiali, di ricchi banchieri e negozianti al minuto. Dobbiamo tener presente che Roma s’ingrandiva continuamente, e che teneva nella vita italiana, se non in quella di tutto l’Impero, la posizione che oggi hanno Parigi in Francia e Londra in Inghilterra. Molte delle persone ricche di Roma erano nate in Italia, la maggior parte di esse passavano la loro vita a Roma e vi avevano le loro case. Non deve sorprenderci che, cercando un investimento sicuro per il loro denaro, costoro pensassero anzitutto a terreni in Italia, che erano a portata di mano e più facili ad amministrarsi che non terreni posti in provincia. Sotto la pressione del grande capitale, tanto i molti piccoli poderi posseduti da contadini, per lo più nelle parti collinose e montagnose d’Italia, quan-
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to le e alcune medie tenute della borghesia cittadina erano destinati a scomparire e a rimaner sommersi nei latifundia della burocrazia imperiale e della plutocrazia italica. Le constatazioni di Plinio Seniore intorno ai tristi effetti dei latifundia sulla vita economica del paese sono perfettamente esatte l’opinione corrente dell’epoca, basata naturalmente non su statistiche ma su impressioni generali. Parlando dei latifundia che perdidere Italiam egli pensava, s’intende,
alla scomparsa non soltanto delle aziende contadinesche ma anche delle fattorie gestite metodicamente, spazzate via dalle grandi tenute governate, come vedremo, con principi differenti. Plinio constatava un fatto ch’era comune ai suoi tempi, e che rimase tale per molte generazioni successive. Gli imperatori conoscevano bene i fatti indicati da lui con tanta efficacia, e tentarono in vari modi di salvare l’Italia. Infatti Claudio, Nerone, i Flavii anche nell’interesse del fiscus si adoperarono per restituire allo Stato le terre pubbliche illegalmente occupate da privati, vendendole poi in piccoli lotti a con tadini senza terra6. Nerone e Vespasiano stanziarono buon numero di soldati e di marinai nelle declinanti città dell’Italia meridionale6a. Verremo tosto a parlare dei provvedimenti di Domiziano. Anche Nerva comperò vasti terreni per dividerli tra proletari nullatenenti7. Traiano cercò di venire in aiuto dei proprietari di terre dimoranti in città, e fors’anco dei contadini, con l’aprir loro credito a buon mercato perché potessero far migliorie nelle loro terre ed educare, anzi meglio nutrire, i loro figli, e, fino a un certo punto, le loro figlie. Fondò anche alcune colonie in Italia e vietò l’invio di coloni italici nelle province8. Dei provvedimenti di Adriano, di Antonino, di M. Aurelio parleremo nel capitolo prossimo. Tutti questi sforzi furono vani. L’evoluzione economica fu più forte d’ogni provvidenza governativa. Non poteva cancellarsi e nemmeno rendersi meno dannosa per la prosperità economica dell’Italia la causa principale: l’e-
6. Vd. le mie Studien zur Gesch. d. röm. Kol., pp. 326 sgg. Riguardo al noto passo pliniano sui latifundia ha forse ragione il DESSAU, Gesch. der röm. Kaiserzeit., II, 2, p. 418 nel ritenere che Plinio in sostanza non parli dei tempi suoi, ma del passato. Però quest’interpretazione urta in gravi difficoltà. Vd. T. FRANK, An Economic Survey of Ancient Rome, V, Baltimore, 1940, pp. 168-175, che considera l’affermazione di Plinio come una predica. Ne dubito molto, dal momento che la nostra frammentaria documentazione non è sufficientemente ampia per essere usata contro l’affermazione esplicita degli antichi scrittori, siano essi moralisti o meno. L'evidenza documentaria prodotta contro di essa non è conclusiva. A Pompei la maggioranza delle ville appartenevano a persone del luogo che tuttavia in parte risiedevano in città, mentre le tabulae di Veleia e di Benevento non offrono prove conclusive.
6a. Intorno alle colonie di Nerone vd. cap. V, nota 24, cf. T. FRANK, Economic History, 19272, p. 438. Circa le colonie di Vespasiano, vd. FRANK, loc. cit.; cf. la colonia di soldati di marina stanziata a Paestum e menzionata in alcuni diplomi militari (C. I. L. III, dipl., IX; Ann. ép., 1912, n. 10; 1921, n. 148; J. VELKOV, «Bull. de l’Inst. archéol. bulgare», 2 (1923-24), pp. 95 sgg.; Ann. ép., 1925, n. 68, ll. 3 sgg.). 7. DIO CASS., 68, 2, 1; PLIN. IUN., Ep., VII, 31, 4; DESSAU, I. L. S., 1019; DIG., 47, 21, 3, 1; cf. O. SEECK, Gesch. d. Unterg. d. ant. Welt, vol. I, pp. 324 sgg. (345 sgg. della 2a ediz.). 8. Vd. nota 4; cf. H. SCHILLER, Gesch. d. röm. Kaiserzeit, p. 566, nota 4.
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1. Bottega di fabbro ferraio
2. Venditore d’acqua
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XXXI
1. Raffigura la bottega d’un fabbro ferraio, rappresentato nella sua bottega a cui sono appesi una notevole varietà di strumenti, ferri chirurgici, seghe, martelli, incudini, accette, coltelli, ecc. Le due figure umane sono intente appunto alla fabbricazione o alla rifinitura degli strumenti. 2. Come dice l’iscrizione Lucifer Aquatari(us) e come dimostra, del resto, la rappresentazione, è in questo rilievo raffigurata la bottega di un venditore d’acqua, conservata in grandi dolii e che una donna è venuta a comperare. Nel ripiano superiore sono esposte anfore di ogni dimensione. (G. CALZA).
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mancipazione delle province. La graduale decadenza economica dell’Italia, causata in prima linea dal declinare della sua industria e del suo commercio, fu aggravata dalla crisi che colpì la sua economia rurale metodica e capitalistica per effetto della sovraproduzione del vino, che non trovava più acquirenti. Abbiamo già accennato nel terzo capitolo all’avvicinarsi di questa crisi. Il vino, per naturale processo di sviluppo, si produceva ormai nella maggior parte dei paesi ch’erano stati già i principali clienti dell’Italia meridionale, e cioè nella Spagna, nella Gallia, in Africa. In Oriente, il vino italico difficilmente poteva competere con quello delle isole greche, dell’Asia Minore, della Siria, della Palestina, perfino dell’Egitto. Gli unici mercati che gli rimanessero ancora aperti erano la Germania e le province danubiane: ma questi in sostanza giovavano soltanto all’Italia settentrionale, dacché non era facile mandar vino per mare dalle coste occidentali dell’Italia ai porti delle coste dalmatiche istriane. Lo stesso destino era riservato alla produzione dell’olio d’oliva. Abbiamo già detto che la Spagna era diventata la principale produttrice delle qualità d’olio più fine, l’Africa delle meno costose. In Oriente l’olio italico fu scacciato da quello dell’Asia Minore e dall’eccellente prodotto della costa siriaca. I processi che abbiamo brevemente accennati non minacciavano soltanto il benessere economico dell’Italia, e specialmente delle sue classi medie: essi erano un pericolo per lo Stato in generale. Il mondo antico non soffrì mai di sovraproduzione di generi alimentari, e particolarmente di grano. Come abbiamo rilevato a più riprese, la Grecia, l’Italia, e persino l’Asia Minore dipendevano per il grano loro occorrente dai paesi che lo producevano in grandi quantità: la Grecia e l’Asia Minore erano alimentate dalla Russia meridionale, l’Italia dalla Sicilia, dalla Sardegna, dalla Spagna, dalla Gallia, dall’Africa, dall’Egitto. Il diffondersi della viticoltura e dell’olivicultura, così in Occidente come in Oriente, non soltanto causava la rovina economica dell’Italia, ma poteva anche produrre carestia di grano e fame in tutto l’Impero. Roma, certamente, era al sicuro: il grano egiziano e quello delle terre pubbliche e imperiali della Sicilia, dell’Africa – vi partecipavano anche la Gallia e la Spagna – consegnato come canone di fitto, assicurava in modo sufficiente l’approvvigionamento dei proletari romani e della Corte. Inoltre, gli imperatori prendevano misure preventive per assicurare grano in sufficienza alla popolazione di Roma in generale, dandole diritto di priorità sui prodotti di alcune province granicole, in altri termini vietando, salvo casi eccezionali, di trasportar grano dall’Egitto altrove che a Roma9. Ma Roma era soltanto una delle città dell’Impero che vivevano di grano importato: abbiamo già ricordato quelle della Grecia e dell’Asia Minore. Queste province non potevano vivere del solo grano importato dalla Russia meridionale, tanto più che questa produzione continuamente diminuiva e molto del grano ivi raccolto serviva agli eserciti imperiali dell’Oriente. Sicché la superproduzione di vino e d’olio in Oriente e in Occidente importava una crisi permanente in Oriente. Lo spettro della fame incombeva ormai in permanenza sulle città greche: il lettore può richiamarsi alla mente il vivace quadro dell’Apocalisse di S. Giovanni, che si riferisce a una grande carestia che tor9.
Vd. il mio articolo Frumentum, «R. E.», VII, col. 137.
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mentò l’Asia Minore, come è ormai provato da un’iscrizione latina del 93 d.C. recentemente scoperta ad Antiochia di Pisidia. Il governo romano non poteva lasciare che le province orientali morissero di fame: rivolte come quelle del proletariato di Prusa sotto Vespasiano, delle quali ci dà la descrizione Dione di Prusa, erano un pericolo serio per l’Impero. Gli imperatori pertanto presero provvedimenti intesi ad incoraggiare la produzione del grano e a restringere quella del vino e dell’olio: ma ne sappiamo assai poco. Possiamo tuttavia dedurre da una notizia accidentale che Vespasiano si propose d’incoraggiare indirettamente la produzione del grano in Asia. In un’iscrizione di Cibyra del 73 d.C. un ricco benefattore dispone che il denaro da lui donato alla città sia investito in terreni da grano, poiché di ciò debbono venire informati l’imperatore e il Senato. L’iscrizione resterebbe inesplicabile, se non si ammette che essa attesti che il Senato e l’imperatore avessero per lo meno raccomandato alle città dell’Asia d’investire i capitali delle loro fondazioni preferibilmente in terreni da grano. Inoltre, gli imperatori intervennero energicamente per frenare la speculazione sulla fame: nell’iscrizione di Antiochia testè ricordata un governatore di Domiziano prende provvedimenti rigorosi e perfino violenti (che ci ricordano qualcosa di simile che si vide in tutta Europa durante la grande guerra) per combattere siffatte pratiche e per assicurare alla città l’approvvigionamento del grano relativamente a buon mercato10. Anche non tenendo conto di questi fatti particolari, è ben noto che Domiziano emanò un decreto generale inteso a promuovere la produzione del grano nelle province e a favorire la produzione del vino italico. A norma di esso, né in Italia né nelle province poteva più piantarsi alcun nuovo vigneto; anzi doveva distruggersi la metà dei vigneti esistenti. Noi sappiamo che questo provvedimento non venne attuato in tutta la sua pienezza. Una speciale ambasceria dell’Asia Minore, con alla testa il celebre oratore Scopeliano, salvò i vigneti di questa provincia e forse di tutto l’Oriente. È inoltre probabile che almeno la Gallia meridionale e la Spagna meridionale (province Narbonensis e Baetica) abbiano potuto conservare i loro vigneti: sappiamo infatti che da queste province il vino continuò ad esportarsi senza interruzione. Ma è esagerato dire che il decreto di Domiziano sia rimasto affatto senza efficacia. Esso certamente fu attuato in Africa fino a un certo punto nelle province danubiane, nella Gallia centrale e settentrionale, e in parte nella Spagna. Il fatto è attestato dal contrordine dato (circa duecento anni dopo) da Probo, che permise la coltivazione della vite nei paesi danubiani, nella Gallia, nella Spagna, e perfino
10. PETERSEN e LUSCHAN, Reisen, nn. 242 e 242a; LE BAS e WADDINGTON, n. 1213; B. LAUM, Stiftungen, p. 162, ll. 9 sgg.: kai; ejªxº aujth`~ ajªgºorazevtw kthvsei~ seitoªfºovrou~, I. G. R. R. IV, 914, cf. 915. Vd. L. ROBERT, Études Anatoliennes. Recherches sur les inscriptions grecques de l’Asie Mineure, Paris, 1937, pp. 375 sgg.
Intorno a Cibyra, vd. RUGE, «R. E.», XI, coll. 374 sgg. Il provvedimento, secondo cui non potevano acquistarsi se non terreni da grano, per promuovere così la produzione granaria, si capisce facilmente ove si pensi a quante fra le città dell’Impero romano, e non soltanto dell’interno dipendevano, specialmente in periodi di carestia, dalla produzione locale del grano; vd. cap. V, nota 9, e cap. VIII, nota 20.
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1. Venditore di cinture e cuscini
2. Esibizione d’un campione di stoffa
3. Costruzione di navi
4. Fabbro
TAV. XXXII – INDUSTRIA ITALICA
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DESCRIZIONE DELLA
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1. BASSORILIEVO. Galleria degli Uffizi, Firenze. W. AMELUNG, Führer durch die Antiken in Florenz, n. 168; S. REINACH, Rép. d. rel., III, p. 44, 3. Interno d’una bottega. Alla parete sono appesi guanciali (o coperte?), cinture, e una larga pezza di panno (o una coperta). Due garzoni di bottega in presenza del proprietario di essa (?) aprono una scatola contenente un guanciale, che viene esaminato da due clienti, un uomo e una donna, assisi su un banco. Dietro costoro stanno due schiavi. 2. BASSORILIEVO. W. AMELUNG, op. cit., n. 167; S. REINACH, op. cit. p. 44, 2. Due clienti (o i proprietari della fabbrica), accompagnati da due schiavi, esaminano una grande pezza di panno che è spiegata loro dinanzi da due uomini. J. SIEVEKING, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien.», 13 (1910), p. 97, e figg. 56, 57, assegna questi due rilievi alla seconda metà del primo sec. a.C.; e questa data è accettata dalla signora A. STRONG, Scult. Rom., cap. I. Lo stile, come lo stesso AMELUNG ha rilevato, è affine a quello dei rilievi dell’età augustea (cosidetto ellenistico); la composizione ricorda le insegne di negozi e le decorazioni parietali di Pompei (vd. tavole XIV-XVI). Io inclino a credere che i due rilievi appartengano piuttosto al sec. I d.C. 3. PARTE DI UNA STELE FUNERARIA. Museo di Ravenna. S. REINACH, Rep. d. rel., III, p. 128, 3. La parte superiore della stele contiene due busti in una nicchia. Sopra e sotto la nicchia si svolge questa iscrizione: – P. Longidienus P. f. Cam. faber navalis se vivo constituit et Longidienae P. l. Stactini. P. Longidienus P. l. Rufio P. Longidienus P. l. Piladespotus impensam patrono dederunt (C. I. L. XI, 139; DESSAU, I. L. S., 7725). La parte inferiore della stele mostra Longidienus mentre lavora alacremente a costruire una nave; accanto è una placca con leggenda: – P. Longidienus P. f. ad onus properat (Longidieno si affretta al suo lavoro). 4. FRAMMENTO DI UNA STELE FUNERARIA. Aquileia, nel Museo. E. MAIONICA, Guida dell’I. R. Museo dello Stato in Aquileia, 1911, p. 56, n. 36; G. BRUSIN, Aquileia. Guida storica e artistica (1929), p. 118, n. 18, fig. 71. Un fabbro ferraio, seduto su una sedia, martella su un’incudine un pezzo di ferro che tiene con una tenaglia. Dietro di lui un garzone schiavo attizza il fuoco nella fornace con un soffietto fissato ad uno schermo per difenderlo dalla fiamma. A destra sono esposti alcuni prodotti del fabbro: tenaglie, un martello, una punta di lancia, una serratura. Dell’iscrizione è conservata solo la parte finale: – et l(ibertis) l(ibertabus)que. Cf. tav. XXXI, 1. [S1]
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VI. L’Impero romano sotto i Flavii e gli Antonini. L’Italia e le province occidentali
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nella Britannia, dove questa coltivazione non era stata mai praticata. Per giunta, in Africa la nota Lex Manciana (dei tempi di Domiziano o di Traiano) permette la piantagione di nuovi vigneti soltanto in sostituzione dei vecchi, e un’altra legge dei tempi di Adriano, relativa alla medesima provincia, nel parlare dell’utilizzazione delle terre vergini o incolte mediante varie forme di coltivazione, non menziona la vite11. Nessun provvedimento del genere fu preso per proteggere la produzione italica dell’olio, anzi fu lasciata alla costa dalmatica, alla Spagna, all’Africa piena libertà di aumentare la loro produzione; e sappiamo che questi paesi divennero i centri principali dell’industria olearia. L’importanza che per l’Africa assunse questa produzione, e la diligenza con cui gli imperatori fecero dell’Africa un paese di oliveti, sono dimostrate dalle leggi di Adriano, pubblicate in Africa e per l’Africa, relative ai terreni vergini o incolti, e dal fatto che gli scavi archeologici hanno dimostrato come nei secoli secondo e terzo tutta la parte sud-occidentale del paese fosse un immenso oliveto, estendentesi per molte miglia tanto sulla costa quanto all’interno12. I provvedimenti protettivi di Domiziano salvarono la viticultura italiana, almeno entro certi limiti, ma non riuscirono a salvare in generale in Italia né l’agricoltura progressiva, né coloro che la praticavano, i medi proprietari di terre. Nella crisi determinatasi alla fine del secolo primo la classe media fu la
11. Tutte le notizie che si hanno intorno all’ordinanza di Domiziano, insieme con un’ingegnosa spiegazione di essa, son date da S. REINACH, La Mévente des vins sous le Haut Empire romain, nella «Rev. Arch.», 1901 (II), pp. 350 sgg., egli considera la misura esclusivamente come intesa a incrementare la produzione di grano; cf. M. BESNIER, ibid., 1919 (II), p. 34. Sulla lex Manciana e sulla lex Hadriana, vd. le mie Studien Gesch. Kol., p. 321, nota 1, e p. 323; T. FRANK, «Amer. J. Ph.», 1926, pp. 55 sgg. e 153 sgg.; IDEM, Economic History, 19272, p. 447. Sebbene la legge d’Adriano parli di vigne piantate su terreni incolti, essa non concede alcun privilegio ai piantatori di vigne, mentre ne dà ai piantatori d’oliveti e di frutteti. Il permesso dato da Probo di coltivar la vite nelle province (SCR. HIST. AUG., Prob., 18; EUTR., 17; AUR. VICT., Caes, 37, 2) non può esser mera invenzione. R.M. HAYWOOD, Roman Africa, in T. FRANK, An Economic Survey of Ancient Rome, IV, Baltimore, 1938, p. 50: non c’è la minima confusione (da parte mia). Non c’era alcun intervento del governo per impedire la coltura dell’olivo. In talune aree c’era protezione. Deve tuttavia mettersi in rilievo che si piantarono vigne tanto nelle province danu-
biane quanto in Dalmazia assai tempo prima di Probo; si veda, per es., C. I. L. III, 6423 (Lissa) e 14493 (Celei nella Dacia). [Sulla produzione del vino in grande quantità in tutta l’Italia abbiamo copiose notizie che è inutile enumerare qui. È interessante vedere come anche l’Italia meridionale, dove si riteneva che nell’età imperiale l’agricoltura fosse abbandonata, invece produceva ancora vino in grande quantità. Nelle rovine di una grande villa, scoperta recentemente sul sito dell’antica Sibari dal comm. Galli, si è trovato un’ingegnosa conduttura per vino, simile a quella descritta da ATENEO, XII, 7; vd. W. TECHNAU, «Jahrb. d. d. arch. Inst.», 1930, Arch. Anz., pp. 411 sg.]. 12. BRUNS e GRADENWITZ, Fontes, 7a ediz., pp. 300 sgg., n. 115, 3, ll. 6 sgg.; n. 116, 3, ll. 9 sgg. L’Africa in quanto produttrice d’olio, R. CAGNAT, L’Annone d’Afrique, nelle «Mém. de l’Inst.», 40 (1916), pp. 258 sgg. Cf. le notevoli quietanze e computazioni su ostraka (373 d.C.) rinvenute a Cartagine, che si riferiscono alla consegna e al trasporto dell’olio spettante alla annona, R. CAGNAT e A. MERLIN, «Journ. Sav.», 1911, pp. 514 sgg.
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STORIA ECONOMICA E SOCIALE DELL’IMPERO ROMANO
prima ad esser colpita; e ne accelerò la rovina la decadenza dell’industria e del commercio, non protetti dagli imperatori. Inoltre il lavoro, e specialmente il lavoro servile su cui si fondava l’agricoltura sistematica, divenne sempre più dispendioso. Non deve sorprenderci che la borghesia urbana d’Italia sia stata incapace di competere con i grandi capitalisti di Roma, la cui spinta significava, di fatto, la rovina completa dell’agricoltura metodica. Non occorre insistere su questo punto. Agrari del tipo di Plinio Juniore possono essere stati esperti uomini d’affari e buoni amministratori del loro patrimonio in generale, comprando e vendendo terreni, prestando denaro, e così via; ma su uomini come questi non può fondarsi la prosperità agricola. Troppo affaccendati in città, essi non vivevano nelle loro tenute, né dipendevano interamente dalle rendite ricavate da una sola tenuta, come era avvenuto a non pochi membri della borghesia cittadina del periodo precedente. Essi, come abbiamo già detto, si comportavano da rentiers: desideravano di avere meno fastidi che fosse possibile, anche se ciò doveva scemare le loro rendite. Il modo più comodo di ottenere dalla terra un reddito sicuro, se anche moderato, era non già coltivarla metodicamente a mezzo di schiavi, il che richiedeva molta attenzione personale, ma darla in fitto. Questo sistema era stato già usato dai grandi proprietari nel secolo I a.C.: esso rivisse dopo la rovina di quella borghesia urbana, che nel periodo augusteo s’era sostituita ai magnati del primo secolo, almeno nell’Italia centrale e settentrionale, e che comprendeva i veterani degli eserciti rivoluzionari. Il sistema delle affittanze implicava, naturalmente, la rinunzia alla coltivazione sistematica. Gli affittuari raramente sono buoni coltivatori, in particolar modo della vite. Inoltre, ora che in Italia scarseggiava sempre più il grano, la granicoltura divenne almeno altrettanto redditizia della viticoltura, ed era meno rischiosa e richiedeva minor diligenza personale tanto dai proprietari quanto dagli affittuari. La difficoltà stava nel trovare appunto affittuari. Come mai gli agrari ne abbiano potuto trovare il numero necessario, come dimostrano l’attività pratica di Plinio e alcune osservazioni incidentali di Marziale13, è stato sempre un enigma per gli studiosi moderni. Se il contadiname era già rovinato al tempo dei Gracchi, se nel primo secolo a.C. era del tutto scomparso, sostituito da schiere di schiavi, donde mai venivano i coloni di Plinio? Se il lettore ha seguito con attenzione quanto abbiamo detto sinora, avrà capito che noi non condividiamo l’opinione comune intorno alla scomparsa dei contadini dall’Italia. Senza dubbio, dopo la guerra «sociale» il numero dei contadini diminuì nell’Italia meridionale, e principalmente in Apulia, nella Calabria, nel Bruzio, e in certi limiti anche nella Campania e nel Sannio. Ma essi formavano ancora la maggioranza della popolazione nell’Italia centrale e nella valle del Po. Alcuni di essi forse non erano più proprietari delle loro antiche masserie, ma continuavano a vivere nei loro vici e pagi come affittuari e giornalieri che trovavano occupazione nei poderi della borghesia cittadina. Nelle vigne, è vero, essi furono sostituiti da schiavi; ma la maggior parte d’Italia era formata non da vigneti, ma da campi, e i campi
13.
W. HEITLAND, Agricola, capitoli su Marziale e Plinio.
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1. Villaggio italico
2. Cella vinaria
3. Sulla strada
TAV. XXXIII – VITA E LAVORO IN ITALIA
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DESCRIZIONE DELLA
TAVOLA
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XXXIII
1. DIPINTO SU UNA DELLE LUNETTE DELLA SALA PRINCIPALE DELLA TOMBA PALEOCRISTIANA AL VIALE MANZONI. G. BENDINELLI, «Not. di scavi», 1920, tav. IV; «Mon. ant. dei Lincei», 28 (1922), tav. XIII. Nella parte superiore del quadro due fattorie o case coloniche presso una grande città fortificata. Tra le due case è al pascolo un grosso gregge (asini, vacche, pecore, capre). Per la spiegazione della parte inferiore vd. il mio scritto Une tablette thraco-mithriaque du Louvre, «Mém. Acad. Inscr.», 13 (1923), pp. 394 sgg. 2. BASSORILIEVO DI SARCOFAGO (?). Ince-Blundell Hall, Inghilterra. H. BLUEMNER, «Arch. Zeit.», 1877, pp. 128 sgg., tav. I; il mio articolo in «Röm. Mitt.» 26 (1911), p. 281, fig. 3; S. REINACH, Rép. d. rel., II, p. 454, 1; B. ASHMOLE, A Catalogue of the Ancient Marbles at Ince Blundell Hall (1929), p. 108, n. 298, tav. 46. G. RODENWALDT, Römische Reliefs. Vorstufen zur Spätantike, «Jahrb. d. d. arch. Inst», 55 (1940), pp. 12 sgg., partic. pp. 28 sgg., figg. 13-14; sul sarcofago del Laterano ibid., pp. 35 sgg., fig.12.
A sinistra due coniugi si stringono la mano: probabilmente essi erano il gruppo centrale d’uno dei lati maggiori d’un sarcofago. A destra di essi una grande cella vinaria, che è al tempo stesso un vigneto. Alcuni schiavi sono intenti a riempire delle anfore dai dolii (diffusio) e portarle via; altri riposano. All’angolo di destra sotto una tettoia un banco da bottega, dietro cui siede un uomo che, con un polittico in mano, parla con un cliente. Sul banco giacciono alcune tavolette. A sinistra di esso siede un garzone, dietro al quale, sulla parete, si vedono degli scaffali con rotoli (?) e un quadro con la figura d’un serpente. All’angolo destro un giovane, probabilmente il figlio dei due coniugi. La composizione rappresenta indubbiamente una grande cantina in cui si fa grande commercio di vini all’ingrosso. La mia opinione che il bassorilievo provenga da un sarcofago è confortata dal parallelo ch’esso ha nel ben noto sarcofago, riprodotto qui sotto, di Annio Ottavio Valeriano (Laterano) (S. REINACH, Rép. d rel., III, p. 282, 2). Qui sono rappresentate le seguenti operazioni: – 1. aratura e zappatura, 2. falciatura del grano, 3. trasporto di esso, 4. molitura e panificazione. Contro quest’opinione il RODENWALDT, loc. cit., p. 28, che propende a vedere nella lastra il tipo dei monumenti funerari di Ostia, vd. tavv. XXX e XXXI. ?@
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erano ancor sempre coltivati da contadini liberi. È possibile che accanto all’antico strato dei contadini un certo numero di schiavi e di liberti siano stati dai proprietari agrari collocati come coloni nelle loro tenute, aumentando così il numero dei contadini. Ciò nonostante, il trovare per le tenute dei grandi proprietari buona e sufficiente mano d’opera rimase problema molto importante e di difficile soluzione. Vi erano, sì, in Italia contadini disposti a prendere in fitto il terreno delle grandi tenute; ma il loro numero sembra fosse troppo scarso in confronto con la sempre crescente domanda, ed essi inoltre erano lavoratori piuttosto pigri ed inetti. Eppure, anche in tali condizioni i grandi proprietari preferivano il lavoro degli affittuari a quello degli schiavi. Plinio, per esempio, si serviva di schiavi soltanto in caso di estrema necessità: la mano d’opera nelle sue tenute era fornita principalmente da coloni. Lo Heitland tuttavia non accetta questa tesi: secondo lui i coloni erano per lo più quasi dei sorveglianti del lavoro degli schiavi, forniti dal proprietario. Ma non sembra che le nostre fonti ci autorizzino ad ammettere che l’affittanza di lotti di terreno a coloni, con un inventario vivente di schiavi, fosse nel sec. II d.C. un fatto generale. Indubbiamente per Plinio i suoi coloni non sono intermediari; sono essi quelli che coltivano il suolo, che eseguono la parte principale del lavoro nei lotti loro affittati. Non neghiamo che qualche colono fortunato potesse comperarsi uno o due schiavi per farsene aiutare nel suo lavoro, e che alcuni lotti fossero affittati con un inventario composto della casa colonica, del bestiame, degli strumenti agricoli, e di schiavi. Il moderno mercante di campagna era un tipo ben noto anche al mondo antico: ma l’esistenza di esso nell’Italia moderna non significa che essa non abbia contadini14. Dobbiamo ammettere dunque che nel secondo secolo esistesse in Italia una classe numerosa di contadini, la maggior parte affittuari. Essi costituivano la popolazione dei vici e pagi in contrapposizione a quella della città, erano i vicani e pagani in cantrapposto agli intramurani. Le descrizioni di Stazio e di Marziale e i dati fornitici da Plinio mostrano che questa popolazione rurale d’Italia costituiva un’umile classe inferiore, la cui mentalità nel secondo secolo non doveva esser molto diversa da quella dei posteriori coloni o dei servi della gleba di tutta l’Europa medioevale. Possiamo per esempio servirci delle osservazioni di Marziale per illustrare le corrispondenti scene della colonna di Igel, presso Treviri, del terzo secolo d.C., e d’alcuni mosaici africani del quarto. Sono convinto che questa situazione non era di data recente, e che almeno i coloni di Pompeo si trovavano già verso il loro patronus negli stessi rapporti di sommissione di quelli del giurista amico di Marziale. Sotto l’aspetto economico, il tratto più interessante dell’Italia del secondo secolo non è l’esistenza d’una popolazione di contadini: in nessun periodo della storia d’Italia era mancato un contadiname. Il fatto più importante è ch’essi appaiono non più liberi proprietari, come erano stati fin allora, ma affittuari dei grandi proprietari. In tale qualità essi hanno parte eminente, anzi preponderante, nella vita agricola dell’Italia. Il tipo dominante d’azienda agraria è
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ormai non la fattoria di media estensione, come era la regola nel I sec. d.C., condotta sistematicamente, e neppure la grande tenuta lavorata da migliaia di schiavi incatenati, sibbene quello stesso piccolo podere contadinesco che aveva già predominato in Italia nel periodo precedente allo sviluppo del capitalismo. La differenza tra questo periodo e il secolo secondo d.C. stava nel fatto che adesso il podere contadinesco era proprietà d’un signore assentista, mentre il coltivatore del suolo era suo colono. Non che le fattorie di media estensione e le grandi tenute lavorate da schiavi scomparissero del tutto: notoriamente ciò non avvenne; ma questi tipi di azienda divennero sempre più rari, furono mere sopravvivenze, e non rappresentarono più la condizione generale dell’Italia agricola, come l’avevano rappresentata ai tempi di Varrone e ancora di Columella, e come l’aveva rappresentata nei secoli IV e III a.C. il sistema dei liberi contadini-proprietari15. È chiaro adunque ch’esisteva in Italia una numerosa popolazione rurale. Socialmente ed economicamente essa costituiva una classe inferiore in confronto coi signori terrieri, che abitualmente risiedevano a Roma o in altre città italiche. È vero che sotto l’aspetto politico non v’era distinzione: tutti gli abitanti d’Italia erano cittadini romani e si ripartivano tra i vari gruppi di cittadini romani che appartenevano alle singole città. Eccezion fatta del Settentrione, dove non poche stirpi alpine erano, secondo l’espressione romana, «attribuite» a città italiche (Brixia, Bergomum, Comum, Tridentum, Tergeste, Aquileia), cioè non
15. Ciò che si dice nel testo circa la prevalenza del piccolo podere contadinesco nel sistema economico del sec. II si fonda su dati ben noti, più volte raccolti, recentemente, per es., da W. HEITLAND, Agricola, e da E. KORNEMANN, «R. E.», Suppl. IV, coll. 103 sgg. (art. Bauernstand) e coll. 240 sgg. (art. Domänen); cf. la bibliografia dell’art. Latifundia, di CH. LÉCRIVAIN in DAREMBERG e SAGLIO, Dict. d. ant., III, p. 971, e l’iscrizione di Ostia C. I. L. XIV, Suppl. 4570 per la prima volta pubblicata da G. CALZA nelle «Not. d. scavi», 1921, p. 236: i cultores Larum et imaginum dominorum nostrorum invictissimorum Augustorum praediorum Rusticelianorum erano probabilmente i coloni di questa tenuta imperiale. [Cf. su ciò L. WICKERT, «Sitzb. Preuss. Akad. Wiss», 1928, pp. 43 sgg. e C. I. L. XIV, 4570, commentario]. Intorno ai coloni e alla consuetudine di fittar loro del terreno insieme con alcuni schiavi, vd. la Tabula Alimentaria Veleias in DESSAU, I. L. S., 6675 XLIII: deductis reliquis colonorum et usuris pecuniae et pretiis mancipiorum, quae in inemptione eis cesserunt; cf. B. KUEBLER nella Festschrift für Johannes Vahlen (1900), pp. 564 sgg. È singolare che nelle iscrizioni il titolo di colonus veniva aggiunto al nome di schiavi, non di liberi, il che dimostra che uno schiavo, che fosse colonus, non era un fatto consueto nella vita italica dei sec. II e III, vd. C. I. L. VI, 9276; DESSAU, I. L. S., 7453 (Iaso colonus fundo Mariano); C. I. L. X, 7957 (Proculus colonus); cf. IX, 3674; 3675; DESSAU, I. L. S., 7455: colonus f(undi) Tironiani quem coluit ann(os) n. L.; cf. O. SEECK, «R. E.», IV, col. 487; P. STICOTTI, «Atti e Memorie della Società Istriana d’Archeol. e Storia Patria», 22 (1905), p. 11. Più spesso sono menzionati schiavi amministratori d’una tenuta, C. I. L. X, 6592; DESSAU, I. L. S., 7451: actor et agricola optimus; C. I. L. X, 5081; IX, 3028; DESSAU, I. L. S., 7367 (Hippocrati Plauti vilic(o) familia rust(ica) quibus imperavit modeste); IX, 3651 (vilicus et familia de fundo Favilleniano); cf. P. STICOTTI, loc. cit., p. 11, nota 3. Sono urgentemente necessari la raccolta completa e lo studio di tutte le iscrizioni attinenti alla vita agricola d’Italia.
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godevano la cittadinanza delle città cui erano annesse in Italia non esistevano, politicamente, gradazioni di cittadini. Anche nell’Italia settentrionale, come ho rilevato precedentemente, fin dagli inizi dell’Impero si era manifestata la tendenza a toglier di mezzo i populi attributi come tali, e ad incorporarli, mediante la concessione della cittadinanza romana o latina, nei territori delle città16. Ma praticamente gli abitanti dei vici e pagi, al pari del proletariato urbano, erano considerati come una classe di molto inferiore ai signori terrieri che vivevano in città. Perciò il caso di un «paganus» diventato decurio di Sulmona, città dei Peligni, era considerato come un’eccezione degna di nota (C. I. L., IX, 3088; DESSAU, I. L. S., 6531). Socialmente non v’era gran differenza tra i vicani e pagani delle stirpi «attribuite» dell’Italia settentrionale e la stessa classe delle altre parti della penisola17. Volgendoci ora alle province, dobbiamo constatare che i dati relativi al loro assetto sociale, e, ancor più, alle forme di possesso e sfruttamento della terra, sono distribuiti molto inegualmente. Per alcune province (Egitto, Africa, Asia) abbiamo informazioni relativamente copiose, per altre quasi nessuna. Tuttavia è imprescindibilmente necessario passare in rassegna, sotto l’aspetto sociale ed economico, tutte le province romane più importanti. Tale esame non è stato mai tentato per l’insieme dell’Impero romano e solo rarissimamente per singole province, mentre invece è stato oggetto di molti studi l’aspetto politico della loro evoluzione, cioè la trasformazione di tribù e stirpi, di pagi e vici, in territori con un centro urbano residenza dei magistrati preposti all’amministrazione. Cominciamo dalla SICILIA, SARDEGNA, CORSICA. Nei capitoli precedenti si è accennato che negli ultimi tempi della repubblica e nei primi dell’Impero, salvo un breve intervallo nelle ultime fasi delle guerre civili, la Sicilia era stata ancora uno dei granai, da cui si portavano a Roma grandi quantità di grano. Questo fatto è attestato in maniera decisiva da Strabone e da altre notizie sporadiche di data posteriore. Dobbiamo ora indagare quale fosse l’assetto sociale ed economico dell’isola nei primi tempi dell’Impero, in confronto con quello dell’età repubblicana18. È difficile credere che la Sicilia al pari della
16. Si veda l’Edictum Claudii de Anaunis, C. I. L. V, 5050; DESSAU, I. L. S., 206; BRUNS e GRADENWITZ, Fontes, p. 253, n. 79, e l’iscrizione di Tergeste, C. I. L. V, 532; DESSAU, I. L. S., 6680. Cf. REID, Municipalities, pp. 166 sgg., e per la data A. PUSCHI e P. STICOTTI, nei «Wiener Studien», 1902, pp. 252 sgg.; O. CUNTZ, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 18 (1915), pp. 98 sgg. Cf. anche cap. III, nota 5, ed E. PAIS, Dalle guerre puniche a Cesare Augusto, II (1918). 17. A. SCHULTEN, Die Landgemeinden im römischen Reiche, «Philol. Woch.», 7 (1894), p. 645; A. GRÉNIER in DAREMBERG e SAGLIO, Dict. d. ant., V, pp. 854 sgg. A Veii, per es., i municipes extramurani sono contrapposti agli intramurani, C. I. L. XI, 3797 e 3798; cf. E. DE RUGGIERO, Diz. ep., vol. II (1922), p. 2195. È comune nella terminologia delle nostre fonti giuridiche la contrapposizione tra gli intramurani e i pagani, vd. DIG., 50, 1, 35; 50, 1, 27; 10, 4, 3, dove i pagani sono piccoli proprietari e affittuari, cf. DIG., 11, 4, 3: praedia Caesaris, senatorum, paganorum; SCHULTEN, loc. cit. 18. Per la Sicilia si vd. la bibliografia data nel cap. I, nota 27, cf. T. FRANK, Dominium in solo provinciali and Ager publicus, «J. R. S.», 17 (1927), pp. 141 sgg. [LIBERTINI, Le
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Grecia e dell’Italia fosse interamente suddivisa in territori cittadini. È evidente che siffatta organizzazione non avevano posseduto la zona fenicia dell’isola e le vaste regioni dell’interno né sotto il dominio dei Fenici né sotto quello dei Greci. Né i Romani promossero mai l’urbanizzazione completa dell’isola: essi non vi fondarono neppur una città nuova, né fecero alcun tentativo per fare risorgere le città greche decadute. Nella zona fenicia anzi lasciarono sussistere quell’inconsueta istituzione ch’era il tempio asiatico di Venere Ericina coi suoi numerosi schiavi sacri e col suo esteso territorio. Il quadro che dell’isola dà Cicerone mostra che i Romani ne suddivisero le città in varie classi a seconda della condotta da quelle tenuta verso di loro, e che conservarono gelosamente per sé le terre pubbliche, che non erano state assegnate a nessuno dei territori cittadini come ager publicus populi Romani, che i censori davano in affitto a cittadini romani e a provinciali. La terra appartenente al territorio delle città (eccettuate le poche tra queste ch’erano esenti dall’imposta fondiaria) pagava al tesoro romano la decima parte del prodotto. La riscossione di quest’imposta era regolata da una legge di Gerone II, che i nuovi dominatori conservarono immutata. In questi territori la terra era in possesso della borghesia cittadina, di coloro cioè che Cicerone chiama possessores o aratores (gewrgoi)v . Il numero dei proprietari agrari, compresi coloro che prendevano in fitto terre dello Stato, era relativamente esiguo (da 12 a 13 mila). Vasti tratti di terreno non appartenenti ad alcun territorio cittadino erano posseduti da persone ricche, che vi mantenevano grossi greggi di bestiame. Non sembra ch’essi fossero proprietà privata dei magnati romani: questi probabilmente li avevano in fitto dallo Stato. La mano d’opera adibita alla lavorazione del suolo e all’allevamento del bestiame era fornita per i campi da schiavi e da liberi presi tra i piccoli affittuari, per i pascoli quasi soltanto da schiavi. La Sicilia s’era presto riavuta dalle devastazioni delle guerre servili. Queste anzi non sembra avessero affatto danneggiato la borghesia cittadina: ai tempi di Cicerone essa era ancor numerosa, influente e prospera. Le condizioni mutarono durante le guerre civili. La Sicilia fu teatro d’uno degli episodi più rilevanti delle guerre medesime: la lotta tra Sesto Pompeo ed Ottaviano, durata vari anni. Pompeo aveva trovato i suoi fautori principalmente tra gli schiavi, ed è naturale supporre che ad essi abbia sacrificato gli interessi della borghesia cittadina. Ad ogni modo è un fatto certo che Ottaviano dopo la sua vittoria non poté mantenere la concessione della cittadinanza romana a tutta la Sicilia, come aveva pensato di fare Cesare e aveva effettivamente fatto Antonio. «Tutta la Sicilia» significava, ben inteso, i cittadini delle città greche, la classe dei proprietari agrari (aratores). Nel riordinare l’isola, Augusto lasciò da parte siffatta concessione, probabilmente perché essa non aveva più molto valore, la borghesia cittadina d’origine greca essendo stata decimata e rovinata dalla guerra civile. La rovina di essa spiega anche perché Augusto abbia creduto di dover rinsanguare con coloni romani le più importanti città di Sicilia – specialmente quelle ch’erano porti principali di esportazione del grano, della lana, dello zolfo – e perché egli abbia concesso ad alcune altre, contenenti probabilmente forti colonie di immigrati italici, i diritti di municìpi romani o di colonie latine. Ma né Augusto né i suoi successori immediati, in contrasto con la politica da loro seguita nella Spagna, in Gallia, nei paesi danubiani, in Africa, tentarono mai di ridestare in Sicilia la
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LATO ANTERIORE D’UN GRANDE SARCOFAGO. Porta Salaria, Roma. Museo delle Terme. – PARIBENI, «Not. d. scavi», 1926, tav. VIII. Trovato in due frammenti. Lo spazio destinato all’iscrizione è vuoto. Sul frammento riprodotto in questa tavola una capanna di contadini (simile a un mapale africano); accanto un contadino che offre un cesto di frutta a una divinità agreste barbata. Seguono pecore al pascolo e un pastore, e accanto di nuovo la stessa divinità. Infine una donna con un bambino siede presso la dimora contadinesca. L’altro frammento, riprodotto nella tav. XXXIII (fig. 3) raffigura una strada, in cui si vede una pietra miliare col numero V. Un viaggiatore a cavallo con un cane, e davanti a lui un corriere. Dietro al viaggiatore un carro tirato da due buoi e carico di un gigantesco otre di vino. Dietro il carro una casa con tre finestre. Cf. un rilievo, già nel Museo Borgia, presso P. TOMASSETTI, Campagna romana, I, p. 52, fig. 30 e il sarcofago di Philippeville presso S. GSELL, Musée de Philippeville, tav. II, n. 1.
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vita di città e la borghesia cittadina. La gran maggioranza delle civitates e degli oppida erano assoggettati a stipendium, cioè al pagamento di un’imposta fondiaria e fors’anche d’una capitazione, trovandosi così all’infimo gradino della scala municipale. Due ragioni, probabilmente, consigliarono d’introdurre in Sicilia la categoria delle civitates stipendiariae, ciò che equivaleva a rinunciare al sistema delle decime (decumae), dacché lo stipendium si pagava in denaro: in primo luogo il sistema delle decime, collegato all’esistenza d’una fiorente classe di proprietari terrieri, non rendeva più, ora che questa classe giaceva rovinata e prostrata; in secondo luogo, nei territori delle civitates l’elemento dirigente era ormai costituito probabilmente non da Greci, ma da indigeni, non pochi dei quali mal s’adattavano alla vita di città. Purtroppo i nostri dati sulle civitates stipendiariae e sugli oppida sono scarsissimi: l’espressione di civitas non implica necessariamente organizzazione urbana, e può anche indicare un complesso di villaggi o il territorio d’una tribù19. Nonostante la rovina della borghesia cittadina, la Sicilia rimase un paese ricco. Alcune delle sue città (come Messana e Tauromenium) svolsero una prosperosa viticoltura, ma, come abbiamo già detto, il paese restò in complesso terra da grano e da pascoli. Sembra che tale condizione sia stata conservata intenzionalmente dagli imperatori. Questi potevano, sì, come sappiamo, non opporsi a che alcune città piantassero vigne e frutteti, ma volevano che la più gran parte dell’isola fosse terra da grano, mentre i monti naturalmente restavano sedi della pastorizia. Questa è probabilmente la ragione per cui in Sicilia s’astennero dal fare politica d’urbanizzazione e cercarono di tenere la popolazione indigena nelle sue condizioni primitive. Essi avevano bisogno che l’isola fosse granaio d’Italia e non desideravano troppo ch’essa si sviluppasse. Per la
Isole Eolie nell’antichità Greca e romana (1921)]. U. KAHRSTEDT, Die Gemeinden Siziliens in der Römerzeit, «Klio», 35 (1942), pp. 246-267.
19. Abbiamo due descrizioni della Sicilia nel periodo imperiale, quella di STRABO, VI, 265 sgg., e quella di PLIN., Nat. hist., III, 88-91. Non vedo contraddizione tra la prima e la seconda parte della descrizione straboniana. Nella prima parte egli (seguendo probabilmente Posidonio) mette in rilievo la decadenza delle città greche, dandone una descrizione che conviene anche all’età di Augusto, in cui solo pochissime di queste città erano ridiventate prospere, nella seconda parla della Sicilia in generale e ne accentua l’antico carattere di granaio di Roma. La descrizione di PLINIO contrasta in più punti con le notizie di Cicerone, e mostra quanto profondo sia stato il riordinamento della Sicilia operato da Augusto e quanto effimere fossero state invece le concessioni di Cesare e di Antonio, se furono veramente concessioni e non già soltanto intenzioni. PLINIO prende non pochi abbagli nel caratterizzare la condizione delle varie città sicule, ma la sua descrizione della Sicilia è in complesso esatta. All’unico oppidum civium Romanorum (Messana) alle cinque colonie (Tauromenium, Catina, Syracusae, Thermae, Tyndaris), alle tre città di diritto latino (Centuripae, Neetum, Segesta), si contrappongono 46 civitates stipendiariae e 13 oppida, alcuni dei quali non avevano affatto ordinamento urbano; cf. A. HOLM, Geschichte Siciliens, vol. III, pp. 228 sgg., 469 sgg.; J. BELOCH, Die Bevölkerung der griechisch-römischen Welt, pp. 325 sgg.; O. CUNTZ, «Klio», 6 (1906), pp. 466 sgg.; E.S. JENISON, The History of the Province Sicily (1919), pp. 101 sgg.
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stessa ragione vasti tratti di terreno rimasero nelle mani dello Stato. Sotto Domiziano e Traiano esisteva in Sicilia, come nella Betica, una speciale amministrazione delle terre pubbliche, chiamata amministrazione «del grano pubblico» (frumentum mancipale), cioè grano versato dagli affittuari delle terre pubbliche20. Alla stessa causa, inoltre, si doveva il sorgere di grandi tenute nell’isola e il corrispondente incremento dei demani imperiali. Abbiamo già parlato delle grandi proprietà possedute nell’isola da Agrippa. Non pochi antichi nomi geografici ricordati negli itinerari derivano da nomi di famiglie romane, e mostrano che Agrippa non era il solo che in questa provincia possedesse ampi tratti di paese. Sotto Gallieno scoppiò una rivolta, probabilmente di contadini – questi movimenti sono caratteristica comune del secolo III –: ciò dimostra che il formarsi di latifondi non cessò in tutto il corso dei primi due secoli della nostra era21. Tutto sommato, la Sicilia nei primi due secoli era un paese contenente poche città prosperose, abitate in molta parte da coloni romani, e decine di civitates, alcune delle quali conservavano ancora la forma esteriore della vita di città, mentre altre erano semplici aggregati di villaggi abitati dalla popolazione indigena. Entrambi i tipi di civitates, avevano certamente aspetto del tutto rurale, composte com’erano di gruppi di contadini e di pastori. I latifondi del popolo romano e dell’imperatore probabilmente erano gestiti nella stessa maniera delle grandi tenute delle altre province: erano, cioè, concessi ad appaltatori generali e lavorati da piccoli affittuari. Sui vasti latifondi di alcuni ricchi agrari la pastorizia costituiva probabilmente la fonte principale del reddito, e i
20. Vd. la mia Gesch. d. Staatspacht, p. 425, e il mio articolo in «R. E.», VII, col. 153. Il fatto è attestato dalle iscrizioni di C. Vibio Salutare di Efeso, C. I. L. III, 14195, 4-13; cf. R. HEBERDEY, Forschungen in Ephesos, vol. II (1912), n. 28 (cf. n. 60 e n. 27 e III, p. 115, n. 27). Intorno all’importanza della produzione granaria della Sicilia vd. cap. I, nota 27. Al mosaico di Ostia ricordato a questo punto la signorina BLAKE assegna per motivi tecnici la data della metà del sec. I d.C., approssimativamente cioè il periodo successivo alla costruzione del porto di Claudio. 21. Intorno alle grandi tenute di Sicilia vd. C. I. L. X, 7041 (Catina): d. m. s. Gallicano fidelissimo qui fuit vilicus Afinianis; cf. la nota del MOMMSEN, che ricorda le località siciliane che portavano i nomi di Calloniana, Calvisiana, Capitoniana, Comitiana, Corconiana, Philosophiana, Pitiniana, e I. G., vol. XIV, 283, 284; I. G. R. R. I, 502 (Drepanum): due procuratori, un liberto, e uno schiavo di C. Asinio Nicomaco Flaviano (sec. III). Un villaggio e una tenuta nel territorio di Catina sono attestati da un’iscrizione greco-latina, «Not. d. scavi», 19 (1922), pp. 494 sgg.; R. SABBADINI, «Boll. di filol. class.», 30, pp. 19 sgg. I demani pubblici e imperiali erano amministrati da schiavi imperiali, dei quali si fa spesso menzione nelle iscrizioni di Sicilia: C. I. L. X, 6977, 7189; I. G. R. R. I, 498 (presso Selinunte); cf. C. I. L. X, 2489 (Lipara). Circa la ribellione scoppiata in Sicilia sotto Gallieno, vd. SCR. HIST. AUG., Gall., 4, 9: denique quasi coniuratione totius mundi concussis orbis partibus etiam in Sicilia quasi quoddam servile bellum extitit latronibus evagantibus qui vix oppressi sunt. Nota che il testo non parla di guerra servile; dice: «una guerra che può paragonarsi con una guerra servile», alludendo senza dubbio alle due celebri guerre servili della repubblica: molto probabilmente i latrones che devastarono l’isola erano per lo più contadini, coloni e pastori delle grandi tenute, alcuni anche schiavi.
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greggi erano custoditi, come nel secondo secolo a.C., da numerosi schiavi. Gli imperatori romani riuscirono in complesso a far sì che la Sicilia rimanesse granaio del popolo romano, terra di campi e di pascoli, con qualche oasi di vita economica più progredita. Lo stesso quadro presenta la provincia di Sardegna. Questa era stata il granaio di Cartagine, tenuta artificialmente in questa condizione dalla città dominante; e rimase poi sempre granaio di Roma e dell’Italia. Sotto il governo romano, così nel periodo repubblicano come nell’imperiale, la vita urbana si sviluppò soltanto lentamente. Le città principali dell’isola erano Caralis e Turris, la prima municipium, la seconda colonia di cittadini romani, entrambe grandi porti d’imbarco del grano e dei metalli prodotti nell’isola. Nell’interno anche durante il periodo imperiale continuò a prevalere la vita di tribù, e non vi fu progresso verso la vita cittadina. Alcune tribù possono aver costituito unità amministrative (civitates), altre manifestamente vivevano sul territorio di grandi tenute, pubbliche, imperiali, private. Gli indigeni delle tribù coltivavano queste tenute in qualità d’affittuari, in condizione di semi-servitù, e custodivano i greggi dei padroni. Abbiamo già menzionato i grandi domini di Atte, l’amante di Nerone: essi sembrano costituire il tipo della struttura economica del paese. In tal modo, mediante cioè la colonizzazione di poche città e l’asservimento degli indigeni, quest’isola, come quella di Sicilia, fu romanizzata, più o meno completamente nelle città, molto superficialmente nella campagna. Sulla Corsica non abbiamo che pochissime notizie. Tuttavia un’iscrizione ci mostra che l’isola era abitata principalmente da stirpi indigene, le quali ricevettero da Augusto proprio ordinamento. Una gran parte del suolo – probabilmente in modo speciale le foreste – apparteneva all’imperatore; un’altra parte era assegnata a una colonia di Mario. Il resto era in possesso degli indigeni. Una di queste stirpi, quella dei Vanacini, era abbastanza ricca da poter comperare del terreno da Vespasiano e da creare un centro quasi urbano con un tempio di Augusto (si confrontino le sedi del culto provinciale degli imperatori nelle province occidentali)22.
22. I dati relativi alla romanizzazione della Sardegna e della Corsica, alle loro città, tribù, grandi tenute, sono stati accuratamente riuniti e illustrati da E. PAIS, Storia della Sardegna e della Corsica durante il dominio romano (1923), vol. I, pp. 313 sgg., specialmente 329 sgg. «La dominazione romana – egli dice – intensificò probabilmente i centri d’abitazione nelle varie parti dell’isola, ma fatta eccezione per Uselis e Valentia, per Turris, per Gurulis Nova e qualche altra località, non creò nuove città di schietto tipo romano. Essa, seguendo assai probabilmente le norme dell’antica signoria punica, favorì invece la costituzione di aggregati rurali, di «vici» e di «villae», che spesso, come ad esempio nel caso del castello e della cinta del Nuraghe Losa, si andarono svolgendo ed intensificando intorno alle vetustissime costruzioni megalitiche». Cf. vol. II, pp. 499 sgg. sulle condizioni economiche vigenti in Sardegna, ed E.S. BOUCHIER, Sardinia in Ancient Times, 1917; H. PHILIPP, «R. E.», II ser., I, col. 2480. Tipico per la Corsica è il rescritto di Vespasiano per la stirpe dei Vanacini (C. I. L. X, 8038; ABBOTT e JOHNSON, Mun. Adm. in the Roman Empire, p. 363, n. 59, cf. ABBOTT, «Class. Philol.», 10 (1915), p. 374). I Vanacini avevano comperato un tratto di terreno dall’imperatore (v’erano dunque beni imperiali in Corsica): orbene, riguardo ai confini di questo terreno nacque
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La SPAGNA è sempre stata ritenuta il baluardo della romanità, la più profondamente romanizzata tra le province d’Occidente. Oltre il fatto che essa parla ancora una lingua romanza – meno vicina, tuttavia, al latino del rumeno, della lingua cioè della provincia meno antica e più effimera dell’Impero – i sostenitori di quest’opinione fanno rilevare che, dopo la Sicilia, la Sardegna, e la Corsica, la Spagna fu la più antica provincia romana, e ch’essa fu dai Romani completamente urbanizzata, tutte le sue tribù e borgate avendo ricevuto da Vespasiano il diritto latino. Non v’ha dubbio che una parte della Spagna si romanizzò a fondo. La Betica era un pezzo d’Italia trasportato nella Spagna, come la Narbonensis in Gallia. Lo stesso, all’incirca, può dirsi della costa della Tarraconensis e dei bassopiani di Lusitania. Ciò non deve sorprenderci se pensiamo che queste regioni avevano avuto un lungo sviluppo di civiltà prima di passare sotto il dominio romano. Sappiamo infatti quanto fosse antica la civiltà iberica, e quanto strettamente essa fosse connessa con le altre civiltà del Mediterraneo sin dall’età minoica. Sappiamo anche che i Greci (Focesi) e i Fenici (coloni venuti prima da Tiro, poi da Cartagine) si stanziarono nella Spagna meridionale e v’introdussero la vita di città nella sua forma greco-orientale23. I Romani giunsero ultimi: presero quel che trovarono e dapprima non aggiunsero molto di proprio. A poco a poco, tuttavia, la Spagna e particolarmente la Betica divennero la terra promessa della colonizzazione italica. Già fin dai primi tempi vi erano state inviate alcune colonie romane: ma la colonizzazione fu opera essenzialmente di Cesare e del suo figlio adottivo. È probabile che specialmente in questo periodo, cioè durante le guerre civili, molti Italici si siano stabiliti nelle grandi città commerciali greche e fenicie della Spagna. Tra queste città la più grande, florida e profondamente romanizzata era Gades; al secondo posto veniva Emporium. In tal modo le zone civili ed economicamente prospere della regione vennero romanizzate, e l’antica classe dirigente della città e della campagna fu soppiantata da Romani e da Italici di lingua latina. Il rimanente della popolazione cittadina – i residui dei
contestazione tra essi e una colonia romana (colonia Mariana, cioè la colonia fondata in Corsica da C. Mario), e la questione fu risolta per ordine dell’imperatore da un procuratore imperiale. L’iscrizione menziona certi privilegi ch’erano stati concessi ai Vanacini da Augusto. È da notare ch’essi avevano un tempio d’Augusto, vale a dire una specie d’ordinamento municipale: ma i sacerdoti di esso non erano cittadini romani. 23. A. SCHULTEN, Tartessos, 1922; cf. i suoi articoli Hispania e Lusitania nella «R. E.» e Avienus in Spanien nella «Zeitschrift für Auslandskunde» (1921), pp. 97 sgg. e le relazioni sugli scavi di Tartessos, «Jahrb. d. d. arch. Inst.», 42 (1927), Arch. Anz., pp. 1 sgg., cf. IDEM, Forschungen in Spanien, ibid., pp. 198 sgg.). O. JESSEN, Südwest Andalusien, nelle «Petermanns Mitteilungen», Suppl. 186 (1924) e «Jahrb. d. d. arch. Inst.», 42 (1927), Arch. Anz., pp. 236 sgg. Cf. A. SCHULTEN, C. A. H., VII (1929), pp. 769 sgg., nonché la bibliografia a p. 927. Intorno ai Focesi e ai Massalioti nella Spagna, vd. RHYS CARPENTER, The Greeks in Spain («Bryn Mawr Notes and Monographs», VI), 1925. Cf. la scoperta di armi di bronzo fatta ad Huelva, che attesta una grande esportazione di strumenti di bronzo in Francia e Britannia e anche in Italia, e fa supporre che in questo periodo non soltanto il rame ma anche lo stagno si estraesse in grande quantità dalle miniere spagnole. Vd. J. ALBEDA, Bronzes de Huelva, «Rev. Arch.», 18 (1923), pp. 222 sgg.; P. BOSCH-GIMPERA, ibid., 22 (1925), pp. 206 sg.
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1. Minatori ispani
2. Stazione di cura nella Spagna
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1. FRAMMENTO DI BASSORILIEVO. Trovato a Linares nella Spagna. A. DAUBRÉE, «Rev. Arch.», 43 (1882), pp. 193 sgg., tav. V; H. SANDARS, ibid., 4ème série, I (1903), pp. 201 sgg., tav. IV; IDEM, «Archaeologia», 59 (1905), pp. 311 sgg. e tav. LXIX; S. REINACH, Rép. d. rel., II, p. 192, 4; T.A. RICKARD, The Mining of the Romans in Spain, «J. R. S.», 18 (1928), pp. 139 sg. Nove minatori in due file discendono per una galleria verso un pozzo. L’ultimo della prima fila tiene un piccone o martello da minatore, il suo vicino una lucerna. La figura più alta che gli sta dietro è un capo-lavorante, che porta un paio di grandi tenaglie a doppia cerniera e una lanterna (si è pensato anche a una campana o a un recipiente con olio per lanterne). Tutti sono vestiti allo stesso modo: hanno nude la parte superiore del corpo e le gambe, e attorno alla vita portano una breve tunica (o uose) e una cintura o fascia di pelle. Linares (l’antica Castulo) era uno dei più importanti centri minerari della Spagna, con ricchissime miniere d’argento e di piombo (POLYB., 10, 38; 11, 20; STRABO, 3, 2, 10), congiunto per una strada lastricata alle celebri miniere di Sisapo. Vd. C. I. L. II, pp. 440 sgg. e 949 sgg. La città era ricca e florida, come dimostrano non poche iscrizioni latine ivi trovate e un gran numero di monete (dal sec. I a.C. al IV d.C.). Altri trovamenti sono enumerati dal RICKARD, op. cit., pp. 141 sg. 2. COPPA D’ARGENTO ORNATA DI BASSORILIEVI. Trovata a Castro Urdiales (Flaviobriga) nella Spagna settentrionale. Nella collezione di Antonio de Otañes a Castro Urdiales. E. HUEBNER, «Arch. Zeit.», 1873, p. 115, tav. XI; «Gaz. Arch.», 1884, p. 261 e 270; DAREMBERG e SAGLIO, Dict. d. ant., fig. 6089; C. I. L. II, 2917; S. REINACH, Rép. d. rel., II, p. 195, 3. Riprodotta da una riproduzione in metallo del Museo de Reproduciones di Madrid (grazie al cortese intervento del Centro de intercambio intelectual germano-español). I bassorilievi che ornano l’interno della coppa sono circondati da un’iscrizione in lettere dorate. – Salus Umeritana. Nella parte superiore si vede la personificazione della sorgente salutare, la Salus di Umeri, semisdraiata e seminuda, che tiene una canna con la destra e s’appoggia con la sinistra ad una urna da cui un getto d’acqua va a versarsi in un serbatoio fatto di grandi pietre rozze. Ai due lati di essa vi sono dei vecchi alberi. La sorgente medicinale di Umeri (località di ubicazione sconosciuta) probabilmente ne faceva uno dei più noti luoghi di cura della Spagna. (Su questi luoghi di cura della Spagna vd. PLIN., Nat. hist., 31, 23; e sul soggiorno di Augusto in una di esse nei Pirenei, CRINAGORA nella Anth. Pal., 9, 419). Accanto alla sorgente un giovane schiavo riempie di acqua una grande anfora. Non lungi dalla sorgente un vecchio ammalato, seduto su una poltrona di vimini, prende un bicchiere d’acqua dalle mani d’un servitore. A sinistra lo stesso individuo, vestito di toga, dopo avere ricuperato la salute sacrifica ad un altare. A destra un visitatore o pastore indigeno depone offerte su un altro altare. In basso un altro ragazzo versa dell’acqua da un’anfora in una botte collocata su un carro tirato da due muli. È evidente che Umeri era un fiorente luogo di cura, uno dei non pochi che v’erano sui Pirenei e in altre parti dell’Impero romano, e che esportava le sue acque anche a distanza. Cf. E. HUEBNER, Römische Herrschaft in Westeuropa, 1890, pp. 288 sgg. e p. 262. Sulle acque salutari in generale, vd. «R. E», II, coll. 294 sgg; FRIEDLAENDER e WISSOWA, Sittengeschichte Roms, I, 19199, p. 387; III, p. 178.
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Greci, dei Fenici, degli Iberici – venne assorbito dai nuovi venuti e a poco a poco adottò la lingua e i costumi della classe dominante23a. La prosperità della Spagna meridionale e occidentale si fondava sullo sfruttamento delle risorse naturali del paese. Sin dai tempi più remoti l’agricoltura, e particolarmente la coltivazione dell’olivo e del lino, e le miniere (argento, rame, ferro, stagno, piombo) erano state le sorgenti più importanti della ricchezza del paese. Queste risorse naturali avevano favorito lo sviluppo di una fiorente industria, che si svolgeva specialmente nella fabbricazione dell’acciaio e nella tessitura del lino. Tale attività economica, e soprattutto l’industria mineraria, fu ancor più sviluppata dai Romani. La Spagna era infatti il più ricco distretto minerario del nascente Impero e fu il primo ad essere sfruttato. Molte cure si davano anche all’eccellente olio del paese, migliore e più a buon mercato di quello d’Italia24. Ricca e prospera com’era, la Spagna meridionale rimase per molti anni terra di colonizzazione italica. Più d’un capitalista romano, sia della classe senatoria sia dell’equestre, investì denaro in terreni spagnuoli. Insieme coi discendenti degli antichi coloni e con qualche rappresentante delle classi superiori preromane, i nuovi venuti costituirono la borghesia cittadina. A un tempo s’incontravano agenti d’affari di capitalisti italici e impiegati dell’imperatore, alcuni dei quali si stabilivano nell’attraente provincia. Questi elementi crebbero continuamente di numero e di ricchezza. I loro redditi derivavano principalmente dall’agricoltura: sappiamo infatti che tanto nella Betica quanto nella Lusitania i coloni romani ricevettero quote di terreno insolitamente grandi, che furono la sorgente originaria della loro ricchezza, andata poi continuamente crescendo, fino a raggiungere l’apogeo nel secolo secondo d.C. I begli avanzi delle città della Betica, della Lusitania, e di parte della Tarraconense – segnatamente quelli di Italica, di Tarraco e di Emerita – e di molte altre città scavate recentemente, per esempio Clunia – attestano il loro splendore e la loro prosperità. È ragionevole supporre che questo benessere si fondasse sullo sfrutta-
23a. Intorno alla Spagna nell’età augustea vd. T. FRANK, Economic History, 19272, pp. 359 sgg. Per Gades vd. STRABO, III, 5, 3; 2, 5 sg. È tipico lo sviluppo di Emporium, vd. LIV., XXXIV, 9. La città si componeva di due oppida, uno greco e l’altro iberico, separati da un muro. Tertium genus – dice Livio (loc. cit. 3) – Romani coloni ab divo Caesare post devictos Pompei liberos adiecti, nunc in corpus unum confusi omnes Hispanis prius, postremo et Graecis in civitatem Romanam adscitis. Si osservi la più lenta romanizzazione dei Greci. Cf. SALL., Hist., III, 6 (ed. Maurenbrecher) e A. SCHULTEN, «Bull. Ass. cat. antr.», 3 (1927), pp. 36 sgg. [Sulla Spagna vd. cap. V, nota 4; sul Portogallo, M. MESQUITA DE FIGUEIREDO, Monuments romains du Portugal, «Rev. Arch.», 4 (1913), pp. 345 sgg.; F. PELLATI, I monumenti del Portogallo romano, «Historia», 5 (1931), pp. 196 sgg.]. 24. Un buon quadro delle risorse economiche della Spagna è dato da R. KNOX MC ELDERRY, «J. R. S.», 8 (1918), pp. 53 sgg.; cf. M. MARCHETTI in DE RUGGIERO, Diz. ep., vol. III, pp. 754-938 [e L.C. WEST, Imperial Roman Spain. The Objects of Trade (1929)]. Per l’sportazione d’olio spagnuolo in Germania vd. BOHN, «Germania», 1925 p. 78. Non sappiamo di che fossero riempiti i dogli, dei cui cocci è composto il Monte Testaccio di Roma; probabilmente non soltanto di olio e vino (vd. la mia Gesch. der Staatsp., p. 429).
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mento della terra. Esempi caratteristici di famiglie di ricchi proprietari agrari son quelli degli imperatori Traiano e Adriano. La mano d’opera per le loro tenute e per le miniere era fornita probabilmente dagli indigeni, che rimasero quel ch’erano stati per l’innanzi, lavoratori della terra e minatori25. Tuttavia la Spagna meridionale conteneva vasti tratti di terreno non appartenenti a proprietari privati. Fin dai primi anni della conquista il popolo romano era entrato in possesso di estese tenute e della maggior parte delle miniere. Come in Africa e in Asia, così anche nella Spagna gli imperatori della dinastia giulio-claudia rivaleggiarono col popolo romano nell’estendere le loro proprietà, da loro incessantemente aumentate mediante confische ed eredità. Le più estese confische furono quelle di Nerone, e nel secolo secondo esse erano rappresentate da cospicui tratti di terreno patrimoniale. La stessa sorte toccò alla maggior parte delle miniere. Non abbiamo notizie intorno al modo di coltivazione di questi beni pubblici e patrimoniali, ma è ovvio supporre che non differisse da quello che troviamo in Asia e in Africa. La terra probabilmente si concedeva ad affittuari grandi e piccoli, conductores e coloni. I primi, affittuari in grande, risiedevano nelle città; i coloni vivevano sulle tenute e coltivavano con le proprie mani i poderi presi in fitto. Non sappiamo come fosse andata a finire la servitù della gleba, che un tempo era esistita anche qui, come in Gallia. È difficile che l’abbiano abolita dappertutto i Romani, come fecero nel 189 a.C. ad Hasta (DESSAU, I. L. S., 15). Più informati siamo intorno allo sfruttamento delle miniere: due iscrizioni, come vedremo nel capitolo seguente, ci fanno conoscere fino nei minimi particolari l’ordinamento d’una di queste miniere, quella di Vipasca26. Molto meno romanizzati erano gli altipiani della Lusitania e della provincia citeriore, particolarmente i distretti dei Celtiberi, degli Asturiani, dei
25. HUEBNER, «R. E.», V, coll. 2493 sgg.; cf. W. BARTHEL, «Bonn. Jahrb.», 120 (1911), p. 78, nota 1. Intorno a Merida e alle sue rovine romane si veda MAXIMILIANO MACIAS, Mérida monumental y artística, Barcellona, 1913; A. SCHULTEN, Merida, «Deutsche Zeitung für Spanien», Barcellona, 1922 [JOSÉ R. MÉLIDA, Merida, in IV Congrès internat. d’archéologie (1929) (in ispagnuolo e in francese)]. Emerita in tutto il corso della sua storia restò stazione militare e centro amministrativo – posto romano fortificato in mezzo alle bellicose popolazioni della Lusitania, solo a metà pacificate. Intorno alle varie condizioni sociali ed economiche delle diverse parti della Spagna, alla divisione del paese in piccole unità cantonali (in contrasto coi vasti cantoni della Gallia), e alla persistenza dei clans e delle gentes, vd. il pregevole libro di E. ALBERTINI, Les Divisions administratives de l’Espagne romaine (1923). L’autore vi dimostra che i Romani non pensarono mai ad accrescere la divisione del paese, anzi favorirono la formazione di unità maggiori. 26. O. HIRSCHFELD, Der Grundbesitz der römischen Kaiser, «Klio», 2, e Kl. Schr., p. 570. Per l’ager publicus della Spagna vd. la mia Geschichte d. Staatspacht, pp. 426 sgg., e O. HIRSCHFELD, Die K. Verwaltungsb., 19052, pp. 140 sgg. Ai riferimenti dati in questi libri s’aggiunga C. I. L. II, 1438 = DESSAU, I. L. S., 5971 (restauro dei termini degli agri decumani della Betica nel 49 d.C.). Per le miniere, O. HIRSCHFELD, op. cit., pp. 145 sgg.; E. SCHOENBAUER, «Zeitschr. d. Savigny-Stif.», 46 (1925), pp. 181 sgg. e 47 (1926), pp. 352 sgg.; T.A. RICKARD, The Mining of the Romans in Spain, «J. R. S.», 18 (1928), pp. 129 sgg.
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VI. L’Impero romano sotto i Flavii e gli Antonini. L’Italia e le province occidentali
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Callaeciani. Queste zone non attrassero i coloni romani e conservarono quindi il loro aspetto nazionale e le peculiarità del loro sistema sociale ed economico. La romanizzazione e l’urbanizzazione era solo superficiale, e non impediva il sopravvivere dell’ordinamento secondo stirpi e tribù (gentes). Il fatto che Vespasiano concesse il diritto latino a tutte le tribù della Spagna centrale, settentrionale, e occidentale, non implica ch’esse fossero romanizzate completamente già prima di tale concessione: significa soltanto che la vita di città non ripugnava al sistema sociale che la Spagna aveva posseduto prima della conquista romana e che grazie al servizio militare una parte della popolazione dei territori delle tribù aveva preso una vernice di romanità e poteva costituire un corpo dirigente sul modello municipale romano sufficiente per poter governare il resto della tribù e parti d’altre tribù. La riforma di Vespasiano mirò tanto a spezzare la coesione della nazione e delle tribù, quanto ad assicurare alle legioni romane, non più reclutate in Italia, un contributo di buoni soldati, che, discendendo da ausiliari veterani e da membri dell’aristocrazia urbana, erano fino a un certo punto romanizzati e distinti per la loro condizione sociale più elevata dai loro compagni di stirpe. Mentre così un gruppo di essi entrava a far parte d’una comunità civica, il resto rimaneva nella stessa condizione di prima, conducendo la consueta vita di tribù e mandando soldati ai corpi ausiliari dell’esercito romano. Fu probabilmente con questa divisione della popolazione che Vespasiano s’attirò la critica di coloro che gli rimproveravano di «imbarbarire» l’esercito dell’Impero27. La scarsità dei dati che abbiamo intorno alla vita sociale ed economica della parte alta della Spagna mostra che anche dopo la riforma di Vespasiano questo paese rimase nelle stesse condizioni primitive e misere, in cui era stato ai tempi di Polibio e di Strabone28. Il fatto che sin dal primo momento che vi fu introdotta la vita di città sul modello romano non fu facile trovare per le magistrature municipali un numero sufficiente di candidati dimostra che la formazione di una borghesia cittadina era un processo alquanto lento, e che la popolazione dell’interno anche nelle città rimaneva composta in gran parte di contadini e pastori29. In questa zona, come hanno dimostrato gli scavi esegui-
27. REID, Municipalities, pp. 241 sgg.; MC ELDERRY, op. cit., specialmente pp. 62 sgg., intorno all’opposizione esistente a Roma contro Vespasiano e l’imbarbarimento dell’Impero. Si noti che sotto Traiano alcuni degli Ispani che parteciparono alla guerra contro i Daci, e propriamente gli Asturii, vennero trattati come veri e propri barbari: infatti erano chiamati symmachiarii, termine che s’applicava alle unità militari che venivano levate dalle stirpi non romanizzate dell’Impero (H. DESSAU, «Klio», 20 (1925), p. 227). 28. A. SCHULTEN, Die peregrinen Gaugemeinden des römischen Reiches, «Rh. Mus.», 50 (1895), pp. 495 sgg.; IDEM, Numantia I. Die Keltiberer und ihre Kriege mit Rom.; IDEM, «R. E», XI, col. 156; [F. BEHN, Numantia u. seine Funde, 1931]. Per l’Asturia e la Callaecia vd. MC ELDERRY, op. cit., pp. 85 sgg. Circa la relazione intercedente tra le divisioni originarie del paese e quelle attuate dai Romani, E. ALBERTINI, op. cit., pp. 105 sgg. 29. Lex Malacitana, capp. 51 e 66 (C. I. L. II, 1964; DESSAU, I. L. S., 6089; BRUNSGRADENWITZ, 7a ediz., p. 147, n. 30); cf. DESSAU, op. cit., 6898. Un altro indizio della povertà della città è il fatto che un ricco cittadino di Ebuso lasciò alla sua città un lega-
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ti dallo Schulten a Numanzia, le città non raggiunsero mai la prosperità goduta da quelle della costa e dei bassopiani. Esse rimasero su per giù quello ch’erano state per l’innanzi, e conservarono il loro volto non romano. Alcune di esse, è vero, dalle alture scesero al piano; ma le lagnanze dei Saborenses mostrano che ciò non era sempre indizio di prosperità. Naturalmente le capitali di vasti territori si svilupparono più rapidamente delle altre30. Non si sa nulla intorno all’ordinamento delle tribù e stirpi che vivevano nel territorio delle nuove città, o, in certi casi, in territori propri. Il trovare frequentemente menzionati nei territori cittadini gli incolae o contributi, alcuni dei quali erano anzi intramurani – cioè abitavano nell’interno della città – mostra che quelli che possedevano il diritto latino ed erano più o meno romanizzati costituivano solo una piccola minoranza della popolazione della Spagna, mentre la condizione del rimanente era sempre quella ch’era stata prima della «romanizzazione» integrale del paese31.
to per pagare il tributo dei cittadini (probabilmente la capitazione) (DESSAU, op. cit., 6960). È notevole che donazioni di questo genere ricorrono soltanto nelle povere terre di Grecia, vd. I. G. XII, 5, n. 946, ll. 19 sg., cf. A. WILHELM in ∆Epituvmbion H. Swoboda dargebracht (1927), p. 341 (Tenos); ibid., n. 724 (Andros), e l’iscrizione di Macedonia riferita da M. ROSTOVTZEFF nel «Boll. dell’Istit. archeol. russo di Costantinopoli» (in russo), 4, 2 (1899), p. 171; cf. «Rev. Arch.», 37 (1900), p. 489, n. 131 (Beroea in Macedonia; donazione d’un ricco cittadino per pagare la capitazione della popolazione provinciale, ma probabilmente deve intendersi di quella della città soltanto). In qualche modo simile era l’attività di alcuni ricchi individui che riscuotevano le tasse in Licia (Oenoanda): un ricco benefattore d’Asia Minore pagava al tesoro imperiale tou;~ iJerou;~ fovrou~ kai; th;n pra'xin poihsavmenon ejpeikw'~ kai; teimhtikw'~ (O. G. I. S., 565 = I. G. R. R. III, 488), e I. G. R. R, IV, 1441 (Smirne, età di Elagabalo): un uomo era onorato dall’imperatore th'ë prostasiva/ ⁄ ªth`~º pravxew~ tw'n iJerw'n ⁄ ªajgwvnºwn tou' lamprotavtou ⁄
ªtºh`~ A ∆ siva~ e[qnou~. 30. DESSAU, I. L. S., 6921; cf. la epistula Vespasiani Saborensibus, ibid., 6092. Ritroveremo lo stesso fatto in Dalmazia: in Gallia esso era affatto comune. In alcuni casi il trasporto della città dalle alture al piano avveniva indubbiamente per ordine dell’amministrazione romana: le città annidate sulle alture erano per il governo meno sicure di quelle di pianura. 31. Circa la distinzione tra municipes e incolae vd. DESSAU, 6902, 6908, 6916 (raro caso di un incola diventato decurio), 6917, e molti passi delle due leggi di Malaca e di Salpensa nonché della lex coloniae Genetivae Juliae (BRUNS e GRADENWITZ, Fontes, 7a ediz., pp. 129 sgg.), cf. specialmente cap. 103: colon(os) incolasque contributos. Io ritengo che gli incolae siano in parte la popolazione rurale del territorio assegnato a una città; vd. DESSAU, 6921: mutatione oppidi municipes et incolae pagi Tran(s)lucani et pagi Suburbani; cf. E. DE RUGGIERO, Diz. ep., II (1922), p. 2195; E. PAIS, Dalle guerre puniche a Cesare Augusto, II (1918), pp. 397 sgg.; BERGER, «R. E.», IX, coll. 1249 sgg. Le due classi degli incolae – quelli che vivono nella città e quelli che coltivano una parte del territorio ad essa appartenente – sono distinte nella classica definizione dell’incola contenuta nel DIG. 50, 16, 239, 2: incola est, qui aliqua regione domicilium suum contulit: quem Graeci pavroikon appellant. nec tantum qui in oppido morantur incolae sunt, sed etiam qui alicuius oppidi finibus ita agrum habent, ut in eum se quasi in aliquam sedem recipiant. Non posso consentire col Berger che quest’ultima classe fosse formata dagli abitanti dei sobborghi della città: si intendono invece evidentemente i possessori di par-
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Calendario agrario figurativo (mosaico di Vienne)
TAV. XXXVI – AGRICOLTURA NELLA GALLIA MERIDIONALE
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DESCRIZIONE DELLA
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XXXVI
MOSAICO. Trovato nel 1890 a Saint Roman en Gal (antica Colonia Julia Vienna) nella Francia meridionale. Parigi, Museo del Louvre. G. LAFAYE, «Rev. Arch.»., 3ème série, 19 (1892), pp. 322 sgg., con disegni; Inventaire des mosaïques de la Gaule, I (1909), n. 246 e tre tavole fotografiche; CAGNAT-CHAPOT, Manuel etc., II, p. 173 ; R. BILLIARD, La vigne dans l’antiquité, p. 425 et passim: S. REINACH, Rép. d. peint., pp. 223 sgg. Il mosaico copriva il pavimento di una grande sala d’una casa privata a Vienne. Ne è conservata soltanto una parte. Il tutto si componeva di quaranta quadrati, circondati da una cornice ornamentale (omessa nella nostra tavola), dei quali si son conservati 28, tre però assai danneggiati dal fuoco. I quattro quadrati ad ogni estremità del mosaico erano meramente ornamentali; gli altri 34 erano riempiti da pitture riferentisi alla vita rurale. Il complesso voleva essere un calendario figurato. Il centro della composizione è tenuto da quattro figure di genii montate su quattro animali: un cinghiale, una pantera, un toro, un leone. I genii personificano certamente le quattro stagioni: quello sul cinghiale l’inverno, quello sul toro la primavera, quello sul leone l’estate, quello sulla pantera l’autunno. La rappresentazione delle quattro stagioni è molto frequente in monumenti antichi, e specialmente su mosaici; vd. per es. le nostre tavole LVIII e LXXVIII. I genii come rappresentanti delle stagioni non sono veramente molto comuni, ma cf. un altro mosaico di Vienne (Inventaire, n. 207). A ciascuna stagione si riferiscono altre sette figure, di cui quelle appartenenti all’autunno e all’inverno sono complete, mentre per l’estate ne abbiamo soltanto tre, per la primavera due. Le pitture sono in pieno accordo con la descrizione dei lavori agricoli che troviamo sia nei due calendari agrari pervenutici (menologium rusticum Colotianum e Vallense, C. I. L. I, 2a ediz., pp. 280 sgg.; VI, 2305, cf. p. 3318; DESSAU, I. L. S., 8745), sia nelle nostre fonti letterarie (gli Scriptores rei rusticae e Virgilio). Non può riscontrarsi stretto rapporto tra il numero dei quadri e i dodici mesi dell’anno (che nei calendari agrari scritti regolano la distribuzione dell’anno): sembra che per l’autore del nostro calendario ciascuna stagione di novantun giorni si suddividesse in sezioni di tredici giorni ciascuna. Non possiamo dar qui una minuta descrizione delle pitture, e ci accontenteremo di enumerarle nell’ordine naturale dall’alto in basso. I. Inverno (1). Due persone sedute in una stanza accanto ad una stufa. (2) Un uomo che reca un fascio di canne o di vimini a una donna che intreccia un paniere (il calendario dice per il gennaio: salix, harundo caeditur). (3) Due uomini occupati a seminare qualche cosa, probabilmente fave. (Cal. Dec.: faba seritur). (4) Un uomo e un ragazzo (schiavo ?) compiono una libagione dinanzi a un altare portatile (Cal. Jan.: sacrificant dis penatibus). (5) molitura del grano (VERG., Georg., I, 267). (6) Cottura del pane (?) in un forno. (7) Trasporto di concime nella vigne (Cal. Dec.: vineae stercorantur). II. Autunno. (1) Molto danneggiato. Forse l’arborum oblaqueatio del Cal. Sept. (?). (2) Vendemmia (Cal. Oct.: vindimiae). (3) Pressatura del marc du raisin. (4) Distacco di mele o di altri frutti dagli alberi (Cal. Sept.: poma leguntur). (5) Pigiatura dell’uva. (6) Impegolatura delle botti (Cal. Sept.: dolia picantur). (7) Aratura e semina (Cal. Nov.: sementes triticariae et hordiariae). III. Estate (1) Molto danneggiato. Raccolta dell’orzo (Cal. Iul.: messes hordiar[iae] et fabar[iae]; è troppo presto per il frumento, che non si falcia sino ad agosto). (2) Forse un agone rustico festivo (lancio di giavellotti: VERG., Georg., II, 529). (3) Sacrificio a Cerere. IV. Primavera. (1) Arrivo della prima cicogna. (2) Innesto di alberi. È notevole che questo calendario rustico figurato (le cui figure furono tratte certamente da qualche calendario manoscritto illustrato) si riferisce quasi esclusivamente alla viticoltura e al giardinaggio. Dobbiamo ricordare che Vienne era un gran centro di vita agricola e che la sua specialità erano i suoi celebri vini. Confrontare i numerosi mosaici rinvenuti in questa città che si riferiscono al vino e alla piantagione di viti (Invent. d. mos., nn. 169, 174, 187, 207, 220, 236, 243).
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1. Cittadino gallico benestante
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2. Uomo d’affari gallico
4. Mietitura del grano
3. In alto: vendita di rape o di pere In basso: zappatura o vangatura
5. Uomo d’affari e contadino suo cliente
TAV. XXXVII – VITA ECONOMICA IN GALLIA
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XXXVII
1. STELE FUNERARIA. Trovata a Sens (Agedincum). Museo di Sens. – JULLIOT, Musée de Sens, p. 73, tav. XIII; E. ESPÉRANDIEU, Rec. gén., IV, n. 2803. Marito e moglie. Il marito (a destra) è vestito nella consueta maniera gallo-romana e ha nella sinistra una grande borsa piena di monete. La moglie è vestita nella stessa maniera e tiene con le due mani una bottiglietta (di profumo?). 2. FRAMMENTI DEI BASSORILIEVI DI UN MONUMENTO FUNERARIO. Trovati a Sens (Agedincum). Museo di Sens. – JULLIOT, op. cit., p. 79, tav. XI; E. ESPÉRANDIEU, op. cit., IV, n. 2806. Uomini stanti entro nicchie. Il meglio conservato è vestito nella consueta foggia gallo-romana; è occupato a scrivere nel suo libro mastro, un grosso polittico. 3. BASSORILIEVI DI UN CIPPO FUNERARIO. Trovati ad Arlon (Orolaunum vicus). Museo di Arlon. – E. ESPÉRANDIEU, op. cit., V, n. 4044 (con bibliografia). Il fronte (non riprodotto) è occupato dalle figure dei defunti, simili a quelle del n. 1 di questa tavola, il marito con una borsa e la moglie con una scatola, entrambi stanti in una nicchia. Su uno dei lati (non riprodotto) sono figurati un uomo che viaggia in un carro a due ruote (cisium) e una donna che vende delle frutta ad un viaggiatore. L’altro lato è quello riprodotto nella nostra figura. Il pannello superiore raffigura una bottega in cui su un tavolo sono esposte delle frutta o legumi (rape?), e sono vendute da un uomo e da una donna ad un cliente. Sotto il tavolo vi sono due cesti, e al soffitto sono appesi mazzi di cipolle. Nel pannello inferiore due uomini lavorano un campo: uno zappa, l’altro vanga. La coppia ritratta nel cippo probabilmente era composta di due proprietari di terre, che vendevano i prodotti del loro podere (o del loro orto di legumi) nella propria bottega e sulla strada che passava accanto alla fattoria. 4. FRAMMENTO DI BASSORILIEVO D’UN MONUMENTO FUNERARIO. Trovato ad Arlon (Orolaunum vicus). Museo di Arlon, E. ESPÉRANDIEU, op cit., V, n. 4036. Un uomo e due animali (buoi?) in un campo di grano. L’operazione rappresentata è probabilmente la falciatura fatta per mezzo di una macchina tirata da una coppia di buoi. 5. PARTE DI UN MONUMENTO FUNERARIO (?). Trovato ad Arlon. Museo di Arlon. – E. ESPÉRANDIEU, op. cit., V, n. 4037. Un uomo nel suo ufficio seduto su una seggiola ad un tavolo, su cui versa monete da una borsa. Un altro uomo barbato sta davanti al tavolo, con la destra aperta e un bastone nella sinistra. Forse un contadino che fa un pagamento in una banca o prende denari in prestito?
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TAV. XXXVIII – VITA INDUSTRIALE IN GALLIA
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1 e 7. STELE SEPOLCRALI. Museo di Sens (Agedincum, Senones). G. JULLIOT, Musée Gallo-Romain de Sens, p. 85 e tav. IX; E. ESPÉRANDIEU, Rec. gén., IV, n. 2768. Monumento funerario d’un fullone. La parte inferiore (n. 7) lo mostra nell’atto di comprimere il panno in un bacino, la parte superiore (n. 1) rappresenta lo stesso fullone che taglia del panno con un paio di grandi forbici. 2. FRAMMENTO D’UNA STELE SEPOLCRALE. Museo di Sens. G. JULLIOT, loc. cit.; E. ESPÉRANDIEU, loc. cit., n. 2783. Un operaio che fa delle scarpe di legno (sabots) nella sua bottega. Nella destra ha un martello, nella sinistra un pezzo di legno. Sulla parete i suoi strumenti di lavoro. 3. FRAMMENTO D’UNA STELE SEPOLCRALE. Museo di Sens. G. JULLIOT, loc. cit.; E. ESPÉRANDIEU, loc. cit., n. 2780. Bottega d’articoli in metallo. Un cliente osserva due grandi padelle appese alla parete, mentre il bottegaio gliene offre una piccola. 4. FRAMMENTO DI STELE. Museo di Sens. G. JULLIOT, loc. cit., p. 93; E. ESPÉRANDIEU, loc. cit., n. 2778. Uomo addossato ad un banco d’ufficio, a piè del quale sono un cestino e una borsa. 5. FRAMMENTO DI STELE. Museo di Sens. G. JULLIOT, loc. cit., p. 87 e tav. IX; E. ESPÉRANDIEU, loc. cit., n. 2784. Uomo d’affari o mercante dietro il suo banco; tiene uno stilus nella destra e delle tavolette nella sinistra. A sinistra è appeso alla parete un mantello con cappuccio. 6. FRAMMENTO DI STELE. Museo di Sens. G. JULLIOT, loc. cit., p. 86 e tav. IX e LII; E. ESPÉRANDIEU, loc. cit., n. 2781. Monumento funebre di un sarto. Questi (di cui restano soltanto le mani) taglia una pezza di panno con un paio di grandi forbici. Alla parete sono appesi due cappucci. Dall’altro lato v’è un frammento d’iscrizione funeraria (C. I. L. XIII, 2953). Sono stati qui raggruppati in un’unica tavola questi frammenti perché provengono tutti da una stessa città di secondaria importanza; cf. anche E. ESPÉRANDIEU, loc. cit., n. 2767 (pittore di muri); n. 2770 (carrettiere, cisiarius); n. 2775 (venditore d’uccelli); n. 2778 (muratori?); n. 2782 (mercante?), e varie stelae sepolcrali con ritratti del defunto dove sono raffigurate le occupazioni di lui per mettere bene in rilievo ch’era uomo di affari; inoltre tav. XXV, n. 3, e tav. XXXVII, nn. 1 e 2, tutte della stessa località. La serie offre un’idea adeguata della vita economica d’una città gallica di media importanza.
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VI. L’Impero romano sotto i Flavii e gli Antonini. L’Italia e le province occidentali
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Siamo meglio informati sulla vita economica e sociale della GALLIA. I quadri magistrali datine recentemente da C. Jullian, da F. Cumont, da F. Stählin, ci permettono d’esser brevi su questo punto32. Anche qui dobbiamo esser molto cauti nel generalizzare. La Gallia Narbonese, come la Betica, era assai più romanizzata che non l’Aquitania e la Gallia Lugdunensis (inclusa la Belgica) [S2]. La provincia meridionale era non meno romanizzata dell’Italia settentrionale. Come nella Betica, anche qui nella vita della provincia predominavano le colonie romane, cui erano stati assegnati tratti estesi di territorio. Alcune di queste colonie (come Arelate e Narbo) erano diventate ricche città commerciali e industriali,
celle di terreno appartenenti al territorio, all’ager della città. È molto probablle che i vectigalia, di cui i Saborenses parlano a Vespasiano, fossero pagamenti degli incolae alla città (DESSAU, 6092). MC ELDERRY, op. cit., p. 77; REID, Municipalities, p. 239. 32. C. JULLIAN, Histoire, voll. I-II (Gallia preromana), IV-VI (Gallia romana); F. CUMONT, Belgique romanisée (19182); barone DE LOE, Notions d’archéologie préhistorique, belgo-romane et franque (s. a.) (breve ma pregevole quadro delle condizioni sociali ed economiche dell’odierno Belgio nell’età romana). Una buona esposizione archeologica riassuntiva su una parte della Gallia si ha in M. TOUSSAINT, La Lorraine à l’époque galloromaine (1928). [Sul progresso degli studi archeologici in Francia, R. LANTIER, Ausgrabungen u. Funde in Frankreich (1915-1930), «Bericht der röm.-germ. Kommission», 20 (1930), pp. 119 sgg. (Die Römerzeit)]. È eccellente il quadro della Svizzera nell’antichità dato da F. STAEHLIN, Die Schweiz in röm. Zeit, 19312; cf. E. HOWALD e E. MEYER, Die römische Schweiz. Texte und Inschriften mit Übersetzung, Zürich, 1940. [Gli scavi più importanti fatti nella Svizzera sono quelli dell’antico campo legionario romano di Vindonissa, sui cui risultati però non esistono pubblicazioni d’indole generale vd. R. LAUR-BELART, Vindonissa. Lager und Vicus, Berlin-Leipzig, 1935; HOWALD e MEYER, loc. cit., pp. 279 sgg. (con bibliografia). Una breve ma utile notizia può trovarsene in due opuscoli di R. LAUR-BELART, «Anz. f. Schweizer. Altertumsk.», 1929, pp. 181 sgg., e Die Erforschung Vindonissas unter S. Neuberger 1897-1927, 1931 (con eccellente bibliografia) e Aargauische Heimatgeschichte, II, Römerzeit, 1930 (di R. LAUR-BELART) Quest’ultimo libro, oltre una particolareggiata relazione degli scavi di Vindonissa, contiene anche due schizzi sulle antichità di Baden (Aquae Helveticae) e di Augst (Augusta Raurica). È ben noto che questa parte della Svizzera apparteneva amministrativamente alla Gallia Belgica. Richiamo l’attenzione su un ritrovamento di Vindonissa, che, se fosse meglio conservato, potrebbe eccellentemente illustrare la vita quotidiana dei soldati legionari romani nella prima parte del sec. I d.C.: intendo dire un gruppo di lettere in latino, tutte di soldati romani, scritte su tavolette di legno, che furono rinvenute nel celebre «Schutthügel» di Vindonissa. Esse sono state pubblicate da O. BOHN, Hölzerne Schrifttäfelchen aus Vindonissa, «Anz. f. Schweizer. Altertumsk.», 27 (1925), pp. 8 sgg. e 133 sgg.]. Cf. HOWALD e MEYER, loc. cit, pp. 298-302, nn. 314-328. Sull’insediamento di veterani nei pressi di Vindonissa E. SAMESREUTHER, Der römische Gutshof bei Laufenburg (Baden) und seine Probleme, «Gnomon», 16 (1940), pp. 40 sg.: villa rustica connessa a Vindonissa, forse il centro di un lotto di terra assegnato a un veterano del luogo; la prima costruzione risale al I sec. d.C. Sugli scavi di una città commerciale sul lago di Ginevra (Lausanne) (Lemannus o Lausonius lacus) con considerazioni in merito al suo commercio: F.GILLIARD, Un Quartier de Lousonna. Plan général des fouilles de la Maladière à Vidy, «Revue Historique Vaudoise», 47 (1939), pp. 113-126; P. COLLART e D. VAN BERCHEM, Inscriptions de Vidy, ibid., 47 (1939), pp. 127-145. Cf. R. DUSSAUD, Les Fouilles de Lousonna, «C. R. Acad. Inscr.», 1940, pp. 30 sgg.
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altre (come Arausio, Vienna ecc.) erano centri di vasti e ben coltivati distretti agricoli. Nei territori delle due tribù più importanti della provincia, cioè dei Vocontii e degli Allobrogi, la romanizzazione seguì un indirizzo speciale che si riscontra anche tra gli Helvetii della Gallia comata. Questi territori rimasero a lungo regioni rurali con poche città, e il massimo sviluppo della loro vita s’ebbe nei pagi e vici, i quali ultimi per effetto della crescente prosperità naturalmente assunsero, fino a un certo punto, la forma di regolari città. Ma la loro amministrazione rimase sempre di tipo non urbano, benché fosse separata da quella del resto del paese33. Come nella Betica, e forse più ancora, la proprietà agraria era può essere stata ristretta nelle mani di pochi signori. Non sappiamo quale estensione vi raggiungessero le tenute imperiali, ma non è impossibile che la bella villa di Chiragan presso Tolosa, recentemente scoperta, appartenesse appunto ad una tenuta imperiale, e che la gran quantità di cocci provenienti da questa provincia e rinvenuti a Monte Testaccio indichi l’esistenza di molte tenute pubbliche34. Inoltre, la Narbonensis ha fornito iscrizioni che parlano di agenti del patrimonium imperiale: il che non deve sorprenderci, se pensiamo che senza dubbio avevano qui posseduto vaste proprietà non pochi senatori dell’età repubblicana. I proprietari più ricchi certamente risiedevano nelle più grandi e fiorenti città, ed erano d’origine in parte italica in parte locale. Nel capitolo precedente abbiamo parlato della cospicua attività commerciale che questi membri della borghesia cittadina spiegavano; e possiamo tener per certo che questi mercanti avidi di lucro avranno investito il loro denaro in terreni. I begli edifici pubblici delle città della Francia meridionale e i sontuosi templi funerari dell’aristocrazia urbana sono testimonianza di grande ricchezza e d’intenso spirito di civismo. Non può neppure congetturarsi fino a qual punto accanto ai grandi dominii del tipo di Chiragan si sviluppassero anche le medie e le piccole tenute: può anche revocarsi seriamente in dubbio se la menzione dei possessores di Aquae Sextiae debba ritenersi prova dell’esistenza di un gruppo di piccoli proprietari nel territorio delle città. È più probabile che questi possessores fossero proprietari di case, non di terreni35.
33. A. MEITZEN, Siedelung und Agrarwesen der Westgermanen und Ostgermanen, vol. I, 1895, pp. 221 sgg.; O. HIRSCHFELD, Gallische Studien, vol. I, pp. 289 sgg. (Kl. Schr., pp. 62 sgg.); C. I. L. XII, pp. 160 sgg.; E. KORNEMANN, Zur Städtentstehung in den ehemals keltischen und germanischen Gebieten des Römerreiches, 1898, pp. 5 sgg.; C. JULLIAN, op. cit., IV, pp. 352 sgg. Cf. C.H. BENEDICT, A History of Narbo, Princeton, 1941, pp. 83 e 88. Egli pensa che non ci siano attestazioni di grandi proprietà imperiali (saltus) nella Gallia Narbonese prima del II-III sec. d.C.
34. Per la villa di Chiragan si veda il cap. V, nota 39; sui cocci di Monte Testaccio, gli articoli di HÉRON DE VILLEFOSSE, citati ibid., nota 22. 35. Possessores Aquenses: C. I. L. XII, 2459, 2560, 5874; C. JULLIAN, op. cit., IV, p. 353; cf. tuttavia C. I. L. XIII, 8254: possessor(es) ex vico Lucr(e)tio scamno primo (Colonia): certamente questi ultimi erano proprietari di case a Colonia; vd. W. BARTHEL, «Bonn. Jahrb.», 120 (1911), p. 48 (cf. A. SCHULTEN, ibid., 103 (1898), pp. 17 sgg.). Lo stesso va detto per il frammento della pianta di Arausio, A. SCHULTEN, «Hermes», 41 (1906), pp. 25 sgg.; cf. ibid., 33 (1898), pp. 534 sgg.; [FORMIGÉ, «Bull.
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Più preciso è il quadro che possiamo tracciare della vita delle altre province galliche. Senza dubbio qui le città si svilupparono lentamente, e contenevano una popolazione prevalentemente commerciale, industriale e burocratica. Possiamo farci un’idea abbastanza chiara di varie fra queste città, ch’erano posti avanzati delle stirpi ancora coerenti, e il cui nome specifico (per esempio Lutetia) a poco a poco fu soppiantato appunto da quello della relativa stirpe. Ricordo, per citare solo qualche esempio, da un lato Avaricum (Bourges), Augustodunum (Autun), Agedincum (Sens), e Rotomagus (Rouen), dall’altro Namnetes (Nantes), Mediolanum Santonum (Saintes) e i Parisii. Però le rovine di queste città non possono neppure lontanamente rivaleggiare con quelle della Gallia meridionale. La fonte principale della prosperità non erano però il commercio e l’industria delle città, ma la terra. È interessante leggere la descrizione delle non poche innovazioni che vennero introdotte nell’agricoltura dai Galli anteriormente e posteriormente al dominio romano. La terra in Gallia era coltivata in complesso sistematicamente. I rappresentanti di questo tipo d’economia agraria erano i grandi proprietari di terre, l’aristocrazia delle stirpi indigene, che possedevano la terra avanti e dopo la conquista romana, e gli immigrati che avevano acquistato la loro ricchezza mediante il commercio, l’industria, le operazioni bancarie. Senza dubbio, inoltre, anche alcuni artigiani e commercianti locali, fatta fortuna, investivano il loro denaro in terreni. Questi fatti sono provati non solo dalle descrizioni della Gallia lasciateci da Polibio, da Cesare, da Strabone ecc., ma anche dalle centinaia di rovine di ville grandi e piccole che coprono il suolo gallico. La distribuzione di tali ville in tutto il paese è un fatto notorio, sul quale non occorre insistere. Scavi accurati eseguiti recentemente in Francia, nel Belgio e sul Reno (specialmente sulla riva sinistra) hanno illustrato compiutamente i diversi tipi; di questi domini: da un lato le grandi ville di ricchi signori, le fattorie sparse dei contadini, e gli estesi vici di lavoratori ascritti (non da nessuna legge ma dalla forza delle condizioni economiche) alle ville, dall’altra le ville più modeste, simili a quelle di Pompei. È da notare che non pochi tra i nomi moderni di città e villaggi di queste regioni derivano da quelli dei proprietari delle ville*: il loro numero è grandissimo36. È anche non privo
de la Soc. d. Ant. de France», 1929, pp. 167 sgg.]. Un curioso tipo d’organizzazione è quello dei «vicini» (vicini, vicinia), vd. DESSAU, 9413; GÉRIN-RICARD, «Rev. Ét. An.», 1910, p. 74; cf. C. I. L. XIII, 3652. Varrebbe la pena di raccogliere i dati relativi ai vicini. [Cf. F. SPRATER, Die Pfalz unter den Römern, I (1929)]. *. Le tenute (fundi) erano designate col nome del proprietario trasformato in aggettivo mediante l’aggiunta dei suffissi -acus o -anus. 36. La descrizione d’una tipica città agricola della Gallia comata è data da J. MATTHIÈRE, La Civitas des Aulerci Eburovices (Evreux), 1925. Intorno alle ville e alle case della Gallia vd. A. GRÉNIER, Habitations gauloises et villas latines dans la cité de Mediomatrices (1906); IDEM in DAREMBERG e SAGLIO, Dict. d. ant., V, pp. 877 sgg.; cf. C. JULLIAN, op. cit., V, pp. 174 sgg., 351 sgg. e VI, pp. 202 sgg. [Un altro tipo rappresentano le città commerciali della costa occidentale e settentrionale. Ben conosciuta è Burdigala (Bordeaux), C. JULLIAN, Inscriptions romaines de Bordeaux, I-II (1887-1890); meno note sono le città della costa settentrionale. Possiamo farci un’idea di esse studiando gli scavi di Noviomagus in Olanda: J.H. HOLWERDA, Die Römer in Holland,
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di significato il fatto che non pochi templi di divinità indigene della Gallia centrale, occidentale e settentrionale, non erano annessi alle città, ma costituivano centri di culto per la gente che viveva in villaggi indigeni celtici. Alcuni di tali villaggi sono stati scavati, e si è potuto constatare che non differivano molto dai villaggi celtici del periodo preromano. Altro fatto interessante è l’esistenza di non pochi teatri sparsi per tutto il paese e per lo più connessi coi templi non urbani testé menzionati: in origine, senza dubbio, essi vennero adoperati per lo più per cerimonie religiose connesse coi culti indigeni37. Passiamo alla GERMANIA. È noto che le due province romane del Reno, Germania inferiore e superiore, sono di origine relativamente tarda (82-90 d.C.), e che il Reno costituì a lungo il confine militare delle province galliche. Non possiamo ritesser qui ancora una volta la storia dell’occupazione militare romana del Reno38: basterà dire che, fallito il tentativo di Augusto di fare della Germania una provincia portando la frontiera fino all’Elba, il Reno rimase per circa sessanta anni il confine dell’Impero. Considerazioni militari da un lato, la sovrapopolazione della Gallia dall’altro, insieme con la necessità di trovar buon terreno arabile per i veterani, indussero Vespasiano e i suoi figli a ricominciar da capo la conquista della Germania, con lo stesso obbiettivo di collegare l’esercito del Reno con quello del Danubio per mezzo di strade più brevi e migliori. A tal uopo era necessario annettere l’angolo tra il Reno e il Danubio, le fertili terre della riva destra del Reno medio e superiore, di una parte del
«Bericht der röm.-germ. Kommission», 15 (1926), pp. 1 sgg.]. Per il Belgio, vd. F. CUMONT, Belgique romanisée, pp. 40 sgg. (con bibliografia), barone DE LOE, op. cit., pp. 189 sgg. Nell’odierno Belgio non sono state scoperte punte rovine d’antiche città; accanto alle villae lì non v’erano che vici. Il più grande e meglio conosciuto fra questi ultimi è l’Orolaunum vicus (odierna Arlon), vd. J.P. WALTZING, «Orolaunum vicus», Arlon à l’époque romaine I. Les inscriptions (1905); J.B. SIBENALER, Guide illustrée du Musée lapidaire romain d’Arlon (1905). Com’è noto, il Museo d’Arlon è pieno di sculture riproducenti la vita quotidiana della popolazione. Un altro vicus dello stesso tipo era Turnacum (Tournai). Le stesse condizioni vigevano nel paese dei Frisii: i modi caratteristici di stanziamento v’erano le villae, non le città, vd. TAC., Ann., IV, 73, cf. il contratto di compra degli inizi del sec. II d.C., che è stato rinvenuto a Franeker presso Harling (Olanda). Il luogo d’abitazione del venditore che è un contadino frisio (il compratore e i testimoni sono soldati romani) è la villa Lopetei, vd. VOLLGRAFF, «Mnemos.», 45 (1917), pp. 343 sgg.; A.G. ROOS, «Mnemos.», 46 (1918), pp. 201 sgg.; E. WEISS, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 23 (1926), pp. 331 sgg. 37. C. JULLIAN, Histoire, VI, pp. 154 sgg.; K. SCHUMACHER, Siedelung- und Kulturgeschichte der Rheinlande, vol. II, pp. 185. 38. Un breve ma eccellente schizzo può trovarsi in H. DRAGENDORFF, Westdeutschland zur Römerzeit (19192), pp. 7 sgg.; maggiori particolari in materia offre F. KOEPP, Die Römer in Deutschland (19263), pp. 1 sgg.; cf. la bibliografia citata da K. SCHUMACHER, Siedelung- und Kulturgeschichte der Rheinlande, II, pp. 332 sg. e F. HERTLEIN, Die Geschichte der Besetzung des röm. Württemberg (1928). Sulle forme di insediamento nella regione di Treviri: J. STEINHAUSEN, Archäologische Siedlungskunde des Trierer Landes, 1936. L’autore non crede a immigranti come promotori di vita commerciale. Mi chiedo come la popolazione di Treviri potesse impedire a ex-veterani di insediarsi nella regione.
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Meno, e del Neckar, e circondare i monti del Taunus e dello Schwarzwald (Foresta Nera) con una catena ininterrotta di posti militari. Per gli sforzi di Vespasiano, di Tito, di Domiziano, di Traiano, questo scopo fu a poco a poco conseguito, e fu costruita una serie di posti fortificati lungo un vallo ininterrotto di terra, e, più a mezzogiorno, di pietre, per proteggere il nuovo territorio e l’eccellente sistema di strade che collegavano il Reno col Danubio. Sebbene su questa impresa degli imperatori non s’abbiano che scarsissimi dati letterari, l’indagine archeologica condotta a fondo ci ha rivelato tutti i particolari dell’occupazione militare. Anzi essa ci permette anche di tracciare a grandi linee lo sviluppo economico dei paesi renani e i caratteri salienti della tarda civiltà romana, che si sviluppò su entrambe le rive del Reno nel suo corso medio e superiore. Noi oggi conosciamo sino nei più minuti particolari la Germania romana: è questo uno dei trionfi più notevoli dell’archeologia. Senza gli accurati scavi degli studiosi tedeschi sapremmo ben poco intorno alla storia dei paesi renani nel primo periodo dell’Impero e alla storia primitiva della Germania in generale39. Dopoché furono incorporati nell’Impero i distretti della riva orientale del medio e alto Reno, i paesi renani nel loro complesso non furono più considerati dal governo romano come frontiera militare della Gallia, sibbene come due province indipendenti, quella del basso Reno e quella dell’alto Reno. La provincia inferiore si limitava ai paesi posti sulla sinistra del basso corso del fiume; la superiore comprendeva vasti territori su ambe le rive, estendentisi sino al Meno e alla Mosella. L’aspetto economico e sociale della vita di queste due province richiede una breve descrizione. Sotto quest’aspetto la divisione dei paesi renani in Germania alta e bassa appare affatto artificiale. In realtà, un’unità era costituita dai paesi della riva sinistra, un’altra da quelli della destra. I primi, specialmente a mezzogiorno, non differivano molto da quelli del resto della Gallia, cui originariamente appartenevano. È vero che le grandi città della riva sinistra, eccettuata Augusta Treverorum, erano tutte di origine militare. Colonia Agrippinensis, Castra
39. Una pregevole esposizione dello stanziamento dei Romani nei paesi del Reno, accompagnata da istruttive piante delle varie città e distretti del paese e da una bibliografia completa di tutte le pubblicazioni locali, è quella data nell’opera dello SCHUMACHER più volte citata nelle note precedenti, cf. E. SADÉE, Gutsherrn und Bauern im römischen Rheinland, «Bonn. Jahrb.», 128 (1923), pp. 109 sgg. Circa i Decumates agri vd. E. HESSELMEYER, «Klio», 19 (1924), pp. 253 sgg.; F. HERTLEIN, Klassikerstellen zur Archaeologie, «Germania», 1925, pp. 18 sgg. [E. HESSELMEYER, Was ist und was heisst Dekumatland, «Klio», 29 (1930), pp. 1 sgg.]; cf. IDEM, ibid., 20 (1926), pp. 344 sgg. e F. HERTLEIN, ibid., 21 (1927), pp. 20 sgg. Debbo confessare che non è stata ancor trovata una soddisfacente etimologia celtica della parola decumates. F. OELMANN, Gallorömische Strassensiedelungen und Kleinhausbauten, «Bonn. Jahrb.», 128 (1923), pp. 77 sgg., ha proposto una teoria interessante circa lo svolgersi, in Gallia, Germania, Britannia, di centri abitati da botteghe poste lungo le strade (buoni paralleli si trovano non soltanto nelle città carovaniere di Siria, ma anche nello sviluppo di molte borgate della Russia odierna).
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Vetera (Colonia Ulpia Trajana), Novaesium, Mogontiacum, Bonna ecc. si erano tutte sviluppate da abitazioni sorte intorno a fortezze, dalle cosidette canabae che a poco a poco avevano assunto forma di villaggio (vicus). Ma queste città, mezzo militari e completamente romane, vivevano vita propria, distinta da quella della campagna circostante. Alcune di esse, per esempio Colonia, ebbero un magnifico sviluppo, perché avevano parte importante tanto nel commercio interno della provincia quanto nel commercio interprovinciale – per esempio con la Britannia – e in quello lungo la costa settentrionale con la Germania. A poco a poco, sebbene a rilento, queste città ricevettero la consueta costituzione delle comunità romane, mentre la campagna, come dappertutto in Gallia, venne suddivisa in vasti territori di tribù (civitates), che di fatto coincidevano col territorio d’una singola tribù germanica o celtica, per lo più di Germani e Celti mescolati, come erano gli Ubii con la loro capitale Colonia o i Treveri con la loro capitale Treviri. Allorché fu occupata dai Romani, la riva sinistra del Reno non era più terra di nessuno. Essa faceva parte del paese celtico e possedeva le sue proprie borgate, i suoi villaggi, templi, e così via, e la sua propria vita economica e sociale già descritta. Ma la redistribuzione avvenuta nella popolazione dopo i tempi di Cesare, lo stanziamento di molte tribù germaniche, e il contatto diretto con la frontiera militare, erano tutti fattori nuovi e importanti nello sviluppo economico e sociale dell’intiera regione. Sotto l’aspetto economico il paese, e specialmente i distretti della Mosella e della Mosa, era un paradiso per i capitalisti. Ricco e fertile, esso era destinato a diventare il granaio degli eserciti del Reno, e la loro principale fonte di rifornimento per il vino, gli abiti, le scarpe, il legname, i metalli, le stoviglie e così via. Sin da principio esso attrasse gran numero d’immigranti, la cui attività era volta specialmente a fornire all’esercito le cose che più gli abbisognavano. Costoro non erano vivandieri, ma mercanti all’ingrosso e agenti di trasporti. I loro principali centri, oltre Lione cui facevano capo le importazioni dalla Gallia centrale e meridionale e dall’Italia, erano Treviri sulla Mosella, Colonia e Nimega (Noviomagus) sul medio e basso Reno. Il più importante era Treviri, la più antica città romana sulla Mosella. Essa non era soltanto un gran centro commerciale, ma divenne anche, come non poteva mancare, il centro economico di tutta la campagna circostante40. I mercanti della città, dopo aver fatto denari vendendo merci all’esercito del Reno, naturalmente li investivano in intraprese proficue nelle vicinanze, e il loro esempio era seguito dai commercianti di Colonia e delle altre città commerciali del Reno. Era abbastanza naturale che
40. K. SCHUMACHER, op. cit., pp. 106 sgg., e la bibliografia a p. 339, nota 38. Un pregevole quadro del commercio esercitato sul reno ci è dato da H. AUBIN, Der Rheinhandel in römischer Zeit, «Bonn. Jahrb.», 130 (1925), pp. 1 sgg. Esso si fonda su un’esauriente indagine del materiale archeologico, e mostra come le maggiori città della Germania a poco a poco non si limitassero a far commercio degli articoli provenienti prima dall’Italia e poi dalla Gallia, ma promovessero anche lo sviluppo della produzione agricola e industriale del paese, Particolarmente istruttiva è la storia della ceramica, della metallurgica, della vetreria.
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1. Trasporto di vino in un battello fluviale
2. Caricamento di botti
3. Scaricamento d’una nave
4. Passaggio d’una collina
5. Alzaia
TAV. XXXIX – COMMERCIO IN GALLIA E IN GERMANIA
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DESCRIZIONE DELLA
TAVOLA
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1. SCULTURA D’UN MONUMENTO FUNERARIO DI NEUMAGEN (restaurata). Trovata a Neumagen. Museo di Treviri. HETTNER, Führer ecc., p. 14; E. FOELZER, Ein Neumagener Schiff neu ergänzt, «Bonn. Jahrb.», 120 (1911), p. 236; E. ESPÉRANDIEU, Rec. gén., VI, n. 5193; Germania Romana (atlante), tav. XLII, 2; S. REINACH, Rép. d. rel., II, p. 90, 5 e III, p. 528, 7. Barca a remi carica di quattro grandi botti da vino, montata da sei rematori e due nocchieri, uno dei quali segna il tempo battendo le mani. La nave secondo il restauro ha la prora adornata d’una testa di montone, la poppa d’una testa di lupo. 2-3. FRAMMENTI DI BASSORILIEVI DEL MONUMENTO FUNERARIO D’UN RICCO MERCANTE DI MOGUNTIACUM. Trovati a Magonza. Museo centrale di Magonza. «Mainzer Zeitschrift», I (1906), p. 31; E. ESPÉRANDIEU, op cit., VII, n. 5833. S. REINACH, op. cit., II, p. 71, 3-4; Germania Romana (atlante), tav. XLII, 8 e 5. Allo stesso monumento appartiene il bassorilievo della tav. XXV, 2. Tre lavoratori rotolano una botte su per una tavola, che sembra immettere in una nave. Quattro uomini nell’atto di scaricare una nave; uno è caduto col sacco; due sono già a terra; l’altro scende giù per la tavola. Le navi erano cariche di vino e di grano, e il proprietario del monumento era un grosso trafficante di tali prodotti? 4. UNO DEI BASSORILIEVI DELLA COLONNA DI IGEL. Igel presso Treviri. – E. ESPÉRANDIEU, op. cit., VI, n. 5268, p. 454; F. DREXEL, «Röm. Mitt.», 35 (1920), p. 92; H. DRAGENDORFF e E. KRUEGER, Das Grabmal von Igel, tav. IX. Trasporto di grosse balle a dorso di cavallo attraverso un paese collinoso. Due cavalli superano una collina. A ciascuna estremità della strada un grande edificio. 5. COME AL N. 4. – E. ESPÉRANDIEU, op. cit., VI, p. 455; F. DREXEL, op. cit., p. 91, fig. 3; Germania Romana (atlante), tav. XLII, fig. 7; H. DRAGENDORFF e E. KRUEGER, op. cit., tav. XVI. Due o più uomini (il bassorilievo è spezzato) nell’atto di rimorchiare un grande e pesante battello carico di due balle. A poppa un nocchiero. Confrontare il bassorilievo di Cabrières d’Aigues (Vaucluse), che rappresenta la stessa scena con alcuni particolari nuovi e interessanti. F. DREXEL, op. cit., p. 109, fig. 10 (non compreso in ESPÉRANDIEU). Questi cinque monumenti, scelti fra tanti altri, che si possono agevolmente vedere nel Recueil dell’ESPÉRANDIEU, servono bene ad illustrare la vivace attività commerciale che si svolgeva sul Reno e sui suoi affluenti.
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si pensasse a produrre sul luogo grano, bestiame, vino, invece d’importarne, e di lavorare la lana, il cuoio e altre materie nelle vicinanze, in luogo di trasportarle per nave da luoghi lontani. Il modo più agevole per riuscirvi era quello di promuovere l’agricoltura, l’allevamento del bestiame, la viticoltura su larga scala e con metodi capitalistici. A poco a poco la riva sinistra del Reno, e insieme con essa le vallate della Mosella e della Mosa, divennero grandi centri d’intraprese capitalistiche, per lo più agricole. Questa regione divenne, secondo la frase del Cumont, paese «non de villes mais de villas». Le sue condizioni economiche si rispecchiano negli splendidi monumenti funerari che i ricchi mercanti e proprietari di terre del Belgio, del Lussemburgo, e soprattutto dei dintorni di Treviri, si costruirono in tutto il paese. I bassorilievi che adornavano questi monumenti a pilastro sono stati già menzionati a proposito dello sviluppo del commercio all’ingrosso in Gallia e sul Reno. Essi sono non meno importanti come illustrazione del rapido sviluppo agricolo della regione. Altra testimonianza della prosperità di quest’ultima nel suo complesso è fornita dalle belle rovine di grandi ville che vi si scorgono dappertutto. La maggior parte di esse erano residenze di lusso dei mercanti cittadini o grosse aziende agricole e industriali, che riunivano una lussuosa dimora estiva con una serie d’edifici di carattere assolutamente industriale41.
41. Intorno ai monumenti a pilastro vd. cap. V, nota 26. Per le ville, vd. la relativa sezione in F. CUMONT, Belgique romanisée, pp. 40 sgg., e K. SCHUMACHER, op. cit., pp. 201 sgg. (entrambi con bibliografie complete). Cf. P. STEINER, Römische Landhäuser (villae) im Trierer Bezirk, 1923 (Bollendorf, Nennig, Fliessem); cf. H. MYLIUS, Die Rekonstruktionen der röm. Villen von Nennig und Fliessem, «Bonn. Jahrb.»; 129 (1924), pp. 109 sgg. e F. OELMANN, «Jahrb. d. d. arch. Inst.», 43 (1928), Arch. Anz., pp. 228 sgg. (Mayen, Stahl, Blankenheim, Fliessem, Nennig), nonché la bibliografia compilata da K. BLUEMLEIN nei «Jahresb. über das K.K. Franz Joseph Realgymnasium» del BURSIAN, 49 (197), 1923, pp. 21 sgg. Nennig coi suoi bei mosaici rappresenta il tipo dell’abitazione rurale di lusso, simile alle ville italiche. Il miglior esempio di villa in cui una lussuosa casa residenziale s’unisse con una grande azienda agricola è dato dalla villa di Otrang presso Fliessem, nel distretto di Bitburg (Eifel), vd. VON BEHR, «Trierer Jahresberichte», 1 (1908), pp. 74 sgg.; E. KRUEGER, ibid., 4, pp. 1 sgg.; cf. Germania Romana, tav. 17, fig. 6 (piante e sezioni di differenti tipi di ville, ibid., tavv. 16 e 17). Non altrettanto grandi né lussuose, e quindi più simili alle ville di Pompei e di Stabia, erano quelle di Stahl (F. OELMANN, Die villa rustica von Stahl und Verwandtes, nella Germania Romana, 5, 2) e di Bollendorf (P. STEINER, Die villa von Bollendorf, Treviri, 1922, cf. G. WOLFF, «Philol. Woch.», 1923, pp. 924 sgg.). Queste ville non erano abitazioni di contadini, neppure di «contadini ricchi», com’esse sono comunemente dette: erano centri di tenute relativamente grandi, di aziende agricole capitalistiche, che producevano grano ed altro per la vendita, non per il consumo. Dello stesso tipo sono le ville di Pforzheim e di Dautenheim (K. SCHUMACHER, op. cit., pp. 198 sgg. e figg. 49 e 50). Il terzo tipo di ville (p. es. Mayen) è più o meno simile a quello delle case dei contadini, ma neppure esse possono considerarsi come unità sufficenti a se stesse, come casi di «economia famigliare»; vd. F. OELMANN, Ein gallo-römische Bauernhof bei Mayen, «Bonn. Jahrb.», 133 (1928), pp. 51 sgg., e H. MYLIUS, ibid., pp. 141 sgg.; cf. nota 44. Un buon parallelo alle fastose tombe dei mercanti di Treviri è fornito dai frammenti recentemente scoperti di monumenti sepolcrali del sec. I d.C., che sono stati adoperati
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I monumenti funerari e le rovine delle ville ci fanno conoscere anche le condizioni sociali del paese. La mano d’opera per le grandi intraprese industriali era fornita dalla popolazione indigena, dagli Ubii, dai Treveri ecc., che vivevano in villaggi e casolari accanto alle grandi città. I bassorilievi della colonna di Igel, nelle vicinanze di Treviri, e le rovine di villaggi situati in prossimità d’alcune ville belghe mostrano che gli indigeni a poco a poco si ridussero a clienti, e in alcuni casi a coloni, dei ricchi mercanti cittadini. I bassorilievi di Neumagen, che rappresentano dei contadini che fanno pagamenti in denaro a un uomo di città, assistito da uno o più scrivani, non raffigurano necessariamente i coloni d’un ricco proprietario nell’atto di pagare il loro canone; ma la scena del monumento di Igel, in cui alcuni contadini recano al loro padrone doni in natura, ci ricorda così da vicino le già ricordate descrizioni di Stazio e di Marziale, che non possiamo esimerci dal pensare che i contadini dei bassorilievi fossero non soltanto clienti e debitori ma anche, almeno in alcuni casi, coloni dei proprietari dei monumenti42. In che modo i capitalisti delle città fossero diventati proprietari dei campi più ricchi e dei migliori pascoli della regione renana, è difficile dire. Essi certamente non appartenevano all’antica aristocrazia delle tribù, che è difficile esistesse tra gli Ubii e i Treveri, ch’erano coloni germanici o celto-germanici venuti solo di recente a stanziarsi sulla sinistra del Reno. Alcuni monumenti della serie menzionata precedentemente possono forse suggerire una spiegazione. Oltre alle intraprese agricole e commerciali, i ricchi dei paesi renani facevano prestiti di denaro su larga scala: erano i banchieri della nuova società che andava sorgendo sotto l’influsso delle nuove condizioni economiche. Io inclino a credere che le scene ove si suol vedere un pagamento di fitti rappresentino invece operazioni bancarie. Le ville erano non soltanto grandi aziende agricole e industriali, ma anche le banche locali. È facile capire come accorti uomini di affari prestando denaro ai villici e coltivatori dei dintorni siano potuti diventar patroni e subito dopo padroni dei loro debitori, e abbiano a poco a poco trasformato in affittuari quelli ch’erano stati già contadini indipendenti e proprietari. Il nuovo sistema tributario romano li aiutò a conseguire il loro scopo; e allo stesso risultato contribuirono le nuove condizioni di vita capitalistica che a poco a poco s’andavano affermando sulla riva sinistra del Reno43. [Anche per la storia sociale, e non soltanto per la storia religiosa, hanno importanza le interessantissime scoperte che sono state fatte recentemente a Treviri e a Bonn: voglio dire gli scavi del grande complesso di templi celto-ger-
per riempire un’antica cava di pietre presso Kraft (circolo di Mayen): H. MYLIUS, Die Krafter Grabdenkmäler und ihre Rekonstruktion, «Bonn. Jahrb.», 130 (1925), pp. 180 sgg.; dal magnifico sepolcro d’un ricco mercante e proprietario agrario di Colonia provvisto d’un bel sarcofago e inoltre di vari busti del defunto e d’una quantità d’oggetti minuti. ESPÉRANDIEU, Recueil, VIII (1922), pp. 375 sgg.; «Bonn. Jahrb.», 114-15, pp. 368 sgg.; K. SCHUMACHER, op. cit., p. 202. 42. F. DREXEL, «Röm. Mitt.», 35 (1920), p. 93, fig. 5; cf. sopra, p. 316 e nota 13. 43. F. DREXEL, loc. cit., pp. 133 sg.; K. SCHUMACHER, op. cit., p. 287; Germania Romana, tav. 43, 5 (rilievo rinvenuto a Worms).
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1. Porto e città fluviali sul Danubio
2. Proprietario di una tenuta e calzolaio in Dalmazia
TAV. XL – VITA ECONOMICA NELLA REGIONE DANUBIANA
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DESCRIZIONE DELLA
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XL
1. BASSORILIEVO DELLA COLONNA DI TRAIANO. Roma, Foro di Traiano. C. CICHORIUS, Die Reliefs der Traianssäule, tav. XXV e testo, II, pp. 155 sgg.; S. REINACH, Rép. d. rel., I, p. 339, 27 e 28. Partenza di Traiano per la seconda spedizione. I soldati caricano su un battello fluviale il bagaglio dell’esercito. Traiano medesimo, il suo stato maggiore e un distaccamento di pretoriani si accingono a montare su un’altra imbarcazione provvista di cabina. I rematori sono certamente borghesi e nativi della provincia. Sulla riva sorge una città fortificata, grande e ben costruita, verosimilmente una delle città dei paesi danubiani, forse Siscia sulla Sava; e al di fuori di essa v’è un anfiteatro di pietra. Accanto all’anfiteatro si vedono i navalia, il porto fluviale della città con un grande magazzino e due archi, uno dei quali (il più vicino al fiume) sormontato da una biga. Nei rilievi della colonna sono frequenti le raffigurazioni di porti marittimi e fluviali; ma nessuno di essi può venire con sicurezza identificato (cf. K. LEHMANNHARTLEBEN, Die antiken Hafenanlagen des Mittelmeeres (1923), pp. 228 sgg.). Il nostro bassorilievo mostra quanto fossero importanti i porti fluviali delle regioni danubiane. Certamente i navalia non erano costruiti a solo scopo militare. 2. ALTARE SEPOLCRALE RINVENUTO A SKELANI (Dalmazia). C. PATSCH, Arch.-ep. Unters. zur Gesch. d. röm. Prov. Dalmatien, VII, in «Wiss. Mitt. aus Bosnien», 11 (1890), p. 155, figg. 63-4. Altare con iscrizione frammentaria quasi illegibile. Sui due lati di esso è rappresentato lo stesso individuo, da un lato ritto, vestito con l’abito locale, con una canna nella destra e un manipolo di spighe nella sinistra, dall’altro lato come calzolaio, con una scarpa o una forma nella destra; accanto a lui, gli arnesi del mestiere. Il rilievo fornisce un’ottima illustrazione dell’acquisto di terreni fatto da un indigeno che aveva iniziato la sua carriera come calzolaio in una piccola città, oppure dell’aumento delle rendite d’un proprietario o d’un contadino mediante i guadagni d’una calzoleria in città.
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manici di Treviri, che sin dal 1924 va eseguendo con mirabile energia e competenza il prof. S. Loeschke, e i trovamenti fatti nel 1928 e 1929 dal prof. H. Lehner sotto la chiesa del monastero di Bonn. Particolarmente istruttivo è quello che può chiamarsi l’Olimpia o il Delfo celto-germanico di Treviri. Questo distretto era sede di culto probabilmente sin dai tempi preistorici. Nel I sec. d.C. esso fu coperto di edifici, con l’aiuto della tecnica e dell’arte romana, da abitanti di Treviri che non erano né Italici, né romanizzati, né Celti né Germani: la città degli dei così sorta venne circondata da un muro. Non è facile dire a quale classe appartenessero i fondatori di questi santuari. In un caso solo conosciamo le condizioni sociali d’uno dei fondatori, ch’era soldato della flotta renana e forse al tempo stesso mercante di birra o di materie tintorie per abiti (oppure apparteneva per nascita alla corporazione dei tintori di stoffe). Gli altri non dicono chi sono; ma i loro nomi e la mancanza di qualsiasi titolo mostrano ch’essi erano indigeni romanizzati, per lo più persone di non elevata condizione: bottegai, artigiani, operai. Nella città sacra si continuò a costruire incessantemente: e dopo due grandi incendi i templi vennero restaurati. Nel sec. III d.C. il recinto conteneva non meno di sessanta templi tra grandi e piccoli. Ad uno dei maggiori apparteneva anche un teatro sacro, che è attestato anche altrove per i santuari celtici: sui banchi di esso, allo stesso modo che nel tempio di Atargatis a Dura, sono incisi i nomi dei proprietari dei posti. In questi templi alcuni idoli e doni votivi sono romani, alcuni nomi di divinità latini, e latina è sempre la lingua nelle iscrizioni; tutto il resto è celtico e in parte germanico. In maniera caratteristica alle divinità celtiche e germaniche s’è associato il persiano Mitra: ma ciò accadde tardi, e il suo culto dapprima fu praticato soltanto in una casa privata. Verso il 337 d.C. questa città sacra fu totalmente distrutta dai Cristiani. Neppure uno dei suoi templi sembra sia stato trasformato in chiesa cristiana: quale differenza da quanto avveniva nella città romana! Si vede bene che i veri nemici del cristianesimo erano appunto gli Dei di questa città sacra43a. Non meno importanti sono i trovamenti di Bonn. Vi fu qui, anche nelle canabae, una sacra città celtica, che nel sec. IV fornì pietre per la più antica chiesa di Bonn? D’altronde sembra che questa città sacra o i singoli santuari celtici delle canabae ai tempi di Antonino Pio e di M. Aurelio abbiano goduto molta venerazione anche presso la popolazione romana del campo militare e della città, come è attestato dalle dediche alle Matres Aufaniae, a Mercurius Gehrinius (?) e ad altre divinità, dediche poste dai pezzi grossi del campo, delle canabae e della capitale, Colonia, a cominciare dallo stesso legato. Questa popolarità che nei secoli II e III d.C. godevano le divinità indigene presso indi-
43a. Vd. S. LOESCHKE, Die Erforschung des Tempelbezirkes im Altbachtale zu Trier (1928), cf. Von den Ausgrabungen im grossen Tempelbezirk in Trier, «Heimat», 5 (1930). Della pubblicazione finale di S. LOESCHKE, dal titolo Die Tempelbezirke im Altbachtale zu Trier, è apparso un solo fascicolo (Heft I, 1938). Alcune delle iscrizioni sono state pubblicate da H. NESSELHAUF, Neue Inschriften aus dem römischen Germanien und den angrenzenden Gebieten, Berlin, 1939 [«Bericht der röm.-germ. Kommission», 27 (1937)], pp. 52 sgg. (nn. 1 sgg.).
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vidui greci e romani, nonché l’attaccamento degli indigeni alle loro credenze religiose nazionali, sono fatti importantissimi non solo per la storia della religione, ma anche per la storia sociale dell’Impero romano43b]. Sulla riva destra del fiume prevalevano invece condizioni diverse. Il paese colà annesso dai Romani era ricco e fertile, ma assai scarsamente popolato. Per molti anni esso era stato campo di battaglia tra Germani e Romani: e le condizioni vi rimanevano così incerte da rendere impossibile una copiosa affluenza di coloni stabili. A questo paese i Romani recarono per la prima volta la pace. Si costruirono fortificazioni e strade, si aprirono fiumi al traffico. Le numerose fortezze occupavano i punti strategicamente più importanti sui fiumi e all’incrocio delle strade. Attorno ad esse crebbero dei villaggi; la popolazione indigena incominciò a coltivare il suolo più intensivamente; dalla Gallia accorsero coloni nel paese nuovo; un certo numero di veterani ricevette lotti di terra nei dintorni delle fortezze. Il terreno adiacente a queste ne costituiva il territorio, che le autorità militari davano in fitto a soldati, i quali certamente lo subaffittavano a borghesi indigeni e immigrati. Ma il territorio assegnato a fortezze non era mai molto esteso. Quando la fortezza veniva spostata più innanzi, la popolazione civile rimaneva, formando un vicus. L’intiero paese era proprietà dello Stato e veniva gestito in gran parte come demanio imperiale (saltus) dall’amministrazione imperiale. Questi demanii in parte erano lasciati nelle mani degli indigeni, in parte dati a veterani, in parte venduti a immigranti o a funzionari e soldati un po’ più ricchi. Quanto più le condizioni diventavano pacifiche, tanto più numerosa era la gente che si sentiva attirata da questi paesi nuovi. Si crearono nuove fattorie, sorsero nuovi villaggi, alcuni dei quali assunsero aspetto di regolari città. Il fatto fu riconosciuto dal governo, che sul modello della Gallia suddivise il paese in civitates, in ciascuna delle quali il villaggio più prospero divenne capoluogo e ricevette a suo tempo l’ordinamento civico. Ma in generale la regione conservò il suo aspetto rurale. Il suo carattere distintivo, come dimostrano gli scavi sistematici che vi sono stati eseguiti, erano non i villaggi ma le fattorie isolate. Alcune di esse, situate lungo il limes, furono concesse, specialmente nel terzo secolo, a soldati in servizio e divennero seminario di reclute; ma la maggior parte erano aziende capitalistiche relativamente grandi, non dello stesso tipo delle tenute della Mosella, ma somiglianti piuttosto alle ville di Pompei. La villa tipica possedeva, come le tipiche fattorie dell’America odierna, una casa grande e comoda, sebbene non lussuosa. I proprietari erano certamente persone agiate, ma non ricchi signori assenteisti di città. A seconda della natura del suolo queste fattorie producevano grano, oppure esercitavano su larga scala la pastorizia. Nei capiluoghi dei distretti, nelle stazioni di bagni e di cura, e nei maggiori villaggi, si svilupparono anche il commercio e l’industria44.
43b. V.H. LEHNER, Römische Steindenkmäler von der Bonner Münsterkirche, «Bonn. Jahrb.», 135 (e separat.: Bonn, 1930). Vd. NESSELHAUF, loc. cit., pp. 94 sgg., nn. 145 sgg. 44. K. SCHUMACHER, op. cit., pp. 149 sgg. [cf. F. HERTLEIN, O. PARET e P. GOESSLER, Die Römer in Württemberg, I-III, 1928-1932]. Opera preziosa ha dedicato G. WOLFF all’indagine del graduale stanziamento nella Wetterau di agricoltori, per lo più antichi
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Dato quest’indirizzo economico, inevitabilmente gli indigeni divennero per la maggior parte coloni e pastori dei possessori forestieri delle fattorie. Di quando in quando troviamo menzionati coloni appartenenti all’una o all’altra delle grandi tenute. Così tanto sulla riva destra del Reno quanto sulla sinistra la popolazione si trovò divisa in una classe superiore di coltivatori agiati e in una classe inferiore di contadini e di coloni45. La BRITANNIA era di fatto un’appendice della Gallia. Infatti l’annessione dei bassopiani, che vennero protetti da un lato con l’occupazione militare delle alte terre occidentali e dall’altro, dopo la rinunzia alla conquista della Scozia, con la costruzione del limes romano, paragonabile col germanico, in sostanza non era altro che il processo per cui le province di Gallia e di Germania venivano estese verso settentrione, con la più breve frontiera militare possibile. Nel suo sviluppo sociale ed economico la Britannia romana mostra la più grande somiglianza coi paesi renani, specialmente con quelli della riva destra del Reno.
soldati o immigrati, vd. G. WOLFF, Die südliche Wetterau (1913); Nachträge (1921); IDEM, «Archiv für hess. Gesch. u. Alt.», 13 (1920), pp. 1 sgg. Egli ha fissato i seguenti tratti caratteristici nella colonizzazione della Wetterau: 1) il rapido incremento, nel corso dei sec. I e II, delle tenute agricole di media grandezza e su per giù della stessa ampiezza e tipo; 2) la ripartizione del paese a coloni militari secondo un disegno prestabilito e 3) la presenza d’una popolazione indigena, in maggioranza germanica, che viveva in povere capanne e che ci ha lasciato alcuni monumenti sepolcrali. Cf. la carta della tav. 16 presso lo SCHUMACHER e le osservazioni fatte su questa carta da G. WOLFF, pp. 342 sgg. L’estensione dei fondi minori, assegnati dal governo ai soldati, può calcolarsi con misurazioni: sembra ascendere a circa un km. quadrato. Le tenute, cui appartenevano le ville del tipo di Stahl, Bollendorf, Pforzheim (K. SCHUMACHER, op. cit., pp. 198 sg. figg. 49 e 50) erano indubbiamente molto più grandi. Cf. F. HERTLEIN, «Klio», 21 (1927), pp. 20 sgg. Mi riesce difficile ammettere che gli attori della colonizzazione dei Decumates agri siano stati i Suebi germanici: Tacito dice esplicitamente che il paese venne popolato da immigrati di varia origine. Sulla storia dei Germani orientali, O. FIEBIGER, Inschriftensammlung zur Geschichte der Ostgermanen, Wien-Leipzig, 1939 («Denkschriften der Akademie der Wissenschaften in Wien», 70, 3).
45. Ci sentiamo fortemente attratti a considerare fittavoli di certe grandi tenute (cf. K. SCHUMACHER, op. cit., p. 209) i coloni Crutisiones dell’iscrizione rinvenuta presso Pachten sulla Saar (C. I. L. XIII, 4228) e i coloni Aperienses di un’altra iscrizione di Kollhausen in Lorena i[n] h[onorem] d(omus) d(ivinae) deae I[u]non(i) coloni Aperienses ex iussu (B. KEUNE, «Lothr. Jahrb.», 26 (1914), pp. 461 sgg.; IDEM, «Röm.-germ. Korrespondenzblatt», 8 (1915), pp. 71 sg. e «R. E», Suppl. III (1918) col. 132). Espressioni consimili si ritrovano in Sardegna (nota 22) e in Africa (vd. cap. VII). Cf. anche le tavolette di piombo contenenti i nomi delle persone addette ad una grande tenuta presso Pola (con la menzione di un colonus e di un adiutor coloni), «Atti e Memorie della Società Istriana d’Archeol. e Storia Patria», 1905, pp. 213 sgg.; A. GNIRS, Führer durch Pola (1915), p. 137. Alcune stele votive dedicate alle Matronae, rinvenute nei dintorni di Düren (vd. SCHUMACHER, op. cit., 207) attestano piccoli stanziamenti d’indigeni che lavoravano per i grandi proprietari di terre. Intorno alle forme progredite d’agricoltura che fino a un certo punto prevalevano nella Renania, e che sono attestate dal frequente ritrovamento di strumenti agricoli, vd. K. SCHUMACHER, Der Ackerbau in vorrömischer und römischer Zeit (1922).
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Il magnifico quadro della romanizzazione della Britannia, dato dal compianto F. Haverfield, mi permette di restringermi a pochi e succinti rilievi46. Naturalmente sulla frontiera militare la vita era quasi identica a quella del Reno: per quanto essa sia caratteristica e meritevole di studio accurato, non presenta tuttavia molto interesse per il nostro argomento. Nelle pianure la vita urbana si svolse in collegamento stretto con la conquista e l’occupazione militare dell’isola. Le quattro colonie della Britannia (Camalodunum, Glevum, Eburacum, Lindum) erano tutte di origine militare, simili quindi a Colonia Agrippinensis, Castra Vetera (o Colonia Ulpia Traiana), Novaesium, Bonna, Mogontiacum ecc. in Germania. La più ricca città commerciale era Londinium, che aveva nella vita britannica su per giù la stessa funzione che Treviri e Lione nella vita rispettivamente della Germania e della Gallia. La stazione curativa di Bath può essere paragonata con le non poche città balneari del Reno. Le altre città romane della Britannia, come la maggior parte di quelle della Gallia centrale e settentrionale e della Germania superiore, erano borgate di popolazione celtica che servivano da mercato per i possessori di fattorie, da capiluoghi dei cantoni e dei distretti rurali, da centri della loro vita amministrativa, religiosa, commerciale, industriale. Due di esse, Calleva Atrebatum e Venta Silurum, sono state esplorate a fondo e ci si presentano come grandi villaggi provveduti di alcuni edifici pubblici46a. Come la Gallia settentrionale e la Germania, così anche la Britannia era un paese non di città ma di fattorie e di grandi tenute agricole, un paese di ville e di signori, non di contadini indipendenti e di piccoli proprietari. Questi signori terrieri erano in parte immigrati romani o loro discendenti, in parte rappresentanti dell’aristocrazia celtica indigena. Che le parti pianeggianti avessero appunto questo carattere, lo dimostrano gli avanzi di ville sparsi un po’ dappertutto. Nessuna di esse, ed è naturale dato lo sviluppo più ristretto che la vita ebbe in generale in Britannia, è così vasta e lussuosa come le ville di Treviri;
46. F. HAVERFIELD, Romanization of Roman Britain, 4a ediz. riv. da G. MACDONALD (1923), e The Roman Occupation of Britain (1924); TAC., De vita Agricolae, ed. by H. FURNEAUX, 2a ediz. riveduta e in gran parte rifatta da J.G.C. ANDERSON (1922); R.G. COLLINGWOOD, Roman Britain (1931), 3a ediz. del 1934; cf. IDEM, The Roman Evacuation of Britain, «J. R. S.», 12 (1922), pp. 76 sgg.; IDEM, C. A. H., XI, 1936, pp. 511 sgg.; IDEM in T. FRANK, An Economic Survey of Ancient Rome, III, Baltimore, 1937, pp. 1118. D. ATKINSON, The Governors of Britain from Claudius to Diocletian, ibid., pp. 60
sgg.; [L.C. WEST, Roman Britain. The Objects of Trade (1931)]. Per i nuovi ritrovamenti vd. le relazioni annue di R.G. COLLINGWOOD e M.V. TAYLOR, Roman Britain, «J. R. S.» (con bibliografia), nonché Sir G. MACDONALD, Roman Britain 1914-1928, «The British Academy», Suppl. Paper, n. VI, 1930, cf. cap. V, nota 44. 46a. Nuovi ed importanti dati intorno allo sviluppo delle civitates britanniche offre un’iscrizione trovata a Wroxester, la civitas Cornoviorum (R.G. COLLINGWOOD e M.V. TAYLOR, «J. R. S.», 14 (1924), p. 244). Essa dimostra «che il governo locale della Britannia romana era esercitato da autorità di tribù classificate e ordinate esattamente come le magistrature d’una città» (HAVERFIELD, Romanization, p. 58), cf. l’iscrizione di Caerwent («Eph. ep.», IX, n. 1012) e le iscrizioni dei Dumnonii (C. I. L. VII, 775 e 776) e dei Catavellauni (C. I. L. VII, 863).
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1. Villa di Chedworth (ricostruzione di A. Forestier)
2. Contadino britannico
3. Pastore britannico
4. Fabbro britannico
TAV. XLI – VITA E LAVORO IN BRITANNIA
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DESCRIZIONE DELLA
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XLI
1. VILLA ROMANA DI CHEDWORTH, GLOS. Ricostruita da A. FORESTIER («Illustrated London News» 1924, 12 luglio, p. 75). Intorno agli scavi vd. G.E. FOX, «Archaeological Journal», 44 (1887), pp. 322 sgg. e tavola, e «Archaeologia», 59, 2 (1905), pp. 210 sgg., tav. LVII; BUCKMANN e R.W. HALL, Notes on the Roman Villa at Chedworth, Gloucestershire, Cirencester, 1919. La villa (vd. qui sotto la pianta) è composta (1) di un grande cortile fiancheggiato da due lati da granai, magazzini, abitazioni per i lavoratori, e provveduto d’un portone d’ingresso sul fronte, e (2) da un piccolo cortile o giardino circondato da tre gruppi d’edifici, uno dei quali, all’angolo meridionale, conteneva gli alloggi della servitù (?), un altro, con un portico sul fronte, era la dimora del proprietario. Quest’ultimo gruppo di costruzioni contiene al pianterreno un’ampia sala da pranzo e bagni, e camere al piano superiore. La stanza da pranzo era adorna di un elegante mosaico raffigurante le quattro stagioni (cf. la nostra tavola LVIII). Il terzo angolo della villa, a settentrione, era occupato da una grande fucina e un laboratorio di panni (fullonica), troppo grandi per dover servire soltanto ai bisogni della villa, vd. cap. V, nota 39. Intorno alla scoperta d’un tempio presso la villa, il quale esisteva già prima che questa fosse edificata, vd. R.G. COLLINGWOOD E M.V. TAYLOR, «J. R. S.». 14 (1924), p. 231. @? ?@ ?@@? @@@@@@@@@@ @? ?@@@he?@e@? O@K??O.?W26K ?@e?O26K? @? W. ?O2@@6K? W&K? O2@@@@@@@@YO&@@@6K ?@W2@@@@@6K? ?O)Xh?O@Kg?O@K O26K O26Khe?O2@@@@@@@@@@6K?eO26Kf?O2@@@@@@?hO2@@@@@@6?@KO2@@6?@?&YeO2@@6KeO26?2@@@@@@@@6KO2@@@@@6?26?2@@@@6?2@@@@@@@@6K?fO@?2@@@@@6K?O2@@6KgO2@@@@@@@6KO2@@@6?2@6K?O26?@K?O@K?f?O2@6KfO@KO26K? 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2. STATUETTA BRONZEA DI UN ARATORE. Trovata a Piercebridge, nella contea di Durham. British Museum. British Museum Guide to the Antiquities of Roman Britain, 1922, p. 90; E. WOOLER, The Roman Fort at Piercebridge, London, 1917, di fronte alla p. 148. L’aratro è tirato da una coppia di buoi. L’aratore è vestito alla foggia celtica, con mantello e cappuccio. Modelli di aratri e di altri strumenti agricoli sono stati rinvenuti in un tumulo di Sussex; vd. Guide to the Antiquities ecc., p. 42, fig. 39. 3. MANICO DI UNA PATERA D’ARGENTO. Trovato nel 1747 a Capheaton, Northumberland. British Museum. Bibliografia nel mio articolo pubblicato nel «J. R. S.», 13 (1923), p. 99, nota 5. L’estremità del manico è adorna della figura di un’imperatrice; a sinistra un viaggiatore carico del suo bagaglio e appoggiato ad un bastone, a destra un pastore con le sue pecore; nella parte inferiore (non riprodotta nella nostra figura) vi è un tempio con le figure di Mercurio, Bacco, Arianna, e agli angoli le personificazioni di un porto di mare e di un fiume. Nell’articolo su citato io ho cercato di dimostrare che probabilmente questa patera fu lavorata in Britannia. Il manico della nostra tavola dà in generale un quadro della prosperità della Britannia sotto l’illuminato governo di Roma, che garantiva la sicurezza delle strade, dell’allevamento del bestiame, delle comunicazioni marittime e fluviali. 4. STELE FUNERARIA A FORMA DI EDICOLA. Trovata ad York (Eburacum). Museo di York. GORDON HOME, Roman York, 1924, di fronte alla p. 24. Un fabbro che martella su un’incudine un pezzo di metallo che tiene con un paio di tenaglie.
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tuttavia nelle ville del tipo a cortile ci si presentano le case di grandi signori terrieri, cui erano annesse vaste tenute gestite con sistemi capitalistici; i tipi a corridoio e a granaio possono confrontarsi, tanto sotto l’aspetto architettonico, quanto sotto l’aspetto economico e sociale, con le fattorie della Germania superiore sulla riva destra del Reno47. È naturale supporre che lo sviluppo sociale ed economico della Britannia sia stato affatto simile a quello della Gallia e ancor più a quello delle due Germanie. La vita vi fu destata dall’occupazione militare e vi durò finché questa fu reale e potè garantire effettiva sicurezza. I bassopiani iniziarono la loro prosperità economica sotto l’egida della pace romana, come retroterra degli eserciti. Il principale consumatore dei loro prodotti era l’esercito: più tardi anche il paese fornì esso medesimo un mercato, che però non ebbe mai parte decisiva nella vita economica dell’isola. La coltivazione intensiva del suolo divenne redditizia perché a settentrione e a occidente era assicurato ai produttori un permanente mercato. La popolazione della Britannia si accorse ben presto della occasione favorevole e non la lasciò sfuggire. I grandi proprietari celtici che conservarono le loro tenute svolsero l’agricoltura e l’allevamento del bestiame con gli stessi metodi ch’erano familiari ai loro connazionali di Gallia. Tuttavia anche qui, come nella valle della Mosella, i possessori delle grandi tenute erano per lo più ricchi mercanti, uomini d’affari di Londinium, che nei primi anni dell’occupazione avevano approvvigionato l’esercito con roba importata dal continente. Ad essi appartenevano appunto le grandi ville a cortile. Oltre a costoro, v’erano veterani che ricevevano o comperavano lotti di terra, accorti ed attivi Celti che facevano proprio il nuovo sistema d’agricoltura intensiva, e nuovi immigranti venuti dal continente. Costoro erano i proprietari delle fattorie a granaio e a corridoio48. Nessuno di questi proprietari di terre lavorava il terreno con le proprie mani, o mandava i suoi figli e le sue figlie a menare al pascolo nei prati e nelle foreste le sue pecore, i suoi maiali, le sue vacche. La mano d’opera era fornita in parte da schiavi, ma per lo più da indigeni, che abitavano villaggi del tipo di quelli scavati dal generale Pitt-Rivers presso Salisbury e da D. Atkinson a Lowbury-Hill (Berkshire). Nelle parti più povere dei bassopiani i villici possono aver posseduto propri terreni e pascoli, ma nelle regioni più fertili certamente divennero pastori e affittuari dei proprietari grandi e piccoli. Essi appresero a servirsi di stoviglie e di spilli di sicurezza romani. Quelli che vivevano in città
47. F. HAVERFIELD, op. cit., pp. 38 sgg. e 65 sgg., ha studiato in due diversi capitoli e sotto due diversi aspetti i dati che le ville ci offrono. Oso affermare che le conclusioni ch’egli ne ha tratte sono troppo pessimistiche. Se, facendosi uso delle possibilità di confronto offerteci dai paralleli gallici e germanici, si sottopongono quei dati a disamina, si troveranno giustificate le conclusioni da me proposte nel testo. È da lamentare che in Inghilterra le indagini, ad onta degli sforzi di molti dotti e in prima linea dello stesso Haverfield, non abbiano avuto nel passato lo stesso grado di esattezza e di profondità, né siano state condotte alla stessa guisa metodica che in Germania. 48. Lo schizzo da me dato nel testo naturalmente è ipotetico, ma si fonda sulla consimile evoluzione della Gallia e della Germania.
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impararono il latino, e sono probabilmente quelli che ci hanno lasciato nelle iscrizioni le loro reminescenze di letture virgiliane; ma in complesso anch’essi, come i fellahîn di Egitto, rimasero estranei alla vera essenza della civiltà grecoromana, alla vita di città e a tutto ciò che vi si collegava. Non possiamo giudicare in che proporzione numerica essi si trovassero coi soldati, cogli abitanti della città, coi signori rurali49. Non possiamo indugiarci a lungo sulle PROVINCE ALPINE, tra le quali le più estese ed importanti erano la Raetia e il Noricum. Sotto l’aspetto economico e sociale, alcune parti di questi distretti in massima parte montuosi presentavano gli stessi caratteri delle vicine regioni italiche con le loro grandi città di Augusta Taurinorum e Segusio, Augusta Praetoria ed Eporedia, Comum, Bergomum, Brixia, Verona, Vicetia, Concordia, Aquileia, che in origine erano state tutte quante colonie romane e divennero poi grandi centri agricoli con estesi territori e numerose tribù celtiche e retiche attribuite. Altre zone dei distretti alpini effettivamente facevano parte delle regioni montuose della Gallia meridionale. La RAETIA, la seconda in grandezza fra le province alpine, non differiva molto nella sua costituzione economica e sociale dalle parti adiacenti del paese retrostante al limes della Germania superiore: in ogni caso le città retiche che sono state fatte oggetto di scavi non presentano particolarità per cui si possa distinguerle nettamente da quelle della Germania superiore50.
49. Intorno alle borgate e alle tombe degli indigeni vd. F. HAVERFIELD, op. cit., pp. 45 sgg. e 55 sgg. Sarebbe un perditempo il voler far delle considerazioni sul grado di romanizzazione della Britannia. Indubbiamente le classi superiori e i soldati, in parte erano già romani (quanto a civiltà) allorché posero piede nell’isola, in parte si romanizzarono in appresso per effetto del continuo contatto con l’esercito e più tardi con l’atmosfera delle città. In queste ultime certamente tutti parlavano latino, molti lo scrivevano. Era anche del tutto naturale che gli articoli industriali meno costosi, che venivano importati dalla Gallia o prodotti dall’industria locale nelle città britanniche trovassero accesso anche nei villaggi indigeni e scacciassero i prodotti dell’industria domestica. Ciò non significa tuttavia che questi villaggi siano diventati romani in tutte le loro forme di vita: ma non si può andar tanto oltre come ha fatto R. COLLINGWOOD, Town and Country in Roman Britain, «Antiquity», settembre 1929, pp. 261 sgg., il quale nega che gli indigeni dell’isola, prima della comparsa dei Romani, possedessero qualsiasi conoscenza agricola, e che i Romani abbiano introdotto novità in fatto di metodi agricoli. Il confronto con la Gallia mostra insostenibile la prima affermazione; le rovine di ville e città romane in Britannia provano che anche la seconda è esagerata. Contro il COLLINGWOOD vd. J. RANDALL, ibid., marzo 1930, pp. 80 sgg. e R.E.M. WHEELER, ibid., pp. 91 sgg. Naturalmente il tentativo di calcolare l’entità della popolazione sulla base del terreno coltivato è meramente ipotetico: tuttavia il WHEELER con la sua cifra di un milione e mezzo si accosta probabilmente al vero più del COLLINGWOOD. [Interessantissime sono le osservazioni di Sir GEORGE MACDONALD, Forschungen im römischen Britannien 1914-1921, in «Bericht der röm.-germ. Kommission», 1929, pp. 735 sgg., sulla differenze fra il sistema agrario celtoromano e quello anglo-sassone, come sono state rivelate da fotografie aeree, vd. figg. 59 e 60 a p. 80]. 50. Una rassegna generale dei risultati delle indagini locali e degli scavi della Rezia si ha nel pregevole libro di F. WAGNER, Die Römer in Bayern (19284). Intorno agli scavi
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Augusta Vindelicum (Augsburg, Augusta), la meglio conosciuta e la più importante delle città retiche, aveva probabilmente per il Danubio e per il suo limes la stessa funzione che Colonia e Mogontiacum per il limes renano. Ciò è provato, tra l’altro, dalla frequenza con cui i mercanti, specialmente di panni e di ceramiche, figuravano nella sua vita. Altro fatto importante è che Castra Regina (Regensburg, Ratisbona), la più grande fortezza della Rezia, possedeva un esteso territorio su una parte del quale si svilupparono a poco a poco le canabae della fortezza. Questo territorio militare in un’iscrizione del 178 d.C. è chiamato territorium contributum. È interessante vedere che il magistrato principale di queste canabae aveva il titolo di aedilis. Possiamo ritenere che il territorio di Castra Regina non fosse privo d’abitanti prima d’essere attribuito alla fortezza; è probabile che i suoi abitatori preromani formassero una delle numerose gentes della Rezia, e che, passato il paese sotto i Romani, abbiano continuato a coltivarlo in qualità di affittuari della fortezza. Esempio notevole di civitas galloromana, centro urbano d’un pago celtico, ci dà Cambodunum, oggi Kempten, la città degli Estiones. Essa fiorì nel sec. I d.C., allorché diventò importante centro di commercio; nel sec. II il suo progresso s’arrestò, nel III cominciò a decadere. Le rovine della città, che sono state scavate con cura, illustrano con tutta chiarezza il sorgere ed il costituirsi d’una città cantonale, il cui sviluppo urbano non dipendeva dal possedere importanza militare o amministrativa51. La più vasta tra le province alpine era l’antico regno del NORICUM, abitato da popolazioni celtiche. Esso comprendeva le terre migliori e più accessibili poste a greco dell’Italia, e rimase a lungo sotto l’influsso di Aquileia. La penetrazione degli elementi italici nelle città e vallate del Norico fu agevolata dalla circostanza che il paese era vissuto a lungo in pace e unito sotto lo scettro di un re indigeno. Quasi senza lotta Augusto trasformò questo regno in provincia procuratoria. Dopo l’unione all’Italia, le vallate della regione presto raggiunsero un grado di prosperità relativamente elevato. La vita urbana, non ostacolata da guerre o ribellioni, si svolse in parecchie delle antiche borgate
di Cambodunum ibid., pp. 58 sgg. con pianta delle rovine della città e completa bibliografia. Una buona esposizione dell’etnologia del paese e della sua storia politica e militare è data dal HAUG, «R. E», II ser., I (1920), coll. 42 sgg. Le iscrizioni della Rezia sono state nuovamente raccolte e pubblicate da F. VOLLMER, Inscriptiones Baiuariae romanae sive inscriptiones provinciae Raetiae (1915). L’importanza che per i cittadini di Augusta Vindelicum aveva il commercio è attestata da un frammento d’ornamento sculturale d’una tomba a pilastro, in cui si vedono i preparativi del trasporto di una balla gigantesca contenente probabilmente tessuti (vd. F. WAGNER, op. cit., tav. XIV). 51. Negotiatores artis vestiariae, lintiariae, purpurariae e altri sono spesso menzionati nelle non molto numerose iscrizioni di Augusta Vindelicum; il che attesta con sicurezza la loro cospicua posizione nella vita sociale ed economica della città, vd. C. I. L. III, 5800 (VOLLMER, Inscr. Baiuar., 111); 5816 (VOLLMER, 127; il fratello del mercante è un soldato); 5824 (VOLLMER, 135), cf. 5833 (VOLLMER, 144) negotiator artis cretariae et flaturariae, 14370 (VOLLMER, 175) negotiator porcanus, 5830 (VOLLMER, 141) negotiator. L’iscrizione di Castra Regina si trova nel C. I. L. III, 14370, 10 (VOLLMER, 361): Volk(ano) sacr(um) Aur. Artissius aedil(is) territor(i) contr(ibuti) et k(anabarum) R(eginensium). Si osservi che l’edile sembra essere indigeno.
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centrali delle varie stirpi celtiche, tra le quali avevano maggior importanza, oltre al capoluogo Virunum, Celeia, Teurnia, Iuvavum. Esse avevano tutte dei vasti territori, ed erano costituite d’elementi italici e indigeni. L’imperatore Claudio dette a queste civitates celto-romane un ordinamento calcato sul modello delle città rurali italiche, conferendo ai più importanti centri di vita urbana i diritti dei municipia. Gli abitanti delle città, in quanto non erano cittadini romani, ricevettero la cittadinanza latina, mentre la popolazione rurale, i contadini e i pastori, rimasero peregrini e conservarono indefinitamente i loro usi e costumi, specialmente nei punti più fuori mano come Iuenna e la valle della Levenna. Le principali risorse economiche del Norico erano le ricche miniere di ferro e di piombo, le foreste, gli eccellenti pascoli, e alcuni buoni campi. Questi ultimi per lo più erano posseduti dalla ricca borghesia delle città. Le miniere erano in complesso proprietà dello Stato e venivano gestite, come in Dalmazia e nella Spagna, per mezzo di impresari facoltosi (conductores). Le foreste, i pascoli, i campi appartenevano agli abitanti delle città; le parti meno attraenti probabilmente restavano in mano dei peregrini indigeni52. Volgiamoci ora ai paesi abitati dalle due razze principali della regione danubiana, dagli ILLIRI e dai TRACI. Una piccola frazione degli Illiri, fortemente mischiata con sangue celtico, e cioè l’Istria, divenne di buon’ora parte dell’Italia; un’altra, che si divideva il paese con tribù traciche e celtiche, fu incorporata nell’Impero romano come provincia di Illyricum, e più tardi fu suddivisa nelle province prevalentemente illiriche di Dalmazia, Pannonia superiore, Pannonia inferiore, nonché nelle province prevalentemente traciche della Mesia superiore e della Mesia inferiore, la prima traco-illirica, la seconda quasi puramente tracica. La mancanza di un’opera recente intorno alle province illiriche e
52. Un breve ma pregevole quadro delle condizioni sociali ed economiche del Norico ci dà R. EGGER, Führer durch die antiken Sammlungen des Landesmuseums in Klagenfurth, 1921 (introduzione); cf. i capitoli sul Norico nei libri di J. JUNG (vd. infra nota 53) e nel vol. V della Röm. Gesch. del MOMMSEN (Die römischen Provinzen); R. EGGER, Teurnia. Die röm. und frühchristlichen Altertümer Oberkärntens (19262); IDEM, Civitas Noricum, «Wiener Studien», Festheft (1929); O. KLOSE e M. SILBER, Iuvavum. Führer durch die Altertumssammlungen des Museum Carolino-Augusteum in Salzburg (1929). Intorno all’occupazione militare e all’amministrazione del Norico e della Rezia vd. M.B. PEAKS, The General and Military Administration of Noricum and Raetia, 1908 («Univ. of Chicago Studies in Class. Phil.»). Un elemento importante della vita sociale del Norico erano le associazioni di giovani (iuvenes), paragonabili con quelle delle città e borghi della Renania. Dacché, nel periodo postflaviano, il reclumento delle legioni dipendeva dalla devozione e dallo spirito militare della popolazione delle città provinciali romanizzate, gli imperatori promossero nelle città ispaniche e celtiche la formazione di associazioni militari di giovani (le quali per un certo tempo erano state una specialità dell’Italia), con l’intento di creare un nuovo semenzaio di valorosi e devoti ufficiali, sottufficiali e soldati, ma specialmente ufficiali. Terreno molto favorevole allo sviluppo di siffatte associazioni offrivano le città e villaggi di confine con la loro popolazione d’antichi soldati e di indigeni e colonisti ancor bellicosi. Quindi la diffusione dei collegia iuvenum nelle città e villaggi della Germania durante i secc. II e III (vd.
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traciche, la quale sia paragonabile ai volumi di C. Jullian, F. Haverfield, F. Cumont, K. Schumacher, F. Stählin relativi alle zone celtiche e germaniche dell’Impero, ci costringe a dare una descrizione più particolareggiata delle condizioni economiche e sociali che prevalevano nell’Istria, sulle rive dell’Adriatico, sul Danubio e sui suoi affluenti53. L’ISTRIA neppure nel periodo primitivo della sua vita era stata paese di barbari. Gli scavi eseguiti nelle borgate indigene, nei cosidetti castellieri, alcuni dei quali furono più tardi sostituiti da città romane, mostrano che già nel tardo periodo miceneo il paese era giunto ad alto grado di civiltà. L’Istria venne colonizzata dai Romani molto presto (essenzialmente nel primo secolo a.C.), e si romanizzò totalmente, almeno per quanto riguarda le grandi città della costa, come Tergeste – sebbene questa amministrativamente non appartenesse all’Istria –, Parentium, e soprattutto Pola col suo bel porto. I territori di queste città erano posseduti in gran parte dagli imperatori e dagli Italici in esse domicilia-
SCHUMACHER, Siedelungs- und Kulturgesch., p. 221), specialmente dopo le riforme di Settimio Severo. Probabilmente così nelle città semiceltiche come nelle semigermaniche quest’istituzione fu favorita dal fatto che consimili istituzioni esistevano già presso le stirpi germaniche e celtiche. Sembra che la Iuventas Manliensium di Virunum, la quale tenne i giuochi militari in onore dell’imperatore e degli dei, si fondasse fino a un certo punto sulle gentes celtiche della popolazione nativa del Norico, vd. R. EGGER, op. cit., p. 24 e fig. 5; inoltre «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 18 (1915), pp. 115 sgg. Cf. cap. II, nota 4. L’iscrizione, recentemente rinvenuta, dei centonarii (vigili del fuoco) di Solva, risalente all’età di Severo e Caracalla (205 d.C.), ci permette di dare uno sguardo alla composizione della popolazione d’una città del Norico. Al testo di un rescritto imperiale, che conferma i privilegi del collegium centonariorum, segue l’elenco a quanto sembra completo dei membri di questa corporazione: di 93 membri la metà sono peregrini, gli altri cittadini latini o romani, 17 nomi sono celtici. Tra questi uomini sono rappresentate non soltanto le classi più povere, i tenuiores, ma anche i membri della comunità agiati o ricchi. Ciò è detto espressamente nel rescritto imperiale, nel quale gli ultimi sono detti ii quos dicis diviti(i)s suis sine onere [uti] oppure qui maiores facultates praefi(ni)to modo possident. O. CUNTZ, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 18 (1915), pp. 98 sgg.; A. STEINWENTER, «Wiener Studien», 40 (1918), pp. 46 sgg. 53. Sono ormai antiquati tanto il ragguardevole quadro dei paesi danubiani dato dal MOMMSEN nel vol. V della sua Röm. Gesch. quanto i pregevoli libri di J. JUNG, Römer und Romanen in den Donauländern (1877), pp. 56 sgg., e Die romanischen Landschaften des römischen Reiches (1881), pp. 314 sgg. Le accurate indagini di A. Gnirs per l’Istria, di C. Patsch per la Dalmazia, di mons. Bulicˇ per Salona, dell’Accademia di Vienna e dell’Istituto archeologico austriaco per i paesi danubiani in generale e in particolare per il limes danubiano, e inoltre gli studi di numerosi dotti, ungheresi (J. HAMPEL), rumeni (G. TOCILESCU e V. PÂRVAN), bulgari (G. KAZAROV e B. FILOV), serbi (M.M. VASSICˇ e N. VULICˇ ), hanno fornito tanti nuovi materiali e messo in rilievo tanti nuovi punti di vista da render necessaria una fondamentale revisione del MOMMSEN e del JUNG. Non dà affatto una siffatta revisione, e neppure il tentativo d’una buona bibliografia, il breve articolo Illyricum di N. VULICˇ , «R. E.», IX, coll. 1085 sgg. Un quadro generale dei paesi, che prima della guerra facevano parte della monarchia austro-ungarica, è dato da W. KUBITSCHEK, Die Römerzeit, «Heimatkunde der Niederösterreich», 8 (1924), cf. E. NISCHER, Die Römer im Gebiet des ehemaligen Oesterreich-Ungarn (1923).
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ti, tra i quali si mescolava solo un piccolo numero d’indigeni. (Non teniamo conto dei soliti liberti di varia origine nazionale e di un certo numero di Greci e di Orientali). Una delle famiglie italiche più ragguardevoli e attive era quella dei Laecanii di Pola, che per le sue svariate attività economiche può paragonarsi alla famiglia aquileiana dei Barbii. Pola era piena di membri di questa famiglia, in parte discendenti dai Laecanii originari, in parte liberti e discendenti di liberti dei vari membri di essa54. Questi uomini introdussero nella penisola d’Istria la coltivazione metodica e capitalistica del suolo. Quasi tutta l’Istria meridionale venne trasformata in un continuo oliveto, e così pure le isole della baia di Pola, specialmente la graziosa Brioni grande con la sua bella villa, in cui si combinavano un vero palazzo con un’immensa fattoria agricola. La villa è stata di recente scavata completamente da A. Gnirs ed è il migliore esemplare di tal tipo che s’abbia nel mondo romano, non esclusa l’Italia. Resti di non poche altre grandi ed eleganti ville, ch’erano centri di vasti dominii, e di non poche fattorie sparse, che facevano parte probabilmente dei dominii medesimi, furono trovati e in parte scavati da archeologi locali e dall’istituto archeologico austriaco. Essi dimostrano stretta somiglianza con le ville pompeiane e stabiane, salvo che qui la produzione non si restringeva al vino (che probabilmente non si produceva in molto grande quantità) ma si applicava principalmente all’olio. Altra differenza tra le ville pompeiane e le istriane è che queste ultime erano centri non di tenute di media estensione sibbene (almeno nei casi meglio conosciuti) di veri latifundia di tipo simile a quelli della Gallia, della Britannia, del Belgio, della Germania, dell’Africa55.
54. J. WEISS, «R. E.», VIII, coll. 2111 sgg.; A. GNIRS, Führer durch Pola (1915). I demani imperiali di Pola sono attestati da molte iscrizioni di liberti e schiavi imperiali, trovate a Pola e altrove, p. es. C. I. L. V, 37-39, 40, 41, 42, 475. Un elenco completo ne dà P. STICOTTI, Nuova rassegna di epigrafi romane, «Atti e Memorie della Società Istriana d’Archeol. e Storia Patria», 30 (1914), pp. 122 sgg., cf. ibid., 124, n. 19: C. Coelius Hal(ys) col(onus). Una notevole lista di nomi si trova su due tavole plumbee rinvenute in una tomba presso Pola e pubblicate da P. STICOTTI (vd. nota 45). Inclino a credere che le persone enumerate in queste liste appartenessero, in qualità di schiavi o di liberi, a una grande tenuta, verosimilmente privata. Alcuni tra gli schiavi erano – o erano stati – amministratori della tenuta (dispensator o qui dispensavit o qui vilicavit); uno è colonus, un altro adiutor coloni. I liberi non portano alcuna designazione di qualità. Si può supporre che essi fossero fittavoli della tenuta, mentre il colonus e l’adiutor coloni erano schiavi incaricati di sorvegliare i lavori agricoli della tenuta, oppure schiavi cui era stato assegnato un pezzo di terreno ed erano trattati come i fittavoli. Un grande possedimento imperiale si trovava probabilmente nelle vicinanze di Abrega in territorio di Parenzo: vd. P. STICOTTI, «Atti e Memorie della Società Istriana d’Archeol. e Storia Patria», 30, p. 122, nota 111. Anche qui accanto a molti amministratori imperiali di condizione servile troviamo un colonus, C. I. L. V, 8190. 55. Per le ville dell’Istria, vd. A. GNIRS, Forschungen über antiken Villenbau in Südistrien, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 18 (1915), Beibl., pp. 101 sgg. (in cui sono indicati anche i precedenti lavori dell’autore sulla villa di Brioni Grande e sulle altre ville istriane). Cf. J. WEISS, op. cit. e R. SCHWALB, Römische Villa bei Pola («Schriften der Balkankommission», Ant. Abt., 2).
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1. I tre templi della villa di Brioni grande (ricostruzione di A. Gnirs)
2. Edificio principale della villa predetta (ricostruzione di A. Gnirs)
3. Veduta generale di val Catena con le rovine della villa
TAV. XLII – VILLA ISTRIANA
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DESCRIZIONE DELLA
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1-3. LA GRANDE VILLA DELL’ISOLA DI BRIONI GRANDE PRESSO POLA. La villa venne scavata a cura dell’Istituto archeologico austriaco. Il direttore degli scavi, A. GNIRS, li condusse con la massima cura, ottenendone splendidi risultati. La fig. 3 («Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien.», 10 (1907), Beibl., pp. 43-44, fig. 1) dà la veduta generale di Val Catena, l’incantevole baia intorno a cui sorgevano gli edifiei della villa. ?'@6K?e?O2@@? ?V4@@@@@@@@@5? ?I4@@@@@@0Y?
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Sul punto più stretto della baia (vd. la pianta qui sopra, riprodotta dai «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 18 (1915), Beibl., pp. 133-134, fig. 54) v’era un elegante molo con tre templi collegati da un portico semicircolare (fig. 1, dai «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 7 (1904), Beibl., pp. 139-140, fig. 23). Uno dei templi (N sulla pianta) era probabilmente dedicato a Nettuno. La fig. 2 («Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 18 (1915), Beibl., pp. 127-128, fig. 52) dà la restaurazione dell’edificio principale della villa, il cosidetto «edificio a terrazza». La villa era costruita su un largo podio sorgente dal molo. Il suo fronte era formato da un lungo portico; il lato sinistro (orientale), costruito intorno a uno spazioso cortile, era occupato dalle stanze di lavoro, di cui le più notevoli erano quelle dove si preparava l’olio; il lato destro (occidentale) era una sontuosa casa d’abitazione. Gli altri edifici più ragguardevoli della villa erano, come appare dalla pianta, il porto (B), il vivaio dei pesci (E), grandi sale da bagno, thermae (F), il lungo portico sul molo (K), un edificio a padiglione (diaeta) all’estremità del portico (L), un’altra diaeta con peristilio e atrium (H), un giardino (S), e un grande serbatoio d’acqua (V). Sul rifornimento dell’acqua nelle ville istriane in generale, e sulle cisterne della villa di Brioni Grande, cf. A. GNIRS in Strena Bulicˇiana, 1924, pp. 138 sgg.
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VI. L’Impero romano sotto i Flavii e gli Antonini. L’Italia e le province occidentali
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Italici residenti nelle città istriane possedevano anche grandi fabbriche di tegole e di giarre, poste in vicinanza di Tergeste e di Pola. I mattoni e i boccali di queste fabbriche venivano adoperati nell’Istria, nella Dalmazia, in tutti i paesi danubiani. È probabile che i proprietari italici delle grandi tenute comperassero anche la lana prodotta dalle tribù indigene delle montagne retrostanti alle città. Alcuni greggi di pecore, senza dubbio, erano anche posseduti dalla gente di città e custoditi dai suoi schiavi. Con questa lana si fabbricavano i celebri abiti di lana dell’Istria, che facevano la concorrenza ai prodotti gallici un po’ più rozzi e primitivi56. Molto meno romanizzato era l’interno della penisola e il territorio retrostante a Tergeste. Quest’ultima era stata in origine stanziamento illirico, e posteriormente villaggio dei celtici Carni. Risulta da un’iscrizione (DESSAU, I. L. S., 6680) che i Carni e i Catali erano attribuiti a Tergeste: le loro condizioni di vita probabilmente erano di tipo rurale primitivo. I loro capi divennero cittadini romani, ma gli altri membri di queste tribù probabilmente non ottennero mai la cittadinanza romana. Lo stesso deve dirsi per le stirpi illiriche dell’Istria, come è dimostrato dalle iscrizioni latine che esse hanno lasciate, per esempio nei territori di Nesactium e Piquentum57. Gl’Illirii della DALMAZIA, della PANNONIA, e di una parte della MESIA SUPERIORE, non erano di razza pura. Originariamente questi paesi erano stati abitati da Traci, che furono poi asserviti dagli Illirii sopravvenuti. Più tardi comparvero i Celti, che si mischiarono con le più importanti stirpi illiriche, cioè coi Liburni, coi Dalmati, coi Iapudii, coi Maezaei nella parte settentrionale della zona adriatica, coi Taulantii, cogli Enchelei, cogli Ardiei nelle regioni meridionali. Allorché gli Illirii vennero per la prima volta a contatto coi Romani (nel secolo terzo a.C.), avevano, come gli Iberici di Spagna, una lunga vita storica dietro di sè. Nella tarda età del bronzo e nella prima del ferro avevano risentito fortemente l’influsso della più tarda civiltà minoica, e molto presto erano entrati in rapporti coi Greci. Sotto queste influenze essi svolsero una propria civiltà materiale, che risentiva l’influsso anche della civiltà delle genti della stessa stirpe abitanti sulla sponda italica dell’Adriatico. Essa mostra molti interessanti caratteri distintivi. Socialmente le varie stirpi illiriche vivevano in condizioni abbastanza primitive. I tratti caratteristici della loro vita erano molto simili a quelli degli Iberi. Le tribù e stirpi avevano i loro centri in borgate fortificate in cima alle colline e ai monti, e si occupavano principalmente di pastorizia e d’agricoltu-
56. I materiali sono riuniti da J. WEISS, loc. cit. 57. Piquentum, C. I. L. V, 433, 434, 436, 450, 452; cf. E. PAIS, Suppl. Ital., fasc. 1, nn. 42-51. Nesactium. Dedica alle divinità locali Eia e Trita, E. PAIS, loc. cit., n. 1; «Atti e Memorie della Società Istriana d’Archeol. e Storia Patria», 1902 sgg.; A. GNIRS, Führer durch Pola, pp. 162 sgg. Le iscrizioni e gli altri trovamenti di Nesactium si conservano nel museo di Pola. Intorno ad altre divinità locali dell’Istria vd. P. STICOTTI, «Atti e Memorie della Società Istriana d’Archeol. e Storia Patria», 35 (1909), pp. 7 sgg., specialm. p. 10. Cf. G.E.F. CHILVER, Cisalpine Gaul. Social and Economic History from 49 B.C. to the Death of Trajan, Oxford, 1941, p. 82.
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STORIA ECONOMICA E SOCIALE DELL’IMPERO ROMANO
ra: in alcuni casi esisteva un peculiare sistema di redistribuzione della terra, ogni otto anni, tra i membri delle tribù e delle stirpi. Al pari degli Iberi di Spagna, anche gli Illirii formavano di tratto in tratto maggiori unità politiche sotto governo monarchico, come gli Enchelei presso Apollonia e i Taulantii presso Epidamno, più tardi gli Ardiei, e finalmente i Dalmati. Ma questi Stati non presentavano vera coesione e talvolta erano lente federazioni di tribù e di stirpi più che Stati monarchici accentrati58. I Romani si condussero con gli Illirii e i Celto-Illirii alla medesima maniera che con gli Iberi e i Celtiberi. Sin da tempi molto remoti essi avevano iniziato relazioni diplomatiche e commerciali con le città della costa, assumendo la protezione degli antichi stanziamenti coloniali greci che si trovavano nel paese illirico. A mano a mano che quest’influenza romana si riaffermava durante il lungo periodo di guerre intermittenti contro le tribù maggiori, siffatte relazioni andavano facendosi sempre più strette. Nei secoli secondo e primo a.C.,
58. Una rassegna dei ritrovamenti preistorici dell’Illiria e della storia degli stanziamenti greci si ha in S. CASSON, Macedonia, Thrace and Illyria (1926), pp. 287 sgg. (con ricca bibliografia). Il libro del CASSON si fonda sul pregevole lavoro compiuto in Istria, Dalmazia, Bosnia, Erzegovina dall’Istituto archeologico austriaco e dall’Istituto bosniaco-erzegovinese di indagini balcaniche di Serajevo, per merito dei quali i meglio studiati tra i paesi illirici sono da un lato l’Istria e la Dalmazia, dall’altro la Bosnia e l’Erzegovina. La migliore rassegna generale dei lavori eseguiti in Dalmazia la dà la breve ma sostanziosa introduzione del libro di M. ABRAMICˇ , Führer durch. das k. k. Staatsmuseum in St. Donato in Zara (1912), pp. 1 sgg. Intorno agli scavi di Salona vd. le indicazioni bibliografiche date nel cap. V, nota 4. Un pregevole quadro generale delle indagini relative alla Bosnia e all’Erzegovina è dato da C. PATSCH, che per molti anni è stato in questi paesi il propulsore della ricerca archeologica, nei suoi due libri Bosnien und Herzegowina in römischer Zeit («Schriften zur Kunde der Balkanhalbinsel», XV), e Historische Wanderungen im Karst und an der Adria. I. Die Herzegowina einst und jetzt, «Osten und Orient», II ser., 1922 («Schriften zur Kunde der Balkanhalbinsel»); cf. il suo articolo Dalmatia, «R. E.», IV, coll. 2248 sgg. [Una raccolta pregevolissima di dati riguardanti la Serbia, il Sangiaccato e il Montenegro, è stata pubblicata recentemente da N. VULICˇ , Die antiken Denkmäler unseres Landes, «K. Serb. Akad.», Spomenik 71 (1931), cf. la buona bibliografia alle pp. 247 sgg.] Nuovi dati interessanti intorno alle relazioni tra Illirii e Greci nel sec. V a.C. nei paesi di confine tra Macedoni e Illirii ci fornisce una serie di ricche tombe illiriche, che nel corso dell’ultima guerra sono state scavate a Trebenisˇ te, vd. B. FILOV, Die archaische Nekropole von Trebenischte (1927). Intorno alla redistribuzione delle terre, che ogni otto anni si faceva presso la stirpe dei Dalmati, vd. STRABO, VII, 5, 5 p. 315; STEPH. BYZ., Davlmion, cf. C. PATSCH, «R. E.», IV, col. 2448 ed E. WEISS, ibid., XI, p. 1086. Lo stesso costume vigeva presso i Vaccaei di Spagna, DIOD., V, 34. È degno di nota il fatto che la stirpe degli Ardiei dominava una popolazione tracica asservita di 300 mila (?) individui, che lavoravano la terra per i loro signori illirici e che vengono paragonati agli Iloti di Sparta da TEOPOMPO presso ATHEN., VI, 271 e X, 443; POLYAEN., VII, 42; C. PATSCH, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 1907, pp. 171 sgg. Un tipico stanziamento romano situato sulla strada da Salona a Servitium, è stato recentemente fatto oggetto d’indagine da D. SERGEJEVSKI, Monumenti romani in pietra rinvenuti a Glamocˇ, «Glasnik» del Museo di Bosnia ed Erzegovina, 39 (1927), p. 255 sgg., cf. 40 (1928), pp. 79 sgg. (in serbo).
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allorché il potere militare degli Illirici fu infranto per sempre (sebbene alcune tribù conservassero ancora di nome l’indipendenza), forti gruppi di mercanti e affaristi romani si stabilirono nelle più importanti città marittime. Costoro, insieme coi più antichi immigrati greci e con gli indigeni più o meno ellenizzati, praticavano il commercio marittimo che sin dai tempi più remoti era stato la linfa vitale delle città, favoriti dalla grande abilità marinaresca degli Illirii, in ogni tempo famosi quali pirati. Questi ora assunsero servizio da marinai nelle navi commerciali, e più tardi fornirono una considerevolissima parte delle ciurme alla flotta imperiale di Ravenna (come gli Egiziani a quella del Miseno). Allorché finalmente i paesi illirici vennero annessi all’Impero romano (sotto Augusto a cominciare dal 33 a.C. all’incirca e sotto i primi successori di lui), i Romani trasformarono queste città in colonie: le prime ad essere così colonizzate furono Senia, Jader, Salonae, Narona, Epidaurum. La colonizzazione importava la creazione di centri quasi puri di vita urbana italica. Alle colonie furono assegnati vasti tratti del miglior terreno aratorio: non pochi tra gli immigrati divennero agiati proprietari di terre, mentre gli indigeni probabilmente si ridussero a loro coloni e lavoratori. Alcune delle famiglie residenti in queste città fecero realmente nei nuovi paesi opera da pionieri, costruendo ville nelle parti basse della Dalmazia e introducendovi i metodi capitalistici vigenti in Italia e in Istria. Le loro prime attività furono il taglio delle foreste e il pascolo; poi si introdusse la coltivazione del grano, e più tardi ancora quella della vite e dell’olivo59. Oltre alle città, furono costruite nel paese due fortezze legionarie
59. Intorno alla ben conosciuta storia dell’occupazione romana dell’Illiria e delle guerre illiriche vd. G. ZIPPEL, Die röm. Herrschaft in Illyrien bis auf Augustus (1877), M. HOLLEAUX, Rome, la Grèce et les monarchies hellénistiques au IIIème siècle av. J. Chr. (1921), pp. 22 sgg. e 98 sgg.; IDEM nella C. A. H., VII, 1928, p. 822 e bibliografia p. 932; G. DE SANCTIS, Storia dei Romani, IV, 1923, p. 316, e il riassunto di C. PATSCH, Die Herzegowina einst und jetzt, pp. 40 sgg.; cf. R. RAU, «Klio», 19 (1924), pp. 313 sgg. e C. PATSCH, Aus dem Albanischen Nationalmuseum, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 23 (1926), Beibl., pp. 216 sgg. Il centro principale dell’attività economica in Dalmazia era Salona, in relazioni strettissime con Narona: C. PATSCH, Die Herzegowina ecc., 88 sgg. In queste due città avevano domicilio molte famiglie d’origine italica o discendenti da liberti di cospicue famiglie italiche, come gli Agrii, gli Anteii, gli Artorii, i Mescenii, gli Abultronii, i Papii, i Ravonii, gli Umbrii. Intorno al retroterra di Narona vd. C. PATSCH, Archäologisch-epigraphische Untersuchungen zur Geschichte der römischen Provinz Dalmatien, VIII, «Wiss. Mitt. aus Bosnien», XII (1912), pp. 92 sgg., e Aus Narona, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 15 (1912), Beibl., pp. 75 sgg. Due abitanti di Narona (C. Papio Celso e M. Papio Kano) eressero, verosimilmente dentro un loro fondo, un monumento in ricordo della vittoria di Augusto su Sesto Pompeo. Questa famiglia è rappresentata anche a Salona e a Dyrrachium, vd. nota 91. Al sec. I d.C. appartengono le rovine di una grande villa della valle del Naro: C. PATSCH, Untersuch. VI, «Wiss. Mitt. aus Bosnien», 9 (1904), pp. 278 sgg., cf. 280 sgg. circa le famiglie dei Livii e dei Safinii di cui la prima apparteneva a Narona, l’altra a Salona, e che si erano stabilite nella medesima località. Sul fertile retroterra di Salona. popolato di coloni romani, vd. C. PATSCH, Untersuch. V, «Wiss. Mitt. aus Bosnien», 8 (1902), pp. 71 sgg. e 84 sgg. Tengo per certo che le parti del paese, che prima delle altre vennero sfruttate dal nuovi
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a Burnum e Delminium, e inoltre decine di fortini. Sotto Vespasiano le legioni furono trasferite dalla Dalmazia nella Pannonia, ma alcuni dei piccoli fortilizi rimasero. Questi stabilimenti militari senza dubbio contribuirono molto alla romanizzazione del paese: uno di essi, quello di Burnum, possedeva nelle sue vicinanze estesi terreni da pascolo60. Frattanto la civiltà andava penetrando molto addentro nell’interno della Dalmazia. Il copioso reclutamento di soldati che si operava fra le tribù illiriche creò a poco a poco un’aristocrazia indigena più o meno romanizzata, formata dai veterani che ritornavano nelle loro tribù e nei loro villaggi dopo aver terminato il loro servizio nei corpi ausiliari. A questi elementi aristocratici Vespasiano assegnò la direzione della vita delle loro tribù, e con essi e con qualche immigrato italico costituì la nuova borghesia delle borgate urbanizzate e delle piazze forti di Dalmazia. La sua politica in questo paese fu dunque quella stessa ch’egli seguiva nella Spagna, ed aveva gli stessi scopi. L’ordinamento per tribù non dava affidamento di sicurezza; e d’altra parte Roma aveva bisogno delle tribù per reclutarvi truppe ausiliarie. Non v’era altra via che mettere le tribù sotto la direzione dei loro membri più o meno romanizzati, o almeno disciplinati, che avevano già servito nell’esercito romano. Ad essi si addossava anche l’obbligo di fornire reclute per le legioni. Naturalmente – e anche in questo troviamo analogie con la Spagna – parecchie delle nuove città furono trasferite dalle colline al piano: le città in pianura erano per i Romani molto più sicure che non i nidi d’aquila appollaiati sulle cime di erte colline o di impervii monti61.
abitatori, furono i distretti minerari, le foreste, i pascoli. Delle miniere parlerò in seguito. Accanto al ferro anche il legname e il cacio erano i principali articoli di esportazione della Dalmazia ancora al tempo della Expositio totius mundi et gentium, 53; ma già nel 158 a.C. le biade e il bestiame erano i prodotti principali del paese (POLYB., 32, 18, 5, cf. C. PATSCH, Die Herzegowina, p. 138). Seguì poi, specialmente sotto l’Impero, una vasta produzione di vino e d’olio, limitata tuttavia per lo più alla regione costiera, C. PATSCH, op. cit., pp. 119 sgg. Le statistiche date dal PATSCH p. 121, dimostrano che probabilmente s’importava vino in Dalmazia tanto dall’Italia meridionale quanto dalla settentrionale: si stenta a credere che i recipienti venissero in Dalmazia vuoti. 60. Vd. l’iscrizione C. I. L. III, 13250 (DESSAU, 5968): stabilimento dei confini tra il terreno prativo dell’antico territorio della legione e un proprietario privato. Molti documenti dello stesso genere sono stati trovati nella Spagna (DESSAU, 2454, 2455, 5969, 5970); cf. «Rev. Arch.», VI ser., 6 (1935), p. 211, n. 13 (iscrizione da Santa Colomba de la Vega, nella provincia di Leon – Asturia -, nella Spagna nordoccidentale: confine stabilito sotto Claudio tra i territori rispettivi della coh. III Galliarum e della civitas Beduniensia): ex auctor[itat]|e Ti(beri) Claudi Cais/aris Aug(usti) Ger/manici imp(eratoris) ter/minus prato/rum coh(ortis) IIII Ga/ll(iarum) inter coh(ortem) IIII / Gall(iarum) et civitate/m Bedunien/sium. Circa il grado di romanizzazione delle città marittime della Dalmazia
vd. E. WEIGAND, Die Stellung Dalmatiens in der röm. Reichskunst, in Strena Bulicˇiana, 1924, pp. 77 sgg. 61. C. PATSCH, Die Herzegowina, pp. 105 sgg. La città di Delminium venne certamente traslocata dalla cima della collina al piano: C. PATSCH, Untersuch. VI, «Wiss. Mitt. aus Bosnien», 9 (1904), pp. 172 sgg.
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I nuovi municipia ricevettero nel modo abituale estesi tratti di terreno, staccati dal territorio delle tribù. La maggior parte di queste terre vennero divise tra i cittadini di nuova creazione, mentre il resto rimase nelle mani degli antichi proprietari, che costituivano la popolazione della campagna e rimanevano nella condizione giuridica di peregrini, non inscritti nell’elenco dei cittadini. Sotto l’aspetto economico, non pochi di questi incolae a poco a poco divennero coloni dei facoltosi proprietari residenti in città62. Accanto all’agricoltura si svolse una vivace attività commerciale nell’interno della provincia e con altre province, e così pure sorsero industrie locali. Su un altare funerario di un cittadino d’un municipio della ricca valle del Drinus il defunto è rappresentato due volte: da un lato della lapide sotto l’aspetto d’un proprietario di terre con delle spighe di grano in mano, dall’altro lato come calzolaio63. Alcuni tra i membri dell’aristocrazia cittadina divennero ricchissimi e acquistarono vaste aree di terreno da grano e da pascolo; e in questa loro qualità di persone ricche entrarono nel servizio imperiale, conseguirono il grado equestre, e giunsero perfino ad ottenere seggi nel Senato di Roma64. Un bell’esempio di siffatte città indigene ci porge Doclea, già rifugio fortificato della stirpe dei Docleati. Vi sono stati eseguiti degli scavi da un archeologo russo; e i risultati sono stati pubblicati non molto addietro in modo eccellente da uno studioso italiano di Trieste. Sotto Vespasiano la città divenne municipium. La sua cittadinanza si componeva di principes (persone influenti della tribù), di veterani, e di immigrati da Salona e da Narona. La città divenne presto ricca e fiorente: i suoi ricchi proprietari agrari edificarono uno spazioso foro con una bella basilica, alcuni templi, un ampio bagno. Lo stesso può dirsi di alcune città interne della Dalmazia (per es. Asseria, retrostante a Iader)65. È notevole che a nessuna di queste città fu concesso il grado di colo-
62. C. PATSCH, Untersuch. VII, «Wiss. Mitt. aus Bosnien», 11 (1909), pp. 121 sgg. Nel C I. L., XIII, 6358 due soldati di una coorte ausiliaria indicano il municipium Salvium come loro paese d’origine: da ciò consegue che i soldati, anche se vivevano nel territorio d’un municipio romano, erano peregrini, cioè non cittadini di esso, sibbene incolae. Cf. C. PATSCH, Die Herzegowina, p. 107, che rinvia al C. I. L. XIII, 7507 e III, dipl. XVI=XXIII, in cui Traci della stirpe dei Daorsi, che un tempo erano stati fatti schiavi dagli Illirii, indicano come loro paese natio il territorio d’una città situata sul posto dell’odierna Stolac. 63. C. PATSCH, Untersuch. VIII, «Wiss. Mitt. aus Bosnien», 11 (1906), p. 155, figg. 63 e 64. 64. Vd. p. es. le iscrizioni di Skelani, C. PATSCH, Untersuch. VII, «Wiss. Mitt. aus Bosnien» 11 (1909), pp. 155 sgg. Cf. C. I. L. III, 8350: Flavia Prisca c(larissima) f(emina) pone la stele alla sua balia e al fattore della sua tenuta (vilicus). Evidentemente questa dama era nata in Dalmazia e vi possedeva delle terre. 65. P. STICOTTI, Die röm. Stadt Doclea in Montenegro, 1913 («Schriften der Balkankommission», VI); C. PRASCHNIKER e A. SCHOBER, Archäol. Forschungen in Albanien und Montenegro (1919), pp. 1 sgg; C. PATSCH, Die Herzegowina, p. 89. Per le condizioni vigenti a Doclea, che diventò il principale centro commerciale dell’odierno Montenegro, è caratteristica la personalità di M. Fulvio Frontone, che aveva rapporti con tutte le più importanti città commerciali della Dalmazia meridionale quali Narona,
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nia. L’ultima colonia fu creata da Claudio (Colonia Claudia Aequum); neppure sotto Adriano, che creò una serie di nuovi municipia, alcuna città dalmata conseguì la condizione più elevata. La politica del governo era in Dalmazia la stessa che abbiamo trovato seguita nella Spagna, ed evidentemente era dettata dagli stessi motivi. Mediante i municipi si voleva spezzare in Dalmazia la forza delle tribù, ma questa creazione non significava affatto che fosse già avvenuta la romanizzazione: era un passo verso la meta, non il coronamento d’un’opera già compiuta. Anzi la romanizzazione integrale non sarebbe stata utile al governo, in quanto avrebbe privato lo Stato di reclute eccellenti sia per le legioni sia per i corpi ausiliari. Ciò posto, non deve sorprenderci che in Dalmazia l’opera romanizzatrice non sia stata mai recata a termine. Neppure nelle città la popolazione era romanizzata integralmente; tanto meno poi nei loro territori. Inoltre, parecchie tribù non furono mai urbanizzate, e rimasero quello che erano sempre state, continuando a vivere alla maniera antica. La prova di ciò è data da numerose iscrizioni incise su pietre di confine, che descrivono la delimitazione dei territori tra le varie stirpi dalmatiche. È caratteristico per le condizioni prevalenti nella regione il fatto che non vi fu mai attuata la vera centuriatio romana, cioè una ripartizione del suolo, come invece fu fatto, almeno fino a un certo punto, in Pannonia, in Dacia, in Africa. Evidentemente, da poche eccezioni in fuori si conservò in Dalmazia l’antica maniera di coltivare il terreno, e non era necessaria la divisione romana di esso in centuriae: tutto quello che occorreva era una precisa divisione del terreno tra le stirpi e i municipi di nuova creazione66.
Epidaurum, Risinium, Scodra; vd. C. I. L. III, 12692, cf. 13819; 12693, cf. 13820, 13821; P. STICOTTI, op. cit., pp. 164 sgg., 197 sgg. Intorno ad Asseria vd. «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 11 (1908), Beibl., pp. 17 sgg.; M. ABRAMICˇ , Führer durch das k. k. Staatsmuseum in St. Donato in Zara, pp. 16 sgg. (Corinium, Nedinum, Asseria) e pp. 14 sgg. (Aenona). 66. Circa l’ordinamento delle stirpi illiriche della Dalmazia vd. le iscrizioni trovate nel santuario della divinità locale Bindus Neptunus presso la città principale della stirpe dei Japudi (Raetinium, l’odierna Bihac´ ?): C. PATSCH, Untersuch. III, «Wiss. Mitt. aus Bosnien», 6 (1899), pp. 155 sgg., cf. Unters. IV, «Wiss. Mitt. aus Bosnien», 7 (1909), pp. 55 sgg., cf. Die Herzegowina, p. 104. Le stirpi erano ripartite in decuriae (clans, gentes), PLIN., Nat. hist., III, 142. Nel primo periodo dell’occupazione romana erano sottoposte a ufficiali romani (praefecti), comandanti militari della stirpe, che veniva considerata quale unità militare (C. I. L. V, 3346, prefetto di Japudia e Liburnia; IX, 2564, prefetto dei Maezaei). Più tardi i prefetti perdettero il carattere militare e divennero praepositi, funzionari civili, per lo più indigeni scelti tra gli anziani locali (principes), C. I. L. III, 14323-14328, cf. 15062 sgg. Allorché avveniva che nel territorio d’una stirpe venissero fondate molte città (p. es. Arupium, C. I. L. III, 3066, e Monetium, III, 3022, nel territorio dei Japudi), e che molti principes di cantone diventassero cittadini (C. I. L. III, 2774, 2776; DESSAU, 9411, 9412; N. VULICˇ , «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 12 (1909), Beibl., pp. 201 sg.; P. STICOTTI, Doclea, pp. 19 e 191; C. PRASCHNIKER e A. SCHOBER, Arch. Forschungen in Albanien und Montenegro, p. 100; C. PATSCH, «Wiss. Mitt. aus Bosnien», 7 (1909), p. 156), ciò non implica la scomparsa della stirpe come tale e l’urbanizzazione di tutto il suo territorio, com’è dimostrato dalle numerose pietre terminali tra municipi e stirpi, DESSAU, 9378, 9379, 5948-53, 5953 a, b. L’atteggiamento
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1. Banchiere pannonico
2. Minatore pannonico
3. Matrona dalmata
TAV. XLIII – VITA E LAVORO IN PANNONIA E DALMAZIA
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DESCRIZIONE DELLA
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XLIII
1. PARTE INFERIORE D’UNA STELE FUNERARIA PANNONICA. Trovata in Serbia. Museo di Belgrado. Mio articolo nelle «Röm. Mitt.», 26 (1911), p. 278, fig. 2; S. REINACH, Rép. d. rel., II, p. 160, 2. Ufficio d’un banchiere o di un uomo d’affari. Il banchiere (in abito romano) è seduto su una sedia davanti a un tavolo ripiegabile sulla parete; tiene con la sinistra un trittico, il suo libro mastro (codex accepti et expensi), e sul tavolo v’è un gran sacco contenente monete, le riscossioni della giornata. Di fronte al tavolo sta uno schiavo che legge il suo rapporto giornaliero dall’adversaria o ephemerides (giornale delle entrate). Intorno alla tenuta dei libri presso i Romani, vd. R. BEIGEL, Rechnungswesen und Buchführung der Römer, 1914, cf. C. BARDT, «Woch. kl. Phil.», 1905, pp. 13 sgg. Circa lo sviluppo della civiltà e dell’arte in Pannonia, A. HEKLER in Strena Bulicˇiana, 1924, pp. 208 sgg. 2. BASSORILIEVO DI UN ALTARE VOTIVO(?). Non finito. Trovato a St. Martin-amBacher (Pannonia) in vicinanza d’una cava di pietre. Museo di Pettau. Vd. V. SKRABAR in Strena Bulicˇiana, 1924, p. 159, fig. 9. Un minatore (o piuttosto, forse, la divinità dei minatori, Hercules o Silvanus Saxanus) seminudo, in una galleria, attacca con un grosso piccone da minatore o martello la parete della miniera che gli sta di fronte. Accanto gli stanno alcune lastre di marmo di fresco cavate. La figura richiama alla mente la nota descrizione che STAZIO fa delle miniere aurifere di Dalmazia. (Silvae, IV, 7, 13 sgg.): – quando te dulci Latio remittent Dalmatae montes, ubi Dite viso pallidus fossor redit erutoque concolor auro? È da notare che secondo STAZIO la Dalmazia e la Spagna erano i principali paesi produttori d’oro (Silvae, III, 3, 89-90, cf. I, 2, 153). Confrontare la nostra tav. XXXV, 1 (minatori spagnuoli). ?@ ?@
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3. AKROTERION DI SARCOFAGO. Trovato a Salona. Museo di Spalato. Sec. IV d.C. Busto d’una femina stolata, che certamente apparteneva all’aristocrazia locale. Debbo la fotografia alla cortesia del prof. M. Abramicˇ. 4. CIPPO FUNERARIO DI ULMETUM NELLA MESIA INFERIORE. Museo di Bucarest. C. I. L. III, 12491; V. PÂRVAN, Incepturile vietii 4 Ag co o e de a Me a Romane la gurile Dunarii, 1923, pp. 52 sgg., figg. 31-33: vd. nota 85 a p. 232. Il cippo fu eretto sulla tomba d’un tale C. Iulius C. f. Quadratus, princeps loci e quinquennalis del territorium Capidavense. La parte superiore mostra il dio Silvano, protettore dell’agricoltura e della pastorizia; la parte inferiore, un uomo in atto d’arare un campo. Sull’altro lato è visibile un gregge in una foresta.
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Sotto l’aspetto economico, una delle cose che maggiormente attiravano in Dalmazia i Romani erano le ricche miniere di ferro, che da tempo immemorabile erano state sfruttate dagli indigeni. Per i Romani il possesso di esse era importantissimo per la fornitura di armi agli eserciti del Danubio: esse erano altrettanto importanti e indispensabili quanto le miniere galliche per l’esercito del Reno. Naturalmente esse assai presto furono assunte nell’amministrazione imperiale e gestite da concessionari sotto la direzione di procuratori imperiali. La mano d’opera in esse adibita era fornita dalle tribù indigene, i cui membri da secoli erano assuefatti a questo lavoro. Non abbiamo alcuna informazione intorno alle condizioni alle quali essi lavoravano, ma possiamo supporre che fossero simili a quelle che vivevano nelle miniere di Spagna, dove i singoli pozzi erano subaffittati a piccoli affittuari67. Consimile era lo sviluppo sociale ed economico delle province di frontiera con popolazione celto-illirica o traco-illirica, cioè le due PANNONIE e la MESIA SUPERIORE, ch’erano i centri principali della vita militare dell’Impero sulla frontiera danubiana. Non è nostro proposito descrivere le fasi della conquista e dell’occupazione militare di queste regioni, cosa ch’è stata fatta in modo magistrale dal Mommsen e dai suoi collaboratori nel Corpus delle iscrizioni latine, vol. III; le linee principali di questo processo sono state poi riassunte dal Mommsen medesimo nel vol. V della sua Storia Romana. Nuovi dati sono stati forniti dagli scavi eseguiti dagli Austriaci e dai loro successori in alcuni dei campi più importanti, come Poetovio, Lauriacum, Carnuntum, Aquincum68. Per i fini
del governo romano verso le stirpi risulta per es. dal fatto che Traiano trapiantò molti clans dalmatici nella nuova provincia di Dacia, C. I. L. III, 1332; C. PATSCH, «Wiss. Mitt. aus Bosnien», 6 (1908), p. 110 (dell’estratto). Gli stessi fatti e lo stesso processo si osservano anche nella Spagna e in Africa. Intorno alla persistenza degli elementi locali – nomi locali, vestiario indigeno, concezioni religiose tradizionali – vd. C. PATSCH, Die Herzegowina, pp. 92 sgg. 67. Vd. nota 66. 68. Vd. la pubblicazione dell’Accademia di Vienna, Der röm. Limes in Oesterreich, fascc. I-XV (l’ultimo fascicolo comparve nel 1925), e specialmente le pregevoli annotazioni del defunto E. BORMANN alle iscrizioni; cf. A. ALFOELDI, Der Untergang der Römerherrschaft in Pannonien, voll. I-II, 1923-1926 («Ungar. Bibliothek», 10 e 12). Su Taurunum come stazione di controllo della classis Pannonica: CH. O. STARR, The Roman Imperial Navy 31 B.C.-A.D. 324, Ithaca, 1941, pp. 138 sgg. Intorno ad Aquincum e Carnuntum vd. sopra cap. V, nota 5. Su Lauriacum, A. GAHEIS, Lauriacum. Führer durch die Altertümer von Enns, 1937. Molto istruttivi sono gli scavi sistematici di castelli
romani a settentrione del limes nel paese dei Quadi e dei Marcomanni, intrapresi dal governo cecoslovacco. È interessante osservare, nel corso del sec. II, il continuo progredire dei Romani nel paese dei loro vassalli e come accampamenti romani si siano innestati in rocche celtiche e germaniche. La capitolazione di Commodo di fronte ai barbari pose un miserabile termine a questo processo. A. GNIRS, Limes und Kastelle der Römer vor der norisch-pannonischen Donaugrenze, «Sudeta», 4 (1929), pp. 120 sgg.; cf. IDEM, Die römischen Schutzbezirke an der oberen Donau. Ein Beitrag zur Topographie Böhmens und Mährens zur Zeit des Imperiums, 1929. Una relazione generale sugli scavi
dell’Istituto archeologico di Vienna è data da E. REISCH, «Jahresh. Österr. Arch. Inst.
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del presente libro basterà dir poche parole intorno ai caratteri fondamentali della vita economica e sociale di queste province. Sul medio Danubio, sulla Sava, sulla Drava, lo svolgersi della vita urbana fu dovuto ai grandi centri militari romani, che si spostarono gradualmente dalla Sava alla Drava e infine al Danubio. Siscia e Sirmium sulla Sava, Poetovio e Mursa sulla Drava, Vindobona, Carnuntum, Brigetio, Aquincum, Singidunum, Taurunum, Viminacium, Ratiaria sul Danubio, e Scupi nel territorio degli irrequieti Dardani, erano tutti grandi campi permanenti delle legioni, e alcuni rimasero tali fino al termine della dominazione romana. Taurunum e più tardi Mursa era erano la stazione principale le stazioni principali della flotta danubiana. Ma le guarnigioni romane non erano piantate in mezzo al deserto: stirpi celtiche, illiriche, traco-illiriche occupavano queste regioni, né vennero sterminate dai Romani. In realtà molte di queste fortezze, se non tutte, sorsero nelle vicinanze immediate di grossi villaggi celtici, illirici, tracii. Sappiamo che uno di questi villaggi esisteva accanto a Carnuntum; Siscia era un’importante borgata illirica, centro della tribù dei Colapiani; Scupi e Ratiaria erano rocche rispettivamente dei Dardani e dei Mesii (Traci). Per sovvenire ai bisogni dei soldati larghe strisce di terreno fertile, di praterie, di foreste ecc. furono tolte agli indigeni e assegnate alle fortezze. Le iscrizioni menzionano spesso i prata legionum. Nei secoli secondo e terzo questi terreni erano di solito affittati a soldati69; ma la più gran parte del territorio delle legioni non veniva sfruttata direttamente da essi, sibbene lasciata in mano agli abitanti dei villaggi (vici), che probabilmente erano tenuti a consegnare alle fortezze una parte dei prodotti dei loro campi, prati, foreste, peschiere e così via, e ad aiutare i soldati con lavoro personale. Una buona illustrazione del modo con cui veniva adoperata la mano d’opera indigena è fornita dal cippo funerario d’un soldato della fortezza di Carnuntum: sul frontone è rappresentato il defunto che, con una virga in mano, siede su un carro rustico tirato da due buoi e guidato da un contadino illirico che tiene in mano una sferza e un’accetta. È chiaro che il solda-
Wien», 13 (1916), Beibl., pp. 89 sgg.; per Poetovio (Pettau) vd. M. ABRAMICˇ , «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 17 (1914), Beibl., pp. 89 sgg.; IDEM, Poetovio. Führer durch die Denkmäler der röm. Stadt (1925). Intorno ad Intercisa vd. «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 15 (1912), pp. 174 sgg. e S. PAULOVICˇ , Die röm. Ansiedlung von Dunapentele (Intercisa), «Archaeologia Hungarica», 2 (1928). Sulla civiltà e sull’arte pannoniche vd. A. HEKLER, Kunst und Kultur Pannoniens in ihren Hauptströmungen, in Strena Bulicˇiana (1924), pp. 107 sgg. Cf. cap. V, note 4 e 5. Cf. A. DOBÒ, Inscriptiones extra fines Pannoniae Daciaeque repertae ad res earundem provinciarum pertinentes, Budapest, 19402.
69. Intorno al territorium e ai prata della legione vd. A. SCHULTEN, «Hermes», 29 (1894), pp. 481 sgg., nonché in «R. E.», III, col. 1455; E. BORMANN, Der röm. Limes in Oesterreich, II (1901), pp. 142 sgg. (C. I. L. III, 14356, 3a, cf. p. 2328, 193, 205 d.C.); A. VON DOMASZEWSKI, «Westd. Zeitschr.», 14, 112 sgg.; A. VON PREMERSTEIN, «Klio», 3 (1903), pp. 28 sgg.; cf. J. LESQUIER, L’Armé rom. d’Égypte (1919), pp. 229 sg. Cf. nota 60. Delimitazione del territorio presso Viminacium, C. I. L. III, 8112 (cf. 12656), 228 d.C. FERGUSON, ad Herodian 3, 8, 5: è incerto che i prata legionis fossero un passo nella direzione dell’insediamento di soldati ad imitazione della situazione egiziana.
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TAV. XLIV – VITA E LAVORO IN DALMAZIA: BATTELLIERE DALMATA
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DESCRIZIONE DELLA
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XLIV
STELE FUNERARIA. Trovata in frammenti nelle mura bizantine di Salona. Museo di Spalato. Inedita. Secolo I d.C. La parte superiore della stele era occupata dai busti dei defunti. Alla base una nave a vela. L’iscrizione dice: – C. Utius Sp(uri) f(ilius) testament(o) fieri iussit sibi et P. Utio fratri suo et Clodia(e) F[au]stae concubinae suae. Mult[a per]agratus ego terraque marique debit[um re]ddidi in patria, nunc situs hic iaceo. Stat l[apis e]t nomen, vestigia nulla. Indubbiamente C. Utius era un mercante o un capitano di nave, piuttosto quello che questo, giacché nella sua iscrizione metrica parla di viaggi per mare e per terra. Si osservi la sua umile origine. Debbo la fotografia, la lettura dell’iscrizione e il permesso di riprodurre qui quest’interessante monumento inedito alla cortesia del professore M. Abramicˇ.
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to era comandato al trasporto di legname nella fortezza, e che a tale scopo si serviva di un contadino del vicino villaggio (vd. tav. LXXIV, 2)70. Il territorio delle legioni e le tribù indigene che vivevano in esso si trovavano adunque sotto l’amministrazione e il comando delle autorità militari. Non conosciamo l’estensione di questi prata legionum. È difficile supporre che tutto il terreno delle stirpi abitanti nelle vicinanze del Danubio fosse considerato in senso stretto territorio delle diverse legioni. Ma quale che possa essere stata l’estensione dei prata legionum, sta il fatto che lo sviluppo dei campi permanenti fu uniforme lungo tutto il Danubio. Accanto ad essi crebbero a poco a poco le abitazioni dei borghesi, le cosidette canabae; d’altro lato, i villaggi assegnati alle legioni vennero a mano a mano invasi da forestieri, per lo più antichi soldati delle fortezze medesime, i quali si stabilivano nel villaggio, vi costituivano una comunità di cittadini romani, vi introducevano usi e costumi romani e la lingua latina. Conosciamo, per esempio, una fiorente comunità di questo tipo nelle vicinanze di Aquincum: era chiamata vicus Vindonianus, e alcuni abitanti di essa erano perfino cavalieri romani71. A poco a poco questi villaggi indigeni si fusero con le canabae della fortezza, formando così un unico centro popolato che assunse l’aspetto di vera città. Si edificarono fori e basiliche, bagni, teatri, anfiteatri, si lastricarono le vie, si adottò lo stile architettonico delle case cittadine; e infine a quest’amalgama di canabae e di vici indigeni furono concessi i diritti di un municipio o di una colonia72. Quelle parti delle province danubiane che in senso stretto non erano state assegnate alle fortezze e conservarono il loro ordinamento di tribù, erano governate, almeno nel primo secolo d.C., allo stesso modo che in Dalmazia, da ufficiali militari (praefecti) nominati dall’imperatore o dal governatore della provin-
70. E. BORMANN, Der röm. Limes in Oesterreich, XII (1914), pp. 314 sgg., fig. 37 e 38 (sec. I o inizi del II d.C.). Cf. A. SCHOBER, Die röm. Grabsteine von Noricum und Pannonien, 1923 («Sonderschr. d. Österr. Inst.», X), n. 105, p. 50, fig. 45. Tre iscrizioni trovate in Germania, tutte presso Osterburken (C. I. L. XIII, 6618, 6623), dànno notizia di distaccamenti di soldati (vexillationes), che venivano inviati a tagliar legna nei boschi (lignarii), Der obergermanische-raetische Limes, 33, p. 96, cf. K. SCHUMACHER, Siedelungs- und Kulturgesch., II, p. 161; R. CAGNAT in DAREMBERG e SAGLIO, Dict. d. ant., V, p. 776. 71. C. I. L. III, 10570 (Vörösvar presso Aquincum): dedica di un altare alla triade capitolina, fatta dai possessores vici Vindoniani, tutti cittadini romani, in parte cavalieri (tutti Aurelii, sec. III d.C.) [i]n possessi[o]n(e) Aureli Vettiani eq(uitis) R(omani) permissu eius. Recentemente s’è trovata a Balácza una grande villa, ch’era adornata di begli affreschi, e le cui rovine più antiche risalgono al sec. I d.C. Vd. HORNIG-RHÈ, Balácza («Veszprém», 1912) (con tavole a colori); A. HEKLER in Strena Bulicˇiana (1924), p. 111 e figg. 2 e 3. 72. Uno dei più interessanti fra i documenti rinvenuti negli ultimi tempi presso il Danubio è lo statuto municipale della città formatasi nelle vicinanze del campo di Lauriacum nel Norico (età di Caracalla). Questo frammento è una copia quasi esatta della corrispondente parte dello statuto di Salpensa, vd. BORMANN, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 9 (1906), pp. 315 sgg.; Der röm. Limes in Oesterreich, 11 (1910), pp. 137 sgg.
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cia. Uno di questi prefetti, preposto alla stirpe dei Colapiani, fu il noto Antonio Nasone73. A poco a poco tuttavia anche in questi territori si sviluppò la vita urbana, e alcuni dei villaggi principali diventarono municipi, mentre altri dovettero ospitare colonie di veterani romani. In tal guisa sorsero città come Savaria, Solva, Scarbantia in Pannonia, Ulpiana, Margus, Naissus nella Mesia superiore. Colonie di veterani romani vennero inviate anche a Poetovio in Pannonia e a Scupi nella Mesia superiore, località queste ch’erano state in origine importanti fortezze74. Naturalmente la trasformazione di queste borgate e villaggi in città romane comportava inizialmente una revisione dello stato di proprietà. La parte migliore del terreno fu data ai coloni o ai cittadini delle nuove città, la peggiore venne lasciata alla massa della stirpe indigena. La terra assegnata ai coloni di solito era centuriata alla maniera romana75. Nei territori di questi municipi e colonie vasti tratti di terreno si raccolsero nelle mani di pochi grandi proprietari, in parte indigeni o veterani, in parte forestieri. Nel territorio di Ulpiana, per esempio, ampie tenute appartenevano nel sec. III ad un membro della classe senatoria, C. Furio Ottaviano. Nelle vicinanze di Singidunum un princeps loci
73. In senso largo il territorio d’una legione era costituito da un’intiera provincia (p. es. dalla Numidia per la legio III Augusta). Circa i Colapiani e il loro prefetto L. Antonio Nasone vd. C. I. L. III 14387 ff e fff (DESSAU, 9199); A. VON DOMASZEWSKI, «Philol. Woch.», 1907, p. 162, nota 4; A. STEIN, «R. E.», Suppl. I, col. 97, cf. C. PATSCH, «R. E.», IV, col. 362. Molte altre stirpi sono menzionate in iscrizioni di soldati pannonici, p. es. i Varciani e i Latobici presso Siscia: G.A. REISNER, C.S. FISCHER, D.G. LYON, Harvard Excavations at Samaria (1924), vol. I, p. 20, n. 30, cf. p. 175; i soldati di queste stirpi sono chiamati cives Sicci(ani). 74. La deduzione di colonie di veterani in città già esistenti, alcune delle quali erano state un tempo fortezze, è attestata per Savaria, C. I. L. III, 8199 e 10921; per Scupi, III, 8197, 8199, 8200; per Poetovio, III, 4057: deduct(us) … mission(e) agr(aria) II; cf. la correlativa missio nummaria, W. KUBITSCHEK, «Jahrb. f. Altertumsk.», III, p. 169: L. Gargilius C. f. Quirina Felix Tacapis vet(eranus) leg. I ad. p. f. missione nummaria. Circa i veterani stanziati a Scupi vd. anche N. VULICˇ , «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 13 (1910-11), Beibl. p. 219, n. 31: hic situs est in praedio suo. Per la città di Savaria (od. Steinamanger), colonia claudiana, vd. in generale N. VULICˇ , «R. E.», II ser., II, coll. 249 sgg. Intorno a Scarbantia, IDEM, ibid., coll. 355 sgg. Si osservi la presenza in questa città di agenti dei noti Barbii di Aquileia, C. I. L. III, 14068. Per Solva vd. W. SCHMID, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 19-20 (1919), Beibl., pp. 135 sgg.); L. WICKERT, «R. E.», II ser., III, coll. 987 sg. In questa città appunto venne trovato il frammento dell’importantissimo rescritto imperiale relativo ai centonarii, vd. nota 52. Intorno a Scupi vd. N. VULICˇ , «R. E.», II ser., II, col. 909. La migliore rassegna delle colonie militari degli imperatori romani è quella data da E. RITTERLING, «R. E.», XII (1924), coll. 1214 sgg. e coll. 1239 sgg. (Augusto), 1243 (Tiberio), 1251 (Claudio), 1263 (Nerone), 1273 (Flavii), 1287 (Traiano). 75. Circa la divisione della terra in Pannonia vd. HYGIN., pp. 204 sgg.: multi huius modi agrum (l’ager publicus delle province) more colonico decimanis et kardinibus diviserunt, hoc est per centurias, sicut in Pannonia; cf. J. JUNG, Die romanischen Landschaften, p. 358; W. BARTHEL, «Bonn. Jahrb.», 120 (1911), p. 46; cf. nota 60 e 69. Intorno alla misurazione del solum provinciale vd. A. OXÉ, Die römische Vermessung steuerpflichtigen Bodens, «Bonn. Jahrb.», 128 (1923), pp. 20 sgg.
TAV. XLV – CONFINI MILITARI SUL DANUBIOE PAESI DELLA DACIA (COLONNA DI TRAIANO)
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1-2. PARTE INFERIORE DELLA COLONNA DI TRAIANO. Roma, Foro di Traiano. C. CICHORIUS, Die Reliefs der Traianssäule, tavv. IV-XX, testo vol. II, pp. 17 sgg.; K. LEHMANN-HARTLEBEN, Die Traianssäule (1926), tavv. 5-6. La prima striscia della decorazione della colonna intende dare una veduta del corso inferiore del Danubio. Lo spettatore è sulla riva sinistra, o dacica, del fiume; quel ch’è raffigurato è la riva destra romana. La prima sezione (fig. 1, fascia 1) mostra il sistema di fortificazione del basso Danubio, lungo la piatta riva del tratto del fiume che corre tra la Bulgaria e la Romania d’oggi. La riva romana è protetta da alte torri di legno (burgi), circondate di palizzate. Il pianterreno delle torri era adibito ad alloggio della guarnigione di soldati ausiliari (cavalleria e fanteria), mentre il piano superiore, fornito d’una galleria, serviva come posto d’osservazione da cui si poteva osservare il nemico e dare segnali a mezzo di torce. Accanto alle torri si vedono pile di legname e di fieno, che possono interpretarsi come provviste di materiali da costruzione per riparare gli edifici e di foraggio per i cavalli, ma più probabilmente sono fanali tenuti pronti ad essere accesi (VON DOMASZEWSKI, Marcussäule, p. 109, nota). La sezione vicina (fig. 2, prima fascia, lato sinistro) mostra più civili condizioni di vita sul fiume. I soldati imbarcano vettovaglie per l’esercito, per trasportarle risalendo il fiume dalle città greche poste alle foci di esso e dalla Russia meridionale, o discendendo dall’Italia settentrionale e da Aquileia; una barca è carica di vino, un’altra del bagaglio pesante dei soldati. Sulla riva del fiume vi sono due villaggi o posti romani di sbarco e di deposito – nuclei di future città – entrambi fortificati con palizzate. Più oltre lungo il fiume incominciano le alture (fig. 2, fascia 1, lato destro). Sulla ripida riva del fiume è costruita una città, e i soldati vi trasportano del vino. Dietro la città una robusta fortezza copre una strada che conduce nell’interno del paese e un’altra che costeggia il fiume. Questi bassorilievi dànno un eccellente quadro dell’opera militare e civile compiuta dai soldati lungo il Danubio. Le città e i luoghi di sbarco sono soltanto dei tipi, e non possono sempre identificarsi con qualcuna delle località abitate sul Danubio. Più in alto (striscia 2) incomincia la storia della prima campagna di Traiano in Dacia. L’imperatore ha varcato il fiume ed offre un sacrificio agli dei alla presenza dell’esercito davanti al campo, in mezzo a cui si vede la sua grande tenda (fig. 1, fascia 2). Uno degli episodi che seguono subito dopo è un’allocuzione rivolta dall’imperatore ai soldati (fig. 2, fascia 2). Le scene seguenti riguardano per lo più le opere di fortificazione eseguite dai Romani nelle terre occupate sul nemico, allo scopo di assicurare le retrovie dell’esercito. La fig. 1, fascia 3, raffigura la costruzione di fortificazioni accanto a un fiume su cui si vede un ponte testé costruito; la fig. 2, fascia 3, rappresenta la costruzione d’un ponte di legname e di una fortezza in muratura. Intendendo i Romani restare nel paese, tutte queste costruzioni non avevano soltanto scopo militare: con le legioni, il commercio e la civiltà di Roma marciavano attraverso i ponti e si concentravano nei nuovi centri fortificati di vita romana.
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edificò per sè e per la sua famiglia un bel sepolcreto magnificamente dipinto ed ornato di statue del proprietario e di membri della sua famiglia. Senza dubbio Probabilmente la mano d’opera occorrente a queste ampie tenute era fornita almeno in parte dall’attivo commercio di schiavi che si svolgeva con l’altra riva del Danubio, in parte dalla popolazione indigena76. Non possiamo sapere quanto terreno continuasse ad esser posseduto dalle stirpi indigene e quanti viliaggi non fossero assegnati all’una o all’altra delle città esistenti nel secondo e terzo secolo in Pannonia e nella Mesia superiore. Senza dubbio alcuni distretti, come la Dardania, conservarono il loro antico ordinamento di tribù per molto tempo, forse sempre. Ma anche nelle regioni assegnate alle città e alle fortezze la vita conservò il suo carattere rustico, e il paese mai s’urbanizzo né si romanizzò totalmente. Uno sguardo ai monumenti funerari della Pannonia e della Mesia basta a far vedere con quanta tenacia gli indigeni conservassero le abitudini e i costumi originari77. Diverso era l’aspetto che presentava la provincia di DACIA, l’ultimo acquisto fatto dai Romani sulle rive del Danubio. Dopo la terribile guerra condotta a termine in due campagne da Traiano e dopo lo sterminio sistematico dei migliori elementi indigeni, la Dacia divenne paese di colonizzazione intensiva, salvo alcuni distretti che vennero lasciati alle stirpi indigene. Nelle miniere d’oro della provincia lavorarono i Pirustae dalmati, ivi condotti dalla regione nativa. La terra arabile fu centuriata e distribuita a coloni venuti per la maggior parte dall’Oriente (per esempio dalla Galazia). Non bisogna dimenticare inoltre la forte guarnigione militare dei nuovi confini. Nelle molte e fiorenti città si stabilì una variopinta massa di antichi soldati, di mercanti greci e orientali, e d’altri elementi. Il paese era ricco, e offriva ai nuovi venuti svariatissime risorse: non dobbiamo quindi sorprenderci se nelle città si formò presto un’opulenta borghesia. Per esempio conosciamo ad Apulum una famiglia di mer-
76. A. VON PREMERSTEIN, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 1903, Beibl., pp. 26 sgg.; E. GROAG, «R. E.», VII, col. 358, n. 73, cf. n. 72; C. I. L. III, 8169, cf. 8238, 8240; ULPIANUS, fr. Vat., 220; C. I. L. VI, 1423 e IX, 338 (legatus della Mesia nel 222). Non sarebbe possibile che il pratum Furianum di Carnuntum (nota 69) fosse un tratto di terreno assegnato alla legione appunto da questo C. Furio Ottaviano? Intorno alla tomba dipinta di Brestovica presso Belgrado vd. MILOJE M. VASSICˇ , «Starinar», 1906, pp. 128 sgg. (in serbo). 77. Circa il vestiario delle donne pannoniche vd. MARGARETE LANG, Die pannonische Frauentracht, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 19-20 (1919), Beibl., pp. 208 sgg. Sul vestiario degli uomini vd. J. HAMPEL, «Arch. Ertesitö», 1881, pp. 308 sgg.; 1906, pp. 257 sgg; 1907, pp. 289 sgg.; 1910, pp. 311 sgg. Questo vestiario è essenzialmente di carattere celtico. Cf. A. SCHOBER, Die röm. Grabsteine von Noricum und Pannonien (1923), p. 176. I Pannoni conservavano alcuni culti celtici, p. es. quello delle dee madri, ch’erano venerate in Pannonia col nome di nutrices. Non molto tempo fa fu trovato a Poetovio un santuario di queste «nutrici», vd. K. WIGAND, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 18 (1915), pp. 189 sgg.; cf. un mio articolo in «Archaeologia», 69 (1917-18), pp. 204 sgg. (Appendice III allo studio di F. HAVERFIELD su Cirencester romana). Circa le peculiarità dell’arte e della civiltà della Pannonia vd. A. HEKLER, Strena Bulicˇiana (1924), pp. 107 sgg.
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canti e ricchi proprietari agrari a un tempo, che nella vita della loro provincia avevano quasi la stessa posizione dei Barbii ad Aquileia e nelle province del Norico e di Pannonia78.
78. Intorno alla provincia romana di Dacia in generale vd. J. JUNG, Die romanischen Landschaften, p. 378 e Die Römer und Romanen in den Donauländern, 2a ediz., pp. 114 sgg.; inoltre i pregevoli articoli del BRANDIS, «R. E.», IV, coll. 1967 sgg., (cf. ibid. Suppl. I, p. 263) e di N. FELICIANI in DE RUGGIERO, Diz. ep., II, pp. 1440 sgg, cf. V. VASCHIDE, Histoire de la conquête romaine de la Dacie (1903); R. PARIBENI, Optimus Princeps, I, cap. XII: L’ordinamento della conquista, pp. 309 sgg.; N. VULICˇ , Les deux Dacies, «Musée Belge», 27 (1923), pp. 253 sgg.; [V. CHRISTESCU, Viata economica a Daciei Romane (1929) (con sunto in francese)]. In particolare le due sintesi di storia politica, religiosa e sociale di storia della Dacia di C. DAICOVICIU, La Transylvanie dans l'antiquité, Bucarest, 1938, e di A. ALFOELDI, Daci e Romani in Transilvania, Budapest, 1940. Non posso condividere l'opinione di ALFÖLDI secondo cui i Daci furono completamente sterminati da Traiano. Nessuno si aspetta che io entri in questa sede nella questione molto controversa dell'origine dei moderni Rumeni. Confronta la pregevole raccolta di iscrizioni che si riferiscono alla Dacia e rinvenute al di fuori di essa: A. DOBÒ, Inscriptiones extra fines Pannoniae Daciaeque repertae ad res earundem provinciarum pertinentes, Budapest, 19402 («Dissertationes Pannonicae, I, 1). Per il Banato (che secondo l’autore risponde
alla Dacia Maluensis) vd. C. PATSCH, Beiträge zur Völkerkunde von Westeuropa. II, Banater Sarmaten, «Anz. d. Ak. d. Wiss. in Wien», 62 (1925), pp. 181 sgg. Sul limes dacico vd. EM. PANAITESCU, Le limes dacique, «Bull. de la Section historique de l’Acad. roumaine», 15 (1929), pp. 1 sgg. Intorno alla Dacia preromana vd. IOAN G. ANDRIESESCU, Contributie la Dacia inainte de Romani, (1912); V. PÂRVAN, Getica (1926, in rumeno) e Dacia (1928, in inglese). (Circa la sua concezione della «romanità» della Dacia vd. R. S., «J. R. S.», 19 (1929), p. 102). La popolazione indigena, in quanto non venne assorbita dalle città, viveva in villaggi, C. I. L, III, 7633 (827) e 8060. Il territorio delle città era spartito in pagi, C. I. L. III, 7847, cf. 7852, 7853 e 7868. È molto probabile che almeno una parte della popolazione indigena si sia ribellata ai Romani nei tempi difficili di M. Aurelio: gli insorti massacrarono alcuni membri dell’aristocrazia urbana indigena, vd. C. I. L. III, 1579, 8009, 8021 e C. PATSCH, Unters. V, «Wiss. Mitt. aus Bosnien», 8 (1902), pp. 123 sgg. Una delle più ragguardevoli famiglie di Apulum era quella degli Aelii Marcelli, C. I. L. III, 974, 1001, 1104, 1181, 1182, 1208; un membro maschile di essa venne adottato da un alto ufficiale romano d’origine italica (umbra), C. I. L. III, 1180, cf. 7795 e XI, 5215. Una dedicazione dell’agente d’affari di un membro di questa famiglia è stata rinvenuta nel vicus ad Mediam presso Drobeta (C. I. L. III, 1573a). Altri uomini d’affari in grande erano gli appaltatori delle miniere di sale, dei prati dei dazi (C. I. L. III, 1209, cf. 1393 e 7853): essi ci richiamano alla memoria il noto sindacato famigliare dei Julii, che erano appunto appaltatori di dazi, vd. la mia Gesch. d. Staatspacht, p. 395. Le miniere d’oro e d’argento venivano sfruttate dallo Stato direttamente. Intorno alla città di Sarmizegetusa, capitale della Dacia, vd. C. DAICOVICIU, Fouilles et Recherches à Sarmizegetusa, «Dacia», 1 (1924), pp. 224 sgg. La città di Sarmizegetusa era senza dubbio un gran centro d’affari della Dacia e in generale dei paesi danubiani orientali. Sono degni di nota i due santuari palmireni trovati nella città, dei quali uno si vede ancora (C. I. L. III, 7954, 7955; DAICOVICIU, op. cit., p. 228, cf. C. I. L. III, 7956; il Daicoviciu dà una completa rassegna dei libri che si riferiscono a queste interessanti scoperte). A quanto sembra vi erano nella città almeno due gruppi di mercanti palmireni: non si può pensare a soldati o veterani. Due mercanti siriaci in Dacia sono
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La popolazione originaria della Dacia era composta prevalentemente di Traci, grande e potente nazione dal lungo e glorioso passato. Al pari degli Illirii, anche i Traci appartenevano al ceppo indoeuropeo ed erano strettamente affini per civiltà e religione alle popolazioni della Macedonia e della Grecia. La storia dei Traci è quella di una lotta incessante con nemici che li minacciavano da oriente, da settentrione, da occidente, da mezzogiorno: Sciti, Illirii, Celti, Macedoni, tutti quanti si sforzarono di conquistare la Tracia e tutti fallirono allo scopo. I Romani invece vi riuscirono, ma non senza lunga ed aspra lotta combattuta nelle montagne balcaniche e transilvaniche e nelle pianure ungheresi e rumene. Intorno alla vita economica e sociale dei Traci sappiamo assai poco. Essi ci hanno lasciato un solo monumento scritto, che non riusciamo a decifrare. Anche i dati archeologici sono finora scarsi e poveri. L’unico fatto certo della loro vita economica e sociale è ch’erano un popolo agricolo, la cui vita si svolgeva in villaggi, non in città. Alcuni vilaggi erano fortificati; uno di essi talvolta era stato residenza del re, capoluogo di una o più stirpi: ma non erano veri centri di vita urbana, e non abbiamo alcuna notizia che vi si fossero svolti in modo rilevante il commercio e l’industria. Gli abitanti dei villaggi rimasero sempre contadini, lavoratori del suolo, cacciatori, pescatori, pastori. Internamente erano ordinati a tribù. Lo scambio di merci tra le varie stirpi assumeva la forma di quelle fiere stagionali, che sono ancora il carattere essenziale della vita commerciale di non pochi popoli slavi79.
attestati anche da un’iscrizione recentemente scoperta ad Augusta Traiana in Tracia, dell’età di Alessandro Severo (G. KAZAROV, «Ann. du Musée nat. de Sofie» 1922-26 (Sofia, 1926), p. 121 (in bulgaro); S. E. G., III, 537). Uno di questi mercanti è chiamato nell’iscrizione ujnevmporo~ th`~ Dakiva~, dove il Kazarov legge ªsºunevmporo~, il WILHELM (S. E. G., III, 537) ªoijºnevmporo~. Poiché l’omissione del s sarebbe singolare e non ispiegabile, io accetto la lezione del Wilhelm. Il secondo è detto bl th`~ Dakiva~, che forse dovrebbe risolversi in b(ou)leuth;~ th`~ Dakiva~. In questo bouleuthv~ (se veramente è tale) dovrà vedersi un membro di una boulhv costituita in Occidente secondo l’uso orientale da una società d’affari? I mercanti siriaci hanno la loro sede in Tracia, ma mantengono vivi rapporti commerciali con la Dacia. Se la lezione del WILHELM è esatta, l’iscrizione attesta che la produzione del vino della Tracia era importante anche nell’età romana e che la Tracia allora riforniva di vino la Dacia. Cf. l’associazione di mercanti costituita secondo la maniera greca a Perinto, E. KALINKA, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 23 (1926), Beibl., p. 172, n. 121 (età ellenistica); [J. DOBIASˇ , Les Syriens dans le bassin du Danube, «Bidluv Sbornik», Praga, 1928, pp. 15 sgg.]. 79. Intorno ai Traci e alla Tracia in generale vd. il pregevole libro di G. KAZAROV, Beiträge zur Kulturgeschischte der Thraker, «Zur Kunde der Balkanhalbinsel», II, Quellen und Forschungen, 5, Sarajevo, 1916; IDEM, I Celti nell’antica Tracia e in Macedonia, «Scritti dell’Accademia bulgara delle scienze», 18 (1919), pp. 41 sgg. (in bulgaro); IDEM, La Bulgaria nell’antichità (1926, in bulgaro); [IDEM, Cambr. Anc. Hist., VIII, pp. 534 sgg. e vol. di tavole III, tavv. 52-76]; N. VULICˇ , Les Celtes dans le Nord de la Peninsule Balcanique, «Musée Belge», 30 (1926), pp. 231 sgg.; S. CASSON, Macedonia, Thrace and Illyria (1926). Nella vita delle tribù traciche verosimilmente la parte dirigente era tenuta da una nobiltà feudale, mentre la massa della popolazione viveva in con-
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I Traci vennero per la prima volta a contatto coi Romani sul basso Danubio nella MESIA INFERIORE. Questa regione veramente fu ordinata in provincia procuratoria soltanto dopo l’annessione dei Traci balcanici operata da Claudio, e in regolare provincia imperiale dopo le guerre daciche di Traiano, ma in fatto era stata sotto la dipendenza romana sin dai tempi d’Augusto e di Tiberio80. La supremazia romana fu riconosciuta anzitutto dalle città greche
dizioni simili a quelle degli Hiloti e dei Penesti (G. KAZAROV, Beiträge, p. 17). È difficile dire se il noto quadro del sistema sociale ed economico dei Geti, che troviamo in HOR., Carm., III, 24, si fondi su conoscenze reali o su una rappresentazione indeterminata e ideale della vita dei «barbari» in generale, applicata arbitrariamente a quelli. Le sue parole, campestres melius Scythae […] vivunt et rigidi Getae, inmetata quibus iugera liberas fruges et Cererem ferunt nec cultura placet longior annua, defunctumque laboribus aequali recreat sorte vicarius, per quanto indeterminate, sembrano dire che i Traci tenevano la terra in possesso comune e che la proprietà privata di essa era loro sconosciuta, il che in realtà non è inconciliabile con le condizioni implicite nella servitù. Non mi sembra così certo come al Karazov che Orazio non abbia fatto altro che ripetere un luogo comune (op. cit. pp. 43 sgg., con buona bibliografia) Cf. condizioni consimili nella Spagna e in Illiria, nota 58. Piuttosto inclino a ritenere che Orazio abbia preso i suoi dati da una qualche fonte più antica che rappresentava le condizioni vigenti in Tracia prima che vi si facesse sentire la forte influenza greca e romana. Verosimilmente i sudditi di Burebista e di Decebalo in Dacia e quelli dei re vassalli odrisii della Tracia conducevano una vita meno primitiva. Per le condizioni sociali ed economiche dei Traci vd. G. KAZAROV, Beiträge, pp. 26 sgg. (stanziamenti e fortificazioni) e pp. 36 sgg. (agricoltura, viticoltura ecc.), e per l’età romana, IDEM, La Bulgaria nell’antichità, pp. 59 sgg. 80. Per la storia delle regioni traciche in generale (esclusa la Dacia) nell’età romana, vd. G. KAZAROV, La Bulgaria nell’antichità (1926, in bulgaro), pp. 48 sgg.; B. FILOV, Il dominio romano in Bulgaria, «Bibl. stor. bulgara», I, 1928 (in bulgaro). Sulla provincia della Mesia vd. A. VON PREMERSTEIN, Die Anfänge der Provinz Moesien, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», I (1898), Beibl., pp. 146 sgg.; S.E. STOUT, The Governors of Moesia (Princeton 1911). Circa l’occupazione militare della Mesia vd. BEUCHEL, De legione prima Italica (1903); B. FILOV, Die Legionen der Provinz Moesia, «Klio», Suppl. 6 (1906); H. VAN DE WEERD, Étude historique sur trois légions romaines du Bas Danube (1907); J. WOLKO, Beiträge zur Geschichte der legio XI Claudia (1908); B. FILOV, Le truppe ausiliarie romane nella Mesia, «Scritti della Soc. storica bulgara», 1906, pp. 11 sgg. (in bulgaro); E. RITTERLING, «R. E.», art. Legio (sotto le rispettive legioni). Cf. R. PARIBENI, Optimus Princeps, I, pp. 335 sgg. e B. FILOV, «Boll. della Soc. archeologica bulgara», 5 (1915), pp. 191 sgg. (in bulgaro). Intorno all’occupazione militare della Russia meridionale vd. i miei Iranians and Greeks, pp. 152 e 234. Le condizioni sociali ed economiche della Mesia hanno ricevuto nuova luce dai recenti sistematici e fortunati scavi del defunto V. PÂRVAN; di essi si hanno negli scritti dell’Accademia romena («Analele Academiei Romane») relazioniche sono citate nei lavori del PÂRVAN, Sulle origini della civiltà romana (Roma 1922) e I primordi della civiltà romana alle foci del Danubio, «Ausonia», 10 (1921), pp. 187 sgg., nei quali è messo a frutto il nuovo materiale; cf. il suo libro romeno Inceputurile vietii romane la gurile Dunarii (1923, in «Tara noastra»). Di alcuni luoghi delle nuove iscrizioni da lui pubblicate ha proposto nuove lezioni A. WILHELM, «Anz. d. Ak. d. Wiss. in Wien», 59 (1922), pp. 30 sgg. Intorno alle condizioni preromane della Mesia e alla civiltà greca V. PÂRVAN, La pénétration hellénique et hellénistique dans la vallée du Danube, «Bull. de la section historique de l’Acad.
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delle rive del Mar Nero, già ricchi e potenti centri di vita greca: Histria, Tomi, Callatis, Dionysopolis, Odessos81. L’unica possibilità di riacquistare un poco dell’antica prosperità era rappresentata per esse dallo stabilirsi di una vigorosa potenza politica sul Danubio e nel Mar Nero. Allorché il governo romano ebbe reso sicuro il basso Danubio con una catena di fortezze (Oescus, Novae, Ratiaria, e dai tempi di Traiano Durostorum e Troesmis), il territorio delle tribù traciche abitanti sul basso Danubio e in prossimità alle rive del Mar Nero divenne per forza di cose il retroterra così delle fortezze romane come delle antiche città greche. Senza un razionale ordinamento della vita economica e sociale, tanto le fortezze quanto le città sarebbero rimaste dipendenti dall’incerta importazione di viveri da paesi molto lontani. Questo è il motivo per cui i Romani posero tanta cura nell’ordinare la provincia della Mesia inferiore e mostrarono tanto interessamento per la sorte delle città greche sul Mar Nero dentro e fuori le frontiere romane, alle foci del Dniester (Tyras) e del Dnieper (Olbia) e in Crimea. Finché la Dacia rimase indipendente, neppure il più intensivo sfruttamento della Dobrugia poteva provvedere l’esercito romano e le città di viveri sufficienti. Era perciò gradita l’importazione dalla Russia meridionale: ma ciò implicava che il governo romano facesse servizio di polizia nel Mar Nero e desse protezione militare alle città greche della Russia meridionale82. Come in Dacia e in Tracia, anche nella Mesia inferiore i fondamenti dell’urbanizzazione del paese furono posti da Traiano dopo la conquista della
roumaine», 10 (1923); cf. il suo libro Getica e il riassunto di esso in inglese Dacia, 1928. Intorno alla religione, J. TODOROV, Il paganesimo in Mesia, divinità e culti pagani, 1928 (in bulgaro, con sunto inglese). 81. Intorno a queste città vd. Die ant. Münzen Nordgriechenlandes, I, 1 (1898); 2 (1910) e gli articoli relativi della «R. E.» Cf. i lavori del PÂRVAN su Tomi, Histria e Callatis, «Analele Academiei Romane», 1915, 1916, 1920 e PÂRVAN, Fouilles d’Histria. Inscriptions: troisième série: 1923-25, in «Dacia», 2 (1925), pp. 198 sgg.; IDEM, Une nouvelle inscription de Tomi, ibid., 1 (1924), pp. 273 sgg.; TH. SAUCIUC-SAVEANU, Callatis, ibid., I, pp. 108 sgg. e II, pp. 104 sgg.; O. TAFRALI, La cité pontique de Callatis, «Rev. Arch.», 21 (1925), pp. 238 sgg. e «Arta si Archeol.», I (1927). Su Dionysopolis e dintorni vd. O. TAFRALI, La cité pantique de Dionysopolis, Kali-Acra, Cavarna, Téké et Ecréné (1927). È interessante l’iscrizione riportata dal Tafrali, p. 71, n. 10, la quale attesta a Cavarna l’esistenza di abitanti d’origine scitica e di un misterioso thiasos dei Tauroi (bacchico?). Su Odessos (Varna), vd. A. SALACˇ e K. SKORPIL, Nékolik Archeologicky´ch Památek z Vy´chodniho Bulharska (Cˇeska Akad. ved. a Umeˇ ni), 1928, cf. L. ROBERT, «Rev. de philol.», 3 (55) (1929) p. 150 n. XVIII (serie di nuove interessanti iscrizioni). È interessante vedere quanto fortemente fosse rappresentato l’elemento orientale anche nelle nuove colonie di Traiano, vd. l’iscrizione di Ratiaria presso I. VELKOV, «Ann. du Musée nat. de Sofie», 1922-25, p. 138 n. 1. 82. Questa è la ragione per cui la Russia meridionale era difesa da distaccamenti delle legioni della Mesia e da truppe ausiliarie. Per l’esercito della Mesia gli approvvigionamenti venivano appunto da Tyras e da Olbia. Il regno del Bosforo costituiva il retroterra degli eserciti di Cappadocia e d’Armenia, vd. i miei Iranians and Greeks, pp. 147 sgg., cf. TAC., Ann., XIII, 39 e cap. VIII nota 4. Per la Dobrugia vd. J. WEISS, Die Dobrudscha im Altertum, «Zur Kunde der Balkanhalbinsel», I. Reisen und Beobachtungen, vol. 12.
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Dacia. Traiano appunto concesse alle stazioni sorte presso gli accampamenti di Ratiaria e di Oescus il grado di colonie romane, dopoché le legioni erano state trasferite di là a Singidunum e Troesmis, e fondò le nuove città di Tropaeum Traiani, Nicopolis ad Istrum, Marcianopolis. Tuttavia la regione non s’urbanizzò mai integralmente: rimase paese di villaggi e di ampie campagne. L’ordinamento sociale ed economico della provincia esigeva anzitutto la revisione dei diritti di proprietà sulla terra. Il paese fu suddiviso in territori assegnati alle fortezze, alle città greche, agli abitanti indigeni. Una parte di questi ultimi del resto erano stati trapiantati qui dai Romani, che li avevano fatti venire dai monti dell’odierna Bulgaria e dai paesi d’oltre Danubio. Per ciò che concerne i territori militari, i provvedimenti presi nella Mesia inferiore non differirono da quanto si fece in Dalmazia, in Pannonia, nella Mesia superiore, e l’evoluzione seguì le medesime linee83. Nelle antiche città greche i Romani si proposero anzitutto di risvegliare la loro decaduta attività economica e d’infonder loro fresco vigore attirandovi nuovi abitanti. È evidente che appunto a questo fine essi ingrandirono i loro territori e attribuirono ad esse non pochi villaggi indigeni. Alle città vecchie e nuove concessero liberamente la cittadinanza romana. Naturalmente gli abitanti dei villaggi assegnati alle città non avevano alcuna parte nel governo di esse: secondo il concetto romano rimasero peregrini, dal punto di vista delle città erano «abitanti del vicinato» (incolae, pavroikoi). All’incontro, se un abitante di città acquistava terreno nel territorio d’un villaggio diventava senz’altro membro della comunità del villaggio medesimo. Essendone costoro i membri più ricchi, formavano, insieme con gli anziani indigeni, il «senato» del
83. V. PÂRVAN, Descoperiri novaˇ in Scythia Minor, «Analele Academiei Romane», 1913, pp. 491 (25) sgg. sul territorio di Troesmis (legio V Macedonica) e pp. 502 (36) sgg. sul territorio di Noviodunum, dove prima di Diocleziano si trovava il quartiere generale della classis Flavia Moesica, cf. C. I. L. III, 14448 (178 d.C.): – c(ives) R(omani) v(eterani) vico Nov(o), cf. 14447 e 12487. Cf. il suo articolo nella «Riv. di filol.», 2 (52), 1924, pp. 307 sgg. intorno allo svolgersi del municipium Aurelium Durostorum dalle canabae della legio XI Claudia. Sotto Antonino Pio la località era ancora soltanto lo stanziamento dei cives Romani et consistentes in canabis Aeliis legionis XI Claudiae, C. I. L. III, 7474; dei primi anni di M. Aurelio abbiamo una dedica di veterani legionis XI Claudiae p. f. missi IIII co(n)s(ulatuum) (pubblicata per la prima volta dal PÂRVAN, op. cit.); in un’iscrizione del 169-176 (pubbl. dal PÂRVAN, op. cit.), la città vien chiamata municipium Aurelium. Cf. J. TODOROV, Durostorum, 1927 (in bulgaro). La città meglio studiata è Nicopolis ad Istrum, dove furon compiuti degli scavi nel 1900 e nel 1905. Essa fu fondata da Traiano all’incirca tra il 114 e il 116, e presenta quasi la stessa pianta dell’altra contemporanea colonia africana di quest’imperatore, Timgad: senonché qui alla città civile disposta a foggia di accampamento militare con edifici per la popolazione borghese – sono stati scavati il foro, il teatro, la curia (?) – fu aggiunto un forte castello. Lo stesso fecero i Romani, sia detto di passata, anche nel Chersoneso e in Crimea, dove almeno sin dai tempi di Adriano e d’Antonino Pio stanziava una forte guarnigione romana. Le migliori piante della città di Nicopoli e i migliori tentativi di ricostruzione si hanno presso S. BOBCˇ EV, Nicopolis ad Istrum, «Bull. de l’Inst. archéol. bulgare», 5 (1928-9), p. 56 (con bibliografia completa); cf. G. I. KAZAROV, Nikopolis, «R. E.», XVII, 1 (1936), coll. 518 sgg. Cf. cap. V, nota 4.
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villaggio, e in tale qualità nominavano i «capi», i magistri o magistratus. Tutti i villaggi di un dato territorio nominavano a turno una persona che rappresentasse l’intiero territorio: costui assumeva il titolo di quinquennalis e probabilmente aveva l’obbligo di ripartire tra i possidenti del villaggio i pagamenti dovuti allo Stato e alla città, nonché i servizi personali84.
84. La maggior parte dei cittadini delle città greche portava i gentilicia degli imperatori: vi erano i Flavii, i Cocceii, gli Ulpii, gli Aelii, precisamente come ad Olbia, nel Chersoneso e a Panticapaeum. Questa circostanza, insieme coi loro cognomina greci, mostra ch’essi non erano immigrati dall’Italia o dalle province romanizzate, sibbene per lo più indigeni delle città del Mar Nero o immigrati dall’Asia Minore: vd. C. I. L. III, 7532, in cui Greci del Mar Nero, della Galazia, della Cappadocia, del Ponto, della Bitinia portano tutti gentilicia romani, cf. V. PÂRVAN, I primordi ecc., p. 196. Il PÂRVAN esagera alquanto il grado di romanizzazione delle città greche del Mar Nero; cf. tuttavia le sue giuste osservazioni in «Histria», VII («Mém. de l’Acad. roumaine. Section istrienne», III, 2, 1) pp. 42 e 114 (intorno a un elenco di nomi, forse di membri della gherusia di Histria). Nonostante i loro nomi romani, gli abitanti di queste città, come quelli di Olbia, del Chersoneso, della Russia meridionale, restano greci, almeno di lingua. Può essere utile enumerare, fin dove giungono le nostre conoscenze geografiche, alcuni dei villaggi (vici) attribuiti alle città. I meglio conosciuti sono i territori di Histria e di Tomi. Sei iscrizioni, quasi tutte dell’età d’Antonino Pio e di M. Aurelio, son dedicate alla massima divinità dell’Impero romano dai veterani et cives Romani et Bessi consistentes nel vicus Quintionis (PÂRVAN, «Histria», IV, p. 617 e VII, p. 55, nn. 46-52). Il vico era amministrato da due magistri, uno romano e l’altro indigeno, e da un quaestor. Due iscrizioni della medesima età (C. I. L. III, 7526 e PÂRVAN, «Histria», VII n. 53) parlano di un vicus Celeris e menzionano un magister. Vicus Casianus: due iscrizioni, PÂRVAN, Descoperiri novaˇ in Scythia Minor, «Analele Academiei Romane», 1913, pp. 534 sgg. Vicus Secundini: PÂRVAN, «Histria», VII, n. 61. Vicus Narcisianus: PÂRVAN, Inceputurile vietii Romane la gurile Dunarii (Bucarest, 1923), p. 147; I. G. R. R. I, 599: e[rgon tou` ajbitorivou (latrina) kateskeuvasan … th`/ kwvmh/ uJpe;r magistravth~. Vicus turre Muca(poris oppure -tralis): C. I. L III, 7533; cf. 7536. Vicus Amlaidina, ibid., 13743. Vicus Hi…, ibid., 12494. In territorio di Carsium: vicus Verobrittianus, ibid., 12479 (14440). Territorio di Aegyssus: ibid., 14441 e 14442; di Callatis: Asboleidini e Sardeis, vici o stirpi (?), ibid., 14214, 33. Cf. PÂRVAN, Cetatea Ulmetum, «Analele Academiei Romane», 1912-1914, I, pp. 591sgg. e II, 2, pp. 397 sgg. (elenco di vici). È facile vedere che alcuni di questi vici prendevano il nome da qualche eminente abitante romano, Quntio, Secundinus, Narcissus, Celer ecc., proprietario d’una grande tenuta nel territorio del vico; altri avevano denominazioni geografiche; altri ancora uno speciale epiteto descrittivo come il vicus Casianus: nelle iscrizioni delle pietre terminali del suo territorio (o{roi Kasianw`n sphlouvcwn) gli abitanti son detti abitatori di caverne, quali erano probabilmente in realtà (non credo alla spiegazione religiosa data dal PÂRVAN). In alcune iscrizioni dei territori di Tomi e di Histria (C. I. L. III, 7533 e PÂRVAN, «Histria», VII n. 61, pp. 96 sgg., entrambe del sec. III, cf. PÂRVAN «Dacia», 2 (1925), p. 241 nn. 41 e 43) gli abitanti son detti cives consistentes et Lai (Histria) oppure Lae (Tomi). È certo che il nome di Lai (come anche quello di Bessi, Daci, ecc. vd. nota 85) era quello d’una stirpe; come è stato dimostrato dal PÂRVAN e dal CASSON (V. PÂRVAN, Fouilles d’Histria. Inscriptions: troisième série: 1923-1925, «Dacia», 2 (1925), pp. 241 sgg., e S. CASSON, Thracian tribes in Scythia Minor, «J. R. S.», 17 (1927), pp. 97 sgg.), esso come denominazione d’una stirpe peonia ricorre in TUCIDIDE nella forma Laiai`oi e in
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Lo stesso tipo d’ordinamento si svolse nei territori delle stirpi indigene. Anche qui i cittadini romani, per lo più veterani o immigrati da altre province danubiane, assumevano parte importante nella vita delle comunità di villaggio. Questi nuovi residenti, naturalmente, erano gli strumenti principali dell’influenza romana, ma in fatto non riuscirono mai ad assorbire la popolazione indigena e a romanizzarla interamente. Insieme con pochi indigeni più ricchi essi costituivano una piccola minoranza di proprietari agiati in mezzo a una massa di contadini indipendenti e di coloni, che lavoravano per essi la terra85.
STEFANO BIZ. Laivnoi. È interessante osservare col CASSON, come i Romani abbiano trapiantato nelle steppe della Dobrugia alcune stirpi guerriere, come quelle dei Bessi dell’Haemus (vd. nota seguente) e dei Lai della Peonia, le quali vi impararono a condurre la vita pacifica del contadino. Cf. L. WICKERT, «Jahrb. d. d. arch. Inst.», 44 (1929), Arch. Anz., p. 193. 85. Il miglior esempio d’un territorio di stirpe avente come centro un castellum romano è quello di Capidava, che non aveva l’ordinamento d’una città né quello di un campo, con la grande e fiorente borgata di Ulmetum. La popolazione di questa regione constava di Daci, di Bessi, e di cittadini romani C. I. L. III, 14214, 26 (140 d.C.), cives Romani et Bessi consistentes vico Ulmeto; cf. PÂRVAN, Descoperiri novaˇ in Scythia Minor, «Analele Academiei Romane», 1913, pp. 471 sgg. (cf. p. 539) e C. I. L. III, 12491 (150 d.C.); V. PÂRVAN, Primordi, p. 199. Altri villaggi del medesimo territorioerano il vicus Clementianus (C. I. L. III, 7565; V. PÂRVAN, Primordi, p. 203, cf. C. I. L. III, 12488) e il vicus Ultinsium (PÂRVAN, «Jahrb. d. d. arch. Inst.», 1915, Arch. Anz., p. 239; Ann. ép., 1922, n. 65). Uno dei ricchi Romani di Capidava, C. Julius C. f. Quadratus, princeps loci e quinquennalis territorii Capidavensis (C. I. L. III, 12491 cf. PÂRVAN, Inceputurile vietii Romane la gurile Dunarii, pp. 52 sgg., figg. 31-33) sul suo altare funerario fece rappresentar se stesso (?) vestito alla consueta foggia locale (camicia, uose, mantello), e inoltre il dio Silvano, protettore dei suoi campi e dei suoi prati, e due scene della vita della sua tenuta: una pecora che pascola in una foresta (?), e uno dei suoi coloni che ara i suoi campi nelle vicinanze d’un bosco. È degno di rilievo il fatto che gli abitatori del territorio costituivano un’associazione religiosa in onore di Silvanus Sator sotto il nome di consacrani, PÂRVAN, «Jahrb. d. d. arch. Inst.», 1915, Arch. Anz., pp. 240 sg.; Ann. ép., 1922, nn. 67 e 70. Altri agiati proprietari terrieri del luogo: L. Iulius Iulianus qui et Rundacio (PÂRVAN, Castrul dela Poiana, «Analele Academiei Romane», 1913, pp. 103 sgg.); L. Pompeius Valens di Ancyra nel territorio di Histria (C. I. L. III, 12489); M. Ulpius Longinus, sepolto in praedio suo nel territorio di Tomi (C. I. L. III, 770); M. Atius T. f. Firmus, loci princeps, in territorio di Tomi (ibid., III, 722); Cocceius Valens e Cocceia Iulia, obiti ad villam suam, di Ulmetum e Capidava (ibid., III, 13737); Cocceius Elius, che eresse una tomba a Titia Matrina, obita ad villa(m) sua(m) (ibid., III, 14214, 20). Nelle iscrizioni sono menzionate anche persone di condizione più elevata: C. I. L. III, 12463 nomina un vilicus L. (A)eli Marcelli c. v.; ibid., III, 12419, 14447 e PÂRVAN, Histria, «Analele Academiei Romane», IV (1916), pp. 633 (101) sgg., n. 30: termin(i) positi inter [G]essi Ampudi [villa]m et vicanos B… eridavenses (preferisco il ben noto nome di Gessio al poco adatto Besso). Oltre ai Bessi le pietre terminali menzionano anche altre stirpi indigene: Moesi et Thraces, C. I. L. III, 749, 12345, 12407, 14422, 1; DESSAU, I. L. S., 5956; (col PÂRVAN io credo che queste pietre non segnino il confine tra le province di Tracia e di Mesia); Daci (ibid., III, 14437, 3). Verosimilmente i Trullenses (sull’Oescus: ibid., III, 14409 e 14412, 3) non appartene-
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A mezzogiorno della Mesia inferiore, nel paese collinoso e montuoso degli odierni Bulgari, i Traci, un tempo soggetti alla dinastia degli Odrisii ma dai tempi di Claudio incorporati nella provincia romana della TRACIA, conservarono per circa un secolo il loro antico ordinamento e la loro vita di tribù e di villaggio86. Centinaia di villaggi erano disseminati per i colli, i monti, le vallate, le pianure. I loro abitanti erano rudi contadini, lavoratori della terra, pastori, ortolani, cacciatori, come sono anche oggi; e fornivano all’esercito romano robusti e valenti soldati di fanteria ed eccellenti truppe a cavallo. Per poter avere tali soldati in copia sufficiente per le numerose coorti di Traci, il governo romano conservò immutato l’ordinamento interno quale era stato sotto i re. L’unità fondamentale era il villaggio; un certo numero di villaggi formava una «comarchia» (kwmarciva); tutti i villaggi di una stirpe, o in altri termini un aggregata di comarchie, rappresentavano l’unità amministrativa e territoriale d’una stirpe (fulhv). Infine, una o più stirpi formavano un distretto (strathgiva) sottoposto a un comandante militare87.
vano al territorio di una città, come non vi apparteneva il vico menzionato nell’iscrizione III, 7466; E. KALINKA, Antike Denkmäler in Bulgarien, «Schriften der Balkankommission», 4 (1906), n. 128 (153 d.C.). 86. Per la provincia di Tracia, vd. D. KALOPOTHAKES, De Thracia provincia romana, 1893; A. STEIN, Römische Reichsbeamten der Provinz Thracia (Seraievo, 1921); E. KALINKA, Antike Denkmäler in Bulgarien, 1906 («Schriften der Balkankommission», 4); G. KAZAROV, La Bulgaria nell’antichità, 1926 (in bulgaro), pp. 48 sgg. Relazioni sugli scavi in corso vengono pubblicate dal «Bull. de la Soc. archéol. bulgare» e dal 1923 nel «Bull. de l’Inst. archéol. bulgare» (in bulgaro con sunti in tedesco e in francese), come pure nelle «Arch. Anz.» dell’Istituto archeologico tedesco. Cf. l’utile bibliografia di B. FILOV, «Ann. du Musée nat. de Sofie» (1922-25), pp. 618 sgg. (età classica) e pp. 628 sgg. (antichi Traci). Intorno alle città greche della Tracia vd. F. MUENZER e M. STRACK, Die antiken Münzen von Thrakien, «Die antiken Münzen Nordgriechenlands», II (1912). Intorno ai primi Romani stabilitisi in Tracia (quando questa era ancora un regno sotto l’alta sovranità di Roma), vd. E. KALINKA, Altes und Neues aus Thrakien, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 23 (1926), Beibl., p. 118, n. 1. Un’ottima esposizione dell’attività di Traiano nei riguardi dell’urbanizzazione della Tracia si ha in A. VON DOMASZEWSKI, Gesch. d. röm. Kaiser, II, pp. 177 sgg. e in B. FILOV, «Bull. de la Soc. archéol. bulgare», 5 (1915), pp. 189 sgg. 87. I. G. R. R. I, 721 (E. KALINKA, op. cit., n. 55): kwmavrcia Zhrkoªlhºnh; kai; kwªmºarciva Zªelºobastanh; caristou`men dia; kwªmhºtw`n Brentopavrwn kai; Mwsughnªw`ºn, eujcaristou`men Aujrhlivªw/º Kardevnqh Beiqunikoªu`º genomevnw/ fulavrcw/ fulh`~ ÔEbrhivdo~ a[rxanti ejn hJmei`n aJgnw`~ kai; ejpieikw`~ kata; tou;~ novmou~, cf. ibid., 728 (E. KALINKA, op. cit., n. 100) e 677 (E. KALINKA, op. cit., n. 135): Ti. Cl(audius) Theopompus strathgo;~ ∆Astikh`~ peri; Pªevºrinqon, Shlhtikh`~ ojreinh`~, Denqªelºhtikh`~ peªdiaºsivªaº~. Si notino gli stretti rapporti tra villaggi e soldati, ibid., 738: ajgºaqh`/ tuvch/ ⁄ ªkºwmh`te Zulou⁄zhnu; Aujrhlivw/ Mo⁄ukianw`/ Eijoulianou` p⁄rhtwrianw`/: e[lab⁄en eujcaristhvria ⁄para; kwmhtw`n. Intorno alle strategiai dei Traci G.I. KAZAROV, Beiträge zur Kulturgeschichte der Thraker, p. 19, nota 1. Può darsi che nel corso del sec. II alcune di esse siano state incorporate nei territori di nuove città (PLIN., Nat. hist., IV, 11, 40, ne conosce cinquanta, PTOL., III, 11, 6 soltanto quattordici). Sarebbe superfluo addurre testimonianze intorno al carattere rurale
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La pace romana e la facilità di vendere a buone condizioni i prodotti delle fattorie agli agenti dei posti militari romani e ai mercanti delle città greche della costa (Mesembria, Anchialus, Apollonia sul Mar Nero, Aenus, Maroneia, Abdera sull’Egeo) apportarono il benessere ai contadini tracii. I loro antichi mercati di tribù, in cui si tenevano le fiere stagionali (ejmpovria), a poco a poco si svilupparono in vere città. Alcuni nuovi mercati, a un tempo piazze forti, come l’ejmpovrion di Pizus, furono creati dal governo romano88. Cittadini roma-
della vita economica della Tracia nell’età romana; si osservi il tipo agreste di quasi tutte le divinità adorate nelle cappelle di questa regione e la parte che divinità come Dioniso e le Ninfe hanno nei culti locali. Anche il cavaliere tracico in sostanza è un dio della fertilità. Vedi nota 90. A questo proposito voglio ricordare la nuova interessantissima iscrizione, che attesta nella Tracia meridionale l’allevamento del bestiame, e forse in maniera speciale dei cavalli: è stata trovata recentemente a Cillae (Kevllai) sulla strada che unisce Filippopoli ad Adrianopoli («Bull. de l’Inst. archéol. bulgare», 5 (1928-29), p. 379; G. KAZAROV, «Eos», 32 (1929), p. 143). È una dedica al grande «Heros», posta da un [Aurelius] Proculus ejpikthneivth~ su;n Eujtucianw`/ kollhvga
88. DITTENBERGER, Syll.3, 880 (2932); I. G. R. R. I, 766. I villaggi davano ai nuovi luoghi di mercato contributi di abitatori. Presso Augusta Traiana, nell’odierna Gostilitza, troviamo uno di questi emporia: Diskodouratevrai ejmpovrion («duplice salda fortezza»). Conosciamo quest’emporio fortificato per mezzo di alcune iscrizioni, di cui la più antica risale all’età di M. Aurelio, la più recente a quella d’Aureliano, vd. I. VELKOV, «Ann. du Musée nat. de Sofie», 1922-25, pp. 129 sgg., nn. 1-4, cf. I. G. R. R. I, 591. Altra località dello stesso tipo era Dia in Bitinia, ibid., III, 1427; cf. IV, 863 (Laodicea ad Lycum). Gli abitanti di questi mercati fortificati non erano cittadini d’una città, ma si qualificano ejnoikou`nte~ o oijkhvtore~ o katoikou`nte~, termini che corrispondono a quello latino di incolae. La nuova località non è dunque una città (povli~). Probabilmente una costituzione identica o somigliante aveva l’emporium di Nauna presso Gallipoli in Italia, C. I. L. IX, 10; PLIN., Nat. hist., III, 11, 105; G. LUGLI nel, Diz. ep., del DE RUGGIERO, II (1922), p. 2108. Cf. anche l’emporium presso Piacenza, LIVIO, 21, 57. Il nome greco ejmpovrion, adoperato in Tracia, mostra che i Romani nel costituire nuovi luoghi stabili di mercato non fecero altro che seguire un’antica pratica greca (probabilmente ellenistica). Gli ejmpovria della parte orientale greca dell’Impero possono paragonarsi ai fora e conciliabula dell’Italia primitiva (E. DE RUGGIERO, Diz. ep., III, p. 198; A. SCHULTEN, «R. E.», VII, col. 62): la differenza consisteva in ciò, che gli abitanti degli ejmpovria provinciali non appartenevano alla cittadinanza romana, e che i nuovi stanziamenti erano in massima parte creazioni artificiali, volute con l’intento finale di
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ni vennero a stanziarsi nelle regioni più ricche. Per qualche tempo il governo romano si tenne alquanto passivo e non fece alcuno sforzo vigoroso per promuovere in Tracia la vita di città, né s’ingerì nella vita delle poche città greche dell’interno (Philippopolis). Un’unica colonia romana venne stabilita sotto Claudio (Apri), un’altra (Deultum) sotto i Flavii. Il primo tentativo serio di svolgere la vita urbana fu fatto da Traiano, in collegamento con le sue operazioni militari sul Danubio e in Oriente, con l’istituzione della nuova provincia della Dacia e col riordinamento della Mesia. Infatti per poter vigilare più efficacemente la vita della provincia egli aveva bisogno di centri maggiori e più regolarmente ordinati. Furono create nuove città, quasi tutte con nome greco e con popolazione e costumi più o meno greci, come Augusta Traiana (Beroe), Plotinopoli, Traianopoli; l’ordinamento e i diritti municipali furono concessi ad alcuni villaggi, come Serdica (Sofia), Pautalia, Nicopolis ad Nestum, Topirus, Anchialus, che divennero grandi e prosperi centri abitati. Queste nuove città ebbero un ordinamento caratteristico. Nessuna di esse fu in origine colonia romana. Alcune avevano il diritto di batter moneta; ma sulle loro monete accanto al nome della città figurava quello del governatore della provincia. La creazione di queste nuove città attrasse probabilmente anche qui, come nella Dacia e nella Mesia, nuovi abitanti, specialmente dall’Oriente. Adriano continuò la politica del predecessore: la nota e bella città di Adrianopoli esiste tuttora col suo antico nome. Produsse questa politica una vera diffusione della vita di città? Ebbe essa per effetto l’ellenizzazione del paese? (Diciamo ellenizzazione, perché nella Balcania la troppo forte influenza greca non permetteva la romanizzazione). È difficile ammetterlo. Questa politica mise capo soltanto alla formazione di una borghesia cittadina staccata dal resto della popolazione, e composta d’immigrati e di ricchi indigeni; all’imposizione di nuovi oneri ai villaggi; alla scomparsa di alcune strategiai, sostituite da territori cittadini; ma, anche con tutte le sue città, la Tracia rimase paese di villaggi, di comunità di villaggio, di piccoli contadini proprietari di terre. Per questi contadini le città erano un danno, non un vantaggio, come può chiaramente rilevarsi dalla nota iscrizione di Scaptopare della quale parleremo nel capitolo undicesimo89. I contadini con-
far sorgere una nuova città intorno ad una località, che costituiva il centro d’una fiera periodica: cf. la nota seguente. È interessante osservare che la fondazione di ejmpovria, come pure la creazione di fiere periodiche, si limitasse alle regioni quasi esclusivamente agricole; infatti si voleva avviare un regolare scambio di merci in luoghi dove i rapporti commerciali trovavano ostacolo nella lentezza e, d’inverno, nell’irregolarità delle comunicazioni. Cf. cap. IX, nota 50 (sul carattere militare di questi stanziamenti). 89. C. I. L. III, 12336; I. G. R. R. I, 764; DITTENBERGER, Syll.3, 888 (cf. DESSAU, «Hermes», 62, pp. 205 sgg. e U. WILCKEN, «Arch. f. Pap.-F.», 9 (1930), pp. 15 sgg. Va notato che alla l. 14 i contadini di Skaptopare si dicono proprietari di terre del villaggio: oijkou`⁄men kai kekthvmeqa ejn th`/ progegram⁄mevnh/ kwvmh/, cf. 1. 57. Nella linea 26 essi menzionano una fiera periodica, che si teneva ogni anno a due miglia dal loro villaggio. Intorno a queste fiere vd. P. HUVELIN, Essai historique sur le droit des marchés et des foires (1897), pp. 80 sgg. Metterebbe conto di fare una raccolta dei dati esistenti sulle
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servarono inoltre gelosamente tutte le peculiarità della loro vita e della loro religione. Certi ricchi proprietari agrari della Tracia anche nell’età romana si facevano seppellire, secondo l’antico rito scito-tracico (e anche celtico) sotto tumuli e in carri sepolcrali, come si apprende una serie di trovamenti dei secoli II e III d.C. Nelle montagne bulgare si ritrova ancor oggi l’antica foggia tracica di vestire comunissima nelle stele sepolcrali d’età romana, e nelle chiese cristiane della regione si può vedere la figura del grande dio innominato, del quale abbiamo innumerevoli monumenti votivi d’età romana, del dio cacciatore e guerriero, galoppante sul suo cavallo tracico, venerato oggi dai contadini sotto il nome del grande «eroe» cristiano S. Giorgio90.
fiere del mondo antico più completa di quella dello HUVELIN, che si propose essenzialmente di stabilire i caratteri delle fiere medioevali e moderne. Interessantissimi sono per es. gli accenni alle nundinae che si hanno a Pompei, specialmente in un graffito recentemente scoperto che enumera fiere nella medesima Pompei e inoltre a Nuceria, ad Atella, a Nola, a Cuma, a Puteoli e perfino a Capua e a Roma (M. DELLA CORTE, «Rivista indo-greco-italica», 8 (1924), p. 118). Le fiere periodiche furono fattori importantissimi della vita economica di quasi tutti i paesi agricoli: si pensi allo sviluppo ch’esse ebbero nella Russia moderna prima ch’essa diventasse industriale. Il conservarsi di esse in regioni come l’Asia Minore e la Siria (in collegamento coi grandi templi e con le grandi tenute, vd. le mie Studien zur Geschichte des römischen Kolonates, p. 274 e il cap. VII, nota 6) e l’incremento da esse preso in Tracia e in Africa (cap. VII, nota 70) nel primo periodo dell’Impero, come pure l’accurata legislazione di cui esse furono oggetto per opera dei tardi imperatori (HUVELIN, op. cit.), dimostrano ch’esse, mentre nei paesi dell’Impero più progrediti ed industriali, e nei periodi di vita economica progressiva, non potevano avere in generale che importanza secondaria, invece nelle regioni agricole erano istituzioni di grande e crescente importanza, e questa riacquistarono in tutti i distretti dell’Impero non appena la vita economica ebbe preso dappertutto a semplificarsi. Affatto diverse dalle fiere periodiche delle zone agricole erano quelle che si collegavano col regolare commercio carovaniero, cui dovevano la loro origine e il loro fiore città come Palmira e Petra. Queste ultime fiere sono paragonabili alla grande fiera, tuttora esistente, di Nijni Novgorod in Russia, almeno quale essa era in origine [o a quella minore di Orenburg, che prima della costruzione della ferrovia del Turkestan aveva carattere meramente carovaniero]. 90. Intorno ai carri sepolcrali della Tracia, dal sec. II al IV d.C., vd. SEURE, Chars thraces, «B. C. H.», 1925, pp. 347 sgg., cf. ibid., 1901, pp. 181 sgg. e 1904, pp. 210 sgg.; cf. anche, su certi carri fittili trovati in tombe dello stesso periodo, G. SEURE, «Rev. Arch.», 22 (1925), pp. 3 sgg. Cf. A. ALFÖLDI, Chars funéraires bacchiques dans les provinces occidentales de l’empire romain, «Ant. Class.», 8 (1939), pp. 347-359 e T. GERASSIMOV, nel «Bull. de l’Inst. archéol. bulgare», 12 (1938), pp. 400 sgg. (due carri con ricche decorazioni in bronzo trovati nella Bulgaria meridionale). Le parti metalliche dei carri trovati in
alcuni tumuli di Bulgaria sono in ottimo stato di conservazione: alcune sono placcate d’argento, altre smaltate. Si potrebbe quindi pensare a tombe sarmatiche. È da rilevare che fin dal sec. I d.C. dei Sarmati si stanziarono nei paesi balcanici (vd. l’iscrizione di Tito Plauzio Silvano, DESSAU, I. L. S., 986 (57 d.C.), cf. 852 e 853: P. Elio Rasparagano, re dei Rossolani, fatto prigioniero da Adriano venne internato a Pola) e che le prime ondate migratorie dei Sarmati possono aver accettato il costume scitico (ignoto ai Sarmati posteriori) di seppellire in carri. Gli Sciti abitarono per secoli nel
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La limitrofa provincia di MACEDONIA (incluse la Paeonia e le terre della sponda adriatica con Dyrrachium e Apollonia)91 non fu mai paese di intensa
paesi danubiani e ancora ai tempi d’Ovidio erano i vicini della città di Tomi. È anche interessante osservare che almeno una fra le tombe dei Jazygi, stirpe sarmatica stabilitasi tra il Danubio e la Theiss fin dal periodo tra il 20 e il 50 d.C., e cioè quella di Jaszalsószentgyörgy (vd. HILD, «Arch. Ertesitö», 1901, pp. 120 sgg.; A. ALFOELDI, Der Untergang der Römerherrschaft in Pannonien, II (1926), p. 8; N. FETTICH, «Seminarium Kondakovianum.», 2 (1928), p. 108, tav. XV, 3, [cf. IDEM in M. ROSTOVTZEFF, Skythien und der Bosporus, I (1931), pp. 498 sgg.)], mostra tracce di rito funerario scitico (tra cui il carro). Non si deve tuttavia dimenticare che anche i Celti seppellivano i cadaveri in carri (cf. H. LEHNER, «Bonn. Jahrb.», 1923, pp. 28 sgg.). Circa il culto dell’Eroe tracico e i santuari locali dei Traci, molti dei quali sono stati scavati, e nei quali sotto travestimento greco o romano s’adoravano divinità locali, vd. G. KAZAROV, «R. E.», Suppl. III (1921), coll. 1132 sgg.; e La Bulgaria nell’antichità (1926), pp. 78 sgg. (in bulgaro); «Jahrb. d. d. arch. Inst.», 41 (1926), Arch. Anz., pp. 1 sgg. e «Klio», 22 (1928), pp. 232 sgg. Cf A. BUDAY, Thrak lovas isten problemaja (Das Problem des sogenannten thrakischen Reiters; in ungherese con sunto in tedesco), «Arbeiten des arch. Inst. d. k. Ungar. Franz Josephs-Universität von Szeged» («Dolgozatok ecc.»), 2 (1926), 4 (1928), 5 (1929); G. SEURE, Le roi Rhésos et le héros chasseur, «Rev. de philol.», 53 (1928), pp. 106 sgg. Non posso qui dire che cosa penso sulla teoria del prof. A. Buday, secondo cui il cavaliere raffigurato sui rilievi votivi e sepolcrali rappresenterebbe il dedicante o il defunto eroizzati, non già la divinità, e i rilievi sarebbero per conseguenza monumenti d’una religione di salvazione. I santuari della Tracia sono in generale modeste cappelle di villaggio, piene di rilievi votivi dello stesso genere di molte moderne «ikone» greco-ortodosse. L’eroe tracico non può confondersi col dio cavaliere tracico-orientale, adorato principalmente dai soldati dell’esercito danubiano e dalle loro famiglie, vd. un mio articolo nelle «Mém. prés. à l’Acad. Inscr.», 13 (1923) e G. KAZAROV, «Jahrb. d. d. arch. Inst.», 37 (1917), Arch. Anz., p. 184, intorno a un santuario, trovato presso Razgrad e risalente alla prima età romana, di questo dio orientale e della relativa dea. 91. Intorno alla Macedonia, oltre al capitolo relativo ad essa del MOMMSEN, Röm. Gesch., e alla sua introduzione alle iscrizioni latine della regione, C. I. L. III, vd. anche J. JUNG, Die romanischen Landschaften, pp. 377 sgg.; M.G. DEMITSAS, ÔH Makedoniva ejn livqoi~ fqeggomevnoi~ ecc. (Atene, 1896); H. GAEBLER, Die antiken Münzen Nordgriechenlands, III, Makedonia und Paionia (1906), cf. i suoi Beiträge zur Münzkunde Makedoniens, «Zeitschr. f. Numism.» (gli ultimi nelle annate: 36 (1927), pp. 183 sgg., 37 (1928), pp. 223 sgg.). Per la Peonia vd. G. KAZAROV, Paeonia (Sofia, 1921, in bulgaro); cf. IDEM, «Klio», 18 (1922), pp. 20 sgg. Per Tessalonica vd. O. TAFRALI, Théssalonique des origines au XIVe siècle (1919). Per Lissus, Apollonia e Dyrrachium vd. C. PRASCHNIKER e A. SCHOBER, Archaelogische Forschungen in Albanien und Montenegro, «Schriften der Balkankommission», VIII (1919), pp. 14 sgg., 32 sgg., 69 sgg.; C. PRASCHNIKER, Muzakhia und Malakastra, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 21-22 (1922), Beibl., pp. 6 sgg.; cf. C. PATSCH, Das Sandschak Berat in Albanien, «Schriften der Balkankommission», III (1904); M.N. TOD, «J. H S.», 42 (1922), p. 171 e C. PATSCH, Aus dem Albanischen Nationalmuseum, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 23 (1926), pp. 210 sgg. È interessante osservare che Apollonia e Dyrrachium, sebbene ufficialmente città della Macedonia, nei riguardi sociali ed economici si collegano invece alle città romane della Dalmazia, vd. nota 59. Intorno alla più antica storia e archeologia della Macedonia vd. S. CASSON, Macedonia, Thrace and
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urbanizzazione, eccezion fatta della costa orientale. La potenza dell’antico regno di Macedonia si fondava sui contadini, sui villaggi. Le guerre macedoniche avevano inflitto perdite gravissime al paese, che poi sotto la dominazione romana ebbe a sopportare parecchie disastrose invasioni barbariche. Più tardi, al tempo delle guerre civili esso, al pari della Tessaglia, fu il principale campo di battaglia dei generali romani. È naturale quindi che questo fertile paese fosse ora meno popolato che non al tempo dei suoi re. La diminuzione della popolazione e l’importanza strategica della regione attraverso la quale passava la grande strada che dall’Italia percorreva la penisola balcanica, mediante la via Egnatia, fino all’Oriente, indussero Augusto a tentare di romanizzarne almeno una parte inviando colonie, in parte di veterani in parte di borghesi, nelle città principali (Dyrrachium, Philippi, Dium, Pella, Cassandrea, Byblis), e concedendo alle altre il diritto municipale romano, come, per esempio, a Beroea, la capitale, a Thessalonica, il porto principale, a Stobi nel paese dei Peonii. Il numero dei Romani così stanziati era abbastanza grande da permetter loro di non lasciarsi assorbire dalla popolazione indigena più o meno ellenizzata e all’imperatore di reclutare tra i Romani della provincia un numero cospicuo di pretoriani. I nuovi residenti, al solito, divennero per lo più proprietari di terre e assunsero parte importante nella vita non solo delle città ma anche dei villaggi. Non poche famiglie senatorie possedevano in Macedonia estese tenute. Tuttavia si ha l’impressione che il sostrato economico del paese abbia continuato ad esser costituito dalle tribù indigene e dai numerosi villaggi di contadini e pastori esistenti specialmente nelle zone montuose92.
Illyria (1926). [Per gli scavi di Stobi vd. B. SARIA, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 26 (1930), pp. 64 sgg., dove è data anche la letteratura sull’argomento]. Nuove scoperte in Albania si trovano indicate in «Albania. Rev. d’archéol., d’hist., d’art ecc.», 1, 2 (1926-1927); una rassegna archeologica di questa regione è data da L.M. UGOLINI, Albania antica, I. Ricerche archeologiche (1928; vol. II in corso di stampa). 92. Circa l’aristocrazia municipale della Macedonia, costituita dai capi del koinovn, macedone, vd. il mio lavoro Iscrizioni di Macedonia, «Boll. dell’Istit. archeol. russo di Costantinopoli» (in russo), 4, 2 (1899), pp. 166 sgg., e specialmente le iscrizioni 2 e 2a, che si riferiscono a C. Popillius Python di Beroea (età di Nerva e Traiano); cf. M.G. DEMITSAS, op cit., p. 71, n. 72., e L. ROBERT, Hellenica, «Rev. de philol.», 13 (1939), partic. pp. 131 sg., che riproduce il testo dell’iscrizione da me pubblicata e osserva che la mia pubblicazione era rimasta sconosciuta a ORLANDOS, «Arch. Deltion», 2 (1916), p. 148, n. 4, e a M.N. TOD, «Ann. of the Brit. School at Athens», 23 (1919), p. 76, n. 4. Per una documentazione completa dei Macedoniarchi e degli ajrcierei`~ tou` koinou` Makedovnwn, vedi S. PELEKIDIS, A ∆ po; th;n politeiva kai; th;n koinwniva th' ajrcaiva Qessalonivkh, 1934, Appendix inscr. 73-82, e J.M.R. CORMACK, High Priests and Macedoniarchs from Beroea, «J. R. S.» 33 (1943), pp. 39 sgg. P. COLLART, Philippes, ville de Macédoine depuis ses origines jusqu’à la fin de l’époque romaine, Paris, 1937. Contemporaneo di costui era Paulus
Caelidius Fronto di Heraclea Lyncestis (P. PERDRIZET, «B. C. H.», 21 (1897), pp. 161 sgg.; cf. M. HOLLEAUX, «Rev. Ét. gr.», 11 (1898), pp. 273 sgg.). A Filippi teneva un posto cospicuo la famiglia degli Opimii, ricchi proprietari di terre e benefattori della città (C. I. L. III, 656). Ricchi proprietari terrieri tracici di Filippi vengono menzionati in C. I. L. III, 703, 707. Circa il carattere romano di Filippi vd. CH. PICARD, «C. R. Acad. Inscr.»,
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Non occorre intrattenerci a lungo sulle condizioni economiche e sociali vigenti sotto gli imperatori della Grecia (provincia di ACAIA). Il quadro gene-
1923, p. 385 e P. COLLART, «B. C. H.», 52 (1928), pp. 74 sgg. (con bibliografia), cf. ibid., pp. 492 sgg. [A Filippi esegue scavi la Scuola francese d’Atene, resoconti in «B. C. H.»]. Personaggio ragguardevole tra la fine del sec. II e l’inizio del III fu T. Aelius Geminius Macedo di Tessalonica, il primo di questa città che sia diventato presidente del «Panhellenion» (M.N. TOD, «J. H. S.», 42 (1922), pp. 167 sgg.). Dalla sua donazione di 10 mila piedi di legname per la costruzione d’una basilica si può forse concludere ch’egli fosse un grande proprietario di foreste. Nel C. I. L. III, 14206, 4 (DESSAU, 5981) troviamo menzionata la tenuta di un Claudianus Artemidorus; in III, 14206, 12 quella di un Caesius Victor. Nelle città che non erano colonie romane i grandi proprietari fondiari appartenevano per lo più alla categoria degli ejnkekthmevnoi ÔRwmai`oi, p. es. a Beroea (M.G. DEMITSAS, op. cit., p. 70, n. 58). Il persistere in Macedonia della costituzione cantonale rurale è attestato dalla ripartizione dell’ampio territorio di Beroea in fulaiv che portavano nomi geografici e probabilmente corrispondevano ai pagi delle province danubiane. Nella su menzionata iscrizione di Heraclea l’imperatore con una sua lettera addossa ai proprietari fondiari della città (due terzi) e alla stirpe degli ∆Antanoi (un terzo) le spese della riparazione delle strade; in questi ultimi M. HOLLEAUX riconosce i ben noti ∆Atintanoiv vd. L. ROBERT, Antanoi, «Rev. Ét. gr.», 47 (1934), pp. 31 sgg. In un’altra iscrizione incisa sulla medesima lapide appare un certo Caelidius Fronto, che tiene la ginnasiarchia così per la città come per la stirpe dei Lincesti (e[qno~ Lugkhstw`n). Il distretto dei Lincesti, che non erano cittadini della città, appartenevsa probabilmente al territorio della città di Heraclea, mentre una parte della stirpe degli ∆Atintanoiv era attribuita alla città allo stesso modo che i Carni e i Catali alla città di Tergeste. Una notevolissima distinzione tra gli ejparcikoiv e i poli`tai compare nella più interessante tra le iscrizioni degli Oresti (A.M. WOODWARD, «J. H. S.», 33 (1913), pp. 337 sgg., sec. II d.C.): come terza categoria di proprietari terrieri, diversi sia dagli ejparcikoiv sia dai poli`tai, sono nominati appunto gli Oresti (l. 23). Credo di dover ammettere che gli aggressivi ejparcikoiv fossero i possidenti romani del territorio (oiJ ejnkekthmevnoi), che facevano parte della provincia, ma non della città, mentre gli Oresti erano membri d’una delle stirpi attribuite a quest’ultima. Negli elenchi censuari della città essi appaiono possessori di parcelle d’agro pubblico. Cf. il koino;n ∆Orevstwn (A.J.B. WACE e M.S. THOMPSON, «Ann. of the Brit. School at Athens» 18 (1911-12), p. 179 n. 23), e i Dassaretii e il loro prostavth~ (M.G. DEMITSAS, op. cit., p. 371, nn. 330-2). Tanto in Macedonia quanto nei distretti finitimi della Tessaglia sembra che la vita si svolgesse in forme prevalentemente rurali, come risulta dal trovarsi frequente menzione di vici in documenti nei quali si tratta di delimitazioni di confini tra città macedoniche e tessale. A questo riguardo possediamo tre decisioni, tutte del periodo di Traiano e Adriano, C. I. L. III, 591 (Traiano), 586 (1230b) (Adriano), e A.J.B. WACE e M.S. THOMPSON, loc. cit., 17 (1910-11), pp. 193 sgg., dove alle ll. 14 sgg. si ricorda la prima delimitazione di confini fatta da Aminta, padre di Filippo II: inscriptos esse f(i)nes convenientes defini(t)ioni regiae factae ab Amynta Philippi patre inter Dolichanos et Elemiotas, cf. A. ROSENBERG, «Hermes», 51 (1916), pp. 499 sgg. In un’altra lapide contemporanea si tratta di una fissazione di confini tra i Geneatae e i […]xini, G. KAZAROV, «B. C. H.», 47 (1923), pp. 275 sgg. Menzione di vici: C. I. L. III, 656; A. SALACˇ , «B. C. H.», 47 (1923), p. 63, n. 23: M. Bietius Cerius vet(eranus) vicanis d(e) s(uo)., e ibid., p. 65, n. 24, lapide votiva per una dea locale, posta dai vicani Sc… Nicaeenses et Coreni et Zcambu: seguono i nomi dei curatores, tutti Traci.
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rale è ben noto: ed è un quadro di povertà e di spopolamento progressivo. La celebre descrizione dell’Eubea fatta da Dione Crisostomo è, ben s’intende, una finzione, e le affermazioni generali ch’egli fa nella sua orazione di Tarso sono esagerate; ma i tratti generali della sua descrizione, lo spopolamento e l’esistenza di estesi tratti di terreno incolto, rispondono certamente a verità93. Un’impressionante conferma del quadro di Dione è data dalla situazione economica di parecchi dei grandi santuari della Grecia nell’età imperiale. Le iscrizioni di Delfo mostrano che le entrate del santuario provenivano ormai essenzialmente dai terreni e dagli armenti sacri94. Un’iscrizionc di Lycosura in Arcadia, recentemente scoperta, attesta l’estrema povertà sia della città sia del santuario, che senza l’aiuto di un ricco cittadino non potevano pagare le tasse dovute al governo romano95. È manifesta la ragione di tali condizioni. L’industria e il commercio della Grecia erano scomparsi per sempre; come paese agricolo d’altra parte la Grecia è probabilmente il più povero di tutto il bacino del Mediterraneo. Non deve stupirci che i Greci, per la maggior parte uomini abili e colti, abbiano emigrato in massa verso paesi che offrivano condizioni più favorevoli. Ma è esagerato parlare d’una quasi completa desolazione del paese. Le città avevano ancora un’agiata borghesia di proprietari di terre sul tipo di Plutarco di Cheronea, e le regioni più ricche della Grecia producevano ancora grano, olio, uva, vino. Alcuni di questi prodotti (l’olio dell’Attica, il vino di alcune isole) s’esportavano anche in altre province. Come nel periodo ellenistico, la proprietà della terra si concentrava nelle mani di poche famiglie dimoranti in città. La mano d’opera necessaria per le terre della borghesia cittadina era fornita normalmente, s’intende, da schiavi e da coloni. La nota descrizione generale di Plutarco deve dunque prendersi cum grano salis. Quella ch’egli aveva in mente era la gloriosa Grecia dei tempi di Temistocle e di Pericle: ma essa era scomparsa per sempre96.
93. DIO CHR., Tars. (or. 33), 25 (sulla Tessaglia e l’Arcadia); 26 (sulla Macedonia); cf. la nota affermazione di PLUT., Def. orac., 8, e O. SEECK, Gesch. d. Unterg. d. ant. Welt, I, p. 321, nota 32. 94. DITTENBERGER, Syll.3, 827; E. BOURGUET, De rebus Delphicis imperatoriae aetatis (1905), pp. 74 sgg. (lettera di Adriano). Cf. BOURGUET, op. cit., pp. 94 sgg. (conclusioni generali). Certamente nel sec. II s’ebbe una rinascita del santuario, specialmente sotto Adriano (i tempi peggiori erano stati quelli del sec. I), ma essa fu dovuta quasi esclusivamente alle erogazioni degli imperatori romani e di alcuni membri della nobiltà romana e provinciale (specialmente di Erode Attico e della sua famiglia). 95. DITTENBERGER, Syll.3, 800; cf. A. VON PREMERSTEIN, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 15 (1912), pp. 200 sgg.; vd. specialmente ll. 12 sgg.: ejpedevxato de; kai; ta;n iJerateivan, Nikavs ippo~ ta`~ Despoivna~ o[nto~ ∆Olum⁄pikou` ejniautou` mhdeno;~ qevlonto~ proselqei`n. tw`n te crhmav⁄twn mh; ⁄ pesovntwn toi`~ musthrivoi~ ajpevdwke ejk tou` ijdivou biv⁄ou tw`/ fivskw/. 96. Non posso addossarmi il compito di radunare tutto il ricco materiale relativo alla vita economica della Grecia nell’età imperiale, quale è accumulato nei volumi delle I. G. Ma varrebbe la pena di compiere questa fatica. Una parte di questo, cioè quella che concerne Atene e la provincia d’Acaia, è stata magistralmente studiata da S. SHEBELEV in due libri, Storia d’Atene dal 229 al 31 a.C., Pietroburgo, 1898 (in russo), cf. P.
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S CHEDA 1 M ONUMENTO
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SEPOLCRALE
Prosperità dell’Italia nel II sec. d.C. Famiglia di Brixellum (Aemilia) S. Aurigemma, Il monumento dei Concordii presso Boretto, «Rivista dell’Istituto di Archeologia», 3 (1932), pp. 268-298. Testo dell’iscrizione: C(aio) Concordio / Brixill(o) Primo / VI vir(o) Aug(ustali) gr(atuito) d(ecreto) d(ecurionum) / C(aio) Concordio C(ai) l(iberto) / Rheno IIIIII viro / Augustali viro / Concordiae C(ai) f(iliae) / Festae filiae / Munatia C(ai) et ((mulieris)) l(iberta) / Rufilla / v(iva) f(ecit).
GRAINDOR, Athènes sous Auguste (1927), specialmente pp. 159 sgg. [e ∆Acaikav. Studi sulle antichità della provincia d’Acaia (1903) (in russo), cf. P. GRAINDOR, Athènes de Tibère a Trajan, 1931]. IDEM, Athènes sous Hadrien, Le Caire, 1934. Un tentativo di raccogliere ed esaminare tutto il materiale è stato fatto di recente da J.A.O. LARSEN, Roman Greece, in T. FRANK, An Economic Survey of Ancient Rome, IV, Baltimore, 1938, pp. 436498. Cf. la mia recensione nell’«Amer. J. Ph.», 60 (1939) pp. 370 sgg. Per la cronologia e il governo E. GROAG, Die römischen Reichsbeamten von Achaia bis auf Diokletian, Wien, 1939 («Schriften der Balkankommission, Antiquarische Abteilung», 9). L’atteggiamento
semiromantico dei Romani colti verso la Grecia è bene illustrato dalla lettera VIII, 24 di Plinio il Giovine a Massimo, amico di Epitteto e a quel tempo corrector civitatium liberarum dell’Acaia, vd. l’articolo di F. ZUCKER, Plinius epist. VIII, 24 - ein Denkmal antiker Humanität, «Philol. Woch.», 84 (1928), pp. 209 sgg. Non vedo nelle fonti alcun indizio che nel sec. II d.C. le condizioni agricole della Grecia fossero disperate: sembra anzi che si sia avverato un miglioramento in paragone con quelle del sec. I a.C., quali le descrive CIC., Ad. fam., IV, 5, 4 (non possiamo dar piena fede a quanto dice Dione nell’Eujboikov~. Siffatta impressione si riceve da uno studio esatto dell’iscrizione di Thisbe (DITTENBERGER, Syll.3, 884); essa è poi rafforzata dal fatto che la Grecia aveva un certo numero di cittadini ricchi, che poterono contribuire alle spese del Panhellenion istituito da Adriano (vd. M.N. TOD, «J. H. S.», 42 (1922), pp. 173 sgg., che dà anche la bibliografia sull’argomento e una rassegna completa dei dati epigrafici e letterari); cf. P. GRAINDOR, Athènes sous Hadrien, Le Caire, 1934, pp. 102 sgg. e J.H.OLIVER, Documents Concerning the Emperor Hadrian. Hadrian and the Achaeans, «Hesperia», 10 (1941), pp. 361 sgg., partic. p. 368. La parte principale del Panhellenion era costituita dai grandi
giuochi allestiti e finanziati dai presidenti e dai membri del Consiglio (suvnedroi) del Panhellenion. Merita di esser rilevato che nel novero di questi presidenti e suvnedroi o Panevllhne~ (riuniti dal TOD, loc. cit., 177) vi sono anche ricchi individui della madre patria greca (cf. C.S. WALTON, «J. R. S.», 19 (1929), p. 62). [Un ricco Spartano, proprietario di terre, appare quale benefattore della sua città in un periodo di carestia, sotto Adriano, nell’iscrizione spartana riferita da A.M. WOODWARD, Sparta. The Inscriptions, «Ann. of the Brit. School at Athens», 27 (1925-26), pp. 22 sgg., n. 3. Si tratta di C. Iulius Theophrastus, che vendé ai cittadini di Sparta grano a prezzo moderato (probabilmente prodotto dalle sue terre o importato: invece che a 40 den. il medimno, un denaro per hemiektou, un dodicesimo di medimno). Più tardi distribuì olio, e spesse volte grano per un prezzo inferiore a quello del mercato. Un altro esempio è M. Ulpius Eubiotus (220 A.D.), proprietario di terre produttrici di grano e uomo molto ricco, forse imparentato con l’imperatore Pupieno: vedi sopra cap. V, nota 9. Cf. cap. V, nota 9 e cap.
VIII, nota 20 e H. BOX, Roman citizenship in Laconia, «J. R. S.», 21 (1931), pp. 200 sgg.]. Tuttavia a ragione A. STEIN e C.S. WALTON richiamano l’attenzione sul fatto che solo pochissimi senatori provenivano dalla Grecia propriamente detta, e attribuiscono
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SCHEDA 2 GALLIA NARBONENSE Scheda a parte sulla Gallia Narbonense. La Gallia Narbonese era certamente un paese fiorente dal punto di vista agricolo. Il grano e il vino erano prodotti in grande quantità. Si ignora chi fossero i produttori, vale a dire i proprietari. Grandi proprietà imperiali nell'età di Severo non sono attestate. La grande villa di Chiragan (II-III sec. d.C.) può essere considerata di proprietà imperiale, almeno nel III secolo. Abbiamo documentazione degli agenti del patrimonium nella Gallia Narbonense. Le iscrizioni sui cocci del monte Testaccio, che attestano esportazione di vino da Narbona sono state variamente interpretate e non vanno necessariamente considerate come attestanti l'esistenza di proprietà imperiali. Tra i proprietari privati alcuni detenevano probabilmente grandi proprietà. Gli splendidi edifici pubblici delle città romane della Gallia meridionale e i lussuosi monumenti funebri erano eretti precipuamente da ricchi commercianti e proprietari terrieri.
ciò al non essere i Greci della madre patria abbastanza ricchi da poter diventare senatori. La ragione di ciò stava nel fatto che i Greci più attivi non risiedevano in Grecia, dove per il momento non c’era nulla da fare. Resta tuttavia il fatto che sotto l’Impero le condizioni economiche della Grecia migliorarono di molto: ciò risulta, p. es., dalla circostanza che la Grecia continuava o aveva ripreso ad esportare vino in Italia. È noto che a Pompei sono state rinvenute delle anfore, che un tempo erano state riempite di vino greco, e che Sciro esportava grandi quantità di vino a Ravenna (la cupola del battistero degli Ariani di questa città è fatta di anfore vinarie, le cui iscrizioni dicono ch’esse vennero a Ravenna da Sciro; vd. P. GRAINDOR, «Byzantion», 3 (1929), pp. 281 sgg.; Athènes sous Auguste, p. 165). Anche la prosperità di Corinto e di Patrae (DESSAU, Gesch. d. röm. Kaiserz., II, 2, p. 553) attesta un fiorente commercio, che non era soltanto di transito. Gli scavi americani a Corinto hanno dimostrato quanto magnifica fosse la città romana. Neppure Atene era una città povera, sebbene ciò naturalmente non si spieghi col commercio e con l’industria della città (GRAINDOR, Athènes sous Auguste, pp. 159 sgg.). Va notato che la Grecia continuava pur sempre ad avere un’industria che lavorava per l’esportazione. L’esercito del Danubio vi mandava i suoi commissari per farvi acquisto d’indumenti; vd. il papiro pubblicato da A. HUNT in Raccolta di scritti in onere di Giacomo Lumbroso (1844-1925), Milano, 1925 pp. 265 sgg., l. 54: in Grecia vest[itum]. Cf. cap. V, nota 43.
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Dopo che Augusto ebbe terminato le sue grandi guerre sul Reno e sul Danubio e completato la pacificazione della Spagna e dell’Africa, per circa un secolo l’Impero romano non fu turbato da importanti guerre esterne. L’annessione della Britannia, della Mauretania, della Tracia, compiuta da Claudio, e così i disegni ambiziosi di Nerone in Oriente e la guerra giudaica di Vespasiano, furono soltanto guerre locali, «coloniali», che non coinvolsero l’Impero nel suo complesso. I pericolosi vicini e rivali di esso, i Germani e i Sarmati a settentrione e greco, i Parti a scirocco, rimasero più o meno quieti. L’unico urto serio fu la guerra civile del 69 d.C., seguita da alcuni torbidi sulla frontiera renana. Nessuna meraviglia che in queste condizioni l’edificio dell’Impero romano apparisse solido ed eterno, e che ad onta delle stravaganze personali e delle follie di taluni imperatori la vita economica andasse incessantemente progredendo. Dobbiamo ricordare infatti che le guerre coloniali testé ricordate, finite con l’annessione di paesi relativamente ricchi e civili, contribuirono ad accrescere la prosperità dell’Impero, aprendo mercati vergini al commercio e all’industria romani e provvedendo nuove ed eccellenti zone di reclutamento per l’esercito. Ma queste condizioni gradatamente vennero mutandosi. I Germani, che vivevano a stretto contatto con l’Impero, a poco a poco appresero a migliorare il loro armamento e la loro tecnica militare, scoprirono che il limes romano non era una barriera insormontabile, e sentirono il bisogno di ordinar meglio la loro vita interna. Per giunta, quelli tra loro che si trovavano più immediatamente vicini all’Impero vedevano dinanzi ai loro occhi la ricchezza e la prosperità delle città provinciali e bramano di partecipare alla vita civile dell’Impero. Il costante aumento numerico delle tribù germaniche era un altro stimolo che le cacciava avanti e faceva loro desiderare l’acquisto di nuove terre. Alcune tra esse furono bensì costrette dall’ostacolo della barriera romana a piegare verso scirocco, nella regione del Dnieper; ma questo sbocco non era abbastanza ampio né sicuro da poterli soddisfare, data la potenza delle stirpi sarmatiche padrone delle steppe russe. Un consimile movimento migratorio verso Occidente era spiccata tendenza anche delle medesime tribù sarmatiche. Bene armati e bene ordinati, vivendo in perpetua guerriglia coi vicini che li premevano alle spalle – i Germani
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da settentrione e altre tribù sarmatiche dall’Oriente – i Sarmati occidentali, Jazigi e Rossolani, erano bramosi di stanziarsi sul Danubio nelle vicinanze immediate del limes romano. I Jazigi infatti pervennero a metter piede nella regione che si trovava a settentrione del Danubio e a oriente del regno dacico; non così i Rossolani, sopraggiunti più tardi e tenuti indietro dagli eserciti romani: tuttavia essi continuarono per lungo tempo a costituire un pericolo permanente per i paesi situati a mezzogiorno del Danubio. I Parti, infine, non rinunziarono mai alle loro pretese sulla Siria e sull’Armenia, né soffrirono mai un colpo rude abbastanza da ridurli all’impotenza; anzi sapevano perfettamente che le legioni siriache di Roma non erano tale ostacolo da impedir loro di ritentare l’invasione degli antichi possedimenti dell’Impero persiano. Sarebbe fuori luogo occuparci qui della politica estera dell’Impero romano. Basterà dire che sotto Domiziano e Traiano i più acuti fra gli uomini politici e i generali di Roma, che conoscevano le condizioni delle frontiere, sentivano la necessità che si ritornasse alla politica di Cesare e d’Augusto, che s’iniziasse un’altra avanzata vittoriosa nel paese nemico, altrimenti l’Impero romano sarebbe rimasto esposto a gravi assalti a settentrione, a oriente, a mezzogiorno. Questa necessità fu pienamente sentita da Domiziano, ma le sue spedizioni furono poco fortunate e condussero a qualche grave disastro. I suoi sforzi furono rinnovati da Traiano con assai maggior costanza e molto miglior successo. È ben noto infatti che in due spedizioni Traiano aggregò all’Impero l’ultimo tra gli Stati a metà civili e ben ordinati del Danubio, che aveva servito da cuscinetto tra l’Impero romano e le tribù germaniche e iraniche, il regno dacico, cioè tracico, di Decebalo. L’Impero romano ormai fronteggiava direttamente le due ondate dell’invasione, quella dei Germani da settentrione e quella degli Iranici da Oriente. Le nostre conoscenze intorno alle condizioni esistenti sul basso Danubio e intorno alle relazioni tra lo Stato della Dacia e Roma sono troppo scarse perché possiamo giudicare se l’assalto di Traiano fu giustificato dalla politica di Decebalo, e se realmente era più sicuro aver che fare direttamente coi Germani e con gli Iranici. È chiaro però che l’annessione della Dacia imponeva una più intensiva occupazione militare dei paesi danubiani, la frontiera romana essendo ormai diventata molto più complessa. Per giunta, l’Impero romano doveva provvedere al paese conquistato una nuova popolazione che attuasse l’opera di urbanizzarlo. La stessa politica di urbanizzazione e di colonizzazione diventò necessaria per il retroterra della Dacia, cioè per la Mesia inferiore e per la Tracia. La politica dell’annessione fu seguita da Traiano anche a mezzogiorno e a scirocco, nella Partia, in Arabia, in Africa. Quest’ultima, e così pure la Siria, vi guadagnarono immensamente, poiché così fu dato energico impulso alla colonizzazione di paesi fertili e allo stabilimento della vita urbana in regioni già deserte. Fino a che punto l’annessione temporanea della Mesopotamia, che provocò un vivace e pericoloso risveglio di sentimento nazionale tra i popoli dell’Oriente, sia stata un reale guadagno sotto l’aspetto politico e militare, è tuttora controverso1.
1. Intorno a Traiano vd. le note, eccellenti ma antiquate monografie di DIERAUER e C. DE LA BERGE; inoltre il libro di B.W. HENDERSON, Five Roman emperors (1927) e il
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I successi di Traiano furono conseguiti a costo di penosi sacrifici di tutto l’Impero. Le operazioni militari richiesero leve su leve, che ricadevano quasi totalmente sulle zone romane e romanizzate, comprese le città italiche, le quali fornivano la guardia pretoriana e gli ufficiali. Gli uomini che si recavano nei nuovi paesi dell’Oriente e del mezzogiorno raramente rimpatriavano: non pochi erano uccisi, gli altri adibiti in gran numero a colonizzare e urbanizzare le province di nuovo acquisto. Abbiamo già ricordato gli sforzi energici fatti da Traiano per promuovere la vita di città nei paesi danubiani e creare così una nuova Gallia dietro il limes del Danubio. Sappiamo inoltre ch’egli fondò non poche colonie in Africa e che sotto il suo governo l’urbanizzazione di alcuni distretti della Siria fu rapida ed effettiva. Ma tutto ciò era fatto a spese delle antiche province più romanizzate (o ellenizzate), come la Spagna, la Gallia, la Dalmazia, l’Asia Minore. Non dobbiamo sorprenderci che le città della Spagna fossero preoccupate e protestassero contro le sempre rinnovate leve2. Era passato il tempo in cui le guerre romane coprivano le spese e le vittorie arricchivano i conquistatori. La preda di guerra fatta nella Dacia, per quanto possa essere stata considerevole, non bastò a coprire le forti spese imposte da operazioni militari condotte sistematicamente anno per anno da grossi eserciti in punti tra loro molto distanti. I continui movimenti di truppe verso i teatri della guerra, movimenti che sono raffigurati così artisticamente sulla colonna di Traiano, imponevano la riparazione delle vecchie strade e la costruzione di stra-
nuovo libro del PARIBENI, Optimus princeps, I-II (1928). Il Paribeni ha raccolto e illustrato tutto il materiale – letterario, epigrafico, archeologico – che si riferisce all’attività di Traiano: ma gli è sfuggito il grande consumo d’energie che le guerre di quest’imperatore imposero all’Impero. Per un certo tempo le spese immense rese necessarie dalla guerra e dall’ordinamento delle nuove province furono coperte dal ricco bottino dacico e dal prodotto delle miniere d’oro e d’argento della Dacia (J. CARCOPINO, Les Richesses des Daces sous Trajan, «Dacia», I (1924), pp. 28 sgg.): ma nessun bottino di guerra, per quanto copioso, dura molto a lungo, e non v’è oro né argento che a lungo andare possa dar vigore a un sostrato economico debole. [Cf. R. SYME, The Imperial Finances Under Domitian, Nerva and Trajan, «J. R. S.», 20 (1930), pp. 55 sgg. e F. HEICHELHEIM, Pap. Bad. 37 ein Beitrag zur römischen Geldgeschichte unter Trajan, «Klio», 25 (1932), pp. 124 sgg. Interessante è la politica monetaria seguita da Traiano in Siria, come è rivelata dalla pergamena di Dura n. X, vd. M. ROSTOVTZEFF e C.B. WELLES, «Yale Class. Studies», 2 (1930), pp. 60 sgg.; A. BELLINGER, Excav. at Dura-Europos, III Prel. Rep. (1932), pp. 146 sgg.]. 2. SCR. HIST. AUG., M. Aur., 11, 7: Hispanis exhaustis Italica adlectione contra Traianique praecepta verecunde consuluit. (Il Peter e Hohl sospettano una lacuna dopo il contra. Ne risulta che Traiano e prima di lui un altro imperatore concessero agli Spagnuoli un qualche sgravio di reclutamento); cf. Hadr., 12, 4: Omnibus Hispanis Tarraconem in conventum vocatis dilectumque ioculariter, ut verba ipsa ponit Marius Maximus, retractantibus Italicis vehementissime, ceteris prudenter et caute consuluit. Evidentemente anche per Traiano la Spagna fu uno dei principali distretti di reclutamento, per quanto vi usasse prudenza, e Adriano non poté dare agli Spagnuoli in questo riguardo alcun sensibile alleviamento. Neppure M. Aurelio poté far molto. I due testi mostrano a qual caro prezzo gli Spagnuoli dovettero pagare i diritti loro concessi da Vespasiano. Cf. cap. III, nota 8 e cap. IV, nota 34.
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de nuove, il getto di ponti costosi – si pensi a quelli famosi sul Danubio –, la fabbricazione di nuove navi, la mobilitazione di immense quantità di bestie da soma e di conducenti, lo stabilimento, nelle varie città, di quartieri per i soldati in marcia, il concentramento di grandi quantità di viveri in certi dati punti (che richiedeva anch’esso buone strade e copiosi mezzi di trasporto), il rifornimento di quantità infinite d’armi d’ogni specie, di abiti, di scarpe. Soltanto coloro che conoscono per esperienza le difficoltà che questi problemi presentano anche ai tempi nostri, con tutti i nostri treni, autocarri, grandi opifici ecc., possono intendere che cosa significasse per l’Impero romano condurre per anni non una guerra «coloniale», ma una guerra vera e propria. Inoltre Traiano dopo la guerra dacica spese grandi somme per dare congiaria al popolo, donativa ai soldati, per allestire giuochi e altri spettacoli; e anche più forti furono le spese richieste dalla sua grandiosa attività edilizia a Roma, in Italia, nelle province. Non dobbiamo dimenticare ch’egli fu il sovrano più smanioso di costruire che abbia avuto Roma dopo Augusto e Nerone, e che al tempo stesso evitò con cura di aumentare le imposte e di gravare troppo sulla capacità contributiva dei cittadini romani2a. Siamo assai poco informati sul modo con cui si provvedeva ai bisogni dell’esercito; ma ciò che sappiamo basta ad indicare che il sistema adoperato era principalmente quello delle requisizioni, compreso il lavoro coattivo tanto in Italia quanto nelle province. Anche le poche notizie che abbiamo sono sufficienti a dimostrare quanto gravemente la costruzione e la riparazione delle strade e il sostentamento e acquartieramento delle truppe pesavano sulle province danubiane e sulla Tracia, sulla Macedonia, sulla Bitinia, cioè sui paesi per cui passavano le vie principali che conducevano dall’Italia al Danubio e dal Danubio al teatro della guerra partica. Le iscrizioni ci rivelano alcuni fatti caratteristici. Vediamo che Traiano insiste perché sia riattata una strada nel territorio di Heraklea Lynkestis,
[2a. Dell’attività edilizia di Traiano a Roma si potrà giudicare quando saranno terminati gli scavi dei fori imperiali, iniziati con tanto successo. Non è esagerazione dire che Traiano cambiò completamente l’aspetto del centro della città, avendo unito i due complessi architettonici più splendidi di Roma – quello del Campo Marzio e quello dei fori imperiali col Campidoglio – per mezzo dei lavori giganteschi da lui fatti fare sul pendio del Quirinale, dai quali risultò il suo bel foro e il mercato recentemente scavato. Belle pagine ha consacrato all’attività edilizia di Traiano il PARIBENI. Sul «mercato di Traiano» vd. le monografie di C. RICCI, Il Mercato di Traiano (s. a.) e di A. BOETHIUS, Appunti sul Mercato di Traiano, «Roma», 10 (1931), pp. 447 sgg. e 501 sgg. Il mercato, in cui Apollodoro, il geniale architetto di Traiano, trasformò il muro di sostegno del pendio del Quirinale, è il primo esempio di mercato non d’una piccola città provinciale, come ne abbiamo tanti, ma della capitale del mondo. Le botteghe sono belle e spaziose, e non cedevano probabilmente in nulla alle botteghe moderne. Un altro gran mercato fu costruito da Adriano presso il foro di Giulio Cesare, con l’ingresso dal Clivus Argentarius (basilica Argentaria?). Le rovine di questo mercato sono state scavate recentemente nel corso degli scavi del foro di Giulio Cesare. Sul muro di fondo di questo mercato sono stati trovati parecchi graffiti molto interessanti (di prossima pubblicazione). Vd. C. RICCI, Il Foro di Cesare, «Capitolium», 8 (1932), pp. 157 sgg. È buona l’idea del BOETHIUS che il tipo del mercato di Traiano risalga a prototipi orientali: strade con due file di botteghe su i due lati].
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della quale erano responsabili questa città e le stirpi attribuite; che alcuni ricchi cittadini di Beroea in Macedonia vengono in soccorso della loro città e l’aiutano a sopportare i suoi gravi oneri; che il pagamento delle imposte e l’approvvigionamento di grano sufficiente a sostentare la popolazione è diventato impresa difficile per le città della Macedonia, di una provincia cioè relativamente ricca di campi graniferi. Non è strano che la situazione si sia fatta particolarmente acuta all’inizio del regno di Adriano, quando le risorse della provincia erano già esauste3. Le stes-
3. P. PERDRIZET, «B. C. H.», 21 (1897), pp. 161 sgg.; cf. M. HOLLEAUX, «Rev. Ét. gr.», 11, 273 sgg.: tivna ªde; dei` trºovpon stovrnusqai ta;~ oJdou;~ koinw`i diatavgmati ejdhvlwsa: ⁄ ªkeºleuvw kai; A ∆ ntanou;~ suntelei`n uJmei`n eij~ ta; ajnalwvmata, ⁄ to; triton suneisfevronta~: hJ de; suneisfora; genevsqw ajpo; ⁄ tw`n ejn Makedonivai o[ntwn ∆Antanw`n: eujtucei`te: ⁄ pro; igæ Kalandw`n ∆Iounivwn ajpo; Durracivou, e M. ROSTOVTZEFF, «Boll. dell’Istit. archeol. russo di Costantinopoli» (in russo), 4, 2 (1899), pp. 171 sgg.: iscrizione in onore di C. Popillius Python, contemporaneo di Nerva e di Traiano, il quale pagò l’imposta di capitazione per la città kai; oJdou;~ ejk tw`n ijdivwn ejpiskeuavsanta e ejn kairoi`~ ajnagkaivoi~ vendette grano a prezzo moderato. Gli arretrati, che in un frammento recentemente pubblicato d’una lettera di Adriano a Beroea vengono condonati al sunevdrion del koinovn macedone, si riferivano alla costruzione delle strade e all’approvvigionamento delle truppe, vd. A. PLASSART, «B. C. H.», 47 (1923), pp. 183 sgg. Cf. supra cap. VI, nota 92; su questa e altre iscrizioni J.A.O. LARSEN, Roman Greece, in T. FRANK, An Economic Survey of Ancient Rome, IV, Baltimore, 1938, p. 453. Come qui Python così in Herakleia si rese benemerito un Paolo Celidio Frontone: la
sua epigrafe venne incisa nella stessa lapide che reca la su menzionata lettera di Traiano. Per gli stessi motivi sotto Adriano (121-123 d.C.) vennero tributati onori anche a M. Salario Sabino e[n te seitendeivai~ pleistavki~ parapeprakovta polu; ⁄ th`~ ou[sh~ timh`~ eujwnovteron kai; tai`~ ⁄ tou` kurivou Kaivsaro~ tw`n strateu⁄mavtwn diodeivai~ parascovnta eij~ ta;~ ⁄ ajnnwvna~ seivtou med(ivmnou~) uæ, kriqw`n med. ræ, kuavmou med. xæ, oi[nou metrhta;~ ræ polu; th`~ ⁄ ou[sh~ teimh`~ eujwnovteron (M.N. TOD, «Ann. of the Brit. School at Athens», 23 (1918-19), pp. 67 sgg.). Cf. cap. VI, nota 92. Un’espressione generale assai caratteristica, che si riferisce tanto all’Italia quanto alle province, si trova in SICULO FLACCO (Grom. vet., ed. Lachmann) p. 165, 4: nam et quotiens militi praetereunti aliive cui comitatui annona publica praestanda est, si ligna aut stramenta deputanda, quaerendum quae civitates quibus pagis huiusmodi munera praebere solitae sint. Sarebbe urgentemente necessaria una buona monografia su questo argomento. I monumenti archeologici, specialmente le colonne di Traiano e di M. Aurelio e gli archi trionfali di questo periodo, offrono un copioso materiale illustrativo che, al pari di quello epigrafico, non è mai stato riunito nella sua totalità: cf. cap. IX e X e le nostre tavole LXIX e LXXIV. [Troviamo riflessi delle condizioni su descritte nelle monete. In Asia Minore molte città coniarono monete per pagare le truppe di passaggio. Su queste monete sono figurate le insegne militari. La raccolta accurata di esse monete provinciali militari fatta da CL. BOESCH, «Jahrb. d. d. arch. Inst.», 46 (1931), p. 422, fa vedere chiaramente l’itinerario di marcia delle truppe e le stazioni dove esse si fermavano. I trovamenti abbondanti di monete fatti a Dura permetterebbero di far lo stesso per la Siria, vd. A. BELLINGER, Two Roman Hoards from Dura-Europos, «Numismatic Notes and Monographs», 49 (1931)]. Intorno al modo con cui veniva riscossa in Egitto l’annona per l’imperatore e per i suoi soldati troviamo utilissime notizie in P. S. I., 683. Il WILCKEN, «Arch. f. Pap.-F.», 1923, p. 84, è stato il primo a riconoscere che il documento si riferisce alla visita fatta da Settimio Severo all’Egitto nel 199 d.C. Cf. cap. IX.
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se condizioni troviamo in Bitinia. Non fu semplice caso se nel III d.C., pochi anni cioè prima della guerra partica, Traiano mandò colà uno dei suoi uomini migliori, Plinio il Giovane, per rimettere in ordine le finanze delle città e sorvegliare l’amministrazione generale della provincia e le relazioni di essa col regno vassallo del Bosforo, uno dei centri più importanti di rifornimento per gli eserciti d’Oriente. Né è un caso fortuito che le città poste sulla strada principale per l’Oriente (Byzantium e Juliopolis) si lagnino amaramente della pressione continua esercitata sulle loro risorse dai movimenti delle truppe4. Anche qui, come in Macedonia, ricchi cittadini vennero in soccorso delle loro province: tanto alcuni membri dell’antica casa reale di Galazia quanto il milionario licio Opramoas menzionano la parte da loro presa nell’approvvigionare Traiano e Adriano e le loro truppe poco prima della morte di Traiano e anche dopo5. Basta soltanto leggere la nota descrizione che Plinio fa di ciò che vole-
4. M. ROSTOVTZEFF, Pontus, Bithynia and the Bosporus, «Ann. of the Br. School at Athens», 22 (1916-18), pp. 1 sgg., cf. U. WILCKEN, «Hermes», 49 (1914), pp. 120 sgg. Plinio fu nella Bitinia e nel Ponto dal 111 al 113 d.C. A simili conclusioni circa la missione di Plinio in Bitinia perviene, fondandosi sugli stessi dati, anche O. CUNTZ, Zum Briefwechsel des Plinius und Traian, «Hermes», 61 (1926), pp. 192 sgg. e p. 352 (egli ignora il mio articolo). [Contro R.P. LONGDEN, Notes on the Parthian Campaigns of Trajan, «J. R. S.», 21 (1931), pp. 19 sgg. Gli argomenti del Longden contro la mia tesi non mi hanno convinto. Sarebbe strano che Traiano, il quale conosceva bene la situazione della Partia, non avesse fatto alcun preparativo per questa guerra, dopo aver terminato la guerra dacica. È vero che Plinio non ne parla expressis verbis: ma lettere segrete non si pubblicano, e lettere pubblicate non contengono segreti politici]. 5. I. G. R. R. III, 173; DITTENBERGER, O. G. I. S., 544, epigrafe in onore di Ti. Giulio Severo, discendente dell’antica dinastia regia di Pergamo e della Galazia e governatore della Siria sotto Adriano, che lo inviò in missione speciale in Bitinia per migliorare la situazione finanziaria di questa provincia, I. G. R. R. III, 174, 175; DITTENBERGER, O. G. I. S., 543; cf. DIO CASS., 69, 14. Nell’iscrizione I. G. R. R. III, 173 lo si esalta come kai; ⁄ tw`i aujtw`i e[tei kai; ejlaioqethvsan⁄ta dihnekw`~ ejn th`i tw`n o[clwn parov⁄dwi (l. 17) e ajpodexavmenªovnº ⁄ te strateuvmata paraceimavsan⁄ta ejn th`i povlei kai; propevmyanta ªta;º ⁄ parodeuvonta ejpi; ªto;ºn pro;~ Pavªrº⁄qou~ povlemon (ll. 29 sgg.). Questa iscrizione è del 114-15 d.C. e fu occasionata dalla grande spedizione di Traiano. Cf. l’iscrizione di Thyatira probabilmente della stessa data: J. GUEY, Inscription du second siècle relative à l’annone militaire, «Mél. Éc. Fr. Rome Ant.», 55 (1938), pp. 56 sgg. Testo greco: Zw`n ⁄ ª: : : : :ºio" G(ai?ou) uiJo"; Se(r)giva/ Sekouª: : : :
:º ⁄ ªprºagmateuovmeno" ejn ejparªceiva/ Ga?⁄ lativºa/ paraceimastikoi`" legªiwvnwn eæ Maº⁄ªkeºdonikh`" kai; zæ Kl(audiva") Pisth`" Eªujsebou`"º ⁄ ªkºai; dæ Skuqikh`" kai; aæ ∆Italikh`" ªto; mnhmei`º⁄on eJautw`/ kai; tevknoi" kai; ejggovªnoi" kai;º ⁄ gunaixi;n aujtw`n kai; ajpeleuqevªroi" kai;º ⁄ Daivmosin ÔElhniva" Poplivou quªgatro;"º ⁄ Flaouiva" th`" gunaiko;" kai; L(eukivou) Fwª: : : : :º ⁄ Poplihnou` tou` tevknou kateskªeuvasenº ⁄ eij" o} mnhmei`on oujdeni; ejxevstai ajlªlovtriº⁄on nekro;n h] ojsta` qei`nai ejkto;" eij ªkaº⁄ta; suncwvrhsin : eij de; mhv, exevstai tw`/ ªbouº⁄lomevnw/ to; eijsenecqe;n ajllovtrion ptªw`ma h]º ⁄ ojsta` ejkrombh`sai kai; oujde;n e[lasson oJ eijseªnevgka"º ⁄ to;n nekro;n uJpokeivsetai th`/ Quateirhnw`n ªpovleiº ⁄ (dhnarivoi") bfæ Tou`to to; mnhmei`on klhronovmoi" ªoujc e{yeº⁄tai. Non vi è dubbio che Secundinus o Secundus fosse al servizio di quei soldati delle legioni (V Macedonica, VII Claudia Pia Fidelis, IV Scythica, I Italica) che
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va dire per le province un viaggio dell’imperatore, per intendere quanto fosse grave l’onere anche sotto l’illuminato governo di un Traiano, specialmente in
svernavano in Galazia. Io interpreterei paraceimastikoi`" come soldati negli alloggiamenti invernali. Svolgeva forse le funzioni di agente incaricato degli acquisti (actor)? Guey pensa che fosse conductor di una tassa speciale (paraceimastikav) una tassa sull’annona. Il fatto che Severo si sia assunto il grave onere di nutrire e alloggiare per tutta
un’invernata sia pure una parte dell’esercito prova così la grandezza del suo patrimonio come le condizioni difficili in cui versava l’Asia Minore. Né meno grave sintomo delle condizioni finanziarie dello Stato è il fatto che Traiano abbia accettato con gratitudine siffatta esibizione. In un’iscrizione di Alabanda nella Caria è menzionato un funzionario di grado equestre, che aveva l’incarico speciale di approvvigionare l’esercito di Oriente campeggiante in Mesopotamia, A. VON PREMERSTEIN, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 13 (1911), pp. 204 sgg.; cf. A. VON DOMASZEWSKI, «Rh. Mus.», 58, pp. 224 sgg. In realtà lo stesso caso si ripeté sotto Adriano allorché, finita la guerra, l’esercito nel 117 prese la via del ritorno, I. G. R. R. III, 208; R. D’ORBELIANI, «J. H. S.», 44 (1924), p. 26, n. 9: Latinio Alessandro, padre di Latinia Cleopatra, anch’egli membro della famiglia reale di Galazia, è glorificato (ll. 8 sgg.) per il seguente motivo: ejpi; th`/ tou` megivstou ⁄ aujtokravtoro~ Kaivsaro~ Trai>anou` ⁄ ÔAdrianou` Sebastou` parovdw/ kai; tw`n ⁄ iJerw`n aujtou` strateumavtwn dovnto~ ⁄ dianoma;~ th`/ povlei (la migliore trascrizione del testo è quella del D’ORBELIANI); cf. W. WEBER, Untersuch. z. Gesch. des Kaisers Hadrianus (1907), pp. 56 sgg. Evidentemente il passaggio del «sacro esercito» aveva talmente angustiato la città, che Alessandro credette di doverla aiutare con distribuzioni di viveri. Indubbiamente la missione speciale di Ti. Giulio Severo in Bitinia aveva quasi lo stesso scopo di quella anteriore di Plinio. Questi doveva preparare il paese a sostenere il suo grave onere; quegli fu inviato per rimettere in ordine dopo la guerra le dissestate finanze della provincia. Quale pesante carico fossero per le province i viaggi di Traiano (nonostante la sua moderazione, che PLINIO vanta tanto nella sua nota descrizione dei viaggi di Domiziano, Paneg., 20) è dimostrato dalla lettera del procuratore Celio Floro ad Opramoas (R. HEBERDEY, Opramoas (1897), inscr. nn. 8, 9, 13; cf. I. G. R. R. III, 739 (IV, cap. 13) e E. RITTERLING, «Rh. Mus.», 37 (1920), pp. 35 sgg.). Celio Floro cerca di indurre il magnate licio a preparare all’imperatore, nel suo ultimo viaggio del 117 d.C., la stessa accoglienza che tre anni prima gli aveva fatto il rivale galatico di Opramoas. Più tardi un ricco Palmireno ospitò l’imperatore e le sue truppe durante il loro soggiorno del 130 d.C., I. G. R. R. III, 1054; cf. WEBER, Unters., p. 122 e 237. Ha infine lo stesso carattere l’accoglienza ospitale, che durante la guerra partica di L. Vero fu fatta ad Efeso all’imperatore nel 162 o 164 d.C. da Vedio Gallo (Forsch. in Ephesos., III, p. 155, n. 72), e l’approvvigionamento dell’esercito reduce nel 166 o 167 per opera di T. Flavio Damiano, il celebre e favolosamente ricco sofista di questa città (Forsch. in Ephesos., III, pp. 161 sg., n. 80). Cf. anche I. G., IV, 759; WEBER, Unters., p. 183: riattamento di strade presso la città di Trezene in Grecia prima della visita di Adriano. Riguardo ai funzionari che avevano la cura dell’annona per l’imperatore, allorché si trovava in viaggio, e per l’esercito, vd. A. VON DOMASZEWSKI, Die Annona des Heeres im Kriege, nello ∆Epituvmbion Swoboda dargebracht (1927), pp. 17 sgg. Sembra che questo servizio sia stato ordinato per la prima volta sistematicamente da Traiano, che lo affidò a persone dell’ordine equestre. I magistrati municipali erano tenuti a fornir loro le vettovaglie. Cf. il pridianum della cohors I Hispanorum nel papiro pubblicato da A. HUNT nella Raccolta Lumbroso, pp. 265 sgg., ll. 54-57, 67, 69, 71. Cf. G. CANTACUZÈNE, «Aegyptus», 9 (1928), pp. 89 sgg.
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tempo di guerra, quando la necessità urgente obbligava l’imperatore a ricorrere, più spesso di quanto avrebbe voluto, a provvedimenti estremi. Su questo punto possediamo informazioni più particolari per il periodo successivo, del quale ci occuperemo nel capitolo seguente; ma senza dubbio gli espedienti cui allora si ricorse non erano nuovi. Reca tuttavia qualche sorpresa il vedere quanto le guerre di Traiano siano state disastrose in generale per l’Impero romano. Traiano, per conto suo, troppo preso dalle sue iniziative militari, troppo occupato ed impegnato in esse, non potè accorgersi che le sue spedizioni dovevano distruggere le forze vitali dell’Impero. Si accorse tuttavia della rapida decadenza dell’Italia e cercò di rimediarvi seguendo l’indirizzo già tracciato dai Flavii e da Nerva. Il pauroso sintomo di siffatta decadenza era lo spopolamento della penisola e il concomitante declinare dell’agricoltura italica. Abbiamo visto come Domiziano avesse tentato di salvar l’Italia vietando la piantagione di vigneti nelle province. Nerva poi aveva cercato di ripopolare la campagna risuscitando l’antica idea di distribuir terre ai cittadini poveri; e fu anche il primo a tentar di conseguire tal fine mediante l’istituzione degli alimenta. Traiano vietò ogni emigrazione dall’Italia e stabilì colonie di veterani nelle vicinanze immediate di Roma; obbligò i senatori ad acquistar terreni in Italia; aiutò i proprietari italici, piccoli e grandi a migliorare la loro situazione col fornir loro credito a buon mercato. È evidente che quest’ultimo provvedimento si collegava con gli altri tre ed era un altro mezzo per conseguire lo stesso intento di Nerva. Ma non bastava arrestare l’emigrazione dall’Italia e creare così artificialmente una grossa massa di proletari disoccupati. A costoro si dovevano provvedere abitazioni e lavoro. Il tentativo di Nerva di dar loro terra in proprietà privata si palesò eccessivamente costoso e non poté attuarsi su vasta scala. Traiano seguì un altro sistema: attrarre capitale in Italia, obbligando i senatori ad investire il loro denaro in terreni italici e fornendo prestiti a buon mercato ai proprietari italici. In questo modo furono redenti dei terreni che già andavano inselvatichendosi. Poiché l’economia schiavistica del primo secolo non era più redditizia (come abbiamo dimostrato nel capitolo sesto) e il sistema agricolo ormai prevalente era la coltivazione dei terreni per mezzo di coloni affittuari, questa redenzione di terreni importava una crescente domanda di coloni liberi e dava al proletariato nullatenente maggiori opportunità di possedere nelle tenute dei grandi proprietari casa, strumenti, bestiame, e anche qualche piccolo podere. Investendo il suo denaro in terreni italici e affittando questi terreni a coloni, Plinio operava in pieno accordo con le idee di Traiano e lo aiutava a risolvere il problema di ripopolar l’Italia. Un altro aspetto della stessa politica è costituito dalle manomissioni in massa che, facilitate dalla legislazione imperiale, s’ebbero in questo periodo. Un altro ancora fu il sistema di applicare all’allevamento dei figli del proletariato italico gli interessi del denaro che lo Stato prestava ai proprietari, cioè l’istituzione degli alimenta, sviluppata da Traiano e anch’essa imitata da grandi proprietari del tipo di Plinio, e a poco a poco estesa alle province. La politica economica e sociale di Traiano si proponeva adunque, come quella dei suoi predecessori, di salvare la posizione dominante dell’Italia e di restaurare l’antica supremazia economica di essa nell’Impero. Egli istituì speciali funzionari dell’ordine senatorio, che lo assistessero nell’impresa, con l’in-
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1. Traiano e i veterani
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2. Traiano e i mercanti
3. «Alimenta» per le città italiche
4. Traiano e le province
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DESCRIZIONE DELLA
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1. RILIEVO DELL’ARCO DI TRAIANO A BENEVENTO. Benevento. La bibliografia relativa a ques’arco è data alla nota 6 del capitolo VIII; qui basta riferirci a S. REINACH, Rép. d. rel., I (il nostro rilievo è a p. 65, 1). Nella nota 6 ho dato spiegazione generale dei rilievi dell’arco. Due veterani vengono introdotti da un gruppo di divinità presso l’imperatore circondato dal suo stato maggiore (tutti in abito civile). La principale tra le divinità è Virtus, che tiene in mano un vexillum con cinque aquilae, simbolo di cinque legioni. Virtus è accompagnata da Diana e da Silvanus Domesticus, divinità delle foreste e dei campi, protettrici della vita domestica sedentaria in campagna. È facile interpretare il rilievo come commemorazione di una concessione di terre fatta da Traiano ai soldati di cinque legioni, probabilmente non nelle province ma in Italia, come dimostrano il posto occupato dal rilievo, sul lato romano dell’arco, e i dati del Liber coloniarum. Cf. la nota 6 al capitolo VIII. 2. COME IL N. 1. S. REINACH, loc. cit., p. 65, 2. L’imperatore in abito civile saluta tre cittadini romani, anche essi in abito civile ed è da loro salutato. Questi tre personaggi rappresentano una località che si trova sotto la protezione di tre divinità: una di esse è Apollo (a sinistra), l’altra Ercole, e nella terza è stato riconosciuto Portunus. Poiché i protettori divini del navale della città di Roma erano precisamente Portunus, Hercules, Apollo, possiamo accettare la spiegazione del VON DOMASZEWSKI, secondo cui l’imperatore è ossequiato da tre uomini d’affari di Roma, cioè dai mercanti del Forum Boarium, il più importante centro di affari della capitale. 3. COME IL N. 1. S. REINACH, loc. cit., p. 66, 4. L’imperatore è ricevuto solennemente da un gruppo di quattro donne e due uomini. Le donne sono figure simboliche: portano corone turrite e simboleggiano senza dubbio quattro città d’Italia; una di esse tiene in braccio un bambino. I due uomini sono cittadini romani: ciascuno di essi porta un bambino sulle spalle e ha a lato un altro ragazzo più grande. All’angolo di destra vi sono degli alberi. Poiché questo rilievo orna l’intradosso dell’arco, e poiché gli altri rilievi dell’intradosso si riferiscono a Benevento, è naturale spiegare la nostra scena come simbolo della gratitudine di quattro città dell’Italia meridionale, tra cui Benevento, per l’istituzione degli alimenta creata da Traiano. L’Italia ormai, con l’aiuto degli alimenta, produce più uomini: ecco l’idea fondamentale del rilievo. 4. COME IL N. 1. S. REINACH, loc. cit., p. 61, 2. Una donna maestosa recante una corona turrita e appoggiata su un aratro (l’attributo della mano destra è perduto) sta di fronte all’imperatore Traiano, che le presenta due fanciulli – un bambino e una ragazzina più grande – che sono in atto di adorarla. La donna è protetta dal dio Marte. Dietro l’imperatore stanno altre due imponenti donne ornate di diademi: una di esse ha la cornucopia. Secondo la spiegazione del PETERSEN, la scena rappresenta Italia agricola adorata dai fanciulli allevati da Traiano. Egli pensa, infatti, che qui sia simboleggiata la rinascita agricola dell’Italia sotto la protezione delle armi vittoriose di Traiano (Marte), la prosperità dell’Italia e il ripopolamento di essa dovuti all’istituzione degli alimenta. Poiché il bassorilievo è rivolto non all’Italia e a Roma ma alle province, e poiché l’istituzione degli alimenta è già stata glorificata al n. 3, il VON DOMASZEWSKI crede che la scena simboleggi l’estensione della cittadinanza romana alle province per mezzo delle nuove colonie create da Traiano. Io preferisco riconoscervi il simbolo dell’Impero romano che ridiventa ricco e popoloso per effetto di una ragionevole politica militare. Marte, il dio della guerra, proteggendo l’Impero romano ne restaura la prosperità, ne arresta lo spopolamento, e crea dappertutto l’abbondanza. La seconda figura diademata che sta accanto ad Abundantia può essere Iustitia o Clementia, simboleggiante la liberale, giusta, clemente amministrazione delle province sotto Traiano e Adriano, e specialmente sotto Adriano come successore di Traiano.
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VIII. La politica economica e sociale dei Flavii e degli Antonini
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carico di rivolgere tutte le forze delle città italiche verso lo scopo comune. Ma i suoi tentativi non ebbero successo completo: la decadenza dell’Italia fu forse contenuta per breve tempo, ma non poteva del tutto arrestarsi. Ciò che capitò a Plinio coi suoi coloni è indice caratteristico delle condizioni del paese. L’Italia non era più, né poteva essere, il centro economico dell’Impero6.
6. Nerva: DIO CASS., 68, 2, 1; PLIN. IUN., Ep., VII, 31, 4; DESSAU, I. L. S., 1019; DIG., 47, 21, 3, 1; H. SCHILLER, Gesch. d. röm. Kaiserzeit, I, 2, p. 540; O. SEECK, Gesch. d. Unterg. d. ant. Welt, I, p. 324; TH. MOMMSEN, Röm. Staatsrecht, II, 3a ediz., p. 995, cf. p. 883; A. MERLIN, Les Revers monétaires de l’empereur Nerva (1906). Traiano: divieto d’emigrazione e fondazione di colonie in Italia o assegnazione di terre italiche a veterani, SCR. HIST. AUG., M. Aur., 11, 7 (vd. sopra, nota 2); Liber coloniarum, ed. da E. PAIS (1923), p. 36, 3 (p. 223 L.) – Veii, cf. p. 181; C. I. L. XI, 3793; p. 58, 27 sgg. (p. 234 L.) – Lavinium, cf. p. 234; C. I. L. XIV, 2069; p. 62, 7 sgg. (p. 236 L.) – Ostia, cf. p. 242. E. KORNEMANN, «R. E.», IV, art. Colonia, non menziona le colonie fondate da Traiano in Italia: motivo ne è l’ingiustificata sfiducia nei dati del Liber coloniarum, manifestata dal MOMMSEN per primo; ma sembra sia nel vero il PAIS ritenendo che la maggior parte di tali dati derivino da buone fonti, una delle quali, e proprio una delle più importanti e degne di fede, appartiene precisamente all’età di Traiano. Circa le colonie militari di Traiano vd. RITTERLING, «R. E.», XII, coll. 1287 sgg. Circa gli schiavi e le manomissioni vd. V. MACCHIORO, L’Impero romano nell’età dei Severi, «Riv. di st. ant.», 10 (1906), pp. 201 sgg. Il processo incominciò sin dai primi tempi del sec. II. Una delle più importanti questioni relative alla situazione dei liberti dopo l’emancipazione è quella che riguarda il loro diritto ad acquistar proprietà nel territorio delle città provinciali; questione, che richiede d’essere studiata di nuovo; vd. A. CALDERINI, La manomissione e la condizione dei liberti in Grecia (1908), pp. 318 sg.; cf. A. MAIURI, «Ann. d. R. Scuola archeol. d’Atene», 4-5 (1924), p. 485. Circa gli alimenta vd. cap. VI, nota 4. Accetto l’opinione espressa da J. CARCOPINO nella sua interessante recensione, «Rev. Ét. An.», 23 (1921), pp. 287 sgg., del libro del DE PACHTÈRE, e non posso associarmi alla teoria di G. BILLETER, Gesch. d. Zinsfusses (1898), pp. 187 sgg., secondo cui Traiano considerò i suoi prestiti come un peso per la munificenza dei ricchi agrari d’Italia. Circa la politica sociale ed economica di Traiano, vd. R. PARIBENI, Optimus princeps, II, pp. 150 sgg. L’operosità di Traiano è rappresentata in sintesi simbolica nei rilievi che adornano l’arco di Benevento, che fu votato all’imperatore dal Senato romano nel 114 d.C., ma terminato soltanto nei primi anni di Adriano. Qundi quest’ornamentazione sculturale offre non solo il quadro dell’operosità di Traiano, ma anche il programma di Adriano, che appare due volte nei rilievi, una volta come socio di Traiano e un’altra come erede del suo potere: nell’ingresso al Campidoglio (2° rilievo degli attici) e poi nel rilievo che raffigura l’assoggettamento della Mesopotamia. Il simbolismo dell’arco è perfettamente chiaro, ed è Stato ottimamente illustrato tanto da E. PETERSEN quanto da A. VON DOMASZEWSKI, sebbene il significato di talune scene sia ancor dubbio. Io spiego questo simbolismo nel modo seguente. Il motivo fondamentale è la glorificazione della pace e del benessere, conquistati con le grandi gesta guerriere di Traiano, conservati e accresciuti da Adriano. Il fronte interno dell’arco, volto a Benevento e quindi a Roma, è dedicato per l’appunto a Roma. Esso mostra come l’imperatore è accolto in trionfo da tutte le classi della popolazione di Roma e dell’Italia: dalle divinità e dalla città di Roma, dalla nobiltà senatoria, equestre e municipale, dai cives romani, dagli uomini d’affari del Foro Boario e dai veterani della guardia pretoriana e delle legioni. Il fronte esterno mostra le vittorie di Traiano sulla Mesopotamia, sulla
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Frattanto anche le condizioni delle province diventavano sempre peggiori. Non si può menomamente affermare che Traiano non abbia posto mente ai loro bisogni. Abbiamo ripetutamente accennato alla sua attività sistematica, non meno ampia di quella di Vespasiano, nel promuovere la vita di città in alcune province. Egli si propose anche di porre fine agli abusi dei governatori, come attestano i non pochi processi cui Plinio prese parte così attiva; cercò di mettere in ordine gli affari finanziari delle città provinciali nominando speciali curatori incaricati di amministrarne più efficacemente le proprietà e di ridurne quelle spese ch’erano destinate soltanto a rendere la vita delle città più facile e comoda. La rovina delle città importava la rovina dello Stato, essendo esse responsabili del pagamento delle imposte dovute dai loro abitanti e da quelli
Partia (?), sul Settentrione, la concessione della honesta missio ai veterani, la pace e il benessere che Traiano ha procacciato a tutto l’Impero, fondandoli sull’agricoltura che dà vita alla Abundantia, e sulla politica di ripopolamento, simboleggiata dai fanciulli. I due rilievi interni dell’arco si riferiscono alla città di Benevento: uno raffigura l’istituzione di alimenti, l’altro il sacrificio offerto dall’imperatore nella città. Il pensiero fondamentale è quindi quel medesimo che inspira la monetazione di Adriano coi suoi nuovi tipi e le nuove leggende felix Roma, Italia felix, saeculum aureum, tellus stabilita, temporum felicitas, nonché le monete recanti le figure delle province (WEBER, Unters., p. 87 e 92). Cf. H. MATTINGLY, Some historical coins of Hadrian, «J. R. S.», 15 (1925), pp. 209 sgg., specialmente pp. 214 e 219. Il MATTINGLY dimostra che le quattro grandi serie del 134-35, province – adventus – exercitus – restitutor, «non erano né l’annunzio di una nuova politica né il commento di essa, ma volevano anzi essere il coronamento di un’opera già compiuta. L’Impero figura non come semplice dominio di Roma, ma come una grande famiglia di popoli». Cf. l’interessante analisi di questi tipi fatta da MATTINGLY e SYDENHAM, The Roman Imperial coinage, II (1926), pp. 331 sgg. La monetazione di Adriano può indubbiamente servire a farci conoscere le idee fondamentali di quest’imperatore tanto quanto i numerosi monumenti dell’età di Augusto per ricostruire la politica augustea. Intorno all’arco di Benevento vd. E. PETERSEN, «Röm. Mitt.», 7 (1892), pp. 240 sgg.; A. MEOMARTINI, I monumenti e le opere d’arte di Benevento (1909), pp. 82 sgg.; A. VON DOMASZEWSKI, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 2, pp. 173 sgg., riprodotto nelle Abhandlungen zur römischen Religion (1909), pp. 25 sgg.; W. WEBER, Unters., pp. 4 sgg. e 21 sgg.; BELLISSIMA, Arco di Trajano in Benevento (1905) e Brevis descriptio arcus etc. (1910); Mrs. A. STRONG, La scultura romana (1926), II, pp. 191 sgg.; S. REINACH, Rép. d. rel., I, pp. 58 sgg.; G.A.S. SNIJDER, «Jahrb. d. d. arch. Inst.», 41 (1926), pp. 94 sgg.; R. PARIBENI, Optimus princeps, II, pp. 255 sgg. La tendenza a conservare rigidamente i privilegi delle classi superiori della popolazione, e specialmente dei cittadini romani dell’Oriente e dell’Occidente, continuò ad essere in complesso il principio politico direttivo della monarchia illuminata. Essa si manifesta p. es. nettamente nello Gnomon idiu logu recentemente trovato; vd. le giuste osservazioni di J. CARCOPINO, «Rev. Ét. An.», 24 (1922), pp. 19 sgg. Lo sforzo di tutelare i deboli contro i potenti (vd. nota 19) non ha che fare con la rigida divisione della popolazione in due classi o caste, da un lato i Romani e i romanizzati (o ellenizzati), dall’altro gli indigeni, i barbari. La protezione dei deboli mirava a dare equità ai rapporti economici e a mettere le classi inferiori in condizione da poter salire a poco a poco ad un livello, dal quale fosse facile la loro assimilazione nella classe superiore e privilegiata degli abitanti dell’Impero.
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1. Soldati di Traiano che foraggiano in paese nemico
2. Il bagaglio dell’esercito di M. Aurelio
3. Il bottino e i priginieri di guerra
TAV. LXIX – I PESI DELLA GUERRA
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1. RILIEVO DELLA COLONNA DI TRAIANO. Roma, Forum Traiani. C. CICHORIUS, Die Reliefs der Traianssäule, III, p. 203, tav. LXXXI. Nello sfondo l’accampamento romano, separato dalla scena del primo piano da una catena di monti (il lato sinistro della figura appartiene alla scena precedente, che mostra dei soldati che entrano in un campo di recente costruito). Il primo piano è occupato da un rigoglioso campo di grano; le spighe sono mature e il raccolto è eccellente; i soldati romani hanno passato i monti per mietere il campo del nemico e trasportare il grano nell’accampamento a dorso di mulo. Senza dubbio essi, in caso di necessità, tratterebbero alla stessa maniera anche le loro province, specialmente in tempo di guerra civile. 2. RILIEVO DELLA COLONNA DI M. AURELIO. Roma, Piazza Colonna. E. PETERSEN, A. VON DOMASZEWSKI, G. CALDERINI, Die Marcus-Säule, tavv. CI e CII, n. XCIII; S. REINACH, Rép. d. rel., I, p. 323, n. 115. Carriaggi dell’esercito di M. Aurelio. Pesanti carri tirati da buoi e da cavalli, e carichi degli impedimenta dell’esercito, procedono lentamente con una scorta di soldati. Può facilmente immaginarsi quale enorme quantità d’animali occorresse per il trasporto del bagaglio dei soldati, del materiale da guerra, delle vettovaglie. La maggior parte di queste bestie erano certamente requisite nelle province romane, mentre il paese nemico non ne forniva che una piccola parte. 3. COME IL N. 2. E. PETERSEN ecc., op. cit., tav. LXXXII, n. LXXIII; S. REINACH, loc. cit., p. 317, n. 91. Soldati romani che portano via la preda di guerra, composta di vacche, pecore, donne prigioniere. La scena è tipica e frequentemente ripetuta sulla colonna, cf., per esempio, tav. XXXIII, nn. XXV e XXVI; tav. CXIXA, nn. CX-CXI, ecc. Tra i prigionieri non compaiono uomini; il bottino è composto unicamente di bestiame, di donne, di fanciulli. I rilievi delle colonne di Traiano e di M. Aurelio sono il contrapposto dell’arco di Benevento: mentre questo, infatti, esprime il programma degli Antonini, questi altri rilievi dànno un quadro realistico della vita e illustrano efficacemente i gravi pesi imposti all’Impero romano dalle difficili guerre ch’esso doveva sostenere per garantire la sicurezza dell’Italia e delle province.
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2. Si cancellano i debiti verso lo stato abbruciando i relativi registri
1. Gli «alimenta»
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1. RILIEVO DI UNA DELLE DUE BALAUSTRATE DEL FORO. Rinvenute nel Foro Romano, dove attualmente si trovano. Signora A. STRONG, Roman Sculpture, pp. 150 sgg., tav. XLV (cf. La scultura romana, pp. 138 sgg.); S. REINACH, Rép. d. rel., I, p. 278 (entrambi con bibliografia). Spesso riprodotte anche in altre opere. L’imperatore, probabilmente Traiano, ritto sui Rostra del Foro romano (i cui edifici si vedono sullo sfondo, col simbolo di Roma – la statua di Marsyas e il sacro fico – nell’angolo di destra) annuncia ai cittadini romani una buona notizia. La notificazione è accolta con soddisfazione e applausi. La natura di essa è chiarita dalla scena seguente. L’imperatore siede sul tribunale, circondato da cittadini romani, e una figura simbolica, probabilmente l’Italia, gli presenta un fanciullo. Secondo il Petersen le figure dell’imperatore e dell’Italia riproducono un gruppo statuario. È evidente che il rilievo voleva glorificare l’istituzione degli alimenta, dalla quale si sperava l’arresto dello spopolamento dell’Italia. 2. RILIEVO DELLA SECONDA BALAUSTRATA DEL FORO. Rinvenuto nel Foro romano, dove si trova attualmente. A. STRONG, loc. cit.; S. REINACH, loc. cit., p. 279. L’imperatore (Traiano o Adriano?), seduto sui Rostra, dà ad un alto magistrato, probabilmente il prefetto della città o il prefetto dei pretoriani, un ordine che viene immediatamente eseguito. Pretoriani in abito semimilitare (tunica e cintura per la spada) portano dei documenti e li accatastano davanti all’imperatore. Dietro le figure si vedono gli edifici del Foro, e dall’altra parte la statua di Marsyas e il fico sacro. La scena abitualmente viene spiegata come raffigurante l’abbruciamento, ordinato da Traiano, delle annotazioni degli arretrati d’imposta dovuti dai provinciali. Essa potrebbe anche rappresentare la cancellazione, disposta da Adriano, dei debiti contratti verso il fiscus da privati di Roma e d’Italia. Cf. cap. V, nota 48. Come tanti altri monumenti in cui appare Traiano (per es. l’arco di Benevento), così anche la balaustrata può essere stata fatta fare da Adriano per glorificare le opere compiute sia dal suo predecessore sia da lui stesso. Questi due rilievi dimostrano ancora una volta quale fosse la grave preoccupazione principale degli Antonini: lo spopolamento dell’Italia e il grave peso dei tributi che rovinava l’Impero. Cf. W. SESTON, Les «Anaglypha Traiani» du Forum Romain et la politique d’Hadrien en 118, «Mél. Éc. Fr. Rome Anc.», 45 (1927), e per un’esatta descrizione e un’attenta analisi dei due bassirilievi S. PANTZERHIELM THOMAS, De nonnullis operibus anaglyphis artificii Romani, «Symb.Osl.», 10 (1932), pp. 109-145.
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dei territori loro aggregati7. Però queste mezze misure non giovarono. Allorché Traiano morì nel ritornare dalla Mesopotamia a Roma, la situazione dell’Impero era tutt’altro che splendida. Le sue vittorie non erano riuscite ad arrestare gli assalti dei vicini più pericolosi: tanto i Jazigi della Theiss quanto i Rossolani del basso Danubio ripresero contro le province i loro minacciosi movimenti, che per qualche tempo la conquista della Dacia aveva arrestati. Un’altra guerra scoppiò in Britannia, un’altra ancora in Mauretania. Anche gli Ebrei della Mesopotamia, della Palestina, dell’Egitto, della Cirenaica iniziarono pericolose e sanguinose rivolte, l’ultima delle quali devastò terribilmente la Cirenaica. Le città d’Italia e delle province non erano in grado di sostenere le spese di tutta questa nuova serie di guerre che parevano inevitabili8. La pericolosa situazione dell’Impero ci dà la spiegazione della politica del successore di Traiano, Adriano. È vano dire che questi mostrò difetto d’intelligenza e d’energia nell’abbandonare le conquiste mesopotamiche del predecessore e nel fare, dopo qualche fortunata operazione militare, certe concessioni ai Sarmati. Adriano fu uomo di grande energia e di vasto intelletto: lo dimostrano i suoi atti. Nessun imperatore godé altrettanta popolarità tra i soldati, sebbene egli mantenesse la disciplina più rigorosa; nessun imperatore seppe apprezzare così profondamente come lui, come vedremo, i bisogni dell’Impero. Se egli rinunziò alla politica aggressiva di Traiano fu perché s’accorse ch’essa era inattuabile, che i mezzi dell’Impero non erano abbastanza grandi per poter sostenere una politica di ulteriori conquiste. Il primo compito spettante ad un prudente capo dell’Impero era di stabilire fondamenti forti e sicuri prima d’avventurarsi a nuove conquiste: e questa fu appunto la politica di Adriano. Egli non poté esimersi dal costringere i Sarmati a sottomettersi, giacché questa era un’assoluta necessità; ma si astenne dall’annettere nuovo territorio e si accontentò della loro promessa di proteggere le frontiere dell’Impero romano in cambio d’un sussidio annuo, nel che non fece altro che imitare la politica seguita da Traiano nelle sue relazioni col regno bosforano. Represse la rivolta degli Ebrei in Oriente e ripopolò la Cirenaica inviandovi colonie; fece delle guerre fortunate tanto in Britannia quanto in Mauretania, ed in entrambe queste regioni introdusse importanti miglioramenti nelle difese militari. In Mesopotamia creò Stati-cuscinetto che servissero di baluardo contro gli assalti dei Parti, e conservò e ordinò l’Arabia Petrea e le regioni circostanti. Con l’introdurre a poco a poco il sistema del reclutamento locale infuse nuovo vigore nei corpi militari, che ormai divennero familiari coi bisogni delle province in cui erano stanziati. Rafforzando le fortificazioni del limes romano non trasformò l’Impero in un’altra Cina che facesse assegnamento soltanto sulle proprie mura, ma facilitò il compito di difender le province. La loro principale difesa era tuttavia ancora lo spirito combattivo e la disciplina
7. Una buona rassegna della politica provinciale di Traiano è data da A. VON DOMASZEWSKI, Abhandlungen zur röm. Rel. (1909), pp. 40 sgg.; cf. «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 2, pp. 173 sgg. e W. WEBER, Traian und Hadrian, «Meister der Politik» (1923), pp. 69 sgg. 8. WEBER, Unters., pp. 50 sgg.; B.W. HENDERSON, The Life of Hadrian, p. 34.
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dei soldati romani, e queste qualità mai raggiunsero un grado così elevato come sotto Adriano9. Ma ad Adriano spettava principalmente il compito di consolidare le fondamenta dell’Impero. L’avere egli anzitutto condonato la solita imposta dell’elevazione al trono (aurum coronarium, stevfano~) all’Italia e l’averla ridotta nelle province, l’aver fatto seguire a questo primo sgravio la cancellazione generale dei debiti verso il fiscus in Italia e una cancellazione parziale degli arretrati delle città provinciali, l’avere soccorso generosamente (cosa non meno importante) le città dell’Impero, sono tutti fatti che stanno a dimostrare come la situazione generale fosse molto critica ed esigesse sollievo immediato. Fino a un certo punto il disordine era dovuto ai soprusi e alla corruzione dei pubblici funzionari, mali, questi, ch’erano stati favoriti dallo stato di guerra, durato quasi in permanenza sotto Traiano. Abbiamo visto che Traiano era conscio di questo malanno e lo aveva combattuto. Adriano cercò di ovviarvi regolando e migliorando il meccanismo amministrativo dello Stato, e adoperando a tal fine i servigi e l’abilità della classe più capace e intelligente dell’Impero, quella dei cavalieri. L’esazione delle imposte, in quanto non venisse fatta dalle città, fu concentrata quasi esclusivamente nelle mani dei cavalieri, in parte come agenti diretti dello Stato, in parte come suoi concessionari (conductores), strettamente sorvegliati da funzionari imperiali. Fu conservata e sviluppata l’istituzione dei curatori delle città. La vasta sua esperienza aveva dimostrato all’imperatore non esservi altro mezzo per tenere in ordine le finanze delle città. Tutte queste riforme, è vero, accrebbero ancora gli oneri dei contribuenti: ma Adriano credeva, e con ogni ragione, che questo fosse un male minore delle guerre interminabili10.
9. L’opera capitale su Adriano sono le, Untersuchungen zur Geschichte des Kaisers Hadrianus, di W. WEBER (1907), opera ricca di dati e di osservazioni acute; cf. E. KORNEMANN, Kaiser Hadrian und der letzte grosse Historiker Roms (1905); G. MANCINI e D. VAGLIERI in DE RUGGIERO, Diz. ep., III, pp. 640 sgg.; e W. WEBER, Traian und Hadrian (1923); L. PERRET, La Titulature impériale d’Hadrien (1929). Un’utile raccolta delle lettere e dei discorsi di Adriano che ci sono pervenuti si può trovare in P.J. ALEXANDER, Letters and Speeches of the Emperor Hadrian, «Harv. Studies Class. Phil.», 49 (1938), pp. 141-177. Intorno alla politica militare di Adriano vd. E. KORNEMANN, «Klio», 7 (1907),
pp. 88 sgg. Per lo stato attuale della questione relativa al vallo di Adriano in Britannia vedi la breve ma luminosa esposizione di R.G. COLLINGWOOD nell’Hadrian del HENDERSON, p. 166 e l’articolo del medesimo autore nello «J. R. S.», 11 (1921). È interessante osservare che il principio politico d’Adriano, che in caso di bisogno dovesse comperarsi la pace – principio apertamente seguito poi dai successori di lui, specialmente da Commodo e dai Severi, sebbene combattuto dal Senato e dagli uomini più ragguardevoli dello Stato – era caldeggiata da alcuni filosofi; vd. PHILOSTR., Vita Apoll., II, 26. 10. Intorno alle riforme amministrative di Adriano vd. il pregevole libro di R.H. LACEY, The Equestrian Officials of Trajan and Hadrian: their Careers, with Some Notes on Hadrian’s Reforms (Princeton, 1917); A. STEIN, Der römische Ritterstand (1927), pp. 447 sgg. Circa i curatores vd. E. KORNEMANN, «R. E.», IV, coll. 1806 sgg. Per i logistaiv dell’Oriente, M.N. TOD, «J. H. S.», 42 (1922), pp. 172 sgg. Sono molto istruttive le
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Ma Adriano era il primo ad accorgersi che tutti questi non erano se non palliativi, che di per sé non potevano salvare l’Impero. La radice del male non consisteva nella cattiva amministrazione o negli sperperi delle città, e neppure nella necessità di difender le frontiere dalle aggressioni: era invece la fragilità delle fondamenta, specialmente di quel fondamento economico su cui poggiava l’intiero edificio dell’Impero. Questo non era abbastanza civile, cioè la sua vita economica non era abbastanza progredita da poter sostenere il grave peso creato dalla necessità di mantenersi come singola unità politica. Questo è il motivo per cui Adriano, pur aiutando e proteggendo l’Italia, infine rinunziò all’idea di restaurarne la supremazia su tutto l’Impero e dedicò la propria vita alle province. Non fu semplice curiosità quella che lo spinse a visitare ripetutamente gli angoli più remoti dell’Impero: i suoi bisogni intellettuali lo aiutarono a sopportare e magari a godere questa vita di viaggi incessanti, ma ad essi non lo guidò la passione di osservare paesi. Egli desiderava di conoscere personalmente in tutti i particolari l’Impero che governava; sentiva inoltre perfettamente d’essere il capo d’un Impero greco-romano e che sarebbe stato vano ogni tentativo di dare la preferenza ad una regione piuttosto che ad un’altra. Ciò spiega la sua politica filellenica, che d’altronde era favorita anche dalle tendenze intellettuali e artistiche dell’imperatore. V’era una via, e, almeno secondo gli antichi pensatori, una soltanto, per migliorare la vita delle province e portarla a più alto livello: ed era la ulteriore urbanizzazione, la creazione continua di nuovi nuclei di civiltà e di progresso. Questa convinzione, nonché il desiderio di trarre l’esercito principalmente da tali elementi inciviliti, indussero Adriano ad attuare in tutte le province dell’Impero una sistematica politica d’urbanizzazione. È impossibile dire quante città egli abbia create nei suoi viaggi: non abbiamo in proposito se non scarsissimi dati. Ma si può affermare con sicurezza che dopo Augusto, Claudio, Vespasiano, Traiano, egli fu l’imperatore che maggiormente contribuì ad urbanizzare l’Impero. La sua attività si volse principalmente a quelle regioni che la loro posizione destinava ad essere il sostegno delle più importanti frontiere mili-
epigrafi che riguardano M. Ulpio Euricle e la sua nomina a logisthv~, prima della gherusia di Efeso poi di una città (Aphrodisias), presso DITTENBERGER, O. G. I. S., 508 sg., cf. Forsch. in Ephesos., II, pp. 119 sgg. n. 23 (età di M. Aurelio e di Commodo); vd. supra, p. 213; J.H. OLIVER, The Sacred Gerusia, «Hesperia», Suppl. VI (1941), pp. 45-47.
Una delle più esiziali innovazioni di Adriano fu l’aver adibito al servizio speciale imperiale una determinata categona di soldati, che in origine avevano l’incarico di acquistare provvigioni per il loro reparto (frumentarii), servendosene come spie o ad altri scopi, vd. DESSAU, I. L. S., 9473 sg.; A. VON DOMASZEWSKI, Die Rangordnung d. röm. Heeres, pp. 63 e 109. Il tema dei frumentarii è stato trattato recentemente nello «J. R. S.», 13 (1923, pubblicato nel 1925) da P.K.B. REYNOLDS, che per quanto riguarda la funzione originaria giunge allo stesso risultato: purtroppo però il REYNOLDS in questa sua pregevole raccolta e disamina dei dati epigrafici non tien conto né della su citata opera del VON DOMASZEWSKI né dei contributi di O. HIRSCHFELD, vd. cap. IX, note 7 e 44 e cap. XI, nota 26. Per le riforme di Adriano in materia di riscossione d’imposte vd. il mio libro Staatspacht, pp. 395 sgg., 418 sgg., e passim.
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tari. La frontiera del Reno, è vero, era sicura, appoggiandosi essa alla Gallia e alla Spagna; ma non v’era alcuna Gallia o Spagna che coprisse i limites del Danubio e dell’Africa. Ad onta degli sforzi di Claudio, dei Flavii, di Traiano, nella maggior parte delle province danubiane, e specialmente nelle regioni traciche, la vita urbana era tuttora nell’infanzia; vasti distretti dell’Asia Minore e della Siria continuavano a condurre l’antica vita rustica, e lo stesso avveniva in ampie zone dell’Africa. Negli ultimi due capitoli abbiamo descritto l’attività svolta da Adriano in queste province. Nei paesi danubiani sono molto frequenti i municipia Aelia; e frequenti sono anche, nelle zone di lingua greca della penisola balcanica e nell’Asia Minore, le città recanti il nome di Hadrianopolis o altro consimile. Oltre alla nota fondazione di Antinoupolis in Egitto, esempi notevoli degli sforzi di Adriano sono Hadrianuthera e Stratonicea nell’Asia Minore, l’una e l’altra dapprima villaggi; e anche alcune località dell’Africa furono soltanto da lui convertite in città. A certe comunità di villaggio, che non erano ancora mature per la vita di città, Adriano concesse tuttavia preziosi privilegi che vi resero la vita simile a quella delle vere città11. Tuttavia esistevano vaste zone non toccate dalla vita di città, come i campi d’Egitto e i grandi demani imperiali d’Asia e di Africa. Adriano conosceva a fondo le condizioni in cui si svolgeva la vita di questi demani, sapeva che l’Impero dipendeva in buona parte dalle rendite che da essi si ricavavano, e ch’era pericoloso trasformarli in territori urbani e così distrarre una parte considerevole dei loro prodotti per sostentare una città. Né si può mettere in dub-
11. Stratonicea Hadrianopolis, DITTENBERGER, Syll.3, 837; I. G. R. R. IV, 1156, 9; ABBOTT e JOHNSON, Mun. Adm. in the Roman Empire, p. 405, n. 83: divkaia ajxiou`n moi dokei`te kai; ajnagkai`a a[ªrº⁄ti geinomevnhi povlei: tav te ou\n tevlh ta; ejªkº⁄ th`~ cwvra~ divdwmi uJmei`n. Con tevlh naturalmente s’indicano i pagamenti dovuti dalla popolazione rurale del territorio assegnato alla città novellamente creata rifondata da Adriano, né si tratta di un condono d’imposte da parte dell’imperatore. Su Hadrianuthera vd. W. WEBER, Unters., p. 131; L. ROBERT, Villes d'Asie Mineure. Études de géographie ancienne, Paris, 1935, pp. 65 sg. Il ripopolamento della Cirenaica, che fa riscontro al ripopolamento traianeo della Dacia, è menzionato da OROSIO, 7, 12): per totam Libyam adversus incolas atrocissima bella gesserunt (i Giudei), quae adeo tunc interfectis cultoribus desolata est, ut nisi postea Hadrianus imperator collectas aliunde colonias deduxisset, abraso habitatore mansisset. Gli altri accenni a questi avvenimenti sono raccolti dal WEBER, Unters., p. 119. La condotta amichevole di Adriano verso i villaggi dell’Asia Minore è attestata per es. dall’iscrizione I. G. R. R. IV, 1492. Intorno all’attività di Adriano in Africa vd. WEBER, Unters., p. 203; L. POINSSOT, «C. R. Acad. Inscr.», 1915, p. 6; cf. A. MERLIN, Forum et maisons d’Althiburos, p. 30; F. DE PACHTÈRE, «Bull. arch. du Comité d. travaux histor.», 1911, p. 390 e T.R.S. BROUGHTON, The Romanization of Africa Proconsularis (1929), pp. 171 sg. Concessione di privilegi a villaggi: DESSAU, I. L. S., 6777 (vicus Haterianus); «Bull. arch. du Comité d. travaux histor.», 1897, p. 296, n. 13; C. I. L. VIII, 23896: gli uomini, che in quest’epigrafe rendono onore all’imperatore Adriano, non erano probabilmente membri della comunità di Thabbora, che più tardi diventò municipium (C. I. L. VIII, 23897, DESSAU, I. L. S., 8941), sibbene gli abitanti d’un vicus prossimo a Thabbora o un gruppo di coloni imperiali residenti non lungi da Thabbora.
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1. Adriano
2. Monete di Adriano
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DESCRIZIONE DELLA
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BUSTO DI ADRIANO col viso a metà rivolto verso la spalla sinistra. British Museum. A.H. SMITH, A Catalogue of Sculpture ecc., III (1904), p. 158, n. 1897. a) AUREUS DI ADRIANO. Faccia: IMP. TRAIANO. AVG. GER. DAC P. M. TR. P. Busto di Traiano rivolto a destra, con corona di lauro. Verso ALIM(enta) ITAL(iae). COS. V. P. S. P. O. R. OPTIMO. PRINCIPI. Traiano stante, volto a sinistra, in abito civile, distribuisce denaro a due fanciulli. Circa 107 d.C. Cf. COHEN, II, p. 19, n. 15. b) DENARIUS DI ADRIANO. Faccia IMP. CAES. TRAIANUS. HADRIANUS AVG. Busto di Adriano volto a destra con corona laurea. Rovescio LIB(ertas) PVB(lica). P. M. TR. P. COS. III. La dea Libertas assisa e rivolta a sinistra. Circa 120 d.C. Cf. COHEN, III, p. 184, n. 948. c) AUREUS DI ADRIANO. Faccia IMP. CAES. TRAIAN. HADRIANVS AVG. Busto di Adriano volto a destra con corona laurea. Rovescio SAEC(ulum) AVR(eum) P. M. TR. P. COS. III. Personificazione dell’età dell’oro entro un’aureola ovale, avente nella destra il globo su cui poggia la fenice. Circa 120 d.C. COHEN, II, p. 216, n. 1321. d) DENARIUS DI ADRIANO. Faccia HADRIANVS. AVGVSTVS. Capo di Adriano volto a destra con corona laurea. Rovescio COS. III. L’Abbondanza con cornucopiae e patera seduta verso sinistra davanti a un modius; a lato ad essa il globo. Circa 127 d.C. COHEN, II, p. 138, n. 379. e) DETTO. Faccia HADRIANVS. AVGVSTVS. Testa di Adriano verso destra, con corona laurea. Rovescio CLEMENTIA. AVG. P. P. COS. III. La dea stante verso sinistra, con patera e scettro. Circa 133 d.C. COHEN, II, p. 122, n. 233. f) DETTO. Faccia HADRIANVS. AVGVSTVS. Testa di Adriano verso sinistra. Rovescio INDVLGENTIA. AVG. P. P. COS. III. La dea assisa verso sinistra, con lo scettro. Circa 133 d.C. COHEN, II, p. 177, n. 857. g) DETTO (solo rovescio). IVSTITIA AVG. P. P. COS. III. La Giustizia assisa verso sinistra, con patera e scettro. Circa 133 d.C. COHEN, II, p. 180, nn. 884 sgg. h) DETTO (solo rovescio). SECVR(itas) PVB(lica). COS. III. P. P. La dea assisa verso sinistra. Circa 133 d.C. COHEN, Il, p. 222, nn. 1399 sg. i) DETTO. Faccia HADRIANVS. AVGVSTVS. Busto di Adriano verso destra. Rovescio TRANQUILLITAS AVG. COS. III. P. P. La dea stante verso sinistra. Circa 133 d.C. COHEN, II, p. 225, n. 1440. j) DETTO. Faccia HADRIANVS AVG. COS. III. P. P. Testa di Adriano verso destra con corona laurea. Rovescio ANNONIA AVG. Modius con quattro spighe di grano e due papaveri. Circa 135 d.C. COHEN, II, p. 118, n. 170. k) DETTO. Faccia HADRIANVS AVG. COS. III. Testa di Adriano verso sinistra. Rovescio FIDES PVBLICA. La dea stante verso sinistra, col capo a destra con spighe di grano e un cesto di frutti. Circa 136 d.C. COHEN, II, p. 168, n. 218. l) AUREUS DI ADRIANO. Faccia HADRIANVS AVG. COS. III. P. P. Testa di Adriano a destra. Rovescio SECVRITAS AVG. La dea assisa verso destra. Circa 136 d.C. COHEN, II, p. 222, n. 1402. m) DENARIUS DI ADRIANO. Faccia HADRIANVS AVG. COS. III. P. P. Testa di Adriano verso destra. Rovescio TELLUS STABIL(ita). La dea stante verso sinistra, con un aratro; a destra due spighe di grano. Circa 135 d.C. COHEN, II, p. 224, n. 1425. Tutte queste monete si trovano nel Britsh Museum. Debbo la scelta di esse, i calchi, e le date, alla cortesia del signor H. MATTINGLY.
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VIII. La politica economica e sociale dei Flavii e degli Antonini
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bio ch’egli fosse ben conscio che le condizioni economiche di questi demani erano tutt’altro che normali. I contadini egiziani, specialmente dopo la rivolta giudaica, si lagnavano amaramente del peso eccessivo delle imposte; nei demani africani gli appaltatori generali (conductores) preferivano le terre da pascolo ai campi graniferi e ai frutteti, e lasciavano che campi e vigne rimanessero incolti, diminuendo così il terreno capace di nutrire famiglie d’agricoltori. L’ideale di Adriano, a quanto possiamo giudicare da ciò che rimane della sua legislazione, era d’avere nelle sue tenute un robusto nucleo di agricoltori industriosi, che introducessero forme più elevate di coltivazione, fornissero validi soldati all’esercito, e pagassero regolarmente le imposte allo Stato. Egli non desiderava affatto di avere miserabili coloni che lavorassero pigramente il loro appezzamento e non facessero altro che lagnarsi degli abusi degli appaltatori generali e dei funzionari imperiali e dei gravi oneri loro imposti dall’obbligo di pagare il canone di fitto e di prestare i servizi coattivi. Egli voleva buoni frutticultori e viticultori, che fossero proprietari (possessores) della terra anziché affittuari; ed operò secondo quest’ideale. Alcuni documenti rinvenuti in Egitto provano infatti che Adriano trasformò certi tratti di «terra regia» in poderi d’affitto, che però venivano trattati quasi allo stesso modo delle proprietà private. Il nome dato a questo nuovo tipo di terra era basilikh; gh` ijdiwtikw`/ dikaivw/ ejpikratoumevnh oppure basilikh; gh` ejn tavxei ijdiokthvtou ajnagrafomevnh. Il mutamento, effettuato almeno sin dal 117 d.C., fu suggerito dalla grave decadenza in cui si trovava l’agricoltura in alcune parti dell’Egitto, in parte per effetto della guerra giudaica; e nell’abbassare il canone di fitto e nel concedere i fitti a lungo termine, che davano loro quasi il carattere di proprietà privata, s’aveva l’intenzione di stimolare l’iniziativa degli affittuari regi e d’indurli a spiegare maggior attività nel loro lavoro agricolo. Non abbiamo dati per giudicare fino a che punto la riforma d’Adriano sia stata effettivamente attuata: ma il fatto che le concessioni di riduzione dei canoni di fitto, che probabilmente sono indizio della trasformazione di porzioni di terra regia deprezzata nella nuova categoria di terra per metà regia e per metà privata, si limitano al regno di Adriano, e che questa nuova classe di terreni solo raramente compare negli elenchi catastali posteriori, sta ad indicare che in questo paese d’antiche tradizioni l’accennata riforma fu di breve durata e non ebbe effetti profondi12. A questo proposito è degno di
12. P. Giss., 60, II, 25-31; U. WILCKEN, Chrest., p. 341, 15; Grundzüge, p. 306. Il papiro di Giessen ha la data del 118 d.C. Offerta di fitto fatta da contadini: P. Giss., 47; P. Brem., inv. 34; P. Lips., inv. 266; P. Ryl., II, 96; cf. U. WILCKEN, «Arch. f. Pap.F.», 5, pp. 248 sgg. e Chrest., n. 351; il mio articolo nell’«Arch. f. Pap.-F.», 5, pp. 299 sg. e le mie Studien, pp. 165 sg., 175 sgg.; E. KORNEMANN, P. Giss., 4-7, introd.; W.L. WESTERMANN, «Class. Phil.», 16 (1921), pp. 185 sgg. e «Journ. Eg. Arch.», 11 (1925), pp. 165 sgg. Il WESTERMANN scorge nel provstagma di Adriano, cui si richiamano i contadini nelle loro offerte di fitto, un provvedimento amministrativo preso dai funzionari d’Egitto bensì in nome dell’imperatore, ma senza diretta partecipazione di lui. Egli ritiene che questo provvedimento non fosse altro che l’attuazione di una norma antichissima in forza della quale il terreno che correva pericolo di diventare sterile veni-
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nota un altro documento, che attesta l’interessamento che Adriano sentiva per i bisogni degli agricoltori egiziani e illustra i metodi da lui adoperati per sollevare le loro condizioni. In due papiri trovati di recente, che sono due copie di un medesimo documento, possediamo una testimonianza di data molto posteriore al primo tentativo fatto da Adriano per migliorare la situazione agricola dell’Egitto (135-136 d.C.). L’imperatore era diventato vecchio e certamente più conservatore. Nel 130 aveva visitato l’Egitto e aveva acquistato profonda conoscenza delle peculiarità della vita egiziana; non era quindi più disposto ad impegnarsi in riforme radicali. Una serie d’annate cattive aveva indotto i contadini egiziani (gewrgoiv) a chiedere una riduzione dei pagamenti da loro dovuti. Incoraggiato dal sopraggiungere di una buona annata, Adriano rispose alla petizione nella sua maniera piamente sarcastica. Rifiutò nettamente una riduzione generale: il divino Nilo e le leggi della natura avrebbero aiutato gli agricoltori; tuttavia acconsentì che il pagamento degli arretrati fosse distribuito in cinque, quattro, tre anni, secondo la condizione economica del terreno. La menzione di pagamenti in denaro e la inconsueta espressione prosodikav adoperata per indicare pagamenti in generale m’inducono a pensare che i coltivatori del suolo che chiedevano la riduzione dei pagamenti fossero non semplici contadini ma proprietari, forse quel gruppo di quei mezzo affittuari, mezzo proprietari, che avevano creato i primi provvedimenti di Adriano13. Ancor più caratteristici per la politica di Adriano sono alcuni documenti africani concernenti l’amministrazione delle terre imperiali. Nel riordinare i saltus imperiali dopo le grandi confische di Nerone, i Flavii e Traiano si erano proposti di assicurarsi dei fidati affittuari a lunga scadenza, legati al suolo dai forti vincoli dell’interesse economico. A tale scopo un certo Mancia, probabilmente inviato speciale dei Flavii, non già un ricco proprietario di condizione senatoria, pubblicò un regolamento, chiamato poi lex Manciana, col quale si davano mani libere a chiunque desiderasse seminare o piantare nelle terre vergini dei demani imperiali e pubblici. Fintantoché gli occupanti coltivavano il terreno, ne rimanevano in possesso: vi avevano il ius colendi, senza speciale contratto, alle con-
va concesso contro un fitto tenuissimo come terreno da foraggio. Non posso tuttavia associarmi alle sue considerazioni: i contadini parlano del provstagma come della concessione di un nuovo ed importante privilegio, lo chiamano un beneficio. Il fitto pagato è esattamente quello della gh` ejn tavxei ijdiokthvtou. Sappiamo quanto Adriano amasse occuparsi sin dei minimi particolari della vita economica delle province: all’inizio del suo governo (118 d.C.) si preoccupava in modo particolare di venire in aiuto delle province col condono di imposte e di fitti (C. I. L. VI, 967, citato dal WESTERMANN). 13. P. JOUGUET, Un édit d’Hadrien, «Rev. Ét. gr.», 33 (1920), pp. 375 sgg. [U. WILCKEN, «Arch. f. Pap.-F.», 7 (1921), pp. 110 sgg.; S. EITREM, «Symb. Osl.», 10 (1932), pp. 153 sgg.]; cf. P. Hamb., 93 (121-4 d.C.) e V. MARTIN nella Raccolta Lumbroso, pp. 260 sgg.: memorandum di alcuni prosodikoi; gewrgoiv al prefetto Haterius. Questi prosodikoi; gewrgoiv erano forse un’altra specie di semi-proprietari, e gli ajrgurikoi; fovroi, di cui parla l’editto, i loro pagamenti? Intorno alla gh` prosovdou vd. la bibliografia contenuta nell’articolo di P. JOUGUET, loc. cit., p. 392, e P. COLLART, P. Bouriant, 42, pp. 156 sgg. Cf. cap. VII, nota 48.
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dizioni stabilite dalla legge. Se vi avevano piantato alberi da frutto (olivi compresi), avevano perfino il diritto d’ipotecare la terra e di legarla ai loro eredi. Se cessavano di coltivarla per un certo tempo, la terra ritornava al proprietario e si supponeva che venisse allora coltivata dall’appaltatore generale o concessionario della tenuta. Gli occupanti erano anche obbligati a domiciliarsi nella tenuta e a divenire così abitatori permanenti, differenziandosi sotto tale riguardo tanto dagli abitanti dei villaggi indigeni che prendevano in fitto una porzione della tenuta quanto dai coloni che vivevano nelle case appositamente costruite per essi e coltivavano la terra probabilmente con un contratto a breve scadenza. Contro la mia opinione sulla politica agraria attuata da Adriano vd. T. FRANK, An Economic Survey of Ancient Rome, V, Baltimore,1940, pp. 73 sgg. Egli considera la misura di Adriano di natura fiscale, in quanto intesa a stabilizzare la coltura della terra a prescindere dalle frequenti siccità. A suo modo di vedere la misura di Adriano portò all’asservimento, non alla creazione di piccoli proprietari. Ma come avrebbe potuto conoscere Adriano l’esito della sua misura?
Pur conservando le disposizioni fondamentali della lex Manciana, Adriano fece un passo innanzi nell’una o due tra le sue leggi che s’occupano del terreno vergine o abbandonato dei demani imperiali d’Africa. Egli desiderava di stabilire sulle terre imperiali affittuari a lungo termine, che introducessero più elevate forme di coltivazione e, col piantare olivi e fichi, diventassero veri agricoltori, che si sentissero strettamente legati ai poderi trasformati dai loro sforzi in frutteti ed oliveti. Quindi concesse agli occupanti di seminare e piantare non soltanto i terreni vergini, ma anche quelli che da dieci anni non erano stati coltivati dai conduttori; e permise loro anche di piantare olivi e altri alberi da frutto nei terreni abbandonati, riconoscendo inoltre loro i diritti di possessores, vale a dire di quasi proprietari della terra. Essi ebbero adesso non soltanto lo ius colendi, ma anche l’usus proprius tanto dei terreni aratorii quanto di quelli a frutteto, col diritto di trasmetterli ai loro eredi, a condizione però che li coltivassero e adempissero alle loro obbligazioni sia verso il proprietario sia verso l’affittuario generale della tenuta. Senza dubbio Adriano si proponeva essenzialmente di creare nei demani imperiali una classe di liberi proprietari di terre, migliorando così la coltivazione del suolo. Secondo ogni probabilità gli sforzi di Adriano e di altri imperatori del secondo secolo conseguirono ampiamente l’intento. Io son convinto che il rapido diffondersi dell’olivicoltura in tutta l’Africa sia stato dovuto in buona parte ai privilegi concessi da Adriano ai piantatori d’olivi14. La stessa politica fu da lui seguita in altre province, e specialmente in Grecia e nell’Asia Minore. Nel sesto capitolo abbiamo accennato al grande lavoro di delimitazione che venne compiuto in Macedonia: è molto probabile che in tal guisa Adriano si proponesse di ordinare su stabili fondamenti la vita agricola ancor primitiva di quella provincia15. Nell’Attica le terre già possedute dal noto Ipparco, una delle vittime di Domiziano, furono cedute a piccoli affittuari. Nell’Asia Minore, Adriano tutelò gli interessi dei piccoli possessori di
14. 15.
Intorno alle iscrizioni africane vd. cap. VII, nota 62. Vd. cap. VI, nota 92.
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terreni dell’antico dominio del tempio di Zeus ad Aezani. Un’iscrizione recentemente rinvenuta attesta l’opera compiuta dall’imperatore nel bonificare i terreni adiacenti alla palude Copaide in Beozia16. Inoltre Adriano, come si è rilevato nel capitolo precedente, favorì nelle miniere imperiali e pubbliche il sistema di concedere singole gallerie a piccoli intraprenditori od occupanti invece di lavorarle a mezzo di schiavi o di condannati. Anche in questo campo, dunque, egli si propose di creare un numeroso gruppo di uomini attivi e laboriosi, capaci di formare nuclei di future comunità, prima di villaggio e poi di città17. Questi sforzi non erano affatto una novità. Abbiamo visto che la restaurazione dei piccoli proprietari era sempre stata uno dei punti principali del programma della monarchia illuminata, punto caldeggiato eloquentemente da Dione Crisostomo nel suo Eujboikov~. Nessuno tuttavia potrà disconoscere la particolare vigoria degli sforzi di Adriano né la larghezza di vedute da lui dimostrata nel cercare di conseguire lo scopo in tutto l’Impero, senza dare alcuna preferenza all’Italia18. Anche in altre sfere della vita economica Adriano mostrò uguale tenacia. Egli fu il vero artefice di quella politica volta a difendere i deboli contro i forti, i poveri contro i ricchi, gli humiliores contro gli honestories, ch’era stata inaugurata da Nerva e da Traiano e fu seguita poi da tutti gli imperatori del secondo secolo e perfino, e forse specialmente, da quelli del terzo secolo. Questa politica si rispecchia nel secondo e nel terzo secolo in non pochi provvedimenti legislativi che riguardano i liberti e gli schiavi, o proteggono i collegia tenuiorum, o introducono nei tribunali innovazioni destinate a proteggere i tenuiores contro i potentiores, e nella sfera delle obbligazioni modificazioni dettate dallo stesso intento19. La parte attiva presa da Adriano in questo movimento è illustrata da documenti rinvenuti nella parte orientale dell’Impero, i quali contengono particolari di carattere minuto, ma che non perdono perciò di valore come sintomi dell’indirizzo generale degli intenti economici di quest’imperatore. Al pari di Solone, anche Adriano volle regolare personalmente il commercio dell’olio in Atene, vietandone con una rigorosa ordinanza l’esportazione illimitata e prescrivendo ch’esso si vendesse nella città stessa. Un altro rescritto dello stesso tipo, anch’esso influenzato da antiche reminiscenze, tuonava contro i rivenditori che
16. Vd. le mie Studien Gesch. Kol., p. 386, cf. p. 275. L’epigrafe della palude Copaide è menzionata dal PAPPADAKIS, «∆Arcaiol. Deltivon», 5 (1919), paravrt. p. 34. 17. Vd. cap. VII, note 85 e 86. 18. Circa l’Euboicus di DIONE vd. H. VON ARNIM, Leben ecc., pp. 500 sg. 19. IVO PFAFF, Ueber den rechtlichen Schutz des wirtschaftlichen Schwächeren in der römischen Kaisergesetzgebung, «Sozialgesch. Forschungen» (Ergänzungshefte zur «Zeitschr. f. Sozial- u. Wirtschaftsgesch.»), 1897; cf. I. GREAVES, Studi sulla storia della proprietà agraria romana (in russo), I, pp. 534 sgg. e V. DURUY, Hist. des Romains, vol. V. appendice: Sur la formation historique des deux classes de citoyens, désignés dans les Pandectes sous les noms d’«honestiores», et d’«humiliores». MOMMSEN, Strafrecht, p. 225 nota 5 e p. 481 nota, dove si parla del diverso trattamento fatto alle due classi agli effetti della giustizia penale, e si dimostra che i due termini di honestiores e humiliores risalgono al sec. III.
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TAV. LXXII – EFFIGIE MONETARIE AD ILLUSTRAZIONE DELLE RIFORME DI NERONE, NERVA E ADRIANO
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DESCRIZIONE DELLA
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LXXII
a) SESTERTIUS DI NERONE. H. MATTINGLY, Coins of the Roman Empire, I, p. 220, nn. 127-130, tav. XLI, 6 (circa 65 d.C.). ANNONA AVGVSTI CERES S. C. Annona stante verso destra, con una cornucopia nella sinistra; di fronte ad essa Cerere assisa verso sinistra con delle spighe nella destra e una torcia nella sinistra; tra le due, un altare su cui è un modius con spighe; nello sfondo la poppa d’una nave. b) SESTERTIUS DI NERVA. COHEN, II, p. 13, n. 143 (97 d.C.). VEHICVLATIONE ITALIAE REMISSA S. C. Due cavalli sciolti che pascolano. Il tipo mette in rilievo la gravità dell’onere di fornir cavalli per la posta. c) SESTERTIUS DI ADRIANO. COHEN, II, p. 185, n. 950 circa (120 d.C.). LOCVPLETATORI ORBIS TERRARVM S. C. L’imperatore assiso su una tribuna; accanto a lui l’Abbondanza con la cornucopia, e due cittadini che ricevono doni dall’Imperatore. d) DETTO. COHEN, II, p. 209, n. 1213 (circa 120 d.C.). RELIQUA VETERA HS NOVIES MILL. ABOLITA S. C. Un littore che abbrucia le note degli arretrati alla presenza d’un gruppo di cittadini romani. Cf. tav. LXX, 2. e) DETTO. COHEN, II, pp. 213 sg., n. 1285 (circa 120 d.C.). RESTITVTORI ORBIS TERRARVM S. C. L’imperatore rialza una figura inginocchiata che simboleggia l’orbis terrarum. Un tipo consimile fu adoperato per varie province (h) e città dell’Impero. f) DETTO. COHEN, II, p. 162, n. 657 (circa 133 d.C.). FELICITATI AVG. COS. III. P. P. S. C. La felicità dei tempi è simboleggiata da una galea che trasporta l’imperatore per mare verso le province. g) DETTO. COHEN, II, p. 175, n. 823 (circa 135 d.C.). HISPANIA S. C. Personificazione della provincia di Hispania adagiata su una roccia, con un ramo d’olivo in mano e un coniglio accanto. Medaglie consimili d’altre province dell’Impero commemorano visite loro fatte dall’imperatore. h) DETTO. COHEN, p. 209, n. 1216 (circa 135 d.C.). RESTITVTORI ACHAIAE S. C. La provincia d’Achaia sollevata dal suolo dall’imperatore. Davanti ad essa una brocca con una palma (simbolo dei celebri agones della Grecia). Cf. e e g. i) DETTO. COHEN, II, p. 217, n. 1340 (circa 138 d.C.). SALUS AVG. S. C. La personificazione della salute dell’Impero romano sacrifica su un altare, intorno al quale si attorciglia un serpente, e sostiene con la sinistra un timone appoggiato ad un globo. j) DETTO. COHEN, II, p. 225, n. 1433 (circa 135 d.C.). TELLVS STABIL(ita) S. C. La Madre Terra adagiata al suolo, con la destra appoggiata a un globo, con un tralcio di vite nella sinistra, e col braccio appoggiato ad un cesto di frutti. La prosperità della terra saldamente stabilita dagli sforzi dell’imperatore. k) DETTO. (Postumo). COHEN, II, p. 175 n. 817 (circa 138-9 d.C.). HILARITAS P. R. COS. III S. C. Hilaritas con la cornucopiae ed una palma che riceve da un fanciullo nudo; dietro di lei una fanciulla. L’allegria l’effetto del ripopolamento dell’Impero. Tutte queste medaglie si trovano nel British Museum. Le medaglie riprodotte in questa tavola e nella tav. LXXI sono una piccola collezione dei tipi mediante i quali gli imperatori romani si adoperarono a mettere in rilievo le riforme da loro ideate e compiute. La serie di Adriano è la più esplicita di tutte. Cf. la nota 6 al capitolo VIII e le tavv. LXVIII e LXX. Debbo la scelta delle medaglie, i calchi, e le date alla cortesia del sig. H. MATTINGLY del British Museum.
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rendevano il prezzo del pesce proibitivo per la povera gente: «Tutto il pesce deve esser venduto o dal pescatore medesimo o dai primi che lo hanno comperato da lui. L’acquisto della stessa merce fatto di terza mano a scopo di rivendita accresce i prezzi». Con lo stesso spirito l’imperatore o il suo governatore intervengono nella contestazione tra i banchieri e i dettaglianti di Pergamo, a tutela degli interessi della parte più debole20.
20. Legge sull’olio, I. G. III, 38. Ordinanze sulla pesca, A. WILHELM, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 12 (1909), pp. 146 sgg.: la lettera d’Adriano fu inspirata da alcune leggi orientate verso le idee di PLATONE, Leg., XI, p. 917b-c; vd. per es. Alexis presso KOCK, C. A. F., II, p. 342, ATHEN., II, p. 8 (ed. Kaibel): tivqhsi ga;r nuni; novmon ⁄ tw`n ijcquopwlw`n o{sti~ a]n pwlw`n tini ⁄ ijcqu;n uJpotimhvsa~ ajpodw`t j ejlavttono~ ⁄ h|~ ei\pe timh`~, eij~ to; desmwthvrion ⁄ eujqu;~ ajpavgesqai tou`ton. Per i banchieri di Pergamo, DITTENBERGER, O. G. I. S., 484. Come abbiamo più volte rilevato in questo libro, il problema dell’importazione dei viveri era uno dei più gravi tra quanti l’Impero romano dovesse risolvere; e la causa di questa difficoltà risiedeva in massima parte nella lentezza e nell’alto costo dei trasporti terrestri. Queste condizioni avevano per effetto immancabile l’imperversare della smania del lucro e della speculazione, e l’oppressione del povero per opera del ricco. Un esempio interessante del trattamento degli schiavi nell’Impero romano – l’istruzione che veniva fornita loro – è stato studiato di recente da parte di S.L. MOHLER, Slave Education in the Roman Empire, «Trans. Amer. Ph. Ass.», 71 (1940), pp. 262-280. Non deve quindi sorprendere che Adriano non sia stato il primo
a intervenire con ordinanze nel libero commercio delle derrate alimentari. Nel mio articolo Frumentum, «R. E.», VII, col. 143, ho raccolto i dati che si posseggono relativamente alla fissazione del prezzo del frumento (Tiberio: TAC., Ann., II, 87; Nerone: TAC., Ann., XV, 39; nell’Asia Minore: EUSEB., Chron., II, 152 ed. Schoene). Provvedimenti di carattere generale, sebbene limitati a determinate località, vennero spesso attuati dagli imperatori in occasione di carestie locali. Nel cap. V nota 9 ho ricordato un’iscrizione latina molto istruttiva di Antiochia in Pisidia, dell’età di Domiziano, la quale attesta i provvedimenti presi dal governatore contro la speculazione in tempo di carestia, e la condotta di M. Aurelio nell’Italia settentrionale in un’occasione consimile. L’esempio di Domiziano e di M. Aurelio fu spesso imitato in seguito: vd. DIG., 7, 1, 27, 3; 50, 4, 25 (cf. il mio artic. nella «R. E.», VII, col. 186), dove alle città è concesso di comperare dai possessores del loro territorio una certa quantità di grano a prezzo ridotto (il frumentum emptum dell’età di Verre in Sicilia, il si`to~ ajgorastov~ dell’Egitto). Un provvedimento dello stesso genere è menzionato a Cibyra, I. G. R. R. IV, 914 (sotto Claudio): a} de; h\n ajnankai⁄ovtata tw`n ejn tai`~ presbeivai~ ejpiteucqevntwn, hj/thmevnon ajpo; Tiberivou Klau⁄divou Kaivsaro~ ajpeskeuavsqai Tibevrion Neikhvforon pravsªsoºnta th;ªnº povlin ⁄ kaq j e{kaston e[to~ dhnavria tªriºsceivlia kai; lambavnonta, kai; th;n tou` seivtou ⁄ pra`s in geivnesqai ejn th`/ ajgora`/ kaªta;º zeu`ªgºo~ modivwn eJbdomhvkonta pevnte ⁄ ejk pavsh~ th`~ cwvra~. Non è facile indovinare i motivi che condussero al licenziamento del procuratore né decidere se vi fosse un qualche rapporto tra le sue riscossioni e l’ordinanza relativa al commercio dei cereali nella città: potremo tuttavia supporre ch’egli avesse favorito speculazioni illecite. All’imperatore e al suo principale assistente in questa materia, al praefectus annonae, spettava di decidere in ultima istanza le questioni relative all’approvvigionamento delle città, questioni che riguardavano non soltanto le città direttamente interessate, ma fino a un certo punto tutto lo Stato. Una tra le più importanti era il permesso o il divieto d’importare o esportar cereali. Ai dati relativi a quest’argomento, che ho prodotti nel
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Non possiamo qui intrattenerci più a lungo sul governo di Adriano e sull’importanza ch’esso ha nella storia generale dell’Impero romano. È questo
mio articolo Frumentum, «R. E.», VII, è da aggiungere EPICT., Diss., I, 10, 2 e 9 sg. (si parla del praefectus annonae): o{moion ou\n ejstin ejnteuxivdion parav tino~ labovnta ajnagignwvskein “parakalw` se ejpitrevyai moi sitavrion ejxagagei`n”, nonché Forsch. in Ephesos, III, p. 106, n. 16 (frumento egiziano per Efeso) e i paralleli raccolti da J. KEIL (Tralles), cf. B. LAUM, «Ath. Mitt.», 38 (1913), pp. 23 sgg.; DITTENBERGER, Syll.3, 839; ABBOTT e JOHNSON, Mun. Adm. in the Roman Empire, p. 407 n. 86. Nuovi dati intorno ai granai di Alessandria e alla politica seguita dai primi imperatori nei riguardi del grano egiziano si hanno in U. WILCKEN, Zum Germanicus Papyrus, «Hermes», 63 (1928), pp. 48 sgg. Un esempio calzante dell’avidità di profitto in grande stile ai danni d’una città è quello della ben nota speculazione olearia di Giovanni da Giscala raccontata da IOS. FL., Vita, 13 (75). Giovanni comperò olio nella sua città nativa a prezzo bassissimo (4 dracme per 80 xestai) e lo rivendette in Cesarea a una dracma per due xestai: non sappiamo tuttavia quanto gli era costato il trasporto. A questo proposito va ricordato che gli imperatori dei secoli II e III d.C. mostrarono il più grande zelo nel costruire magazzini frumentari nelle province, soprattutto in quelle che producevano grano: naturalmente con lo scopo principale di facilitare l’approvvigionamento della capitale e delle truppe. Iscrizioni di Et-Touba pubblicate da PRENTICE, Amer. Arch. Exped., III, nn. 338-340; I. G. L. Syr., nn. 304-306: Ei|" Qeov". ∆Agaqh`/ Tuvch/. To;n pavsh/ ajreth`/ kekosmh⁄mevnon ejnevpw Auj(rhvlion) Bevllicon Libianou`, to;n ejx ijdivwn ⁄ kamavtwn to; o{rio(n) meta; pavsh" th`" aujlh`" ghqovmeno" ajnevgiren. Cf. iscrizione sull’architrave di una porta in MOUTERDE e POIDEBART, Limes de Chalcis, cit., p. 200, n. 30 (353 d.C.): Provnoia/ Qeou` ajnevgiren Bevllico" Libi⁄anou` ejx ijdivwn kamavtwn to; o{rion
kai; ⁄ th;n kur(ivan) la`da, e[tou" excæ mhno;" Divou gæ. Pa`sªiº fivdwn, to; e[(rgon) filokalo;n, Bevllico" Lubianªou`º, (Bellichos figlio di Lybianus: è noto un Flavius Lybianus, praeses provinciae Euphratesiae nel 434 d.C. Forse quest’ultimo era un discendente di Bellichos figlio di Lybianus). Ma quando vediamo nel 199 d.C. la città di Cuicul
nella Numidia edificare ampi horrea («Bull. arch. du Comité d. travaux histor.», 1911, p. 115), ne concludiamo che anche la popolazione provinciale aveva grande interesse a che nell’interno del paese sorgessero simili granai; cf. le nuove iscrizioni (con esempi paralleli) pubblicate da E. ALBERTINI, «C. R. Acad. Inscr.», 1924, pp. 253 sgg. Intorno agli horrea della Licia vd. Reisen in Lykien, I, p. 116; II, p. 41; cf. R. PARIBENI, Optimus princeps, I, pp. 174 sgg. Intorno agli horrea della Syria: MOUTERDE e POIDEBART, Limes de Chalcis, cit., pp. 197 sgg. (IV sec. d.C.); Et-Touba, cf. Fiechter, s.v. Horreum, «R. E.», coll. 2458-2464. Un altro horreum in Siria, a Veransehir (543 d.C.: vd. HUMANN-PUCHSTEIN, Reisen in Kleinasien und Nordsyrien, p. 405, n.5). Nelle città dell’Impero romano era disciplina-
ta la vendita non solo del grano ma probabilmente anche del pane. Una indagine condotta dal mio discepolo Yeo sulle rovine delle panetterie di Pompei ha dimostrato ch’esse sono distribuite uniformemente nella città e che quasi tutte hanno dimensioni corrispondenti a quelle d’una normale panetteria di Roma. Si osservi l’iscrizione di Syros in cui Adriano è lodato da parte di tutta la popolazione della città e del paese: I. G. XII Suppl., 239, ll. 9 sgg.: ªkaºi; oJpovsoi naivousi povlªin cwvran tæ ejºu?karpon, ⁄ ªcºreivou" oi|si
mevmhle kai; oªi} diavgousæ ajpo; cºeirw`n ⁄ sth`san ejpæ ajenavoi" dwvroiª" qeivoioº a[nakto". Cf. W. Peek, «Arch. Eph.», 1931, p.113, n. 9. Le epigrafi (C. I. L. VI, 22 e 1002) e i rilievi del monumento sepolcrale di Eurysaces mostrano che anche a Roma la lavorazione e la vendita del pane stavano sotto la sorveglianza dello Stato. Cf. T. FRANK, Economic History, 19272, p. 256. Questo problema meriterebbe una nuova indagine.
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un soggetto che merita d’esser trattato in un volume a sé. Non si può disconoscere che Adriano abbia fatto quant’era in lui per allargare e consolidare le fondamenta dell’Impero. Egli affrontò i problemi fondamentali e lavorò energicamente a risolverli nella maniera migliore. A lui l’Impero fu debitore del breve periodo di quiete e di prosperità che seguì gli anni difficili di Traiano. Ma occorre tener presente che la pace fu ottenuta non soltanto dai successi diplomatici di Adriano ma soprattutto dalle splendide vittorie di Traiano, che spianarono la via all’attività diplomatica del successore e gli permisero di fare affidamento sulla fedeltà e disciplina dell’esercito romano. Il tranquillo regno di Antonino Pio, che svolse le premesse poste da quello di Adriano, ha dei tratti interessanti. Sembra che gli sforzi fatti da Adriano per restaurare la prosperità dell’Impero non fossero stati completamente fortunati. Le province si riavevano solo lentamente: la loro guarigione era ritardata dai numerosi viaggi dell’imperatore, dall’ulteriore sviluppo da lui dato alla burocrazia, e dall’attività costruttrice da lui spiegata in tutto l’Impero: tutte cose che richiedevano grandi somme di denaro. Antonino volle ridurre al minimo anche queste spese. Adriano aveva molto edificato così a Roma come nelle province. Pio in questo campo fece le più grandi economie. Deliberatamente s’astenne dall’addossare ai bilanci delle città i gravi pesi imposti dalle visite imperiali alle province; non accrebbe il numero dei funzionari governativi, anzi accedendo al desiderio del Senato lo ridusse, restituendo a questo corpo l’amministrazione dell’Italia; giunse perfino a vendere le suppellettili superflue della casa imperiale e alcune delle sue tenute. Tutto questo dimostra che non si deve esagerare la prosperità dell’Impero: vi erano fattori che la scalzavano anche in tempo di pace perfetta21. Col regno di Marco Aurelio cominciò per l’Impero un altro periodo critico. Non è necessario qui ripetere i fatti ben noti. I rapporti tra i Parti e Roma divennero così ostili che, nonostante le inclinazioni pacifiche del grande imperatore, l’interesse dell’Impero gl’impose di fare contro la potenza orientale una spedizione d’entità non minore di quelle di Traiano. Appena superata felicemente questa difficoltà, ecco che una pestilenza cominciò a infierire tra i soldati dell’esercito orientale, propagandosi poi in Italia e in altre parti dell’Impero. I Germani e i Sarmati colsero il momento che le migliori truppe erano assenti dalla frontiera del Danubio e invasero le province danubiane, spingendosi fino ad Aquileia. La guerra che ne seguì fu interrotta dal vano tentativo fatto dal vincitore della guerra partica, Avidio Cassio, per impadronirsi del trono; ma ricominciò non appena repressa questa ribellione. Divenne evidente tanto a Marco quanto a tutti gli altri uomini dirigenti ch’era necessario un altro vigoroso sforzo militare per assicurare un altro periodo di pace e per dimostrare ai nemici di Roma ch’essa era ancora quella potenza che tanti trionfi aveva celebrato su rivali e avversari. L’Impero sopportò assai bene la prova
21. I dati relativi al governo di Antonino Pio sono stati accuratamente riuniti e ampiamente esaminati da E.E. BRYANT, The Reign of Antoninus Pius (1895); W. Hüttl, Antoninus Pius, Prag, 1936.
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delle pericolose e sanguinose guerre di questo regno. I soldati mostrarono lo stesso splendido contegno e la stessa disciplina dei giorni di Traiano e di Adriano; non vi fu penuria di buoni generali e, ad onta della pestilenza e della ribellione, M. Aurelio avrebbe terminato la guerra con l’annessione di buona parte della Germania, se non glielo avesse impedito la morte prematura22. Ma se l’esercito resse bene al cimento non così fu per le finanze dello Stato. Il tesoro era vuoto. Marco non voleva introdurre alcuna nuova imposta: preferì mettere in vendita pubblica per il corso di due mesi le sue cose di valore. E tuttavia non poté evitare l’imposizione di nuove tasse. Ci viene riferito casualmente che sotto la pressione di un’invasione marittima d’alcune tribù germaniche e celtiche egli fu costretto ad esigere nell’Asia Minore una speciale imposta modellata su precedenti del periodo ellenistico23. L’Impero ch’egli aveva ereditato dal padre adottivo non era evidentemente in uno stato così florido come si sarebbe potuto credere; altrimenti Marco non avrebbe sin proprio dall’inizio del suo Impero rinnovato i provvedimenti di Adriano circa l’abolizione dei debiti (compresi probabilmente gli arretrati d’imposta) verso il fiscus e verso l’aerarium e non si sarebbe trovato di fronte per tutto il suo regno a sempre nuove richieste di città imploranti donativi e condono d’imposte24. Quando i soldati dopo i grandi successi della guerra marcomannica gli chiesero un aumento di soldo, egli dette una risposta tanto amara quanto risoluta: «Qualunque cosa voi riceviate al di fuori e al disopra del vostro soldo regolare, deve ricavarsi dal sangue dei vostri genitori e dei vostri parenti. Quanto al potere imperiale, Dio solo ne può decidere». Sembra adunque che il rifiuto potesse perfino mettere in pericolo il coraggioso imperatore, un reggitore cioè supremamente devoto ai suoi doveri e al bene dell’Impero affidatogli da Dio. Una risposta come questa poteva darla soltanto un uomo che conosceva pienamente la posizione critica in cui si trovavano i contribuenti dell’Impero25. A mano a mano che crescevano senza tregua le richieste di uomini e di denaro da parte dello Stato, cresceva in tutte le province anche il malcontento, che andava assumendo forme pericolose. La Spagna rifiutò d’inviar nuovamente soldati all’esercito, e l’imperatore dovette cedere. La rivolta si estese alla
22. Intorno all’attività militare di M. Aurelio vd. il testo della pregevole pubblicazione di E. PETERSEN, A. VON DOMASZEWSKI e A. CALDERINI, Die Reliefs der MarcusSäule (1904); cf. A. VON PREMERSTEIN, Untersuchungen zur Gesch. des Kaisers Marcus, «Klio», 11 (1911), pp. 355 sgg. e 12 (1912), pp. 139 sgg.; P.E. MATHESON, Marcus Aurelius and his Task as Emperor (1922); J. SCHWENDEMANN, Der hist. Wert der Vita Marci bei den Scriptores Historiae Augustae (1923). La calamità, cui fu soggetta l’Asia Minore a causa della pestilenza del 166 d.C., è messa in evidenza da due oracoli dell’Apollo di Claro, uno per Pergamo e l’altro per Caesarea Trocetta: CH. PICARD, «B. C. H.», 46 (1922), pp. 190 sgg. 23. I. G. R. R. IV, 1290, con la nuova lezione di A. VON PREMERSTEIN, «Klio», 12 (1912), p. 165; cf. J. KEIL e A. VON PREMERSTEIN, Zweite Reise, pp. 34 e 36: ªdekºaprwteuvsanta th;n bªarutºevran pra`xin, Basterªnikºhvn. 24. DIO CASS., 72, 32, 2 sg.; 72, 19, 1 sg. (ed. Boissevain, p. 274); SCR. HIST. AUG., M. Aur., 23, 1 e 11, 3. Cf. J. SCHWENDEMANN, Der hist. Wert der Vita Marci, p. 50. 25. DIO CASS., 71, 3, 3 (168 d.C.).
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Germania meridionale. I disertori furono incarcerati da molti membri privi di mezzi dalle classi inferiori. La sua soppressione fu celebrata sui coni monetali contemporanei. Apparentemente si trattò di un affare serio e pericoloso26. La Gallia e la
Spagna erano piene di disertori che saccheggiavano e depredavano, tanto numerosi che sotto Commodo un certo Maternus poté iniziare contro il governo una guerra in piena regola27. Il numero di coloro che fuggivano dai villaggi dell’Egitto nelle paludi del Delta per sottrarsi al gravame delle leve, del lavoro coattivo, delle tasse, divenne talmente grande che i fuggiaschi (chiamati Boukovloi), sotto la guida d’un sacerdote, poterono sfidare il governo imperiale28. Non deve sorprenderci se sotto la pressione di queste circostanze Commodo, il figlio di M. Aurelio che aveva ereditato dal padre il potere ma non l’energia, la risolutezza, il senso del dovere, l’influenza sui soldati, decise, contro la protesta tacita e la viva indignazione del Senato, che ben capiva le funeste conseguenze che ne sarebbero derivate, di rinunziare alle operazioni militari contro i Germani e di metter fine alla guerra con un trattato che fu bollato dall’opposizione senatoria con l’epiteto di «ignominioso». Commodo rispose scatenando di nuovo il terrorismo, e rinnovando le scene del regno di Domiziano. Di ciò parleremo nel capitolo seguente. Nonostante le gravi difficoltà causate dalla guerra, dalla peste, dalla povertà, dalle rivolte, il governo di M. Aurelio presenta gli stessi caratteri di quelli dei suoi predecessori. In tempi di necessità egli si vide costretto a prendere duri provvedimenti, che destarono malcontento sempre maggiore; ma fece quanto poté per mitigare gli effetti dei suoi provvedimenti e per venire in aiuto degli oppressi. Fra i tratti più interessanti del suo regno sono l’attenzione da lui rivolta alle condizioni degli schiavi e dei liberti e i provvedimenti con cui cercò di fare più agevole ed umana la loro vita. Per questo argomento dobbiamo rinviare il lettore alle opere speciali che se ne sono occupate29.
26. 27.
SCR. HIST. AUG., M. Aur., 11, 7. SCR. HIST. AUG., Comm., 16, 2; Pesc. Niger, 3, 3, sg.; HERODIAN., I, 10. Vedi
infra, p. 611.
28. DIO CASS., 72, 4, 1 sg.; cf. J. LESQUIER, L’armée romaine d’Égypte, pp. 29 sg., 391, 402. 29. IVO BRUNS, Marc Aurel, in Vorträge und Aufsätze (1905), pp. 291 sgg.; W.W. BUCKLAND, The Roman Law of Slavery (1908). Si osservi che le condizioni della schiavitù non erano cattive nel II sec. d.C. dal momento che il trattamento degli schiavi da parte dei loro padroni e da parte dei liberi in genere era piuttosto umano. Vedi W.L. WESTERMANN, s.v. Sklaverei, «R. E.», Suppl. VI (1935), coll. 894-1068, partic. coll. 1022 sgg.; cf. L. ROBERT, Études Anatoliennes, Paris, 1937, pp. 308 sgg., n. 4. PH. LOTMAR, «Zeitschr. d.
Savigny-Stif.», 33 (1912), pp. 340 sgg.; H.D. SEDGWICK, Marcus Aurelius, a Biography (1921). Nello stesso modo M. Aurelio si comportò verso i fittuari dei grandi demani imperiali d’Italia. Apprendiamo infatti dagli SCR. HIST. AUG., M. Aur., 11, 9, ch’egli dette ai curatores viarum l’incarico di sorvegliare le entrate dei beni imperiali dei distretti attraversati dalle strade poste sotto la loro direzione: questo provvedimento mirava forse a proteggere i coloni contro i grandi affittuari? Cf. MOMMSEN, Staatsr., II, 3a ediz., p. 1081 nota 1; SCHWENDEMANN, loc. cit.; inoltre la nota iscrizione del Saltus Burunitanus (cap. IX, nota 8). L’inizio dei disordini, cui quest’iscrizione si riferisce, cade
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L’esame che abbiamo fatto della politica economica e sociale degli imperatori del secondo secolo mostra quanto deboli e instabili fossero le fondamenta sulle quali si appoggiava l’apparente prosperità dello Stato; e il fatto che ogni guerra un po’ seria conduceva l’Impero sull’orlo della rovina dimostra che i provvedimenti, coi quali gli imperatori tentarono di rafforzare quelle fondamenta, furono infruttuosi o in ogni caso impotenti a neutralizzare gli altri fattori che continuamente lavoravano a scalzare l’Impero. Alcuni studiosi moderni hanno pensato che la decadenza economica dell’Impero debba attribuirsi ad una causa fondamentale più forte d’ogni sforzo umano. Per Otto Seeck questa causa fu il graduale spopolamento dell’Impero; per J. Liebig e per i suoi seguaci il progressivo esaurimento del suolo30. Per conto mio, non vedo alcun motivo per accettare tali spiegazioni. Il Seeck, veramente, adduce qualche valido argomento per suffragare la sua opinione che lo spopolamento andasse a poco a poco crescendo tanto in Grecia quanto in Italia. È verissimo, infatti, che la popolazione dei due paesi andava a mano a mano scomparendo; ma siamo poi in diritto di generalizzare, di affermare che la stessa cosa avvenisse nelle altre parti dell’Impero? È vero che non possediamo informazioni dirette intorno a questo punto, non esistendo statistiche che dimostrino come la popolazione delle province in realtà non diminuisse; ma non mancano fatti che rendono la teoria del Seeck molto dub-
appunto nel regno di M. Aurelio. La condotta tirannica dei conductores era certamente causata dalla pressione, che l’amministrazione imperiale esercitava su loro, e che a sua volta derivava dal crescente bisogno di cereali e di denaro per le truppe. I provvedimenti di M. Aurelio miravano ad evitare uno scoppio di malcontento tra i piccoli affittuari. 30. O. SEECK, Gesch. d. Unterg. d. antiken Welt, I, pp. 318 sgg.; G. SIGWART, Die Fruchtbarkeit des Bodens als historisches Faktor, «Schmoller’s Jahrb. f. Gesetzg. etc.», 39 (1915), pp. 113 sgg.; IDEM., «R. E.», X, coll. 1899 sgg.; V.G. SIMKHOVITCH, Rome’s Fall Reconsidered, «Political Science Quarterly», 31 (1916); cf. lo stesso autore, Toward the Understanding of Jesus, ecc. (1921), pp. 84 sgg.; T. FRANK, An Economic History of Rome (1920), pp. 288 sgg.; ABBOTT e JOHNSON, Mun. Adm. in the Roman Empire, pp. 210 sgg.; cf. J. MYRES, «The Economic History Review», 2 (1929), pp. 143 sg. Come rileva il Myres, io non ho fatto cenno della teoria climatologica del BRUECKNER e del HUNTINGTON, secondo cui dopo il 400 a.C. (astraendo da un temporaneo ritorno di umidità tra il 180 e il 300 d.C.) il clima del Mediterraneo sarebbe diventato sempre più asciutto. Il problema è ben lungi dall’essere completamente risolto, e l’importanza ch’esso ha per la storia economica del mondo antico richiede ch’esso venga sottoposto alla radicale ed accurata indagine d’uno studioso, che sia specialista tanto nel campo della climatologia quanto in quello della storia. Il mutamento fu così generale da colpire tutte le regioni dell’Impero? Del resto le esperienze fatte dai Francesi in Africa e in Siria e il recente risveglio agricolo della Palestina dimostrano che è possibile ancor oggi una prospera agricoltura, anche senza sforzi eccessivi. Debbo confessare che i capitoli storici dei libri, pur così interessanti, del prof. E. HUNTINGTON, cioè Civilization and Climate (1924) e specialmente World-Power and Evolution (1920), cap. XI: The Example of Rome, pp. 186 sgg., non mi hanno persuaso: però io non son certamente competente nei problemi della climatologia storica. Cf. il mio articolo The Decay of the Ancient World and its Economic Explanation, «Econ. Hist. Review», 2 (1930), pp. 212 sgg.
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bia. Il caso della Grecia era eccezionale. Essa era una delle regioni più povere di tutto il mondo antico, e non appena ebbe cessato di provvedere vino, olio, manifatture al resto del mondo, era condannata a decadere. Le condizioni dell’Italia erano più o meno somiglianti. Siccome ogni cittadino romano aveva molto migliori opportunità di guadagnarsi la vita nelle province, l’Italia veniva continuamente depauperata dei suoi uomini migliori, e i vuoti erano riempiti da schiavi. Quando cominciò a non esser più sufficiente l’importazione di schiavi, l’Italia incominciò anch’essa a decadere, poiché l’emigrazione non si arrestò mai, posto che ad essa si apriva un paese dopo l’altro. Ma nelle altre parti dell’Impero le cose andavano diversamente. Per tutto il corso del primo e del secondo secolo la civiltà greco-romana andò conquistando sempre nuovi territori tanto in Occidente quanto in Oriente; terreni che prima erano stati praterie, boschi, paludi, pascoli, vennero trasformati in campi e frutteti; sempre nuove città sorgevano e prosperavano per qualche tempo. Ciò posto, è impossibile applicare la teoria dello spopolamento a paesi come l’Egitto, l’Asia Minore, la Siria, l’Africa, la Spagna, la Britannia, la Germania, la Gallia, i paesi del Danubio. Lo svilupparsi di una città come l’africana Thamugadi (Timgad), la quale, come possiamo dedurre dallo studio delle sue rovine, da piccola colonia militare di poche famiglie e di non più che duemila abitanti, quale era stata in origine, divenne una città relativamente grande con una popolazione per lo meno tripla, evidentemente era dovuto ad un aumento di popolazione verificatosi nel distretto. Non ammettendo ciò, è impossibile capire a chi potessero servire le botteghe e i bazar della città, e per chi fossero costruiti i bagni e il grande teatro di essa. Scavi recenti hanno scoperto i quartieri industriali, tutti di data relativamente tarda. Essi contengono grandi botteghe, alcune delle quali erano vere fabbriche, se anche di piccole dimensioni: esse erano situate intorno al nucleo originario della città e appartengono ad un periodo in cui la popolazione così della città come della campagna circostante andava continuamente crescendo. Poiché Thamugadi fu fondata da Traiano, quest’incremento dovette verificarsi per tutto il corso dei secoli secondo e terzo e anche più tardi. Varie altre città dell’Africa e d’altre province hanno una storia consimile. Buoni esempi ne offrono le città carovaniere della Siria, della Transgiordania, dell’Arabia, come Petra, Gerasa, Filadelfia (oggi Amman), Palmira. Tutte queste città prosperarono in età posttraianea e continuarono a progredire fino ben tardi nel sec. III. Ugualmente poco persuasiva è la teoria dell’esaurimento del suolo. Anche quest’affermazione può essere esatta per alcune parti della Grecia e dell’Italia: in quest’ultima l’impoverimento di alcuni distretti era dovuto al folle diboscamento e alla negligenza delle opere di drenaggio ch’erano state fatte in varie parti del paese in un tempo in cui queste avevano avuto una popolazione densissima addensata in aree ristrette. Questi distretti erano il Lazio, alcune parti dell’Etruria, alcuni dei territori delle città greche dell’Italia meridionale. In tutte queste zone la terra è poco fertile, e per dare buoni raccolti richiede lavoro intensivo e cure. Era naturale ch’esse fossero le prime a rimaner deserte quando furono disponibili terre nuove e migliori: non deve recar meraviglia che ben presto la Campagna romana non abbia avuto più che pascoli e ville e sia caduta in preda della malaria. Ma nelle parti migliori dell’Etruria la
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terra era ancor ricca e attraente abbastanza da esser comperata a caro prezzo dai signori di Roma. È notevole che Plinio, mentre lamenta spesso i cattivi raccolti, non parli mai dell’esaurimento del suolo come di una condizione generale. Allorché Nerva volle dare terreni ai proletari nullatenenti, dovette comperarli: ciò dimostra – e l’illazione è confermata dalle tavole alimentari – che all’inizio del secolo secondo non v’erano in Italia terre abbandonate, quindi non v’erano terre esauste, tranne che nelle regioni menzionate precedentemente. Per paesi poi come la Campania e la valle del Po, di esaurimento non si può neppure parlare. Basta leggere la descrizione che Erodiano fa del territorio di Aquileia e confrontarlo con le condizioni attuali per convincersi che «l’esaurimento del suolo», che si sarebbe verificato in Italia nel secondo e nel terzo secolo, è una generalizzazione inaccettabile. Ancor meno si può parlare d’esaurimento del suolo nelle province. L’unica prova (se non teniamo conto di alcuni dati di età posteriore) che si adduce a sostegno di questa teoria, è, per quanto riguarda l’Africa, il fatto che nelle leggi di Adriano alcune parti dei demanii imperiali appare che fossero lasciate incolte dagli affittuari generali. Bisogna però ricordare che lo scopo primo degli imperatori in Africa era dissodare terre vergini, ridurre l’area del pascolo, aumentare quella dei campi e dei frutteti. Le terre coltivate dai concessionari generali erano d’importanza soltanto secondaria: è probabile ch’essi preferissero lasciarle a uso di pascolo e di caccia, e che questa loro preferenza incontrasse la disapprovazione degli imperatori. In ogni caso non si ha in questo il più leggero indizio di un generale esaurimento del suolo. Non troviamo in Africa alcuna lagnanza su di un siffatto esaurimento: ciò che preoccupa gli imperatori è l’esistenza di troppe terre vergini e la scarsità di mano d’opera e di piogge, la quale ultima rendeva necessarie grandi opere d’irrigazione. Ancora nel quarto secolo l’area coltivata nell’Africa proconsolare era vastissima, come è dimostrato da statistiche ufficiali31. Se escludiamo lo spopolamento e l’esaurimento del suolo, quali furono allora le cause dell’instabilità economica di quest’immenso Impero civile, che possedeva ricchezze naturali così copiose e varie e popolazione così numerosa? Io ritengo che la decadenza graduale delle forze vitali dell’Impero possa spiegarsi con due serie di fatti, ciascuna connessa col carattere saliente che presentava in generale la vita dello Stato antico: il predominio, cioè, degli interessi dello Stato su quelli della popolazione; idea questa e pratica antichissima, che aveva avuto parte rilevantissima nello scalzare la prosperità delle monarchie orientali e delle città-Stato della Grecia, ed era stata anche la causa principale della debolezza delle monarchie ellenistiche, antenate immediate dell’Impero romano. Non
31. COD. THEOD., XI, 28, 13 (422 d.C.), rassegna statistica dei terreni coltivati della ratio privata nell’Africa proconsularis e nella Byzacena. L’accurato esame di questo testo fatto da W. BARTHEL, «Bonn. Jahrb.», 120 (1911), p. 50, ha dimostrato che questa statistica presenta solo una percentuale piccolissima di terreno incolto e attesta che il suolo era intensamente coltivato. Se adunque la popolazione era povera e le braccia scarseggiavano, ciò non dipendeva dall’esaurimento della terra. Cf. cap. VII, nota 87.
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appena questo predominio si fu decisamente affermato ed ebbe subordinato a sé gli interessi degli individui e dei gruppi sociali, non poteva mancare d’esercitare influenza deprimente sulle masse, cui veniva così a mancare la soddisfazione del lavoro. Orbene, mai la pressione dello Stato sul popolo era stata così forte come sotto l’Impero romano. La consapevolezza acuta di ciò divenne il carattere più spiccato della vita sociale ed economica a cominciare dal secondo secolo d.C., e in seguito andò sempre intensificandosi32. Nelle monarchie orientali il predominio dello Stato si fondava sulla religione, ed era considerato cosa naturale e sacra; nelle città-Stato della Grecia esso non pervenne mai a svolgersi integralmente e suscitò sempre l’opposizione dei gruppi più influenti della popolazione; nelle monarchie ellenistiche fu meno sentito perché pesava principalmente sulle classi inferiori, ch’erano assuefatte ad esso da tempi immemorabili e lo consideravano come una necessità, come una delle condizioni fondamentali della loro vita. Nell’Impero romano si ebbero invece sviluppi gravidi di conseguenze esiziali: tentiamo di darne le linee essenziali. Come abbiamo detto, due specie di fenomeni nacquero dal predominio dello Stato e lo rispecchiarono. La prima è strettamente collegata con l’urbanizzazione dell’Impero. Nel primo capitolo, e poi più tardi a proposito delle province orientali, abbiamo rilevato come nell’Asia Minore e in Siria durante il periodo ellenistico le città-Stato greche avessero assunto l’aspetto d’una superstruttura poggiante su una base formata dalle masse dei coltivatori del suolo in campagna e degli operai schiavi o liberi in città. Le città greche, o più esattamente la loro classe dominante, composta di Greci e di Orientali ellenizzati, divennero a poco a poco signore e padrone della popolazione indigena. Lo stesso fenomeno mutatis mutandis si verificava in Egitto. Gli abitanti greci ed ellenizzati del paese, sebbene non organizzati in città-Stati, divennero ugualmente padroni del resto della popolazione. Lo sviluppo naturale di questo processo fu arrestato per qualche tempo dalla conquista romana; infatti nel primo periodo della loro dominazione i Romani non favorirono l’ulteriore urbanizzazione dell’Asia Minore e della Siria e lasciarono le cose com’erano. Quando però, durante il periodo delle guerre civili e sotto Augusto e i suoi successori, la federazione romana di città italiche, posseditrice di certi dominii fuori d’Italia, si fu consolidata a poco a poco in uno Stato unitario, tanto i capi delle guerre civili quanto gli imperatori romani ritornarono alla prassi ellenistica del-
32. L’idea della superiorità degli interessi dello Stato o della comunità su quelli dell’individuo è spesso messa in rilievo da M. AURELIO, vd. VI, 44; VII, 55; cf. IV, 29 (coloro che le si oppongono sono xevnoi kovsmou). Alle osservazioni fatte da G. DE SANCTIS nella sua recensione del mio libro, «Riv. di filol.», 4 (1926), relativamente alla posizione predominante dello Stato come fattore della decadenza economica dell’Impero romano, rispondo che naturalmente il pensiero della superiorità degli interessi dello Stato su quelli dell’individuo in generale è di per se stesso sano; ma che è tuttavia assai difficile ad un governo irresponsabile non considerare gli interessi dello Stato come l’unico motivo predominante su tutto e non cercare di «salvare» lo Stato a spese della comunità e degli individui. Ciò appunto avvenne nell’Impero romano.
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l’urbanizzazione, creando in tutto l’Impero due tipi di uomini: quelli cioè ch’erano inciviliti e perciò dominatori, e quelli ch’erano barbari e perciò sudditi. Per un certo tempo la classe dominatrice fu costituita dai cittadini romani: il resto erano sudditi, peregrini. In realtà però questa distinzione rimase sempre meramente teoretica, specialmente in Oriente: sebbene infatti gli abitanti delle città greche fossero giuridicamente soltanto peregrini greci o ellenizzati, essi erano pur sempre la classe economicamente e socialmente dominante nelle province orientali. Con l’andare del tempo apparve che la base costituita dai cittadini romani d’Italia e dalle poche colonie romane e latine delle province non era abbastanza forte da poter reggere l’edificio politico dell’Impero, e particolarmente il potere imperiale: gli imperatori allora si applicarono alla politica di promuovere la vita urbana e vi insistettero con energia sempre maggiore tanto in Oriente quanto in Occidente. Sotto l’aspetto economico e sociale tale politica significava creare nuovi centri di abitanti privilegiati, ch’erano gli uomini più ricchi e civili, proprietari di terre e di botteghe, a beneficio dei quali doveva lavorare il rimanente della popolazione. La nuova classe era non soltanto un fresco e vigoroso appoggio per il potere imperiale, ma provvedeva all’Impero buoni funzionari amministrativi. Ogni nuovo cittadino di una nuova città era infatti un funzionario non retribuito dello Stato. Abbiamo descritto nei capitoli precedenti il processo di urbanizzazione dell’Impero, dimostrando come per effetto di esso la popolazione restasse divisa in due grandi classi: dominanti e dominati, borghesia privilegiata e classe lavoratrice, proprietari agrari e contadini, padroni di botteghe e fabbriche e schiavi. Quanto maggiore diventava il numero delle città, tanto più profondo si faceva l’abisso tra le due classi, ogni aumento numerico dei privilegiati significando più duro lavoro per i non privilegiati. Una sezione degli abitanti della città, quella degli uomini d’affari, certamente non si componeva di sfaccendati: con la sua energia e la sua accortezza contribuiva alla prosperità dell’Impero. Ma il tipo predominante del cittadino fu sempre più rappresentato dall’uomo che vive di rendita derivante da proprietà agraria o da botteghe e officine. La forza motrice della vita economica era ormai costituita dagli intermediari, per lo più schiavi o liberti, che stavano tra i proprietari e i lavoratori. Questa divisione della popolazione in due classi, che con l’andar del tempo si cristallizzarono in qualche cosa di molto simile a due caste, non fu sentita come un guaio grave fintantoché l’Impero continuò a espandersi e vi fu costante aggiunta di territori in cui poteva svilupparsi la vita urbana e assicurarsi agli elementi più energici della popolazione la condizione di dominatori. Ma a un certo punto l’espansione venne a cessare: Adriano fu l’ultimo a profittare dei vigorosi sforzi militari del suo predecessore. Continuarono, sì, a fondarsi città; ma dopo Adriano assai raramente. Il risultato fu che quelli ch’erano privilegiati rimasero privilegiati, e per quelli che tali non erano v’era ormai assai poca speranza di montare più in alto nella scala sociale. L’esistenza di due caste, una sempre più oppressa, l’altra sempre più oziosa e dedita alla vita comoda di chi ha mezzi, gravava come un incubo sull’Impero e arrestava ogni progresso economico. Furono vani gli sforzi fatti dagli imperatori per elevare le classi inferiori alla condizione di ceto medio laborioso e attivo. Il potere imperiale si
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fondava sulle classi privilegiate, e queste erano destinate a cadere in poco tempo nell’infingardaggine. La creazione di nuove città realmente significava creazione di nuovi nidi di oziosi33. E intanto non si poteva passar sopra a un problema, dalla cui soluzione dipendeva la vita del grande Impero. Non appena lo Stato romano ebbe rinunziato all’attacco e all’espansione, fu a sua volta assalito e obbligato o a riprendere la politica aggressiva o a concentrare i suoi sforzi in una difesa efficace. L’amministrazione del vasto Impero esigeva sempre maggiore attenzione, e l’unico mezzo di contenere la politica egoistica della classe dominante era il costante sviluppo della burocrazia imperiale, che a sua volta consumava gran parte delle risorse dello Stato, oltre quelle assorbite nelle città dalla classe dominante. In tempi di urgente necessità, quando la tassazione regolare non bastava a coprire le spese indispensabili, lo Stato non aveva altro mezzo che ricorrere alla teoria del suo primato sull’individuo e attuarla nella pratica. Questo procedimento non era affatto nuovo nella storia del mondo antico. A ogni membro di una comunità antica, monarchia o città-Stato, si richiedeva di sacrificare i suoi privati interessi a quelli della comunità: di qui il sistema delle «liturgie» (leitourgivai), cioè oneri pubblici, che implicava lavoro coattivo e rendeva le classi privilegiate e ricche responsabili anche per i poveri. Il sistema delle liturgie nel mondo antico era vecchio quanto lo Stato. L’obbligo per ogni suddito di assistere lo Stato col suo lavoro e coi suoi mezzi, e la responsabilità degli agenti del governo per l’esatto adempimento delle loro mansioni, erano sempre stati i principii fondamentali del sistema monarchico orientale, e come tali furono ereditati dagli Stati ellenistici. La responsabilità degli agenti governativi non era soltanto personale in quanto i funzionari erano soggetti a castigo, ma anche materiale, giacché essi erano tenuti a pagare di tasca le perdite causate allo Stato dalla loro disonestà o incapacità. I Romani fecero propri questi principii non soltanto in Egitto, dove essi esistevano nella loro forma più pura, ma anche nelle altre province orientali. In Egitto non abolirono uno solo degli obblighi cui per consuetudine era tenuto il popolo. Il lavoro coattivo restò la principale forza motrice del sistema economico, e il
33. L’accrescimento dei demani imperiali, che costituisce il tratto saliente dell’evoluzione economica dell’Impero romano, non inficia in alcun modo l’esattezza dell’esposizione data nel testo. Quest’incremento dei beni imperiali, dato che le tenute dell’imperatore non appartenevano ai territori urbani, avvenne a spese non delle città e dei loro territori, ma dei grandi proprietari dei secoli I a.C. e I d.C., i cui possessi erano stati per lo più estraterritoriali. I demani imperiali situati dentro territori urbani non erano gran cosa. Inoltre gli imperatori del sec. II, come abbiamo visto, non erano alieni dal trasformare i loro demani in territori cittadini. Intanto anche nei demani imperiali andava sorgendo una classe di magnati agrari, e vi esisteva lo stesso differenziamento di classi che nelle città: voglio accennare ai grandi affittuari di cui ho parlato nel capitolo precedente. L’importanza di questo fatto è stata pienamente riconosciuta da W.L. WESTERMANN, The Economic Basis of the Decline of Ancient Culture, «American Historical Review», 20 (1915), pp. 724 sgg.; Cf. E. KORNEMANN, «R. E.», Suppl. IV (1924), coll. 240 sgg.
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governo non rinunciò mai al suo diritto di esigere dalla popolazione in caso di necessità, e specialmente in tempo di guerra, viveri e foraggi per i soldati e gli ufficiali, in aggiunta alle imposte ordinarie. Un esempio calzante e bene attestato è la cosidetta angareia: con questo termine di origine persiana o aramaica s’indicava l’obbligo per la popolazione di fornire animali, conducenti, navi per il trasporto di uomini e cose che si dislocavano per il servizio dello Stato. Tale istituzione non fu mai abolita dai Romani, i quali cercarono soltanto di regolarla, ma senza successo, giacché essa, finché esisteva, non poteva non avere effetti disastrosi. I prefetti emanarono editti su editti con l’onesto proposito di far cessare gli arbìtri e l’oppressione inerenti al sistema; ed è notevole che una delle prime ordinanze pubblicate in Egitto da Germanico riguardava appunto questa materia. Ma il carattere oppressivo dell’istituzione non poteva annullarsi. Lo stesso va detto per la prestazione straordinaria di viveri e altre cose di cui lo Stato aveva bisogno: si trattava di vere e proprie requisizioni. Esse potevano bene assumere forma di vendite coattive, esser invigilate dai funzionari più elevati: ma la loro natura ne faceva pur sempre un peso insopportabile34. Neanche il principio della responsabilità materiale dei funzionari scomparve dall’Egitto sotto il governo romano. I funzionari dei Tolomei erano stati per lo più loro agenti personali salariati: in caso di disonestà potevano esser messi sotto processo e i loro beni confiscati; ed è possibile che in Egitto non sia mai scomparsa l’idea che ciascuno, se richiesto, fosse tenuto a servire lo Stato anche senza ricompensa; ed è possibile che i funzionari inferiori, tratti dalle file degli indigeni, non abbiano mai ricevuto stipendio neppure sotto i Tolomei. Ad ogni modo i Romani, che dapprima conservarono la prassi tolemaica, a poco a poco trovarono meno costoso e più comodo ridurre il numero dei funzionari statali e aumentare quello di coloro ch’erano tenuti a dare l’opera loro allo Stato senza compenso, introducendo così una specie di lavoro obbligatorio anche per le classi superiori e più ricche, ch’erano immuni dai lavori manuali coattivi delle classi inferiori. Il rapido svilupparsi di tale sistema, parallelamente all’incremento delle classi medie egiziane (del quale abbiamo parlato nel capitolo precedente) è dimostrato dalle accurate indagini dell’Oertel. Esso era già completamente svolto nella prima metà del secondo secolo d.C.: quasi tutti gli uffici erano in
34. Intorno alle angareiai (ajggarei`ai) dell’Egitto si ha una raccolta completa dei dati e una buona bibliografia in F. OERTEL, Die Liturgie (1917), pp. 24 sgg., 88 sgg.; cf. W. SCHUBART, Einführung, p. 431 e P. S. I., 446, editto di M. Petronio Mamertino, 133-137 d.C. È caratteristico, per quanto concerne la disciplina nell’età traianea, che Mamertino additi espressamente i soldati quali colpevoli principali e metta in rilievo i funesti effetti che le requisizioni avevano sulla moralità e sulla disciplina dell’esercito. L’OERTEL offre anche i dati relativi alle consegne coattive di generi alimentari ecc. Cf. pp. 437, 600 e tav. LXXIV; S. E. G., IX, 871 Tabarka (Mus. Bardo) ed. A. MERLIN et CH. DIEHL, « Bull. d. la Soc. d. Ant. de France», 1924, pp. 196 sgg. Tabula aenea: Zw`/on diaf(evron)
⁄ tw`/ qeivw/ ajrmamen(tarivw/) ⁄ prostacqe;n kata; qi`(on) ⁄ tuvpon Mi(cah;l) ajggavr(w). (II testo parla di un animale appartenente all'arsenale sacro, attribuito dal regolamento imperiale al corriere Michele). L. Robert tractabit nei suoi Hellenica, II, in tractando de titulo Asiae Minoris (inv. apud STERRET, Wolfe Exped., n.1), in vico Örenköy Ciliciae Asperae.
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Egitto «liturgie», vale a dire i loro detentori non soltanto non toccavano remunerazione, ma erano responsabili dei risultati del proprio servizio. Nell’amministrazione finanziaria questo sistema importava responsabilità pecuniaria per eventuali perdite subite dallo Stato. Se un’imposta non veniva pagata e non poteva venir esatta sul contribuente, era tenuto a pagarla il funzionario; e se non poteva farlo, si confiscava e vendeva la sua proprietà. È probabile che siffatto sistema si collegasse col fatto che in origine le imposte erano state esatte da appaltatori privati; ai funzionari statali che li sostituirono passò anche la responsabilità per l’intero ammontare delle imposte dovute dai contribuenti. Di pari passo s’accompagnava la maniera sempre più dura con cui venivano esatte le contribuzioni dovute allo Stato, di qualunque specie esse fossero: imposte, consegne per effetto di requisizione, compre o vendite forzate, lavoro coattivo. La procedura usata nella riscossione dei debiti, privati o pubblici, era sempre stata nell’antichità dura e spietata. Il debitore rispondeva non soltanto col suo avere, ma anche con la sua persona, col suo corpo (pra`xi~ ejk tw`n swmavtwn), e spesso questa responsabilità s’estendeva anche ai parenti. In tutto il mondo antico, così nelle monarchie orientali come nelle città-Stato della Grecia, il carcere, i castighi corporali, la tortura erano stati i mezzi comunemente adoperati per avere ragione della cattiva volontà del debitore. Anche più energici dei metodi usati per la riscossione dei debiti privati erano quelli cui ricorreva il governo nel proprio interesse, fondandosi sulla teoria del potere supremo dello Stato, secondo cui il contribuente moroso va trattato da delinquente. In Egitto già sotto i Tolomei la prassi della riscossione dei debiti verso lo Stato pra`xi~ ejk tw`n swmavtwn era comunissima; ma questo metodo raggiunse il suo punto culminante nell’età romana, allorché la riscossione delle imposte e degli altri pagamenti dovuti allo Stato fu inserita nel sistema delle liturgie. Quanto maggiori diventavano le esigenze dello Stato e peggiore all’incontro la condizione economica dei contribuenti, tanto più spietatamente si comportavano gli agenti dello Stato incaricati della riscossione. Nella seconda metà del sec. II d.C., come ho dimostrato (p. 592), il sistema era già in pieno corso. Non soltanto era generale l’uso di estorcere i pagamenti dai «corpi» dei contribuenti, ma venne introdotta una specie di responsabilità per gruppi, nei quali venivano compresi i membri della famiglia, i vicini, la comunità, la corporazione. Questo non era altro che il logico svolgimento dell’idea della supremazia degli interessi dello Stato. Augusto cercò d’introdurre un miglioramento, concedendo al debitore insolvente il diritto di cedere il suo patrimonio al creditore e di sottrarsi così alla responsabilità corporale (cessio bonorum); privilegio, questo, che, limitato dapprima ai soli cittadini romani, venne poi esteso a poco a poco anche ai provinciali. Ma anch’esso fu inutile. L’antica pra`xi~ ejk tw`n swmavtwn era così profondamente radicata nelle consuetudini del mondo antico, che non si cessò un istante dall’applicarla. Vedremo in seguito con quale rapidità essa si sia estesa nei tempi difficili della fine del secondo e del terzo secolo. Sia dunque che questo sistema derivasse dall’Egitto, sia, come sembra più probabile, ch’esso fosse applicato contemporaneamente anche nelle altre parti dell’Impero, certo è che venne attuato su scala sempre più larga di pari passo col diffondersi del sistema delle liturgie in tutto l’Impero. I dati documentari che possediamo in proposito sono scarsi; ma sembra se ne possa ricavare che anche
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nelle altre province vigevano condizioni identiche a quelle dell’Egitto: infatti nei concetti giuridici e nelle istituzioni della città-Stato la pra`xi~ ejk tw`n swmavtwn aveva radici forse ancor più profonde che nelle monarchie orientali. Gli effetti del sistema furono disastrosi. La riscossione dei pagamenti dovuti allo Stato era affidata alle classi privilegiate; e la durezza spietata con cui queste la facevano – si trattasse di diritti del Comune o dello Stato – scavava ancor più profondo l’abisso tra gli honestiores e gli humiliores. Naturalmente all’applicazione del sistema non v’era limite: logicamente, gli stessi honestiores erano sottoposti ad ugual trattamento, allorché non adempivano ai loro obblighi, e non v’era cessio bonorum che potesse salvarli dal carcere e dalla tortura35. Per ciò che riguarda, in modo speciale, il lavoro coattivo imposto dallo Stato ai sudditi, i Romani accolsero la prassi seguita dai loro predecessori in tutto l’Oriente, e non sognarono neppure di abolirla; anzi la trasportarono anche nei paesi greci e in Occidente. Come essa venisse applicata in Oriente ce lo dimostra, per esempio, il noto racconto del Vangelo intorno al modo con cui Simone il Cireneo venne costretto ad addossarsi il trasporto della croce di Cristo sulla via del Golgotha. La parola usata dal Vangelo per quest’atto di coercizione è angaréuein: Simone venne assoggettato ad un’angareia. Quando poi troviamo la parola angareia usata dalle fonti giuridiche del Basso Impero per indicare la prestazione coattiva di bestie e conducenti per il trasporto di cose dello Stato, è manifesto che non soltanto la parola ma anche la cosa ch’essa indica era non un’invenzione dei Romani, ma un’eredità da loro ricevuta36. Non si può dubitare, adunque, che nell’Asia Minore e in Siria l’istituzione del lavoro coattivo per lo Stato fosse in uso gran tempo prima che presso i Romani. Nel primo periodo del loro governo, eccezion fatta dei tempi di guerra civile, l’applicazione di essa è raramente ricordata; ma è ben certo che il sistema persisteva, specialmente in materia di trasporti, e che rientrava in vigore ogniqualvolta il governo romano doveva spostare in Italia e nelle province grandi masse d’uomini e di cose. Non è caso che uno degli editti di Claudio*
35. Sulle liturgie egiziane vd. F. OERTEL, Die Liturgie, pp. 62 sgg. Intorno alla pra`xi~ ejk tw`n swmavtwn, vd. E. WEISS, Griechisches Privatrecht, I (1923), pp. 495 sgg., cf. la bibliografia della nota 42. Purtroppo i giuristi che si sono occupati di quest’argomento non hanno esteso le loro indagini al diritto pubblico, né hanno mai investigato il sistema in quanto applicato dallo Stato ai propri fini. Cf. il mio articolo The Roman Exploitation of Egypt in the First Century A. D., «Journ. of Econ. and Business History», I (1929), pp. 337 sgg. 36. Vd. i miei articoli in «Klio», 6 (1906), pp. 249 sgg. e «J. R. S.», 8 (1918), p. 29, nota 3 e p. 33 nota 1; P. FIEBIG, «Zeitschr. f. neutest. Wissensch.», 18 (1917), pp. 64 sgg. Circa la diffusione del sistema in tutto l’Impero romano nel corso del sec. II d.C. vd. EPICT., Diss., IV, 1, 79: a]n d j ajggareiva h\/ kai; stratiwvth~ ejpilavbhtai, a[fe~, mh; ajntivteine mhde; govgguze: eij de; mh; plhga;~ labw;n ouhde;n h|tton ajpolei`~ kai; to; ojnavrion, da confrontarsi con la nota storia del giardiniere e del soldato narrata da Apuleio. Cf. L. POINSSOT, «Bull. d. la Soc. d. Ant. de France», 1924, pp. 196 sgg.: targa di bronzo la quale attesta che un cavallo o un asino appartenente al servizio postale imperiale è esente da angaria. *. Citato nel cap. III, nota 2.
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tratti dei gravi oneri di trasporti imposti all’Italia e alle province e si proponga, come i prefetti d’Egitto, di regolarli e di mitigare la funesta influenza ch’essi avevano sulla prosperità dell’Impero. L’editto dimostra che quest’istituzione orientale era stata trapiantata, probabilmente già nel corso delle guerre civili, sia in Grecia sia nelle parti occidentali dell’Impero, compresa l’Italia. La descrizione che Plinio fa dei viaggi di Domiziano fornisce una buona illustrazione di ciò che quest’istituzione voleva dire per le pacifiche popolazioni dell’Impero; e le notizie sporadiche, che sono state ricordate nel presente capitolo a proposito delle guerre e dei viaggi di Traiano e di Adriano, dimostrano che anche questi imperatori in caso di necessità ricorsero a questo sistema. Altre notizie occasionali attestano l’uso di lavoro coattivo e di requisizioni per il vettovagliamento dell’esercito e per l’assegnazione di alloggi e viveri ai soldati e agli ufficiali. Nell’Asia Minore, come pure in Grecia e nell’Occidente, regioni che gli imperatori avevano in gran parte urbanizzate, l’onere del lavoro coattivo e delle requisizioni non era imposto, come in Egitto, a individui o a gruppi d’individui quali erano le corporazioni professionali, ma alle unità amministrative dell’Impero, alle città. I magistrati municipali e i consigli civici erano le autorità responsabili, che dovevano distribuire i pesi tra la popolazione del distretto. Ciò voleva dire che chi effettivamente li sopportava non erano i membri della classe dirigente, ma i lavoratori del suolo in campagna e gli operai in città, e in modo particolare i primi: i sordida munera non venivano mai eseguiti dai proprietari di terre e di botteghe. Come nella Russia dell’antico regime, che offre il miglior parallelo moderno a questo lato della vita antica, la classe privilegiata conosceva molto bene il modo di sottrarsi a questi pesi e di scaricarli sulle spalle dei contadini, anche quando, come avveniva per la costruzione delle strade, essi colpivano non gli individui come tali ma la proprietà agraria. È vero che persone generose talvolta si assumevano esse tali oneri; ma questi casi erano eccezionali e appunto perché tali si trovano menzionati, verificandosi, nelle iscrizioni. È facile capire che cosa significassero per le popolazioni questi oneri straordinari. Le imposte, per quanto pesanti, erano richieste regolari che potevano anticipatamente calcolarsi; ma nessuno sapeva mai se e quando un funzionario imperiale o un magistrato municipale si sarebbe presentato per chiedere ai villaggi uomini e animali e per acquartierarsi nelle case di esso: i movimenti di grossi eserciti o i viaggi degli imperatori col loro numeroso seguito erano vere calamità. Il bestiame, risorsa principale dei contadini, che in esso avevano investito quasi tutti i loro risparmi, frutto di lunghi anni di lavoro, era portato via, maltrattato, mal nutrito, e ritornava coi suoi conducenti, se pure ritornava, quando il proprietario non ne aveva più bisogno. Naturalmente il problema di regolare la materia dei trasporti era il più importante e vitale che il governo dovesse risolvere. Non dobbiamo perder di vista questo punto essenziale che recentemente è stato messo in rilievo dal Lefebvre des Noettes. Se prendiamo come misura di giudizio il conseguimento della massima capacità di trasporto da parte delle bestie, dobbiamo dire che l’antico sistema di fabbricazione dei carri, il modo con cui ad essi si attaccavano tanto cavalli e muli quanto asini e buoi, e il sistema di costruzione delle stra-
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de erano, in confronto ai nostri, molto difettosi. Il Codex Theodosianus* nei passi che riguardano il cursus publicus stabilisce il carico massimo in 200 a 600 libbre per i carri leggeri, in 1000 a 1500 libbre per i pesanti, vale a dire tutt’al più un quinto del peso medio che i carri trasportano oggi nell’Europa occidentale: da ciò si rileva quale sperpero si facesse della forza di lavoro, quale lentezza caratterizzasse i trasporti, e quale immensa quantità di bestie e di conducenti occorresse per i grossi trasporti. In tali condizioni lo Stato non poteva eseguirli direttamente, e si vedeva costretto ad applicare il disastroso sistema orientale delle requisizioni e del lavoro coattivo, che necessariamente doveva diventare il cancro roditore della vita economica dell’Impero. Certo, in confronto al modo con cui procedevano i trasporti nelle antiche monarchie orientali e in Grecia, le norme introdotte nell’età persiana, ellenistica, romana, erano un grande progresso, specialmente per ciò che riguarda la costruzione delle strade. Ma lo scopo principale che si voleva conseguire con queste ultime non era il vantaggio del commercio e del traffico privato; era invece di natura esclusivamente militare. Questa è la ragione per cui si curavano così poco il miglioramento dei trasporti e la possibilità di risparmiare uomini e bestie36a. Non deve sorprenderci quindi, date queste condizioni, che gli imperatori romani non abbiano mai seriamente pensato a por fine al sistema orienta-
*. COD. THEOD., VIII, 5, 8 (357 d.C.); 17 (364 d.C.); 28 (368? 370? 373? d.C.); 30 (368 d.C.); 47 (385 d.C.). 36a. Intorno al sistema prevalente nel mondo antico (comprese l’India e la Cina) d’adoperare come forza motrice le bestie da soma vd. Commandant LEFEBVRE DES NOETTES, [L’Attelage de cheval de selle à travers les âges. Contribution à l’histoire de l’ésclavage, 1931, nuova ediz. del suo libro], La Force motrice animale à travers les âges (1924), e per le strade romane il suo articolo in «Rev. Arch.», 22 (1925), pp. 105 sgg. I dati dell’età romana, in quanto mi sono presenti, confermano in complesso le vedute dell’autore relativamente al sistema dei trasporti romani. Non mancano tuttavia eccezioni. Il rilievo di Vaison (LEFEBVRE DES NOETTES, La Force motrice, tav. XXXIII, fig. 88) non può essere falsificazione moderna: questo è fuori dubbio (cf. la nostra tav. LXXIV, 1 e la bibliografia). Così pure non posso ammettere che la bardatura dei cavalli di questo rilievo sia mera opera di un artefice moderno. È urgentemente necessaria una nuova ed accurata indagine dell’immenso materiale archeologico ch’è a nostra disposizione per l’età romana. Monumenti come quelli rappresentati nelle mie tavole XXXIII, 3 e XLVI, 3, non s’accordano col sistema del Lefebvre. Infine debbo ricordare che i carichi dei carri nella Russia odierna sono su per giù come quelli che vengono menzionati nel Codex Theodosianus, e ciò a motivo in parte della miserabile razza dei cavalli adoperati dai contadini, in parte delle cattive strade. Lo stesso indubbiamente deve dirsi per l’Impero romano. I cavalli, muli, asini, buoi dei contadini dell’Impero non erano migliori di quelli della Russia, e le strade romane imponevano gravi fatiche alle bestie da soma. Non dobbiamo inoltre dimenticare che la maggior parte delle strade vicinali non erano che semplici sentieri in pessime condizioni, su per giù come quelle odierne dell’Asia Minore e delle parti settentrionali della Penisola balcanica. Tutta la questione dei trasporti nell’Impero romano richiede una nuova indagine accurata. Circa il graduale miglioramento dei trasporti avvenuto nel mondo antico vd. W.L. WESTERMANN, On Inland Transportation and Communication in Antiquity, «Political Science Quarterly», 43 (1928), pp. 364 sgg.
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le di provvedere ai trasporti mediante lavoro coattivo e requisizioni, se anche non sfuggivano loro le dannose conseguenze di esso. Abbiamo già ricordato l’editto di Claudio e i corrispondenti documenti egiziani. Per i trasporti marittimi si ricorreva alla flotta commerciale esistente, applicando però criteri commerciali. Le associazioni di mercanti e di proprietari di navi, o gli individui che ne facevano parte, lavoravano per lo Stato alle stesse condizioni cui avrebbero lavorato per qualsiasi altro cliente, sulla base di un contratto. Ma quando il servizio dei battellieri occorreva in grande scala, per esempio in tempo di guerra, si applicava loro il sistema della requisizione e della coercizione con la stessa mancanza d’ogni riguardo ch’era consueta nei trasporti terrestri. Il fatto che gli imperatori da Adriano in poi concessero ripetutamente importanti privilegi alle associazioni di mercanti e di battellieri dimostra che in tal modo s’intendeva compensare il lavoro coattivo cui le associazioni medesime venivano sottoposte nello interesse dello Stato37. Ma per i trasporti terrestri non esisteva alcuna associazione di questo genere. In Egitto, è vero, vi erano speciali corporazioni di proprietari di animali da trasporto, che lavoravano per conto tanto dello Stato quanto di altri clienti (sui kthnotrovfoi P. Oxy. XVIII, 2182; cf. H.C. YOUTIE e O.M. PEARL, Oxyrhyncus Papyrus 2182, «Class. Weekly», 37 (1943), pp. 7-10); e organizzazioni dello stesso tipo esistevano anche in alcune altre città dell’Impero romano: ma queste istituzioni non si svilupparono mai in qualche cosa che potesse paragonarsi a quelle dei mercanti di mare e dei battellieri, a tacere delle moderne compagnie di trasporti. Sicché in Egitto come nelle altre province i trasporti terrestri rimasero sempre fondati sul lavoro coattivo. Una parte del problema – quella riguardante l’avviamento della corrispondenza ufficiale e il tra-
37. Intorno alle associazioni di proprietari di navi vd. cap. V, nota 22. È caratteristico per le condizioni vigenti nel sec. II il fatto che il praefectus annonae del 201 d.C., Claudio Giuliano, in una lettera al procuratore della provincia narbonese gli ordina severamente di accogliere i desideri dei navicularii Arelatenses, i quali s’erano lagnati amaramente del cattivo ordinamento del servizio e minacciavano di scioperare; vd. C. I. L. III, 14165, ll. 11 sgg. (DESSAU, I. L. S., 6987): et cum eadem querella latius procedat ceteris etiam implorantibus auxilium aequitatis cum quadam denuntiatione cessaturi propediem obsequi si permaneat iniuria, peto ut tam indemnitati rationis quam securitati hominum qui annonae deserviunt consulatur ecc. Per l’identità del Giuliano di quest’epigrafe col praefectus annonae del 201 vd. HAEHNLE, «R. E.», X (1917), col. 23, n. 20; C. I. L. VI, 1603; «R. E.», art. Claudius, n. 189; cf. anche cap. IX, nota 52. Poiché Settimio Severo seguì verso le corporazioni una politica relativamente liberale (vd. il capitolo seguente), indubbiamente gli episodi descritti nell’epigrafe avvenivano ogniqualvolta sotto la pressione della guerra i proprietari di navi venivano costretti a prestazioni straordinarie. Non dobbiamo dimenticare che, da quando Claudio aveva concesso ai navicularii e ai mercanti certi privilegi, validi però tutti quanti per i singoli membri e non già per le corporazioni (SUET., Claud., 18, 19; GAI., Inst., I, 32; ULPIAN., Fragm., III, 6), i primi provvedimenti generali a favore dei navicularii e mercanti addetti al servizio dello Stato furono presi da Adriano, e poi svolti e specificati dai suoi successori Antonino Pio e M. Aurelio. Il principale tra questi privilegi era l’esenzione dalle liturgie municipali, donde risulta quanto grave fosse diventato quest’onere dopo Traiano; vd. DIG., 50, 6, 6, 5; cf. 8 (Adriano); ibid., 9 (Pio); ibid., 6 (M. Aurelio e L. Vero).
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sporto di funzionari governativi, il cursus publicus – fu affrontata da Nerva, da Adriano, da Antonino Pio, da Settimio Severo. Essi pensarono di prendere in loro mani l’istituzione e di ordinarla a servizio di Stato: ed effettivamente può essere che si sia ottenuto qualche risultato nel senso di sviluppare maggiormente, con indirizzo burocratico, questo ramo della pubblica amministrazione; ma è dubbio che sia stato mai organizzato un vero servizio di Stato con masse di uomini e d’animali adibite soltanto ed interamente ad esso. Il fondamento del sistema rimase, come per secoli in Russia, il servizio coattivo delle popolazioni abitanti lungo le strade; e se anche il cursus publicus era gestito dallo Stato, il trasporto delle cose e la fornitura dei mezzi di trasporto per gli eserciti si fondavano intieramente sulle requisizioni e sul lavoro coattivo38.
38. O. HIRSCHFELD, Die k. Verwaltungsb., 19052, pp. 190 sgg. Molto probabilmente il servizio di corrieri per conto dello Stato portò all’istituzione di alcuni depositi statali di cavalli e altre bestie da trasporto nelle stazioni Ciò risulta da un’iscrizione di Dacibyza in Bitinia, I. G. R. R. III, 2, perfettamente restaurata e splendidamente illustrata da J. KEIL, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 21-22 (1922-24), Beibl., pp. 261 sgg.: A ∆ gaqh`/ tuvch/. Ma`rko~ Stavtio~ ∆Iouliano;~ kai; Sª: : : :ºlio~ ÔRou`fo~ stratiw`tai speivrh~ e{kth~ iJppikªh`~º oiJ ejpi; tw`n statiwvnwn tw`n a[ktwn kai; noumevrwn kai; oiJ ªmºoulivwne~ oiJ ejpestw`nte~ sunwriva eujcaristou`s in Leuªkoºuvllw/ ”Hduo~ ejpimelhth`/ kthnw`n Kaivsaro~. L’iscrizione, che appartiene al sec. III, enumera gli impiegati d’una stazione postale: sono due actarii et numerarii stationum, soldati di cavalleria, un certo numero di guardiani, e il sorvegliante degli armenti imperiali, cui spettava di rifornire di bestie da soma le stazioni. Si è tentato d’attribuire quest’ordinamento a Settimio Severo, ma gli inizi di esso possono essere anteriori, giacché fu Nerva il primo ad introdurre in Italia quest’istituzione, che poi da Adriano, Antonino Pio, Severo fu a poco a poco estesa alle province. Dicendo «a poco a poco» intendo accennare all’aumento del numero delle strade e delle stazioni provvedute di bestie da soma: ma è indubbio che le provvidenze del governo non soddisfecero mai tutti i bisogni e che le stazioni statali restavano eccezioni. Debbo tuttavia rilevare che la precedente interpretazione dell’epigrafe non è la sola possibile (vd. J. KEIL, loc. cit.). È possibile che le stationes fossero posti militari di cavalleria, che richiedessero cavalli, oppure posti speciali per la requisizione e la compera di cavalli occorrenti all’esercito. La Bitinia e la Cappadocia erano famosi centri d’allevamento di cavalli. Cfr. il papiro pubblicato da A. HUNT, nella Raccolta Lumbroso, p. 265, l. 56: trans M(a)r(u)m equatum, donde risulta che le unità di cavalleria inviavano speciali commissari per procurarsi i cavalli. Cf. G. CANTACUZÈNE, «Aegyptus», 9 (1928), pp. 72 sg. Anche la Dardania e la Mesia superiore sui due lati della Morava erano buone produttrici di cavalli. Sembra che alla rimonta dei cavalli provvedessero gli stratores del governatore e il loro capo, l’archistrator, vd. l’iscrizione di Termessos del 142 d.C., pubblicata da F. SCHEHL, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 24 (1928), Beibl., pp. 97 sgg., dov’è menzionato un archistrator di Val. Eudaemon, prefetto d’Egitto nel 142 d.C. [Un’iscrizione funeraria trovata a Belgrado in Serbia parla di uno schiavo nato a Cibyra nell’Asia Minore, che morì in Pannonia e fu ojrewkovmu~. Hades ha preso dalle sue mani hJniva~ sunwrivdwn. La lapide è stata posta per il defunto da Hiera suo suvndoulo~. Credo che il defunto lavorasse nel servizio postale. V.N. VULICˇ , Monumenti antichi del nostro paese, «R. Accad. di Serbia», Mem., 71 (1931), n. 8 (in serbo). Presso Treviri è stata trovata una vasta tenuta circondata da muri, che serviva nel IV sec. d.C. per l’allevamento dei cavalli, vd. J. STEINHAUSEN, Die Langmauer bei Trier und ihr Bezirk eine kaiserliche Domäne, «Trierer Zeitschr.», (1931), pp. 41 sgg.]. Cf. cap. VI, nota 87.
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Questo tuttavia è soltanto un lato del quadro. L’idea della liturgia non era estranea all’ordinamento della città- Stato. Come è noto, questa attendeva dai cittadini che in tempi critici assistessero lo Stato con le loro risorse materiali e col loro personale lavoro; ma il lavoro coattivo rimase sempre nella vita d’una città cosa eccezionale, cui si ricorreva soltanto in casi d’urgenza. Più saldamente stabilita era la consuetudine di richiedere dai cittadini ricchi contribuzioni straordinarie, chiamate liturgie, per provvedere a bisogni vitali della comunità: somme destinate ad alimentare la popolazione in tempi di carestia, prestiti forzosi per il pagamento di indennità di guerra e simili, denari per costruire navi o per allestir cori nelle grandi feste, e così via. Nelle età ellenistica e romana s’ebbe un grande sviluppo della vita municipale; e quanto più la direzione della vita civica diventava privilegio della classe abbiente, tanto più si attendeva che questa provvedesse di tasca ai bisogni della città. A poco a poco scomparve la differenza tra ajrcaiv e leitourgivai, corrispondente a quella che si faceva in Occidente tra honores e munera; e ogni magistrato di città era tenuto a pagare l’onore conferitogli, oltre al dover sostenere reali liturgie, che a poco a poco assunsero la forma di regolari obblighi. Il peso era grave, ma finché non fu eccessivo venne sopportato di buona voglia dalle classi più ricche, che spiegarono in questo campo il più ammirevole spirito pubblico. Ma sin dalla fine del primo secolo anche nelle ricche province d’Oriente divenne sempre più difficile trovare persone disposte a servire la città senza compenso e a prezzo di sacrifici materiali. In Occidente, per esempio nella Spagna, sin dal primo momento che la vita municipale cominciò a venire stabilita nelle parti più povere del paese, si dovettero prendere provvedimenti per assicurare, occorrendo con la coercizione, il numero necessario di magistrati e di membri dei consigli civici39. La situazione era resa più difficile dalla parte assegnata alle città nell’ordinamento finanziario dell’Impero. Gli imperatori lasciarono cadere ben presto il sistema repubblicano di appaltare la riscossione delle imposte dirette – imposta fondiaria e capitazione – a compagnie di appaltatori d’imposte (publicani). Il primo a dare un grave colpo a questo sistema fu Giulio Cesare; Augusto e
39. Non esiste una trattazione sufficiente della storia delle liturgie nelle parti urbanizzate dell’Oriente e dell’Occidente dell’Impero. La migliore rassegna (ormai però affatto antiquata) è quella di E. KUHN, Die städtische u. bürgerliche Verfassung des röm. Reiches bis auf die Zeiten Justinians (1864). Tuttavia il K. tratta il problema sistematicamente, non già storicamente, e si fonda sulle fonti giuridiche, vale a dire rappresenta in complesso lo stato delle cose che esistette nel periodo postdioclezianeo. Il primo tentativo di trattazione storica è stato quello di W. LIEBENAM, Städteverwaltung im römischen Kaiserreiche (1910), che rimane ancora il libro migliore sull’argomento. Il Liebenam ha riunito accuratamente i dati epigrafici e si è industriato di ordinarli secondo le esigenze storiche, ma non ha inteso la grande importanza dell’introduzione del principio della responsabilità personale e non già collettiva in materia di esazione d’imposte ecc. Dopo il Liebenam, se ne togliamo quel che riguarda l’Egitto, non si è scritto più niente d’importante sullo svolgimento delle liturgie nelle città dell’Impero. Per le città della Spagna vd. cap. VI, nota 29. Alcune nuove e interessanti vedute su questo svolgimento e sul significato del vocabolo liturgia offre J. PARTSCH, «Arch. f. Pap.-F.», 7 (1923), pp. 264 sgg., in una recensione del libro dell’Oertel.
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Tiberio seguirono le sue orme. A poco a poco le grandi compagnie di appaltatori delle imposte nelle province scomparvero, almeno per quanto riguarda le imposte dirette; e in loro luogo sottentrarono i magistrati e i senati delle città. Queste furono ben liete d’esser sottratte alle esazioni dei publicani: esse erano state oppresse all’estremo da quegli avidi affaristi, e quindi si prestarono volenterosamente ad aiutar lo Stato nell’impresa di riscuotere le imposte nei rispettivi distretti. Non si sa se sin da principio questa loro cooperazione implicasse responsabilità per l’importo integrale delle somme dovute allo Stato, ma è molto probabile, giacché lo Stato doveva in qualche modo aver garantite le sue entrate ed era abituato ad avere tale sicurezza dalle compagnie dei pubblicani. Siccome però le imposte dirette erano moderate, la responsabilità della loro riscossione non doveva poi essere per la borghesia cittadina un peso tanto grave: anzi essa può averne ricavato qualche vantaggio per sé. Infatti, se l’assegnazione generale delle imposte fu sempre funzione del governo centrale, questo però non avrebbe mai potuto attuarla senza l’aiuto delle città; e in tale occasione le persone più altolocate trovavano opportunità di fare qualche riduzione nel calcolo della loro proprietà40. Ma a poco a poco la responsabilità dei capitalisti municipali venne allargata ad altri campi. L’esazione delle tasse indirette rimase per qualche tempo nelle mani delle compagnie d’appaltatori, che però vennero tenuti accuratamente d’occhio dagli imperatori. V’erano sul luogo i procuratori imperiali a tutelare gli interessi così del tesoro come dei contribuenti. In questo campo i loro poteri, che comprendevano anche una certa giurisdizione, aumentarono continuamente, soprattutto sotto Claudio. Ciò nonostante la riscossione delle tasse indirette rimase un lato debole dell’amministrazione finanziaria dell’Impero. Sembra che le continue lagnanze delle popolazioni siano state il motivo per cui Nerone, in un caratteristico accesso di benevolenza, pensò all’abolizione delle tasse indirette: pur tuttavia esse furono conservate, e così pure il sistema di darle in appalto. L’unico mutamento – iniziato probabilmente da Vespasiano, il cui padre era stato appunto un appaltatore d’imposte, e poi completamente sviluppato da Adriano – consisté nel toglier di mezzo le compagnie, che del resto andavano estinguendosi da sé, e nel sostituire ad esse persone ricche, le quali si trovavano in una situazione intermedia fra quella di appaltatori di tasse e quella di procuratori. Ciò che più di tutto caratterizzava la posizione di questi nuovi appaltatori, chiamati conductores, era la loro responsabilità per la riscossione completa d’una data tassa. Dato che l’ufficio non era di per sé molto remunerativo, mentre invece la responsabilità era grave, lo Stato ebbe sempre maggior difficoltà a trovar persone disposte ad assumer quest’incarico, e a poco a poco si vide costretto a ricorrere alla compulsione e a considerare l’esazione delle imposte come un onere, una liturgia, un munus. Il sistema non
40. Vd. la mia Geschichte der Staatspacht, pp. 415 sgg.; O. HIRSCHFELD, Die k. Verwaltungsb., 19052, pp. 68 sgg.; i miei articoli in DE RUGGIERO, Diz. ep., III, pp. 107 sgg. e in «R. E.», VI, coll. 2385 sgg. Dentro i territori delle città, cioè nelle parti rurali, la responsabilità della riscossione delle imposte spettava ai rappresentanti dei villaggi: vd. J. KEIL e A. VON PREMERSTEIN, Dritte Reise, p. 69.
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era del tutto nuovo, giacché era stato già praticato dai Tolomei; mai però era stato applicato così sistematicamente. Inclino a credere che precisamente nello stesso periodo – cioè dopo Vespasiano e specialmente sotto Adriano – abbia cominciato a prender salde radici il sistema di dare i grandi demani imperiali ad affittuari generali (conductores), in quanto anche questi erano considerati principalmente quali agenti incaricati di riscuotere per conto dell’imperatore le rendite (inclusa l’imposta fondiaria) dei piccoli affittuari41. La responsabilità individuale per la riscossione delle tasse, e, nel caso degli affittuari generali dei demani imperiali, per la esecuzione dei lavori obbligatori da parte dei piccoli affittuari, era un tratto nuovo nelle relazioni tra lo Stato e la borghesia. L’introduzione di esso può essere stata suggerita dalle espe-
41. Vd. la mia Geschichte der Staatspacht, pp. 374 sgg.; O. HIRSCHFELD, Die k. Verwaltungsb., 19052, pp. 77 sgg.; il mio articolo Fiscus nella «R. E.» Il trapasso dalla riscossione delle imposte a mezzo di società (societates publicanorum) alla riscossione mediante funzionari, da considerarsi per metà come appaltatori e per metà come funzionari, ha recentemente ricevuto luce da due epigrafi africane una è I. L. A., 257, dedica a Venus Augusta fatta da due promagistri soc(iorum) IIII p(ublicorum) Afric(ae) (sec. I d.C., età di Claudio?); l’altra, dell’età di Settimio Severo, è un’iscrizione in onore di M. Rossio Vitulo, il quale aveva terminato la sua carriera (almeno fino al momento in cui gli venne eretta una statua a Bulla Regia) in qualità di procurator IIII p. A. (I. L. A., 455). Cf. per l’Asia Forsch. in Ephesos., III, p. 131, n. 45 – un promag(istro) duum p(ublicorum) XXXX p(ortuum) Asiae – e un’altra iscrizione della stessa persona, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 1 (1898), Beibl., p. 76; A. STEIN, «R. E.», Suppl. I, col. 332, n. 7a (la traduzione greca di promagistro è qui ajrcwvnh~). Cf. il frammento pubblicato in Forsch. in Ephesos., III, p. 132. L’iscrizione è del 103-114 d.C. Ad un periodo posteriore appartiene M. Aurelio Mindio Matidiano (sotto M. Aurelio e Commodo), che nell’ultima parte della sua vita fu procuratore di grado molto elevato, e prima era stato per trent’anni ajrcwvnh~ tessarakosth`~ limevnwn ∆Asiva~. Non è impossibile ch’egli sia stato a un tempo procuratore e archones, cioè promagistro. Vd. DESSAU, I. L. S., 8858 e J. KEIL, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 23 (1926), Beibl., p. 269; Ann. ép., 1928, n. 97. Si noti che sotto Traiano il vectigal ferrariarum si trovava (in Italia?) ancora nelle mani di una società (socii), C. I. L. XIV, 4326 (cf. p. 773). A Letnica, distretto di Lorech, è stata recentemente trovata una nuova iscrizione di un conductor p. p. Illyrici et ripae Thraciae, Ann. ép., 1928, n. 153. Cf. cap. V, nota 23. Le mie osservazioni circa la condotta di Nerone riguardo ai vectigalia si fonda sul noto passo di TACITO (Ann., XIII, 50) e sull’interpretazione di esso suggeritami da J.G.C. ANDERSON. «Secondo Tacito – egli scrive – le crebrae populi flagitationes furono il motivo che spinse Nerone a ponderare la questione, e l’azione dell’imperatore fu un impetus, sul quale il Senato dovette gettare una doccia d’acqua fredda, ricordando che uno Stato non si poteva governare senza entrate. Pulcherrimum id donum generi mortalium daret sono evidentemente proprio le parole di Nerone. Questi era seccato delle continue lamentele, ed ebbe uno di quei sussulti di benevolenza irresponsabile, che sono caratteristici dei bohémiens della sua specie». Tuttavia i consiglieri di Nerone con un editto imperiale fecero un passo importante verso il miglioramento della riscossione delle imposte (TAC., ibid., 51), e più tardi venne creata a tal fine una commissione speciale (TAC., Ann., XV, 18). Cf. la mia Gesch. d. Staatspacht, p. 387 (59) e il mio articolo Fiscus, «R. E.», VI, col. 2391; O. HIRSCHFELD, Die kaiserl. Verwaltungsb., 19052, p. 81, nota 3 e p. 89, nota 3.
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rienze fatte dagli imperatori in Egitto, dove il principio della responsabilità personale dei benestanti per coloro ch’erano economicamente deboli era stato applicato in una certa misura dagli imperatori sin dall’inizio della loro dominazione. A poco a poco questa prassi venne estesa anche alle relazioni tra lo Stato e le città. Intorno allo svolgimento di questo nuovo tipo di relazioni sappiamo veramente assai poco: ma è certo che nel terzo secolo e nei secoli seguenti il nuovo principio era dominante. Non più i magistrati e il consiglio civico sono responsabili globalmente dell’esazione delle imposte, dei pagamenti straordinari, dell’esecuzione dei lavori coattivi: ormai persone ricche, o supposte tali, hanno questa responsabilità, e sono obbligate al pagamento degli arretrati sotto pena di perdere la loro proprietà, che può venir confiscata dallo Stato o ceduta volontariamente in tutto o in parte42. Nelle città d’Occidente pare che la responsabilità del pagamento delle tasse toccasse ad un gruppo di cittadini chiamati i «primi dieci», decemprimi, ch’erano responsabili in prima linea dell’esazione delle imposte regolari, mentre la responsabilità delle imposizioni supplementari (annona) e dei lavori obbligatori cadeva non soltanto su quelli, ma anche su persone designate in modo speciale a sopportarlo43. In tutto l’Oriente tanto le fonti giuridiche quanto non poche iscrizioni attestano copiosamente che la responsabilità della riscossione delle imposte regolari toccava ad uno speciale gruppo di cittadini tra i più ricchi, i «primi dieci» o dekavprwtoi, in luogo dei quali in alcuni luoghi si trovano i «primi venti», eijkosavprwtoi. Essi e i curatori delle città o logistaiv, come venivano chiamati in Oriente, che a poco a poco divennero magistrati municipali ordinari, in tutte le comunità
42. Questa è la nota cessio bonorum. Alla storia di essa nuovi dati hanno recentemente aggiunto molti importanti papiri egiziani, e ad essa può riferirsi anche il rescritto di Settimio Severo e Caracalla ai centonarii di Solva. Vd. O. CUNTZ, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 18 (1915), pp. 98 sgg.; E. WEISS, «Zeitschr. d. Savigny-Stif.», 36 (1915), p. 168; L. GUENOUN, La cessio bonorum (1913), 1920; P. MEYER, «Zeitschr. f. vergleich. Rechtswiss.», 39, p. 282; A. STEINWENTER, «Wiener Studien», 40 (1918), 42 (1920), pp. 88 sgg.; A.G. ROOS, «Mnemosyne», 47 (1919), pp. 371 sgg.; F. VON WOESS, «Zeitschr. d. Savigny-Stif.», 43 (1922), pp. 485 sgg.; SIRO SOLAZZI, nella Raccolta Lumbroso, pp. 246 sgg.; E. WEISS, Griechisches Privatrecht, I (1923), pp. 495 sgg.; A. SEGRÉ, «Aegyptus», 9 (1928), pp. 30 sgg. Cf. tuttavia l’acuta proposta di restituzione della parola critica dell’iscrizione di Solva, 1. 7, fatta da J. KAMPSTRA, «Mnemosyne», 51 (1923), pp. 1 sgg. (combattuta per motivi di forma da O. CUNTZ, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 23 (1926), Beibl., pp. 361 sgg.). Ma qualunque restituzione del testo si accetti, l’iscrizione di Solva attesta che tanto le città quanto il governo centrale si adoperavano ad impedire che ricchi membri delle corporazioni privilegiate si sottraessero all’onere delle liturgie municipali. 43. O. SEECK, «Klio», 1 (1901), pp. 147 sgg., specialmente pp. 173 sg. Debbo confessare che i dati relativi ai decemprimi, che dovrebbero esser qualche cosa di diverso dai decemviri, per il primo periodo dell’Impero sono assai scarsi. Molti casi, in cui sono menzionati decemprimi e undecimprimi, si riferiscono non a città, ma a comunità di pago e di villaggio. Può essere che un’istituzione esistente in alcune città dell’Occidente sia stata più tardi generalizzata e legalizzata, corrispondendo essa alla consuetudine saldamente radicata in Oriente. Cf. BRANDIS, «R. E.», IV, coll. 2417 sgg. e O. HIRSCHFELD, Die k. Verwaltungsb., 19052, p. 74, nota 6.
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orientali, compreso l’Egitto di recente dotato di istituzioni municipali, erano i personaggi più cospicui e coloro su cui cadevano i pesi più gravi*44. L’origine di quest’istituzione è oscura. Le notizie più antiche, molto scarse, mostrano tuttavia che tanto in Occidente quanto in Oriente si dava il titolo di «primi dieci» ai membri più eminenti del Consiglio municipale o del corpo dei cittadini in generale. Non sappiamo nulla dello sviluppo di quest’istituzione in Occidente. In Oriente, e specialmente nell’Asia Minore, il titolo di dekavprwto~ comincia ad apparire in iscrizioni dell’inizio del secondo secolo d.C., ed è usato dapprima ad indicare una liturgia di ordine inferiore, spesso accoppiato con la menzione di kuriakai; uJphresivai, espressione questa che denota, non servizi di Stato, ma servizi imperiali compiuti in una città da un magistrato o leitourgov~ forse in connessione con l’ufficio di dekavprwto~. In alcune iscrizioni questa liturgia appare non annua, ma quinquennale; in una del periodo di M. Aurelio essa è specificata come obbligo di esigere un’imposta speciale indetta dall’imperatore in occasione di un’incursione dei Bastarni nell’Asia Minore. Sembra dunque che i «primi dieci» fossero leitourgoi municipali tenuti a soddisfare le eventuali richieste del governo, e originariamente ad assumersi la sorveglianza e la responsabilità di certi oneri straordinari imposti alla città. Sembra probabile inoltre che quest’istituzione sia stata creata contemporaneamente a quella dei curatori delle città e si collegasse con le difficoltà sorte durante e dopo le guerre di Traiano. Più tardi essa acquistò maggiore importanza e si estese a tutto l’Oriente; i titolari di essa divennero i principali leitourgoi della città, gravati dell’obbligo e della responsabilità di riscuoter le imposte per conto del governo45.
*. Vd. il capitolo seguente. 44. Vd. la nola 43; cf. la mia Gesch. der Staatspacht, p. 417; E. HULA, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 5 (1902), p. 197; W. LIEBENAM, Städteverwaltung im römischen Kaiserreiche, pp. 421, 490 e 552 (elenco di dekavprwtoi). 45. Nelle epigrafi dell’Oriente risalenti ai primi tempi dell’Impero i dekavprwtoi non compariscono mai. O. SEECK tuttavia ritiene che in Asia Minore la decaprotia esistesse già ai tempi di M. Antonio («Klio», 1, p. 150, nota 4), senonché i giuochi (megavla ∆Antwvnia) menzionati nell’iscrizione ch’egli cita («B. C. H.», 10, p. 415) furono istituiti in onore dell’imperatore M. Antonio Gordiano, non già del triumviro M. Antonio. Nel C. I. G., 3732 la menzione di un Antonio e di una Asinnia non può aiutarci a datare l’iscrizione, giacché questi nomi erano comunissimi nell’Asia Minore. Se lasciamo da parte le indeterminate e dubbie allusioni di GIUSEPPE FLAVIO, la prima menzione di un dekavprwto~ la troviamo a Gerasa nel 66 d.C. (I. G. R. R. III, 1376; il calcolo della data (98 d.C.) è inesatto, giacché l’era di Gerasa è quella di Pompeo [(un’altra copia della stessa iscrizione recentemente trovata conferma la data). Siccome il dekavprwto~ di Gerasa è allo stesso tempo a[rcwn e siccome è detto dekavprwto~ dia; biouth`~, pare probabile che nell’Oriente, come nell’Occidente (nota 73), l’ufficio oppure il titolo di decaprotos nel I sec. d.C. fosse meramente onorario]. Molto più frequentemente è menzionato tale ufficio sotto Adriano e dopo di lui. Così in Licia, I. G. R. R. III, 640 (Arnea), dekaprwteuvsanta ajpo; ejtw`n ihæ; ibid., 649 (Idebessus); cf. E. HULA, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 5 (1902), p. 198, nota 3 e p. 206: gli antenati di questa persona erano stati dekavprwtoi, egli stesso era eijkosavprwto~; cf. ibid., 539; forse in Frigia
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Parrebbe adunque che la transizione dal principio della responsabilità collettiva a quello della responsabilità individuale si sia avverata nel secondo secolo e si collegasse col mutamento generale intervenuto nella politica imperiale nei riguardi delle città, mutamento che si manifesta, per esempio, nell’istituzione di speciali ispettori (curatores) delle città e di particolari sorveglianti dei capitali da esse investiti (curatores kalendarii). Abbiamo osservato che nei critici tempi di Traiano, e poi di nuovo sotto M. Aurelio, le città non ebbero più la forza d’adempiere ai loro doveri verso lo Stato, e chiesero ripetutamente il condono degli arretrati e la riduzione delle imposte. Mentre concedevano condoni e riduzioni, tanto Adriano quanto M. Aurelio cercarono di ottenere un miglioramento duraturo delle condizioni delle città: il metodo da loro scelto fu quello di sottoporre a stretto controllo la gestione finanziaria delle città e d’introdurre gradualmente il principio della responsabilità personale. Nel terzo secolo queste innovazioni furono consolidate per legge e diventarono il fondamento finanziario della politica economica dell’Impero. Questo metodo, che i capi dell’Impero scelsero per migliorare le condizioni finanziarie di esso, si palesò pernicioso. Con una mano essi volevano creare una vigorosa classe media e stabilire nuovi centri di vita civile, con l’altra distruggevano l’opera loro col conservare il funesto sistema del lavoro coattivo, delle requisizioni, delle imposte straordinarie, e col dare al principio della responsabilità dei ricchi per i poveri un’estensione che deprimeva tanto lo spirito quanto il benessere materiale degli elementi più attivi delle città italiche e provinciali. Siccome le entrate regolari dello Stato non erano sufficienti a far fronte a bisogni urgenti, gli imperatori, in luogo di aumentare prudentemente le imposte, cosa che riusciva loro sgradita, ricorsero all’espediente assai peggiore d’incidere non come nel caso precedente la rendita, ma il capitale. Il risultato fu disastroso. Sin dai tempi di Traiano assai poche erano ormai in Bitinia le persone disposte ad assumere il grave onore del servizio municipale; e lo stesso avveniva in Italia. Il
(Hierapolis), ibid., IV, 818, C. Agellio Apollonide, d(e)kaprwteªuvº⁄santa kai; konbentaªrº⁄chvsanta tw`n ÔRwmªaivº⁄wn kai; ejlaioqethv⁄santa kai; ejxetastªh;nº⁄ genovmenon kai; ejªrgeº⁄pistathvsanta ⁄ kai; eij~ criva~ kurªiaº⁄ka;~ eu[crhstoªnº⁄ genovmenon, cf. 870 (Colossae), kai; eij~ kuriaka;~ (scil. creia~) ªuJphrethvsa~?º; certamente in Lidia, specialmente a Thyatira, ibid., 1228, Asclepiades Tryphonis, dekaprªwºteuvsanta ⁄ e[th iæ, kai; ejpidovsei kai kuriakai`~ uJpªhºresivai~ crhsimeuvsanta tªh`º/ ⁄ patrivdi (probabilmente non posteriore al sec. II), e ibid. 1290, Laevianus ªdekºaprwteuvsanta th;n bªarutºevran pra`xin Basterªnikºhvn, cf. A. VON PREMERSTEIN, «Klio», 12 (1912), p. 165: Leviano fu certamente contemporaneo di M. Aurelio; ad Andro, I. G. XII, 5, 724 (Antonino Pio), e a Palmira, I. G. R. R. III, 1056, I, 8 (Adriano). Si noti che in molte di queste iscrizioni il dekavprwto~ non ha un grado molto elevato, e che il suo ufficio è spesso legato all’esecuzione di kuriakai; crei`ai, cioè alla responsabilità delle prestazioni personali e reali coattive da parte della popolazione. Senonché la maggior parte di queste iscrizioni (vd. l’elenco in W. LIEBENAM, Städteverwaltung im römischen Kaiserreiche, p. 552) appartiene agli inizi e all’ultima parte del sec. III; cf. per es., il gruppo d’iscrizioni di Prusias ad Hypium, I. G. R. R. III, 60, 63, 64, 65, 67 e la più parte delle epigrafi di Thyatira: in questo periodo la decaprotia sembra l’ufficio più elevato della città.
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Senato di Aquileia è felice, allorché Traiano gli concede di poter chiamare ad assumere le liturgie anche gli incolae della città. La spiegazione di ciò può trovarsi nella parte speciale sostenuta dall’Italia, e specialmente da Aquileia, nonché dalla Bitinia, nelle guerre di Traiano. Ma un po’ più tardi, sotto Antonino, la città di Tergeste, oppressa dal peso delle liturgie, supplicò l’imperatore di estendere il ius honorum ai membri delle tribù attribuite dei Carni e dei Catali, e lo ringraziò umilmente quando la sua petizione fu accolta. Anzi sembra che proprio nel secolo secondo siano stati presi provvedimenti destinati a rendere più attraente il servizio pubblico, come per esempio l’istituzione del Latium maius. Sotto M. Aurelio il disagio è così profondo che un piccolo sgravio in materia di spettacoli gladiatorii, concesso dall’imperatore ai municipi d’Occidente, provoca i ringraziamenti quasi isterici di un senatore d’origine provinciale. «Propongo adunque» – dice egli nel suo discorso al Senato – «che noi esprimiamo particolare gratitudine agli imperatori, che con salutari rimedi, anche contro gli interessi del fisco, hanno restaurato le condizioni sconvolte delle città e i patrimoni di persone cospicue che tremavano sull’orlo dell’estrema rovina»46.
46. Nel 73 d.C. un ricco cittadino di Cibyra assegnò alla sua città un capitale con cui coprire le spese della ginnasiarchia, I. G. R. R. IV, 914; B. LAUM, Stiftungen, n. 162. Traiano: Bitinia, PLIN. IUN., Ep., X, 113; Aquileia, C. I. L. V, 875; DESSAU, 1374. Adriano: esenzione della nuova città di Antinoupolis dalle liturgie, P. Oxy., 1119; U. WILCKEN, Chrest., 397, 1, 15: o{ti prw`ton men; qeo;~ A Ô driano;~ … ejnomoqevthsen safw`~ para; novmoi~ me;n hJmei`n a[rcein kai; leitourgei`n, pasw`n de; ajphllavcqh tw`n par a j l[ loi~ ajrcw`n te kai; leitourgiw`n. Su questo e altri privilegi degli Antinoiti cf. H.I. BELL, Antinoopolis. A Hadrianic Foundation, «J. R. S.», 30 (1940), pp. 133-147, partic. 142 sgg. Adriano esentò anche i filosofi, retori, insegnanti, medici da ajgoranomiw`n,
iJerosunw`n, ejpistaqmiw`n, sitwniva~, ejlaiwniva~ kai mhvte krivnein mhvte presbeuvein mhvte eij~ strateivan katalevgesqai a[konta~ mhvte eij~ a[llhn aujtou;~ uJphresivan ejqnikh;n h{ntina a[llhn ajnagkavzesqai, DIG., 27, 1, 8. Da ciò si desume che Adriano sapeva benissimo quale onere schiacciante fossero già le liturgie. Senonché col conceder privilegi non si rimediava al male: anzi questo sistema non faceva che render più dura la condizione dei non privilegiati; naturalmente rappresentava un compenso per altri servizi che il privilegiato prestava allo Stato. Per lo stesso motivo si concedevano privilegi ai membri d’alcune corporazioni, che lavoravano per lo Stato, come i fabri centonarii, DIG., 27, 1, 17, 2; cf. l’iscrizione di Solva, O. CUNTZ, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 18 (1915), pp. 98 sgg.; cf. DIG., 50, 6, 6, 12; i negotiatores qui annonam urbis adiuvant, item navicularii, DIG., 50, 6, 6, 3; i frumentarii negotiatores, ibid., 50, 5, 9, 1; i conductores vectigalium publicorum, ibid., 50, 6, 6, 10. Antonino Pio: C. I. L. V, 532, 2, 1 sgg., specialm. 11, [e]t sin[t] cum quibus munera decurionibus iam ut pauci[s one]rosa honeste de pl[e]no compartiamur. Cf. gli sforzi fatti da Elio Aristide per sottrarsi, con l’aiuto delle sue relazioni romane, agli oneri municipali. Latium maius: O. HIRSCHFELD, Die k. Verwaltungsb., 19052, p. 74. M. Aurelio il senatus consultum de sumptibus ludorum gladiatoriorum minuendis, C. I. L. II, 6278, cf. p. 1056; DESSAU, I. L. S., 5163; BRUNS e GRADENWITZ, Fontes, 7a ediz., n. 63 (p. 207), ll. 23 sgg.: censeo igitur inprimis agendas maximis impp. gratias, qui salutaribus remediis fisci ratione posthabita labentem civitatium statum et praecipitantes iam in ruinas principalium virorum fortuna(s) restituerunt ecc. Un’altra copia di questo S. C. è stata trovata non ha guari a Sardi: J. KEIL e A. VON PREMERSTEIN, Zweite Reise, p. 16; DESSAU, I. L. S., 9340.
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Non possiamo sapere quali fossero i sentimenti delle classi inferiori. Ricordo ciò che ho detto (pp. 591 sgg.) intorno al sistema di riscossione di cui il debitore cominciava a sentir l’applicazione non solo sul suo patrimonio, ma anche sul suo corpo, e sulla responsabilità di intieri gruppi per le prestazioni d’un singolo. Siffatti metodi dovevano rendere insopportabile la vita quotidiana appunto della gente minuta. Nessuna meraviglia, quindi, che il malcontento andasse crescendo; si pensi a ciò che abbiamo detto intorno alle ribellioni scoppiate sotto M. Aurelio. Più tardi, quando nella speciale atmosfera del terzo secolo i reclamanti poterono confidare di ottenere ascolto direttamente dagli imperatori medesimi, senza la mediazione di funzionari statali o municipali, cominciarono ad inviare a Roma fiotti di lagnanze contro i maltrattamenti cui erano sottoposti. Di tali lamentele parleremo nei capitoli seguenti.
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Il governo illuminato degli Antonini si appoggiava, come abbiamo visto, sul consenso della classe superiore e colta di tutto il mondo romano; e lo scopo ch’esso si propose fu di ampliare al possibile questa base rafforzando quella classe, elevando il tenore di vita delle classi inferiori, diffondendo la civiltà urbana in tutte le province. I risultati di questa politica furono di grandissima importanza. Il Senato di Roma, che per la sua costituzione rappresentava il fior fiore delle classi colte dell’Impero, crebbe immensamente in potenza. Non già in potenza politica, ché le funzioni amministrative e legislative erano concentrate nelle mani degli imperatori, che si guardavano bene dal farne parte al Senato; ma bene in potenza morale, giacché aumentò incessantemente il prestigio ch’esso godeva dappertutto agli occhi delle classi colte, e che derivava dal fatto che il Senato era il fedele interprete delle loro aspirazioni e che con queste perfettamente s’accordava la sua condotta. Chiunque legga la corrispondenza di Plinio scorgerà a quali alte esigenze i senatori dovessero conformare la loro condotta per conservare l’autorità del corpo. Né può negarsi che una gran parte dei membri del Senato soddisfacesse a queste esigenze, né che esso fosse in complesso un corpo conscio sia della propria dignità sia dei propri doveri verso l’Impero. Allorché, morto Marco Aurelio, il potere imperiale fu assunto da Commodo, i sentimenti del Senato erano tutt’altro che favorevoli al nuovo imperatore. Chiamando suo figlio a partecipare al potere e facendolo proprio erede, Marco aveva spezzato di colpo una tradizione ormai secolare. Tutti sapevano che Commodo era diventato imperatore non perché fosse il migliore tra i membri della classe senatoria, ma perché era figlio di Marco. Ciò spiega la precipitazione di Avidio Cassio nell’occupare il trono non appena sparsasi la voce, risultata poi falsa, della morte di Marco Aurelio. Finché questi visse, la sua autorità personale fu tanto grande da non lasciar sorgere alcuna opposizione; ma Commodo non aveva l’autorità paterna, e i suoi primi atti suscitarono l’indignazione del Senato. L’affrettata conclusione della pace – contro l’opinione dei migliori generali del tempo e contro i disegni precisi del padre, nel pieno corso di operazioni militari che ancora non avevano conseguito risultati decisivi –, la sua disposizione a comperare all’occorrenza
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anche una pace ignominiosa, il suo splendido trionfo dopo una pace di tal fatta, i donativi fatti a profusione ai soldati quando le finanze dello Stato si trovavano in condizioni critiche, la sua vita di piaceri e di divertimenti avanti, durante e dopo il trionfo: tutto ciò non era fatto per creare buoni rapporti tra l’imperatore e il Senato1. Ci asteniamo dal raccontare in particolare gli avvenimenti del governo di Commodo. Basterà dire ch’egli non ebbe il minimo desiderio di trovare un modus vivendi col Senato. Inoltre s’atteggiò a violento tiranno e istituì un regime di favoriti. Il Senato rispose cospirando contro la sua vita: l’insuccesso della congiura iniziò il terrorismo che contrassegnò gli anni successivi. Al pari di Domiziano, anche Commodo partì risolutamente in guerra contro il Senato. Per far ciò, doveva necessariamente trovare un appoggio in qualche parte, e naturalmente egli si volse ai soldati della guardia pretoriana e degli eserciti provinciali. La lotta per conquistare l’appoggio dei pretoriani si rispecchia chiaramente in tutta quella serie di licenziamenti e di esecuzioni dei loro comandanti che assunse l’aspetto di una vera danza della morte: Paterno, Perenne, una lunga serie di prefetti tra Perenne e Cleandro, lo stesso Cleandro, Giuliano, Regillo, Leto, tutti costoro, ad eccezione dell’ultimo, caddero vittime dell’animo sospettoso dell’imperatore. Questi per assicurarsi l’amicizia dei pretoriani e degli eserciti provinciali largì ripetuti congiaria e verso la fine del suo regno aumentò il soldo delle truppe senza visibile necessità2. Il risultato naturale del terrorismo fu una serie di cospirazioni, che aggravarono ancor più le cose. È incerto fino a che punto i gravi torbidi scoppiati nella Spagna, in Gallia, in Africa possano attribuirsi a propaganda politica: è più probabile che fossero dovuti all’esaurimento generale delle province, alla pressione delle imposte e delle leve, al rilassamento della disciplina tra i soldati e i funzionari imperiali3. Vi è ragione di credere che i torbidi africani fossero collegati con le condizioni anormali dell’Egitto, dalle quali risultava il pericolo che Roma rimanesse priva del regolare approvvigionamento di grano, è quindi una maggior pressione sull’Africa, costretta a supplire la mancanza; la storia di Cleandro e del praefectus annonae Papirio Dionisio è una buona illustrazione dell’incertezza dei rifornimenti. Va notato che verso la fine del suo regno Commodo ordinò la flotta granaria africa-
1. La miglior monografia su Commodo è quella di J.M. HEER, Der hist. Wert der Vita Commodi, «Philologus», Suppl. 9 (1904); cf. O.TH. SCHULZ, Das Kaiserhaus der Antonine und der letzte Historiker Roms (1907), e W. WEBER, C. A. H., XI, 1936, pp. 376 sgg. Sulla successione J. KEIL, Kaiser Marcus und die Thronfolge, «Klio», 31 (1938), pp. 293-300. Circa gli umori del Senato dopo la conclusione della pace sul Danubio, vd. J.M.
HEER, op. cit., pp. 41 sgg. 2. A. VON DOMASZEWSKI, Der Truppensold der Kaiserzeit, «Neue Heidelb. Jahrb.», 10 (1900), p. 230. 3. SCR. HIST. AUG., Comm., 16, 2; Pesc. Nig., 3, 3, sgg.; HERODIAN., I, 10 (Gallia e Spagna); per l’Africa, SCR. HIST. AUG., Pert., 4, 2; J.M. HEER, loc. cit., p. 107. Intorno alle ribellioni di carattere militare vd. RITTERLING, «R. E.», XII, col. 1307 (Britannia, Germania, Dacia).
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na sul modello dell’alessandrina, il che importava un considerevole aumento di sorveglianza statale4. Tuttavia è certo che non solo nella capitale ma anche nelle maggiori province si svolgeva una vigorosa propaganda contro l’imperatore. Le parole d’ordine erano quelle stesse del tempo dei Flavii: si metteva a raffronto la «tirannide» di Commodo col «regno» del padre; Commodo era bollato come il tiranno tipico, rampollo degenere di grandi antenati. Non mancano indicazioni atte a farci ritenere che anche questa volta i filosofi abbiano preso parte attiva a siffatta propaganda: dopo la morte di Commodo uno di essi fu barbaramente massacrato dai pretoriani. Ad Alessandria gli avversari di Commodo ricorsero nuovamente a quei libelli politici, dei quali abbiamo parlato in uno dei capitoli precedenti*. Probabilmente si ebbero dei disordini ad Alessandria, e alcuni nobili della città furono sottoposti a giudizio a Roma davanti all’imperatore. È possibile che questi torbidi fossero collegati col terrorismo che imperversava tanto nelle province quanto nella capitale e forse con lo sterminio dei discendenti di Avidio Cassio. Il resoconto di questo processo è più che mai zeppo dei consueti motivi cinici: la nota dominante è la contrapposizione tra «il tiranno Commodo» e «il filosofo e re Marco». Il Senato vi è rappresentato come il tribunale legittimo per gli affari criminali, e la sua giustizia è messa a raffronto con l’arbitrio di Commodo5.
4. Circa la classis Africana Commodiana Herculea Augusta vd. SCR. HIST. AUG., Comm., 17, 7; J.M. HEER, loc. cit., pp. 108 sgg.; A. AUDOLLENT, Carthage romaine, p. 359; R. CAGNAT, L’Annone d’Afrique, «Mem. de l’Inst.», 40 (1916), pp. 247 sgg.; J. VOGT, Die alexandrinischen Münzen (1924), pp. 154 sgg. Così i dati letterari come i numismatici (specialmente alessandrini) mostrano che Commodo nell’ordinare la flotta granaria della seconda per grandezza tra le province granicole, cioè dell’Africa, si attenne al modello della flotta granaria alessandrina, la più antica e meglio ordinata che avesse Roma. Quest’ultima flotta era stata allestita per il servizio dello stato probabilmente fin dai tempi dei Tolomei. La costituzione della flotta africana tenne dietro ai disordini scoppiati in Africa, e fu causata da cattivi raccolti e disordini in Egitto: questa mia deduzione è stata recentemente confermata dalle indagini di J. VOGT, loc. cit. Non sappiamo fino a che punto il servizio delle due flotte avesse carattere coattivo: ma CALLISTRATO, DIG., 50, 6, 6, 5, mette in rilievo il carattere pubblico ed obbligatorio del servizio dei proprietari di navi in generale, fossero essi ordinati secondo il modello alessandrino oppure no. In ogni caso si trattava di un munus publicum; ed esso ad Alessandria era probabilmente un servizio di carattere liturgico già sin dall’età tolemaica. [Vd. M. ROSTOVTZEFF, Foreign Commerce in Ptolemaic Egypt, «Journ. of Econ. and Business History», 3 (1932)]. *. Vd. cap. IV, nota 31. 5. L’iscrizione metrica (C. I. L. VI, 9783; DESSAU, I. L. S. 7778) dice: d. m. s. Iulio Iuliano viro magno philosopho primo. Hic cum lauru(m) feret Romanis iam relevatis, reclusus castris impia morte perit. M. BANG, «Hermes», 53 (1918), pp. 211 sgg., ha perfettamente ragione nel porre la morte di Giuliano in relazione con gli avvenimenti svoltisi dopo la morte di Commodo. È probabilissimo che costui fosse uno di quegli oratori di strada così ben noti alla plebaglia, e che perciò sia stato preso e spacciato dai pretoriani; cf. TERT., Apol., 46: quis enim philosophum sacrificare aut deierare aut lucernas meridie vanas prostituere compellit? Quin immo et deos vestros palam destruunt et superstitiones vestras
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Nella sua lotta contro l’opposizione Commodo, come abbiamo accennato, si affidò ai soldati e particolarmente ai pretoriani. D’altra parte egli cercò di mettere in rilievo il carattere sacro del suo potere. La sua divinità prediletta era Ercole, il grande modello di fatiche e pene sostenute per la causa dell’umanità, il grande combattente e il grande paziente degli Stoici e dei Cinici. Il collegamento del culto di Ercole con la monarchia illuminata non era una novità: tutti gli Antonini avevano tributato particolare ossequio a questa divinità. Senza dubbio Commodo scelse Ercole a suo dio protettore non per la predilezione da lui nutrita per Ercole in quanto gladiatore, ma per la connessione esistente tra quella divinità e i suoi predecessori, e perché essa era la personificazione divina delle idee fondamentali della monarchia illuminata. Fino a quando l’aspra lotta con gli avversari non ebbe intorbidato la mente dell’imperatore, Ercole ebbe la parte preponderante e divenne a poco a poco oggetto principale della sua devozione, il suo protettore, il suo compagno, la sua guida. Non appena, però, Commodo ebbe perduto il suo equilibrio, volle essere egli stesso l’incarnazione del dio, sicché ogni opposizione diventava sacrilega. Non occorre ripetere qui i fatti ben noti relativi a siffatto atteggiamento; ma un punto va messo in rilievo: che, cioè, tutti questi atti appartengono agli ultimi anni del regno di Commodo, e che l’identificazione con Ercole era essenzialmente manifestazione della stessa tendenza a consacrare il potere imperiale, che abbiamo già osservata in Caligola, in Nerone, in Domiziano. È da notare anche che al culto di Ercole fu data la parte preminente nell’esercito, e che esso fu accop-
commentariis quoque accusant, laudantibus vobis. Plerique etiam in principes latrant sustinentibus vobis. Le parole di Tertulliano ricordano la descrizione che fa DIO CASS. del contegno dei filosofi sotto Vespasiano e Domiziano. Che Tertulliano si sia imbattuto a Cartagine in filosofi di questa specie? A. VON PREMERSTEIN, Zu den sogenannten alexandrinischen Märtyrerakten, «Philologus», Suppl. 16 (1923), fu il primo a mettere il processo svoltosi a Roma davanti a Commodo, del quale parlano i cosidetti atti di Appiano, in relazione con la persecuzione mossa da quest’imperatore alla famiglia di Avidio Cassio. Inclinerei a credere che Tertulliano abbia in mente lo stesso avvenimento, che cade negli ultimi anni di Commodo, allorché dice (ad Scap., 2): sic et circa maiestatem imperatoris infamamur, tamen nunquam Albiniani nec Nigriani vel Cassiani inveniri potuerunt Christiani. È difficile credere che Tertulliano parlando dei Cassiani abbia pensato ai tempi di MARCO AURELIO. È noto che quest’ultimo non perseguitò i membri della famiglia d’Avidio Cassio, mentre invece per Tertulliano era ben naturale menzionare i Cassiani dopo i Nigriani, invertendo così l’ordine cronologico, se la persecuzione di Commodo, nella quale furono coinvolti molti altri, si avverò per così dire alla vigilia di quella dei seguaci di Nigro e di Albino. In relazione con queste contingenze può esser che sia stata la visita di Settimio Severo ad Alessandria. Non posso seguire il VON PREMERSTEIN, il quale ritiene che Appiano non sia stato altro che testimonio nel processo contro Eliodoro. Probabilmente anche la città di Alessandria fu coinvolta nell’affare, sotto l’accusa d’aver favorito i Cassiani: Appiano era a un tempo deputato della città e uno degli accusati. O forse l’affare alessandrino sarà stato una parte della vasta cospirazione contro Commodo, ed Eliodoro uno dei candidati al trono? Appiano cercò di dimostrare che Commodo nei suoi assalti contro Alessandria era stato spinto soltanto dall’avidità. Cf. J. SCHWENDEMANN, Der hist. Wert der Vita Marci, pp. 107 sgg.
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piato con le divinità indigene di ciascuna provincia, ciò che probabilmente rappresenta una concessione fatta per la prima volta da Commodo agli eserciti provinciali. Dobbiamo ricordare che questi ormai constavano quasi intieramente di uomini tratti dalle province dove erano acquartierati, uomini che per lo più appartenevano alla classe dei contadini, sempre assai devota alla sua religione locale6. All’infuori della lotta col Senato e della decisa tendenza dell’imperatore ad appoggiarsi nella lotta sui soldati, sappiamo ben poco della sua politica. Per le province la pace, sebbene turbata da rivolte locali, era naturalmente una benedizione: ma non sappiamo quanto Commodo abbia fatto per esse. È notevole che verso le classi inferiori egli seguì la stessa politica di Adriano, e che esse lo considerarono loro protettore e benefattore. In ogni caso siffatta opinione mostrarono d’avere i contadini dei demanii imperiali d’Africa, allorché, oberati di lavori coattivi, iniziarono una lunga e pertinace lotta contro gli affittuari generali, e inviarono i loro lamenti direttamente all’imperatore. Uno di questi reclami si è conservato quasi interamente, di un altro possediamo soltanto un frammento. Nel primo era raccontata sin dai suoi inizi la storia della lotta. Il primo tentativo fatto dai coloni del saltus Burunitanus per ottenere ascolto dall’imperatore era andato fallito; la loro prima lettera, piena di aspre accuse, era stata inviata probabilmente sotto Marco Aurelio. A questo primo tentativo seguì probabilmente uno sciopero, che provocò rappresaglie spietate sotto forma d’una spedizione punitiva: non era da tenere in poco conto il pericolo ch’esso celava in sé. Una dozzina di tali scioperi locali avrebbe costituito una rivolta in piena regola, a reprimer la quale sarebbero state necessarie truppe regolari. Ritengo che di tal natura sia stata la ribellione di Materno in Gallia e Spagna; Iniziata come ribellione di disertori, il dilagare della rivolta di Materno in Gallia e in Spagna (e forse anche nella Germania meridionale) fu reso possibile dall’adesione che il movimento trovò tra le classi lavoratrici: si veda il commento a Erodiano (I, 10, 1) di R.M. FERGUSON; cf. A. GRÉNIER, La Gaule romaine, in T. FRANK, An Economic Survey of Ancient Rome, III, Baltimore, 1937, pp. 564 sgg. Inclino
a credere che anche le seditiones represse in Africa da Pertinace derivassero dallo stesso stato di malcontento, che noi conosciamo grazie alle iscrizioni del saltus Burunitanus. Il secondo tentativo fu più fortunato: il buon successo dei coloni fu dovuto probabilmente alla personalità dell’uomo ch’essi scelsero a loro messo, Lurio Lucullo. Il nome di lui attesta ch’egli era un cittadino romano, il suo interessamento per i coloni del saltus indica ch’era anch’egli del loro numero. Il fatto che Lucullo in risposta alla sua petizione ottenne un rescritto imperiale è prova dell’influenza ch’egli godeva presso l’imperatore. Inclino a ritenere che Lurio
6. Ho trattato in un articolo speciale, «J. R. S.», 13 (1923), pp. 91 sgg., la politica religiosa di Commodo; cf. J.M. HEER, loc. cit., p. 70, nota 158a; A. VON DOMASZEWSKI, Die Religion des röm. Heeres (1895), p. 54; J.M. HEER, loc. cit., pp. 94 sgg. Le concessioni di Commodo vennero fatte in relazione con l’ammutinamento dell’esercito di Britannia, represso non senza difficoltà verso il 187 d.C.; cf. M. PLATNAUER, The Life and Reign of the Emperor L. Septimius Severus (1918), p. 101, e R.G. COLLINGWOOD, «J. R. S.», 13 (1923, pubblicato nel 1925), pp. 69 sgg.
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Lucullo fosse un soldato, probabilmente uno dei soldati di stanza a Roma, non però un pretoriano (poiché era d’origine provinciale) ma un eques singularis o forse un frumentarius. Sappiamo quanto importanti e influenti fossero sotto Commodo i frumentarii, che formavano la polizia militare segreta dell’imperatore7. Il tono della petizione è un indice significativo dello stato d’animo delle classi inferiori. I reclamanti hanno fiducia nell’imperatore, ma sono saturi di odio contro i loro oppressori, i conduttori e i procuratori. E dicono:« Aiutaci; noi siamo gente rustica, povera gente che a mala pena ricaviamo di che vivere dal lavoro delle nostre mani, e quindi davanti al tuo procuratore noi non possiamo mai ottener giustizia contro il conduttore, che gode presso di lui grande favore perché gli fa grandi regali e gli è familiare per via dei fitti continuamente rinnovati e della sua condizione di intraprenditore; abbi dunque pietà di noi, e degnati di ordinare con un tuo sacro rescritto» ecc. I reclamanti fanno appello alla protezione della lex Hadriana, e insistono sui loro diritti, che probabilmente erano stati violati sotto la pressione delle esigenze imperiali. Interessante è la condotta di Commodo. Egli rispose direttamente alla seconda petizione, senza chiedere informazioni supplementari, senza rinviare il caso alle autorità locali, ma decise il piccolo affare da sé, e lo decise in favore dei reclamanti. Un caratteristico grido di guerra risuona poi dal frammento su menzionato, che è l’avanzo di un’altra consimile serie di documenti. Ivi gli affittuari minacciano uno sciopero, una regolare ajnacwvrhsi~ egiziana. Essi dicono infatti:« Fuggiremo dove possiamo vivere da uomini liberi»8. La caduta di Commodo non fu casuale: le continue cospirazioni mostrano che la classe dirigente era ben decisa a liberarsene. Gli avversari dell’impe-
7. J.M. HEER, loc. cit., 47 e 68; cf. DIO CASS., 79, 14, 1, circa la carriera di Oclaziano Advento, che da miles frumentarius si spinse sotto Macrino fino al grado di princeps peregrinorum, con O. HIRSCHFELD, Die kaiser. Verwaltungsb., 19052, p. 309, nota 3. Cf. anche DIO CASS., 79, 14, 3, circa la carriera di Mario Massimo, il quale ejn tw`/ misqoforikw`/ ejstrateuveto kai; ta; tw`n dhmivwn e[rga kai; proskovpwn kai; eJkatontavrcwn (dei frumentarii?) ejpepoihvkei. Cf. l’iscrizione di Aphrodisias (TH. REINACH, «Rev. Ét. gr.», 19 (1906), p. 145; DESSAU, I. L. S., 9474, cf. C. I. G., 2802): eJkatovntarcon froumentavrion aJgnw`~ kai; ajndreivw~ ajnastrafevnta ejn tw`/ th`~ ∆Asiva~ e[qnei. L’epigrafe (dell’età dei Severi?) prova che un centurio frumentarius doveva occuparsi dell’intiera provincia d’Asia, sicché gli si offrivano svariate occasioni di opprimere (aJgnw`~) la popolazione, ed era esposto a pericoli (nella lotta contro il malandrinaggio?). Cf. la lettera di Frontone ricordata nel cap. VII, nota 90. [Intorno a questi agenti di polizia vd. infra, nota 44]. 8. Sull’iscrizione del saltus Burunitanus vedi la bibliografia da me data nelle Studien Gesch. Kol., p. 321, nota 1; il testo si ha nel C. I. L. VIII, 10570) e 14464; cf. 14451; DESSAU, I. L. S., 6870; BRUNS e GRADENWITZ, Fontes, 7a ediz., p. 258, n. 86; P. GIRARD, Textes de droit romain, 4a ediz., n. 10, pp. 199 sgg. L’epigrafe di Gazr-Mezuar si trova nel C. I. L. VIII, 14428; cf. W. HEITLAND, Agricola, pp. 342 sgg. La mia citazione traduce la p. III, ll. 18 sgg.: subvenias, et cum homines rustici tenues manum nostrarum operis victum tolerantes conductori profusis largitionib(us) gratiosis(si)mo impares aput proc(uratores) tuos simu[s], quib(us) [p]er vices succession(is) per condicionem conductionis notus est, miser[eari]s ac sacro rescripto tuo, ecc.
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ratore ebbero l’appoggio degli eserciti provinciali. Infatti Commodo aveva commesso lo stesso errore di Nerone: s’era legato troppo alla guardia pretoriana e al corpo di polizia della capitale, e aveva trascurato le relazioni personali con gli eserciti provinciali, che furono così completamente abbandonati nelle mani dei loro comandanti, la maggior parte dei quali erano valenti generali che avevano combattuto con fortuna i nemici dell’Impero, Sarmati, Bretoni Mauri. I frequenti donativi e gli altri favori concessi alla guarnigione della capitale destarono risentimento e gelosia tra gli eserciti provinciali; come ai tempi di Nerone, i soldati inclinavano a dare ascolto ai loro comandanti attuali e a lasciarsi attrarre dalla propaganda ostile a Commodo. La prima ribellione militare, della quale però ben poco sappiamo, s’ebbe in Britannia, e non riuscì facile all’imperatore sedarla. Commodo si accorse del pericolo che lo minacciava, ma o perché non si sapesse risolvere a rinunziare alla vita dissipata della capitale, o perché temesse di lasciare Roma abbandonata a se stessa, non fece alcun tentativo di restaurare la propria autorità personale visitando gli eserciti al fronte: preferì concedere ai soldati alcuni privilegi e da ultimo un aumento generale degli stipendi. Ma tutto fu vano. Le voci che correvano intorno alla vita dissoluta dell’imperatore, ai suoi appetiti ignominiosi, alla sua inclinazione per i guidatori di cocchi e i gladiatori, e che venivano sparse probabilmente dagli stessi ufficiali, permisero ai comandanti degli eserciti più importanti, di quelli cioè di Britannia, Pannonia, Siria, di disporre le truppe a prender parte ad un pronunciamiento. Non sappiamo se esistesse un vero complotto dei capi militari in accordo coi rispettivi fautori di Roma e coi loro ufficiali e colleghi, ma è certo che l’esercito era pronto per una rivoluzione militare. Lo scoppio di essa fu accelerato dagli avvenimenti di Roma. Per puro caso una delle tante congiure di palazzo, alla quale non presero parte i soldati della capitale, ebbe successo, e i cospiratori riuscirono ad uccidere l’imperatore. Per accontentare i pretoriani, il successore fu nominato non nelle province ma a Roma nella persona di P. Elvio Pertinace, generale severo e membro influente della classe senatoria. Il suo regno fu breve: egli non era stato il candidato dei pretoriani, che lo tolsero di mezzo appena poterono. Siccome non avevano candidato proprio, accettarono il primo che si offrì, colui che aveva fatto le più cospicue promesse di ricompensa per il loro aiuto, Didio Giuliano. L’elevazione vergognosa suscitò una tempesta d’indignazione tra gli eserciti provinciali, che l’uno dopo l’altro proclamarono imperatori i rispettivi comandanti: L. Settimio Severo in Pannonia, C. Pescennio Nigro in Siria, D. Clodio Albino in Britannia. Sarebbe fuor di luogo ritessere qui compiutamente la storia della lotta per il potere imperiale seguita all’uccisione di Pertinace e all’assunzione di Didio Giuliano, ma dobbiamo rilevare che fu più lunga e più accanita di quella che aveva tenuto dietro alla morte di Nerone. Essa aveva carattere politico, in quanto ciascun esercito voleva portare al trono il proprio comandante. Non si osserva alcuna tendenza separatistica; ma in realtà i tre eserciti, reclutati nelle tre parti principali dell’Impero, e cioè l’esercito celto-romano di Albino, l’esercito illirico e tracico di Severo, e l’esercito asiatico (siriaco e arabo) ed egiziano di Nigro, avevano ciascuno speciale carattere e speciali aspirazioni: l’asprezza della lotta rispecchiò questa diversità e preannunziò la posteriore divisione dell’Impero nelle sue parti celto-germanica, slava, orientale. Altro carattere impor-
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tante di questa guerra di pretendenti fu la dimostrazione manifesta dell’irrimediabile debolezza dell’Italia. Quegli stessi pretoriani, che un tempo s’erano battuti così valorosamente per Ottone, non ebbero ora la capacità o la voglia di combattere per il proprio candidato, chiunque egli fosse: cedettero ai soldati provinciali e chiesero grazia. Va notato inoltre che le guerre seguite alla morte di Commodo non colpirono soltanto l’Italia ma tutto l’Impero e ne rovinarono le zone più fiorenti, cioè l’Asia Minore e la Gallia, che economicamente erano le province più prospere e redditizie. Infine non fu caso che i vincitori siano stati i liberi contadini della Germania, della Tracia, dell’Illiria, gli abitanti cioè delle più recenti province romane. Essi mostrarono così d’essere più validi e migliori fautori del loro generale che non i coloni dipendenti della Gallia o i servi e i contadini d’Asia e d’Egitto9. Il governo di Settimio Severo, della sua moglie orientale, e dei suoi figli semi-orientali, ha grande importanza nella storia dell’Impero romano. Intorno al carattere e al significato storico di esso si giudica in due diverse maniere: mentre infatti alcuni studiosi tra i più eminenti ritengono che Settimio Severo sia stato il primo ad allontanarsi dalle tradizioni e dalla politica degli Antonini e ad iniziare l’imbarbarimento completo dell’Impero romano, altri pensano ch’egli sia stato «un governante patriottico e di larga mente, desideroso di estendere anche alle province di frontiera la cultura e i beni materiali possedu-
9. Le più recenti e migliori monografie sul governo di L. Settimio Severo sono quelle di J. HASEBROEK, Untersuchungen zur Gesch. des Kaisers Septimius Severus (1921); cf. IDEM, Die Fälschung der Vita Nigri und Vita Albini in den Scr. Hist. Aug. (1916); e di M. PLATNAUER, The Life and Reign of the Emperor L. Septimius Severus (1918). Questi libri dànno anche delle bibliografie complete e aggiornate. Cf. S.N. MILLER, C. A. H., XII, 1939, pp. 1 sgg. Si aggiungano inoltre V. MACCHIORO, L’Impero romano nell’età dei Severi, «Riv. di st. ant.», 10 (1905), pp. 201 sgg. e 11 (1906), pp. 285 sgg. e 341 sgg.; G.A. HARRER, The Chronology of the Revolt of Pescennius Niger, «J. R. S.», 1920, pp. 155 sgg.; FLUSS, «R. E.», II ser., II (1923), coll. 1940 sgg.; J. GAGÉ, Les Jeux séculaires de 204 ap. J.-C. et la dynastie des Sévères, «Mél. Éc. franç. Rome Ant.», 51 (1934), pp. 33-78; H.M.D. PARKER, A History of the Roman World from A.D. 138 to 337, London, 1935; M. BESNIER, L'Empire romain de l'avénement des Sévères au Concile de Nicée, 1937. Su Giulia Domna,
M.G.W. WILLIAMS, «Amer. J. Arch.», 6 (1902), pp. 259 sgg. e G. HERZOG, «R. E.», X, coll. 926 sgg. [Per la storia di Settimio Severo e della sua famiglia, e specialmente per la conoscenza delle idee che guidarono Settimio Severo, hanno la stessa importanza, che la colonna del Foro e l’arco di Benevento hanno per i regni di Traiano e Adriano, i bassorilievi dei varii archi eretti a lui a Roma (del Foro e del Foro Boario) e nel suo luogo di nascita, Leptis, e specialmente quest’ultimo. Il lavoro di ricomposizione di questi ultimi non essendo ancora terminato, non si può dire con certezza quali fossero le idee politiche espresse nell’arco. A me pare che la cosa principale che Severo ha voluto mettere in rilievo sia il carattere ereditario, dinastico del suo potere (questo all’indirizzo del Senato), e la Concordia principum, in cui erano comprese anche la sua moglie e madre di Caracalla e di Geta, Giulia Domna (questo all’indirizzo dei figli). Dal punto di vista artistico è interessante la rigida frontalità che presentano l’imperatore e la sua famiglia sui tre archi, influenza certa dell’Oriente. Cf. R. BARTOCCINI, «Africa Italiana», 4 (1931), pp. 321 sgg. e sopra cap. VII, nota 84b].
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1. Testa di una statua bronzea di Settimio Severo
2. Monete dei Severi
TAV. LXXIII – I SEVERI
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DESCRIZIONE DELLA
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LXXIII
1. TESTA D’UNA STATUA IN BRONZO DI SETTIMIO SEVERO. Trovata in Cipro. Nicosia, Cyprian Museum of Antiquities. Con gentile permesso della direzione. La statua presenta molta rassomiglianza con un’altra dello stesso imperatore, anch’essa di bronzo, che si trova nel Museo di Bruxelles. Non credo che si abbia qui un prodotto locale cipriota. La statua probabilmente fu fatta a Roma e poi trasportata in Cipro. 2. Ritratti degli imperatori della dinastia dei Severi, e delle dame della loro Corte.
a) AUREUS DI SETTIMIO SEVERO. Faccia SEVERVS PIVS AVG(ustus). Busto di Severo volto a destra con corona laurea. Rovescio RESTITUTOR VRBIS. Dea Roma volta a sinistra. COHEN, IV, p. 63, n. 605. b) DOPPIO AUREUS DI CARACALLA. Faccia ANTONINVS PIVS AVG. GERM. Busto di Caracalla di profilo destro con corona radiata. Rovescio P. M. TR. P. XVIIII COS. IIII. P. P. Giove seduto verso sinistra con lo scettro, la Vittoria, l’aquila. COHEN, IV, p. 180, n. 341. c) AUREUS DI ELIOGABALO. Faccia IMP. ANTONINVS PIVS. AVG. Busto di Eliogabalo con profilo a destra e corona laurea. Rovescio P. M. TR. P. V. COS. IIII. P. P. Eliogabalo in una quadriga volto a sinistra. COHEN, IV, p. 344, n. 217. d) AUREUS DI ALESSANDRO SEVERO. Faccia IMP. C(aesar) M(arcus) AVR(elius) SEV(erus) ALEXAND(er) AVG. Busto di Alessandro Severo con profilo a destra e corona laurea. Rovescio P. M. TR. P. V. COS. II P. P. Marte seduto con profilo a destra, elmo, trofeo, lancia. Cf. COHEN, IV, p. 434, n. 331. e) AUREUS DI IULIA DOMNA. Faccia IULIA AVGVSTA. Busto drappeggiato di Iulia Domna, profilo a destra. Rovescio HILARITAS. La dea, volta a sinistra, con cornucopiae e una lunga palma. Cf. COHEN, IV, p. 112, n. 71. f) AUREUS DI IULIA MAESA. Faccia IULIA MAESA AVG. Busto drappeggiato di Iulia Maesa, a destra. Rovescio IVNO. Giunone con scettro e patera, volta a sinistra. Cf. COHEN, IV, p. 393, n. 15. g) AUREUS DI IULIA MAMAEA. Faccia IULIA MAMAEA AVG. Busto drappeggiato e diademato di Mamaea volto a destra. Rovescio VESTA. Dea Vesta volta a sinistra, con palladium e scettro. Cf. COHEN, IV, p. 497, n. 80. Tutte queste medaglie si trovano al British Museum. Debbo la scelta e i calchi alla cortesia del sig. H. MATTINGLY del British Museum.
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ti dall’Italia e dalle antiche province». Sembra che vi sia qualche cosa di vero in entrambe le opinioni. Il governo di Settimio Severo e dei suoi successori immediati fu a un tempo l’ultimo stadio della serie evolutiva iniziata dagli Antonini e il primo del nuovo svolgimento che, dopo le terribili esperienze della seconda metà del secolo terzo, mise capo al completo riassetto dell’Impero romano sul modello orientale. Consideriamo invero i fatti10. Settimio Severo fu un usurpatore militare, che ebbe il potere dai soldati e lo conservò perché i soldati vollero sostenerlo. Egli s’impose al Senato con la forza; il riconoscimento e la legittimazione del suo potere furono votati dal Senato sotto la pressione della forza armata. Sotto questo riguardo la sua posizione era molto più malsicura di quella di Commodo, figlio ed erede legittimo di Marco Aurelio. Quindi il suo desiderio di acquistarsi l’amicizia del Senato e – quando si accorse di essere assai meno gradito a questo corpo che non i suoi rivali Pescennio e Albino, e gli venne fatto di spacciare l’uno dopo l’altro – il regime di terrorismo selvaggio che tenne dietro alle sue vittorie e mise capo allo sterminio dei senatori più eminenti. Sin dal primo momento egli intese benissimo che la sua politica dinastica, il suo fermo proposito di trasmettere il potere ai figli, non poteva mancare di suscitare proteste ed opposizioni in Senato,
10. Intorno a questa controversia vd. M. PLATNAUER, op. cit., pp. 162 sgg.; cf. il suo articolo nel «J. R. S.», 10 (1920), p. 196. Dal GIBBON (History of the Decline and Fall of the Roman Empire, I, p. 125) in poi prevalse generalmente il giudizio che il governo di Severo sia stato esiziale per l’Impero romano. L’ultimo ad insistere su questo modo di vedere è stato A. VON DOMASZEWSKI, Gesch. d. röm. Kaiser, II, p. 262. Questo giudizio, accentuato e naturalmente esagerato, è detto dal PLATNAUER, «little more than nonsense». La sua opinione è sintetizzata nel passo riprodotto nel testo (dal «J. R. S.», 10 (1920), p. 196). Indubbiamente egli si trova in pieno errore nel credere di poter idealizzare la personalità e il governo di Settimio Severo. Questi, fondando sull’esercito il suo potere personale, che bramava lasciare in eredità ai figli, corrompendo e rovinando l’esercito medesimo, spezzò definitivamente la tradizione degli Antonini. Altra questione però è se fosse possibile conservare questa tradizione e se il governo dell’Impero romano non dovesse ad ogni modo prima o poi svolgersi in autocrazia militare. Certo è che Settimio Severo con l’usurpazione del potere e con la slealtà adoperata verso il Senato e verso Albino si mise coscientemente per la nuova via e inaugurò nella storia dell’Impero quella nuova fase, che attraverso la lunga anarchia militare condusse poi direttamente al dispotismo orientale di Diocleziano e di Costantino. Non vedo per qual motivo un’altra serie d’imperatori del tipo di Traiano, di Adriano, di Marco Aurelio, non avrebbe potuto prolungare di vari decenni il periodo tranquillo e relativamente felice della storia imperiale, se non vi si fossero frapposte l’inettitudine e la fiacchezza di Commodo, l’ambizione e la politica senza scrupoli di Settimio Severo. M. HAMMOND, Septimius Severus, Roman Bureaucrat, «Harv. St. Class. Ph.», 51 (1940), pp. 137-173, discute la vita di Settimio Severo prima della sua accessione e mostra che la sua carriera era puramente civile e militare e che nella sua vita anteriore non era un burocrate medio di origine provinciale. Egli si sforza di spiegare le sue riforme come condizionate dalle difficoltà del periodo e in relazione all’evoluzione nelle province. In sostanza la mia opinione è che prima c’era stata una lenta evoluzione e che Settimio Severo, in parte per ragioni personali e dinastiche, prese misure decisive che determinarono, nel loro sviluppo finale, l’anarchia militare del III secolo.
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giacché ciò significava staccarsi completamente dalle tradizioni degli Antonini, distacco simile a quello a motivo del quale quel corpo aveva combattuto, con tutti i mezzi a sua disposizione lo stesso Commodo, l’ultimo degli Antonini. Finché Settimio finse di voler conservare il sistema dell’adozione, vale a dire finché accettò Albino come associato al potere, il Senato non si mosse; ma non appena, dopo la sconfitta di Pescennio, egli si fu mostrato apertamente ostile ad Albino ed ebbe nominato conreggente suo figlio Caracalla, scoppiò la lotta aperta col Senato, e fu continuata finché l’opposizione senatoria non fu intieramente distrutta. Il fatto ben noto che il terrorismo del vincitore non rimase ristretto a Roma e all’Italia ma si estese largamente anche alle province, specialmente a quelle dell’Oriente e alla Gallia, dove l’aristocrazia provinciale aveva favorito i rivali di Settimio, non può spiegarsi soltanto con le difficoltà finanziarie. Egli sapeva bene che quest’aristocrazia provinciale delle più grandi e ricche città dell’Impero era stata devotissima alla dinastia degli Antonini e non avrebbe accettato senza resistenza un nuovo governo fondato sulla negazione dei principii cui s’era informata la politica della monarchia illuminata; volle far tacere quest’opposizione come l’aveva fatta tacere in Roma e in Italia11. Avendo contro di sé il Senato e una parte cospicua dell’aristocrazia provinciale, Settimio fu costretto a far sempre nuove concessioni all’esercito. Non accenno con ciò alle largizioni e donativi fatti ai soldati nel corso della lotta contro i rivali, né allo scioglimento della guardia pretoriana, all’introduzione d’un nuovo sistema di reclutamento della guardia e all’acquartieramento d’una legione nelle vicinanze di Roma. Tutti questi erano provvedimenti di sicurezza dettati non da considerazioni militari, non dal desiderio d’avere sotto mano un esercito pronto ad esser condotto contro i nemici d’oltre frontiera, ma dalla necessità d’avere in Italia più corpi fidati che sorreggessero il potere dell’imperatore e all’occorrenza potessero opporsi l’uno all’altro. Vi erano gli A ∆ lbavnioi per tenere a dovere i pretoriani, vi erano i frumentarii, gli equites singulares, le coorti urbane, cioè parecchie forti unità militari indipendenti l’una dall’altra, che potevano servire nel caso che la guardia pretoriana o la legione albana tentassero d’imporre la loro volontà all’imperatore o di deporlo. una forza che sarebbe stata capace di combattere i numerosi rivali che potessero sorgere nelle province (FERGUSON, ad HERODIAN. 3, 13, 3). Un’altra considerazione potrebbe aver guidato Severo nell’accrescere le truppe nella città di Roma: in caso di necessità e di condotta turbolenta della plebe romana le avrebbe potute usare
11. Larghe confische dopo la vittoria su Pescennio Nigro: DIO CASS., 74, 8, 4 e 9; SCR. HIST. AUG., Sev., 9, 7: multas etiam civitates eiusdem partis iniuriis adfecit et damnis; cf. DIO CASS., 74, 9, 4; HERODIAN., 3, 4, 7. Circa la politica di Settimio Severo dopo la vittoria su Clodio Albino vd. J. HASEBROEK, op. cit., pp. 101 sgg. Per quanto estese possano essere state le confische non si può accettare l’idea del FRANK, in An Economic Survey of Ancient Rome, V, Baltimore,1940, pp. 80 sgg., secondo cui queste confische devono essere considerate come la causa del rapido declino economico dell’Impero romano. La gestione delle loro proprietà da parte dei ricchi signori assenteisti non era molto diversa da quella dell’Impero. I sostenitori del controllo statale centralizzato sosterranno che la centralizzazione di Settimio era un progresso non un regresso.
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per reprimere la ribellione. Le importanti concessioni fatte da Settimio all’eser-
cito furono le più durevoli tra le sue riforme militari. È un’esagerazione dire ch’egli abbia completamente imbarbarito il corpo degli ufficiali: questi di regola continuarono ad uscire dalle file dell’aristocrazia municipale e senatoria. Ma è evidente che appunto nelle file di quest’aristocrazia trovava accesso sempre più facile il fiore dei soldati comuni, i centurioni, i quali coi loro discendenti furono ormai tutti elevati all’ordine equestre. Dando il privilegio dell’anello d’oro a semplici soldati, Settimio mise in rilievo il fatto che ogni soldato, purché bravo e leale verso l’imperatore, mediante la promozione al centurionato poteva diventar membro della classe privilegiata. Ma la militarizzazione della classe superiore (FERGUSON, ad HERODIAN. 3, 8, 5) non importava l’immediato imbarbarimento di essa. I centurioni per effetto del loro servizio nell’esercito erano più o meno romanizzati, sebbene sia vero che osservando la composizione dell’esercito alla fine del secolo secondo (della quale abbiamo parlato nel capitolo quarto) si possa dire che la romanizzazione della maggior parte di esso fosse molto superficiale. Altro provvedimento dello stesso genere fu la militarizzazione dell’amministrazione, quale risultava dall’essersi ampliata la cerchia degli uffici accessibili ai cavalieri e accresciuta la competenza dei funzionari equestri. La nomina di un cavaliere a governatore della Mesopotamia, di altri cavalieri al comando delle legioni partiche stanziate ad Albano e in Mesopotamia, l’accresciuta importanza dei prefetti dei pretoriani, il sistema di sostituire temporaneamente procuratori ai proconsoli nelle province senatorie, l’importanza acquistata dai cavalieri tra i comites Augusti: tutti questi fatti mostrano che Settimio intendeva rendere accessibili gradualmente ai soldati comuni i posti più elevati dell’amministrazione imperiale. D’altra parte, l’aumento degli stipendi militari, e l’aumento di razioni in natura in aggiunta alla paga dei soldati, i privilegi concessi ai veterani (esenzione dalle liturgie municipali), il favore dato alla vita associativa nei campi permanenti, e (non meno importante di tutto il resto) il riconoscimento legale dei matrimoni contratti dai soldati, con la conseguente graduale emigrazione dei soldati maritati dalle caserme nelle canabae: tutte queste erano concessioni gravi, destinate inevitabilmente a distruggere lo spirito militare e a creare nell’Impero un’influente casta militare. Evidentemente tali concessioni furono fatte sotto l’Impero della necessità: basta ricordare a questo proposito le non poche ribellioni militari, scoppiate specialmente agli inizi del governo di Settimio, per intendere quanto gli sia riuscito difficile affermare la propria influenza tra i soldati. Fatti come il miserevole insuccesso di tutti i tentativi fatti durante la seconda spedizione partica per espugnare Hatra, insuccesso dovuto all’indisciplinatezza delle legioni europee, provano che la politica di Settimio effettivamente scalzava la disciplina e fu attuata non per libera scelta ma per necessità. Le ultime parole da lui rivolte ai figli «siate uniti, arricchite i soldati, e non curatevi del resto» –, se anche non sono genuine (benché non si veda perché non dovrebbero esser tali) – sono pienamente conformi alla sua politica generale. Senza dubbio Settimio fu il primo a fondare saldamente e permanentemente il suo potere sull’esercito. Sebbene alcuni suoi predecessori del primo secolo, in particolar modo Domiziano, avessero fatto lo stesso, tuttavia dopo il governo degli Antonini e dopo l’effettivo annullamento d’ogni
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influenza del Senato sull’amministrazione dello Stato la politica militaristica di Settimio era alcunché di nuovo. Il suo scopo non fu la tirannide militare, ma la monarchia militare ereditaria12.
12.
Sulle riforme militari di Settimo Severo S.N. MILLER, C. A. H., XII, 1939, pp. 31 sgg. Sull’annona pagata ai soldati come aggiunta alla paga (un suo aumento), HERODIAN., 3, 8, 5 e FERGUSON ad loc.; cf. D. VAN BERCHEM, L’Annone militaire dans l’Empire romain au IIIe siècle, «Mém. de la Soc. d. Ant. de France», 10 (1937), p. 117 sgg. Intorno alla politica
d’imbarbarimento dell’esercito vd. A. VON DOMASZEWSKI, Rangordnung, pp. 83 sgg. e 122 sgg. Contro le sue esagerazioni vd. H. DESSAU, «Hermes», 1910, pp. 1 sgg. e M. PLATNAUER, op. cit., pp. 158 sgg. (ove non è ricordato l’articolo del DESSAU e H.M.D. PARKER, A History of the Roman World from A.D. 138 to 337, London, 1935, pp. 82 sg.). Cf. A. STEIN, Der röm. Ritterstand (1927), p. 413. Questi ha dimostrato che se anche è esagerata la tesi del DOMASZEWSKI, secondo cui gli Italici e i cittadini romani dell’Occidente (Spagna, Gallia) furono completamente esclusi dalla militia equestris, tuttavia egli ha giustamente definito l’indirizzo generale della politica di Severo, la quale raggiunse il suo culmine nell’anarchia militare. Nel suo quadro cronologico del governo di Settimio Severo lo HASEBROEK ha frequente occasione di parlare delle riforme militari di quest’imperatore: in sostanza egli condivide le vedute del DOMASZEWSKI. Per quanto alcune affermazioni di quest’ultimo possano essere esagerate, tuttavia egli è riuscito a dimostrare che il governo di Settimio Severo segnò un passo decisivo sulla via dell’imbarbarimento dell’esercito, e specialmente del corpo degli ufficiali. Il DESSAU può avere ragione nel rilevare che siffatto imbarbarimento non fu compiuto tutt’ad un tratto: ma non riesco a capire come mai, contro la testimonianza diretta delle nostre fonti, si possa negare la differenza tra le truppe provinciali e la guardia pretoriana preseveriana. I Norici, Spagnuoli e Macedoni di questa guardia erano discendenti d’antichi coloni romani, in parte originarii dell’Italia e in parte provinciali completamente romanizzati, in massima parte gente di città, mentre le legioni danubiane erano composte di contadini tracii ed illirici, che in generale sapevano assai poco il latino: eppure esse ora divennero il seminario degli ufficiali e dei centurioni. Agli occhi della popolazione di Roma questi uomini erano veri e propri barbari (non ha senso l’osservazione di O.TH. SCHULZ, Vom Prinzipat zum Dominat, pp. 25 sgg., nota 48). Inoltre non si può dubitare che Settimio Severo abbia demoralizzato i soldati con la profusione dei donativi, con l’elevamento del soldo, con l’allentamento della disciplina: basta, per convincersene, passare in rassegna i donativi coi quali egli sedò i frequenti ammutinamenti e corruppe i soldati (SCR. HIST. AUG., Sev., 7, 6; DIO CASS., 46, 46, 7 e SCR. HIST. AUG., Sev., 8, 9; J. HASEBROEK, op. cit., pp. 41 e 46 circa le ribellioni e pp. 24 e 129 circa i regali) e ricordare la condotta dei soldati a Roma (SCR. HIST. AUG., Sev., 7, 2-3: tota deinde urbe milites in templis, in porticibus, in aedibus Palatinis quasi in stabulis manserunt, fuitque ingressus Severi odiosus ac terribilis, cum milites inempta diriperent vastationem urbi minantes) e davanti ad Hatra (PLATNAUER, op. cit., p. 121). È singolare anche l’impegno con cui il biografo di Pescennio Nigro mette in rilievo la rigorosa disciplina da lui mantenuta fra le sue truppe e il contegno esemplare di queste, in contrasto con l’indisciplinatezza dell’esercito di Severo, SCR. HIST. AUG., Pesc. Nig., 3, 6; 4, 6 ecc. Quanto alla «equestrizzazione» dell’amministrazione, ai fatti raccolti dal PLATNAUER e dal HASEBROEK va ancora aggiunta la sostituzione dei proconsoli con procuratori (C.W. KEYES, The Rise of the Equites in the Third Century of the Roman Empire (1915), pp. 3 sgg. e J. KEIL, Forsch. in Ephesos, III, pp. 139 sg., n. 54 e pp. 110 sg., n. 20). Non si può tuttavia parlare di mutamento radicale nella composizione dell’ordine senatorio. Il fatto
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Ma è errato che Settimio abbia stabilito un dispotismo militare di tipo orientale. La sua monarchia militare non era orientale: nella sua vera essenza era romana. Settimio militarizzò completamente il Principato augusteo, il cui capo era ora anzitutto imperator, generalissimo dell’esercito romano; ma l’imperatore continuò ad essere il magistrato supremo dell’Impero romano, e l’esercito continuò ad esser composto di cittadini romani. Se ormai l’Impero romano comprendeva realmente tutte le province romane, e se la supremazia del ceppo italico, conservata ancora da Traiano e non ripudiata apertamente da
che in questa corporazione i nativi d’Italia erano in maggioranza in confronto coi provinciali (F. SINTENIS, Die Zusammensetzung des Senats unter Septimius Severus und Caracalla (Diss., 1914), p. 29, cf. A. JARDÉ, Études critiques sur la vie et le règne de Sevère Alexandre (1925), appendice: L’Album sénatorial sous Sevère Alexandre, pp. 119 sgg.), in contrasto con la politica di Traiano e degli Antonini, mostra quanto poca fiducia Settimio Severo avesse verso i rappresentanti dei provinciali. Una documentazione epigrafica e letteraria sulle varie famiglie della classe senatoria (raccolta per la prima volta da F. SINTENIS, Die Zusammensetzung des Senats unter Septimius Severus und Caracalla, Diss. 1914, e di recente integrate e corrette da parte di P. LAMBRECHTS, La Composition du sénat romain de Septime Sévère à Dioclétien (193-284), Budapest, 1937 («Dissertationes Pannonicae», I, 8) mostra in modo conclusivo che gli italici sotto Severo erano ancora fortemente rappresentati tra i membri del senato (36% secondo LAMBRECHTS, p. 80) sebbene i provinciali – in contrasto con l’età degli Antonini – predominino (64%), con una maggioranza di nuovi membri provenienti dall’Oriente e dall’Africa. Questo prova oltre ogni dubbio che Severo non accarezzò mai l’idea di «barbarizzare» il senato. La rapida provincializzazione del senato sotto Severo non fu una nuova politica ma una prosecuzione di quella degli Antonini (supra, p. 174) e il fatto che la maggior parte delle nuove classi senatorie provenisse dall’Africa in Occidente e dall’Oriente (Siria e Asia Minore) prova senza dubbio che Severo, nel concedere questo privilegio all’Africa e all’Oriente, non solo diede espressione alle propensione sue e di sua moglie, ma che in primo luogo riconobbe il rapido sviluppo economico ed intellettuale dell’Africa e dell’Oriente pienamente riconosciuto da parte degli Antonini (p. 129). Perciò il senato sotto Severo e ancor più sotto i suoi immediati successori (A. JARDÉ, Études critiques sur la vie et le règne de Sévère Alexandre, 1925, pp. 119 sgg.; LAMBRECHTS, loc. cit.) era ancora essenzialmente un’assemblea rappresentativa delle classi più ricche e colte dell’Impero. Tra due mali l’imperatore scelse il
minore: gli Italici almeno erano più vicini e meno ricchi. Tra i provinciali preferì i senatori orientali agli occidentali, e ciò facendo si lasciò certamente guidare da altri motivi che non dal semplice riguardo alle simpatie della moglie. Sebbene i provinciali predominino (in contrasto con l’età degli Antonini), Settimio Severo mostra di non aver mai pensato di provincializzare completamente il senato e che rispettava i diritti delle famiglie senatorie italiche (secondo le statistiche di LAMBRECHTS il 36% dei senatori era di origine italica e il 64% di origine provinciale, con gli Orientali che, tra questi ultimi, erano molto più numerosi di quelli nati in Occidente, mentre sotto gli Antonini gli Italici erano leggermente più numerosi dei provinciali (pp. 143 e 129). L’unico provvedimento democratico da lui
preso fu l’introduzione d’alcuni primipili nel Senato (A. VON DOMASZEWSKI, Rangordnung, p. 172; FLUSS, «R. E.», II ser., II, col. 1981). Circa i matrimoni dei soldati e la dimora di essi nelle canabae vd. J. HASEBROEK, op. cit., p. 127, e FLUSS, loc. cit., col. 1992. Indubbiamente i soldati erano in maggioranza celibi e continuavano ad alloggiare al campo; cf. DIO CASS., 78, 36, 2 ed HERODIAN., 3, 8, 5, inoltre STUART JONES, Companion, p. 240.
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Adriano, ormai era scomparsa per sempre, non v’era in tutto questo niente di radicalmente nuovo. Si trattava soltanto di uno svolgimento normale, iniziato dalle guerre civili e favorito a passo a passo da tutti gli imperatori romani. Settimio fece i passi decisivi, dando all’esercito carattere provinciale, e aprendo l’adito ai posti amministrativi a numerosi provinciali; ma in sostanza egli così non faceva che continuare la politica già da molto tempo svolta dai capi dell’Impero. In questa politica non v’era niente di rivoluzionario. Il lato disastroso di essa era non già l’aver fatto democratico l’esercito, ma l’aver militarizzato il Principato: ciò di fatto era necessaria conseguenza dell’usurpazione del potere compiuta da Settimio e dello stabilimento della monarchia ereditaria. Egli fu quindi perfettamente logico nell’accentuare il suo rispetto per la monarchia illuminata degli Antonini. Egli desiderava d’essere riconosciuto quale legittimo erede di Commodo e prestissimo cessò d’atteggiarsi a vendicatore dell’eletto del Senato, Pertinace. Proclamandosi fratello di Commodo, facendolo porre tra i divi, foggiandosi un’adozione da parte di Marco Aurelio, egli sapeva benissimo che queste assurdità non ingannavano nessuno: il suo scopo era di far risaltare la sua adesione all’ultimo grande imperatore e la sua volontà di seguirne la politica e il carattere sacro del suo potere. Naturalmente v’era anche un’altra ragione: il desiderio di legittimare la sua posizione usurpata. Era stata estorta al Senato la sanzione legale; ma il potere imperiale non dipendeva soltanto da un senatus consultum: esso si fondava in prima linea sul culto imperiale, il quale ormai, dopo un secolo di pacifico svolgimento, era strettamente collegato col nome e con le tradizioni degli Antonini. Non deve dunque sembrare strano che Settimio Severo desiderasse apparir figlio del santificato Marco e che a tal fine facesse porre le proprie immagini nei templi municipali e nelle cappelle legionarie, né che permettesse ai suoi figli di prendere il nome di Antonino per far loro ereditare, col nome, anche la riverenza ad esso collegata. Mai per l’innanzi, salvo ai tempi di Caligola e di Domiziano, il culto imperiale era stato così personale e dinastico. Era molto significativo il fatto che sulle corone dei flamines municipali ai busti della triade capitolina furono sostituiti quelli di Settimio e dei suoi due figli, i nuovi Antonini13.
13. J. HASEBROEK, op. cit., pp. 44 sg. (primo periodo), pp. 88 sg. (consacrazione di Commodo), pp. 92 sgg. (carattere religioso della venerazione per gli Antonini). La pietra angolare della politica di Settimio Severo fu costituita dai suoi sforzi volti a legittimare non soltanto il suo potere personale ma anche la sua dinastia, col mettere in rilievo la propria discendenza da Marco Aurelio, che aveva lasciato il suo potere al figlio, e con la sua venerazione per Commodo. Questo è il motivo per cui diede a Caracalla il nome di Antonino e soppresse senza misericordia tutti i seguaci di Albino, suo erede presuntivo [S1]. Circa la sua politica dinastica cf. J. VOGT, Die alexandrinischen Münzen (1924), pp. 166 sgg. Quanto la nobiltà senatoria rimanesse attaccata all’idea dell’adozione in opposizione a quella dell’Impero ereditario, risulta dalla parte che siffatta idea ha negli scritti che vanno sotto il nome di VOPISCO, cioè nelle biografie degli imperatori seriori del sec. III: E. KLEBS, «Hist. Zeitschr.», 61 (25), p. 231, nota 6; cf. E. HOHL, «Klio», 11 (1911), pp. 292 sg. Circa i diademi di flamines provinciali ornati con busti della famiglia imperiale vd. G.F. HILL, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 2
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Deve riconoscersi che in alcuni punti la politica di Settimio fu effettivamente la continuazione genuina di quella di Adriano e degli Antonini. È noto che mai la legislazione imperiale fu così umanitaria come nell’età dei Severi. Ai grandi giuristi di quest’età, Papiniano, Ulpiano, Paolo, si lasciò ampia libertà di svolgere le loro favorite idee umanitarie intorno all’eguaglianza della legge per tutti e intorno al dovere di proteggere la vita umana in genere e i deboli e poveri in ispecie. Alla vigilia del grande rivolgimento sociale, cui la militarizzazione dell’Impero andava spianando la strada, il diritto romano spiegò per l’ultima volta il suo aspetto più splendido e nobile. Non è necessario insistere su questo tema a tutti familiare14. È manifesto, tuttavia, che il liberalismo della politica sociale di Settimio mirava anzitutto e soprattutto a consolidare il potere suo e della dinastia. Al pari di Commodo anch’egli intendeva fondare il suo potere sulle classi da cui derivavano i soldati: quindi la sua legislazione liberale e i suoi provvedimenti volti a proteggere i contadini ed il proletariato urbano
(1899), pp. 245 sgg.; cf. IDEM, Catal. of Coins of the Brit. Mus., Lycaonia, p. XVII e in Anatolian Studies presented to Sir W. Ramsay, p. 224. Nel mosaico di Aquileia recentemente scoperto, pubblicato da G. BRUSIN nelle «Not. d. scavi», 1923, pp. 224 sgg. (cf. l’annessa tavola, fig. b), il vecchio col diadema è probabilmente il flamen di Aquileia; i tre busti che adornano il diadema sono quelli di Giove, di Giunone, di Minerva, non già, come io dapprima credetti, quelli di Settimio Severo e dei suoi figli. [Ma si noti che Severo nel suo culto dinastico voleva essere identificato con Giove, mentre sua moglie figurava come Giunone. Vd. uno dei bassorilievi dell’arco di Leptis, R. BARTOCCINI, «Africa Italiana», 4 (1931), p. 96, fig. 67. È molto probabile che nel tempio del suo foro, il Nuovo Settimiano di Leptis, fossero venerati lui con i tratti di Giove e sua moglie con quelli di Giunone; cf. le corone dei sacerdoti: L. ROBERT in «B. C. H.», 54 (1930), pp. 262-267, e ibid., p. 351; J. KEIL in «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 28 (1932), Beibl., pp. 39-42, fig. 25; L. ROBERT, Études Anatoliennes, Paris, 1937, pp. 128 sgg. e pl. IV, 1]. Merita d’esser rilevato che appunto sin dal sec. III in tutte le dediche accan-
to all’imperatore compare la domus divina, mentre prima questo avveniva solo eccezionalmente. La stessa politica tradizionale e conservatrice può essere notata nel suo atteggiamento verso i culti orientali ereditata, dopo un orientamento differente di Caracalla e di Elagabalo, da parte di Alessandro Severo. Sulla politica religiosa di Settimio Severo e di Alessandro e su come si manifestò nei loro atteggiamenti conservatori nei confronti della religione di Stato dell’esercito, si veda R.O. FINK, A.S. HOEY e W.F. SNYDER, The Feriale Duranum, «Yale Class. Studies», 7(1940), pp. 1-222, partic. pp. 165 sgg., e le osservazioni di F. ALTHEIM, Sol Invictus, «Die Welt als Geschichte», 5 (1939), pp. 290-303.
14. M. PLATNAUER, op. cit., p. 181. Riguardo alla protezione degli humiliores possiamo riferirci all’opinio di Ulpiano. Veramente l’ajkmhv di Ulpiano cade sotto Alessandro, ma le sue opiniones risalgono ad un periodo anteriore, ed in esse si rispecchiano in generale le tendenze della monarchia militare. DIG., 1, 18, 6, 2 (ULPIAN., Opinion., 1. I): ne potentiores viri humiliores iniuriis adficiant neve defensores eorum calumniosis criminibus insectentur innocentes, ad religionem praesidis provinciae pertinet, e ibid., 4: ne tenuis vitae homines sub praetextu adventus officiorum vel militum lumine unico vel brevi suppellectili ad aliorum usus translatis iniuriis vexentur, praeses provinciae providebit (il testo è in ordine: lumine unico vel brevi suppellectili sono una pittoresca descrizione delle violenze dei soldati, che si servono, come fossero loro proprietà, perfino dell’unica lucerna e delle poche stoviglie della casa).
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contro la classe dominante e l’amministrazione imperiale. È da notarsi che restaurò gli alimenta aboliti da Commodo. In Africa continuò la politica dei Flavii, di Traiano, di Adriano. Non è un caso che la copia della lex Manciana a noi giunta risalga appunto al regno di Settimio Severo, e che allo stesso periodo appartenga anche la ara legis Hadrianae. Evidentemente anche Settimio desiderava d’aumentare nei suoi demani il numero dei liberi proprietari; e insisté perché i conduttori e i procuratori osservassero le ordinanze dei suoi predecessori. Dopo le persecuzioni dei partigiani di Pescennio in Egitto, che scossero la prosperità economica del paese e fecero aumentare il numero di coloro che fuggivano dai loro villaggi, egli pubblicò, in connessione col consueto censo, un proclama speciale per invitare i contadini a fare ritorno nei loro campi e villaggi. Su questo proclama si fondava l’editto del governatore Subaziano Aquila. A questi documenti si richiamavano, per esempio, i contadini del villaggio di Soknopaiu Nesos nel Fajiûm, quando dicevano nel loro reclamo contro certi ricchi che avevano approfittato della loro assenza per occupare le terre ch’essi solevano coltivare:« I nostri signori, i sacratissimi e invincibili imperatori Severo e Antonino, mentre dimoravano nel loro paese di Egitto, tra gli altri benefici, vollero che coloro che non risiedevano nelle loro case vi ritornassero, sradicando l’arbitrio e la illegalità»15.
15. Circa l’editto di Subaziano Aquila vd. B. G. U., 484 (201-2 d.C.); P. Gen., 10; P. Catt., II, 1-7; P. Flor., 6; le mie Studien Gesch. Kol., pp. 209 sgg.; U. WILCKEN, Chrest., n. 202, p. 235 (introduz.). Certamente l’editto era in relazione col regolare censo, ma il frequente appellarsi ad esso dimostra che le condizioni della campagna erano assai tristi e che le ajnacwrhvsei~ erano diventate una pestilenza cronica. Le espressioni riferite nel testo, delle quali si servirono i contadini di Soknopaiu Nesos (PREISIGKE, SB, 4284 (207 d.C.); cf. P. Gen., 10; le mie Studien Gesch. Kol., pp. 167 sgg.; F. ZUCKER, «Philologus», 1910, pp. 455 sgg.) e il loro appello, rivolto direttamente all’imperatore, fanno supporre che Settimio Severo durante il suo soggiorno in Egitto (199-200 d.C.) come più tardi Caracalla (P. Giss., 40, II, 15-29), abbia pubblicato uno o più editti al fine di por termine alle condizioni anarchiche prodottesi in Egitto dopo la rivolta d’Avidio Cassio, seguita dalle persecuzioni di Commodo, e dopo la guerra tra Settimio Severo e Pescennio Nigro, che aveva dato luogo a vaste confische ed esazioni. [(Cf. la ajpovfasi~ di Severo e Caracalla, H. FRISK, «Aegyptus», 9 (1928), pp. 281 sgg.; SB. 7366)]. Un papiro pubblicato recentemente P. S. I., 683 (cf. U. WILCKEN, «Arch. f. Pap.-F.», 7 (1923), pp. 84 sg.) contiene in proposito dati importanti. Venendo in Egitto, Settimio Severo volle ispezionare tutto il paese. Furono fatti preparativi per il suo viaggio: il che significava per la popolazione pesanti oneri straordinari. Come di consuetudine, il mantenimento dell’imperatore, del suo seguito e dei suoi soldati venne addossato alle città e ai villaggi dell’Egitto, che dovettero perciò pagare sotto forma di vacche, capretti, pecore, cereali ecc. Il nostro documento è la relazione che gli scrivani dei villaggi fanno allo strategos circa la distribuzione dei pagamenti (ejpimerismov~) tra i vari villaggi. Prima però di trattare il tema principale della loro relazione, gli scrivani riproducono testualmente una circolare speciale dell’epistratego Arrio Vittore agli strateghi del nomo arsinoitico. Già il solo fatto di tale citazione basta a dimostrare quanto il documento fosse straordinario: e infatti si tratta di un documento non comune di scrittura ufficiale. Anzitutto l’epistratego chiede nella maniera consueta agli strateghi una relazione circa la ripartizione dei pagamenti eijª~ th;nº annw`nan toi`~ ⁄ kªuºrivoi~ hJmw`n (l. 12). Coi paragrafi seguenti
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Lo stesso sentimento di fiducia nell’imperatore e di adesione personale a lui, in contrasto col malanimo verso i suoi agenti e funzionari, dimostravano i contadini delle tenute imperiali dell’Asia Minore. Possediamo tre o quattro petizioni dell’età di Settimio Severo, trovate recentemente in Lidia. Dopo aver invano presentato le loro lagnanze agli alti funzionari, i contadini si rivolsero
comincia lo straordinario. Alla l. 14 è detto che la cassa imperiale aveva prestato denaro al governatore per il pagamento delle derrate, probabilmente di quelle fornite dal popolo (prosqevnte~ toi`~ gravmmasi kai; to; ejxwdiasqe;n ⁄ ajrguvrion ejn procreiva/ ejk tou` iJerotavtou ⁄ tameivou eij~ povsa kai; tivna ei[dh ejcwvrhse). Ma con la l. 17 s’inizia una proposizione, che contiene idee molto singolari. «Come gli indigeni, io penso – dice Arrio Vittore – hanno dimostrato diligenza nell’approvvigionare i nobilissimi soldati, così anche noi dobbiamo prenderci cura di loro» (oppure «proteggerli») w{sper ga;r oi\mai pªrºovnoian ejpoihvsanto ⁄ ªoiJ ejºncwvrioi tou` ta; ejpiãtÃhvdeia pareschkevnai ªtºoi`ª~º genneotavtoi~ statiwvãtaÃi~, ou{tw kai; ⁄ aujtw`n ªejpiºmelhqh`nªai ajºnagkai`onv esti. È peccato che la fine del documento sia in così pessimo stato di conservazione. Indubbiamente nelle righe successive Arrio Vittore spiegava che cosa intendesse per protezione del popolo. Tuttavia si può ancora riconoscere uno dei provvedimenti in questione (ll. 26 sgg.). L’ejpimerismov~, la ripartizione dei pagamenti, in tutti i villaggi deve essere reso di pubblica ragione (proqei`nai), e se qualcuno ha da muover lagnanze contro di esso può mettersi a rapporto (kai; ei[ ti~ mevmyasqai e[cei ⁄ prosevlqh/). Il Wilcken crede che tutte queste frasi e provvidenze umanitarie non fossero altro che espedienti coi quali il governatore generale cercasse di evitare che venissero portate lagnanze davanti all’imperatore durante il suo soggiorno. Io invece inclino a ritenere che Arrio Vittore abbia agito in questa maniera per ordine speciale dell’imperatore medesimo, che voleva tutelare il popolo contro vessazioni non necessarie, sebbene non potesse rinunziare a ricorrere al male necessario dell’esazione dell’annona. Naturalmente Arrio Vittore non fa menzione d’istruzioni imperiali, ma queste possono essere state impartite oralmente al prefetto d’Egitto, e da questo poi comunicate ai suoi principali aiutanti, i governatori generali delle epistrategie. Ma se anche ammettiamo che Arrio Vittore abbia agito di propria iniziativa – ciò ch’è molto inverosimile, perché il denaro per i procrei`ai poteva venire assegnato solo su ordine speciale del prefetto – tuttavia il tono umanitario ch’egli assume dimostra che desiderava di agire secondo le intenzioni dell’imperatore e che con la sua ordinanza intendeva proteggere gli humiliores contro i potentiores. Ma ad onta degli sforzi dell’imperatore non sembra che le condizioni della campagna abbiano gran che migliorato. Due documenti novellamente scoperti illustrano lo stato in cui si trovava il paese all’inizio del governo di Caracalla. Uno è un papiro di Karanis del 214 d.C. (A.R. BOAK, «Ann. du Serv. Ant. de l’Egypte», 29 (1930), p. 51, n. 3; SB., 7360): è un’ajpografhv, in cui il proprietario denunzia tre lotti di terreno. Due di essi erano stati un tempo piantati ad olivi, ma ora eran diventati terreno seminativo, il terzo – canale insabbiato (?) – era diventato affatto infruttifero. Un altro papiro della stessa serie (BOAK, loc. cit., p. 54 sgg., n. 4) del 211-212 illustra i provvedimenti presi dall’imperatore e dal prefetto per risollevare l’agricoltura, e in primo luogo per la manutenzione degli argini e dei canali. Non sembra che si sia avuto un grande successo, a giudicare dal papiro, che contiene una petizione di due proprietari di terre (geou`coi), ch’erano allo stesso tempo fittuari dello Stato (dhmovs ioi gewrgoiv), che si rivolgono all’epistratego per lagnarsi che i katasporei`~, nonostante i replicati ammonimenti del prefetto, non abbiano fornito i materiali necessari alla costruzione di un importantissimo e[mblhma. Cf. cap. XI, note 33-35.
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direttamente all’imperatore, adoperando il linguaggio più devoto e leale. In una delle petizioni il loro rappresentante dice: «Vi preghiamo, o grandissimi e sacratissimi tra gli imperatori, che tenendo noi presenti le vostre leggi e quelle dei vostri antenati, e l’equità creatrice di pace, che voi usate con tutti, e detestando sommamente coloro che voi e i vostri predecessori sul trono avete sempre detestati, vogliate ordinare ecc.». In un’altra petizione un altro gruppo di contadini mette in rilievo come la sua adesione agli imperiali padroni durasse già da varie generazioni: «Saremo costretti […] a renderci fuggiaschi dalle tenute imperiali dove siamo nati e cresciuti e dove le nostre famiglie sono stabilite in qualità di contadini fin dai tempi dei vostri predecessori e abbiamo osservato i nostri doveri verso il fisco imperiale». Al pari dei coloni del saltus Burunitanus, anche i contadini di Mendechora presentarono la loro petizione all’imperatore per mezzo di un loro rappresentante. Di costui purtroppo non conosciamo il nome; ma il fatto che posteriormente siffatte petizioni venivano normalmente presentate all’imperatore per il tramite di soldati c’induce a ritener possibile che i contadini di Mendechora si siano anch’essi serviti d’uno di loro che si trovava ad esser soldato o ufficiale nell’esercito imperiale16. Settimio Severo si atteggiò dunque verso il popolo minuto a benevolo protettore. Verso le città la sua condotta fu diversa. Certamente egli non era ostile alle città in se stesse: anzi a quelle che lo sostennero fedelmente dimostrò benevolenza e comprensione dei loro bisogni, specialmente per quelli della sua nativa Africa, per quelli della Siria, patria di sua moglie, e delle province danubiane, donde provenivano i suoi soldati. Sotto di lui le città di tutti questi paesi fiorirono e prosperarono. Non poche furono promosse a superiore dignità municipale, parecchie vennero onorate di donativi e di nuovi edifizi, alcune ricevettero una colonia di veterani romani, come Tiro in Fenicia e Samaria in Palestina. Naturalmente esse glorificarono il benefico regime dell’imperatore ed eressero a lui, a sua moglie, ai suoi figli statue ed archi trionfali uno dopo l’altro. Ma non sarebbe giusto neppure generalizzare e dire che rispetto alle città Settimio Severo si sia attenuto fedelmente alla politica dei suoi predecessori. Non dobbiamo dimenticare la sorte di Lione e di Bisanzio: la prima non si riebbe mai dalla spietata punizione inflittale. Anche Antiochia fu colpita da
16. J. KEIL e A. VON PREMERSTEIN, Dritte Reise, nn. 9, 28, 55; cf. Zweite Reise, n. 222; I. G. R. R. IV, 1368. La prima citazione del testo è presa dal n. 28 (pp. 24 sgg.), l. 9 sgg.: kai; tou`to deovmeqæ ajpidovnta~ uJmªa`~ mev⁄gistºoi kai; qeiovtatoi tw`n pwvpote aujtokratovrwn, prov~ te tou;ª~ ⁄ uJmetevºrou~ novmou~ tw`n te progovnwn uJmw`n kai; pro;~ th;n eijrhnikh;ªn ⁄ uJmw`ºn peri; pavnta~ dikaiosuvnhn, meishvsante~ de; ou}~ ajei; meªi⁄shvsºate aujtoiv te kai; pa`n to; th`~ basileiva~ progoniko;n uJmªw`n ⁄ gevnoº~ ktl. Queste parole concordano in maniera notevole con le idee direttive del governo di Settimio Severo. I contadini fanno appello alle benefiche leggi dell’imperatore e mettono in rilievo che Settimio Severo nel praticare questa politica segue l’esempio degli Antonini suoi antenati. La seconda citazione è tolta dalla stessa opera, n. 55 (p. 37 sgg.) l. 51: fugavda~ ãteà genevsqai tw`n despotikw`n cwrivwn, ejn oi|~ ⁄ (k)ai; ejgennhvqhmen kai; ejtravfhmen kai; ejk progovnwn ⁄ diamevnonte~ gewrgoi; kai; ta;~ pivstei~ throu`men tw`/ ⁄ despotikw`/ lovgw/: è sorprendente la somiglianza tra il tono e il modo d’esprimersi di questa supplica e quella del saltus Burunitanus.
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severo castigo. Numerose città furono obbligate a pagare enormi contribuzioni perché, costrette, avevano fornito denaro a Pescennio Nigro, e, a quanto pare, durante la guerra partica tutte le città dell’Impero furono invitate a mandare all’imperatore considerevoli donativi in denaro. Abbiamo già parlato della confisca delle proprietà di non pochi membri della aristocrazia provinciale17.
17. M. PLATNAUER, op. cit., pp. 189 sgg., getta un roseo velo sulla politica seguita da Settimio Severo verso le province, parlando del «carattere benevolo» dell’imperatore e di «un’era di pace e di benessere per i provinciali». Piu s’attiene ai fatti J. HASEBROEK, op. cit., p. 132 nel mettere in rilievo la prosperità dell’Africa e della Siria (cf. G.A. HARRER, Studies in the History of the Roman Province of Syria, 1915; per un’altra opinione R.M. HAYWOOD, The African Policy of Septimius Severus, «Trans. Amer. Phil. Ass.», 71 (1940), pp. 175-185). Per completare i dati offerti dal Hasebroek mi sia lecito ricordare
la grande diligenza spiegata da Settimio Severo verso la sua patria. Gli scavi intrapresi dagli Italiani a Tripoli dimostrano che con Settimio Severo incominciò una nuova era per le modeste città della costa africana, e specialmante per Leptis. Vanno ricordati a questo proposito anche i paesi danubiani. Tuttavia è da osservare che precisamente quella città di Nicopolis ad Istrum, che eresse a Settimio Severo e alla sua famiglia tutta una serie di statue, fece un donativo volontario di 700 mila denari, che l’imperatore accettò di buon grado, vd. M. BRITSCHKOV, «Ath. Mitt.», 1923, p. 99. Nell’annunziare il donativo naturalmente la città di Nicopoli esalta i benefici della pace ch’essa può godere grazie alle grandi vittorie di Settimio Severo: e indubbiamente questa lode è tributata in buona fede. Cf. le numerose iscrizioni in onore di Settimio Severo e della sua famiglia, pubblicate dalla BRITSCHKOV nel medesimo articolo. Vd. l’enumerazione delle città che possedevano il ius italicum e i diritti coloniali, DIG., 50, 15, 1 (ULPIAN., de censib., 1. I) e 8 (PAUL., de censib., 1. II). Non crederei che si debba attribuire troppo valore alle note espressioni di TERT., de pallio, 2: quantum reformavit orbis saeculum istud! quantum urbium aut produxit aut auxit aut reddidit praesentis imperii triplex virtus! Deo tot Augustis in unum favente, quot census transcripti! quot populi repugnati! quot ordines illustrati! quot barbari exclusi! re vera orbis cultissimum huius imperii rus est eradicato omni aconito hostilitatis et cacto et rubo subdolae familiaritatis convulso, et amoenus super Alcinoi pometum et Midae rosetum. Questa rosea descrizione ha uno scopo determinato e si riferisce verosimilmente soltanto all’Africa. Si osservi con quanta insistenza sono messi in rilievo il favore dato all’urbanizzazione dell’Africa e la concessione di privilegi alle città. Senonché in altri punti Tertulliano adopera ben altri colori e annunzia il prossimo sfacelo dell’Impero romano, vd. ad. Scap., 3, cf. 5; e inoltre occorre ricordare soprattutto la descrizione delle feroci persecuzioni, delle quali in tutto l’Impero erano caduti vittime gli avversari di Settimio Severo, e delle proteste ch’esse provocarono anche nella città di Roma, ad nat., I, 17; Apol. 35: set et qui nunc scelestarum partium socii aut plausores cotidie revelantur, post vindemiam parricidarum racematio superstes […]; cf. ciò che precede: ipsos Quirites ipsamque vernaculam septem collium plebem convenio, an alicui Caesari suo parcat illa lingua Romana? testis est Tiberis et scholae bestiarum. L’ultimo accenno si riferisce alle punizioni inflitte alle male lingue di Roma. La politica di Settimio Severo verso la Siria non costituiva niente di nuovo. Marco Aurelio e Commodo avevano liberalmente concesso il diritto coloniale alle città della Mesopotamia, e lo stesso fecero poi gli immediati successori di Settimio Severo: quasi tutte le città della Mesopotamia acquistarono così tale condizione giuridica (Carrhae, Edessa, Nisibis, Rhesenae, Singara, Dura). Ciò si spiega naturalmente con la posizione di queste città presso i confini che separavano l’Impero dal paese nemico; e la concessione probabilmente non implicava
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Più importante di questi atti temporanei di oppressione fu la politica seguita da Settimio Severo verso le classi superiori della popolazione urbana. Allorché nel capitolo precedente ho parlato delle liturgie, ho messo in rilievo il fatto che Severo fu probabilmente il primo imperatore che fissò come norma la responsabilità personale dei magistrati municipali. Egli fu anche il primo che, con l’aiuto dei suoi giuristi, svolse l’oppressivo sistema delle liturgie in un’istituzione permanente legalizzata, regolarizzata, attuata coattivamente dallo Stato. I giuristi che maggiormente contribuirono ad elaborare il sistema e la teoria dei munera furono Papiniano e Callistrato, contemporanei di Severo, e Ulpiano, consigliere di Alessandro Severo18. Lo svolgimento è chiaro specialmente nel caso della decaprotia e della eikosaprotia. I riferimenti a questi oneri cominciano nel Digesto col secolo III. Erennio Modestino, Ulpiano, e più tardi Arcadio Carisio ed Ermogeniano sono i primi che ricordano la trasformazione di quell’istituzione in uno dei più importanti munera
soltanto un mero titolo, ma indicava anche lo stanziamento di veterani dell’esercito romano in qualità di coloni, cf. nota 52 a. Intorno ai nuovi scavi della Tripolitania vd. la bibliografia data nella nota 4 del cap. V e nella nota 84a del cap. VIII. Sulla politica di Settimio Severo verso le città e le classi lavoratrici della popolazione si veda H.M.D. PARKER, A History of the Roman World from A.D. 138 to 337, London, 1935, p. 127, nota 59. Egli semplifica il mio punto di vista e cerca di portarlo all’assurdo. Mi dispiace che non abbia letto attentamente il mio libro e che non abbia notato che io sto parlando di una tendenza e non di una determinata scelta politica. Io ho debitamente registrato tutti i favori concessi da Severo alle città di certe parti dell’Impero romano.
18. Nel libro 50 del Digesto, in cui si tratta dell’ordinamento della vita municipale in generale e in particolare delle liturgie, la maggior parte delle ordinanze risalgono alla prima metà del sec. III. In alcuni punti si rinvia alle constitutiones degli Antonini. La più antica trattazione sistematica dei rapporti tra le città e lo Stato, specialmente nei riguardi dei munera, è quella di Papirio Giusto, che raccolse le ordinanze di Marco Aurelio e di Lucio Vero. È tuttavia evidente che il vero lavoro fu compiuto da giuristi dell’età dei Severi. Nel titolo de muneribus et honoribus, DIG., 50, 4, la più parte delle citazioni son prese da Ulpiano, e alcune delle idee fondamentali da Callistrato e Papiniano. Più tardi Ermogeniano e Arcadio Carisio dettero una rassegna sistematica conclusiva, sebbene l’indirizzo svoltosi a poco a poco non abbia mai avuto un sistematico e radicale ordinamento teoretico. La differenza tra munera personalia, patrimonii e mixta rimase indeterminata. L’origine di tale distinzione risale certamente ai grandi giuristi dell’età dei Severi, ed ebbe il suo fondamento nella prassi municipale e probabilmente nelle istituzioni dell’Egitto. Quale parte importante abbia avuto Ulpiano nel ridurre a sistema i munera è dimostrato da molte delle sue opiniones. Una delle più interessanti è quella contenuta nel DIG., 50, 4, 15: praeses provinciae provideat munera et honores in civitatibus aequaliter per vices secundum aetates et dignitates, ut gradus munerum honorumque qui antiquitus statuti sunt, iniungi, ne sine discrimine et frequenter isdem oppressis simul viris et viribus res publicae destituantur; cf. il tentativo di classificazione dei munera fatto da Callistrato, DIG., 50, 4, 14, 1 sgg. Va rilevato che Ulpiano (Opinion., 1. II, DIG., 50, 2, 1) menziona inoltre per la prima volta la teoria degli ijdiva nella sua applicazione ai decurioni e alla coercizione loro applicabile: decuriones quos sedibus civitatis ad quam pertinent relictis in alia loca transmigrasse probabitur, praeses provinciae in patrium solum revocare et muneribus congruentibus fungi curet.
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municipali; e non prima del regno di Caracalla le iscrizioni rispecchiano siffatto mutamento. A un dato momento del terzo secolo la decaprotia venne introdotta anche nella vita municipale dell’Egitto; intorno alla metà del secolo essa era già diventata una delle istituzioni più importanti nella vita finanziaria del paese19. È certo ancora che Settimio e i suoi successori esercitarono pressione più sistematica sulle associazioni e corporazioni che servivano lo Stato. Il fatto che Callistrato, nel parlare dell’ordinamento dei munera municipali, dedica tanta attenzione alle corporazioni, mostra che Severo, seguendo l’esempio dei suoi predecessori e particolarmente di Adriano, di Marco Aurelio, di Commodo, regolò minutamente le relazioni tra le corporazioni e le città. Specialmente importanti erano i navicularii e i mercanti, e ad essi è quindi dedicata la maggior parte dell’estratto di Callistrato che ci è stato conservato nel Digesto. È notevole, per ciò che riguarda la posizione di queste corporazioni, che Callistrato accentua l’ausilio dei mercanti e il servizio dei battellieri, e che insiste sul fatto che gli uni e gli altri adempiono a un munus publicum. Ciò spiega perché egli abbia raccolto tutte le antiche norme che regolavano l’attività di queste corporazioni, svolgendole poi per suo conto20. Nel capitolo preceden-
19. DIG., 50, 12, 10 (Erennio Modestino); 50, 4, 3, 10 (Ulpiano); 50, 4, 1, 1 (Ermogeniano); 50, 4, 18, 26 (Arcadio Carisio, che cita Erenn. Modest.). Le epigrafi dell’Asia Minore che per la prima volta mostrano la decaprotia nel nuovo aspetto, diventata cioè nel sec. II una regolare liturgia, sono quelle di Prusias ad Hypium, tutte dell’età di Caracalla o alquanto anteriori, I. G. R. R. III, 60, 61, 63, 64, 65, 67. Alla medesima età appartengono iscrizioni consimili di Syllium, ibid., 801, di Aspendus, ibid. 804, e quelle di Thyatira, che costituiscono anch’esse una copiosa fonte per le nostre conoscenze sulla storia della decaprotia, I. G. R. R. IV, 1248; cf. 1228 (dopo Caracalla), 1261, 1265, 1273 (tutte del sec. III d.C.). Non è a caso che la prima menzione di dekavprwtoi nelle funzioni di presidenti dei consigli municipali abbia la data del 207 d.C., I. G. XII, 7, 240, 2: gnwvmh strathgw`n kai; dekaprwvtwn ejcovntwn de; kai; th;n prutanikh;n ejxousivan, cf. 239, 11-13: qugavthr ajndro;~ dekaprwvtou kai; ajrcikou` (membro della medesima famiglia) e 395 (Aigiale, dello stesso periodo). Identica è la condizione dei dekavprwtoi a Calcide di Eubea dopo il 212 d.C., I. G. XII, 9, 906, 5-6: eijshghsamevnwn tou` dekaprwvtou Kl. ∆Amuvntou kai; Oujlpivou Pamfivlou; cf. 14: strathgou`nto~ tou` dekaprwvtou L. Noouivou Lusanivou; cf. ibid., n. 295 (Eretria) e XII, 8, 646 (Pepareto). Intorno ai dekavprwtoi dell’Egitto vd. F. OERTEL, Die Liturgie, pp. 211 sgg. e 432 sg. 20. DIG., 50, 6, 6, 3 sgg. (CALLISTR., de cognit., 1. I): negotiatores qui annonam urbis adiuvant, item navicularii, qui annonae urbis serviunt, immunitatem a muneribus publicis consequuntur, quamdiu in eiusmodi actu sunt, nam remuneranda pericula eorum quin etiam exhortanda praemiis merito placuit, ut qui peregre muneribus et quidem publicis cum periculo et labore fungantur a domesticis vexationibus et sumptibus liberentur: cum non sit alienum dicere etiam hos rei publicae causa, dum annonae urbis serviunt, abesse. Immunitati quae naviculariis praestatur, certa forma data est ecc. Nel sec. II, e neppure negli inizi del III, non si può parlare di asservimento o di completa stabilizzazione delle corporazioni, neppure di quelle dei proprietari di navi; tuttavia l’onere che gravava su di loro era duro, e diventava sempre più duro. Se i navicularii Arelatenses minacciavano di scioperare, ciò non vuol dire che gli scioperi fossero permessi o vieta-
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te è stato accennato che la cura speciale dimostrata da Settimio Severo per le corporazioni di mercanti e di battellieri probabilmente fu avvivata dalle loro frequenti lagnanze causate dal continuo uso che egli ne fece durante la guerra civile e nelle guerre orientali. I navicularii di Arelate, che probabilmente avevano trasportato uomini e materiali dalla Gallia in Oriente durante la seconda spedizione partica e il soggiorno di Severo e di Caracalla in Oriente, in una petizione del 201 d.C., copia della quale fu rinvenuta non molto tempo fa a Berytus, si lamentarono amaramente delle vessazioni ed esazioni cui erano sottoposti nel compiere il loro dovere verso lo Stato. È probabile che siano stati questi insistenti reclami, accompagnati da minacce di sciopero, ad indurre l’imperatore a rivedere e completare, e in qualche caso allargare, alcuni dei privilegi posseduti dalle corporazioni in parola, tra i quali importantissimo l’esenzione dagli oneri municipali21. Consimili privilegi, e particolarmente l’immunità dalle liturgie municipali, vennero concessi anche ad altri gruppi di uomini appartenenti alla popolazione urbana dell’Impero. I più importanti tra questi gruppi erano quelli degli appaltatori delle imposte e dei demanii pubblici, trattati gli uni e gli altri dalle leggi secondo le stesse norme. Infatti per lo Stato non v’era gran differenza tra questi due gruppi, che praticamente compivano lo stesso servizio pubbico, riscuotendo in nome dello Stato pagamenti ad esso dovuti. Nel capitolo precedente abbiamo spiegato l’importanza che gli appaltatori d’imposte nel secolo secondo e all’inizio del terzo avevano nella vita provinciale. Gli appaltatori dei dazi delle province danubiane e africane erano eminenti e influenti personaggi22. Ancor più influenti erano gli affittuari generali delle tenute imperiali, specialmente nelle province d’Asia e d’Africa e durante il regno di Severo, che confiscò ai suoi supposti nemici immense estensioni di terreno. Di questi conductores s’è parlato nel capitolo settimo. Le più antiche notizie sul loro ordinamento corporativo risalgono ai tempi dei Flavii e di Traiano. Adriano li protesse, e Marco Aurelio estese loro la fran-
ti: in realtà gli scioperi sono sempre l’ultima ratio di chi non ha altro mezzo. Ma il fatto dimostra che l’appartenere ai collegia naviculariorum non era ancora de iure obbligatorio o ereditario, anche se così può essere stato de facto. Non vedo come si possa parlare di responsabilità collettiva dei navicularii, sia nel primo sia nel Basso Impero: la responsabilità rimase sempre personale. Nell’evoluzione dei collegia naviculariorum non si può dire che ad una responsabilità collettiva si sia sostituita l’individuale (come avvenne nelle curie) o viceversa. L’evoluzione tendeva a far sì che il servizio prestato dal singolo navicularius allo Stato, servizio che dapprima nella vita della corporazione era stato d’importanza secondaria, acquistasse ognor maggiore prevalenza e diventasse quindi obbligatorio. Non posso ammettere che la corporazione fosse responsabile dell’operato dei suoi membri: ognuno di questi rispondeva per sé. La riunione in corporazioni traeva origine, per quanto concerne i membri, dal naturale desiderio di poter operare di conserva in momenti critici, e per ciò che concerne lo Stato, dal bisogno d’avere a disposizione comode liste di persone delle quali potersi fidare in caso di bisogno. Cf. E. GROAG, «Vierteljahrsschrift f. Sozial und Wirtschaftsg.», 2 (1904), pp. 483 sg. 21. Vd. cap. V, nota 22 e specialmente cap. VIII, nota 37. 22. Cap. VIII, nota 40.
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chigia dalle liturgie municipali. Questi privilegi furono loro conservati da Settimio Severo, come appare evidente dalla registrazione accurata che ne fa Callistrato23. Ma pur favorendo in tal guisa alcuni membri delle classi privilegiate i cui servizi erano indispensabili allo Stato, o meglio cercando di alleviare in qualche modo il peso che gravava loro sulle spalle, Severo non dimenticò mai gli interessi delle classi più umili e povere. È probabile ch’egli appunto abbia esteso ai piccoli affittuari delle tenute imperiali il privilegio dell’esenzione dalle liturgie municipali. Probabilmente fu indotto a far ciò dalle loro ripetute lagnanze contro i magistrati municipali e i funzionari governativi che li costringevano, sebbene non residenti nelle città, a partecipare agli oneri municipali. Nella petizione rinvenuta ad Aga-Bei in Lidia i contadini annettono la massima importanza a questo punto e minacciano uno sciopero generale sotto forma di ajnacwvrhsi~. In conformità alla sua politica generale, Settimio Severo accedé a queste domande ed esonerò i coloni dal peso delle liturgie municipali, pur riaffermando il diritto dello Stato a chiedere lavoro coattivo e l’adempimento degli altri munera che lo interessavano24. Un altro gruppo importante di popolazione municipale, esente dagli oneri municipali per la stessa ragione del servizio prestato in altra guisa allo Stato, era costituito dalle corporazioni che «compivano lavori manuali indispensabili per servizi di pubblica utilità» (DIG. 50, 6, 6, § 12). Tali erano in particolare la corporazione dei fabri e dei centonarii, che servivano da pompieri nelle città. Oggi è accertato che le opinioni espresse in un noto passo da Callistrato intorno a questi collegia rispecchiavano le idee di Settimio Severo, giacché a Solva nel Norico è stato trovato un rescritto di Severo e di Caracalla che contiene le stesse norme quasi con le stesse parole. Il principio fondamentale della politica di Severo verso i centonarii e i fabri è quello stesso che lo guidò nei rapporti coi mercanti e coi battellieri: egli concede a queste corporazioni l’esenzione dagli oneri municipali, ma insiste che questo privilegio non deve esser goduto da coloro che non adempiono effettivamente i doveri connessi con l’appartenenza alle corporazioni medesime. Per i membri più ricchi, che ciò non fanno, nessuna esenzione; ma il privilegio è conservato integralmente per gli umili, per i tenuiores, che effettiva-
23. Cap. VII, nota 74. DIG., 49, 14, 3, 6 (Callistrato, rescritto di Adriano) e 50, 6, 6, 10 (Callistrato, rescritto di Marco Aurelio). 24. DIG., 50, 6, 6, 10 (CALLISTR., de cognit., 1. I): coloni quoque Caesaris a muneribus liberantur, ut idoniores praediis fiscalibus haberentur; cf. il rescritto di Marco Aurelio e Lucio Vero, DIG., 50, 1, 38, 1: colonos praediorum fisci muneribus fungi sine damno fisci oportere, idque excutere praesidem adhibito procuratore oportere; mie Studien Gesch. Kol., p. 374, nota 1 con pp. 292 sg.; KEIL e VON PREMERSTEIN, Dritte Reise, pp. 42 sgg. Quanto grave fosse il peso delle liturgie municipali sui coloni risulta dalle parole seguenti della supplica di Aga-Bei, KEIL e VON PREMERSTEIN, Dritte Reise, p. 38, ll. 33 sgg.: kwlu`sai de; th;n eij~ ta; cwriva despotika; e[fodon kai; th;n eij~ hJma`~ ejnªovºclhsin geinomevnhn uJpov (te) tw`n kollhtiwvnwn kai; tw`n ejpi; profavsei ajrcw`n h] leitourgiw`n tou;~ uJ⁄metevrou~ ejnoclouvntwn kai; skullovntwn (sic) gewªrº⁄gouv~ ⁄ ktl.
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mente contribuivano ad estinguere gli incendi; e non è fissato alcun limite al numero di tali membri25. È evidente che tutte queste esenzioni, mentre facevano l’onere un poco meno pesante per alcuni e fino a un certo punto agevolavano le classi più povere, d’altra parte aggravavano la soma di coloro che erano lasciati a sopportare le liturgie municipali. Poiché le concessioni d’immunità in parte avvantaggiavano giusto i più ricchi, le liturgie ora pesavano ancor più gravemente sui proprietari agrari e sui piccoli industriali, appartenenti in complesso al medio ceto. È naturale ch’essi cercassero con vari ingegnosi espedienti di sottrarsi a questo carico, che distruggeva il loro benessere economico. Sotto quest’aspetto va considerata anche l’introduzione della vita municipale in Egitto. Sappiamo che nel 199 d.C. fu concesso ad Alessandria un consiglio municipale, ed è ragionevole supporre che la concessione a poco a poco sia stata estesa anche alle metropoleis del paese. Ciò significava che l’Egitto, dove del resto il sistema era indigeno, doveva sottostare alle liturgie come gli altri paesi dell’Impero. L’Egitto non ebbe adunque dalla riforma diritti nuovi, ma forse neppure nuovi pesi: la borghesia d’Egitto era abituata a sopportare la responsabilità per il resto della popolazione. Ma significava ad ogni modo riassestamento e riordinamento. Le liturgie imposte fin allora alla borghesia vennero ora gradatamente classificate, non senza qualche modificazione, e addossate nel loro complesso alle spalle degli infelici membri dei nuovi consigli municipali26. Gli stessi motivi spiegano il desiderio dell’imperatore di eguagliare in alcune città dell’Asia Minore, come Prusias, i pesi tra la popolazione rurale e quella di città, tra i cittadini di pieno diritto e quelli di seconda classe. La popolazione rurale d’allora in poi dovette sopportare la sua parte, non soltanto di lavoro coattivo, di imposte, di pagamenti straordinari, ma anche di quella responsabilità che prima spettava soltanto ai cittadini di pieno diritto27.
25. DIG., 50, 6, 6, 12, specialmente la fine del paragrafo: sed ne quidem eos qui augeant facultates et munera civitatium sustinere possunt, privilegiis, quae tenuioribus per collegia distributis concessa sunt, uti posse plurifariam constitutum est. In questo passo Callistrato pensa certamente a documenti simili al rescritto di Settimio Severo e Caracalla in favore della città di Solva (vd. cap. VIII, nota 41); cf. specialmente le seguenti parole di questo rescritto: ii quos dicis diviti(i)s suis sine onere [uti publica subire m]unera compellantur e alioquin [tenuiores perfr]uantur vacatione quae non competit beneficiis coll(egiorum) derogari. 26. Vd. gli scritti di P. JOUGUET e d’altri citati nel cap. VII, nota 49. Su questo problema hanno gettato nuova luce l’indagine del HASEBROEK, op. cit., pp. 118 sgg., e il P. S. I., 683, dal quale risulta che Settimio Severo visitò l’Egitto non nel 202, ma nel 199200, e che perciò la concessione della boulhv ad Alessandria può essere dello stesso anno; cf. U. WILCKEN, «Zeitschr. d. Savigny-Stif.», 1921, p. 138, nota 2, e «Arch. f. Pap.-F.», 7 (1924), p. 85, cf. ibid., 9 (1928), pp. 21 sg. e p. 83. Il frammento di documento da poco rinvenuto in Egitto e pubblicato da H.B. VAN HOESEN e A.CH. JOHNSON, «Journ. of Eg. Arch.», 12 (1926), pp. 118 sgg., non appartiene ai primordi del sec. III, sibbene a quelli del sec. IV d.C., vd. U. WILCKEN, «Arch. f. Pap.-F.», 8 (1927), p. 314. 27. Cap. VII, nota 3.
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1. «Speculator» in viaggio ufficiale d’ispezione
2. Soldato d’ispezione
3. Carro d’appovvigionamento, guidato da un soldato
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DESCRIZIONE DELLA
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1. STELE FUNERARIA FRAMMENTARIA. Rinvenuta a Costolaz (Moesia superior). Museo di Belgrado. Iscrizione: D(is) M(anibus) L. Blassius Nigellio specula(tor) leg(ionis) VII Cl(audiae) vixit ann(is) XXV, C. I. L. III,1650, cf. p. 1021; DESSAU, I. L. S., 2378. Sui bassorilievi vd. il mio articolo nelle «Röm. Mitt.», 26 (1911), pp. 268 sgg. Qui si riproduce soltanto la parte superiore della stele. La faccia scolpita della stele rappresenta un’aedicula a due piani. Il frontone, ornato d’una testa di Medusa e da due genii, è sorretta da due colonne che formano il piano superiore dell’aedicula e sono separate dal piano inferiore, contenente l’iscrizione, mediante un fregio che raffigura due cani alla caccia di una volpe e di un orso. Dentro l’aedicula si vede un carro a quattro ruote tirato da tre cavalli, con un conducente a cassetta, un viaggiatore seduto su una panca, con nella mano destra un corto bastone o un rotolo, e dietro a lui un servo seduto sui bagagli recante una lunga lancia provvista di una particolare punta: l’insigne dello speculator. Senza dubbio il defunto è raffigurato mentre viaggia per ragioni d’ufficio servendosi d’una vettura e di cavalli requisiti dal governo per il suo servizio postale (cursus publicus). Intorno agli speculatores e alle loro insignia, vd. il cap. XI, nota 17; intorno al tipo dei rilievi funerari con scene di viaggio, tav. XXXIII, 3. 2. STELE FUNERARIA. Trovata a Carnuntum. Museo di Deutsch Altenburg. Iscrizione: C. Attius C. f. Voturia Exoratus miles leg(ionis) XV Apollinaris anno(rum) XXXXIV stipend(iorum) XXIIII h(ic) s(itus) e(st). M. Minucius et Sucesus l(iberti) posierunt. E. BORMANN, Oesterr. Limes, XII, pp. 318 sgg., figg. 37, 38; A. SCHOBER, Die römischen Grabsteine von Noricum und Pannonien (1923), p. 50, n. 105, fig. 45. Cf. p. 279 con la nota 70. Un soldato in divisa militare ma senz’armi, con un breve bastone nella destra, guida un carro tirato da una coppia di buoi e condotto da un contadino armato di scure. Tien dietro al carro un cane. Come è detto nel testo, la scena raffigura un’angareia eseguita da un contadino col suo carro, probabilmente allo scopo di far legna nella foresta. Intorno alle angareiae vd. il cap. VIII, note 34-6, e specialmente il testo di EPITTETO citato alla nota 36. Cf. il bassorilievo d’un beneficiarius di Intercisa nell’«Arch. Ertesitö», 1905, p. 230, n. 11. 3. FRAMMENTO DI STELE FUNERARIA. Trovato a Strasburgo (Argentoratum). Museo di Strasburgo. R. HENNING, Denkmäler der elsässischen Altertumssammlung, tav. L, 3, p. 53; Germania Romana (Atlante), 1a ediz., tav. XXXIV, 6; E. ESPÉRANDIEU, Rec. gén., VII, n. 5499. L’iscrizione frammentaria è data nel C. I. L. Xlll, 11630. Su una strada alberata un soldato, con la spada sotto braccio, guida un carro a quattro ruote tirato da due muli. Il carro sembra carico di vettovoglie. Il rilievo rappresenta l’approvvigionamento di un forte, fatto da un soldato con robe prese dalla campagna vicina.
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I provvedimenti radicali e spietati di Settimio possono attribuirsi allo stato disperato delle finanze imperiali, causato dalle stravaganze di Commodo e dalla successiva guerra civile, cui tennero dietro gravi e dispendiose guerre esterne. Il regno di Settimio Severo infatti fu tutt’altro che pacifico: dei suoi diciotto anni non più di sei andarono immuni da guerre. Senza dubbio con i suoi spietati provvedimenti egli accumulò in sue mani un’immensa fortuna, specialmente di terreni, che fu ordinata in nuova branca dell’amministrazione, la ratio privata, e riempì lo stremato tesoro dello Stato romano. Ma è certo anche che così facendo egli mirava soprattutto a fare il proprio interesse e a soddisfare la sua personale ambizione. Il denaro accumulato con le confische e con le contribuzioni veniva poi scialacquato in munificenze ai soldati e alla plebaglia di Roma per acquistarsene il favore. Le finanze dello Stato furono restaurate, ma a spese del popolo. Non vi è la minima ragione per affermare che sotto Settimio Severo l’Impero sia stato felice e prospero. Le province, – salvo l’Africa che non fu tocca dalla guerra civile nella stessa misura del rimanente dell’Impero, le province danubiane, da cui l’imperatore traeva i suoi principali sostenitori, e la Siria, che godeva la protezione speciale di Giulia Domna – e così pure l’Italia erano tutt’altro che fiorenti. Durante e dopo la guerra civile l’Impero fu pieno di gente senza tetto molestata e perseguitata dagli agenti della polizia imperiale, dai frumentarii e dagli stationarii. Questi disgraziati, spinti alla disperazione, formavano bande di predoni e devastavano il paese. Ci si racconta che una banda di briganti sotto gli ordini di un tal Bulla fu per anni il terrore dell’Italia, e che fu necessaria una spedizione militare per disperdere costui e i suoi partigiani: altre notizie sporadiche sembrano attestare che condizioni consimili prevalevano anche in Germania e in alcune altre province28. Non è difficile scorgere le cause del crescere del brigantaggio, specialmente nelle province ch’erano state colpite dalla guerra civile o che si trovavano vicine ai teatri delle guerre esterne. Le confische di proprietà agrarie, operate in massa, sconquassavano in grado notevole la vita economica. Capitale e iniziativa privata vennero infatti in tal guisa tolti a grandi e prospere aziende, e sostituiti da un nuovo sistema di gestione quanto mai burocratico e senza vita. Migliaia di persone, colpevoli o innocenti, spaventate dalle persecuzioni poli-
28. I dati sono raccolti al completo dal HASEBROEK, op. cit., p. 102 sgg. Non occorre ch’io enumeri qui ancora una volta i documenti. M. PLATNAUER, op. cit., p. 205, ha riunito soltanto una parte dei dati e cerca di scemarne l’importanza. Desidererei richiamare l’attenzione del lettore su un’espressione di Tertulliano, ad Scap., 5: parce provinciae, quae visa intentione tua obnoxia facta est concussionibus et militum et inimicorum suorum cuiusque. Le persecuzioni contro i Cristiani misero in mostra la stessa violenza e la stessa corruzione. Il brigantaggio era endemico in certi distretti dell’Impero anche in periodi normali: si veda il «praefectus arcendis latrociniis» in col. Iulia Equestris Noviodunum (Nyon); un funzionario municipale (C. Lucconius Tetricus), evidentemente in carica di reprimere il brigantaggio sulle montagne del Giura (CIL XIII, 5010=Dessau 7007). Il fenomeno era iniziato sotto Commodo, vedi sopra pp. 581 e 607, sulla rivolta di Materno e sul suo successo (Gallia e Siria) e sulla rivolta dei soldati britannici. Su Maternus cf. GRÉNIER in T. FRANK, An Economic Survey of Ancient Rome, III, Baltimore, 1937, p. 564.
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tiche fuggirono dalle loro case. Ma il male peggiore era il numero straordinario degli agenti governativi, per lo più soldati incaricati di missioni poliziesche – i frumentarii, gli stationarii, i colletiones – i quali al fine di rintracciare «delinquenti» politici entravano in tutte le città e i villaggi, perquisivano le case private, ed erano tutt’altro che inaccessibili alle mance. Ancor più gravi erano le esazioni che questi medesimi agenti compivano in occasione delle frequenti spedizioni militari dell’imperatore. In tempo di guerra civile al popolo non si usava il minimo riguardo: si levavano in massa e coattivamente nuove reclute; si requisivano per gli eserciti in marcia i mezzi di trasporto e gli uomini; il popolo doveva ancora fornire viveri e materiali e dare alloggio nelle proprie case a ufficiali e soldati. Le iscrizioni menzionano persone eminenti cui era affidata la cassa di guerra, vale a dire che avevano l’ufficio di levare dalle città e dai singoli contribuzioni in denaro e materiali di guerra. Naturalmente costoro non potevano esercitare le loro funzioni senza l’aiuto d’una massa di funzionari minori e di soldati, che si precipitavano sulle città e villaggi come sciami di locuste, divorandone le sostanze e terrorizzando ed esasperando tutte le classi della popolazione29. Altro indice caratteristico di questo periodo fu il gran numero di disertori militari. Abbiamo notato lo stesso fenomeno ai tempi di Commodo, che dovette mandare in Gallia Settimio Severo per distruggervi queste bande di fuggiaschi. Evidentemente le cose non migliorarono durante la guerra civile, come risulta dalla collezione di norme su questa materia che contiene il Digesto. La maggior parte di queste norme furono raccolte e illustrate da giuristi dell’età dei Severi, e specialmente da Arrio Menandro, membro del Consiglio della corona sotto Severo e Caracalla: ciò dimostra l’ampiezza del male, che turbò gravemente l’Impero dalla fine del secondo secolo alla fine del terzo. Naturalmente (come abbiamo già rilevato nel quarto capitolo) il reclutamento, specialmente in tempo di guerra, era ora quasi completamente coattivo, e questa leva forzata in mezzo alle condizioni della guerra civile veniva riguardata come un peso troppo grave sia dai cittadini sia dai contadini. Un’iscrizione di Lidia, ch’è il primo documento che attesti la leva coattiva come un congegno regolare del meccanismo statale, deve assegnarsi con ogni probabilità al regno di uno dei Severi, o Caracalla o Eliogabalo o Alessandro30.
29. Uno dei più attivi funzionari di Settimio Severo in materia di esazioni militari fu M. Rossio Vitulo, cui si riferisce un’epigrafe trovata non ha guari a Bulla Regia, I. L. A., 455. Costui percorse una brillante carriera militare e fu due volte praepositus – o procurator – annonae expeditionis, una volta durante la marcia di Settimio Severo su Roma, un’altra durante la guerra contro Albino; cf. J. HASEBROEK, op. cit., p. 29, nota 5. Durante la «marcia su Roma» Vitulo fu primo capo degli approvvigionamenti e più tardi cassiere capo (procurator arcae expeditionalis), cioè estorse alle città e al popolo d’Italia prima vettovaglie e poi denaro. 30. DIG., 49, 16, 2 e 4-6, de re militari, specialmente 4, 9-13, e 5 (Arrio Menandro de re militari, età di Settimio Severo); cf. il trattato de re militari di Emilio Macro, contemporaneo di Caracalla e di Alessandro, DIG., 49, 16, 12 sg. Le altre citazioni sotto il titolo de re militari derivano da Elio Marciano (inizi del sec. III d.C.), Papiniano, Paolo,
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Abbiamo precedentemente illustrato le relazioni di Settimio con le classi inferiori della popolazione, valendoci di alcune iscrizioni recentemente scoperte, contenenti petizioni inviate all’imperatore da contadini della Lidia. Costoro avevano fede nella benevolenza e nella compassione dell’imperatore, ma erano pieni di odio verso gli agenti inferiori del potere imperiale, i colletiones, i frumentarii, gli stationarii. La gravità e il tono delle lagnanze sono gli stessi in tutti i documenti. «[Quando questi uomini» – è detto in una petizione – «appaiono nei villaggi […] non vi fanno niente di bene, anzi tormentano il villaggio con insopportabili requisizioni di beni e con multe, sicché, esaurito dalle spese immense sopportate a motivo di questi visitatori e dei colletiones, esso ha dovuto cedere perfino il bagno pubblico ed è rimasto privo dei necessari mezzi di sussistenza». Altre petizioni denunziano le illegalità e le brutalità commesse dagli stessi agenti arrestando, imprigionando, perfino uccidendo persone ragguardevoli del villaggio che non potevano o non volevano unger loro le ruote. Se consideriamo quanto fossero severe le norme circa l’esecuzione personale, che la legge prescriveva e ch’erano ampiamente applicate, specialmente allorché si trattava di humiliores, vale a dire di nullatenenti, possiamo capire le sofferenze e il malcontento dei contadini. Nella meglio conservata tra queste petizioni i contadini del villaggio (il moderno Aga-Bei) dicono: «Supplichevoli ci rivolgiamo alla vostra divina e sublime maestà, sacratissimi tra tutti gli imperatori, poiché ci è impedito di attendere ai lavori della terra dai colletiones e dai loro rappresentanti, che minacciano di morte anche noi, che siamo ancora rimasti vivi, e poiché noi, dato l’impedimento frapposto al nostro lavoro agricolo, non possiamo d’or innanzi pagare ciò che è dovuto all’imperatore ed eseguire le ordinanze, vi preghiamo di garantire graziosamente la nostra supplica ecc.»31.
Ulpiano, Erennio Modestino. Molti dei briganti (latrones), che sotto Settimio Severo e posteriormente devastarono l’Italia e le province, erano probabilmente disertori; cf. specialmente la campagna di alcuni reparti dell’esercito di Germania adversus defectores et rebelles, C. I. L. III, 10471-3; DESSAU, I. L. S., 1153 (trovata ad Aquincum). L’iscrizione di Lidia è del seguente tenore: ∆Agaqh`/ Tuvch/ ⁄ ejpi; prutavnew~ L. Sept(imivou) Aujr(hlivou) ⁄ ∆Acilleivdh ne(wtevrou) mh(no;~) eæ Aujr(hvlio~) ÔErmovlao~ ⁄ ÔRoustivkou e[dwken uJpe;r ajrch`~ ⁄ logisteiva~ kaqw;~ e[doxe toi`~ ⁄ kwmhvtai~ (dhnavria) diakovs ia penthvkonta eij~ th;n tw`n teirwvnwn suntevleian. Non posso far a meno di assegnare l’iscrizione al periodo immediatamente successivo al 212; cf. il mio articolo nel «J. R. S.», 8 (1918), pp. 26 sgg. 31. KEIL e PREMERSTEIN, Dritte Reise, n. 9, p. 11, ll. 16 sgg.: ajgaqou` me;n oujdeno;~ geinovmenoi ai[t⁄ioi, ajnupoivstoi~ de; fortivoi~ k(ai;) zhmiwvma⁄sin ejnseivonte~ th;n kwvmhn wJ~ sumbaiv⁄nein ejxanaloumevnhn aujth;n eij~ ta; a[me⁄tra dapanhvmata tw`n ejpiªdhºmouvntwn k(ai;) eªij~ tºo; plh`qo~ tw`n kollhtiwvnwn aj⁄poªsterei`sqºaªiº me;n loutrou` diæajporivan, ⁄ ajposterei`sªqºe ªde; k(ai;) tw`n pro;~ to;n bivºon ajªnºankevªwºn ktl. Ibid. n. 55 p. 38, ll. 21 sgg.: iJkevtai de; th`~ uJmetev⁄ra~ geinovmeqa, qeiovtatoi tw`n pwvpote aujtokra⁄ªtºovrwn, qeiva~ kai; ajnuperblhvtou basileiva~, kai; ⁄ ªtoºi`~ th`~ gewrgiva~ kamavtoi~ prosevcein kekwlu⁄ªmºevnoi tw`n kollhtiwvnwn kai; tw`n ajntikaqestwv⁄twn ajpeilouvntwn kai; hJmei`n toi`~ kataleipomev⁄noi~ to;n peri; yuch`~ kivndunon kai; mh; dunamevnoiã~à ⁄ ejk tou` kwluvesqai th;n gh`n ejrgavzesqai mhde; tai`~ de⁄ªsºpotikai`~ ejpakouvein ajpoforai`~ kai; yhvfoi~ pro;~ ⁄ ªtºa; eJxh`~, kai; deovmeqa
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Sintomo inquietante della cattiva situazione finanziaria dell’Impero era il peggioramento della valuta. Sin dai tempi di Nerone l’argento, di cui si coniava la moneta più usata nella circolazione, cioè il denaro e le sue frazioni, aveva subìto una lenta ma sempre crescente aggiunta di rame. Questo processo era dovuto a cause svariate: l’esportazione delle monete d’argento per effetto del commercio con l’estero – si pensi ai trovamenti fatti nell’India, in Germania, nella Russia meridionale –, il graduale esaurimento d’una serie di miniere d’argento senza che si trovasse da sostituirle, lo sperpero di denaro compiuto da alcuni imperatori e non coperto dalle entrate regolari dello Stato. Tuttavia, finché lo Stato godette credito e gli affari prosperarono, il fatto era ben lungi dal costituire un pericolo. Ma già sotto Settimio Severo il denaro, composto ormai solo a metà d’argento, non era più la moneta di un tempo. È ovvia la ragione del deprezzamento: esso si dovette alle difficili guerre di Marco Aurelio e alle guerre civili dei primi anni di Severo, e alla conseguente instabilità della vita economica. L’oro e l’argento vennero nascosti e scomparvero dalla circolazione: a ciò deve attribuirsi il rinvenimento di tesori di monete appartenenti alla fine del sec. II d.C. Il prodotto delle miniere non bastava a coprire l’ammanco. Da ciò la pressione esercitata sulla popolazione con la richiesta di pagamenti in natura, causata a sua volta dall’aumento dei prezzi e da altri fatti consimili31a.
eujmenh` (sic) uJma`~ prosevsqai th;n devhsin hJmw`n klt. Sui colletiones, che compaiono soltanto nelle iscrizioni lidiche e nel P. Oxy., 1100, del 206 d.C., vd. KEIL e PREMERSTEIN, op. cit., pp. 43 sgg.; M. ROSTOVTZEFF, «J. R. S.», 8 (1918), p. 33; A. GARRONI «Rendic. Lincei», 25 (1916), pp. 66 sgg. I più malefici erano i funzionari di polizia; e nell’atmosfera d’illegalità creata dalla guerra civile e dalla politica di Settimio Severo probabilmente riusciva difficile allo stesso imperatore – a tacere dei procuratori e governatori delle province – por freno a quei soprusi. Circa l’esecuzione personale in collegamento con la cessio bonorum vd. F. VON WOESS, Personalexecution und cessio bonorum im röm. Recht, «Zeitschr d. Savigny-Stif.», 43 (1922), pp. 485 sgg. (Cf. cap. VIII, nota 42). Naturalmente i soprusi dei funzionari di polizia non incominciarono in Egitto soltanto con Settimio Severo, né questi fu l’imperatore che per primo introdusse per essi nuovi nomi, vd. EPICT., III, 24, 117: a[n dæ a{pax peripoihvsh/ to; a[lupon kai; a[fobon, e[ti soi tuvranno~ e[stai ti~ h] dorufovro~ h] Kaisarianoi; h] ojrdinativwn dhvxetaiv se h] oiJ ejpiquvonte~ ejn tw`/ Kapitolivw/ ejpi; toi`~ ojptikivoi~ (ojfrikivoi~?) to;n thlikauvthn ajrch;n para; tou` Dio;~ eijlhfovta; Il termine di ojrdinativwn è certamente del gergo provinciale, derivato però dal latino ordinatio (oppure ordinatus), come kollhtivwn probabilmente da collatio. Gli stessi metodi venivano messi in opera dalla polizia municipale nei villaggi appartenenti al territorio d’una città. In un’epigrafe d’un villaggio del territorio di Hierapolis (J.G.C. ANDERSON, «J. H. S.», 17 (1897), p. 411, n. 14; DITTENBERGER, O. G. I. S., 527) la città si adopera per frenare le esazioni illegali dei suoi stessi parafuvlake~, da essa inviati nei villaggi sottoposti. Quest’epigrafe appartiene probabilmente al sec. II d.C.: indubbiamente però nell’atmosfera del sec. III la condotta dei poliziotti nei villaggi non sarà diventata migliore. Intorno alla polizia municipale vd. O. HIRSCHFELD, Die Sicherheitspolizei im röm. Kaiserreiche, nelle sue Kl. Schr. (1913), pp. 605 sgg. Cf. cap. IX, nota 44 e cap. XI, nota 54. 31a. Circa i prezzi vd. la bibliografia del cap. XI, nota 3. Sulla moneta romana in generale vd. la bibliografia del cap. V, note 46 e 47 e del cap XI, nota 2. Cf. E.A.
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Non possiamo dunque parlare dell’età di Severo come d’un periodo di pace e di prosperità. Non vi fu pace, quindi neppure prosperità. Le cose andarono un po’ meglio negli ultimi sei anni del suo regno, nonostante la guerra coloniale di Britannia. L’imperatore invecchiando sentì affievolirsi la sua feroce energia e trovò un modus vivendi col Senato, ch’era stato terrorizzato dalle selvagge esecuzioni dei primi anni; le condizioni economiche divennero un po’ migliori e la popolazione poté allietarsi almeno d’un po’ di respiro. Questi sentimenti e la benevolenza dimostrata da Severo verso i soldati e i ceti inferiori procurarono a lui e ai suoi figli popolarità tra le masse, esauste dai lunghi anni di guerra civile ed esterna. Ma le classi dirigenti, l’aristocrazia cittadina d’Italia e delle province, non si riconciliarono col nuovo regime militaristico e autocratico, e nei pochi anni di pace ad esse concessi la loro opposizione si fece sempre più vigorosa. Ognuno sentiva che non era ancora terminata la lotta tra la monarchia militare e il governo illuminato degli Antonini: la borghesia cittadina era troppo potente per rinunziare alla sua posizione e al suo predominio senz’altra resistenza. Caracalla, figlio maggiore di Severo, fatto già dal padre suo compagno e socio, educato da lui e dalla madre a condividere le aspirazioni paterne, e vissuto fin dalla fanciullezza tra i membri della più alta aristocrazia di Roma, sentì appieno quanto insopportabili fossero le idee e i propositi del padre alle classi colte dell’Impero. Fin dai primi inizi del suo governo egli si mostrò risolutamente deciso a proseguire la politica paterna e a non fare concessioni alle classi elevate. La lotta tra lui e suo fratello Geta, svoltasi nei primi mesi del loro governo comune, servì ottimamente a mettere alla prova la devozione del Senato e dei suoi aderenti: infatti, sebbene il Senato sapesse benissimo che Geta era della stessa stoffa del fratello, la maggior parte delle persone più cospicue lo spalleggiarono nella lotta, mostrandosi apertamente ostili a
SYDENHAM, «Num. Chron.», 18 (1918), pp. 182 sgg.; 19 (1919), pp. 114 sgg. e pp. 168 sgg. Si dànno spiegazioni diverse della graduale svalutazione della moneta avveratasi nel III secolo: H. DELBRUECK, Gesch. der Kriegskunst, II, 19213, p. 223, l’attribuisce all’esaurimento delle miniere d’argento; K. REGLING, Münzkunde, in GERKE e NORDEN, Einleitung, II, 19223, p. 110 e altri con lui mettono in rilievo i «sussidi» pagati ad «alleati» esteri e il commercio esterno. [Cf. A. SEGRÉ, Circolazione e inflazione nel mondo antico, «Historia», 3 (1929), pp. 369 sgg.; e F. HEICHELHEIM, Zum Ablauf der Währungskrise des röm. Imperiums im 3 Jahrh. n. Chr., «Klio», 26 (in corso di stampa) (IDEM in «Schmollers Jahrb. f. Gesetzg. etc.», 55 (1931), p. 760). Interessante è un papiro del III sec. d.C., P. Giss. Univ. Bibl., 22 – denaro mandato in grandi quantità in Cnidia?]. Per me tutti questi motivi sono soltanto secondari, senza importanza decisiva. A mio giudizio la causa fondamentale del fatto risiedeva nella mancanza di sicurezza e nel disordine della vita economica in generale, che procedeva di pari passo con l’aumento delle spese, reso necessario dal mantenimento e dalla corruzione dell’esercito, dalle guerre esterne, dalla burocrazia. Gli imperatori avevano urgente bisogno di denaro, mentre la popolazione lo nascondeva e lo faceva sparire dalla circolazione. Da tutto ciò risultò quel fatto di economia monetaria, che nell’antichità corrisponde all’inflazione dei tempi moderni: cioè il graduale e sistematico peggioramento della moneta. Per le miniere vd. cap. VII, note 85 e 86.
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Caracalla. Ne seguì la proditoria uccisione di Geta e la politica del terrore che tanto a Roma quanto nelle province fece rivivere i peggiori giorni di Severo32. Abbiamo dati sufficienti per poterci formare un sicuro giudizio sui principii politici di Caracalla. È vero che le esposizioni particolareggiate, che possediamo, non sono imparziali. Il contemporaneo Cassio Dione, membro autorevole della classe senatoria, Erodiano, altro contemporaneo appartenente al gruppo degli intellettuali greci, probabilmente funzionario imperiale, e finalmente uno storiografo d’origine romana che fu la fonte principale dei cosidetti Scriptores Historiae Augustae per la biografia di Caracalla, rappresentano essenzialmente le vedute delle classi superiori e colte dell’Impero, ch’erano assolutamente ostili all’imperatore e lo consideravano il peggiore tiranno della storia romana33. È indubitabile tuttavia che né Dione, né Erodiano, né l’incognito senatore romano hanno inventato i fatti, e ch’essi rispecchiano fedelmente l’opinione che prevaleva tra gli abitanti meglio informati e più intelligenti dell’Impero. L’ostilità di questi uomini contro Caracalla e già di per sé un fatto significante, del quale va tenuto il debito conto come fatto storico. E le nostre fonti ci permettono di scorgere con chiarezza le cause di siffatta ostilità.
32. Non possediamo alcuna buona monografia su Caracalla. Gli scritti di O.TH. SCHULZ, Der röm. Kaiser Caracalla (1909), Beiträge zur Kritik unserer literarischen Ueberlieferung für die Zeit von Commodus’ Sturze bis auf den Tod des M. Aurelius Antoninus (Caracalla) (1903), e Das Kaiserhaus der Antonine und der letzte Historiker Roms (1907), si fondano soltanto sui dati letterari; [cf. W. REUSCH, Der historische Wert der Caracallavita in den Scriptores Historiae Augustae, «Klio», Suppl. 24, 1931]. Di tutti gli imperatori «siriaci» si occupa, sotto l’aspetto dei loro rapporti con la Chiesa cristiana, K. BIHLMEYER, Die «syrischen» Kaiser zu Rom (211-235) und das Christentum (1916). 33. Non posso qui trattare la questione, oggetto di tante indagini, relativa alle fonti, all’origine e al carattere della nota collezione di biografie d’imperatori romani, che va sotto il nome di Scriptores Historiae Augustae (vd. cap. X). Quali che siano stati gli autori o l’autore di queste biografie, e quale che sia l’età cui essi o egli appartengano è certo che nelle vite più antiche (fatta eccezione di quelle di second’ordine, le cosidette vite secondarie, che sono notoriamente una tarda compilazione) è adoperata un’opera storica degli inizi del sec. III, scritta in latino. Si disputa se quest’opera s’interrompesse alla vita di Settimio Severo oppure comprendesse anche il periodo successivo fino ad Alessandro. Io inclino ad ammettere che alcune parti della biografia di Caracalla e del gruppo di biografie di Macrino, Eliogabalo e Alessandro risalgano alla narrazione di quest’ultimo «grande» storico dell’Impero romano oppure ad una fonte affine del sec. III d.C. Tuttavia presso gli studiosi moderni sembra prevalere l’opinione opposta: vd. la rassegna fatta da A. VON DOMASZEWSKI, Die Topographie Roms bei den Scr. Hist. Aug., «Sitzb. Heidelb. Akad.», 1916, Abh. 7, pp. 4 sgg., e cf. le monografie di O.TH. SCHULZ, citate nella nota precedente, K. HOENN, Quellenuntersuchungen zu den Viten des Heliogabalus und des Severus Alexander (1911), W. THIELE, De Severo Alexandro imperatore (1909). Cf. tuttavia l’accurata monografia di A. JARDÉ, Études critiques sur la vie et le règne de Sévère Alexandre (1925), specialmente p. 109. Per Erodiano vd. E. BAAZ, De Herodiani fontibus et auctoritate (1909); E. SOMMERFELDT, «Philologus», 73 (1915-16), pp. 568 sgg.; A.G. ROOS, «J. R. S.», 5 (1915), pp. 191 sgg.; intorno ai rapporti tra Cassio Dione, Erodiano, Dessippo da un lato, e gli Scr.. Hist. Aug. dall’altro, A. JARDÉ, op. cit., pp. 95 sgg.
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Nella sua politica Caracalla affermò chiaramente e francamente, più francamente del padre, d’esser deciso a fondare il suo potere non sulle classi elevate – la borghesia cittadina e l’aristocrazia italica – ma sulle classi inferiori e sui soldati che le rappresentavano. È noto ch’egli favorì appunto i soldati e volle apparire uno di essi, a non parlare degli aumenti di soldo e di pensioni e dei donativi straordinari loro profusi. Ciò potrebbe spiegarsi col desiderio di comperare la fedeltà e l’appoggio dei soldati dopo l’uccisione di Geta. Ma più di una volta Caracalla fece aperta mostra del più grande disprezzo e della più risoluta ostilità verso le classi possidenti e intellettuali: Dione è esplicito su questo punto, e le sue affermazioni s’accordano benissimo con la notoria tendenza di Caracalla ad uguagliarsi ai più umili soldati. Né possiamo negar fede all’autenticità di uno dei suoi motti prediletti, così riferito da Dione: – «Nessun altro all’infuori di me deve possedere denaro; ed io debbo possederlo per darlo ai soldati». La condotta e la politica di Caracalla sono in perfetto accordo con queste parole34. Per comperare il favore dei soldati Caracalla aveva bisogno di somme immense. Il fondo accumulato da Settimio Severo fu presto dissipato: per riempire il tesoro l’imperatore fu allora costretto a ricorrere a provvedimenti straordinari. Dione enumera integralmente le fonti delle entrate dell’imperatore, che derivavano in prima linea dal sistematico drenaggio della ricchezza delle classi abbienti. L’imposta sulla terra e la capitazione – cioè le imposte principali pagate dalle classi lavoratrici – non furono aumentate; fu invece ripetutamente accresciuta l’imposta della corona (aurum coronarium), imposta supplementare sul reddito, che colpiva principalmente i ricchi. Le contribuzioni in natura erano un onere grave; e sebbene tutti fossero tenuti ad esse, giacché servivano per il sostentamento delle truppe, i contribuenti principali erano però i grandi proprietari, che avevano sempre nei loro magazzini grandi quantità di derrate, mentre i contadini in realtà non avevano avanzi. Dione mette in rilievo il fatto che queste contribuzioni non erano pagate, e che anzi non di rado i ricchi dovevano essi stessi comperare i generi ch’erano costretti a consegnare. Finalmente, copiosa fonte di redditi erano i donativi estorti coattivamente tanto da ricchi privati quanto dalle città, che costituivano un pesante quanto arbitrario prele-
34. DIO CASS., 77, 10, 4 (ed. Boissevain, vol. III, p. 383): kai; ga;r e[lege pollavki~ o{ti «oujdevna ajnqrwvpwn plh;n ejmou` ajrguvrion e[c v ein dei`, i{na aujto; toi`~ stratiwvtai~ carivzomai». kai; pote th`~ ∆Iouliva~ ejpitimhsavsh~ aujtw`/ o{ti polla; ej~ aujtou;~ ajnhvliske, kai; eijpouvsh~ «oujkevqæ hJmi`n ou[te divkaio~ ou[tæ a[diko~ povro~ uJpoleivpetai» ajpekrivnato, to; xivfo~ deivxa~, o{ti «qavrsei, mh`ter: e{w~ ga;r a]n tou`to e[cwmen, oujde;n hJma`~ ejpileivyei crhvmata». Intorno all’atteggiamento di Caracalla verso la coltura e le classi colte vd. DIO CASS., 78, 11, 2-3. Circa la sua inclinazione ad atteggiarsi a semplice soldato vd. HERODIAN., IV, 7, 6: kai; pavntwn me;n tw`n polutelw`n ajpeivceto: o{sa de; eujtelevstata kai; toi`~ penestavtoi~ tw`n stratiwtw`n eujmarh`, touvtoi~ ejcrh`to:sustratiwvth~ te uJpæ aujtw`n ma`llon h] basileu;~ kalouvmeno~ prosepoiei`to. Intorno alle spese enormi per il soldo e i praemia ai soldati, DIO CASS., 78, 24, 1 (ed. Boissevain, vol. III, p. 402); A. VON DOMASZEWSKI, «Neue Heidelb. Jahrb.», 10, p. 236, e «Rh. Mus.», 58 (1903), p. 223; e specialmente l’epigrafe di Vario Marcello, DESSAU, I. L. S., 478.
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vamento sul capitale, molto simile ad una volgare rapina. Le sole imposte regolari aumentate (e propriamente raddoppiate) furono quelle sulle eredità e sulle manomissioni, sempre strettamente collegate tra loro. È ovvio che anche queste tasse venivano pagate principalmente dalle classi agiate35. L’ostilità reciproca esistente tra Caracalla e le classi superiori delle città è illustrata nella maniera più evidente dalla storia terribile quanto misteriosa delle stragi che vennero perpetrate ad Alessandria prima della spedizione partica dell’imperatore. Senza alcun pretesto Caracalla fece massacrare proditoriamente e segretamente tutta la gioventù alessandrina, e completò l’opera di sterminio con uccisioni in massa compiute nelle case ov’erano acquartierati i soldati e gli ufficiali. Le nostre fonti non dànno alcuna spiegazione di queste violenze, né si può certamente credere che Caracalla le abbia commesse soltanto perché offeso dagli scherni urlatigli in viso dagli Alessandrini, certamente malcontenti per l’onere crescente delle prestazioni reali coattive e delle liturgie municipali. Io sono indotto a pensare che i preparativi della spedizione partica siano stati fatti principalmente a spese dell’Egitto. Con Antiochia, per esempio, Caracalla si comportò da protettore e benefattore, non da carnefice; anche la Siria, provincia nativa dell’imperatrice madre, fu risparmiata, e tutti i pesi vennero addossati all’Egitto: è naturale che questo, e specialmente Alessandria, fosse molto malcontento di siffatto trattamento. Un’altra spiegazione è quella di P. MEYER, Papyrus Beiträge zur römischen Kaisergeschichte, «Klio», 7 (1907), pp. 125 sgg.; vd. J.G. MILNE, A History of Egypt under Roman Rule, 19243. È probabilis-
simo, quindi, che questa città nutrisse verso l’imperatore sentimenti tutt’altro che amichevoli: probabilmente proprio in questo periodo i cosidetti «Atti dei martiri pagani» vennero riuniti in un libello che circolò per tutto l’Egitto. È possibile che prima dell’arrivo di Caracalla fossero sorti ad Alessandria dei disordini o una rivolta, nella quale rimase ucciso il prefetto. A favorire la ribellione fu con ogni probabilità l’assenza della legio II. Caracalla capì lo stato delle cose e ne fu
spaventato: temette che durante la sua assenza per la campagna partica la popolazione potesse insorgere e tagliargli così i rifornimenti; può aver creduto all’esi-
35. Anche negli excerpta di Xifilino e nei cosidetti Exc. Val. abbiamo un quadro completo e copioso del sistema di tassazioni e di esazioni messo in opera da Caracalla; vd. DIO CASS., 77, 9 (ed. Boissevain, vol. III, pp. 381 sg.): ou\to~ ou\n oJ filalexandrovtato~ A ∆ ntwni`no~ ej~ me;n tou;~ stratiwvta~ filanalwth;~ h\n, tou;~ de loipou;~ pavnta~ ajnqrwvpou~ e[rgon ei\ce periduvein ajposula`n ejktruvcein, oujc h{kista tou;~ sugklhtikou;~ (Xiphil.). cwri;~ ga;r tw`n stefavnwn tw`n crusw`n ou}~ wJ~ kai; polemivou~ tina;~ ajei; nikw`n pollavki~ h[t/ ei (levgw de; oujk aujto; tou`to to; tw`n stefavnwn poivhma: povson ga;r tou`tov ge ejstivn; ajlla; to; tw`n crhmavtwn plh`qo~ tw`n ejpæ ojnovmati aujtou` didomevnwn, oi|~ stefanou`n aiJ povlei~ tou;~ aujtokravtora~ eijwqv asin), tw`n te ejpithdeivwn (annona) a} polla; kai; pantacovqen ta; me;n proi`ka ta; de; kai; prosanalivskonte~ ejseprassovmeqa, ãa}Ã pavnta ejkei`no~ toi`~ stratiwvtai~ ejcarivqeto h] kai; ejkaphvleuen, kai; tw`n dwvrwn a} kai; para; tw`n ijdiwtw`n tw`n plousivwn kai; para; tw`n dhvmwn proshvt/ ei: tw`n te telw`n tw`n te a[llwn a} kaina; proskatevdeixen, kai; tou` th`~ dekavth~ h}n ajnti; th`~ eijkosth`~ uJpevr te tw`n ajpeleuqeroumevnwn kai; uJpe;r tw`n kataleipomevnwn tisi; klhvrwn kai; dwrea`~ ejpoivhse pavsh~ (Exc. Val. e XIPHIL.).
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stenza di una cospirazione in Egitto, e agì in conseguenza, con la più grande codardia e malvagità. Comunque siano andate le cose, l’episodio ad ogni modo manifesta l’atteggiamento reale di Caracalla verso la borghesia cittadina, nonché la prontezza dell’esercito a spalleggiarlo in ogni anche più crudele provvedimento ch’egli potesse prendere contro le città36. Son convinto che proprio in questo stesso sentimento di ostilità contro le classi superiori va cercata l’origine della celebre constitutio Antoniniana del 212 d.C., in forza della quale la cittadinanza romana venne concessa a tutti i peregrini [S2]. L’ordinanza di Caracalla resta enigmatica anche dopoché in Egitto se ne sono trovati alcuni frammenti; ed è molto difficile determinare il vero intento di essa. Il testo originario, quale fu rinvenuto in Egitto – se tale dobbiamo considerarlo, – sembra escludere dalla concessione i dediticii. Ma quanti tra i peregrini ai tempi di Caracalla erano chiamati dediticii? Erano compresi in questa classe anche i contadini liberi dei villaggi (per es., della Tracia e della Siria)? Che n’era della popolazione rurale dei territori urbani? Erano tutti i coloni dell’imperatore dediticii, oppur no? Finché su tutti questi punti vitali non potremo far altro che presentare ipotesi, non avremo speranza di poter decidere quale sia veramente l’importanza storica della constitutio, e quale fine Caracalla si sia proposto di conseguire nel pubblicarla proprio all’inizio del suo regno [S3]. Se essa realmente escludeva dalla concessione tutti gli elementi rurali e riguardava soltanto le città; se in queste poi essa toccava soltanto i cittadini di pieno diritto (gli honestiores) ma non la classe inferiore (gli humiliores); non la si può considerare come un gran passo sulla via della parificazione, del livellamento generale delle popolazioni di tutto l’Impero. Essa non sarebbe altro che un provvedimento parziale, che si sarebbe limitato ad aumentare il numero dei cittadini romani nelle città, specialmente dell’Oriente. Inoltre, anche se la concessione non fu limitata a un numero così esiguo di persone, ed ebbe più ampia applicazione, il fatto solo ch’essa era individuale e non toccava la condizione giuridica della città, che rimaneva «peregrina» sebbene tutti i suoi membri fossero ormai cives Romani, riduce l’importanza del provvedimento a proporzioni minime. Ciò m’induce a ritenere che, oltre agli effetti tributari messi in rilievo da Dione, l’atto di Caracalla si proponesse due scopi speciali. Dando la cittadinanza romana ai municipali e allo strato superiore della popolazione dei villaggi (effettuando così il sunoikismov~ della popolazione rurale e urbana), nonché ad alcuni membri delle classi inferiori, Caracalla accresceva il numero di coloro che potevano esser chiamati ad assumere le liturgie municipali: avendo ormai uguali diritti politici, i nuovi cittadini romani non avevano più alcun pretesto per sottrarsi ai gravi oneri liturgici.
36. Vd. le osservazioni di A. VON PREMERSTEIN, Alexandrinische Märtyrerakten, «Philologus», Suppl. 16 (1923), p. 75 e RITTERLING, «R. E.», XII, col. 1318. Cf. gli editti di Caracalla: P. Giss., 40, II, 16 sgg.; U. WILCKEN, Chrest., n. 22 e P. Oxy., 1406; P. MEYER, Jurist. Pap., n. 72. Cf. la condotta dei soldati d’Eliogabalo verso la città di Antiochia: per salvare la città dal saccheggio, l’imperatore fece loro un gigantesco donativo, che poi venne estorto alla città sotto forma di contribuzione, DIO CASS., 79, 1, 1.
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Inoltre, concedendo la cittadinanza romana a questi antichi figliastri di Roma Caracalla intendeva blandirli e così acquistarsene l’adesione. Ma il suo scopo principale non era tanto d’innalzare la classe inferiore, quanto di deprimere la superiore, non soltanto in Roma e in Italia, ma anche nelle province, per abbassare così l’orgoglio e la iattanza della classe dominante delle città, cioè dell’aristocrazia imperiale e municipale. La cittadinanza romana era ormai una cosa volgare, un onore così a buon mercato da aver perduto ogni valore e da potersi estendere perfino ai dediticii senza pregiudicar nessuno. In realtà la concessione di Caracalla non fece bene ad alcuno e non ebbe reale importanza sociale o politica. L’onere della tassazione e delle liturgie restò immutato; l’abisso tra gli abitanti delle città e i contadini, nonché tra il proletariato e la classe media delle città, non fu colmato; i nuovi cittadini romani furono assoggettati alla legge romana, cosa che in questo periodo, in cui andava svolgendosi una legislazione comune a tutto l’Impero, non aveva gran valore; e non ci fu altro. Per quanto esigua tuttavia possa essere stata l’importanza pratica del decreto di Caracalla, non è men vero che sotto l’aspetto storico esso segna la fine d’un periodo e l’inizio di un altro. Esso è il segno esteriore della scomparsa dello Stato romano in quanto fondato sul Senatus populusque romanus, ch’era stato ancora l’ideale della monarchia illuminata. Tutti erano ormai cittadini romani; ma questo significava in realtà che nessuno era più tale. Non appena la cittadinanza romana fu diventata semplice parola, semplice titolo, perdé ogni ombra d’importanza. Essere cittadini romani aveva molta importanza ancora ai tempi di Traiano e di Adriano: infatti allora i cittadini romani, sebbene non più padroni e signori del mondo alla stessa maniera di prima, formavano tuttavia ancora la classe più elevata della popolazione urbana, un gruppo, se non legalmente e politicamente, certo socialmente importante e potente. Ancora per Aristide i cittadini romani erano i sommi ed ottimi. Concessa a tutti e a ciascuno, la cittadinanza romana era ormai un semplice nome: esso significava soltanto che colui che lo portava viveva in una delle città dell’Impero. Più tardi valse a indicare ogni abitante dell’Impero romano in generale, cioè un suddito dell’imperatore romano, che ormai impersonava lo Stato. Con l’avvento del potere imperiale il diritto di cittadinanza romana aveva perduto il suo valore politico; ora perdette anche ogni importanza sociale. È difficile dire se Caracalla fosse conscio di ciò allorché promulgò la sua costituzione37.
37. Sulla constitutio Antoniniana vd. la bibliografia data al cap. VII, nota 88. R. VON SCALA, Aus der Werkstatt des Hörsaals (1914), pp. 30 sgg., tenta di dimostrare che la concessione della cittadinanza, fatta da Caracalla, fu il compimento della grande opera degli imperatori in pro dell’Impero, in quanto avrebbe posto termine ad ogni differenza tra i vari gruppi della popolazione. Egli dimentica che nel sec. III il diritto di cittadinanza non significava più gran cosa, che esso probabilmente non fu esteso a tutti, e che l’allargamento della cerchia dei cittadini romani non aveva alcuna importanza per ciò che riguarda il problema sociale. Sulla cittadinanza romana nell’esercito H. T. ROWELL, The Honesta Missio from the Numeri of the Roman Imperial Army, «Yale Class. Studies», 6 (1939), pp. 73-108; E. BIRLEY, in «J. R. S.» 28 (1938), p. 227. Non cittadini nell’esercito romano: 1) L. AMUNDSEN, A Latin Papyrus in the Oslo Collection, «Symb. Osl.», 10 (1932), p. 16 (dopo il
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Non occorre ripetere qui i principali eventi politici e militari del breve regno di Caracalla. Dopo alcuni successi militari in Germania e un breve sog-
235 d.C.) un non cittadino in un accampamento ausiliario; 2) diploma C. I. L. XVI, 132+154 (247-249 d.C.), marinai non cittadini; M. GELZER in «Klio», 31 (1938), pp. 118 sgg.; 3) I. L. S., 9184; ROWELL, loc. cit., numerus di Brittones dediticii, 232 d.C.; 4) C.B. WELLES, The Immunitas of the Roman Legionarius in Egypt, «J. R. S.», 28 (1938), pp. 41-48 e W.L. WESTERMANN, Tuscus the Prefect and the Veterans in Egypt (P. Yale inv. 1528 and P. Fouad I 21), «Class. Philol.», 36 (1941), pp. 21-29: veterani di corpi ausiliari egiziani all’epoca di Claudio? Cf. A.N. SHERWIN-WHITE, The Roman Citizenship, Oxford, 1939, p. 192 e A. MOMIGLIANO in «J. R. S.», 31(1941), pp. 163 sg. Non è molto che G. SEGRÉ ha dimostra-
to come la usuale interpretazione del testo del P. Giss. non soltanto contraddica alle affermazioni esplicite di CASSIO DIONE (77, 9, 5, cf. 52, 19, 6) e di ULPIANO (DIG., 1, 5, 22, 17), ma non s’accordi neppure col testo, quale noi lo possediamo («Boll. d. Istit. di dir. rom.», 32 (1922), pp. 191 sgg.); cf. BONFANTE, Storia del dir. rom. (19233), I, p. 358. Dione ed Ulpiano affermano esplicitamente che il diritto di cittadinanza venne largito a tutti gli abitanti dell’Impero; il testo del papiro dice la stessa cosa e aggiunge che la nuova concessione non deve mutare la condizione giuridica dei vari politeuvmata ad eccezione di quella dei dediticii (cf. A. BELTRAMI, «Riv. di filol.», 45 (1917), pp. 16 sgg.). Il fatto rimarrà oscuro finché non sapremo chi fossero i dediticii: anche dopo la dissertazione del BICKERMANN e la discussione ch’essa ha suscitato (vd. cap. VII, nota 88), il problema non è ancora risolto. Anzitutto va rilevato che il BICKERMANN non è riuscito a dimostrare che il P. Giss., 40 non sia la constitutio Antoniniana; e la sua ricostruzione del testo non è più convincente di quelle del primo editore o di G. SEGRÉ . Ma comunque, si abbia qui un emendamento della constitutio o il testo originale di essa, il papiro prova pur sempre che i dediticii erano esclusi dalla concessione di Caracalla. Per ciò che riguarda la definizione dei dediticii, la proposta del BICKERMANN deve esser presa in seria considerazione. Pare evidente che i dediticii non siano una cosa sola coi peregrini, cioè con gli abitanti delle province, e neppure con quella parte di essi, che non appartenevano a una città o ad un territorio urbano provinciale. A quanto pare, la popolazione rurale così dei territori urbani come dei complessi rurali estraterritoriali era compresa nella concessione. Se i dediticii non erano dunque i peregrini provinciali, chi erano mai? Non posso accettare la tesi del BICKERMANN, secondo cui essi sarebbero i barbari incorporati nell’esercito romano senza esser tuttavia stanziati su suolo romano, mentre le gentes straniere abitanti dentro le province o ai confini dell’Impero romano non sarebbero state dediticie e quindi avrebbero profittato della concessione di Caracalla. Questa tesi è contradetta dalle condizioni vigenti nel territorio di Palmira (vd. Excavations at Dura-Europos. I Prel. Rep. (1929), pp. 57 sgg.). Cf. DESSAU, I. L. S., 9184 e MOMMSEN, Ges. Schr., VI, pp. 166 sgg. D’altra parte, se il MOMMSEN è nel vero quando sostiene che dopo Marco Aurelio i soldati delle truppe ausiliarie che non fossero già cittadini romani al tempo del loro arruolamento non ricevevano la cittadinanza neppure dopo la honesta missio, eccezion fatta dei decurioni e dei centurioni [(vd. l’interessantissima lista di soldati promossi decurioni fra il 217 e il 245 d.C., tutti egiziani e tutti cittadini romani, che è stata pubblicata da H.A. SANDERS, Classical Studies in honor of J. C. Rolfe (1931) (P. Mich. 1804)] e che anche questi ultimi, almeno nel III sec., ottenevano la cittadinanza per i loro figli soltanto quando questi si stanziavano come castellani (vd. C. I. L. III, pp. 2002 e 2015), [nelle province romane anche dopo Caracalla dovevano esservi numerose persone che non avevano la cittadinanza romana e ch’erano precisamente nella posizione dei dediticii del papiro di Giessen. Sembra verosimile che in questa condizione si trovassero i membri delle gentes che dimoravano dentro i confini dell’Impero, ed anche, probabilmente, almeno una
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giorno sulla frontiera del Danubio, l’imperatore iniziò una grande spedizione contro i Parti. Era evidente che il problema partico non era stato risolto da Severo, e che l’agonia della dinastia partica offriva a Caracalla l’occasione di conseguire durevoli risultati. Intorno a questa spedizione abbiamo poche informazioni. Prima che si fosse ottenuto alcun successo importante, l’imperatore fu ucciso da uno dei suoi ufficiali a istigazione del prefetto dei pretoriani M. Opellio Macrino. Alla proclamazione di Macrino a imperatore tenne dietro una breve guerra civile. L’esercito, blandito da Caracalla e fiducioso nella benevolenza della famiglia dei Severi, non era disposto a riconoscere imperatore un estraneo e a dargli la propria adesione; e non appena fu apparso un rivale nella persona di un nipote di Caracalla, cioè del giovane Bassiano, soprannominato Elagabal (o Heliogabalus), sommo sacerdote del dio di Emesa, i soldati lo preferirono all’ignoto Macrino, i cui primi atti e i cui rapporti col Senato non erano stati da loro bene accolti38. Il governo di Eliogabalo fu breve quanto agitato. Sono ben noti i suoi esperimenti in materia di religione: egli tentò con essi di creare una religione universale accettabile da tutti e di consacrare il potere dell’imperatore quale rappresentante di Dio sulla terra; ma il tentativo fallì. Tuttavia esso non mancò di suscitare l’indignazione dei buoni Romani di tutto l’Impero e anche di una parte dei soldati. Il risultato fu che due delle tre abili donne siriache che avevano combinato l’assunzione di Eliogabalo al trono e governavano in suo nome, e cioè Giulia Maesa e Giulia Mamaea, contro la volontà di sua madre Giulia Soemias gli sostituirono un altro Bassiano, suo cugino, che assunse il nome di Severo Alessandro39.
parte dei barbari stanziati dagli imperatori su territorio romano, laeti, tributarii, cultores, coloni. In Egitto, senza dubbio, una grande parte della popolazione indigena non ricevette il diritto di cittadinanza dopo Caracalla. Questo è dimostrato dal papiro Mich. 1804 sopra citato e da un altro papiro recentemente pubblicato da L. AMUNDSEN, «Symb. Osl.», 10 (1931), pp. 16 sgg., elenco di duplicarii e sesquiplicarii di una turma, che avevano iniziato il servizio militare negli anni fra il 217 e il 230 d.C. Tutti i duplicarii di quest’elenco sono notati come c(ivitate) do(na)t(i), a quanto sembra durante il servizio; tutti i sesquiplicarii sono cittadini romani, ad eccezione di un solo che è un peregrino. Siccome tutti i soldati hanno cognomi egiziani, è chiaro che prima del servizio non avevano la cittadinanza romana ed appartenevano alla classe dei dediticii]. Un altro passo verso la degradazione del diritto di cittadinanza romana fu fatto da Alessandro Severo allorché questi concesse ai cittadini romani di poter compilare in greco le loro disposizioni di ultima volontà: nei cittadini romani non si presupponeva più senz’altro che sapessero il latino. WESSELY, «Stud. Pal.», XX (Cat. Pap. R., I), n. 35; cf. KRELLER, Erbrechtliche Untersuchungen (1919), p. 331. 38. Intorno a Macrino e al suo figlio Diadumeniano vd. H.J. BASSETT, Macrinus and Diadumenianus (Diss. Michigan, 1920). È sorprendente l’abbassamento della disciplina avveratosi sotto Macrino, vd. p. es. DIO CASS., 79, 27, 1. Nonostante i suoi amoreggiamenti col Senato egli seguì in sostanza la politica dei suoi predecessori, come si rileva dal fatto che affidò le cariche più elevate a persone di bassa origine; vd. H.J. BASSETT, op. cit., p. 57. 39. Intorno ad Eliogabalo si hanno parecchie recenti monografie, per lo più senza valore per lo storico: O.F. BUTLER, Studies in the Life of Heliogabalus, «Univ. Michigan
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Non dobbiamo occuparci qui dell’aspetto politico del governo di Alessandro. Dione e fino a un certo punto anche Erodiano lo esaltano come un ritorno quasi completo ai principii della monarchia illuminata. In quest’opinione può esservi del vero, in quanto riguarda le intenzioni dell’imperatore. Ma questi non era libero. Dietro a lui stava l’esercito la massa compatta della soldatesca, guasta dai Severi e assuefatta a sistemi di politica che rendevano impossibile ritornare realmente ai principii degli Antonini. I soldati non avrebbero mai permesso che uomini della classe senatoria o dell’antico ordine equestre riacquistassero effettivo potere; né avrebbero tollerato che un uomo energico e risoluto diventasse il consigliere del giovane imperatore; si opponevano aspramente a ogni riduzione di soldo e a ogni tentativo di restaurare la disciplina. In tali condizioni sperare la rinascita dei principii degli Antonini era un sogno. L’imperatore era un trastullo, uno schiavo nelle mani dei soldati, e dovette piegarsi alla dura necessità40. Anche come strumento di protezione dell’Impero l’esercito diventava sempre più malsicuro. La guerra contro i nuovi dominatori d’Oriente, i Persiani, fu un insuccesso quasi completo, e se non terminò con un totale disastro fu soltanto perché i Persiani avevano altre cose cui badare. Gravi torbidi scoppiati alla frontiera germanica indussero l’imperatore a fare il tentativo di comperare la pace, col risultato ch’egli fu ucciso proditoriamente dai suoi stessi soldati41. I fondamenti della nuova struttura dello Stato, posti da Settimio Severo e consolidati da Caracalla, si palesarono destinati a durare. Esternamente non
Studies», 4 (1910); J. STUART HAY, The Amazing Emperor Heliogabalus (1911); J.CL. SMITS, De fontibus e quibus res a Heliogabalo et Alexandro Severo gestae colliguntur (1908). Su Giulia Soemiade vd. G. HERZOG, «R. E.», X, coll. 948 sgg. La condotta dei soldati durante il breve regno di Eliogabalo fu altrettanto violenta quanto sotto Caracalla e Alessandro: vd. il racconto di DIO CASS., 80, 2, 3 intorno ad un aspro combattimento avvenuto a Roma tra essi e il popolo. 40. Su Severo Alessandro vd. W. THIELE, De Severo Alexandro imperatore (1909); K. HOENN, Quellenuntersuchungen zu den Viten des Heliogabalus u. des Severus im Corpus der Scr. Hist. Aug. (1911); A. JARDÉ, Études critiques sur la vie et le règne de Sévère Alexandre (1925). Nell’analisi della biografia di Alessandro, Hönn spinge troppo oltre lo scetticismo, specialmente per ciò che riguarda l’esattezza dei dati relativi alle riforme dell’imperatore. Molti punti di quest’elenco sono confermati da Cassio Dione e da Erodiano e, quel che più importa, dalle epigrafi e dalle fonti giuridiche, di cui Hönn si avvale solo in ristretta misura. I paralleli dal Codex Theodosianus, coi quali egli vuol dimostrare la tarda origine dei capitoli corrispondenti della biografia, per lo più non sono convincenti. Io ritengo che la maggior parte dei dati sulle riforme di Alessandro siano genuini e degni di fede. [Jardé si avvicina più al vero]. Intorno a Giulia Mamaea vd. M.G. WILLIAMS, «Univ. Michigan Studies», 1, (1904), pp. 67 sgg.; G. HERZOG, «R. E.», X, coll. 916 sgg. Circa la politica amministrativa di Alessandro e le persone che fungevano da suoi assistenti e ufficiali vd. A. STEIN, Die kaiserl. Verwaltungsbeamten unter Severus Alexander (222-235), in 51 Jahresb. der I. Deutschen Staatsrealschule in Prag (1912) e JARDÉ, loc. cit. 41. DIO CASS., 80, 3 e 80, 4, 1; ZOS., I, 12; HOENN, op. cit., p. 70. Intorno alle leve fatte ripetutamente in Italia e alla formazione di una nuova legione (IIII Italica) vd. E. RITTERLING, «R. E.», XII, col. 1326.
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vi fu alcun mutamento. Come per l’innanzi, l’imperatore governava in qualità di primo magistrato del popolo romano; come per l’innanzi, il supremo potere dello Stato risiedeva nel Senato che lo esercitava per mezzo dell’imperatore; come per l’innanzi, gli ordini senatorio ed equestre fornivano gli ufficiali per l’esercito e i funzionari per l’amministrazione; come per l’innanzi, le città erano governate dall’aristocrazia urbana, e l’esercito continuava ad esser composto di cittadini romani. Ma in realtà non restava nulla dell’antico Stato all’infuori dei nomi, e ogni tentativo di mutare queste condizioni era destinato a fallire. La soldatesca era ben decisa a rimanere padrona e signora dell’Impero e a non permettere alle classi superiori, ancora vigorose e numerose, di riafferrare il potere. L’Impero romano si avviava ad una delle più gravi crisi della sua storia. I regni di Caracalla, Eliogabalo, Alessandro furono per l’Impero tempi di grande miseria. E tuttavia non vi furono guerre civili lunghe e sanguinose, ad eccezione di quella tra Macrino ed Eliogabalo, che ebbe carattere locale e non toccò l’Impero nel suo complesso. Ma l’organismo dell’Impero era esausto e incapace di reggere all’urto delle guerre esterne che lo minacciavano. Le stravaganze di Eliogabalo, alle quali le nostre fonti attribuiscono la rovina delle finanze, ebbero non grande importanza: il problema principale era quello di far fronte alle spese delle grandi spedizioni che non potevano evitarsi, se l’Impero romano non voleva restar preda delle incessanti invasioni degli Iranici a oriente e degli Iranici e Germani a greco. Era necessario un grande sforzo, e al più presto. Ciò tutti capivano nell’Impero: lo capirono Settimio Severo, Caracalla, Alessandro Severo, che in questo punto interpretavano fedelmente l’opinione generale. Il sogno di Caracalla di diventare un nuovo Alessandro Magno e di attuare mutatis mutandis il disegno del grande Macedone, – fondere cioè in un’unica nazione e in un unico Stato le due più bellicose e colte razze del mondo, gli Iranici e i Romani, per potere così arginare la corrente di barbarie che minacciava di sommergere tanto l’Impero romano quanto il regno dei Parti – non era affatto un ideale donchisciottesco, sebbene riveli le aspirazioni romantiche di questo difficile momento. Sarebbe puerile, tuttavia, volere scorgere in questo sogno romantico una grande idea politica di cui soltanto il crimine di Macrino abbia impedito l’attuazione. Ma il sogno, ch’era in contrasto così stridente con la realtà amara, caratterizza le condizioni dell’Impero decadente. Il fatto che il secondo Bassiano assunse il nome di Alessandro indica che l’idea utopistica aveva avuto la sua origine nella sbrigliata fantasia delle imperatrici siriache ed era stata da esse trasmessa ai due Bassiani. I tentativi di Caracalla e di Alessandro fallirono, non soltanto a causa della degenerazione e della crescente indisciplina dell’esercito, ma anzitutto e soprattutto perché l’Impero romano era troppo povero per poter sostenere le spese di siffatta impresa gigantesca. Per attuare i loro disegni abortivi, Caracalla e Alessandro saccheggiarono l’Impero. Ben presto apparve che le confische di Commodo e di Settimio Severo e l’immenso incremento delle risorse finanziarie dello Stato a spese dei patrimoni privati avevano condotto non all’arricchimento ma all’impoverimento dell’Impero. Pertinace, ch’era personalmente un agrarius mergus, un rapinatore di terre, per frenare l’aumento delle terre abbandonate fu costretto a ricorrere a un provvedimento generale, che fino a un certo punto era la ripetizione su scala più vasta di quanto aveva fatto Adriano: lan-
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ciò cioe un invito alla popolazione dell’Impero perché occupasse le terre incolte, sì che i coloni dipendenti potessero ascendere alla condizione di proprietari. A quanto possiamo sapere, l’appello fu vano42. Alessandro si vide costretto a ricorrere al metodo introdotto da Marco Aurelio e da qualche suo predecessore fin dal sec. I, a procurare cioè la coltivazione delle terre abbandonate stanziandovi i prigionieri portati d’oltre frontiera. Apprendiamo incidentalmente, anzi, che durante il suo regno vi fu in Italia un’acuta carestia di bestiame, e che i mercati di carni a Roma rimasero vuoti43. È chiaro adunque che nell’organismo dell’Impero romano v’era un perturbamento profondo, che non poteva curarsi con espedienti e palliativi. Lo Stato pompava incessantemente il capitale ch’era la linfa vitale dell’Impero: tutti i provvedimenti ideati per restaurare le pubbliche finanze non furono altro che replicati sforzi per cavar più denaro, fossero essi di natura violenta, come le confische di Settimio Severo, o di natura più sistematica ma non meno disgraziata. Le guerre di Settimio Severo e di Caracalla si alimentavano, come del resto quelle di Traiano e di Marco Aurelio ma in assai più ampia misura, col sistema delle liturgie, cioè col lavoro coattivo degli humiliores e con la responsabilità coattiva degli honestiores. Il grande Impero romano era in procinto di ritornare all’economia naturale, non riuscendo a procurare la necessaria quantità di buona e stabile moneta. Fallì il tentativo fatto da Caracalla per restaurare la valuta con l’introduzione del suo famoso Antoninianus, denominazione moderna della sua moneta, che valeva due denari o uno e mezzo. I prezzi salirono, la moneta buona fu nascosta, il denaro peggiorò ancor più. Comunque si voglia oggi spiegare questo fatto, certo è ch’esso distrusse la fiducia delle popolazioni nella moneta imperiale*. Lo Stato medesimo riconobbe questa realtà appigliandosi in misura sempre maggiore alle prestazioni reali. Nei documenti di questo periodo troviamo continuamente menzionate esazioni di questo genere. In Egitto il sistema delle consegne coattive sembra aver raggiunto sotto Caracalla e Alessandro
42. HERODIAN., II, 4, 6. 43. O. SEECK, Gesch. d. Unterg. d. ant. Welt, I, pp. 384, 12 e 532, 21. Sotto il governo di Alessandro, come già sotto Traiano e Adriano, furono studiati interessanti progetti, cui dava impulso lo spopolamento dell’Impero e specialmente dell’Italia. P. es. CASSIO DIONE nel noto discorso (52, 28, 3 sgg.) che pone in bocca a Mecenate perora l’istituzione di una banca agraria statale: fhmi; toivnun crh`naiv se prw`ton me;n aJpavntwn ta; kthvmata ta; ejn dhmosivw/ o[nta (polla; de; tau`ta oJrw` dia; tou;~ polevmou~ gegonovta) pwlh`sai, plh;n ojlivgwn kai; pavnu crhsivmwn soi kai; ajnagkaivwn, kai; to; ajrgur v ion tou`to pa`n ejpi; metrivoi~ tisi; tovkoi~ ejkdanei`sai. ou{tw ga;r h[ te gh` e[nergo~ e[stai, despovtai~ aujtourgoi`~ doqei`sa, kai; ejkei`noi ajformh;n labovnte~ eujporwvteroi genhvsontai, tov te dhmovs ion diarkh` kai; ajqavnaton provsodon e{xei. Cf. SCR. HIST. AUG., Alex. Sev., 40, 3 e nota 56. Intorno alla scomparsa dell’inventario vivente in Italia vd. SCR. HIST. AUG., Alex. Sev., 22, 7. Penuria hominum, tanto nelle città quanto nella campagna, è il contrassegno dell’età dei Severi, DIG., 50, 6, 2, 1 (ULPIAN., De officio proconsulis, 1. IV): impuberes, quamvis necessitas penuriae hominum cogat, ad honores non esse admittendos rescripto ad Venidium Rufum, legatum Ciliciae, declaratur. Su Venidio Rufo vd. Prosop. imp. Rom, III, p. 395, n. 245. *. Vd. la bibliografia alla nota 31a.
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Severo un’insolita regolarità, ma anche prima, sotto Settimio Severo, le liturgie erano diventate così onerose che un benefico cittadino di Ossirinco chiese il permesso di costituire una fondazione destinata a rendere il peso più tollerabile per la popolazione d’alcuni villaggi del nomo. Il sistema delle requisizioni non aveva limiti: si chiedevano grano, pelli, legni per le lance, bestie da soma; il pagamento era poi irregolare e problematico44.
44. Requisizione di cammelli: P. Basel (E. RABEL, Papyrusurkunden der öff. Bibl. der Univ. Basel), n. 2, del 190; B. G. U., 266 (215-216 d.C.), cf. P. Gen., 45; P. Flor., 278 (203 d.C.); J. LESQUIER, L’Armée romaine d’Égypte, pp. 370 e 372; F. OERTEL, Die Liturgie, pp. 88 sgg. Esazione di pellami: B. G. U., 655 (215 d.C.), cf. P. S. I., 465 (265 d.C.); di legno di palma per la fabbricazione di lance: C. WESSELY, Cat. P. R., II, 92 (sec. III). Vendita coattiva di cereali: P. Amh., 107 e 108; B. G. U., 807; P. Ryl. II, 85; cf. 274 e 275; P. Oxy., 1541; P. Tebt., 369; P. Amh., 109; B. G. U., 842; U. WILCKEN, Chrest., 416-18 (185 e 192 d.C.). Consegne di vacche, vitelli, pecore, fieno e vino per i soldati: P. S. I., 683 (199 d.C.), cf. nota 15. Molto caratteristico per le condizioni vigenti in Egitto durante la dimora che vi fece Caracalla è un papiro di Göteborg pubblicato non ha guari da H. FRISK, Papyrus grecs de la Bibliothèque Municipale de Gothembourg, «Göteborgs Högskolas Arsskrift», 35 (1929), n. 3 (Panopolis, 215-216 d.C.). Vi appare un pescatore come garante per un altro pescatore: eijsdoqevnta ejpi; th`~ eJtoima⁄siva~ gavrou te kai; tariceivou leptou` kai; ⁄ ijkcquvo~ pro;~ eij~ th;n eujkleistavthn ⁄ ejpiªdºhmivan tou` kurivou hJmw`n etc. Cf. SCR. HIST. AUG., Carac., 6; DIO CASS., 77, 22; HERODIAN., 4, 6. Liturgie obbligatorie della classe possidente: nel P. Ryl. II, 77, col. II, 35 sgg. (192 d. C.) un membro della comunità greca di Hermupolis si dichiara disposto ad assumere la stefanhfovro~ ejxhgeteiva e a pagare due talenti all’anno, ove venga esonerato dall’obbligo di prendere in fitto terreni imperiali; cf. le mie Studien Gesch. Kol., p. 189, nota 1. Sotto Settimio Severo divenne costume diffuso il rinunziare al proprio patrimonio per liberarsi dal peso delle liturgie; vd. il rescritto di Severo e Caracalla (200 d.C.) in L. MITTEIS, Chrest., n. 375 (cf. P. Ryl. II, 75 (sec. II) e il rescritto degli stessi imperatori sulla cessio bonorum nel P. Oxy., 1405; cf. C. P. R., 20; U. WILCKEN, Chrest., 402. Si osservi la promessa del P. Oxy., 1405, l. 10: hJ de; ejpiteimiva sou ej⁄k touvtou oujde;n blabhvsetai, oujde; eij~ to; ⁄ sw`ma uJbreisqhvsei, dalla quale si può desumere l’uso di metodi brutalissimi. Nella l. 23 leggi oujk ajnalogw`n ou\n oujde; pro;~ ªe{nº ⁄ mevro~ th`~ leitourgiva~. Intorno alla cessio bonorum in generale vd. gli scritti citati nel cap. VIII, nota 42. L’obbligo di coltivare le terre incolte si sviluppò nel sec. III fino a diventare uno degli oneri più gravi. Nel P. S. I., 292 (sec. III), un certo Aurelius Hermias rinuncia alla sua proprietà e prega umilmente il procuratore (ll. 18 sgg.): ajnagkaivw~ para; ta; sa; i[cnh katafeuvgw ejxistanovmeno~ aujtoi`~ … ⁄ e[cein me to; sw`ma ajnephrevaston kai; ajnuvbriston, i{na dia; tªh;n sh;n filanqrwº⁄pivan ajoc v lhto~ ejn th`/ patrivdi sunestavnai dunhqw`. Nei nuovi consigli municipali delle città si svolgeva una lotta continua tra i presidenti e i membri, e tra questi ultimi medesimi: è facile intendere che il motivo ne erano le liturgie. Vd. l’editto di Caracalla nel P. Oxy., 1406, 6 (213-17 d.C.): ejan; bouleuth;~ to;n ªpruvtanin h] bouleuºth;n tuvyh/ h] mevmyªhtaºi ª< < <º⁄ oJ me;n boulªeºuth;~ th`~ bouleiva~ ajªpallavº⁄xetai kai; eij~ ⁄ a[timon cwvran ªkatasthv?ºsetai. In siffatte condizioni nella campagna aperta non poteva esservi alcuna sicurezza. V’erano predoni in gran copia; si legga la lettera di Bebio Iuncino agli epistrateghi, P. Oxy., 1408 (210-214 d.C.), nella quale il prefetto rinnova a tutte le autorità l’ordine ªth;ºn tw`n lh/stw`n ajnazhvthsªinº poihvsasqai (l. 13). Alla lettera è annesso un editto che minaccia fulmini e saette contro coloro che ricettano i predoni, ll. 23 sgg.: to; tou;~ lh/sta;~ kaºqaiªrºei`n cwri;~ tw`n uJpodecomevnwn mh; duvnasqai pa`ªsi fane-
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Le stesse condizioni si ripetevano nell’Asia Minore e nella Siria. Varie iscrizioni attestano il grave onere della parapomphv o prosecutio, cioè la responsabilità del trasporto continuativo di truppe e vettovaglie (annona) all’esercito. Altra piaga erano le esazioni dei funzionari imperiali e municipali, che nei loro viaggi requisivano alloggi e viveri dagli abitanti dei villaggi e delle città per cui passavano. L’acquartieramento dei soldati era poi un vero disastro: la popolazione della Siria considerava un’eventuale occupazione del paese per opera dei Parti come un sollievo in confronto con un soggiorno prolungato di truppe romane. Era passato il tempo in cui ricche persone della provincia si sobbarcavano volontariamente a tali oneri. Se qualche volta i provinciali menzionano ancora nelle iscrizioni il compimento di liturgie, lo fanno per mostrare d’aver adempiuto ai loro obblighi non leggeri. Il tipo del ricco che si compiace di beneficare la sua città va scomparendo; e il cittadino ricco è invece adesso sovraccaricato obbligatoriamente di oneri, ma ancora in grado di sopportarli45.
rovn … eijs i;º de; uJpodecomevnwn polloi; trovpoi: oiJ me;n ga;r koinwnªou`nte~ tw`n ajdikhºmavtwn uJpodevcontai ecc.; cf. ULPIAN., de officio proconsulis, 1. VII, DIG., 1, 18, 13 pr. (quasi le stesse parole) e MARC., DIG., 43, 13, 4, 2; O. HIRSCHFELD, Die Sicherheitspolizei im röm. Kaiserreich, Kl. Schr., p. 593, nota 4. Va rilevato che una speciale polizia fluviale (potamofulakiva), la quale comincia ad apparire nel sec. II, nell’età dei Severi cresce continuamente di numero e d’importanza, vd. P. Flor., 91; P. S. I., 734 (218-222 d.C.); cf. P. Gen. 1 e C. I. L. II, 1970; U. WILCKEN, Grundzüge, p. 392; OERTEL, Liturgie, p. 272; P. MEYER, Griech. Texte aus Aegypten, p. 160. Da ciò si rileva quanto fosse malsicuro il corso del fiume e quale ostacolo questa mancanza di sicurezza costituisse per lo sviluppo d’una sana vita economica in Egitto. Fondazione di un Aurelius Horion destinata a sgravare gli abitanti di alcuni villaggi del nomo di Ossirinco, specialmente dalla parafulakhv (cioè dall’obbligo di prestar servizio come guardie, fuvlake~, di varia specie): P. Oxy., 705; U. WILCKEN, Chrest., 407 (202 d.C.). Nell’atto di donazione dice Orione: kw`maiv tine~ tou` ∆Oxurugceivtou nomou` … sfªovºdra ejxesqevnhsan ejnoclouvmenoi uJpo; tw`n katæ e[to~ leitourgiw`n tou` te tameivou kai; th`~ paraªfºuªlºakh`~ tw`n tovpwn, kinduneuvo v usiv te tw`/ me;n tameivw/ parapwvlesqai, th;n de; uJmetevran gh`n ajgewvrghton katalipei`n (ll. 69 sgg.). [La parte importante che i funzionari di polizia avevano nella vita delle città è illustrata da due cimeli, entrambi probabilmente provenienti dall’Asia Minore (i parafuvlake~ mi sono noti soltanto nell’Asia Minore, cf. sopra, nota 31). Si tratta cioè di un sigillo d’argento col ritratto dell’imperatore Adriano e con l’inscrizione Klevwn A ∆ rtemidwvrou parafuvlax, e di un peso di piombo, sul cui recto vi è l’inscrizione lei`tra, sul verso Dhmhtrivou parafuvlako~, vd. F.H. MARSCHALL, «J. H. S.», 29 (1909), p. 106 (debbo questa citazione alla cortesia del prof. Wolters)]. È significativo anche il fatto che nel Fajiûm può provarsi che esistessero molte torri di guardia (mavgdwla), dalle quali apposite guardie, magdwlofuvlake~, spiavano i predoni, che non erano soltanto quelli del deserto. Cf. E. KIESSLING, Magdolophylax, «R. E.», XIV, col. 300. Molto tipico è il P. Fayûm 108, citato dal KIESSLING. Cf. cap. IX, nota 17. Sui parafuvlake" in Asia Minore, L. ROBERT, Études Anatoliennes, Paris, 1937, pp. 99 sg.
45. Parapomphv (prosecutio) di vettovaglie per l’esercito e riparazione di strade: I. G. R. R. IV, 1247 e DITTENBERGER, O. G. I. S., 516 (Thyatira), 215 d.C.; I. G. R. R. IV, 1251 (ibid.), della stessa data; DITTENBERGER, O. G. I. S., 517, 218-222 d.C. (presso Thyatira); cf. DIG., 49, 18, 4, 1 (ULPIAN., de officio proconsulis, 1. IV), secondo cui non
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Anche verso le classi inferiori la politica di Caracalla e di Alessandro fu quella stessa di Settimio Severo. Esse furono favorite dalla legislazione imperiale: una delle prove più calzanti e la legislazione scolastica, della quale si è parlato nel quarto capitolo*. Il terzo secolo rappresenta il culmine della diffusione dell’istruzione primaria in tutto l’Impero. Alle scuole dei piccoli villaggi egiziani, collegate probabilmente coi templi, dobbiamo appunto la maggior parte dei papiri letterari recentemente scoperti, che servivano da libri di testo per gli alunni; e appunto nel terzo secolo, sotto Alessandro Severo, troviamo per la prima volta menzionati maestri elementari di villaggio come costituenti una
compete ai veterani alcuna immunità dall’obbligo di riparar le strade e dalle angariae. A tenore della prima delle tre epigrafi sopra citate, un certo Giulio Menelao ospitò Caracalla e fu inviato tre volte in qualità di messo presso gli imperatori; dalla seconda apprendiamo che C. Perelio fu inviato presso Caracalla peri; oJdw`n; nella terza seconda è menzionata, come nella prima, l’ejpidhmiva di Caracalla a Thyatira; su I. G. R. R. IV, 1251 vedi L. ROBERT, Études Anatoliennes, Paris, 1937, pp. 119 sgg.: invece di to;n peri; oJdw`n legge to;n perivodon. Secondo I. G. R. R. III, 714, un abitante di Sura in Siria ospitò più volte gli «imperiali» (kuriakoiv). Un gruppo di epigrafi di Prusias ad Hypium parla di paravpemyi~ strateumavtwn sotto Settimio Severo, Caracalla, Eliogabalo, ibid., III, 60 (Severo), 62 (Severo, Caracalla, Eliogabalo), 66 (Severo e Caracalla), 68 (stessa età) e 1421, ll. 7-8: parapevmyanta ta; iJera; strateuvmata pollavki~. Prosecutio annonae: ibid., III, 407 (Pogla), sotto o dopo Caracalla; cf. 409 l. 8: pevmyanta ajnnw`nan eij~ to; A ∆ lexandrevwn e[qno~, e M. ROSTOVTZEFF, «Num. Chron.», III ser., 20, pp. 96 sgg.; 1412, l. 3: ajnnwnarchvsaª~º ⁄ legiw`s i aæ kai; bæ diovdoi~ ªejpi;º Pevrsa~, cf. RITTERLING, «R. E.», XII, coll. 1322; 1033, cf. DITTENBERGER, O. G. I. S., 640 (Palmira, sotto Severo Alessandro). Vd. anche C. I. G., 5465 (Acrae in Sicilia); cf. I. G. R. R. I, 497, dove un certo Alfio Clodio viene esaltato a motivo delle sue ambascerie presso l’imperatore kai; gæ paraponpe~, che io spiegherei kai; (tri;~) parapompe(uvsa~). La cura del vettovagliamento in generale veniva affidata agli ufficiali più abili e fidati, A. VON DOMASZEWSKI, «Rh. Mus.», 58 (1903), pp. 218 sgg. Si e già parlato delle esazioni dei funzionari imperiali, ma non sarà male aggiungere alcuni altri casi. In un villaggio siriaco le visite dei soldati divennero tale calamità che Giulio Saturnino si vide costretto a proteggerlo con una lettera speciale, DITTENBERGER, O. G. I. S., 527 609, cf. 527; l’epigrafe attesta che i soldati avevano l’abitudine di prendere alloggio nelle case dei provinciali, cf. DIO CASS., 78, 3, 4 (ed. Boissevain, vol. III, p. 405, guerra partica di Caracalla): aujtovn te ou\n toiou`ton oiJ bavrbaroi oJrw`nte~ o[nta, kai; ejkeivnou~ pollou;~ me;n ajkouvonte~ ei\nai, ejk de; dh; th`~ protevra~ trufh`~ (tav te ga;r a[lla kai; ejn oijkivai~ ejceivmazon, pavnta ta; tw`n xenodokouvntwn sfa`~ wJ~ kai; i[dia ajnalivskonte~) kai; ejk povnwn th`~ te talaipwriva~ th`~ tovte aujtoi`~ parouvsh~ ou{tw kai; ta; swvmata tetrucwmevnou~ kai; ta;~ yuca;~ tetapeinwmevnou~ w{ste mhde;n tw`n lhmmavtwn e[ti, a} polla; ajei; paræ aujtou` ejlavmbanon, protima`n, aijsqovmenoi, ejphvrqhsan wJ~ kai; sunagwnista;~ aujtou;~ ajllæ ouj polemivou~ e{xonte~. Questo passo illustra la completa demoralizzazione dei soldati di Caracalla, abituati a comportarsi nelle province come se fossero in paese nemico. La stessa condotta delle truppe è attestata dall’episodio narrato da DIO CASS, 79, 4, 5 (ed. Boissevain, vol. III, p. 458) a proposito dell’uccisione di M. Munazio Sulla Ceriale per opera di Eliogabalo (218-219 d.C.): o{ti metapemfqei;~ uJpæ aujtou` ejk th`~ ÔRwvmh~ ajphvnthse toi`~ stratiwvtai~ Keltikoi`~ oi[kade meta; th;n ejn th`/ Biquniva/ ceimasivan, ejn h|/ tina uJpetavraxan ajpiou`sin. RITTERLING, «R. E.», XII, col. 1323. Cf. cap. VIII, nota 5. *. Vd. specialmente nota 32.
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classe a sé. Nel terzo libro delle Opiniones Ulpiano si occupa di questi maestri e mette in rilievo ch’essi si trovavano tanto nelle città quanto nei villaggi46. Anche più importanti sono le relazioni tra l’imperatore e la popolazione rurale, specialmente i coloni affittuari delle tenute imperiali. Non può mettersi in dubbio il fatto che dal tempo di Marco Aurelio e di Commodo in poi l’esercito fosse definitivamente diventato un esercito di contadini, tratti dai villaggi compresi nei territori urbani e dai demani imperiali. I villaggi divennero ormai il sostegno principale del potere imperiale, giacché le città erano ostili alla monarchia militare di Settimio Severo e dei suoi successori. Gli imperatori lo sapevano e si condussero in conformità. Abbiamo già messo in rilievo il sentimento di fiducia e di devozione mostrato verso Settimio Severo e i suoi – gli eredi legali dei divini Antonini – dalla popolazione rurale e dai coloni dei demanii imperiali in particolare; e abbiamo dimostrato che tali sentimenti traevano origine dagli sforzi sinceri fatti da Settimio Severo per migliorare le condizioni di questa classe nel suo complesso, e specialmente quella dei coloni imperiali, cercando di elevarli nella maggior misura possibile alla condizione di proprietari in pieno accordo in ciò con la politica di Adriano. Un altro aspetto della stessa politica ci è fatto conoscere da alcune iscrizioni rinvenute recentemente nella regione di Sitifis e brillantemente delucidate da J. Carcopino in due articoli47. La regione di Sitifis era, o divenne sotto Settimio Severo, un unico immenso demanio imperiale, coltivato da piccoli affittuari ch’erano in parte romanizzati, in parte indigeni. Allorché sotto Settimio
46. DIG., 50, 5, 2, 8 (ULPIAN., Opinion., 1. III): qui pueros primas litteras docent, immunitatem a civilibus muneribus non habent: sed ne cui eorum id quod supra vires sit indicatur, ad praesidis religionem pertinet sive in civitatibus sive in vicis primas litteras magistri docent. Intorno alle condizioni delle scuole di villaggio in Egitto vd. C.H. OLDFATHER, The Greek Literary Texts from the Greco-Roman Egypt, «Univ. of Wisconsin Studies in Soc. Sc. and Hist.», 9 (1923). 47. J. CARCOPINO, Les Castella de la plaine de Setif, «Rev. afric.», 294 (1918), pp. 5 sgg.; cf. IDEM, «Rev. Ét. An.», 25 (1923), pp. 33 sgg., «C. R. Acad. Inscr.», 1919, p. 386 e «Syria», 6 (1925), pp. 30 sgg., specialmente p. 52. La vita che si conduceva in una tenuta posta ai margini del deserto è ottimamente illustrata dalle sculture delle tombe di certi proprietari agrari locali rinvenute a Ghirza in Tripolitania, alcune delle quali sono state pubblicate da H. MATHUISIEULX, «Nouvelles Archives des missions scientifiques», 12 (1904), pp. 3 sgg. tavv. X e XI, [cf. la pubblicazione completa di P. ROMANELLI, La vita agricola tripolitana attraverso le rappresentazioni figurate, «Africa Italiana», 3 (1930), pp. 53 sg]. Il tipo d’agricoltura ricorda quello che predominava nella Russia meridionale (vd. nostre tavole LXI e XLVII). Una tenuta dello stesso tipo, appartenente al padre di S. Melania, è descritta da S. AGOSTINO, Epist., 46; cf. P. ALLARD, «Revue d. quest. hist.», 81 (1907), p. 11, nota 2. In un recente scritto il Carcopino ha riunito dei dati dai quali si rileva che i Severi non limitarono questa politica ai dintorni di Sitifis, sibbene la estesero anche alle parti meridionali dell’odierna Algeria («Rev. Arch.», 20 (1924), pp. 316 sgg., specialmente p. 324). Egli mette in rilievo numerose epigrafi, in parte inedite, che parlano di coloni e conductores di queste regioni; in una di esse (I. L. A., n. 9), dell’inizio del governo di Settimio Severo, è menzionato un numerus colonorom a Si-Aun, nella Tunisia meridionale.
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Severo (202 d.C.) questa regione, probabilmente a motivo di urgenti necessità militari, venne sguarnita di truppe romane, cominciò il processo di concentrazione della popolazione rurale in castella fortificati, processo certamente promosso e incoraggiato dagli imperatori. Tale concentrazione costituiva una considerevole urbanizzazione della vita dei contadini, e importava anche una certa somma, probabilmente ampia, di autonomia sotto forma di un ordinamento quasi municipale con forte impronta militare, il che era naturale, una volta che il concentramento aveva scopi unicamente militari. Oltre all’ordinamento quasi municipale, i contadini di questi villaggi fortificati ricevettero certamente svariati privilegi. Essi, come gli abitanti dei liberi villaggi della Tracia e della Siria, divennero la principale base dell’esercito dei Severi, e per conseguenza è probabile che sotto il rispetto economico fossero trattati da proprietari e non già da affittuari. Senza dubbio il loro numero fu accresciuto dallo stabilirsi di tratto in tratto di nuovi abitanti, che ricevevano terreni nelle defensiones o definitiones imperiali* e che, sebbene di nome affittuari (coloni), in realtà erano piccoli proprietari militarizzati48. La politica di Severo fu continuata da Caracalla e da Alessandro. Il numero dei castella andò continuamente aumentando, le loro cinte di terra furono sostituite da fortificazioni in pietra, si costruirono edifici pubblici e così via. Numerose iscrizioni attestano questa politica dei Severi nei paesi limitanei dell’Africa. Come abbiamo detto, essa importava una protezione speciale concessa a questa sezione della popolazione, l’ultimo elemento bellicoso che sopravvivesse nell’Impero. Il fatto era troppo cospicuo per poter esser sottaciuto neppure dalle nostre fonti letterarie e il biografo latino di Alessandro menziona espressamente gli sforzi fatti da quest’imperatore in tale senso49.
*. vd. supra p. 504. 48. Intorno ai nuovi stanziamenti e ai rapporti dei loro membri col paese vd. i dati da me raccolti nelle Studien Gesch. Kol., p. 383 sgg. Il paese fu ceduto ai nuovi residenti o da loro comperato, precisamente come avveniva nello stesso tempo in Egitto; cf. nota 52. 49. SCR. HIST. AUG., Alex. Sev., 58, 4 sg.: sola, quae de hostibus capta sunt, limitaneis ducibus et militibus donavit, ita ut eorum essent, si heredes eorum militarent, nec unquam ad privatos pertinerent, dicens attentius eos militaturos, si etiam sua rura defenderent. addidit sane his et animalia et servos, ut possent colere, quod acceperant, ne per inopiam hominum vel per senectutem possidentium desererentur rura vicina barbariae, quod turpissimum ille ducebat. Cf. K. HOENN, op. cit., pp. 103 sgg., specialmente note 207 e 208, e il diploma militare C. I. L. III, p. 2001: praeterea [liberis eorumdem] decurionum et centurio[num qui cum filis in] provinc(ia) ex se procreatis [milites ibi castell]ani essent. Il passo degli SCR. HIST. AUG. e l’epigrafe illustrano un lato della politica dei Severi, la trasformazione cioè dei soldati limitanei in contadini; fatto questo che si riscontra così in Africa (i burgi) come sui limiti renano e danubiano (i burgi sul Danubio e i castella sul Reno), cf. note 50 e 51. Le iscrizioni africane ricordate poc’anzi rivelano un altro lato della medesima politica, cioè la militarizzazione dei contadini, la creazione di nuclei di contadini militarizzati nelle zone limitanee delle province, dove essi debbono proteggere sé e le loro dimore e nello stesso tempo fornire un grosso contingente di soldati buoni e fidati, devoti all’imperatore e alla sua casa. In Africa e in Tracia, come in Egitto, fu data grande importanza a questi elementi, ai castellani seminaria militum, allo stesso modo che in Germania ai milites castellani, ch’erano soldati essi stessi e padri di futuri soldati.
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Conoscendo bene la bravura dei contadini del Danubio e dei paesi siriaci, e ammirandone grandemente le capacità militari e il vigore fisico, i Severi desideravano creare anche in Africa una classe consimile. In tal modo nel periodo dei Severi i paesi limitanei divennero le parti più prospere delle province africane, e attestarono la loro gratitudine a questi imperatori esaltandoli entusiasticamente nelle loro iscrizioni. Il moto non restò limitato all’Africa. Una consimile politica, volta ad urbanizzare e militarizzare i contadini, piccoli proprietari e affittuari, può riscontrarsi anche in Tracia. L’attività spiegatavi in questo senso da Settimio Severo e illustrata da un documento di fresco scoperto, lo statuto cioè di un ejmpovrion di nuova fondazione, chiamato Pizus, al quale sono annessi in appendice un elenco di nuovi abitanti e una lettera del governatore della provincia. Pizus non era che una delle tante fondazioni consimili di Settimio Severo: lo attesta esplicitamente il governatore nella sua lettera. Tali ejmpovria non erano né città né villaggi: parlando di essi, il governatore li chiama anche staqmoiv, stationes, mettendone così in rilievo il carattere militare. Essi non erano però stanziamenti di soldati o di veterani: gli abitanti provenivano dai villaggi vicini. Ritengo quindi che gli ejmpovria della Tracia corrispondessero ai castella dell’Africa e avessero lo stesso scopo: [erano luoghi fortificati di mercato per la popolazione di un distretto agricolo e colonie agricole militarizzate]. E da notarsi ch’essi non possedevano vera autonomia locale, sebbene avessero l’aspetto esteriore di città. Alla testa di essi v’erano dei tovparcoi bouleutaiv, praefecti, nominati dal governatore e da questo forniti d’una certa giurisdizione. Il miglior parallelo con questi prefetti s’ha quindi nei praefecti delle primitive colonie romane e dei municipia d’Italia50.
50. Per la Tracia vd. le epigrafi di Pizus, DITTENBERGER, Syll.3, 880; I. G. R. R. I, 766, e di Discoduraterae (cap. VI, nota 88). È fuori dubbio che l’ejmpovrion di Pizus, del quale possediamo il documento di fondazione, era soltanto una fra le fondazioni di questo tipo, ideate e fino a un certo punto attuate da Marco Aurelio (Discoduraterae) e più tardi da Settimio Severo (Pizus): vd. l’inizio della lettera di C. Sicinnio Claro annessa al documento di fondazione e all’elenco degli abitanti del novello ejmpovrion, DITTENBERGER, Syll.3, 880, ll.15 sgg.: th`/ proovyei tw`n staqmw`n hJsqevªnºte~ oªiJº kuvrioi hJmw`n mevgistoi ⁄ kai; qeiovtatoi aujtokravtore~ ⁄ dia; pantov~ te tou` eJautw`n aijw⁄` no~ boulhqevnte~ ejn th`/ aujth`/ eujpre⁄peiva/ diamei`nai th;n aujtw`n ⁄ ejparceivan, prosevtaxan ta; o[n⁄ta ejnpovria ejpifanevstera uJpªavrºxai, kai; ta; mh; provteron o[nta genevsqªaºi: kai; gevgonen. D. VAN BERCHEM, L’Annone militaire dans l’Empire romain au IIIe siècle, «Mém. de la Soc. d. Ant. de France», 10 (1937), pp. 182 sgg. considera l’emporium di Pizus come una mansio, un centro per avere pronta l’annona. Il termine di ejmpovrion naturalmente indica un luogo di mer-
cato (il latino forum) che non era né villaggio né città. Gli ejmpovria sono anche staqmoiv, stationes, nel senso militare della parola. Le numerose agevolazioni concesse agli abitanti di siffatti emporia, ll. 49 sgg. toutevstin ⁄ poleitikou` seivtou ajneiforivan ⁄ kai; sunªthrºeiva~ bourgarivwn kai; ªfºrourw`n kai; ajngareivwn a[nesin, mostrano che i nuovi residenti formavano nella provincia una classe privilegiata. L’unica ragione di questi favori era, per quanto io posso scorgere, l’importanza militare di questi nuovi centri di vita semiurbana, che così venivano creati. Non dubito quindi che gli ejmpovria della Tracia corrispondessero ai castella dell’Africa e che anch’essi dovessero fornire all’Impero buoni soldati, i quali nelle
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Anche nelle province della Germania superiore Settimio Severo e i suoi successori fecero la stessa politica. Qui, tuttavia, non c’erano contadini da trasformare in soldati, ma piuttosto soldati da far diventare lavoratori della terra. È noto che sotto Settimio Severo in Germania i nuovi castella, che proteggevano la frontiera, avevano guarnigioni o di soldati romani o di numeri indigeni. A questi castelli era assegnato un tratto di terreno, che veniva coltivato dai soldati della guarnigione, ciascuno dei quali riceveva un appezzamento e per esso pagava sui frutti un canone ad uno speciale affittuario generale, ch’era anch’egli un soldato. Possiamo paragonare questi castella ai burgi della frontiera del Danubio. Inoltre, dietro la linea di questi castella fortificati alcuni vici e alcune canabae s’erano sviluppati in città, ed erano considerati e trattati come seminari di soldati per l’esercito d’occupazione della Germania51.
loro residenze fortificate dovevano costituire il baluardo dell’Impero contro i barbari e così adempiere alla stessa funzione compiuta nel glorioso passato dalle colonie romane. Questo mio modo di vedere è confermato dal fatto che i nuovi stanziamenti non ricevettero ordinamento municipale, ed erano invece governati da speciali preposti (tovparcoi bouleutaiv), che ricevettero il diritto di giurisdizione diæ ejpistolh`~, ed erano perciò paragonabili sotto questo riguardo ai praefecti delle antiche colonie romane d’Italia (ll. 25 sgg.). È ovvio che gli obblighi, dai quali vennero esonerati i nuovi residenti, ricadevano tanto più gravemente sui villaggi e sulle città della provincia. Gli ejmpovria erano esenti dalle imposte reali municipali, dal servizio nelle varie corporazioni della polizia municipale e civile – onere che per esempio dava tanto da fare ai villaggi egiziani – e dall’obbligo di fornire guidatori e animali da trasporto per il cursus publicus. Intorno a tali privilegi vd. M. ROSTOVTZEFF, «J. R. S.», 8 (1918), pp. 29 sgg.; circa il poleitiko;~ si`to~, IDEM, Studien, p. 302. Questa veduta è confermata dal nome dell’emporio che fu fondato come pare sotto Marco Aurelio presso Traiana Augusta: Diskodouratevrai («duplice salda fortezza»), vd. cap. VI, nota 88. Gli ejmpovria non vanno confusi coi burgi, piccole fortezze e castelli prossimi ai confini, la cui guarnigione era formata da soldati ivi stanziati e combinata con particolari formazioni indigene di cavalleria adibite al servizio, cioe coi veredarii. Siffatti fortini li troviamo sul Danubio, sul Reno, in Africa («J. R. S.», loc. cit., cf. l’iscrizione di Kara-Kutuk presso Burgas, dalla quale risulta che il sistema dello stabilimento di burgi e praesidia risale oltre Commodo, vd. G. KAZAROV, «Bull. de l’Inst. archéol. bulgare», 4 (1926-27), p. 108; Ann. ép., 1927, n. 49, iscrizione dell’età di Antonino Pio, cf. A. SALACˇ e K. SKORPIL, Nékolik Archeologicky´ch Památek ecc., «Accad. ceca delle scienze», 1928, p. 61, n. 26). Sui burgi e i castella come fortezze per difendere il limes contro le invasioni dei barbari (latrunculi) si veda A. ALFÖLDI, Epigraphica. IV, «Arch. Ertesitö», 1941, pp. 30-59. Nel documento di fondazione di Pizus è detto espressamente che gli abitanti degli
ejmpovria non sono sottoposti ai doveri dei burgarii né a quelli dei veredarii. Questi ultimi conati dell’Impero romano per l’urbanizzazione delle province e per la creazione d’una nuova classe di cittadini privilegiati si distinguono in modo singolare da quelli della monarchia illuminata. Gli imperatori del sec. III ripresero i metodi della repubblica e della prima età imperiale e rifecero in forma modificata il tentativo di romanizzare l’Impero mediante colonie militari. Settimio Severo e Alessandro furono gli ultimi imperatori che inviarono vere colonie in città già esistenti, p. es. ad Uchi Maius e a Vaga in Africa (A. MERLIN e L. POINSSOT, Les Inscriptions d’Uchi Maius, p. 21). 51. Per la Germania vd. E. FABRICIUS, «Hist. Zeitschr.», 98 (2), 1907, pp. 23 sgg.; A. VON DOMASZEWSKI, Die Schutzgöttin von Mainz. Abhandlungen zur röm. Rel. (1909),
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Possiamo finalmente ricordare a questo proposito le cosidette kolwnivai di veterani romani in Egitto. Questi stanziamenti, che appaiono in varie parti del paese, ma specialmente nel Fajiûm, risalgono per lo meno agli inizi del secolo secondo d.C. Essi erano formati da soldati congedati che acquistavano dal governo appezzamenti di terreno a prezzo nominale, e costituivano nel territorio d’un dato villaggio un corpo di cittadini romani provveduti di una certa autonomia locale (a somiglianza degli antichi politeuvmata del periodo tolemaico). Sotto Settimio Severo vennero fondate non poche colonie di questo tipo. Gli abitanti ricevevano il loro appezzamento di terra a titolo di largizione dell’imperatore, e probabilmente godevano di più larga autonomia. L’istituzione fu di breve durata, e probabilmente rimase sommersa dallo sviluppo preso dalla vita municipale in Egitto in seguito alla concessione, fatta nel 212 d.C., della cittadinanza romana a tutte le classi privilegiate della popolazione. Non può negarsi tuttavia che Settimio Severo, mentre richiamava in vita la politica dei primi imperatori col mandare molte colonie di veterani in varie città già esistenti (come a Tiro e Samaria in Fenicia e in Palestina, ad Uchi Maius e Vaga in Africa), si proponeva con la fondazione di nuove kolwnivai in Egitto di conseguire lo stesso risultato che in Africa, in Tracia, in Germania. Questi nuclei di nuovi coloni stanziati in tutto l’Egitto secondo i desideri dell’imperatore dovevano fornire all’esercito imperiale un certo numero di buoni soldati e alcune truppe scelte; in essi egli sperava d’avere altrettanti gruppi di strenui sostenitori del suo regime di assolutismo fondato sull’esercito e messo a servizio del principio dinastico52.
p. 129 sgg.; IDEM, Die Juppitersäule in Mainz, ibid., pp. 139 sgg.; E. SADÉE, «Bonn. Jahrb.», 1923, pp. 109 sgg. Cf. cap VI, nota 44. 52. Intorno alle kwlonivai d’Egitto vd. E. KORNEMANN, «Klio», 11 (1911), p. 390; U. WILCKEN, Grundzüge, p. 403; IDEM, Chrest., n. 461; J. LESQUIER, L’Armée romaine d’Égypte, pp. 328 sgg. Si osservi il fenomeno parallelo, rilevato dal KORNEMANN, che si avverò in seno alle civitates galliche nel sec. I d.C. Come si è visto, la politica di Settimio Severo fu, mutatis mutandis, quella stessa di Silla, Mario, Cesare, Augusto. Certamente così facendo Settimio Severo rinunziava alla creazione di centri effettivi di vita urbana: con i suoi provvedimenti egli non si propose di promuovere nell’Impero lo sviluppo della vita urbana, ma di creare una nuova aristocrazia privilegiata di residenti militari, separata dagli elementi municipali o ad essi giustapposta, la quale si sentisse strettamente legata ai membri della nuova dinastia e alla loro politica. Ma in sostanza anche le colonie di Mario, Silla, Cesare, Augusto avevano avuto il medesimo scopo. A questo proposito va rilevato che Settimio Severo durante il suo soggiorno in Egitto (199-200) studiò accuratamente le condizioni economiche del paese e si propose ancora una volta di riguadagnare i terreni temporaneamente improduttivi, dividendoli e vendendoli a soldati e modificando le condizioni alle quali le terre della corona venivano affittate a fittuarii grandi e piccoli. Può darsi che le confische, di cui si è parlato avanti, abbiano accresciuto l’estensione dei terreni posseduti immediatamente dall’imperatore in Egitto. Probabilmente per questo motivo, e anche per limitare la potenza del prefetto, Settimio Severo creò il nuovo ufficio del direttore delle finanze per l’Egitto, del kaqolikov~ o rationalis, dandogli il grado di vir perfectissimus o diashmovtato~. Il primo kaqolikov~ dell’Egitto, Claudio Giuliano (dal 202 d.C.), era stato praefectus annonae nel 201, e
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Ritengo molto probabile che i Severi abbiano fatto la stessa politica anche in Siria. Sin dai tempi dei Flavii e di Traiano questa regione aveva acquistato molta importanza come zona di reclutamento per l’esercito romano, cui forniva pregevoli cohortes, alae e numeri d’arcieri a cavallo, ch’erano molto adoperati in tutto l’Impero, compresa la stessa Siria. Essi uscivano in parte dalle file dei veterani stanziati in Siria e forniti della cittadinanza romana. Probabilmente nell’età appunto dei Severi si fece un altro passo su questa via. [Gli imperatori, non contenti delle regioni che costituivano la provincia di Siria, vollero più ampiamente servirsi, a scopo militare, dei territori semi indipendenti, cioè limitrofi, della
quindi conosceva bene le risorse e l’amministrazione del paese. vd. P. Giss., 48; F. ZUCKER, «Sitzb. Berl. Akad.», 1910, p. 713; A. STEIN, «Arch. f. Pap.-F.», 5 (1913), p. 418; U. WILCKEN, Grundzüge, p. 157. Cf. cap. VIII, nota 37. Ritornerò su questo punto della politica di Settimio Severo, quando verrà il momento di trattare di alcuni documenti di contenuto consimile appartenenti all’età di Filippo; vd. cap. XI, nota 57. È singolare come in entrambi i gruppi di documenti il kaqolikov~ appaia in relazione col suo aiutante, un procuratore romano. Quest’ultimo ufficio sotto Settimio Severo era ricoperto da Claudio Diogneto, che agiva in nome del predetto Giuliano e compare in documenti concernenti terreni non inondati, privati e imperiali, P. Hamb., 11, cf. 12, introduz. Circa la vendita di terreni a privati, per lo più soldati o veterani, vd. cap. VII, nota 44. Riguardo alle terre non inondate vd. W.L. WESTERMANN, «Class. Philol.», 16 (1921), pp. 169 sgg. Dalle considerazioni del WESTERMANN risulta esser molto probabile che gli imperatori, imponendo oneri tributari elevati alle terre non inondate, cercassero di costringere i proprietari ed affittuari ad irrigare artificialmente il terreno e a non lasciarlo inseminato. L’affermazione di WESTERMANN è stata contestata da T. KALEN, Berliner Leihgabe griechischer Papyri, Uppsala, 1932, pp. 323 sg.; S. LE ROY WALLACE, Taxation in Egypt from Augustus to Diocletian, Princeton, 1938, p. 8, nota 36; A.C. JOHNSON (apud WALLACE, loc. cit.) ha suggerito che parte della gh' a[broco" potesse essere permanentemente irrigata e producesse due raccolti l’anno per quanto non inondata dal Nilo. È possibile che le mie considerazioni siano valide anche se WESTERMANN ha torto. Passare dalla gh' e[mbroco" alla gh' a[broco", cioè dalla classe inferiore a quella superiore, potrebbe essere stato evitato da parte dei contadini. Può esser che siffatto metodo risalisse a
tempi antichi, e che fosse in uso già sotto gli ultimi Tolomei; ma soltanto nella seconda metà del sec. II venne applicato con insistenza, come risulta dalla circostanza che le dichiarazioni di terreno non inondato, che si sono conservate (vd. cap. VII, nota 47), appartengono alla seconda metà del II e al III sec. e in ciascun caso fanno menzione di speciali ordinanze dei prefetti (o, dopo Settimio Severo, del kaqolikov~); ordinanze che rendevano obbligatorie siffatte dichiarazioni e costituivano indubbiamente un’innovazione. Questa categoria di terreni era la bête noire, dei contadini egiziani, assuefatti alla facile lavorazione delle terre inondate; e probabilmente una delle principali mansioni del nuovo ufficio creato da Settimio Severo era quella di trovare agricoltori disposti a gettare denaro e lavoro in terreni siffatti. Individui di tal sorta si potevano trovare tra i soldati e veterani dell’esercito romano, che dagli imperatori del sec. III erano stati arricchiti a spese del resto della popolazione. Ci troviamo forse qui di fronte allo stesso principio, che guida la politica dei Tolomei nei rispetti dei terreni asciutti e non inondati? Vd. W.L. WESTERMANN, «Class. Philol.», 17 (1922), pp. 21 sgg., e M. ROSTOVTZEFF, A Large Estate (1922). La differenza consisteva in questo: il terreno messo a cultura sotto i Tolomei era suolo vergine, mentre gli imperatori romani cercavano di riguadagnare alla coltivazione terre abbandonate e incolte, che un tempo però erano state coltivate.
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Siria. Il più importante e il più civile di questi territori era quello di Palmira. Forse fin dai tempi di Traiano, e certamente da quelli di Adriano in poi Palmira, pure rimanendo autonoma, fu nondimeno occupata da una guarnigione romana. In compenso essa forniva all’esercito romano parecchie unità di soldati, armati e vestiti alla moda nazionale, i numeri palmireni, ch’erano stanziati fuori del territorio di Palmira e fuori della Siria. Sotto i Severi accanto a questi numeri appariscono unità regolari dell’esercito romano, le coorti chiamate «palmirene», composte certamente da soldati reclutati nel territorio palmireno. Sotto Alessandro Severo una di queste coorti, la ventesima, era di guarnigione a Dura. Queste coorti palmirene certamente formavano parte dell’esercito romano ed erano comandate da ufficiali romani. Contemporaneamente gli imperatori concessero a Palmira e alle città dell’Eufrate, p. es. a Dura, e della nuova provincia di Mesopotamia, tutte centri militari importanti, il titolo di colonie romane. Questi fatti vanno spiegati nel modo seguente. Senza por fine all’autonomia di Palmira i Severi, dando a Palmira il titolo di colonia e reclutando a Palmira non più numeri ma coorti, volevano far capire alla città che d’ora in poi essa era parte integrante dell’Impero romano. E che essa si adattasse a questa parte, i Severi si fidarono completamente. Tollerarono che coorti levate a Palmira fossero adoperate nelle vicinanze della città, quasi nel territorio palmireno medesimo, e aumentarono continuamente il numero di queste coorti, che divennero un vero e proprio esercito palmireno, benché ufficialmente facessero parte dell’esercito romano di Siria. In questo modo i Severi pensavano di poter creare un baluardo dell’Impero romano sul confine coi Parti e più tardi coi Sassanidi, cioè di fare la stessa cosa che fecero in Africa, sul Reno e sul Danubio, ma con altri mezzi. Il giuoco era pericoloso, e la fiducia dei Severi nei sentimenti leali dei Palmireni esagerata. Alcuni decenni più tardi Palmira, com’è noto, si distaccò dall’Impero romano. Non è improbabile che il nucleo dell’esercito di Odenato e di Zenobia fosse costituito appunto da queste coorti palmirene, ch’erano stanziate nelle vicinanze di Palmira. Sfortunatamente sulla composizione degli eserciti di Odenato e di Zenobia non sappiamo niente di sicuro52a].
52a. L’esposizione da me data nel testo si fonda essenzialmente sui nuovi ritrovamenti di Dura. Le linee fondamentali del processo sono state già tracciate da F. CUMONT, Fouilles de Doura-Europos, pp. XLVII sgg. I nuovi scavi di Dura hanno accresciuto considerevolmente le nostre conoscenze. Dopo Lucio Vero a Dura, diventata una delle più importanti fortezze romane sull’Eufrate, furono messi di presidio distaccamenti dell’esercito regolare di Siria; uno di essi era la cohors secunda Ulpiana equitata civium Romanorum sagittariorum. Sotto Alessandro Severo troviamo a Dura la XX coorte dei Palmireni, formata di arcieri montati. Intorno allo stesso tempo Dura insieme con altre città dell’Eufrate ricevette il titolo di colonia romana (cf. nota 17). Questa nuova condizione della nuova provincia di Mesopotamia fu creata probabilmente da Settimio Severo nel corso della sua guerra contro i Parti. Vedi Excavations at Dura Europos. Preliminary Report I (1929), pp. 50 sgg.; [II (1931), pp. 82 sgg. (C. Hopkins); III (1932), p. 51 (H.T. Rowell). L’essere stati rinvenuti a Dura, nella campagna di scavi del 1931-32, un pretorio con molte iscrizioni e l’archivio della guarnigione romana con parecchi papiri e pergamene, contribuirà alla nostra conoscenza della condizione di Dura e della Mesopotamia nell’età dei Severi]. Cf. cap. VII, nota 27 e V, nota 20.
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Nel sesto capitolo abbiamo messo in rilievo come la creazione di castella e l’urbanizzazione di villaggi e di canabae in tutto l’Impero si collegasse strettamente col diffondersi, in queste mezzo città, mezzo villaggi, delle associazioni di giovani, cioè dei cosidetti collegia iuvenum, che in effetti erano associazioni speciali sorte con l’intento di addestrare ed educare nello spirito di devozione futuri soldati ed ufficiali. Non senza motivo vediamo queste associazioni, create già da Augusto come fondamento della struttura militare dell’Impero e della nuova forma di governo, morire in Italia e nelle province urbanizzate, e trasmigrare invece nei paesi di frontiera dell’Impero. Questa migrazione è un segno eloquente dei tempi. L’unica classe sulla quale l’Impero potesse ormai appoggiarsi era quella degli abitanti, inciviliti soltanto a metà, dei paesi ch’erano in contatto immediato coi nemici di Roma53. Caracalla con la sua predilezione per i biondi Germani e per i bellicosi Persiani mostrò di sentire istintivamente l’amara verità che l’Impero romano non poteva ormai affidarsi che a questi elementi. Non v’era altra via di salvezza54. È probabile che anche nei nuovi castella africani si siano sviluppate consimili associazioni di giovani55. Questi fatti coincidono con la prassi precedentemente menzionata di stanziar barbari nell’interno dell’Impero romano. La politica dei Severi, come io ho cercato di delinearla nelle pagine precedenti per le diverse parti dell’Impero romano, fu ricca di gravi conseguenze. Essa infatti condusse alla trasformazione dell’esercito romano, almeno in parte, in un corpo di contadini sedentari, che doveva necessariamente palesarsi altrettanto insufficiente quanto quello dei Tolomei in Egitto. Nell’intraprendere quest’innovazione i Severi possono essersi lasciati indurre principalmente da due considerazioni: in primo luogo dalla fiducia nella capacità militare, politica, sociale d’un siffatto esercito di contadini. Che abbiano nutrito questa fiducia non è cosa strana: la ritroviamo per esempio anche in Alessandro I e in Nicola I di Russia, che da essa si lasciarono anche loro indurre a sperimentare il medesimo espediente. L’altra considerazione era dettata dallo stato delle finanze: le gravi difficoltà monetarie possono aver suggerito ai Severi di pagare almeno in parte i soldati con valori reali, concedendo loro dei terreni da coltivare; questo provvedimento poi può essere stato a sua volta la causa del riconoscimento legale del matrimonio dei soldati. Se però siano stati questi motivi finanziari i deci-
53. Vd. cap. VII, nota 52. 54. DIO CASS., 78, 6, 1 (ed. Boissevain, vol. III, p. 108); HERODIAN., IV, 7, 3. 55. Vd. cap VII, nota 71, specialmente l’epigrafe di Thuburnica: C. Herennius M. r. Quir. Festus veteranus leg. X Fretensis honesta missione dimissus, praefectus tironum in Mauretania, praef[ec]tus iuventutis, II vir bis. Evidentemente qui esisteva uno stretto legame tra il reclutamento dei soldati e le associazioni dei giovani. Si pensi anche alle frequenti menzioni della iuventus imperii nelle monete dei Severi (H. COHEN, Monn. imp., Caracalla, nn. 115 sg.; 405 sgg.; 411 sg.; Geta, 217 sg.). Caracalla e Geta, come già Gaio e Lucio sotto Augusto, erano presidenti d’onore della gioventù dell’Impero che aveva ricevuto novellamente le armi. Sono ugualmente singolari tanto lo stretto rapporto tra le idee d’Augusto e quelle di Settimio Severo quanto le loro differenze derivanti dalle diverse circostanze di fatto.
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sivi, oppur no, non potremo dirlo, finché non sapremo se i soldati così fissati al suolo ricevessero o no un soldo inferiore a quello degli altri55a. Ad onta degli sforzi ripetutamente fatti per migliorare le condizioni delle classi inferiori, tanto queste quanto le classi superiori, da poche eccezioni in fuori, erano assai mal ridotte, specialmente nei riguardi economici. Quanto più la pressione dello Stato gravava sulle classi superiori, tanto più intollerabile diventava anche la condizione delle inferiori. Né le leggi né l’amministrazione potevano migliorare lo stato delle cose. Alessandro Severo o piuttosto i membri del suo gabinetto, i grandi giuristi dell’età, videro quanto era critica la condizione dell’Impero e si sforzarono di salvarlo. Furono parzialmente abolite alcune imposte, specialmente il pesantissimo aurum coronarium, ch’era stato esatto senza alcun riguardo da Eliogabalo, alle classi superiori e alle città vennero concessi certi nuovi condoni e privilegi: ma tali provvedimenti non ottennero il risultato desiderato56. Alessandro ricorse sempre di bel nuovo al sistema
55a. H. DELBRUECK, Gesch. d. Kriegskunst, II, 19213, p. 240 spiega questa nuova politica di stanziamenti, inaugurata dai Severi, con le difficoltà finanziarie e specialmente col tracollo della valuta; ed è in ciò seguito da E. STEIN, Gesch. d. spätröm. Reiches, I (1928), p. 90. Naturalmente l’interpretazione che dà il DELBRUECK del passo di HERODIAN., III, 8, 4 è errata. Tuttavia i provvedimenti dei Severi possono fino a un certo punto avere risentito l’influsso di considerazioni finanziarie: queste però indubbiamente ebbero valore soltanto secondario; i moventi principali furono di natura politica, sociale, militare. 56. Intorno all’aurum coronarium, vd. J.G. MILNE, History of Egypt (1898), pp. 228 sgg.; U. WILCKEN, Zu den Edikten, «Zeitschr. d. Savigny-Stif.», 42 (1921), pp. 150 sgg.; B. GRENFELL e A. HUNT, P. Oxy., 1441 (192-200 d.C.), introduz. e 1659, computo di somme pagate sotto Eliogabalo (218-221) dal nomo oxyrhynchite a titolo di stefanikovn; P. MEYER, P. Hamb., 80, 81 introd.; P. S. I., 733 (Alessandro) e P. Oxy., 1433 (Pupieno, Balbino, Gordiano). Le menzioni dello stefanikovn sono notevolmente rare nei papiri egiziani del sec. I e della prima parte del II, mentre diventano frequenti sotto Marco Aurelio, Commodo, i Severi, specialmente sotto Eliogabalo e dopo di lui, quando l’oro della corona diventò un’imposta regolare. Ma anche in questo periodo e anche più dopo di esso furono in voga sotto lo stesso nome imposte complementari e straordinarie. L’accurato esame del P. Fay., 20, fatto da U. WILCKEN, mostra che questo papiro – editto imperiale circa il condono parziale dell’aurum coronarium – deve andar riferito all’età di Severo Alessandro; cf. J. BIDEZ e F. CUMONT, Imp. Caesaris Flavii Claudii Iuliani epistolae, leges etc. (1922), p. 83, n. 72 (in cui non si tien conto dello scritto del WILCKEN, e l’editto viene ancora attribuito all’imperatore Giuliano); C. BARBAGALLO, «Aegyptus», 1 (1920), pp. 348 sg. ed ENSSLIN, «Klio», 18 (1922-23), pp. 128 sgg. Il WILCKEN ha dimostrato quanto quest’editto sia caratteristico per le idee e gli ideali che contraddistinguono la signoria di Alessandro Severo e per le sue tendenze liberali, stranamente contrastanti con la realtà brutale. Alla swfrosuvnh, all’umanitarismo e allo spirito di economia della corte di Alessandro si contrapponeva la violenza egoistica delle truppe imperiali, decise ad ottenere ad ogni costo l’appagamento dei loro desideri, e la condotta brutale dei governatori e procuratori. Cf. la lettera di Alessandro al koinovn dei Bitinii, di cui possediamo il testo nel DIG., 49, 1, 25 (dai responsa di Paolo 1. XX) e in un papiro egiziano trovato di recente (P. Oxy. 2104). La lettera è un’ordinanza generale ai procuratori e governatori provinciali, con la quale si vieta d’impedire a chicchessia, per biva (vis), u{bri~ (iniuria) e froura; stratiwtikhv (custodia militaris), di appellarsi
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del lavoro coattivo e delle liturgie. In tal senso vanno intesi certi nuovi avvedimenti ch’egli introdusse relativamente alle associazioni di mercanti e d’industriali. Per attrarre i mercanti specialmente alla capitale egli abolì l’imposta ch’essi pagavano e la sostituì con una nuova imposta levata sugli artigiani produttori, e nello stesso tempo importò personalmente dall’Egitto grandi quantità di prodotti industriali, che gli venivano pagati a titolo di imposta in natura dai contadini e artigiani egiziani (anabolicum). Quest’espediente mostra quanto fosse scarsa a Roma la produttività delle industrie locali, e quanto gravemente il commercio marittimo e l’attività economica in generale fossero oberati di imposte e di servizi coattivi. D’altra parte Alessandro accrebbe il numero delle corporazioni ritenute utili allo Stato, alle quali si richiedeva servizio coattivo. Abbiamo visto che le corporazioni dei battellieri e dei mercanti sin dall’inizio del secolo secondo erano state poste in gran parte alla dipendenza dello Stato. Abbiamo anche ricordato i privilegi che esse ottennero da vari imperatori a titolo di compenso per i loro servizi coattivi, e messo in rilievo l’importanza dei provvedimenti presi da Commodo per creare una flotta commerciale africana sul modello di quella d’Alessandria. Con gli stessi principii vennero ora ordinate alcune altre associazioni, specialmente di Roma: vennero riconosciute non soltanto come associazioni legali, ma anche come corporazioni al servizio dello Stato. Le nostre fonti menzionano i commercianti di vino e di lupini, e i calzolai, ma dànno questi nomi soltanto exempli gratia e indicano che i provvedimenti d’Alessandro avevano carattere più generale e riguardavano quasi tutte le corporazioni. In ogni caso è evidente a che mirasse la riforma: senza compulsione e, in ultimo, senza l’ingerenza diretta dello Stato, il governo era impotente. L’esercito divorava le risorse dello Stato, e la popolazione, anche quella di Roma, scarseggiava sempre più dei necessari approvvigionamenti. In questi terribili frangenti lo Stato s’appigliava ai metodi coercitivi57. Sintomo della banca-
al tribunale dell’imperatore. Molto interessante è la motivazione, ll. 13 sgg.: eijdovte~ o{tªi toºsou`ªtovn moi mevlei th`~ tw`n ajrcoºmevnwn ejleuqerivªa~ o{son kai; th`~ eujnoiva~ aujtw`n kai; peivqou~º. Si osservi che ejleuqeriva si riferisce ai cittadini romani, eu[noia e peiqwv ai sudditi. vd. P.M. MEYER, De epistula Severi Alexandri Dig., XLIX, 1, 25 = P. Oxyrh. XVII, 2104, in Studi in onore di P. Bonfante, II, 1929, pp. 341 sgg. Riduzione d’imposte: SCR. HIST. AUG., Alex. Sev., 39, 6, passo non menzionato da K. HOENN. La notizia d’altronde è di carattere molto generico e la misura della riduzione probabilmente esagerata; ma ritengo certo che contenga un nucleo di verità. Nel cap. 40, 2, il biografo parla di sussidi concessi ai proprietari fondiari per alleviare le loro condizioni: col fornir loro inventario vivente, strumenti agricoli e schiavi si mirava a conservare in attività le loro aziende agricole (cf. il passo del discorso di Mecenate citato nella nota 43). Questo provvedimento rispondeva allo spirito della monarchia illuminata, e i mezzi adoperati rispecchiavano il cattivo stato delle finanze imperiali. Soccorsi alle città: ibid., 21, 1 sg. Essi furono dati non in forma di sussidi, ma soltanto con la concessione di adoperare per utile delle città i vectigalia locali. 57. A.W. PERSSON, Staat und Manufaktur im röm. Reiche (1923), pp. 58 sgg. Non posso persuadermi che i dati degli SCR. HIST. AUG. relativi a questi provvedimenti non siano altro che falsificazione: si riconosce qui una naturale avanzata sulla via già indicata dagli imperatori del sec. II. Il condono delle imposte per i mercanti e l’introduzione
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rotta dello Stato era, come s’è già accennato, il progressivo peggioramento della moneta, che può ben essere stato una necessità, ma che tuttavia distrusse il credito dello Stato ed ebbe la sua parte di colpa nel causare l’incertezza della vita economica e i convulsivi mutamenti dei prezzi*. Il risultato delle condizioni in cui si trovava l’Impero e della politica seguita dagli imperatori fu quello che poteva prevedersi. Il lieve miglioramento avveratosi negli ultimi anni di Settimio Severo dileguò. Sotto Alessandro i
di un’imposta sulla produzione erano provvedimenti locali per la sola città di Roma. Di uguale natura furono più tardi i provvedimenti di Aureliano collegati con l’anabolicum dell’Egitto; cf. A.W. PERSSON, op. cit., pp. 35 sg. Che l’anabolicum come imposta distinta risalga ad età anteriore ad Aureliano è dimostrato dai sigilli di piombo (dell’età di Settimio Severo) trovati a Lione e da me pubblicati e studiati («Röm. Mitt.», 11 (1896), pp. 317 sgg.; «Woch. kl. Phil.», 1900, p. 115; Étude sur les plombs ecc. (1900), cap. I; P. DISSARD, Coll. Récamier, pp. 1 sgg., nn. 1-3), e le numerose menzioni di quest’imposta che si trovano in papiri dell’inizio del sec. III (REIL, Beiträge ecc., pp. 9 e 17, nota 7; F. ZUCKER, «Philologus», 70 (1911), p. 100; P. JOUGUET, P. Thead., 34, 25, p. 184; P. S. I., 779); vd. anche i due ostraka della collezione Michigan dell’epoca di Probo: H.C. YOUTIE, New Readings in Michigan Ostraca, «Trans. Amer. Phil. Ass.», 72 (1941), pp. 439 sgg. (con discussione del problema e bibliografia). Cf. WALLACE e VAN BERCHEM, locc. citt., su annona e frumentationes . Il PERSSON spiega le anabolicae species come «merci di
magazzino» in contrapposizione alle annonariae species (derrate di stagione). Io invece inclino a ritenere che le anabolicae species fossero quelle soggette all’anabolicum, e che quest’ultimo fosse una particolare imposta reale o contribuzione di merci, la cui produzione o manipolazione nell’età tolemaica erano state monopolizzate dallo Stato (lino, canape, vetro, papiro). Il verbo ajnabavllein, donde deriva ajnabolikovn, significa probabilmente, come terminus technicus del linguaggio fiscale, «ripartire», cioè una certa quantità di una determinata qualità di merce per l’esportazione a Roma e in altre città dell’Impero, per modo che il quantitativo «ripartito» rappresentava un nuovo pagamento addizionale o un’imposta antica sotto altra forma, addossata ai produttori di materie prime (p. es. lino, canape) e ai fabbricanti (vetro, papiro). A Roma il prodotto di quest’imposta veniva adoperato per la popolazione della città e per i pretoriani, a Lione per i bisogni dell’esercito renano. Fino a un certo punto l’anabolicum aveva somiglianza con l’annona, in quanto anch’esso importava la trasformazione di pagamenti in moneta in contribuzioni reali, e più esattamente, l’aggiunta di siffatte contribuzioni alle regolari imposte in denaro. Poiché l’anabolicum come imposta a sé si trova ricordato per la prima volta sotto Settimio Severo, può essere che sia stato lui ad introdurla, oppure gli ultimi Antonini, sotto la pressione delle difficoltà finanziarie. Alessandro non fece che rinnovare sistemi che erano esistiti prima di lui. Può darsi che i provvedimenti relativi alle corporazioni abbiano allora avuto un’applicazione più generale, sebbene anche il tenore del passo relativo della biografia (Alex. Sev., 33) lasci nuovamente intravedere solo un provvedimento di carattere locale. Il passo decisivo verso la statizzazione delle corporazioni, così a Roma come nel resto dell’Impero, non venne fatto prima di Aureliano; vd. E. GROAG, Collegien und Zwangsenossenschaften im dritten Jahrhundert, «Vierteljahresschrift f. Sozial u. Wirtschaftsg.», 2 (1904), pp. 491 sgg. È difficile dire fino a che punto si sia spinto lo Stato nel sistema di sostituire l’economia naturale alla monetaria: la maggior parte dei passi delle biografie di Alessandro e dei suoi successori, che si riferiscono all’economia naturale, sono tarde falsificazioni. *. Le prove alla nota 31a.
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briganti divennero nuovamente infesti per mare e per terra; si dovettero prendere provvedimenti straordinari specialmente contro la pirateria, e l’Impero romano sembrò ritornato ai deplorevoli tempi del primo secolo a.C., quando la pirateria aveva reso il commercio praticamente impossibile. Non deve quindi recarci meraviglia che scrittori come Cipriano, descrivendo le condizioni dell’Impero alla fine di questo periodo, siano pieni di pessimismo, e parlino del completo esaurimento delle forze della natura e dell’umanità. Si può obiettare che Cipriano era cristiano, e che dava al suo quadro colori più foschi di quel che comportasse la realtà; ma è difficile supporre ch’egli avrebbe potuto parlare in quel tono, se il quadro da lui presentato non fosse stato perfettamente familiare al suo uditorio58.
58. Circa la pirateria vd. le epigrafi di P. Sallustio Sempronio Vittore (Prosop. imp. Rom., III, p. 160, n. 69; «R. E.», II ser., I (1920), col. 1958), che sotto Severo Alessandro ebbe un comando straordinario, in forza del quale era designato quale th`~ ejpi; pa`san qavlassan hJghsavmeno~ eijrhvnh~ metæ ejxousiva~ sidhvrou. Un altro ragguardevole personaggio dello stesso periodo, C. Sulgius L. f. Pap. Caecilianus, iniziò la sua carriera in qualità di guardia del corpo dell’imperatore (optio peregrinorum) e d’istruttore della polizia militare segreta (esercitator militum frumentariorum); più tardi fu promosso a comandante della divisione navale lasciata a Miseno per la protezione dell’Italia, con l’incarico di provvedere al trasporto del bagaglio imperiale e di approvvigionare la Corte durante i viaggi dell’imperatore: praepositus reliquationi classis praetoriae Misenatium piae vindicis et thensauris domini[cis e]t bastagis copiarum devehendar(um), DESSAU, I. L. S., 2764; A. VON DOMASZEWSKI, «Rh. Mus.», 58 (1903), p. 386. Circa i disertori e i provvedimenti presi contro di essi vd. DIG., 11, 4, 1, 12 (228 d.C.; ULPIAN., Ad edict., 1. I); cf. i provvedimenti analoghi di Marco Aurelio, DIG., 11, 4, 3; 11, 4, 1, 1. Quanto profonde radici avesse messo il sistema dello spionaggio, e quale piaga esso fosse per la popolazione dell’Impero, lo si può desumere dalla descrizione che dell’attività degli spioni è data nel celebre discorso di Mecenate, DIO CASS., 52, 37, 2 sgg.: kai; ejpeidhv ge ajnagkai`ovn ejsti kai; dia; tau`ta kai; dia; ta\lla kai; wjtakoustei`n tina~ kai; diopteuvein pavnta ta; th`/ hJgemoniva/ sou proshvkonta, i{na mhde;n tw`n fulakh`~ tino~ kai; ejpanorqwvsew~ deomevnwn ajgnoh`/~, mevmnhso o{ti ouj crh; pa`s in ajplw`~ toi`~ legomevnoi~ uJpæ aujtw`n pisteuvein, ajllæ ajkribw`~ aujta; diaskopei`n. sucnoi; ga;r, oiJ me;n musou`ntev~ tina~, oij dæ ejpiqumou`nte~ w|n e[cousin, a[lloi carizovmenoiv tisin, a[lloi crhvmata aijthvsantev~ tina~ kai; mh; labovnte~, ejphreavzousin aujtou;~ wJ~ newterivzonta~ h] kai; a[llo ti ajnepithvdeion kata; tou` aujtarcou`nto~ h] fronou`nta~ h] levgonta~. ou[koun eujqu;~ oujde; rJa/divw~ prosevcein aujtoi`~ dei`, ajlla; kai; pavnu pavnta dielevgcein, cf. cap. X, nota 23. Intorno alla condizione generale dell’Impero romano vd. CYPRIAN., ad Demetrianum, 3 (CORP. SCR. ECCL., III, 1, pp. 352 sg. ediz. Hartel): hoc etiam nobis tacentibus […] mundus ipse iam loquitur et occasum sui rerum labentium probatione testatur. non hieme nutriendis seminibus tanta imbrium copia est, non frugibus aestate torrendis solita flagrantia est nec sic verna de temperie sua laeta sunt nec adeo arboreis fetibus autumna fecunda sunt. minus de ecfossis et fatigatis montibus eruuntur marmorum crustae, minus argenti et auri opus suggerunt exhausta iam metalla et pauperes venae breviantur in dies singulas et decrescit ac deficit in arvis agricola, in mari nauta, miles in castris, innocentia in foro, iustitia in iudicio, in amicitiis concordia, in artibus peritia, in moribus disciplina.
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SCHEDA 1 ADOZIONE (FITTIZIA) DI SETTIMIO SEVERO DA PARTE DI MARCO AURELIO T. FRANK, An Economic Survey of Ancient Rome, V, Baltimore,1940, p. 80, considera quest’atto come dettato dal desiderio di Settimio Severo non di figurare come l’erede legittimo della dinastia regnante degli Antonini, con tutto quello che la cosa significava dal punto di vista politico, ma dallo sforzo di incorporare i beni dei Marco Aurelio e di Commodo nella res privata. Può trattarsi di una motivazione secondaria, ma non riesco a capire come avrebbe potuto trattarsi di una primaria. Il patrimonium dei Giulio-Claudi era stato preso da Vespasiano senza la finzione di un’adozione. Questa via era aperta per Settimio Severo e l’atto sarebbe stato giudicato legittimo dai suoi contemporanei. Perché ricorrere a un’adozione fittizia per possedere i beni degli Antonini come loro erede personale e non come capo dello Stato romano? Dal punto di vista finanziario non faceva la minima differenza. Politicamente la creazione della res privata in generale enfatizzava l’idea del governo personale e ereditario di Settimio Severo. Cf. S.N. Miller, C. A. H., XII, 1939, pp.34 sgg. (ragioni politiche per l’adozione postuma): cf. sul patrimonium e la res privata principis, pp. 27 sgg.
SCHEDA 2 CONSTITUTIO ANTONINIANA. BIBLIOGRAFIA Sulla constitutio Antoniniana F.M. HEICHELHEIM, The Text of the Constitutio Antoniniana and the Three Other Decrees of the Emperor Caracalla Contained in Papyrus Gissensis 40, «Journ. of Eg. Arch.», 26 (1940), pp. 10-22; cf. la revisione del testo da parte dello stesso, Cambridge Univ. Reporter, 16 Jan. 1940. Constitutio Antoniniana e Palmira: D. SCHLUMBERGER, Les Gentilices romains des Palmyréniens, «Bull. d. Ét. Orient.», 1942-43, pp. 53 sgg. A.N. SHERWIN-WHITE, The Roman Citizenship, Oxford, 1939, pp. 221 sgg.; A.H.M. JONES, Another Interpretation of the Constitutio Antoniniana, «J. R. S.», 26 (1936), pp. 223-235; O. SCHÖNBAUER, Reichsrecht gegen Volksrecht? Studien über die Bedeutung der Constitutio Antoniniana für die römische Rechtsentwicklung, «Zeitschr. d. Savigny-Stif.», 51 (1931), pp. 277 sgg.; IDEM, Reichsrecht, Volksrecht und Provinzialrecht, «Zeitschr. d. Savigny-Stif.», 57 (1937), pp. 309 sgg.; IDEM, Die Inschrift von Rhosos und die Constitutio Antoniniana, «Arch. f. Pap.-F», 13 (1939), pp. 177 sgg.; W. SCHUBART, Zur Constitutio Antoniniana, «Aegyptus», 20 (1940), pp. 31 sgg.; F. DE VISSCHER, La Condition juridique des nouveaux citoyens romains d’Orient, «C. R. Acad. Inscr.», 1938, pp. 24 sgg. e IDEM, Le Régime des liturgies des nouveaux citoyens romains d’après l’edit III de Cyrène, «C. R. Acad. Inscr »,1939, pp. 111 sgg.; cf. SCHÖNBAUER, locc. citt., e la bibliografia citata da A. Momigliano in «J. R. S.», 31 (1941), pp.163 sg.
SCHEDA 3 PROBLEMI DELLA CONSTITUTIO ANTONINIANA: I DEDITICII A. SEGRÉ, Note sull'editto di Caracalla, «Rendic. Pontif. Accad. Rom. di Arch.», 16 (1940), pp. 181 sgg. cerca di dimostrare che i soli dediticii nell'Impero romano (ad eccezione dei barbari che si siano arresi e i dediticii ex lege Aelia Sentia) erano i non epikekrimenoi dell'Egitto, vale a dire quelli che non erano romani,
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alessandrini, abitanti delle metropoleis e katoikoi, cioè quelli che pagavano integralmente il testatico. I peregrini delle altre province dell'Impero romano, compresa la popolazione rurale, non erano dediticii. La sua affermazione si basa sulla lettera scambiate tra Traiano e Plinio il Giovane a proposito della cittadinanza di Arpocrate (Ep., X, 6) in cui Plinio dice di ignorare che per un egiziano il prerequisito per la cittadinanza romana è la cittadinanza alessandrina. Ma è molto dubbio che Arpocrate non fosse un polivth~: probabilmente veniva da una metropoli. Segré accetta la restituzione del testo da parte di P. Meyer (P. Giss. 40, I, ll. 7-9) e respinge quella del Wilhelm («Amer. J. Arch.», 38 (1934), p. 178), il che significa che egli ritiene che la cittadinanza romana veniva data con la riserva che ciascuno rimanesse membro del suo politeuma precedente mentre veniva abolito il politeuma dei dediticii. Questo è anche il modo di vedere del Wilhelm, ma la giusta restituzione non è stata ancora trovata.
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Il periodo che va dalla morte d’Alessandro Severo all’assunzione di Diocleziano è tra i più oscuri di tutta la storia dell’Impero romano. Finché ci soccorrono l’opera di Erodiano e i frammenti di Dione Cassio, che ci permettono di verificare le affermazioni delle biografie latine degli imperatori, e finché queste medesime biografie si fondano su fonti più o meno attendibili e bene informate, possiamo non soltanto tracciare le linee generali dello svolgimento politico dell’Impero, ma anche, con l’aiuto delle fonti giuridiche e dei dati documentari, scorgere i fondamentali caratteri della sua evoluzione economica e sociale. Ma con Alessandro Severo termina l’opera storica di Dione Cassio, e il suo continuatore, di cui possediamo alcuni frammenti, non è così bene informato come il ragguardevole senatore dell’età dei Severi. Erodiano narra gli avvenimenti fino a Massimino e ai Gordiani, dando nel suo libro settimo un mirabile quadro di questo torbido periodo; ma lì finisce. Per il periodo successivo non abbiamo più niente che possa paragonarsi a queste narrazioni sostanziose e scritte bene. Le sole fonti letterarie che possediamo per la seconda metà del secolo terzo, e cioè per il periodo della grande rivoluzione sociale e della ricostruzione radicale dell’Impero, sono da un lato le biografie latine degli imperatori, vale a dire la seconda parte dei cosiddetti Scriptores Historiae Augustae (con una lacuna dal 244 al 253, che si estende ai regni dei Filippi, dei Decii, di Ostiliano, Gallo, Volusiano, Emiliano e all’inizio dei Valeriani), e d’altra parte brevi e magri breviari e cronache, latini e greci. I compendi latini sono quelli di Eutropio, di Aurelio Vittore, e la cosiddetta Epitome de Caesaribus, erroneamente attribuita ad Aurelio Vittore: essi appartengono tutti alla seconda metà del IV secolo. Ad eccezione dei frammenti del noto sofista Eunapio, che appartiene alla seconda metà del secolo IV, le cronache greche, cioè quelle di Zosimo, di Zonara, di Cedreno, di Sincello e altre, sono del periodo bizantino. Le notizie forniteci dai breviari latini e dalle cronache greche sono magrissime, e non contengono nulla intorno alle condizioni economiche e sociali. Non sono storia, ma nudo scheletro di storia. L’unica
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fonte, che abbia almeno l’apparenza esterna di una vera storia, è la collezione delle biografie latine degli imperatori1. La questione del valore storico di questa fonte diventa quindi per il periodo che ora prendiamo a considerare molto più importante che non fosse per il precedente, e allo stesso tempo divengono più esigui di prima i mezzi di cui disponiamo per giudicare tale valore. Non deve quindi stupirci se troviamo un’ampia divergenza d’opinioni, non tanto intorno al valore di questa fonte quanto intorno all’origine delle biografie e al tempo in cui la collezione fu messa insieme. Grazie alle accurate indagini dell’Enmann e del Dessau e di vari altri studiosi sappiamo oggi che la fonte principale così delle biografie come degli epitomatori latini fu una storia generale degli imperatori romani redatta, probabilmente in forma di brevi biografie, sullo stile di Svetonio, intorno ai tempi di Diocleziano. Una fonte consimile, ma scritta in greco, fu adoperata dai cronisti greci, e probabilmente anche consultata qua e là dall’autore o dagli autori delle vite latine degli imperatori del terzo secolo. Fin qui gli studiosi moderni sono in complesso d’accordo: ma assai più difficile è la questione relativa al carattere della supposta storia biografica degli imperatori. Era questa fonte così arida e magra come Eutropio, Aurelio Vittore e l’Epitome? Conteneva essa soltanto uno scheletro, sebbene attendibile, della storia del terzo secolo, o era più affine all’opera di Svetonio e dava qualche notizia sulla storia personale degli imperatori e qualche altro fatto oltre alle loro guerre fratricide e agli episodi delle guerre esterne? In altre parole: l’autore, o gli autori, delle biografie latine, trasse, o trassero, quanto di attendibile v’è nelle loro notizie da una fonte molto simile nella forma agli epitomatori latini, mentre il resto è inventato, oppure egli, od essi, desume o desunsero dalla fonte maggior copia di dati che non i breviari e di tratto in tratto riempì, o riempirono, le lacune consultando altre opere, in parte greche, in parte latine, contenenti anche qualche documento? Se potessimo prestar fede a quello che è detto in proposito dall’autore, o dagli autori, delle biografie latine, dovremmo ammettere per vera la seconda ipotesi; e tale ammissione sarebbe sorretta dal fatto che lo scrittore delle biografie dei Massimini, di Pupieno e Balbino, e dei Gordiani, adoperò come sua fonte principale l’opera di Erodiano. Ma l’analisi accurata dei documenti inseriti nelle biografie ha dimostrato con assoluta certezza ch’essi – lettere, senatus consulta, discorsi di imperatori e d’altri personaggi, e così via – son tutti quanti nient’altro che falsificazioni. Inoltre, quasi tutti gli autori citati dalle biografie tranne poche eccezioni, sono assolutamente ignoti, ed è ovvio quindi ritenere queste citazioni altrettante mere finzioni. Ciò posto, possiamo aver fiducia nelle notizie forniteci dalle biografie soltanto quando esse coincidono coi dati degli epitomatori latini e dei cronisti greci. Naturalmente questa sfiducia può esser qua e là infondata; ma è giustificata – indipendentemente dai criteri
1. Intorno ad Aurelio Vittore, ad Eutropio e all’Epitome de Caesaribus, vd. A. ENMANN, «Philologus», Suppl. 4, pp. 337 sgg.; cf. E. HOHL, «Klio», 11 (1911), p. 187. Sulle cronache bizantine ed Eunapio, vd. F. GRAEBNER, «Byz. Zeitschr.», 14 (1905), pp. 87 sgg.; cf. E. HOHL, loc. cit., p. 191.
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generali di verosimiglianza – dalla verifica accurata dei pochi dati verificabili. Le biografie latine pertanto non possono darci che i semplici lineamenti della storia dell’Impero dopo l’età dei Gordiani. Possiamo accettare le loro magre informazioni intorno alla vita sociale ed economica soltanto quando esse sono convalidate da qualche attestazione attendibile o degli epitomatori latini, o delle fonti giuridiche, o di documenti come papiri e iscrizioni, o di monete. In linea di fatto coincidenze di tal genere occorrono solo raramente, a motivo della natura non solo della nostra fonte ma anche del materiale supplementare: salvo le monete, che non offrono se non scarsissimi dati, il nostro materiale documentario non è molto copioso, come è naturale trattandosi d’un periodo di turbolenze e di guerre e rivoluzioni incessanti; e ciò che possediamo solo rarissimamente si riferisce a fatti e cose che interessino lo storiografo dell’antichità e trovino posto nella sua narrazione. Relativamente agli Scriptores Historiae Augustae v’è un’altra questione non meno importante di quella riguardante le fonti delle biografie: vale a dire il problema del tempo in cui le biografie furono compilate e pubblicate, e della personalità dell’autore o degli autori di esse. Secondo quanto è detto nelle narrazioni medesime, nelle citazioni reciproche e nei titoli, esse sarebbero state compilate da sei autori, tre dei quali – Elio Capitolino, Trebellio Pollione, Flavio Vopisco siracusano – sarebbero gli autori delle biografie degli imperatori succeduti ad Alessandro. Stando alle loro affermazioni e alle dediche delle biografie ad imperatori, essi avrebbero vissuto tutti ai tempi di Diocleziano e di Costantino. Se così fosse e se quindi gli autori fossero realmente contemporanei agli avvenimenti del terzo secolo, per quanto male informati essi potessero essere, dovremmo aspettarci di trovare nei loro racconti, specialmente in quelli che si riferiscono alla fine del secolo, qualche notizia attendibile non desunta esclusivamente da fonti letterarie e, ciò che più importa, nel leggere queste vite dovremmo respirare l’atmosfera di questo periodo. In tal caso noi potremmo bene negar credito ai documenti e discorsi, trovare i racconti eccessivamente ingombri di retorica fuori posto, potremmo bollare di invenzioni i detti e le espressioni di imperatori, ma dovremmo pur sempre ammettere che nel leggere queste biografie del terzo secolo ascoltiamo la parola di uomini nati e cresciuti nella tormenta delle guerre civili e che, per quanto modesti come scrittori, debbono tuttavia avere espresso i sentimenti e l’opinione dell’età loro. Fino a tempi recentissimi, nessuno revocò in dubbio che i sei autori in questione fossero contemporanei di Diocleziano e di Costantino. Per esempio l’ultimo di essi, Vopisco, dà di certi episodi della propria vita e di certi personaggi suoi conoscenti notizie particolareggiate che s’accordano con documenti assolutamente credibili. Questa considerazione appunto, ed altre dello stesso genere, indussero alcuni studiosi anche recentissimi ed eminenti della scuola critica, come H. Peter, Ch. Lécrivain, G. De Sanctis, G. Tropea, Th. Mommsen, E. Diehl, a non parlare d’altri studiosi inglesi e americani più giovani, a continuare a credere che quei sei siano stati persone reali e abbiano realmente scritto in collaborazione le biografie, e che i loro racconti, in quanto si riferiscono all’età loro, siano esatti; e ciò sebbene forti argomenti in contrario vengano addotti da un gruppo di studiosi che ritengono mera finzione tutta la serie dei nomi e delle date riferita nell’opera. Primo fu H. Dessau a svolgere in due arti-
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coli la tesi che le biografie non potevano essere state scritte ai tempi di Diocleziano e di Costantino, ch’esse respirano l’atmosfera della posteriore e diversissima età di Teodosio, e che quindi tutti i nomi degli autori nonché le notizie intorno alle loro vite non sono che un’impudente impostura, giacché il vero autore sarebbe un contemporaneo di Teodosio appartenente al gruppo dei Simmachi e dei Nicomachi. Questo assalto del Dessau fece grande impressione: subito dopo O. Seeck avvalorò la teoria di lui con alcuni nuovi argomenti, assegnando però la manipolazione ad una data anche più tarda (V secolo), e A. von Domaszewski non soltanto prese egli stesso a studiare la questione, ma indusse un certo numero di suoi discepoli ad esaminarla a fondo col proposito generale di dimostrare l’esattezza delle vedute del Dessau. E il Domaszewski realmente l’ha molto rafforzata, sebbene differisca dal Dessau quanto alla data della falsificazione, ch’egli assegna all’età di Gregorio di Tours (fine del secolo VI). L’opinione del Dessau è stata accettata anche da altri storici eminenti come O. Hirschfeld ed E. Kornemann, e sostenuta dai loro discepoli. Gli argomenti addotti dal Dessau e dai suoi seguaci, sebbene non decisivi, sono certamente assai forti e persuasivi, tanto da indurre alcuni ragguardevoli studiosi dell’altra scuola a cercare dei compromessi. Il Mommsen, per esempio, inclinava ad ammettere che il corpo delle biografie appartenesse bensì ai tempi di Diocleziano e di Costantino, ma fosse stato riveduto e rimaneggiato da un contemporaneo di Teodosio, che sarebbe il responsabile delle falsificazioni e del generale colorito teodosiano delle biografie. Il compromesso del Mommsen, accettato da alcuni critici, è stato però respinto dalla maggioranza degli studiosi tedeschi, che s’attengono sempre senza restrizioni alla tesi del Dessau. Il quesito cruciale è questo: quale ragione può avere indotto il falsificatore a perpetrare la sua manipolazione? Ad esso hanno tentato di rispondere ultimamente Geffcken e Hohl, i quali hanno suggerito che lo scopo cui il manipolatore mirava era di presentare ai lettori contemporanei la storia degli imperatori romani com’essa appariva agli ultimi pagani del tipo di Simmaco, per invocare tolleranza verso i pagani e aver modo d’introdurre qualche velato attacco contro il cristianesimo. Vi può essere stato anche lo scopo di glorificare il Senato e di dare un quadro generale della storia dell’Impero dal punto di vista senatorio. Certamente, questo punto di vista risalta in modo fortissimo nelle biografie, che segnano una recisa linea di demarcazione tra i buoni imperatori, che favorirono il Senato, e i cattivi, che ciò non fecero, tra i monarchi illuminati e i tiranni militari, tra quelli che si attennero al principio dell’adozione e quelli che vollero la successione ereditaria. Il gruppo di Simmaco non poteva osare d’assumere questo punto di vista in nome proprio, ma finse di pubblicare un’opera scritta in un passato relativamente remoto, da autori vissuti prima del trionfo del cristianesimo e dello stabilimento definitivo del dispotismo orientale. L’ignoranza dominante in questo periodo era così profonda che nessuno avrebbe pensato a verificare le affermazioni del manipolatore e a dimostrare che la serie delle biografie imperiali era una pura e semplice frode. Una modificazione di quest’ultima teoria relativa ai fini dell’autore o degli autori è stata proposta recentemente da Norman H. Baynes, il quale mette le biografie in relazione con l’età di Giuliano e con le idee direttive del suo governo, avvicinando così l’opera al termine delle guerre civili un po’ più di quanto fac-
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ciano il Dessau e il suo gruppo. Sebbene debba concedersi che le biografie siano a un tempo un libro popolare e allo stesso tempo di tendenza politica, tuttavia né il Baynes né il Dessau e i suoi seguaci hanno potuto addurre la prova rigorosa delle rispettive datazioni di questo scritto di propaganda. Il problema relativo alla data della composizione delle biografie è ancora in piena oscurità. Questa, nelle linee essenziali, la teoria sostenuta dai seguaci del Dessau. Vi sono ancora parecchi punti che hanno bisogno d’essere chiariti; il compito di spiegare come mai il manipolatore, o un gruppo di manipolatori, abbiano proceduto con tanta accuratezza nel ricoprire di un cumulo d’invenzioni un nudo schema storico, è ben lungi dall’essere assolto. Tuttavia, se il nucleo di questa teoria è esatto – ed è difficilissimo provare che tale non sia – gli Scriptores Historiae Augustae vanno quasi totalmente eliminati dalla serie delle fonti attendibili per la vita del III secolo. Essi rappresentano il modo di vedere, al più presto, del tardo IV secolo, ed esso era per più rispetti diverso da quello degli uomini che vivevano nel III secolo. Un periodo di ristagno e di rassegnazione non può capire lo spirito di un’età rivoluzionaria e difficilmente può darne un quadro esatto, specialmente se lo scrittore si propone di dar forza a particolari idee care ad uomini dirigenti del tempo suo. Dobbiamo adunque procedere con la più grande cautela nell’adoperare il materiale fornitoci dalla Historia Augusta. Se un suo dato non è corroborato da altre migliori fonti, il metodo giusto è quello di non tenerne conto e di astenersi dal ricavare da esso qualsiasi conclusione2.
2. Non è possibile dar qui la bibliografia completa della molto discussa questione relativa agli Scriptores Historiae Augustae. Debbo accontentarmi di citare i due articoli di H. DESSAU, «Hermes», 24 (1889), pp. 337 sgg. e 27 (1892), pp. 561 sgg., cf. l’ultimo scritto in «Janus», 1 (1921), pp. 124 sgg., e gli eccellenti riassunti recenti del DIEHL, «R. E.», VIII, coll. 2051 sgg., di E. KORNEMANN in GERCKE e NORDEN, Einl. in die Altertumswiss., III, 19142, pp. 255 sgg., 19333, pp. 155 sgg. e di A. ROSENBERG, Einl. u. Quellenkde. zur röm. Gesch. (1921), pp. 231 sgg. Cf. anche i resoconti di E. HOHL in «Bursians Jahresber.», 171 (1915) e 200 (1924), pp. 165 sgg. e il suo documentato saggio, Zur Historia-Augusta-Forschung, «Klio», 27 (1934), pp. 149-164; vedi anche C. A. H., XII, 1939, pp. 597 sg. (e Appendice sulle fonti, p. 710). E. Hohl è risoluto seguace del
Dessau e combatte vivacemente gli ultimi lavori del von Domaszewski e di alcuni discepoli di lui. In nessun punto della storia antica la discussione di problemi scientifici dà luogo a tanta animosità quanto avviene per gli Scriptores Historiae Augustae: i resoconti di E. Hohl sono uno dei molti esempi. La teoria del von Domaszewski è riassunta brevemente nel suo scritto Die Topographie Roms bei den Scriptores Historiae Augustae, «Sitzb. Heidelb. Akad.», 1916, 7, pp. 4 sgg., ed è esposta in maniera più completa e con importanti modificazioni, sulla base di una serie d’ipotesi assolutamente fantastiche, in Die Personennamen bei den Scr. Hist. Aug., ibid., 1918, 13; cf. anche Der Staat bei den Scr. Hist. Aug., ibid., 1920, 6. O. SEECK ha recentemente ribadito la sua teoria nella Gesch. d. Untergangs d. ant. Welt, VI, 1920, pp. 33 sgg. e 309 sg. Il punto di vista di J. GEFFCKEN è esposto in «Hermes», 55 (1920), pp. 279 sgg.; cf. E. HOHL, ibid., 296 sgg. e in «Klio», 12 (1912), pp. 474 sgg. Una nuova teoria circa il tempo della composizione e il carattere degli Scriptores Historiae Augustae è stata recentemente enunciata da N. BAYNES, The Historia Augusta, Its Date and Purpose (1926, con ragguardevole bibliografia), cf. la sua risposta alle critiche di G. De Sanctis e di Ch. Lécrivain nella «Class. Quart.», 1928,
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Sicché nell’occuparci del periodo successivo ad Alessandro Severo noi abbiamo diritto di servirci appieno di Erodiano, che è bene informato specialmente delle condizioni prevalenti nell’età dei Massimini e dei Gordiani; possiamo valerci (come dimostreremo in seguito) di una contemporanea orazione «All’imperatore», composta da un retore o sofista del terzo secolo e delle informazioni contenute nel XIII degli Oracula Sibyllina sulle condizioni del Vicino Oriente al tempo di Gordiano III e successivamente [S1]; possiamo tentare di
ristabilire le linee essenziali del processo storico con l’aiuto degli epitomatori e dei cronisti e dei dati documentari forniti da monete, iscrizioni, papiri. Tutte queste fonti, ad eccezione delle iscrizioni e dei papiri, non danno che scarsissime notizie sull’evoluzione sociale ed economica; la nostra ricostruzione si fonderà adunque principalmente sui documenti. Sebbene il nostro materiale sia scarso e frammentario, il compito non è tuttavia in sé affatto disperato. Alcune parti dell’Impero romano recentemente hanno ridato alla luce dati copiosi e pregevoli, che non sono stati finora adoperati per ricostruire le linee principali del quadro complessivo. Prima d’accingermi a delineare i caratteri fondamentali dello svolgimento sociale ed economico dell’Impero tra la morte di Alessandro Severo e l’assunzione di Diocleziano, ritengo opportuno dare una breve esposizione degli eventi politici di questo torbido periodo, una rassegna cioè delle guerre intestine ed esterne che devastarono l’Impero3. Dopo l’uccisione proditoria di Alessandro (235 d.C.) i soldati proclamarono imperatore uno dei loro capi, un uomo di umile origine, un contadino tracico, che non era neanche ufficiale di
luglio-ottobre, pp. 1 sgg. e l’articolo di HOHL in «Klio», 27 (1934), pp. 149-164. Secondo il Baynes la serie delle biografie è uno scritto tendenzioso inspirato dall’imperatore Giuliano, ed ha il carattere d’un libro popolare. Cf. A. ALFOELDI, Zur Kenntnis der röm. Soldatenkaiser II, «Zeitschr. f. Numism», 38 (1928), pp. 167, nota, e C. A. H., XII, 1939, pp. 597 sg. Circa i «documenti» degli Scr. Hist. Aug., vd. L. HOMO, «Rev. hist.», 1927, I, pp. 161 sgg.; II, pp. 1 sgg. Il punto di vista conservatore è rappresentato da CH. LÉCRIVAIN, Études sur l’histoire Auguste (1904), dal DIEHL, loc. cit. e anche da W. SOLTAU, Die echten Kaiserbiographien, «Philologus», 74 (28), 1917, pp. 384 sgg. Cf. le monografie sugli imperatori del sec. III, che sono citate nel capitolo IX e nelle note seguenti. 3. Le migliori Valide esposizioni d’insieme della storia del sec. III d. C., si troveranno in A. VON DOMASZEWSKI, Gesch. d. röm. Kaiser, II, pp. 284 sgg. e di H. STUART JONES, The Roman Empire, pp. 279 sgg., e nei nuovi contributi recenti di H.M.D. PARKER, A History of the Roman World from A.D. 138 to 337, London, 1935, pp. 141 sgg. e di W. ENSSLIN, C. A. H., XII, 1939, pp. 57 sgg. e 126 sgg., e di A. ALFOELDI, ibid., pp. 138 sgg. con buona bibliografia. Io ho rivisto il mio breve riassunto delle prime edizioni alla luce di questi contributi. Le monete da Valeriano a Floriano si hanno in H. MATTINGLY e E.A. SYDENHAM,
The Roman Imperial Coinage, V, 1 (1927) (di P.H. WEBB). Circa la composizione del Senato nel periodo compreso tra il 244 e il 284 d.C., vd. A. PARISIUS, Senatores Romani qui fuerint inter a. 244 et a. 284, Diss. Berlin, 1916, e P. LAMBRECHTS, La Composition du sénat romain de Septime Sévère à Dioclétien (193-284), Budapest, 1937, pp. 61 sgg. (lista di senatori da Massimino a Diocleziano, 235-284) e 86 sgg.(commento). La storia costitu-
zionale è esposta da O.TH. SCHULZ, Vom Prinzipat zum Dominat (1919). Per la crisi sociale ed economica vd. il mio articolo nel «Musée Belge» (1923), pp. 233 sgg.
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grado molto elevato, ma era però un bravo, destro e vigoroso soldato, che conosceva lo stato d’animo dell’esercito e le aspirazioni dei soldati comuni: C. Giulio Vero Massimino. Il suo breve governo fu un periodo ininterrotto di guerre esterne e interne. Massimino probabilmente non chiese mai al Senato il suo riconoscimento, Se e in quale forma Massimino chiese al Senato di essere riconosciuto non è dato di sapere e comunque non si fece mai vedere a Roma. Fu un vero impe-
ratore dei soldati. Da buon generale obbedito dai soldati egli ottenne alcuni importanti successi sulle frontiere del Reno e del Danubio (236 d.C.), ma soggiacque (238 d.C.) alla vigorosa resistenza incontrata principalmente in Italia, però anche in Africa, dai metodi su cui si fondava il suo potere, e dei quali parleremo più tardi. In Africa fu proclamato imperatore, con l’appoggio delle classi superiori, un vecchio senatore, che a quel tempo governava l’Africa proconsolare, M. Antonio Gordiano. Ma egli e suo figlio perirono nella lotta contro l’esercito regolare d’Africa, comandato da Capelliano, legato di Numidia. Dopo la loro morte il Senato, che aveva riconosciuto Gordiano quale sovrano legittimo, elesse in suo luogo due senatori, M. Clodio Pupieno Massimo e D. Celio Calvino Balbino, che con l’aiuto membri di uno speciale comitato di venti senatori, che provvide alla difesa dell’Italia contro Massimino. Questi, contro le aspettative sue e di tutti, non riuscì ad aprirsi l’accesso all’Italia, e perì sotto le mura di Aquileia, che gli sbarrò la via di Roma. Circa un mese dopo la sua morte la guardia pretoriana tolse di mezzo con un colpo di mano i due imperatori senatorii, e riconobbe come unico imperatore un nipote di Gordiano seniore, il giovinetto di tredici anni Marco Antonio Gordiano (III), che Pupieno e Balbino erano stati costretti ad associarsi nell’Impero col titolo di Caesar prima della loro catastrofe finale (238 d.C.). Il regno di Gordiano III non fu meno agitato di quello dei suoi predecessori. Lo stato delle cose si aggravò specialmente al confine nord-orientale e in Oriente. A Nord-est i Goti, che nella seconda metà del secolo II avevano costituito un forte Stato nelle steppe della Russia meridionale, alleatisi con alcune stirpi iraniche e coi Carpi tracii invasero l’Impero; a oriente i primi re di Persia, Ardashir e Sapore (Sciapur) I, s’impadronirono dei possedimenti siriaci di Roma romani in Mesopotamia e invasero la Siria. Il pericolo fu allontanato dal Danubio grazie all’energia di Tullio Menofilo, il difensore di Aquileia; in Oriente dall’imperatore medesimo, il quale sotto la guida del suocero C. Furio Sabino Aquila Timesiteo, uomo di umili origini ma di grande esperienza nell’amministrazione, sconfisse i Persiani, liberò la Siria e avanzò verso la Mesopotamia. L’esercito romano stava già per invadere il paese nemico si apprestava ad attaccare Ctesifonte, quando Timesiteo morì, e Gordiano III rimase ucciso dai soldati in un ammutinamento causato dalla mancanza di rifornimenti, probabilmente ad istigazione di colui ch’era succeduto a Timesiteo nel comando della guardia imperiale, M. Giulio Filippo, figlio d’uno sceicco arabo del Hauran (244 d.C.)4.
4. Per il periodo successivo a Severo Alessandro e per i governi di Massimino, Pupieno, Balbino, Gordiano III, vd. O. SEECK, Der erste Barbar auf dem römischen
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Filippo s’affrettò a terminare la guerra facendo grandi alcune concessioni ai Persiani e sgombrando la Mesopotamia; e accorse a Roma. Lungo il viaggio sconfisse alcune stirpi germaniche e annientò quasi completamente sul Danubio i Carpi. Durante la sua dimora a Roma celebrò il millesimo anniversario della fondazione della città (248 d.C.); di ritorno nella regione danubiana egli celebrò il millesimo anniversario di fondazione della città (248 d.C.); ma intanto, dopo una disastrosa invasione della Mesia compiuta da un pugno di Goti, le legioni del Danubio si ammutinarono e proclamarono imperatore uno dei loro ufficiali, Tiberio Claudio Marino Pacaziano. Anche in Oriente sorse un altro usurpatore, sorsero usurpatori, Iotapiano in Siria e L. Aurelio Sulpicio a Emesa. Filippo spedì contro Pacaziano uno dei suoi migliori generali, C. Messio Quinto Traiano Decio, nato in Pannonia; Marino e Iotapiano furono uccisi dalle loro stesse truppe, ma C. Messio Quinto Traiano Decio, originario della Pannonia e messo da Filippo a capo delle truppe sul Danubio, venne costretto dai suoi soldati, che lo minacciarono di morte in caso di rifiuto, a proclamarsi imperatore e a marciare contro Filippo, che restò sconfitto presso Verona (249 d.C.)5. Rimasto solo padrone, Decio si acquistò grandi benemerenze verso l’Impero riattando le strade in tutte le provincie, migliorando l’amministrazione, restaurando la disciplina nell’esercito. Ma i tempi erano difficili. Accanto all’opera di rinnovamento, il primo dovere di Decio era di difendere le province danubiane. Alla fine del 250 o agli inizi del 251 egli accorse sul Danubio per tener testa ad una nuova formidabile invasione dei Goti, i quali, attraversata la Mesia e corsa la Tracia, assediavano Filippopoli, capitale di questa provincia; e sconfissero l’imperatore venuto a liberare la ricca e florida città. Per tradimento di Prisco, comandante della guarnigione di Filippopoli, che sperava di poter salire sul trono con l’aiuto dei nemici, la città fu presa e saccheggiata dai Goti. Mentre ritornavano indietro, Decio tagliò loro la strada con un nuovo esercito, ma fu nuovamente sconfitto, ad Abryttus, tradito dal suo luogotenente Gallo, e morì nella pugna con suo figlio (251 d.C.)6. I Goti poterono
Kaiserthron, «Preuss. Jahrb.», 56 (1885); cf. IDEM, Die Entwicklung der römischen Geschichtsschreibung und andere populäre Schriften (1898); A. SOMMER, Die Ereignisse des Jahres 238 n. Chr., 1888 («Gymnasialprogr. Görlitz»); K.F.W. LEHMANN, Kaiser Gordian III, 238-244 n. Chr. (1911); L. HOMO, La Grande crise de l’an 238 après J. Chr. et le problème de l’Histoire Auguste, «Rev. hist.», 131 (1919), pp. 209 sgg. e 132 (1919), pp. 1 sgg.; E. HOHL, «R. E.», X (1919), coll. 852 sgg.; P.W. TOWNSEND, The Chronology of the Year 233 A. D., «Yale Class. Studies», 1 (1928), pp. 231 sgg., e IDEM, The Administration of Gordian III, «Yale Class. Studies», 4 (1934), pp. 59-132. [A. CALDERINI, Aquileia Romana, 1930, pp. 52 sgg. Una nuova epigrafe trovata a Roma ci dà il nome e il cursus honorum di Rutilius Pudens Crispinus, che secondo l’epigrafe fu dux ex s. c. bello Aquileiensi], PARIBENI, «Not. d. scavi», 1928, pp. 343 sgg., [e J. DOBIASˇ , «Listy Filologické», 56 (1929), pp. 16 sgg.]. 5. Intorno a Filippo vd. E. STEIN, «R. E.», X (1919), coll. 755 sgg. Circa il fratello di lui C. Giulio Prisco, praefectus di Mesopotamia e poi rector Orientis e praefectus praetorio, cf. IDEM, ibid., coll. 781 sgg.; E. GROAG, «Wiener Studien», 40 (1918), pp. 20 sgg. e A. STEIN, Der röm. Ritterstand (1927), p. 410. 6. Su Decio vd. G. COSTA in DE RUGGIERO, Diz. ep., II (1910), pp. 1486 sgg.; P.S. SALISBURY e H. MATTINGLY, The Reign of Trajan Decius, «J. R. S.», 14 (1924), pp. 1 sgg.
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ritirarsi incolumi nel loro paese, carichi di bottino. Le truppe romane proclamarono imperatore C. Vibio Treboniano Gallo, il quale, sotto la pressione d’una pestilenza disastrosa scoppiata nelle province danubiane, comperò la pace dai nemici e s’avviò a Roma, dove egli governò per due anni, che furono segnati da gravi calamità per l’Impero in Oriente e in Occidente. Lui partito, il governatore della Mesia inferiore, M. Emilio Emiliano, nativo di Mauretania riuscì a battere i Goti e fu proclamato imperatore dalle sue truppe (253 d.C.). Nella lotta tra i due imperatori, Gallo ed Emiliano, il primo rimase ucciso in una battaglia combattutasi presso Interamna in Italia, il secondo fu assassinato dai suoi stessi soldati a Spoleto. Fu proclamato imperatore e riconosciuto dal Senato P. Licinio Valeriano, governatore della Rezia, che marciava dal Reno verso l’Italia in aiuto di Gallo. Non appena Valeriano fu giunto a Roma, nel settembre del 253 d.C., s’associò nel potere imperiale il figlio P. Licinio Egnazio Gallieno7. Le condi7. Su Valeriano e Gallieno vd. R. PARIBENI in DE RUGGIERO, Diz. ep., III (1905), pp. 425 sgg.; A. VON DOMASZEWSKI, «Bonn. Jahrb.», 117 (1908), p. 196; L. HOMO, L’Empereur Gallien et la crise de l’empire romain, «Rev. hist.», 113 (1913), pp. 248 sgg.; L. WICKERT, «R. E.», XIII, art. Licinius, nn. 46, 47, 84, 172, 173, 195 (sui membri della casa imperiale dei Licinii); A. ALFOELDI, Zur Kenntnis der Zeit der römischen Soldatenkaiser 1. Der Usurpator Aureolus und die Kavalleriereform des Gallienus, «Zeitschr. f. Numism.», 37 (1927), pp. 198 sgg. e 38 (1928), pp. 156 sgg.; IDEM, Das Problem des “verweiblichten” Kaiser Gallienus, «Zeitschr. f. Numism.», 38 (1928), partic. pp. 156 sgg.; IDEM, Zur Kenntnis der Zeit der römischen Soldatenkaiser II. Das Problem des verweilblichten Kaisers Gallienus: Exkurse 1. Augustus als Vorbild des Gallienus, ibid., pp. 197 sgg.; IDEM, Die Vorherrschaft
der Pannonier im Römerreiche und die Reaktion des Hellenentums unter Gallienus, in Fünfundzwanzig Jahre römischgermanische Kommission (1929), pp. 11 sgg.; IDEM, The Numbering of the Victories of the Emperor Gallienus and the Loyalty of His Legions, «Num. Chron.», 9 (1929), pp. 218 sgg.; IDEM, C. A. H., XII, 1939, pp. 181 sgg., partic. 229 sgg. e bibliografia; G. MATHEW, The Character of the Gallienic Renaissance, «J. R. S.», 33 (1943), pp. 65-70. Alcune importanti epigrafi e monete, che sono in relazione con la storia dei
paesi danubiani e della Gallia sotto Gallieno, sono studiate da B. SARIA, Zur Gesch. der Provinz Dacien, nella Strena Bulicˇiana (1924), pp. 249 sgg.; N. VULICˇ , «Musée Belge», 27 (1923), pp. 253 sgg.; A. BLANCHET, ibid., pp. 169 sgg. L’ALFOELDI nei suoi brillanti scritti ha dimostrato che gli elementi della popolazione danubiana col loro attaccamento all’Impero e col loro valore salvarono l’unità dell’Impero medesimo nel periodo più difficile della storia romana. Non dobbiamo però dimenticare che l’attività patriottica di queste popolazioni cominciò soltanto nell’ultima parte del secolo III. Prima d’allora anch’esse, come le altre frazioni dell’esercito romano, contribuirono per la loro parte al dissolvimento e alla catastrofe economica dell’Impero. Tuttavia non è certamente un caso che i salvatori dell’unità e della sicurezza dell’Impero romano siano venuti dal Danubio. Nei paesi danubiani erano stati stanziati coloni militari di varia origine, costituenti grandi e compatti gruppi atti a diffondere tra gli indigeni il romanismo. Sicché non deve recar meraviglia che nel momento decisivo gli abitanti dei paesi danubiani siano stati i primi a rendersi conto della grandezza del pericolo che minacciava l’Impero e a contribuire poderosamente al rafforzamento di questo. Già Gallieno, quale ce lo rappresenta l’ALFOELDI, col suo filellenismo e con le sue inclinazioni culturali, è senza dubbio una delle figure più interessanti che siano salite sul trono romano. [Cf. C. DAICOVICIU, Gli Italici nella provincia di Dalmatia, «Ephem. Dacoromana», 5 (1932)].
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zioni dell’Impero sul Reno, sul Danubio, sulla frontiera persiana erano quasi disperate. I Franchi e gli Alamanni s’erano aperta la strada attraverso la frontiera renana e invadevano la Gallia e la Spagna raggiungendo nella loro avanzata la Muretania, mentre gli Alamanni invadevano l’Italia. La situazione lungo la frontiera danubiana era ben peggiore. La Pannonia era minacciata da Marcomanni, Quadi e Sarmati, la Dacia da Goti e Carpi. La situazione era resa ancora più difficile dalla ribellione di Ingenuo, a cui subentrò Regaliano. I Rossolani e i I Goti benché arrestati sulla frontiera del Danubio da alcuni
valenti generali dell’esercito danubiano, unitisi coi Borani si servirono delle ricche risorse del regno del Bosforo, diventato loro vassallo, per radunare una flotta di navi greche, con cui i primi attraversarono il Mar Nero fino alle coste del Caucaso e a Trapezus (Trebisonda), e quindi i secondi costeggiarono la ricca provincia di Bitinia. Non esisteva allora alcuna armata romana degna di tal nome, e sui mari regnava la pirateria, sicché i Rossolani e i Goti poterono attuare con pieno successo le loro avventurose spedizioni. Anche peggio andavano le cose in Oriente, dove i Persiani, dopo la vittoria di Barbalissus sull’Eufrate, avevano invaso la Siria e minacciavano l’Asia Minore dove intendevano congiungersi coi Goti. Valeriano mosse loro incontro, riconquistò Antiochia e impedì la congiunzione coi Goti, anzi sebbene il suo esercito venisse visitato dalla peste, entrò in Mesopotamia; ma presso Edessa fu completamente sconfitto e fatto prigioniero a tradimento (259 260 d.C.). L’Asia Minore e la Siria furono però salvate, la prima dal generale romano Callisto, che ricacciò i Persiani, la seconda dal prefetto pretoriano Macriano e da Ballista, uno dei suoi generali. Odenato, sceicco di Palmira, [riconosciuto come generale romano da Valeriano], sconfisse poi nuovamente gli invasori mentre nella ritirata cercavano di passar l’Eufrate. In questo pericolosissimo momento l’Impero romano fu salvato dall’energia e dalla tenacia di Gallieno. Questi, nominato da Valeriano capo delle truppe d’Occidente, si vide costretto a sgombrare una parte della Gallia, ma coi suoi soldati germanici e britannici poté salvare l’Italia da un’invasione di Germani, e disfare sul Danubio i due usurpatori, Ingenuo e Regaliano proclamati imperatori l’uno dopo l’altro (258 d.C.). D’altra parte sembra che le province s’accorgessero del grave pericolo che le minacciava e procurarono di salvarsi da sé. In Gallia le truppe e la popolazione delle province proclamarono loro imperatore M. Cassiano Latinio Postumo, il restitutor Galliarum e fondatore dell’imperium Galliarum, e riuscirono a scacciare i Germani dalla provincia (259 d.C.). Sull’Eufrate Odenato di Palmira, che agiva per conto di Roma e di Gallieno, ottenne un successo consimile sui Persiani in Siria e su due vari pretendenti romani, eliminati grazie all’intervento di Odenato. Infatti dopo la cattura di Valeriano il suo prefetto pretoriano Macriano aveva assunto la porpora con due suoi figli chiamati Macriano e Quieto (260). I due Macriani marciarono verso l’Europa, mentre Quieto rimaneva in Siria. I primi due vennero sconfitti e messi a morte da Aureolo, generale di Gallieno; e Odenato pose termine alla signoria di Quieto e del suo aiutante Ballista. Odenato, dopo il successo della spedizione da lui condotta contro i Persiani (262 d.C.), venne riconosciuto fu insignito da Gallieno del titolo di imperator e governò la Siria e una parte dell’Asia Minore, fino a quando nel 266-267 d.C. venne ucciso, succe-
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dendogli il figlio Vaballato, in nome del quale governò effettivamente la madre, la regina Zenobia8. Frattanto Gallieno continuava a combattere i pretendenti e i barbari, sforzandosi di difendere l’Africa (contro il re mauro Faraxen), la Gallia, l’Italia, i paesi del Danubio. Ad Tuttavia ad onta di alcuni successi contro Postumo fu finalmente costretto a riconoscerlo consentire che fosse governatore de facto delle province galliche, giacché le sue forze erano interamente impegnate nella lotta contro una nuova grande invasione di Goti per terra e per mare e da ripetuti tentativi di pretendenti. Per la stessa ragione egli accettò il regno di Vaballato e Zenobia in Oriente. Per giunta la peste infieriva nell’Impero, e un grave terremoto distrusse non poche fiorenti città dell’Asia Minore (262 d.C.) [S2]. Anche l’insubordinazione dei soldati causava grandi danni: Bisanzio, per esempio, fu saccheggiata dalla sua stessa guarnigione. Una nuova invasione di Goti desolò per una seconda volta i paesi balcanici e la Grecia; e quando queste devastazioni erano al colmo, uno dei migliori generali di Gallieno, Aureolo, da lui mandato con un forte corpo di cavalleria a combattere Postumo, rivolse le armi contro il suo signore. Gallieno accorse dal Danubio in Italia, sconfisse Aureolo e lo assediò a Milano, ma fu ucciso dai suoi stessi soldati ufficiali danubiani, che proclamarono imperatore M. Aurelio Claudio, illirico di nascita e ufficiale dell’esercito danubiano (268 d.C.). Con Claudio s’inizia una serie di imperatori, per lo più valenti generali dell’esercito, di nascita danubiana, che s’adoperarono a restaurare l’unità dell’Impero e ad impedire ch’esso fosse totalmente sommerso dai confinanti settentrionali e orientali. Essi, naturalmente, al pari dei loro predecessori dovettero fronteggiare la condotta insubordinata e proditoria dei soldati; e al pari dei loro predecessori la maggior parte di essi caddero vittime di cospirazioni militari, mentre durante il regno di ognuno di loro in diverse parti dell’Impero pullularono usurpatori. Ma, mentre siffatto contegno sembrava ormai diventato
8. Intorno ai «trenta tiranni» dell’età di Gallieno vd. H. PETER, Die römischen sogen. dreissig Tyrannen, «Abh. d. sächs. Ges. d. Wiss.», 57 (1909), pp. 179 sgg. Su Postumo e l’imperium Galliarum vd. C. JULLIAN, Hist. de la Gaule, IV, pp. 570 sgg. Indubbiamente l’Impero di Postumo non era affatto germanico, come ha supposto A. VON DOMASZEWSKI, «R. E.», VIII (1912), coll. 611 sgg.; cf. la sua Gesch. d. röm. Kaiser, II, p. 303. Ercole, il dio prediletto di Postumo, non è il germanico Donar, ma il dio degli Antonini, che lotta con la barbarie e protegge l’Impero romano. La stessa venerazione, e con lo stesso spirito, tributava ad Ercole p. es. il re bosforano Sauromates II, contemporaneo di Commodo, Settimio Severo, Caracalla; vd. M. ROSTOVTZEFF, in Strena Bulicˇiana (1924), pp. 731 sg. Vere tendenze separatistiche, collegate col risveglio del sentimento nazionale orientale, mostrano invece i dinasti indigeni di Palmira. Per questa dinastia palmirena vd. cap. VII, note 27 e 29, cf. cap. IX, nota 52a e nota 10 del presente capitolo, [cf. J.G. FÉVRIER, Essai sur l’histoire politique et économique de Palmyre (1931)]. Su Emiliano vd. J. GRAFTON MILNE, «Journ. of Eg. Arch.», 10 (1924), pp. 80 sgg. Il MILNE ha dimostrato che Emiliano tentò dapprima, come fecero Odenato in Siria e dopo di lui Valente e Pisone in Grecia, di salvare l’Egitto per Gallieno, ma più tardi fu costretto dalle truppe a proclamarsi imperatore, il che spinse Gallieno a deporlo. Riguardo all’incursione degli Eruli su Atene vd. S. E. G., I, n. 62 e la bibliografia contenuta nell’introduzione a quest’epigrafe.
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un’abitudine saldamente radicata nell’esercito, troviamo invece segni d’una reazione salutare contro lo smembramento dell’Impero e la licenza della soldatesca. Sotto l’aspetto meramente militare le truppe, e non quelle soltanto delle regioni danubiane, appaiono meglio allenate e mostrano migliore spirito militare. Nell’insieme esse si mostrano fedeli agli imperatori: questi, infatti, furono vittime per lo più di complotti proditorii, tramati soltanto da piccoli gruppi, senza che la massa dei soldati vi partecipasse. Si avverte nell’Impero romano un nuovo spirito. La minaccia della distruzione totale diventò più concreta e una forte tendenza all’unità caratterizzò non solo l’esercito ma anche l’Impero nel suo complesso. Dobbiamo accontentarci
d’uno schizzo brevissimo della complessa e drammatica storia degli ultimi trent’anni del secolo III. Il governo di Claudio9 si segnalò per gesta compiute in Germania Italia, dove respinse gli Alamanni, e sul Danubio, dove quest’imperatore disperse finalmente le forze dei Goti e arrestò per più d’un secolo la loro avanzata verso l’Italia. Egli meritò appieno il titolo di Gotico col quale è conosciuto nella storia. Non ebbe tempo però di ricongiungere all’Impero romano l’indipendente Impero gallico, sebbene quest’ultimo fosse in istato di dissolvimento interno e dopo la morte di Postumo (268 d.C.) vi si fossero succeduti rapidamente gli imperatori (Ulpio Cornelio Leliano, M. Aurelio Mario, M. Piavonio Vittorino). Più prospero e meglio consolidato era l’Impero orientale di Palmira, che sotto il governo di Zenobia e del giovane suo figlio Vaballato aveva tratto nei suoi confini anche l’Egitto. A poco a poco Zenobia concepì l’idea di creare un Impero romano orientale indipendente, con a capo un indipendente Augusto. Nel 270 Claudio perì sul Danubio, vittima della pestilenza che nuovamente devastava le file così dei Romani come dei barbari. In Occidente fu proclamato imperatore e riconosciuto dal Senato suo fratello M. Aurelio Claudio Quintilio che però non poté sostenersi contro L. Domizio Aureliano, il più valente tra i generali di Claudio, che era un contadino trace al pari di Massimino e un soldato che aveva fatto una brillante carriera per solo merito personale10. Il breve regno di Aureliano fu per l’Impero un periodo di pericolo estremo, ma anche di brillanti trionfi militari, paragonabili a quelli di Traiano e di Marco Aurelio. Il suo primo compito fu la difesa dell’Italia contro una formidabile invasione di stirpi germaniche, cioè dei Jutungi, degli Alamanni e dei Marcomanni. Dopo alcuni successi contro i Jutungi in Rezia e contro i Vandali in Pannonia, Aureliano dovette affrontare una travolgente invasione dell’Italia tentata a forze riunite dai Jutungi e dagli Alamanni. Sconfitto da essi non lungi da Milano, minacciato da una ribellione scoppiata a Roma e in alcune delle province, nonché da una nuova invasione gotica, mentre si disegnava la possibilità del completo distacco dell’Impero palmireno, i cui sovrani furono per un
9. M. ANCONA, Claudio II e gli usurpatori (1901); L. HOMO, De Claudio Gothico Romanorum imperatore (1904). 10. L. HOMO, Essai sur le règne de l’empereur Aurélien (1904); E. GROAG, «R. E.», V, coll. 1347 sgg.
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certo periodo riconosciuti ufficialmente da Aureliano, questi fece fronte a tutto: annientò gli invasori, soffocò le rivolte a Roma e nelle province, fortificò le città
italiche, compresa Roma, chiamò alle armi la gioventù italica e finalmente riuscì a cacciare i barbari dall’Italia e a ristabilire la sua autorità tanto a Roma quanto nelle province. Sconfitti i Goti, marciò contro la regina Zenobia, che aveva conferito a suo figlio il titolo di Augustus, e con una campagna difficile restaurò la supremazia romana in Oriente, riconquistò l’Egitto, s’impadronì di Palmira e dei capi dell’Impero palmireno, nonostante l’aiuto dato loro dai Persiani. Tornato in Europa, dove dovette combattere sul Danubio i Carpi, fu immediatamente richiamato in Oriente da insurrezioni scoppiate a Palmira e ad Alessandria, quest’ultima diretta da un ricco mercante e industriale alessandrino chiamato Firmo. Entrambe le rivolte vennero rapidamente represse, e ormai per restaurare l’unità dell’Impero altro non restava ad Aureliano che ridurre all’obbedienza l’Impero gallico. Il compito si mostrò relativamente facile, poiché l’ultimo imperatore gallico, C. Pio Esuvio Tetrico, senatore romano, tradì il proprio esercito e al momento decisivo passò ad Aureliano. Dopo aver celebrato a Roma uno splendido trionfo (274 d.C.), Aureliano ripartì per le province, col proposito di restaurare la pace in Gallia e di preparare una spedizione contro i Persiani. Nel corso di tali preparativi In partenza per l’Oriente fu ucciso da una mano di cospiratori presso Perinto nella Tracia (a. 275). I cospiratori non avevano un proprio candidato, e i soldati si rivolsero al Senato perché eleggesse il nuovo imperatore: evidentemente anche l’esercito, per quanto abituato a fare e disfare imperatori, era ancora convinto che la legittimazione dell’imperatore dipendesse in ultima istanza dal Senato. Questo elesse il suo princeps, il primo nella lista dei senatori, M. Claudio Tacito. che fu l’ultimo sovrano che si proponesse di restaurare la cooperazione dell’imperatore col Senato sul piede dell’uguaglianza. Chiamato nell’Asia Minore da un’invasione di Goti, Tacito uscì in campo contro di essi e li respinse, ma nell’ora stessa del trionfo cadde per mano di cospiratori11. L’esercito orientale proclamò M. Aurelio Probo, mentre l’Occidente riconosceva imperatore M. Annio Floriano, fratello di Tacito. Scoppiò così una nuova guerra civile. I due rivali si scontrarono presso Tarso, ma prima ancora che si venisse a battaglia Floriano fu trucidato dalle sue stesse truppe. Il governo di Probo presenta gli stessi caratteri che contraddistinguono tutti quelli della seconda metà del terzo secolo: non soltanto toccò a Probo il grave compito di combattere i barbari in Siria e nella Gallia, che nel 276 era stata invasa dai Germani e aveva visto miseramente distrutte le sue fiorenti città e rovinati i suoi campi, e in seguito nell’Illirico, in Asia Minore e in Egitto; egli dovette anche combattere vari gli usurpatori, Proculo e Bonoso in Gallia, Saturnino in Siria. Mentre preparava una spedizione contro i Persiani, M. Aurelio Caro, anch’egli danubiano, sollevò una rivolta in Rezia e Probo fu ucciso nel 282 d.C. dai suoi stessi soldati a Sirmio, sua città natale12, Gli successe M.
11. E. HOHL, Vopiscus und die Biographie des Kaisers Tacitus (1911; anche in «Klio», 11, 1911). Cf. Forsch. in Ephesos, III, n. 20. 12. E. DANNHAEUSER, Untersuchungen zur Gesch. des Kaisers Probus (1909); J.H.E. CREES, The Reign of the Emperor Probus (1911). Sulla grave guerra d’Africa, paragona-
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Aurelio Caro, anch’egli danubiano13, la cui principale impresa fu una fortunata spedizione contro i Persiani, durante la quale suo figlio Carino era rimasto a governare l’Occidente. Nel corso della spedizione persiana Caro morì fu ucciso o morì per cause naturali, e il suo secondo figlio Numeriano, mentre era in viaggio di ritorno dall’Oriente, fu ucciso nell’Asia Minore dal suocero Arrio Apro, che sperava di succedergli nel trono. Ma non fu eletto: gli ufficiali dell’esercito proclamarono C. Aurelio Valerio Diocleziano, che fu tosto riconosciuto dall’Oriente. Nella guerra civile che ne nacque tra Diocleziano e Carino, questi fu vinto ed ucciso, e Diocleziano rimase solo imperatore14. Contro ogni aspettativa, Diocleziano riuscì per tutta la durata del suo regno a conservare il potere senza opposizione né contrasto. Non era né peggiore né migliore dei suoi predecessori, e se ebbe fortuna là dove gli altri avevano fallito, lo dovette al fatto che i tempi erano ormai maturi e la misura delle sofferenze colma. L’Impero romano aveva bisogno di pace ed era pronto ad accettarla dall’imperatore a qualsiasi prezzo. Prima d’accingerci ad analizzare e spiegare la grande rivoluzione sociale e politica, di cui abbiamo testé tracciato le grandi linee, e che impiegò più di cinquant’anni ad esaurirsi, dobbiamo esaminare la politica seguita durante questa crisi dagli imperatori romani. Anche il più superficiale lettore delle fonti relative a questo torbido periodo può facilmente riconoscere in tutte le disposizioni date dagli imperatori, e specialmente nella pratica quotidiana della loro amministrazione, quei principii direttivi ch’erano stati posti una volta per sempre dai Severi e che in parte si fondavano su precedenti del periodo della monarchia illuminata. La maggior parte degli imperatori che succedettero ad Alessandro furono discepoli fedeli di Settimio Severo, non meno fedeli dei membri stessi della sua casa. Di tanto in tanto osserviamo qualche vigorosa reazione contro siffatta politica, qualche disperato tentativo di ritornare ai tempi gloriosi e beati degli Antonini; in realtà questi tentativi non fecero che causare nuovo spargimento di sangue e indurre gli imperatori successivi ad aderire più strettamente che mai ai principii fondamentali della politica di Settimio Severo. Di questi principii abbiamo già parlato, e ne abbiamo esposto l’origine; ma non sarà inutile riassumerli brevemente. Nel campo politico Settimio Severo prese a militarizzare sistematicamente il governo, che i suoi predecessori avevano reso completamente burocratico. La parola d’ordine fu: burocrazia militarizzata; e alla testa di essa un monarca fornito di potere autocratico ereditario, fondato sulla devozione dell’esercito e sul culto personale dell’imperatore. Militarizzare la burocrazia equivaleva imbarbarirla, dato che l’esercito ormai era composto quasi intieramente di contadini provenienti dalle regioni meno civili dell’Impero e di figli di soldati e veterani stabilitisi sulla terra. Per conseguire questi fini – militarizzazione del governo e sicurezza del potere
bile con quella di Gallieno contro Faraxen, vd. I. L. A., 609 sg.; E. CHATELAIN, «C. R. Acad. Inscr.», 1919, p. 352. 13. P. BIANCHI, Studi sull’imperatore M. Aurelio Caro, Voghera, 1911. 14. Su Carino vd. HENZE, «R. E.», II, col. 2455; D. VAGLIERI in DE RUGGIERO, Diz. ep., II, p. 125.
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imperiale – le antiche classi dirigenti furono a poco a poco allontanate dai posti di comando nell’esercito e dagli uffici amministrativi delle province, e fu loro sostituita una nuova aristocrazia militare. Come gli imperatori medesimi, anche quest’aristocrazia proveniva dalle file dei soldati, e, come gli imperatori, era soggetta a mutare continuamente: incessantemente dalle file dell’esercito sorgevano uomini nuovi, che sostituivano quelli ch’erano stati promossi a uffici equestri o ad un seggio in Senato. Il sistema d’amministrazione tenuto dalla burocrazia militarizzata era essenzialmente dettato dall’alto; e il carattere di esso era conseguenza naturale dell’assoluta instabilità del potere imperiale. Esso può definirsi quale sistema di permanente terrorismo, che di tratto in tratto assumeva forme acute. La parte più importante nell’amministrazione l’avevano le innumerevoli migliaia di poliziotti di vario nome, tutti agenti militari personali dell’imperatore. Il loro compito era di sorvegliare strettamente il popolo delle città e delle campagne, e di arrestare chiunque fosse considerato pericoloso all’imperatore; probabilmente erano adoperati anche per reprimere ogni turbolenza o sciopero che potesse nascere dalla grave pressione esercitata dal governo sul popolo in materia d’imposte e di lavoro coattivo, e per usare coazione fisica su coloro che rifiutavano di pagare le imposte o di compiere i servizi pubblici cui erano tenuti. Tratto saliente di questo sistema di terrorismo sistematico era il crescente sviluppo del principio della coazione in tutti i rapporti del governo con la popolazione, particolarmente nel campo delle imposte e del lavoro obbligatorio. Accanto alle imposte, ma molto più oppressivo e non meno metodicamente applicato, si svolgeva il sistema di requisire viveri, materie prime, manufatti, denari, navi, bestie da soma e uomini per condurle, e così via. Il sistema delle requisizioni veniva completato dal lavoro personale che si esigeva dai singoli; su questo sistema si fondava, per esempio, il reclutamento dei soldati e l’ordinamento di tutti i lavori d’urgenza occorrenti al governo. Lo stesso sistema di coazione regnava sovrano anche nell’ordinamento delle attività economiche dello Stato. I membri più ricchi delle comunità erano fatti responsabili della coltivazione delle terre appartenenti allo Stato, della raccolta del denaro e delle altre cose requisite, del trasporto di cose e uomini per conto dello Stato. Poiché l’efficacia del sistema dipendeva dalla facilità di raggiungere e tener fermo chi era soggetto alla coazione, era naturale la tendenza a legare ognuno sia al suo luogo d’origine sia al gruppo particolare di cui egli era membro per nascita e professione. Chi era lavoratore della terra doveva rimanere nel suo domicilio e continuare il suo lavoro, quali che fossero i suoi desideri e le sue inclinazioni; chi era soldato, doveva rimanere al campo, e i suoi figli non appena raggiunta una certa età dovevano anch’essi entrar nel servizio militare; chi era membro dell’aristocrazia municipale, doveva essere a portata di mano nella sua città per eseguire gli obblighi inerenti alla sua condizione; chi era battagliere era tenuto a restar membro della sua corporazione finché fosse in grado di esercitare la sua professione; e così via. Il sistema come tale non era affatto nuovo, ma nelle condizioni create dallo stato di rivoluzione in permanenza assunse dimensioni inaudite, ed essendo adoperato non come semplice espediente di necessità, ma come strumento
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principale di governo, diventò una vera piaga e minò e distrusse la prosperità dell’Impero e lo spirito degli abitanti di esso. Esso non consisteva più soltanto in una serie di provvedimenti d’urgenza attuati in tempi difficili e abbandonati non appena ristabilite le condizioni normali, com’era avvenuto sotto gli Antonini e perfino sotto i Severi: allorché le condizioni anormali non furono più eccezione e divennero regola, i provvedimenti ch’erano stati prima considerati come espedienti temporanei d’urgenza divennero regolare sistema d’amministrazione, fondazione dell’intiero edificio del governo. Non è facile delineare lo svilupparsi di questo sistema nel torbido periodo dell’anarchia militare: le nostre informazioni in proposito sono scarse e poco attendibili. Tuttavia proprio all’inizio del periodo v’è un momento intorno al quale abbiamo ampie e buone notizie, sulle quali in complesso possiamo fidarci: il periodo, cioè, che segue l’uccisione di Alessandro e si estende a tutto il regno di Massimino e alla reazione seguita alla sua morte, senza comprendere però il governo di Gordiano III e i sei anni di Filippo, intorno ai quali non abbiamo quasi alcuna notizia. Per il regno di Massimino possediamo il sostanzioso e drammatico racconto d’un contemporaneo, Erodiano, che è riprodotto nelle biografie latine degli imperatori di questo periodo con alcune aggiunte tratte da un altro storico greco del terzo secolo, forse Dessippo. Per il governo di Filippo abbiamo l’orazione intitolata «All’imperatore» (Eij~ basileva), scritta da un contemporaneo abbastanza colto e di condizione relativamente elevata, che conosceva bene le condizioni del suo tempo, specialmente quelle dell’Oriente15. Può esservi qualche esagerazione nel ritratto ch’egli fa di Filippo, del quale idealizza indubbiamente il carattere; ma appunto questa parte dell’orazione è interessante e importante, in quanto rivela non tanto le idee e gli ideali di Filippo quanto quelli della classe colta del tempo. Sotto quest’aspetto l’orazione può paragonarsi con quelle di Dione e con qualcuna di Aristide. D’altro canto, la sua parte negativa, intesa a mostrare una situazione in contrasto coi propositi di Filippo e con le aspirazioni delle classi colte, dà un quadro fedele e affatto credibile delle condizioni prevalenti prima dell’assunzione di Filippo; quadro che si accorda in tutti i particolari con quelli offertici da Erodiano e da Dessippo. La questione se Massimino, dopo l’uccisione di Alessandro, abbia o no cercato di ottenere dal Senato la conferma del suo potere, non è di grande
15. Il discorso Eij~ basileva si trova nella raccolta delle orazioni di Elio Aristide (9 ed. Dindorf = 35 ed. Keil), e per lungo tempo fu ritenuto opera di questo sofista. B. KEIL fu il primo a scorgere che Aristide non poteva essere affatto l’autore dell’orazione, e lo dimostrò in maniera luminosa (Eine Kaiserrede, «Nachr. Ges. d. Wiss. Göttingen», 1905, pp. 381 sgg.). Egli ritenne che l’imperatore, cui il discorso è indirizzato, fosse Macrino, e la sua opinione fu appoggiata da I. TURZEVICˇ , «Boll. d. Istituto storico filol. di Niejin», 1907, pp. 49 sgg. (in russo). A. VON DOMASZEWSKI, «Philologus», 19 (1906), pp. 344 sgg., respinse tale identificazione e propose invece Gallieno. La soluzione giusta e stata trovata da E. GROAG, «Wiener Studien», 40 (1918), pp. 20 sgg. È evidente che l’imperatore di cui si tratta è Filippo; è possibile che l’autore sia stato il retore Nikagoras, il grande sofista ateniese di questo periodo, vd. A. WILHELM, «Eph. arch.», 1924, pp. 57 sgg., n. 5.
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importanza16. Molto più importante, come indizio del suo reale atteggiamento e delle sue aspirazioni, è l’azione da lui svolta dopo la sua assunzione e dopo le prime vittorie sui Germani, allorché si trovò in urgente bisogno di denaro. Il suo governo cominciò e terminò col regime del terrore. «A che giovò» – si domanda Erodiano – «l’annientamento dei barbari» – allusione ai successi militari di Massimino in Germania – «una volta che massacri peggiori imperversarono in Roma e nelle province?». Possiamo credere o non credere all’affermazione che Massimino abbia sterminato tutti gli alti ufficiali di Alessandro Severo, ma non vi è ombra di dubbio che il suo regno non si sia iniziato con lo spietato sterminio di tutti i suoi nemici, e che abbia poi sempre continuato allo stesso modo17. Il fatto non soltanto è constatato da Erodiano e dal biografo latino, ma è anche espressamente affermato nel discorso Eij~ basileva. Parlando dell’assunzione di Filippo, l’autore dice infatti: «Quegli altri iniziarono il loro governo» – si allude certo in prima linea a Massimino – «con guerre e stragi non poche, massacrando gran numero di funzionari e arrecando ad altri calamità irrimediabili, sì che non poche città provinciali rimasero desolate, molti terreni abbandonati e molti esseri umani perirono»18. Allorché la ribellione scoppiata contro Massimino in Africa fu repressa dal suo legato Capelliano con l’aiuto dell’esercito africano, in tutta l’Africa infierì la strage. Ne abbiamo prova non soltanto nelle affermazioni di Erodiano e del biografo latino, ma anche in un’iscrizione trovata in Africa: «Sacro alla memoria di L. Emilio Severino, chiamato anche Phillyrio, che visse circa sessantasei anni e morì a causa del suo amore per i Romani, essendo stato catturato da questo (mascalzone di) Capelliano. Vittorico, chiamato anche Veroca, (eresse il monumento) in memoria di amicizia e attestazione di pietà». Il lettore noterà come qui sia messo in rilievo il malanimo dei Romani contro i barbari capitanati da Massimino e da Capelliano. Ritorneremo più tardi su questo punto19.
16. O.TH. SCHULZ, Vom Prinzipat zum Dominat, pp. 51 sgg. rileva che Massimino non si curò minimamente della conferma del Senato; cf. tuttavia O. SEECK, «Preuss. Jahrb.», 56 (1885), pp. 267 sgg., ed E. HOHL, «R. E.», X, coll. 852 sgg. 17. HERODIAN., VII, 3, 1: ti; ga;r h\n o[felo~ barbavrwn ajnairomevnwn pleiovnwn genomevnwn fovnwn ejn aujth`/ te ÔRwvmh/ kai; toi`~ uJphkovoi~ e[qnesin; h] leiva~ ajpavgein tw`n ejcqrw`n, gumnou`nta kai; ta;~ oujs iva~ ajfairouvmenon tw`n oijkeivwn; SCR. HIST. AUG., Max., 8, 7: audiebant enim alios in crucem sublatos, alios animalibus nuper occisis inclusos, alios feris obiectos, alios fustibus elisos, atque omnia haec sine dilectu dignitatis; cf. HERODIAN., VII, 3, 1. Naturalmente non si può riporre fiducia nei quadri degli SCR. HIST. AUG. 18. PS. ARISTID.,Eij~ basileva, 7 (58): ejkei`noi me;n ga;r meta; polevmwn kai; fovnwn pollw`n eijshvlqon eij~ ta; pravgmata, pollou;~ me;n tw`n ejn tavxei ajpolevsante~, polloi`~ de; ajnhkevstwn sumforw`n ai[tioi genhqevnte~, w{ste polla;~ me;n ejrhmwqh`nai povlei~ uJphkovou~, pollh;n de; cwvran ajnavstaton genevsqai, plei`sta de; ajnalwqh`nai swvmata. Cf. ibid., 9 (58-59): kai; mh;n oujd jwJ~ e[sce th;n ajrch;n oujde;n e[praxe skuqrwpo;n oujde; ejmimhvsato, oujde; ejzhvlwse touvtwn oujde;n, w{sper a[lloi tw`n pro; aujtou` basilevwn ejn tevlei tina;~ fobhqevnte~ ejpibouleuvein auJtoi`~ aijtiasavmenoi tou;~ me;n fugai`~ tou;~ de; qanavtoi~ ejzhmivwsan, oujde;n touvtwn ejpoivhse. 19. C. I. L. VII, 2170; DESSAU, I. L. S., 8499.
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Siffatti sistemi di terrorismo non erano nuovi: abbiamo visto che lo stesso metodo era stato adoperato per consolidare il potere imperiale dagli imperatori del sec. I d.C., che alla loro volta l’avevano ereditato dai caporioni delle guerre civili del secolo I a.C.; e ch’esso era stato richiamato in vita da Domiziano e sistematicamente attuato da Settimio Severo e dalla sua dinastia. Nuova però era la ferocia inaudita del soldato trace e il fatto che il sistema, una volta iniziato, fu poi proseguito dai successori di Massimino per più di cinquant’anni. Altro carattere nuovo era che le vittime del terrorismo non furono più soltanto, come sotto Settimio Severo, le classi più elevate dell’aristocrazia imperiale e una parte dell’aristocrazia municipale, sibbene tutta intiera la classe intellettuale e borghese. Corollario di questa campagna di stragi era, come nei tempi di Settimio Severo, il fatto che alle vittime di essa sottentravano uomini che, al pari dell’imperatore medesimo, appartenevano alle classi inferiori, essendo per lo più soldati comuni soltanto di fresco fatti membri dell’ordine equestre. Anche su questo punto le nostre fonti sono esplicite20. La ragione principale per cui Massimino non limitò il suo terrorismo alla nobiltà imperiale fu ch’egli aveva pressante bisogno di denaro: per procurarsene si gettò sulla borghesia dell’Impero in generale, e su quella delle città in particolare, depredandola come se essa appartenesse a un paese straniero conquistato anziché esser composta di cittadini romani, che per lo più dovevano la loro cittadinanza alla concessione fatta pochi anni prima da Caracalla. Riteniamo opportuno ancora una volta riportare le amare ma giustificate parole di Erodiano, che apparteneva anch’egli alla classe perseguitata: «Ogni giorno si potevano vedere i più ricchi del giorno avanti diventar mendicanti l’indomani: tanta era la voracità del tiranno, il quale accampava a pretesto il continuo bisogno di denaro per pagare i soldati». «Ma – egli continua – finché tutto questo fu fatto soltanto a danno di singoli individui e la calamità rimase circoscritta alle classi più vicine alla Corte, il popolo delle città e delle province non vi fece molta attenzione. Le disgrazie dei ricchi, o di coloro che son ritenuti tali, non solo non importano nulla alle masse, ma talvolta anzi fanno piacere alle persone di bassa estrazione, che sono gelose dei migliori favoriti dalla fortuna. Senonché Massimino, dopo aver ridotto alla miseria la maggior parte delle casate ragguardevoli, trovò che il bottino era meschino e insufficiente ai suoi scopi; e allora s’attaccò alla proprietà pubblica. Egli confiscò per proprio uso tutto il denaro appartenente alle città e da queste raccolto a scopo di beneficenza o per farne distribuzione fra i cittadini, o per provvedere agli spettacoli e alle feste religiose; le offerte votive collocate nei templi, le statue degli dei, gli attributi degli eroi, gli ornamenti dei pubblici edifici, ogni cosa che serviva ad abbellire le città, qualunque cosa di metallo che potesse servire a coniar monete, tutto passò nelle fonderie. Questo sistema indignò fortemente la popolazione delle città […]. Anche i soldati erano malcontenti di ciò che si faceva, giacché i loro parenti e compaesani li rimproveravano e serbavano ad essi rancore, in quanto Massimino faceva tutto ciò per loro»21.
20. 21.
SCR. HIST. AUG., Max., 9, 6; HERODIAN., VII, 1. HERODIAN., VII, 3, 3 sgg.; cf. ZOS., I, 13.
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È impossibile dire fino a qual punto Erodiano sia nel vero generalizzando in tal modo la condotta di Massimino e parlando di saccheggio sistematico delle città in tutto l’Impero; ma il fatto che dopo il suo regno sono pochissime le iscrizioni, così frequenti nel sec. II e nei primi anni del III, menzionanti grandi donazioni fatte alle città da cittadini ricchi e loro fondazioni per gli scopi enumerati da Erodiano, mostra che le classi agiate erano spaventate delle confische di Massimino, e che i metodi di costui vennero probabilmente imitati anche dai suoi successori. Non si può certo supporre che la ricchezza accumulata nelle città nel corso di molte generazioni sia scomparsa d’un tratto; ma la condotta brutale di Massimino e di quelli che seguirono il suo esempio inferse evidentemente un colpo mortale allo spirito civico delle classi superiori e le indusse a celare la loro ricchezza e ad ostentare povertà. Inoltre il sistema delle liturgie trasferiva nel tesoro dello Stato e nelle tasche degli agenti finanziari del governo tutto ciò che prima avevano usato spendere le città, o a favore di esse i ricchi cittadini. In tal modo il capitale accumulato dell’Impero, che, come abbiam veduto, non era molto cospicuo, veniva continuamente assalito e non poté mai riaversi dai colpi mortali inflittigli da Settimio Severo e dagli imperatori del periodo dell’anarchia militare22. Come ai tempi di Settimio Severo, così anche ora il terrorismo veniva attuato da un esercito di spie e di poliziotti militari. Nell’orazione Eij~ basileva l’oratore così parla di Filippo: «Intorno alla giustizia di lui basterà quel che ne ho detto. Quale filantropia può esservi maggiore e più manifesta di questa? Tutte le province stavano oppresse e asservite dalla paura, giacché numerose spie andavano in giro per tutte le città ascoltando se alcuno dicesse qualche cosa di sospetto: era impossibile pensare o parlare liberamente, giacché era soppressa ogni più moderata e giusta libertà di parola e ognuno tremava perfino dell’ombra sua. Egli liberò da questo terrore le anime di tutti e le affrancò, restituendo loro l’antica piena e completa libertà». Se confrontiamo queste affermazioni con le iscrizioni dell’età di Settimio citate nel capitolo precedente, vediamo che nelle parole dell’oratore non vi è esagerazione, e che i metodi di Massimino non erano altro che il risultato logico della prassi che Adriano per primo aveva eretta a sistema, e che poi Settimio Severo aveva ulteriormente svolta. Possiamo esser certi che sotto questo rispetto non vi fu mutamento nel periodo che seguì a Massimino; se mai, le cose peggiorarono ancora23. Ma tutti i provvedimenti presi dagli imperatori per tutelare il loro potere e riempire il loro tesoro riuscirono vani. Lo stesso autore mette in rilievo questo punto, insistendo sul fatto che mentre il peso delle imposte era gravissimo,
22. B. LAUM, Die Stiftungen ecc., I, pp. 8 sgg. Il diagramma a p. 9 segna una precipitosa caduta nel sec. III. Malauguratamente i documenti in cui si parla di donazioni e fondazioni per lo più non son datati, sicché non possiamo segnare il corso del processo nel sec. III. 23. PS. ARISTID., Eij~ basileva, 21 (62): kai; peri; dikaiosuvnh~ tosau`ta, filanqrwpiva ge mh;n tiv~ meivzwn tauvth~ kai; fanerwtevra; h\/ katepthko;~ a{pan to; uJphvkoon kai; uJpo; fovbou dedoulwmevnon pollw`n tw`n kathkovwn periiovntwn kai; wjtakoustouvntwn kata; pavsa~ ta;~ povlei~ ei[ ti~ fqevgxaitov ti, ejleuvqeron de; oujde;n
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d’altra parte il tesoro era vuoto24. I documenti corroborano le sue affermazioni e ci mostrano come operava il sistema e quali ne erano le conseguenze. Di ciò parleremo in seguito, quando descriveremo le condizioni economiche del terzo secolo. Ognuno scorgeva, senza dubbio, che la radice del male era l’esercito, erano queste bande d’avidi e licenziosi soldati, ch’erano i veri padroni degli imperatori, e che non amavano lavorare o combattere, ma depredare e saccheggiare i loro stessi concittadini. Il fatto è constatato in maniera precisa dall’autore dell’orazione «All’imperatore», ed è confermato da Erodiano e dal biografo latino. Nel discorso anzidetto si legge, sempre a proposito di Filippo: «Molti dei precedenti imperatori furono valorosi di fronte al nemico, ma si lasciarono dominare e governare dai propri soldati. Egli invece li padroneggiò facilmente e li ricondusse talmente all’ordine che, sebbene fossero stati abituati a ricevere immensi donativi e diventassero turbolenti e pericolosi se non ricevevano ancora altrettanto o più, i loro avidi desideri non trovarono più alimento» ecc.25 Sotto l’oppressione del terrorismo, che mai era stato attuato così sistematicamente e spietatamente come sotto Massimino, la tensione giunse a tal punto, e la popolazione, specialmente delle città26, divenne così esasperata, che
ou[te fronh`saiv ti ou[te eijpei`n oi|ovn te o[n, ajnh/rhmevnh~ th`~ swvfrono~ kai; dikaiva~ parrhsiva~, trevmanto~ de; eJkavstou skiavn, ajphvllaxe tou` fovbou touvtou kai; hjleuqevrwse ta;~ aJpavntwn yucav~, ejntelh` kai; oJlovclhron ajpodou;~ th;n ejleuqerivan aujtoi`~. Cf. HERODIAN., VII, 3, 1 e cap. IX, note 31 e 58. 24. PS. ARISTID., Eij~ basileva, 16 (60): kai; prw`tovn ge th;n eij~ crhvmata dikaiosuvnhn aujtou` qeaswvmeqa. th`~ ga;r suntavxew~ uJperballouvsh~ th`~ eij~ th;n dioivkhsin suntetagmevnh~ kai; fovrwn ejpitacqevntwn pleiovnwn kai; oujde; touvtwn ajrkouvntwn, ajlla; kekenwmevnwn me;n tw`n pantacou` tamieivwn, ajei; de; meivzono~ o[nto~ tou` peri; mevllonto~ fovbou, ouj tou` pleivono~ ejdehvqh oujd jejzhvthsen oujde; dia; crhvmata kako;~ ejgevneto ajll j ajnh`ke kai; ejpekouvfisen, ouj movnon dikaiovtato~, ajlla; kai; filanqrwpovtato~ basilevwn peri; tau`ta genovmeno~. 25. PS. ARISTID., Eij~ basileva, 30 (64-65): kai; me;n ta; me;n pro;~ polemivou~ ajndreivvoi~ polloi`~ uJph`rxe genevsqai, uJpo; de; tw`n sfetevrwn stratiwtw`n aujtou;~ a[rcesqai h] kratei`n. oJ d j ou{tw~ rJa/divw~ ejkravthse kai; katesthvsato w{ste pollw`n me;n kai; ajpeivrwn o[ntwn tw`n didomevnwn aujtoi`~, calepw`n de; kai; foberw`n eij mh; tosau`ta lambavnoien, kai; e[ti pleivw tw`n didomevnwn aujtoi`~, oujc o{pw~ ejphuvxese ta;~ ejpiqumiva~ aujtw`n, ajll j oJrivsa~ to; devon tou;~ me;n stratiwvta~ pro;~ tou;~ povnou~ kai; th;n a[skhsin tw`n swmavtwn ajmeivnou~ ejpoivhsen, oujkevti tw`/ lambavnein aujtou;~ ejas v a~ prosevcein, ajlla; th;n melevthn tw`n polemikw`n aujtoi`~ sunhvqh poihvsa~, oujde;n ejn hJdupaqeiva/ kai; trufh`/ o[nta~ diavgein, ajll jo{pw~ mhdevna kairo;n e{xousin ejpiqumiva~ th`~ toiauvth~. tou`to poihvsa~ ejphvmune me;n tai`~ tw`n ajrcomevnwn ejndeivai~, ejpemelhvqh de; th`~ eujtaxiva~ tw`n stratiwtw`n, tw`n de; crhmavtwn bebaiotevran ejpoivhse th;n provsodon. 26. Nella stessa orazione, § 14, troviamo espressi con chiarezza lo stato d’animo della popolazione e l’opinione delle classi colte: o}~ aJpavntwn me;n kekinhmevnwn kai; meqistamevnwn, wJ~ e[po~ eijpei`n, eij~ eJtevran gh`n, saleuouvsh~ de; th`~ ajrch`~ w{sper ejn megavlw/ ceimw`ni h] seismw`/, ka\/ta w{sper new;~ kataduvesqai mellouvsh~ ajpoferomevnh~ pro;~ e[scata gh`~, ou| kai; provteron ajpeplanhvqhsavn tine~ tw`n ejn ajrcai`~ kai; basileivai~ genomevnwn ka[peita w{sper ejn laburivnqw/ pollai`~ kai; calepai`~ ajporivai~ ejntucovnte~ teleutw`nte~ aujtou;~ ajpei`pon, ajpokleisqevnte~ th`~ ojpivsw
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scoppiarono ripetute insurrezioni, prima in Africa, poi in Italia. Gli studiosi moderni generalmente danno una falsa rappresentazione degli avvenimenti africani, giacché continuano a parlare d’una rivolta di contadini, nonostante le chiare affermazioni di Erodiano, il nostro informatore migliore, ch’è stato mal capito e mal tradotto dal biografo latino di Massimino. Ecco che cosa avvenne realmente. Dopo l’inalzamento di Massimino il procuratore d’Africa ebbe ordine d’estorcervi denaro per l’imperatore: è molto seducente l’ipotesi del von Domaszewski27 che questo procuratore fosse stato nominato governatore della provincia in luogo del vecchio proconsole M. Antonio Gordiano, che s’era ritirato a Thysdrus. Il procuratore, aiutato di mala voglia dal questore e dagli assistenti di lui, procedette nella consueta maniera brutale, prendendosela principalmente coi ricchi agrari, i quali, come sappiamo, costituivano la parte più influente della popolazione della provincia. Alcuni di costoro, che Erodiano chiama «di nascita illustre e ricchi», minacciati della perdita dei loro dominii «paterni e aviti», ordirono una cospirazione e per assicurarne la riuscita, comandarono ai loro oijkevtai (coloni e, più probabilmente, schiavi) di venire dalle tenute in città armati di scuri e bastoni. Questa marmaglia non sarebbe riuscita sospetta al procuratore, abituato a ricever le lagnanze dei contadini contro i loro padroni; ma invece questi uomini lo uccisero, e allora i capi della cospirazione, un gruppo di proprietari africani continuamente rafforzato da altri individui della stessa classe, proclamarono imperatore Gordiano28. Ma questi non poté ottenere alcun favore presso l’esercito africano. Le sue forze erano un ammasso variopinto costituito da pochi soldati regolari (forse la cohors urbana di Cartagine) e da una milizia di uomini residenti in città, membri probabilmente delle curiae iuniorum, attratti dalla promessa fatta da Gordiano di bandire tutte le spie e di restituire le tenute confiscate. Queste truppe erano male equipaggiate e male ordinate, non avevano armi, e dovettero accontentarsi di quelle trovate nelle case della borghesia africana: spade, scuri, spiedi da caccia (l’equipaggiamento dei cacciatori può vedersi in nume-
oJdou` ejpanelqei`n mh; dunhqevnte~, tau`ta oJrw`n, ktl. Quest’enfasi retorica si riferisce probabilmente tanto al periodo precedente alla restaurazione senatoria quanto al governo di Gordiano III. Sappiamo ben poco sulla politica di questo ragazzo, o più esattamente su quella del suocero Timesiteo, uno dei più fedeli e capaci collaboratori di Massimino. Inclino a credere col von Domaszewski che costui si sia attenuto piuttosto alla politica del suo antico signore che a quella degli immediati predecessori di lui. Il governo di Filippo fu una reazione contro il ritorno ai sistemi di Massimino; vd. A. VON DOMASZEWSKI, «Rh. Mus.», 58 (1903), pp. 218 sgg. 27. A. VON DOMASZEWSKI, loc. cit., p. 229. 28. HERODIAN., VII, 4, 2 sgg. specialmente kai; neanivskou~ tina;~ tw`n par j ejkeivnoi~ eu\ gegonovtwn kai; plousivwn katadivkai~ peribalw;n eijspravttein ta; crhvmata eujqevw~ ejpeira`to, patrwv/wn te kai; progonikw`n oujs iw`n aujtou;~ ajfairei`sqai. Cf. SCR. HIST. AUG., Gord. Tres, 7, 4: tunc quidam Mauricius nomine, potens apud Afros decurio, iuxta Thysdrum nobilissima posthac oratione apud plebem et urbanam et rusticanam in agro velut contionabundus est locutus. Può darsi che questo Maurizio e il suo discorso siano inventati, ma la posizione che gli viene attribuita dimostra che il biografo sapeva con precisione chi erano coloro che avevano provocato in Africa la rivoluzione.
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rosi mosaici africani)29. È improbabile che sotto la loro bandiera si siano raccolti anche numerosi contadini e coloni. Naturalmente siffatto esercito fu tacilmente battuto dalle truppe regolari d’Africa, comandate dal legato di Numidia, Capelliano, nemico personale di Gordiano. Alla vittoria seguì un’orgia di stragi e di confische. Capelliano anzitutto mandò al patibolo tutta l’aristocrazia di Cartagine e confiscò sia le proprietà private di essa sia il denaro appartenente alla città e ai templi; quindi passò a fare le stesse cose nelle altre città «uccidendo le persone ragguardevoli, esiliando i cittadini comuni, ordinando ai soldati d’incendiare e saccheggiare le città e i villaggi»30. Frattanto Gordiano era stato riconosciuto a Roma, e anche dopo la sua morte i Romani persistettero nella loro ribellione contro Massimino. La rivolta si diffuse rapidamente in tutta Italia e vi assunse la stessa forma che in Africa: era la lotta disperata della borghesia cittadina contro i soldati e il loro capo, il soldato-imperatore. Spettò al Senato il compito d’organizzare e dirigere nella lotta la borghesia. Pupieno formò un esercito composto di reclute raccolte in Roma e in Italia, sostenute e approvvigionate dalla popolazione urbana di tutta la penisola. Che gli imperatori eletti dal Senato abbiano goduto tutto l’appoggio delle città è provato dalla condotta della popolazione di Emona, che devastò completamente il proprio territorio per togliere a Massimino ogni possibilità di trovarvi rifornimenti, e dalla vigorosa ed eroica resistenza di Aquileia, che decise la sorte di Massimino. La vittoria di Pupieno e Balbino fu adunque un temporaneo successo della borghesia urbana31.
29. HERODIAN., VII, 6, 2 (Gordiano a Cartagine): ei[peto de; aujtw`/ pa`sa hJ basilikh; pomphv, tw`n me;n stratiwtw`n oi{tine~ h\san ejkei`, kai; tw`n kata; th;n povlin ejpimhkestevrwn neanivskwn ejn schvmati tw`n kata; th;n ÔRwvmhn dorufovrwn proiovntwn. IDEM, VII, 9, 5 sgg.: genomevnh~ de; sumbolh`~ oiJ me;n Karchdovnioi o[clw/ pleivou~ h\san, a[taktoi de; kai; polemikw`n e[rgwn ajpaivdeutoi a{te ejn eijrhvnh/ baqeiva/ teqrammevnoi eJortai`~ te kai; trufai`~ scolavzonte~ ajeiv, gumnoiv te o}plwn kai; ojrgavnwn polemikw`n: e{kasto~ de; ejpefevreto oi[koqen h] xifivdion h] pevlekun doravtiav te ejk kunhgesivwn. Indubbiamente questa descrizione esclude i contadini e si riferisce soltanto alle classi inferiori e ancor più alle superiori della popolazione urbana. Cf. la nostra tavola LXXVI. Le promesse di Gordiano, che attrassero nel suo esercito alcuni soldati, sono indicate da HERODIAN., VII, 6, 4: sukofavnta~ te pavnta~ fugadeuvwn kai; palindikivan diadou;~ toi`~ ajdivkw~ katakriqei`s i. Si trattava dunque di sopprimere lo spionaggio e di restituire i beni confiscati. 30. HERODIAN., VII, 10: Kapelliano;~ ej~ Karchdovna eijselqw;n pavnta~ te tou;~ proteuvonta~ ajpevkteine, ei[ tine~ kai; ejswvqhsan ejk th`~ mavch~, ejfeivdetov te ou[te iJerw`n sulhvsew~ ou[te crhmavtwn ijdiwtikw`n te kai; dhmosivwn aJrpagh`~: ejpiwvn te ta;~ loipa;~ povlei~ o{sai ta;~ Maximivnou tima;~ kaqh/rhvkesan, tou;~ me;n ejxevconta~ ejfovneue, tou;~ de; dhmovta~ ejfugavdeuen, ajgrouv~ te kai; kwvma~ ejmpimpravnai lehlatei`n te toi`~ stratiwvtai~ ejpevtrepe. Si tratta dunque d’una persecuzione sistematica delle classi agiate, e specialmente di quella dei grandi proprietari. 31. Il mio modo di vedere concorda con quello di Erodiano e s’appoggia sui fatti da lui raccontanti. Egli dice, VII, 2, 1: strathgoiv te ou\n katelevgonto e[k te pavsh~ ∆Italiva~ logavde~, h{ te neolaiva pa`sa hjqroivzeto o{ploi~ te aujtoscedivoi~ kai; toi`~ prostucou`s in wJplivzeto. L’Italia, come sappiamo, era urbanizzata a fondo, e la mag-
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1. Massimino
2. a) Pupieno; b) Balbino; c) Gordiano III; d) Filippo; e) Decio.
TAV. LXXV – IMPERATORI ROMANI DEL III SECOLO
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DESCRIZIONE DELLA
TAVOLA
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LXXV
1. BUSTO IN MARMO DI MASSIMINO. Museo Capitolino, Roma. HELBIG e AMELUNG, Führer, I, p. 454, n. 62; A. HEKLER, Die Bildnisskunst der Griechen und Römer, tav. CCXLVIa; H. STUART JONES, A Catalogue of the Ancient Sculpture ecc. The Sculptures of the Museo Capitolino, 1912, p. 207, n. 62, tav. XLIX. 2a. ANTONINIANUS D’ARGENTO DI PUPIENO. COHEN, V, p. 14, n. 3, Faccia IMP. CAES. PVPIENVS MAXIMVS AVG. Busto di Pupieno volto a destra con corona radiata. Rovescio CARITAS MVTVA AVGG. Due mani in atto di stringersi. 2b. ANTONINIANUS DI ARGENTO DI BALBINO. COHEN, V, p. 11. n. 17. Faccia IMP. CAES. D. CAEL. BALBINVS AVG. Busto di Balbino col profilo a destra, con corona radiata. Rovescio FIDES MVTVA AVGG. Due mani che si stringono. 2c. AUREUS DI GIORDANO III. COHEN, V, pp. 47 sg., n. 265 (242 d. C.). Faccia IMP. GORDIANVS PIVS FEL. AVG. Busto di Gordiano con profilo a destra e corona di lauro. Rovescio P. M. TR. P. V COS. II P. P. Gordiano stante verso destra, in divisa militare con lancia e globo. 2d. AUREUS DI FILIPPO I. COHEN, V, p. 111, n. 164. Faccia IMP. PHILIPPVS AVG. Busto di Filippo con profilo a destra e corona d’alloro. Rovescio ROMAE AETERNAE. Roma seduta verso sinistra, con una Vittoria e una lancia, e lo scudo a lato. 2e. AUREUS DI DECIO. COHEN, V, p. 190, n. 48. Faccia IMP. C. M. Q. TRAIANVS DECIVS AVG. Busto di Decio con profilo a destra e corona laurea. Rovescio GENIVS EXERC(itus) ILLVRICIANI. Genio dell’esercito d’Illiria, portante una corona murale, nudo, stante verso sinistra, con una patera e una cornucopia. A destra un’insegna militare. Queste medaglie (che si trovano tutte nel British Museum) mostrano i lineamenti dei vari imperatori del periodo dell’anarchia militare: essi differiscono notevolmente dalle aristocratiche teste degli Antonini; nel rovescio si hanno alcuni degli emblemi dei loro brevi regni. Pupieno e Balbino mettono in rilievo il loro scambievole affetto e la loro fedeltà, Gordiano le sue gesta militari, Filippo l’eternità di Roma, che appunto sotto di lui celebrò il suo millenario, Decio le sue relazioni con l’esercito illirico. Della scelta di queste medaglie e dei calchi di questa tavola e della tavola LXXVII son debitore alla cortesia del sig. H. MATTINGLY del British Museum.
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In Massimino le città combattevano il nuovo sistema d’amministrazione introdotto da Settimio Severo. Il loro nemico era la monarchia militare, il loro ideale la monarchia illuminata degli Antonini, fondata sulla borghesia cittadina. Così si spiega che dopo la morte di Massimino non sia stato fatto alcun tentativo per restaurare il regime repubblicano. L’elezione di Pupieno e Balbino servì a dar risalto alla concezione del Senato secondo cui doveva essere imperatore il migliore rappresentante della classe senatoria, non una creatura dei soldati. Lo stesso concetto che l’Impero spetti all’uomo migliore compenetra quel discorso in onore di Filippo, che abbiamo più volte citato. Nelle sue idee principali questo discorso riproduce il quadro ideale dell’imperatore che ci danno i discorsi di Dione; e non a caso l’ejgkwvmion di Filippo è intitolato Eij~ basilevva. Per basileuv~ l’autore naturalmente intende lo stoico sul trono. Un’altra notevole coincidenza può segnalarsi tra questo discorso e l’editto di Alessandro Severo relativo all’aurum coronarium, che è stato ricordato nel capitolo precedente e che contiene un sunto del programma di governo del nuovo sovrano. In quest’editto Alessandro Severo, o i suoi consiglieri, insistono sul punto ch’egli intende seguire l’esempio di Traiano e di Marco e che il suo governo si sarebbe fondato su tutte le virtù stoiche, swfrosuvnh, filanqrwpiva, eujergesiva, kosmiovth~, ejgkravteia32. Anche più esplicita è l’orazione Eij~ basileva v . Essa e indirizzata al filavnqrwpo~ basileuv~; anzitutto e soprattutto
gior parte della sua popolazione era urbana. Inoltre gli abitanti dell’Italia non avevano ancora dimenticato i tempi della loro supremazia, e naturalmente non volevano saperne né del barbaro trace né dei suoi soldati barbarici. Si confronti la storia della lotta combattuta dal popolo di Roma contro i nuovi pretoriani, che approfittavano dell’occasione per depredare i ricchi, HERODIAN., VII, 12, 7. Per ciò che riguarda Emona, ibid., VIII, 1, 4. Intorno all’atteggiamento della popolazione d’Italia dopo la vittoria del Senato, ibid., VIII, 7, 2: ai{ te ajpo; ∆Italiva~ povlei~ presbeiva~ e[pempon tw`n proteuovntwn par j aujtoi`~ ajndrw`n, oi} leuceimonou`nte~ kai; dafnhfovroi qew`n patrivwn e{kastoi prosekovmizon ajgavlmata kai; ei[ tine~ h\san stevfanoi crusou` ejx ajnaqhmavtwn. Ben diversi erano gli umori dei soldati, oi{ plei`stoi ga;r aujtw`n hjganavktoun kai; lanqanovntw~ h[lgoun to;n me;n uJp j aujtw`n ejpilecqevnta basileva kaqh/rhmevnon, kratou`nta~ de; tou;~ uJpo; sugklhvtou hJr / hmevnou~ (ibid., VIII, 7, 3, cf. 8, 1). Non vedo alcun motivo per ritenere che il racconto di Erodiano sia tendenziosamente unilaterale. Egli non era senatore né aveva alcun motivo di rallegrarsi della vittoria del Senato, se si fosse trattato d’una vittoria di esso soltanto; ma in realtà si trattava della vittoria delle classi colte, ed Erodiano rispecchia appunto le vedute e gli ideali della maggioranza di queste classi. Non dubito punto che Massimino sia stato un galantuomo e un abile generale: ma si proponeva di distruggere la compagine dello Stato romano, in quanto essa si fondava sulle città. Nessuna meraviglia quindi ch’egli fosse odiato da coloro che in siffatta distruzione vedevano, con ragione, la rovina della civiltà antica. Come potevano essi credere alla necessità di un tale processo, allorché neppure gli studiosi moderni sono tutti convinti che fosse necessario distruggere le classi colte per introdurre una pretesa uguaglianza, che del resto non fu mai raggiunta? Queste sono le considerazioni che s’oppongono al tentativo di «salvare» Massimino fatto da E. HOHL, «R. E.», X, coll. 852 sgg. 32. Cap. IX, nota 56.
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il «re» è esaltato come colui che ha conseguito il potere imperiale non già, come gli altri, opponendo la forza alla giustizia, e neppure «per conservare la continuità e successione in una famiglia», ma per la voce della pubblica opinione, per il generale consenso della popolazione dell’Impero romano. L’oratore passa poi ad esporre i caratteri principali del regno di Filippo e glorifica l’imperatore come o{s io~ ed eujsebhv~, come pra`o / ~ ed a[okno~, e soprattutto come swvfrwn, divkaio~, ejgkrathv~, filavnqrwpo~. In ogni campo la sua azione politica è direttamente opposta a quella della monarchia militare: egli non presta fede a spie e delatori, non depreda i sudditi; è un buon generale, ma soprattutto un uomo politico e un diplomatico fortunato, e non è lo schiavo, ma il padrone dei soldati. Non è forse questo precisamente l’ideale stoico del re giusto e saggio, quale era stato applicato da Dione a Traiano? Non importa che il quadro ben difficilmente rispondesse alla realtà, e che Filippo non fosse un Traiano: l’oratore rappresenta l’imperatore quale avrebbe dovuto essere – il lettore avrà notato la frecciata contro la successione ereditaria, sebbene Filippo avesse anch’egli associato al potere il proprio figlio – e si sforza d’inserire nel suo quadro ideale i tratti reali dell’imperatore fin dove essi s’accordavano col quadro medesimo. La reazione contro la monarchia militare fu di breve durata, e non furono coronate di successo le aspirazioni della borghesia urbana, che desiderava la restaurazione della monarchia illuminata degli Antonini. Assai poco si conosce intorno al governo di Gordiano III, ma sembra che i metodi del suo suocero Timesiteo non fossero diversi da quelli della monarchia militare33. Filippo e dopo di lui Decio inclinavano a seguire le orme di Marco: il primo, per esempio, fece qualche tentativo di restaurare l’ordine e la giustizia, di riordinare l’esercito, d’arrecare qualche sollievo alle città, di ristabilire l’autorità del Senato; e questi deboli tentativi furono probabilmente la causa della sua impopolarità fra i soldati e del suo abbattimento per opera loro. La dura realtà era che i padroni erano proprio i soldati e ch’era vano sognare la restaurazione d’un governo fondato sugli elementi pacifici della popolazione, rappresentati dalla borghesia cittadina. I successori di Filippo, e sotto certi rispetti anche quest’imperatore medesimo, capirono la loro posizione e regolarono in conformità di essa la loro azione34. La politica della monarchia militare trionfò adunque di quest’ultimo tentativo fatto dalla borghesia cittadina per restaurare nell’Impero la supremazia della classe intellettuale e possidente. Ma la vittoria dell’esercito fu conseguita a spese della salute e della prosperità dell’Impero. I vincitori s’abbandonarono a un’orgia sfrenata e ridussero l’Impero a condizione tale che per un certo tempo fu in pericolo la sua stessa esistenza. Abbiamo già parlato dei formidabili assalti
33. Supra, nota 26. 34. Circa la sua condotta verso il Senato vd. E. GROAG, «Wiener Studien», 40 (1918), p. 38. Per la fondazione di nuove colonie – ultimo tentativo d’urbanizzare l’Impero – vd. E. STEIN, «R. E.», X, col. 760; W. KUBITSCHEK, Zur Gesch. von Städten des röm. Kaiserreiches, «Sitzb. Wien. Akad.», 177 (1916), pp. 3 sgg.; E. GROAG, loc. cit., p. 35. Per Decio vd. J. R. KNIPFING, The libelli of the Decian Persecution, «Harvard Theological Review», 16 (1923), p. 352; cf. L. HOMO, La Disparition des privilèges administratifs du sénat romain, «Rev. hist.», 137 (1921), pp. 162 sgg.
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dei barbari e della disintegrazione cui sotto la loro pressione andava incontro l’Impero. La causa principale di questi reiterati assalti era naturalmente la lotta interna che non aveva mai posa nell’Impero. La vittoria dell’esercito era il trionfo del governo militaristico e autocratico: questa verità fu sentita dagli imperatori che ormai, nelle più difficili condizioni, si addossarono l’impresa di salvar lo Stato e restaurarne ad ogni costo l’unità. È naturale che questi imperatori abbiano rinunziato definitivamente al sogno di restaurare il sistema degli Antonini e abbiano invece intrapreso a costruire sistematicamente lo Stato militaristico, sostenuto dall’unica forza reale dell’Impero, dall’esercito. Dopo le esperienze dei regni di Massimino e dei suoi successori immediati era diventato evidente che la borghesia era troppo debole e mal organizzata per poter offrire valido sostegno al potere centrale. Il primo che riconobbe appieno questo penoso stato di cose fu l’imperatore Gallieno, membro egli stesso dell’aristocrazia senatoria e uomo di buona educazione, propenso alle cure dell’intelletto. E tuttavia proprio lui iniziò la costruzione dell’edificio dello Stato militaristico fondato sull’esercito. Evidentemente ciò non si poteva fare d’un tratto: Gallieno e i suoi successori furono costretti a fare concessioni secondarie al campo opposto e ad introdurre il nuovo sistema gradualmente. Ma era ormai passato il tempo dei compromessi, nel quale, come era stato fatto sotto i Severi, s’era ancor potuto tentare di conservare le istituzioni principali degli Antonini. Da questo tempo in poi tali istituzioni divennero sempre più mere sopravvivenze, e la parte principale spettò invece ai metodi militaristici iniziati da Severo. Sebbene le nostre informazioni siano scarse, esse ci permettono tuttavia di scorgere che Gallieno fu il primo a trarre le conseguenze logiche della politica di militarizzazione integrale della burocrazia romana. Egli appunto escluse definitivamente la classe senatoria dai posti di comando nell’esercito e fece il passo decisivo di nominare regolarmente a governatori delle province e a comandanti delle truppe nelle province senatorie i membri della classe equestre, vale a dire antichi soldati. Sebbene provenisse egli medesimo dalla classe senatoria, Gallieno si vide costretto a dare il colpo di grazia alle aspirazioni della classe superiore e a creare la nuova aristocrazia militare dell’Impero. Dopo di lui nessun membro della classe senatoria ebbe più accesso ai posti di comandante di legione o di distaccamento adibito a speciali servizi militari (vexillatio). D’altra parte, Gallieno evitò d’offendere la classe senatoria. Anche alcune provincie imperiali continuarono ad avere governatori senatorii; ma è dubbio se la loro autorità si estendesse sui comandanti equestri delle legioni; e indubbiamente i militari dominavano sovranamente dappertutto, così nelle province come alla Corte imperiale, dove tanto gli ufficiali quanto i funzionari civili vennero sempre più considerati come seguito personale dell’imperatore. Ormai la carriera equestre era diventata di fatto esclusivamente militare, e le cariche civili non avevano se non una parte insignificante nell’amministrazione militarizzata dell’Impero. Né va dimenticato quanto stretti fossero i rapporti dell’imperatore coi soldati comuni35.
35. Vd. l’accurata dissertazione di C.W. KEYES, The Rise of the Equites in the Third Century of the Roman Empire (1915); cf. A. ROSENBERG, «Hermes», 55 (1920), pp. 319
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Il governo di Aureliano, per quanto breve, sembra aver costituito un altro stadio del medesimo processo. L’Impero presenta l’aspetto d’un paese bloccato dove regni lo stato d’assedio e le città non siano che altrettante fortezze pronte a respinger l’assalto del nemico. Lo stesso può dirsi di parecchi villaggi e delle grandi ville, centri di vaste tenute. Disgraziatamente le notizie che abbiamo sull’importante regno di Aureliano sono molto scarse, e per giunta spessissimo si riferiscono ad argomenti secondari e a provvedimenti locali di poca importanza. È generalmente ammesso ch’egli abbia fatto l’ultimo passo decisivo sulla via che conduceva alla trasformazione del potere imperiale in una pura autocrazia militare, fondata sulla sanzione religiosa. Secondo il nuovo concetto l’imperatore è adesso tale «per grazia di Dio», e Dio è l’onnipotente Sole, il dio supremo delle truppe illiriche. Non v’ha dubbio che il Sole fosse la divinità prediletta da Aureliano, e che sotto di lui questo culto abbia avuto nella città di Roma un posto simile a quello tenuto dal culto del siriaco Elagabal durante il regno del suo gran sacerdote. È anche certo che una specie di monoteismo solare prevalse tra le truppe danubiane prima di Aureliano e dopo di lui36. Non è tuttavia del
sgg. e L. HOMO, «Rev. hist.», 137 (1921), pp. 162 sgg. e 138 (1921), pp. 1 sgg. Quest’ultimo ha dato una finissima rappresentazione della lotta tra il Senato e gli imperatori nella questione dei posti direttivi: sono tuttavia d’accordo con NORMAN H. BAYNES, «J. R. S.», 15 (1925), pp. 195 sgg., cf. J.G.C. ANDERSON, The Genesis of Diocletian’s Provincial, Reorganization, «J. R. S.», 22 (1932), pp. 24-32, e LAMBRECHTS, La Composition du sénat romain de Septime Sévère à Dioclétien (193-284), Budapest, 1937, pp. 96 sgg., nel ritenere che questa ricostruzione del Homo sia un giuoco di fantasia. Il
Senato non aveva forza da poter lottare contro gli imperatori, e ciò che determinò il procedere di Gallieno non fu il desiderio di togliere al Senato alcuni dei suoi diritti (de facto esso in questo periodo non ne aveva più alcuno), ma bensì di ottenere la capacità di servizio più elevata che fosse possibile e di soddisfare i desideri dei soldati. È tuttavia manifesto che l’allontanamento del Senato dalle province si verificò sotto forma di provvedimenti isolati, non già di norma generale. Homo ha compiuto opera meritoria analizzando il cursus honorum dei cavalieri sotto Gallieno e dimostrando ch’esso era affatto militare. «Le cursus équèstre nouveau exclut tout emploi civil; il est strictement militaire et, par les grades de sous-officier, de centurion, de tribun, eventuellement de dux ducenarius, conduit le simple soldat des rangs les plus humbles de la milice jusqu’aux gouvernements des provinces» («Rev. hist.», 138, p. 19). A fondamento di queste conclusioni naturalmente stanno la raccolta e lo studio del materiale epigrafico fatti da A. VON DOMASZEWSKI nel suo brillante scritto Die Rangordnung des röm. Heeres, «Bonn. Jahrb.», 117 (1908), pp. 1 sgg. Con la sovrintendenza sulle province il Senato perdette anche le sue funzioni finanziarie, e l’aerarium Saturni divenne a poco a poco la cassa della comunità cittadina di Roma. 36. Della religione dell’esercito danubiano nel III sec. ci dànno notizia molte centinaia di piccole eijkovne~ (cf. quelle che sono in uso nella Chiesa greco ortodossa), che sono state trovate soltanto nei paesi danubiani e nelle quali si devono scorgere doni votivi o amuleti di soldati. Queste tavolette (di pietra o di piombo) presentano una notevole mistura di monoteismo solare e di venerazione d’una triade divina, mezzo tracica e mezzo persiana, con un apporto di concezioni religiose provenienti dall’Asia Minore. La triade si compone di due divinità a cavallo (sincretismo di Mitra e dell’eroe trace) e della Gran Madre. Il carattere mistico di questo culto è illustrato da una serie di scene che rap-
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tutto chiaro sino a qual punto possiamo attenerci alla testimonianza del continuatore di Dione Cassio (Pietro Patrizio), il quale afferma che durante un ammutinamento delle sue truppe Aureliano proclamò altamente che Dio, e non i soldati, gli aveva dato la porpora: è da notare che le stesse parole sono attribuite da Dione Cassio, quasi nelle identiche circostanze, a Marco Aurelio37. D’altro lato, salvo ciò che riguarda la devozione di Aureliano per il Sole e per Ercole38, la principale divinità degli Antonini, abbiamo pochissimi dati sulle sue tendenze teocratiche. Di fatto egli fu altrettanto autocrate quanto parecchi dei suoi predecessori. Personalità vigorosa, conscia di quello che pensava essere il suo dovere, governò con mano ferma l’Impero riunito, e lo governò da solo: lo stesso però può dirsi di parecchi suoi predecessori. Verso il Senato e la borghesia cittadina egli all’inizio del suo regno mise in azione il terrorismo, che s’attenuò alquanto allorché la vittoria su Zenobia gli permise temporaneamente di riempire il tesoro con le spoglie d’una parte dell’Impero.
presentano varie cerimonie di esso. Vd. il mio articolo Une tablette thraco-mithriaque du Louvre, «Mém. d. sav. étr. de l’Acad. Inscr.», XIII (1924), pp. 167 sgg.; cf. G. KAZAROV, «Jahrb. d. d. arch. Inst.», 37 (1922), Arch. Anz., pp. 184 sgg. e supra, cap. VI, nota 90. Sulle tavolette traco-mitraiche del Danubio vd. D. TUDOR, I cavalieri danubiani, «Eph. Dacoromana», 7 (1937), pp. 189-358 e G. KAZAROV, Die Denkmäler des Thrakischen Reitergottes in Bulgarien, 1938 (Textband e Tafelband). Il culto di Mitra aveva una parte
importante nella vita religiosa dei paesi danubiani; e santuari di questa divinità sono stati trovati in quasi tutte le piazzeforti in cui erano stanziate truppe romane. I meglio conosciuti sono i tre o quattro mitrei di Carnuntum (Führer durch Carnuntum, 19236, pp. 52 sgg.) e quello di Poetovio, scoperto non ha guari, ch’era in pieno fiore sotto Gallieno (B. SARIA, in Strena Bulicˇiana, 1924, pp. 249 sgg.). In questo riguardo tuttavia non v’era alcuna differenza tra i paesi del Danubio e quelli del Reno. Dobbiamo ricordare che i soldati siriaci ed arabici occupavano nell’esercito romano il secondo posto per attitudini militari, e che dall’età di Settimio Severo ebbero poderoso influsso sulla vita politica. Il carattere assolutamente orientale di quest’esercito viene splendidamente illuminato dai monumenti del sec. III che sono stati trovati a Dura-Europos sull’Eufrate; vd. F. CUMONT, «Mon. Piot», 36 (1923) e cf. J. CARCOPINO, «Syria», 6 (1925), pp. 30 sgg.; supra, cap. IX, nota 52a. 37. Per Marco Aurelio vd. DIO CASS., 71, 3, 3 (168 d.C.). Allorché i soldati chiesero un aumento del soldo, Marco Aurelio rifiutò: aujto; tou`to eijpw;n o{t i o{sw/ a]n plei`ovn ti para; to; kaqesthko;~ lavbwsi, tou`t j ejk tou` ai{mato~ tw`n te gonevwn sfw`n kai; tw`n suggenw`n eijspepravxetai: peri; gavr toi th`~ aujtarciva~ oJ qeo;~ movno~ krivnein duvnatai. Per Aureliano vd. PETR. PATR., fr., 10, 16 (F. H. G., IV, 197; DIO CASS., ed. Boissevain, vol. III, fr. 178): o{ti Aujrhliano;~ peiraqeiv~ pote stratiwtikh`~ ejpanastavsew~, e[legen ajpata`sqai tou;~ stratiwvta~, eij ejn tai`~ aujtw`n cersi; ta;~ moivra~ ei\nai tw`n basilevwn uJpolambavnousin: e[faske ga;r to;n qeo;n dwrhsavmenon th;n porfuvran (kai; tauvthn ejpedeivknu th`/ dexiva/) pavntw~ kai; to;n crovnon th`~ basileiva~ oJrivsai. Conosceva Aureliano il motto di Marco Aurelio? O Pietro Patrizio ha letto erroneamente «Aurelianus» in luogo di «M. Aurelius»? O il motto è mera invenzione? Sul Sol Invictus di Aureliano e la sua romanizzazione e l’orientamento teocratico della sua linea politica F. ALTHEIM, Sol Invictus, «Die Welt als Geschichte», 5 (1939), partic. pp. 298 sgg.
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È impossibile dire fino a che punto Aureliano abbia promosso la militarizzazione dell’amministrazione imperiale. Era noto come buon amministratore, come uomo che sapeva mantener la disciplina tanto tra i funzionari civili e militari quanto tra i soldati: ma non è prudente fare affidamento sui particolari dati a questo proposito dal biografo latino. In realtà si possono attribuire totalmente ad Aureliano soltanto due provvedimenti, che furono precisi tentativi di concentrar la vita dello Stato nelle mani dell’imperatore e costituiscono quindi uno svolgimento della politica seguita dai suoi militaristici e autocratici predecessori. Il primo di tali provvedimenti fu l’azione svolta energicamente da Aureliano per porre ordine nella caotica circolazione monetaria dell’Impero, unificandola e sopprimendo quasi completamente le coniazioni locali autonome, compresa quella del Senato romano. Fu questo uno degli ultimi colpi vibrati all’autonomia delle città e alle prerogative del Senato. Il secondo provvedimento riguardava le associazioni al servizio dello Stato. Abbiamo seguito gli stadi consecutivi della loro evoluzione. Il governo le aveva messe sempre più strettamente alla sua dipendenza, specialmente quelle dei battellieri e dei mercanti di derrate alimentari all’ingrosso. Di pari passo procedette la statizzazione degli operai occupati in lavori speciali connessi col traffico e coi trasporti nelle grandi città, e delle corporazioni che avevano relazione con la sicurezza della vita in Italia e nelle province, specialmente delle brigate locali di pompieri, conosciute col nome di collegia dendrophorum et centonariorum. Anche gli uomini che lavoravano nelle zecche imperiali furono assoggettati alla sorveglianza dello Stato e a una disciplina quasi militare. Questa dipendenza dallo Stato implicava sempre non soltanto la stretta vigilanza esercitata da agenti statali, ma anche l’attaccamento degli individui sia alla loro professione sia al loro luogo di residenza, e la tendenza a trasformare l’obbligo individuale in un munus ereditario. Abbiamo visto come Alessandro Severo estese la sorveglianza governativa alle associazioni che avevano importanza ai fini del regolare approvvigionamento della capitale. Sembra che il passo decisivo in questo campo l’abbia fatto appunto Aureliano. Con ciò non alludo alla militarizzazione temporanea di tutte le associazioni di Roma, ordinata per la costruzione delle mura della città: provvedimenti consimili possono essere stati presi anche in altre città dell’Impero trasformate in castelli fortificati. Non posso credere che questo provvedimento, consistente nell’accurata registrazione di tutti i membri delle corporazioni edili e nel conferimento ad essi del titolo di Aureliani (col che può confrontarsi il corrispondente provvedimento di Commodo relativo ai navicularii), sia stato pensato come istituzione durevole che debba considerarsi come inizio di una nuova era per tutte le corporazioni della capitale. D’altro canto è molto probabile che Aureliano, occupandosi di regolare il sistema d’approvvigionamento della città di Roma, abbia riordinato le corporazioni collegate col traffico e col trasporto delle derrate alimentari e ne abbia fatto realmente altrettanti organi dello Stato, o reparti amministrativi soggetti a rigorosa disciplina sotto la stretta sorveglianza di ufficiali della guarnigione di Roma. Ciò significava che i membri delle corporazioni erano definitivamente legati ad esse, e che queste potevano venire rafforzate mediante l’immissione coattiva di nuovi membri. Se siffatto provvedimento fu preso da Aureliano per la capitale – il che però non è che un’ipotesi – esso indubbiamente venne esteso almeno ad
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Alessandria e a Cartagine; e con tutta probabilità lo stesso sistema a poco a poco venne imposto per mezzo di rescritti speciali alle corporazioni locali di tutto l’Impero39. Il vigoroso e tenace governo di Aureliano – il grande restauratore dell’Impero romano, che ancora una volta, e più efficacemente che mai, aveva accentrato il governo dell’Impero a Roma e appariva quale capo d’una burocrazia completamente militarizzata, la cui azione si fondava sulla partecipazione coattiva di tutti i gruppi della popolazione all’opera amministrativa e al rifornimento dei mezzi di sussistenza e di lavoro all’Impero – terminò in modo affatto sorprendente in qualche cosa che sembrava una restaurazione del governo senatorio. Né ciò fu il risultato di una controrivoluzione o d’un’aspra lotta fra le città e l’esercito, come nel periodo successivo a Massimino; fu conseguenza d’una decisione dell’esercito medesimo. A succedere ad Aureliano il Senato elesse a unico imperatore Tacito, il princeps Senatus. È evidente che la possibilità di un fatto simile implica la scomparsa del reciso antagonismo, esistito sotto Massimino, tra il Senato in quanto rappresentante della borghesia cittadina e l’esercito. Di questo strano avvenimento non vedo che una spiegazione: che, cioè, il Senato non rappresentasse più la borghesia urbana dell’Impero, e che nelle questioni fondamentali della vita dello Stato vi fosse ormai perfetto accordo tra il Senato e l’imperatore, capo dell’esercito. Il Senato sentiva ormai altrettanto vigorosamente quanto gli imperatori ciò che cominciava ad agitarsi anche nelle file dell’esercito: cioè l’urgente necessità di ristabilir l’ordine, se si voleva salvare la civiltà romana; e quindi rinunziava, almeno nella maggioranza dei suoi membri, all’aureo sogno di restaurare le condizioni del periodo antoniniano. Le parole e formule antiche erano ancora usate, per esempio, a glorificare la nuova era apertasi per l’Impero col governo del primo senatore Tacito; ma erano vane parole, che non implicavano alcun’azione o alcun mutamento di politica.
39. Il lettore troverà un’indagine particolareggiata sulla politica economica e sociale di Aureliano nei libri da me citati alla nota 10. Dei collegi professionali s’è occupato E. GROAG, «Vierteljahresschrift f. Sozial u. Wirtschaftsg.», 2 (1904), pp. 493 sgg. Assai probabilmente Aureliano militarizzò e statizzò alcune di queste corporazioni, specialmente alcune di quelle che avevano importanza per la città di Roma. Ciò era effetto delle grandi difficoltà cui andava incontro l’approvvigionamento di Roma, in un periodo in cui il commercio privato era agli estremi e la produttività dell’Italia si dileguava. Quanto al razionamento del pane, dell’olio, della carne di maiale, introdotto da Aureliano, non poteva trattarsi di voler corrompere il popolo con donativi, ma di salvare la gigantesca città dalla morte per fame. Allo stesso fine mirava il provvedimento, in forza del quale Aureliano riservò alla popolazione romana i prodotti consegnati allo Stato in Egitto dai produttori di canape e di lino e dai fabbricanti di vetro e di papiro. Queste anabolicae species, che lo Stato per l’innanzi aveva venduto in varie località (p. es. a Lione), furono ora portate tutte quante nella capitale e probabilmente ivi vendute alla popolazione (vd. cap. IX, nota 57). Un altro provvedimento dello stesso genere, il quale dimostra quali difficoltà si trovassero a soddisfare i bisogni anche più elementari della popolazione di Roma, fu il tentativo di statizzare la produzione e la vendita del vino. Riparlerò di questi provvedimenti nel capitolo seguente.
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Il mutato atteggiamento del Senato si spiega probabilmente con la circostanza di fatto che dopo gli anni terribili di Massimino, e ancor più dopo le riforme di Gallieno, il Senato non rappresentava più la stessa classe della popolazione che per l’addietro. I membri del Senato erano ormai per lo più antichi generali dell’esercito, ch’erano saliti dai gradi più bassi del servizio militare, e antichi alti e bassi funzionari militari dell’amministrazione imperiale: in complesso erano un’aristocrazia affatto nuova. E, a un tempo, essa era un’aristocrazia di grandi proprietari terrieri. Vedremo nel capitolo seguente come sulle rovine dell’antica aristocrazia terriera, imperiale e municipale, era venuta su una nuova classe di proprietari, per lo più antichi soldati e ufficiali. Accanto ad essi si trovavano ancora alcuni degli antichi grandi proprietari di terre, che avevano saputo non soltanto superare la tormenta del periodo rivoluzionario, ma anche ingrandire le loro tenute impossessandosi di nuovi terreni. Ecco dunque la gente che ormai era rappresentata dal Senato; non più la borghesia cittadina asservita e mezzo rovinata. Naturalmente quest’aristocrazia aveva interesse vitale alla restaurazione dell’ordine. Non le importava niente della gloria passata delle città, ed era pronta ad appoggiare l’imperatore e l’esercito nei loro propositi di restaurare l’Impero: desiderava vedere reso stabile e saldo il nuovo ordine di cose sorto dalle convulsioni del periodo rivoluzionario40. La borghesia cittadina non ricuperò mai più l’antica posizione di classe dominante. Le sue forze furono fiaccate dalle selvagge esecuzioni e confische di Massimino, e ancor più dal sistema delle liturgie che completò la rovina iniziata dallo spasimo acuto del terrorismo. Non sappiamo se dopo Settimio Severo e Massimino essa sia stata fatta oggetto di assalti dello stesso genere: mancano su di ciò attestazioni dirette; ma per completare la rovina non vi era bisogno di tali colpi violenti. Le generali condizioni economiche dell’Impero, che descriveremo nel capitolo seguente, la rovina del commercio e dell’industria, la terribile invasione barbarica delle province – specialmente della Gallia, dei paesi danubiani, della Grecia, dell’Asia Minore, e in certa misura dell’Africa e perfino dell’Egitto (per opera dei Blemmii) – che perfino fece scomparire dalla terra alcuni floridi centri di vita urbana, il costante drenaggio della ricchezza di questa classe operato dalle svariate esazioni del governo e dal sistema
40. Assai scarsi però sono i dati che possediamo intorno alla composizione del Senato nella seconda metà del sec. III. A. PARISIUS, Senatores Romani qui fuerint inter a. 244 et a. 284, Diss. Berlin, 1916, ha potuto riunire soltanto 151 nomi di senatori di questo periodo, mentre per l’età di Severo Alessandro abbiamo notizia di oltre 280 senatori (W. THIELE, De Severo Alexandro imperatore, 1909, pp. 77 sgg., cf. A. JARDÉ, Études critiques sur la vie et le règne de Sevère Alexandre, 1925, pp. 119 sgg.; cf. tuttavia la più completa raccolta di LAMBRECHTS, La Composition du sénat romain de Septime Sévère à Dioclétien (193-284), Budapest, 1937, pp. 86 sgg., che raccoglie circa 300 nomi per il periodo che va da Massimino a Diocleziano). Ma anche questi scarsi materiali permetto-
no di scorgere che le nuove famiglie provinciali erano in maggioranza appetto a quelle che appartenevano all’aristocrazia senatoria già dal sec. II. Intorno alla nuova nobiltà agraria vd. le belle osservazioni di C. JULLIAN, Hist. de la Gaule, IV, pp. 552 sgg. e 605 sgg. Naturalmente il fatto non rimase circoscritto alla Gallia.
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liturgico; tutti questi fattori spiegano a sufficienza la decadenza graduale delle città e della loro borghesia. Non affermo già che questa classe sia scomparsa: ciò sarebbe notoriamente falso. Non è facile, neppure coi mezzi più violenti, ridurre al nulla ricchezze accumulate da secoli. La classe media sopravvisse, e vi furono ancora cittadini ricchi nelle città provinciali e italiche: ma era una nuova borghesia, di tipo basso e servile, che metteva in opera sotterfugi ed espedienti d’ogni specie per sottrarsi agli obblighi impostile dallo Stato, una borghesia la cui prosperità si fondava sullo sfruttamento e sulla speculazione, ma che ciò nonostante andava giù rapidamente. Essa viveva essenzialmente sul passato e non aggiunse gran che alle risorse accumulate dal passato. Ritorneremo su questo punto nel capitolo seguente. Riassumiamo ora il già detto. Nel periodo successivo ad Alessandro Severo vediamo gli imperatori, sotto la costante pressione dell’esercito, completare il processo iniziato da Settimio Severo. Scomparve l’effettiva diarchia dei tempi della monarchia illuminata, cioè il doppio reggimento del governo centrale e dell’autogoverno della città. La classe senatoria e l’antica classe equestre, che rappresentava la borghesia municipale, a poco a poco perdettero i loro privilegi politici e sociali e scomparvero. L’aristocrazia municipale veniva ancora adoperata dal governo e conservava qualcuno dei suoi privilegi sociali, ma era asservita, non aveva più iniziativa né libertà. I suoi membri agivano per conto dello Stato in qualità di servitori, che somigliavano molto da vicino a schiavi. Il nuovo sistema di governo si fondava sull’imperatore e su una nuova burocrazia militarizzata, sorretta dall’esercito. Era questa l’ultima fase dell’evoluzione, la risultanza principale dei lunghi anni di anarchia militare. Gli imperatori del terzo secolo si proposero volontariamente come ideale siffatta evoluzione? Abbiamo cercato di dimostrare che questa politica fu imposta a Settimio Severo dal fatto stesso della sua usurpazione del potere: ma il suo vero ideale era la monarchia illuminata degli Antonini. Non appena le circostanze permettevano agli imperatori di mostrare il vero animo loro, essi apparivano fedeli seguaci dell’antica ideologia. Eccezion fatta di Massimino, che odiava cordialmente l’antico regime, tutti gli altri procedettero con riluttanza sulla via che, attraverso lo sviluppo della burocrazia militarizzata, conduceva alla distruzione delle antiche fondamenta dell’Impero romano. È evidente che se essi tuttavia la percorsero, è perché vi furono costretti, e perché videro che gli ideali del secondo secolo andavano sempre più facendosi torbidamente anacronistici. Padrone dello Stato era l’esercito, e gli imperatori non potevano far altro che adattar se stessi e la struttura dell’Impero a questa amara realtà. L’esercito mostrò con tutta chiarezza di non esser disposto a tollerare qualsiasi prevalenza delle antiche classi privilegiate, e gli imperatori non potevano far altro che aderire alle sue esigenze. Attuandole gradualmente e, per quanto era possibile, senza eccessi, essi mostrarono reale comprensione dello stato effettivo delle cose e vero patriottismo. Il loro scopo fondamentale fu non già di distruggere l’antico assetto sociale e di instaurare la dittatura dell’esercito, ma di trovare un riadattamento della costituzione e dell’amministrazione dell’Impero che permettesse loro, nelle condizioni caotiche sorte dalla dominante anarchia, di mantenere solido e intatto l’edificio dello Stato romano, e di salvarlo dallo smembramento e dalla conquista dei vicini.
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A poco a poco non vi fu più che un problema vitale: quello della difesa militare. Per risolverlo, tutte le forze disponibili vennero concentrate nell’unico intento di mantenere un forte esercito capace di combattere il nemico. A tal fine era necessario subordinare gli interessi del popolo a quelli dello Stato. La maniera caotica in cui ciò si venne a poco a poco facendo fu dovuta all’anarchia militare, che in ultima analisi fu la conseguenza degli sforzi estremi fatti dalla borghesia urbana per restaurare la sua vanescente supremazia. Non appena questa lotta fu terminata con la definitiva disfatta della borghesia, gli imperatori si consacrarono interamente al compito di restaurare l’unità e la forza dello Stato. L’ostacolo principale ch’essi incontrarono in quest’opera non fu più la lotta tra la borghesia e l’esercito, sibbene l’esercito medesimo, poco efficiente e terribilmente guasto dalla licenza. Quindi gli sforzi degli imperatori, da Gallieno in poi, furono dedicati al compito di riformare l’esercito sì da farne uno strumento militarmente efficace e, in quanto ciò era possibile, neutrale in politica. Era insomma lo stesso compito che dopo le guerre civili aveva assolto Augusto. Intorno alle riforme militari attuate da Gallieno e dai suoi successori possediamo informazioni scarse e poco attendibili. È evidente tuttavia, che sotto l’aspetto militare il problema fondamentale era quello di creare un poderoso esercito di manovra, sempre pronto ad essere gettato su ogni punto minacciato della frontiera, e quindi concentrato il più possibilmente in vicinanza alla residenza dell’imperatore. Questo fu il motivo della creazione di un potente corpo di cavalleria messo sotto il comando diretto dell’imperatore o del più fidato tra i suoi generali. Alla stessa circostanza si deve anche la decadenza degli eserciti provinciali, che a poco a poco si ridussero a mere unità di milizia locale; e così pure la creazione di una speciale aristocrazia militare di protectores, legati all’imperatore dai vincoli della mera fedeltà personale. Ma questo non era che un lato del problema. L’inefficacia dell’esercito non era dovuta soltanto al suo carattere provinciale, al suo decentramento, ma anche alla sua composizione: esso era diventato un esercito di contadini mobilitati, levati coattivamente, non presi dai migliori elementi della popolazione romana. Questa composizione dell’esercito ne spiega anche lo spirito riottoso, come vedremo nel capitolo seguente. Liberarsi di quest’esercito di contadini fu dunque un altro dei gravi problemi che gli imperatori del secolo terzo dovettero risolvere, com’era stato già il compito principale di Augusto e di Vespasiano. Si cessò dal chiamare alle armi la massa della popolazione, e in luogo del servizio personale sottentrò un pagamento, l’aurum tironicum, che venne adoperato per arruolare buoni mercenari. Non si possono tracciare gli stadi successivi di questo processo cardinale: abbiamo però veduto che gli inizi del nuovo sistema risalgono almeno fino ai Severi; le conseguenze finali di esso furono tratte probabilmente da Gallieno e dai grandi capi militari della seconda metà del terzo secolo. I soldati mercenari venivano accuratamente scelti, in parte tra le stirpi dell’Impero militarmente più idonee – Illirii, Traci, Arabi, Mauri, Bretoni –, in parte tra i Germani e i Sarmati. Questi ultimi venivano attirati col miraggio di grosse paghe, oppure erano prigionieri di guerra immessi individualmente o a gruppi nell’esercito romano. La coscrizione restò limitata, per quanto era possibile, ai figli di soldati provveduti di terra, la mag-
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gior parte dei quali originariamente erano stati barbari fatti prigionieri, e alle più bellicose fra le stirpi dell’Impero; e questi elementi erano adibiti a guarnire i fortilizi di frontiera e a riempire le file degli eserciti provinciali. In tal modo gli imperatori potevano confidare nel nucleo delle loro truppe, che, essendo affatto estraneo alla popolazione, sapeva che la sua sorte era legata a quella dell’imperatore; questi poteva liberamente usare tali truppe, eventualmente anche contro gli eserciti provinciali. Il consolidamento dell’esercito fu dunque conseguito mediante un sistema radicale, anzi addirittura disperato. Il nuovo esercito non era più un esercito romano: era un esercito dell’imperatore o dello Stato romano, non già del popolo romano, preso anche nel senso più largo della parola. Non era più una parte della popolazione romana, e di questa non rappresentava più gli interessi: era una casta speciale, mantenuta a spese della popolazione per combattere i nemici esterni. Da questa casta uscivano ormai il personale amministrativo dell’Impero, la più gran parte della classe dirigente, e gli imperatori medesimi. Siffatto esercito non poteva più esser completamente romanizzato e assorbito dalla popolazione. Certamente i suoi elementi romanizzati si fondevano nella massa della popolazione; ma esso veniva sempre di bel nuovo ricostituito con nuove reclute provenienti da paesi stranieri, e quindi divenne a poco a poco casta militare straniera. I suoi elementi più elevati costituivano ormai l’aristocrazia dell’Impero romano; essi alla loro volta, non appena romanizzatisi, erano sostituiti da nuovi venuti, dai più energici e abili tra i soldati della casta militare forestiera41.
41. Circa le riforme introdotte nell’esercito romano vd., oltre ai lavori relativi ai governi di Gallieno e di Aureliano, il libro di R. GROSSE, Röm. Militärgesch. von Gallienus bis zum Beginn der byzant. Themenverfassung (1920) e la bibliografia ivi data. Purtroppo i dati che possediamo intorno al sistema di coscrizione vigente nel sec. III sono disperatamente magri: le nostre conoscenze si restringono per la maggior parte al sec. II e all’età di Diocleziano. Le vedute da me esposte nel testo si fondano sul magistrale lavoro di TH. MOMMSEN, Die Conscriptionsordnung der röm. Kaiserzeit, Ges. Schr., VI, pp. 20 sgg.; cf. anche il mio articolo nel «J. R. S.», 8 (1918), pp. 26 sgg., e A. ALFOELDI, La Grande crise du monde romain au IIIe siècle, «Ant. Class.», 7 (1938), pp. 5-18 e IDEM, C. A. H., XII, 1939, pp. 165 sgg.
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SCHEDA 1 LE CONDIZIONI DEL VICINO ORIENTE ALLA METÀ DEL III SEC. D.C. Un quadro generale delle condizioni del Vicino Oriente è fornito da ORAC. SIB. XIII. Dopo 6 versi di introduzione, e forse una breve lacuna, segue il quadro generale dell’epoca nel resoconto che segue degli eventi da Gordiano sino all’indomani della cattura di Valeriano: kai; dovru qou`ro" “Arh" : uJpo; dæ aujtou`
pavnte" ojlou`ntai, ⁄ nhpivaco" geraov" te qemisteuvwn ajgorai`s in: ⁄ polloi; ga;r povlemoiv te mavcai tæ ajndroktasivai te ⁄ limoi; kai; loimoi; seismoi; maleroiv te keraunoiv ⁄ ajsteropw`n te forai; pollai; kata; kovsmon a{panta ⁄ hjde; lehlasivh te kai; iJerosuliva naw`n. kai; tovte dh; Persw`n ejpanavstasi~ ajlfhsthvrwn ⁄ ∆Indw`n t j ∆Armenivwn t j ∆Aravbwn q j a{ma: kai; peri; touvtoi~ ⁄ ÔRwmai`o~ pelavsei basileu;~ polevmou ajkovrhto~ ⁄ aijcmhta;~ ejpavgwn kai; ejp j ∆Assurivou~, nevo~ “Arh~: ⁄ a[cri~ ejp j Eujfravthn te baquvrroon ajrgurodivnhn ⁄ ektanuvsei pevmya~ lovgchn polemhvio~ “Arh~ ⁄ *idetews* e{neka: kai; ga;r prodoqei;~ uJf j eJtaivrou ⁄ kappevset j ejn tavxei tufqei;~ ai[qwni sidhvrw/.
SCHEDA 2 L’ORIENTE La situazione dell’Oriente peggiorò ancora quando Sapore, dopo aver occupato le fortezze romane del medio Eufrate e sconfitto l’esercito romano a Barbalissus, invase la provincia di Siria, occupò e saccheggiò numerose città e templi, prese con l’aiuto dei Siriani Antiochia e Seleucia in Pieria ed estese la sua azione devastante fino in Cappadocia. Dopo che la sua campagna militare si concluse con un successo, nel 253 d.C., Sapore si ritirò con il bottino, ma sulla via del ritorno assediò e conquistò Circesium e Dura. Una nuova offensiva di Sapore ebbe inizio nel 259 d.C.: Siria e Asia Minore furono invase e sottoposte a nuovi spietati saccheggi. I Goti e i Borani facendo uso delle risorse del regno del Bosforo, che diventò loro vassallo, e specialmente della sua flotta commerciale e militare invasero i primi l’Asia Minore, i secondi le coste sudorientali del Mar Nero e saccheggiarono le coste greche.
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Non possediamo per il terzo secolo una descrizione generale dell’Impero romano che possa paragonarsi con quella di Elio Aristide; ma la miseria dei tempi trova frequente espressione nei contemporanei e si rispecchia in tutti i documenti del tempo. Chiunque legga attentamente l’orazione Eij~ basileva, frequentemente citata nel capitolo precedente, e la confronti coi discorsi di Dione e di Plinio da un lato, di Aristide dall’altro, sente quale immensa differenza vi sia non solo nelle condizioni effettive ma anche nello stato d’animo della popolazione in genere e delle classi elevate in ispecie. Non meno impressionante è il tono delle biografie latine degli imperatori del terzo secolo, se si confrontano con quelle relative al secolo II. Possiamo credere a nostra volta che queste biografie siano state scritte nel secolo IV e riflettano gli interessi e l’atteggiamento delle classi superiori dell’età teodosiana, ma non possiamo negare che lo scrittore (o gli scrittori) del quarto secolo, avendo dinanzi agli occhi fonti contemporanee, rispecchi o rispecchino inconsciamente non solo i loro propri sentimenti, ma anche quelli delle loro fonti. Una delle più notevoli manifestazioni di carattere generale si ha nel noto sogno dell’imperatore Probo. Non posso astenermi dal pensare che le esclamazioni retoriche dell’autore abbiano il loro punto d’attacco in qualche affermazione genuina dell’imperatore ben nota ai contemporanei; e son convinto che perfino le espressioni quasi isteriche adoperate dal biografo rispondano adeguatamente ai desideri e alle aspirazioni generali del terzo secolo, che non differivano molto da quelle del quarto, in cui le condizioni erano un po’ più stabili, ma ancora incerte e tutt’altro che soddisfacenti. Perciò mi permetto di citare i relativi passi della vita di Probo. Alcune sentenze non sono altro che retorica triviale, ma alcune frasi (specialmente quelle che qui si stampano in corsivo) sarebbero impossibili in un quadro dell’età dell’oro, mettiamo del primo o secondo secolo d.C. «Prestissimo, diceva egli [Probo], non avremo più bisogno di soldati», scrive il biografo, e aggiunge: «Non è questo lo stesso che dire: «non vi saranno più soldati romani»? Lo Stato romano dominerà dappertutto, possederà tutto in completa sicurezza. Il mondo non fabbricherà più armi, né sarà più costretto a fornire l’annona. I buoi saranno adoperati per l’aratro, i cavalli saranno generati per le opere di pace. Non vi saranno più guer-
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re, non prigionieri, dappertutto vi sarà pace, dappertutto vi saranno le leggi di Roma, dappertutto i nostri giudici». Insomma, il biografo desiderava securitas, pax, abundantia, iustitia. Egli precisa ancor più quando poi continua ad estendersi sullo stesso tema: «I provinciali non dovrebbero più dare annona, non si sborserebbero più stipendi ai soldati col ricavo di donativi forzosi, lo Stato romano possederebbe tesori inesauribili, niente sarebbe più sperperato dall’imperatore, niente pagato dal proprietario. Era dunque veramente l’età dell’oro ch’egli prometteva. Non vi sarebbero più state fortezze, non si sarebbe più udita in nessun luogo la tromba militare, non sarebbe più stato necessario fabbricare armi. Quello stuolo di soldati, che ora opprime lo Stato con le guerre civili, avrebbe coltivato la terra, avrebbe speso il proprio tempo nello studiare, nel praticare le arti, nel veleggiare sui mari. Nessuno sarebbe stato più ucciso in battaglia. Buoni dèi, quale peccato ha commesso contro di voi il popolo romano perché voi gli abbiate tolto un tale imperatore?»1. È tutt’altro che facile dare un quadro delle condizioni generali dell’Impero nel terzo secolo, specialmente per il periodo posteriore ad Alessandro Severo; ma alcuni fatti salienti, sufficientemente attestati, illustrano la sua rapida rovina economica e il corrispondente declinare della civiltà in tutto il mondo mediterraneo. Uno dei fenomeni più cospicui della vita economica era il rapido deprezzamento della moneta e l’ancor più rapido aumento dei prezzi. Il punto critico del graduale deprezzamento della valuta argentea e della scomparsa dell’oro dal mercato fu il regno di Caracalla, che al denarius sostituì l’Antoninianus. Da questo momento in poi il potere d’acquisto della moneta imperiale non fece che scendere incessantemente. Il denarius, che nel primo secolo corrispondeva a circa 85 centesimi di lira [oro], ed era poco diminuito di valore nel secondo, verso la metà del secolo terzo era sceso a un po’ meno di 25 centesimi. Questa caduta non poté essere arrestata neppure dalle riforme di Claudio II e di Aureliano, che introdussero la nuova valuta, il kaino;n novmisma com’era chiamata in Egitto, sebbene questi riformatori rinunziassero definitivamente all’antico sistema d’emettere moneta reale, con un reale valore commerciale corrispondente alla quantità e alla purezza del metallo, e introducessero un nuovo sistema di moneta fiduciaria, che non aveva quasi alcun valore reale ed era accettata e circolava soltanto perché riconosciuta dallo Stato2.
1. SCR. HIST. AUG., Prob., 20, 5 e 23; cf. AUR. VICT., Caes., 37, 3; EUTR., 9, 17, 3. La concordanza tra il biografo, Aurelio Vittore, ed Eutropio, mostra che il motto di Probo, se non è genuino, fu però inventato già nel sec. III. Cf. TH. MOMMSEN, «Hermes», 25 (1890), p. 259; DANNHAEUSER, Unters. z. Gesch. d. Kais. Probus, p. 139; G. COSTA, L’opposizione sotto i Costantini, nella Raccolta Lumbroso, pp. 293 sgg. Non vedo alcuna ragione per ritenere che il motto rispecchi gli umori dei Romani nel 306 d.C., nell’imminenza del conflitto tra Costantino e Galerio, né posso scorgervi un’invenzione d’età teodosiana. 2. Intorno all’antoniniano del sec. III vd. A. CESANO in DE RUGGIERO, Diz. ep., III, pp. 1624 sgg.; E. BABELON, Traité des monnaies, I, pp. 610 sgg.; A. SEGRÉ, Kaino;n novmisma, «Rendic. Lincei», 16 (1920), pp. 4 sgg.; P.H. WEBB, «Num. Chron.», 28 (1927), pp. 314 sgg.; H. MATTINGLY, ibid., 27 (1927), pp. 219 sgg.; P.H. WEBB pres-
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Col deprezzamento della moneta procedeva di pari passo l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. Non abbiamo statistiche, ma l’investigazione di migliaia di papiri ha mostrato chiaramente, almeno per l’Egitto, quanto rovinoso sia stato nel terzo secolo l’aumento dei prezzi e quanto essi siano rimasti instabili per tutto il secolo, e specialmente nella seconda metà di esso, in confronto con la relativa stabilità del secolo secondo. Basta a tal proposito rinviare il lettore ai fatti recentemente indicati da F. Oertel, che si propone di pubblicare presto un esame completo dei dati che i papiri forniscono su tale argomento, nonché le liste, utili sebbene incomplete, di A. Segré. Tuttavia si possono dare qui uno o due esempi. Il prezzo del frumento fu singolarmente stabile nel primo e specialmente nel secondo secolo: ammontava a 7 od 8 dracme per artaba. Nei tempi difficili della fine del sec. II era già salito a 17 o 18 dracme, quasi prezzo di fame, e nella prima metà del terzo variò tra le 12 e le 20 dracme. Il deprezzamento della moneta e l’aumento dei prezzi continuarono al punto che sotto Diocleziano un’artaba costava 20 talenti, vale a dire 120 mila dracme! È vero che la moneta ormai era soltanto fiduciaria, ma il salto è straordinario. Disgraziatamente non possediamo alcun dato per il periodo che va da Gallieno a Diocleziano. La medesima variazione si osserva nei salari. Nei primi due secoli a.C. un operaio maschio adulto, non qualificato, riceveva da quattro a sei oboli al giorno, somma corrispondente a due o tre artabae di grano al mese e difficilmente bastevole a sostentare una famiglia. Dobbiamo ricordare, tuttavia, che non si può ammettere ch’esistesse in Egitto una classe specifica di lavoratori viventi di solo salario: la maggior parte di questi giornalieri lavoravano a salario solo occasionalmente e avevano un’altra occupazione permanente (la maggior parte di essi erano contadini); per giunta, oltre agli uomini lavoravano anche le donne e i ragazzi. La condizione del lavoro nelle industrie è quasi affatto ignota. Nella prima metà del terzo secolo i salari salirono all’incirca a due, tre, cinque dracme; ma siccome il prezzo del grano quasi si raddoppiò e andava continuamente crescendo, le condizioni degli operai rimasero tristi come prima. Allorché venne in uso la moneta fiduciaria, i salari diventarono terribilmente instabili, e tutta la questione del lavoro soggiacque a un mutamento radicale3. Non deve sorprenderci che in tali condizioni uno dei più spiccati caratteri della vita economica di questo periodo sia stata la più selvaggia speculazione, specialmente sui cambi. Possediamo due tipici documenti che si riferiscono appunto alle gravi conseguenze della speculazione sui cambi. Sotto Settimio Severo, intorno al 209-211 d.C., la città di Mylasa in Caria deliberò di proteggere i banchieri, suoi concessionari, contro il cambio clandestino che si svol-
so MATTINGLY e SYDENHAM, The Roman Imp. Coinage, VI (1927), pp. 8 sgg. e pp. 248 sgg., cf. MATTINGLY, ibid., p. 14. Cf. cap. IX, nota 31a, [e sul valore dell’antoniniano a Dura C.B. WELLES, Exc. at Dura-Europos. Prel. Rep., IV (1933)]. 3. F. OERTEL, Der Niedergang der hellenistischen Kultur in Aegypten, «Neue Jahrb. f. Klass. Alt.», 45 (1920), pp. 375 sgg.; A. SEGRÉ, Circolazione monetaria e prezzi nel mondo antico (1922); J. KEIL, Forsch. in Ephesos, III, pp. 102 sgg., nn. 10-12 (il prezzo del pane raddoppiato fra il 100 e il 200 d.C.).
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geva nella città causando gravi danni non solo ai banchieri medesimi, che godevano il monopolio del cambio, ma anche alla città intiera. La parte conclusiva del documento mostra che non soltanto la perdita di un’entrata indusse la città a così energici provvedimenti. «In verità – esso dice – la sicurezza della città è scossa dalla malizia e bassezza di pochi, che assalgono e depredano la comunità. Per causa loro la speculazione sul cambio è penetrata nel nostro mercato e impedisce alla città di assicurare l’approvvigionamento di quanto è necessario alla vita, sicché la maggior parte dei cittadini, anzi la comunità intiera, soffrono la carestia. Per il medesimo motivo resta ostacolato il pagamento delle tasse agli imperatori». Come si veda, il disordine non s’arrestava all’infrazione del monopolio. Si svolgeva una speculazione selvaggia, consistente probabilmente in questo: i profittatori accaparravano l’argento buono pagando una cospicua quota per il cambio. Ciò è indicato nella succlamatio dei membri del Consiglio, annessa al decreto4. Circa mezzo secolo dopo (260 d.C.), durante il breve regno di Macriano e Quieto, ad Ossirinco il terribile deprezzamento della moneta indusse allo sciopero i gestori di banchi di cambio (kollubistikai; travpezai), i quali chiusero le porte e rifiutarono d’accettare e cambiare la moneta imperiale (to; qei`on tw`n Sebastw`n novmisma). L’amministrazione ricorse alla coercizione e alle minacce: lo stratego emanò ordine ai banchieri e agli altri cambiatori di monete perché «aprissero i loro banchi e accettassero e cambiassero tutte le monete, salvo quelle assolutamente spurie e contraffatte». Il disordine non era cosa nuova, giacché lo stratego si richiama alle «penalità già comminate per essi nel passato dall’illustrissimo prefetto». È da notare che in non pochi contratti dello stesso periodo la moneta menzionata non è quella imperiale di biglione in corso, ma l’antico argento tolemaico, del quale probabilmente si trovavano grandi quantità riposte in tutto l’Egitto5. L’incertezza generale della vita economica rese fluttuante il saggio dell’interesse, che nel secolo secondo era stato stabile al pari dei prezzi. Naturalmente le notizie che abbiamo in proposito sono scarse e non permettono di trarre conclusioni di carattere generale; ma se il Billeter è nel vero allorché ritiene che nel periodo tra Caracalla e Alessandro Severo il saggio dell’interesse abbia subito un grande abbassamento, il fatto può spiegarsi col disagio generale della vita economica e col ristagno degli affari causato dall’incertezza prevalente. La gente si asteneva dal prender denaro in prestito, e sul mercato l’offerta del denaro superava la domanda6. Non sappiamo che cosa sia avvenu-
4. Vd. cap. V, nota 46. 5. P. Oxy. 1411 (260 d.C.). È possibile che i torbidi che accompagnarono il breve governo di Macriano e Quieto abbiano contribuito alla generale mancanza di sicurezza che signoreggiò nel corso del sec. III in Egitto. Circa la preferenza data in questo periodo all’argento tolemaico vd. C. WESSELY, Mitt. P. E. R., IV, pp. 144 sgg. Probabilmente le norme più antiche erano inspirate al principio che si trova affermato nel passo di EPICT., Diss., 3, 3, 3, riferito nel cap. V, nota 46. 6. G. BILLETER, Gesch. des Zinsfusses im griech.-röm. Altertum bis auf Justinian (1898), pp. 211 sgg. Cf. A. SEGRÉ, Il mutuo e il tasso dell’interesse nell’Egitto greco-romano, «Atene e Roma», 5, 4-6 (1924).
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to più tardi. Le notizie che possediamo per il secolo secondo e i primi decenni del terzo si limitano in generale a documenti relativi a investimenti per fondazioni e donazioni, e abbiamo visto che per il periodo posteriore ai Severi appunto la scarsità dei dati pervenuti ci autorizza senz’altro ad indurre un prodigioso abbassamento del numero delle donazioni7. Fenomeno dello stesso tipo, dovuto in gran parte, secondo ogni probabilità, al deprezzamento della valuta e alla decadenza dell’iniziativa presso gli uomini d’affari, fu la cessazione quasi completa delle relazioni commerciali tra l’India e l’Impero romano, specialmente l’Egitto. Infatti nell’India non è stata trovata alcuna moneta romana del terzo secolo: le relazioni non vennero riprese sino a quando, nel periodo bizantino, non fu restaurato l’ordine e ristabilita una buona valuta aurea8. Questa depressione della vita commerciale era dovuta in buona parte al costante pericolo cui erano esposte le province più progredite e ricche. Abbiamo parlato delle replicate invasioni dei Germani in Gallia e specialmente della catastrofe del 276 d.C., quando le parti più ricche della Gallia furono saccheggiate e devastate e la maggior parte delle città soffrirono talmente da non poter mai più risorgere. Anche i paesi del Danubio furono esposti ripetutamente a devastazioni consimili. Abbiamo menzionato la presa delle loro più grandi e ricche città per opera dei Goti e dei Sarmati: tipica fu la sorte toccata a Filippopoli. La ricca e fiorente provincia della Dacia finì col dovere essere abbandonata da Gallieno e da Aureliano, e la sua popolazione dovette emigrare nelle altre province danubiane. Anche nelle città che non erano state saccheggiate e distrutte dai Goti osserviamo una rapida e disastrosa decadenza: esempio caratteristico è quello di Panticapeaum nella Crimea, che sin dalla metà del terzo secolo cadde sotto la dipendenza dei Goti. La città non fu distrutta, come avvenne ad Olbia, ma le condizioni della vita, come rivelano gli scavi e le monete, mutarono d’un tratto: ormai regnarono sovrane la povertà e l’oppressione9. Né meglio stavano le cose nell’Asia Minore e nella Siria. Mentre l’avanzata dei Persiani veniva arrestata dai dinasti di Palmira, le città dell’Asia Minore dovevano sopportare frequenti incursioni dei Goti venuti per mare, e gli Isaurici riprendevano le loro antiche abitudini di saccheggio e di devastazione, tanto che Probo si vide costretto ad intraprendere contro di essi una guerra regolare10. L’energia dei Palmireni aiutò solo
7. B. LAUM, Stiftungen in der griech. u. röm. Antike, I, 1914, pp. 8 sgg.; cf. p. 255. 8. Vd. cap. III, note 15-18 e cap. V, nota 19; cf. cap. V, nota 20 circa il commercio palmireno. La distruzione di Palmira operata da Aureliano fu esiziale al commercio terrestre dell’Oriente in generale; gli stessi effetti ebbe la conquista gotica della Russia meridionale, e soprattutto di Panticapaeum. Vd. gli scritti citati nella nota 2. 9. Per la Dacia vd. la letteratura ricordata nel cap. X, nota 7, cf. anche l’articolo del JORGA, letto davanti all’Accademia francese il 22-2-1924, «C. R. Acad. Inscr.», 1924, p. 166. Tuttavia le conclusioni del Jorga, contradette nell’adunanza dal Lot, non possono accettarsi. Per Panticapaeum vd. M. ROSTOVTZEFF, Iranians and Greeks in South Russia, p. 155 e «Mon. Piot», 26 (1923), pp. 1 sgg. 10. SCR. HIST. AUG., Prob. 16, 4; ZOS., I, 69; J.H. CREES, Reign of Probus, pp. 106 sgg. e 159. Va rilevato che Probo stanziò molti dei suoi veterani nell’Isauria allo scopo di pacificare il paese e di costituire una riserva permanente di soldati ben allenati, vale
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per breve tempo la Siria: la brillante vittoria di Aureliano su Zenobia distrusse le forze della fiorente Palmira, che mai più si riebbe dalle sue ferite. L’Egitto fu più tranquillo, ma soffrì anch’esso ripetute invasioni di Blemmii, specialmente sotto Probo11. Infine i fiorenti paesi dell’Africa subirono gravi assalti delle tribù libiche e maure: si susseguirono a brevi intervalli l’insurrezione del 253, l’invasione dei Bavares e dei Quinquegentanei, aiutati da Faraxen, nel 258-260, la guerra coi Baquates e col loro re Nuffusis. Quest’ultima, sebbene non menzionata nelle nostre fonti letterarie, fu così importante da attirare l’attenzione di Probo, che probabilmente dovette fare a Nuffusis notevoli concessioni12. Non v’ha dubbio che ugualmente cattive fossero le condizioni della Spagna. Unica eccezione sembra essere stata la Britannia, dove il secolo terzo appare periodo di pace e di prosperità13. Anche più disastrose furono le guerre incessanti tra imperatori rivali. Il vero malanno non era la perdita facilmente riparabile d’alcune migliaia di vite perite in battaglia, sibbene l’assoluta impossibilità, in tali condizioni, di stabilire alcunché che somigliasse a un’amministrazione ordinata e legale. Ciascun pretendente, ciascun imperatore, aveva bisogno anzitutto e soprattutto di denaro, di viveri, di abiti, di armi e così via per l’esercito, e nessuno aveva tempo né desiderio di agire in via legale e di accontentarsi delle rendite regolari dello Stato. La politica di tutti questi imperatori, con qualche brevissima eccezione, fu dunque più o meno simile a quella di Massimino: leve coattive di soldati, contribuzioni forzose di denaro e viveri, lavoro obbligatorio. E non era l’ultimo dei malanni la sfrenatezza dei soldati, degli ufficiali, dei funzionari, del resto affatto naturale date le circostanze. Agli eccessi dei soldati fanno
a dire lo stesso scopo che si erano proposti i Severi creando consimili stanziamenti in Africa, sul Danubio e sul Reno; vd. cap. IX, note 47-51. 11. SCR. HIST. AUG., Prob. 17; ZOS., I, 71, 1. L’avanzata di questa stirpe selvaggia fu probabilmente contemporanea alla caduta del regno di Meroe e al grandeggiare di quello di Axum. I Blemmii erano alleati dei Palmireni e appoggiarono l’usurpatore Firmo (SCR. HIST. AUG., Firm., 9). La vittoria che Probo riportò su di essi fu un successo soltanto momentaneo. Diocleziano si vide costretto a ceder loro il Dodekaschoinos, e i Blemmii ancora per molti secoli continuarono ad essere il terrore dell’Egitto; vd. U. WILCKEN, Grundzüge, pp. 30 sg. e 68 sgg., cf. Chrest., 6; W. SCHUBART, Einführung, p. 241, cf. p. 147; J. LESQUIER, L’Armée romaine d’Égypte, pp. 33 sgg., e la letteratura relativa alla Nubia ricordata nel cap. VII, note 51a sgg. 12. R. CAGNAT, L’Armée romaine d’Afrique, 2a ediz., I, pp. 53 sgg.; I. L. A., 609 sg.; L. CHATELAIN, «C. R. Acad. Inscr.», 1919, pp. 352 sgg. L’ultima avanzata del confine verso mezzogiorno si ebbe sotto Gordiano III; cf. J. CARCOPINO, «Rev. Ét An.», 25 (1923), pp. 33 sgg., «Rev. Arch.», 20 (1924), pp. 316 sgg. e «Syria», 6 (1925), pp. 30 sgg. 13. Questa è almeno l’opinione del più competente fra gli studiosi della Britannia romana, del defunto F. HAVERFIELD, Romanization of Roman Britain (19234), pp. 76 sg. Però non può accettarsi quel ch’egli dice intorno alla Gallia. Per quest’ultimo paese il sec. III fu un periodo molto calamitoso: una certa quiete e stabilità s’ebbe solo più tardi, sotto Diocleziano.
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frequenti allusioni persino le povere e magre fonti letterarie che possediamo. Il lettore ricorderà il discorso Eij~ basileva e le considerazioni del biografo di Probo, già da noi citati. Nella biografia d’Aureliano troviamo altre constatazioni dello stesso genere. Si ricorda frequentemente l’asserita punizione del soldato colpevole d’aver violato la moglie del suo ospite. In una lettera suppositizia, attribuita ad Aureliano, sono così enumerati i crimini soldateschi: «Se tu desideri diventare tribuno – egli dice – anzi, se ti è cara la vita, tu devi reprimere la violenza dei soldati. Non permettere ad alcuno di essi di rubare un solo pollastro, di toccare una pecora. Non permettere che alcuno si porti via i grappoli, o che batta il grano, o che esiga olio, sale, legna. Fa che ciascuno di essi si accontenti della sua annona, che viva delle spoglie prese al nemico, non delle lacrime dei provinciali». Affermazioni simili sarebbero state impossibili anche ad uno scrittore del quarto secolo, se egli non avesse trovato nelle sue fonti innumerevoli riferimenti alla condotta licenziosa delle truppe, che del resto ai tempi di Teodosio non era migliore che in quelli di Gallieno14. Allorché verremo a descrivere la vita che durante il secolo terzo si svolgeva in alcune province, citeremo dei fatti che dimostrano come il biografo di Aureliano sia perfettamente esatto nelle sue affermazioni relative alla violenza dei soldati. Qui dobbiamo porre in rilievo il fatto che, sebbene le nostre informazioni si restringano solo ad alcune province, abbiamo pieno diritto di estenderle anche alle altre. Dobbiamo ricordare che non vi fu una sola parte dell’Impero romano, eccettuate la Britannia e la Spagna, che non abbia avuto uno o più pretendenti o imperatori riusciti a farsi riconoscere. Né questo fu affatto privilegio dei soli paesi danubiani; la Siria, l’Asia Minore, la Grecia, l’Egitto, l’Africa, la Gallia presero parte attiva alla creazione di imperatori romani. Date le condizioni di stato d’assedio permanenti nell’Impero, la burocrazia militarizzata dei funzionari governativi o municipali operava nella stessa maniera dei soldati. I funzionari governativi rispondevano all’imperatore con le loro vite, i municipali erano minacciati di degradazione, rovina, esecuzione capitale, se non eseguivano gli ordini dei burocrati imperiali. In tal modo tutte le classi della popolazione soffrivano terribilmente sotto l’oppressione delle guerre interne ed esterne. Le ruberie dei soldati del resto non erano dovute unicamente ad avidità: l’impoverimento delle province e il cattivo sistema degli approvvigionamenti e dei trasporti spesso costringevano i soldati ad atti di violenza unicamente per la propria conservazione. Le classi superiori delle città, responsabili per tutta la popolazione dei territori urbani, facevano ogni sforzo per salvare gli avanzi delle loro fortune e opprimevano i ceti inferiori, i quali pertanto erano oppressi e derubati da tutti. Si aggiungevano le frequenti pestilenze, dovute in buona parte al disordine generale della vita, alla povertà, alla denutrizione, alle condizioni insalubri delle città, e così via. È probabilissimo che sotto l’influenza di condizioni così disastrose sia diventato fenomeno caratteristico dell’età un vero e sistematico suicidio di razza,
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favorito dalla legislazione romana relativa all’esposizione degli infanti e al procurato aborto15. Nessuna meraviglia che in siffatte condizioni il carattere saliente della vita sociale ed economica sia stato in questo periodo lo spopolamento. Pestilenze, invasioni, guerre civili ed esterne decimarono la popolazione. Ancor più grave era la generale incertezza della vita umana e la costante oppressione esercitata dallo Stato sui sudditi. Sotto il peso di siffatte condizioni, che parevano diventate definitive, la popolazione fuggiva dai suoi luoghi di dimora e all’intollerabile esistenza delle città e dei villaggi preferiva una vita d’avventure e di latrocinii nelle foreste e nelle paludi16. La completa disorganizzazione delle forze navali alimentò il rinascere della pirateria, e i mari tornarono ad essere malsicuri come nel secolo primo a.C. In alcuni luoghi, come in Sicilia (sotto Gallieno) ed in Gallia (le cosidette rivolte dei Bagaudae), le classi inferiori giunsero a ribellarsi apertamente e dovettero essere represse manu militari17.
15. Una diligente enumerazione di pestilenze s’ha in ZOS., I, 26; 36; 45; 46. È singolare la sua descrizione dell’epidemia che infierì sotto Gallieno (I, 37): ejn ejscavtw/ de; kai; tw`n ejn ∆Illurivoi~ pragmavtwn ejk th`~ tw`n Skuqw`n ejfovdou diakeimevnwn kai; pavsh~ th`~ uJpo; ÔRwmaivwn ajrch`~ ej~ to; mhkevti loipo;n ei\nai saleuomevnh~, loimo;~ ejpibrivsa~ tai`~ povlesin, oi|o~ ou[pw provteron ejn panti; tw`/ crovnw/ sunevbh ta;~ me;n ajpo; tw`n barbavrwn sumfora;~ metriwtevra~ ajpevfhne. toi`~ de; th`/ novsw/ kateilhmmevnoi~ eujdaimonivzein eJautou;~ ejdivdou kai; ta;~ eJalwkuiva~ h[dh povlei~ ajndrw`n pantavpasi genomevna~ ejrhvmou~. TH. REINACH, «Rev. Ét. gr.», 19 (1906), p. 142, n. 75: un cittadino greco del quale è detto loutroi`~ kai; sitarcivai~ loimo;n kai; limo;n ajpelavsanta (età dei Severi o posteriore?). Il malefico costume dell’esposizione dei fanciulli e degli aborti procurati, di poca importanza nei tempi buoni, nel sec. III può esser diventato una delle cause di spopolamento. Vd. C. APPLETON, La Longévité et l’avortement volontaire aux premiers siècles de notre ère, Lyon, 1920; H. BENNET, «Class. Journ.», 18 (1923), pp. 341 sgg.; cf. «Trans. Amer. Phil. Ass.», 17 (1922); F. MAROI, Intorno all’adozione degli esposti nell’Egitto romano, in Racc. Lumbroso, pp. 377 sgg.; J. CARCOPINO, Le Droit romain d’exposition des enfants et le Gnomon de l’Idiologue, «Mém. de la Soc. d. Ant. de France», 77 (1928), pp. 59 sgg. Se Severo emanò contro l’esposizione un particolare editto, vuol dire che le cose s’erano fatte abbastanza serie: tuttavia probabilmente quest’editto giovò poco. 16. Citerò in seguito certi papiri egiziani, in cui si parla di uomini diventati fuggiaschi; e questi casi appaiono affatto comuni e quasi naturali. Gia nell’età dei Severi si presero provvedimenti per impedire ai decurioni d’abbandonare la loro residenza e di tentare di domiciliarsi in altre città; vd. ULPIAN., DIG., 50, 2, 1. 17. In tutto l’Impero romano imperversava il brigantaggio. Una splendida raccolta di materiali provenienti dall’Asia Minore con riguardo al brigantaggio si troverà in L. ROBERT, Études Anatoliennes, Paris, 1937, pp. 96 sgg. Sotto Filippo venne inviato nell’Umbria
un reparto di soldati di marina per combattervi i banditi, C. I. L. XI, 6107; DESSAU, I. L. S., 509 (246 d.C.). Cf. i due praefecti arcendis latrociniis in Germania, C. I. L. XIII, 5010 (Noviodunum) e 6211 (Treveri); cf. DESSAU, I. L. S., 7007 e O. HIRSCHFELD, Die Sicherheitspolizei im röm. Kaiserreich, Kl. Schr., p. 610. Alcune tribù montanare ripresero l’antica abitudine della rapina organizzata e l’attuarono in vasta misura. Ho già menzionato gli Isauri dell’Asia Minore; lo stesso si dica di alcune stirpi dei laghi alpini, SCR. HIST. AUG., Proc. 12, 1-3. Circa l’insurrezione dei contadini siculi, che assunse l’aspet-
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Infine abbiamo ogni ragione di ritenere che tanto nelle classi superiori quanto nelle inferiori soltanto pochissime famiglie desiderassero allevar figli. Lo spo-
to d’un sistematico saccheggio della provincia, vd. SCR. HIST. AUG., Gall., 4, 9. Intorno alla pirateria vd. I. G. R. R., III, 481 (253 d.C.). Sul brigantaggio in generale vd. O. HIRSCHFELD, Kl. Schr., pp. 591 sgg.; L. FRIEDLAENDER e G. WISSOWA, Sitteng. Roms, I, 19199, pp. 350 sgg. (senza distinzione tra i diversi tempi). Vd. anche G. CANTACUZÈNE, «Aegyptus», 9 (1928), p. 69. In un pridianum della I Coorte ispanica, dell’età di Traiano, si dice di un soldato (l. 46) che è stato occisus a latronibus. Nella Mesia inferiore le condizioni naturalmente erano eccezionali. In questo paese di recente conquistato e a stento pacificato, il dovere di mantenere l’ordine spettava principalmente alle truppe d’occupazione, non alle città, cf. cap. VI, nota 78. Se anche la più parte delle epigrafi, nelle quali si parla di briganti, non sono databili, tuttavia è da osservare che le fonti letterarie, in cui si parla del brigantaggio come di cosa ordinaria, appartengono per lo più alla fine del II o al III secolo (p. es. Apuleio e i romanzi). Possiamo concedere che il miglior ordinamento della polizia militare, lo sviluppo cioè dell’istituzione dei frumentarii, colletiones, speculatores, beneficiarii, stationarii, che partecipavano tutti alla repressione del brigantaggio, fosse motivata dalle preoccupazioni politiche degli imperatori e avesse lo scopo di dar la caccia alle persone politicamente sospette; pur tuttavia il fatto che precisamente nel sec. III venne metodicamente ordinata l’istituzione della gendarmeria, ripartendola in un oculato sistema di posti militari (stationes), composti di beneficiarii e stationarii, mostra quanto gravi fossero le condizioni e come le città fossero impotenti di fronte alla piaga del brigantaggio. Intorno ai beneficiarii vd. A. VON DOMASZEWSKI, «Westd. Zeitschr.», 21 (1902), pp. 158 sgg. e «Röm. Mitt.», 17 (1902), pp. 330 sgg.; J. SCHWENDEMANN, Der historische Wert der Vita Marci, pp. 70 sgg. e cap. IX, nota 7; cf. infra, nota 26. Per gli speculatores e i loro viaggi vd. il mio scritto nelle «Röm. Mitt.», 26 (1911), pp. 267 sgg.; per gli insignia e le funzioni dei beneficiarii e degli speculatores vd. E. RITTERLING, «Bonn. Jahrb.», 125, pp. 9 sgg.; M. ABRAMICˇ , «Starinar», 1922 (in serbo), cf. sui beneficiarii e sugli statores il mio articolo in Excavations at Dura-Europos. Preliminary Report I (1929), pp. 56 sgg.; sugli stationarii e la loro attività quasi giudiziaria, specialmente nell’Asia Minore, vd. O. HIRSCHFELD, Sicherheitspolizei, Kl. Schr., pp. 596 sgg., e sugli stationarii nei demani imperiali IDEM, Die kaiserlichen. Verwaltungsb., 19052, p. 134, nota 3; J. KEIL e A. VON PREMERSTEIN, Erste Reise, p. 50, n. 101; Zweite Reise, p. 115, n. 222; Dritte Reise, p. 28, n. 28; e p. 11, n. 9. Stationarii: eques singularis stationarius a Vasada. H. SWOBODA, J. KEIL, F. KNOLL, Denkmäler aus Lykaonien, Pamphylien und Isaurien, Wien, 1935, p. 24, n. 34; F. LAMMERT, «R. E.», III, col. 2213. Uno speciale eijrhnavrch~ quasi municipale (schiavo di un impe-
ratore) compare in DITTENBERGER, O. G. I. S., 550. Un gruppo di eijrhvnarcoi e diwgmi`tai è menzionato in epigrafi da loro poste nel santuario grotta di In-Daghinda Qogiain in Panfilia, vd. G. MORETTI, «Ann. d. Scuola archeol. d’Atene», 6-7 (1923-24), pp. 509 sgg., vd. specialmente l’epigrafe n. 3, dove io leggo eijrhvnar⁄co~ Movs⁄co~ diw⁄gmi`tai Eu[kar⁄po~ Mennev⁄a~ “Erw~, cf. 5, dove leggerei A ∆ nniano;~ diw⁄gmeivth~ Suvntrofo~ ⁄ diwªgmeivºth~ (dopo il primo DIW il Moretti legge ERMETHS). Le medesime lezioni ha ora anche L. ROBERT, «B. C. H.», 52 (1928), pp. 407 sgg., il quale inoltre a p. 408, nota 3, e a p. 409, nota 2, dà una bibliografia completa degli scritti relativi agli eijrhvnarcoi. Cf. cap. VII, nota 90, e la nostra tavola LXXIV. Ho l’impressione che nei secoli I e II le città e l’esercito avessero netto vantaggio nella lotta contro i predoni, e che nella seconda parte del sec. II e nel sec. III sia stata la miseria a riacutizzare la piaga e ad obbligare gli imperatori a costituire forti corpi di polizia militare e a spingere le città
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polamento, che nei primi tempi dell’Impero era limitato a poche zone, per esempio alla Grecia e fino a un certo punto all’Italia, ed era stato causato principalmente dall’emigrazione in altre parti del mondo romano, divenne ormai il tratto saliente della vita dell’Impero18. In conseguenza di queste condizioni andò costantemente abbassandosi la produttività generale dell’Impero. Tratti sempre più vasti di terreno ridiventarono selvatici; vennero trascurate le opere di scolo e d’irrigazione, la qual cosa non soltanto causò una costante riduzione dell’area messa a coltura, ma probabilmente anche il diffondersi della malaria, che a poco a poco divenne uno
a partecipare attivamente alla repressione del brigantaggio con l’istituzione di nuovi uffici municipali di carattere liturgico e con estesa responsabilità. A questa categoria di officiali appartengono i «custodi della pace» (eijrhvnarcoi) nell’Asia Minore, istituzione questa che al pari della dekaprotia a poco a poco s’estese anche alle altre province dell’Oriente (O. HIRSCHFELD, Sicherheitspolizei, Kl. Schr., pp. 605 sgg. e Forsch. in Ephesos, III, n. 70, cf. la speciale polizia templare del tempio di Efeso, Ann. ép., 1926, n. 15 e i praefecti arcendis latrociniis in alcune province dell'Occidente). Per l’Egitto vd. cap. IX, nota 44 e infra, nota 54. In Siria nei secoli III e IV i poliziotti venivano chiamati dekadavrcai, e avevano sotto la loro tutela parecchi villaggi, vd. R.P. MOUTERDE, «Syria», 6 (1925), pp. 243 sgg. (commentario all’iscrizione funebre di un uomo, che era stato ucciso peri; mhdenov~ da un decadarca), cf. F. CUMONT, «Rendic. Pontif. Accad. Rom. di Arch.», 5 (1927), pp. 73 sgg. e W. VOLLGRAFF, «Syria», 7 (1926), p. 283. Cf. CH. TORREY, Excavations at Dura-Europos. Preliminary Report I, p. 63 e M. ROSTOVTZEFF, ibid., p. 59, nota 1. Lo stesso va detto per l’Italia; vd. MOMMSEN, Röm. Staatsr., II, 3a ediz., p. 1075, note 1 e 2. Le cose non mutarono neppure nella prima parte del sec. IV, vd. l'iscrizione di Thuburbo Maius in Africa, I. L. A., 269, lettera imperiale in risposta a lagnanze contro i beneficiarii. 18. Non si possono spiegare in modo diverso i frequenti stanziamenti di barbari fatti prigionieri e le assegnazioni di terre a stirpi barbariche, che nel sec. III divennero comunissime. Il fatto che si poté sgombrare la Dacia e trovar posto alla sua popolazione in altre province danubiane attesta lo spopolamento così della Dacia come degli altri paesi del Danubio. Vd. inoltre infra le citazioni tratte dallo scritto in cui gli abitanti del villaggio di Skaptopare esposero le loro lagnanze, DITTENBERGER, Syll.3, 888, specialmente ll. 53 sgg.: «Abbiamo dichiarato che non possiamo resistere più a lungo, ma abbiamo intenzione di abbandonare le patrie sedi a motivo delle violenze dei visitatori. Infatti noi eravamo in molti ad esser proprietari di case e ormai siamo solo pochissimi» (ejdhlwvsamen ga;r mhkevti hJma`~ duvnasqai uJpomevnein, ajlla; kai; nou`n e[comen ejgkatalipei`n kai; tou;~ patrw/vou~ qemelivou~ dia; th;n tw`n ejpercomevnwn hJmei`n bivan. kai; ga;r wJ~ ajlhqw`~ ajpo; pollw`n oijkodespotw`n eij~ ejlacivstou~ katelhluvqamen). Cf. l’epigrafe di Arague (citata nella nota 24) l. 34: kai; ta; cwriva ejrhmou`sqai kai; ajnªavstata givgnesqaiº. I dati relativi agli stanziamenti barbarici sono stati riuniti più volte; vd. p. es. O. SEECK, I, p. 384, 12 e 21 (p. 532) e per l’età di Marco Aurelio J. SCHWENDEMANN, Der hist. Wert der Vita Marci, p. 53. Cf. E. BICKERMANN, Das Edikt des Kaisers Caracalla in P. Giss. 40, Diss. Berlin, 1926, pp. 23 sgg. Del resto si cominciò assai presto a stanziar barbari in territorio romano, vd. p. es. l’epigrafe di Plauzio Silvano Eliano, DESSAU, I. L. S., 986; C. I. L. XIV, 3608 (età neroniana) e lo stanziamento di 50 mila barbari sulla sponda romana del Danubio ordinato da Augusto, STRABO, VII, p. 310 e A. VON PREMERSTEIN, «Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien», 1, Beibl., pp. 145 sgg.
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1. Scena di caccia in Africa
2. Allevamento di cavalli in Africa
TAV. LXXVI – L’AFRICA NEI SECOLI III E IV
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DESCRIZIONE DELLA
TAVOLA
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LXXVI
1. MOSAICO. Trovato nelle rovine d’una ricca casa presso El Gem. Museo del Bardo, Tunisi, Inv. d. mos., II, 1 (Tunisie), n. 64 (e tavola a colori) S. REINACH, Rep. d. peint., p. 293, 1. La pittura è disposta su tre piani. Il superiore mostra due giovani, che probabilmente hanno lasciato allora allora la villa, e cavalcano lentamente in mezzo a un oliveto; tra loro cammina un servitore a piedi, che porta una specie di forca (per fare da battitore). Nel secondo piano si vede un altro servitore, che tiene al laccio due grandi cani («slouguis»), pronto a lanciarli contro una lepre scovata da due altri cani in una macchia. Nel terzo piano la lepre è inseguita dai due cavalieri e dai cani. Le scene di caccia erano in Africa altrettanto popolari quanto le scene agricole. Vd. la nostra tav. LXIII, 1, cf. Inv. d. mos., II, 1 (Tunisie), n. 37 (Oudna); n. 601 (Carthage); II, 2 (Algérie), n. 260 (Oued Atmênia), ecc. Cf. le nostre tavv. LXXVIII, 1 e LXXX. 2. MOSAICO. Trovato nelle rovine della bella casa di un certo Sorotus presso Sus (Hadrumetum). Museo del IV reggimento dei tirailleurs a Sus, Inv. d. mos., II, I (Tunisie), n. 126; S. REINACH, op. cit., p. 360, 3. Cf. il mosaico analogo, Inv. d. mos., II, 1, n. 124. I quattro angoli del mosaico sono occupati da altrettanti medaglioni, in ciascuno dei quali sono rappresentati due cavalli di razza accanto ad una palma, coi loro nomi scritti sopra e sotto: Amor, Dominator, Adorandus, Crinitus, Ferox …, Pegasus … Le lunette tra i medaglioni sono riempite da figure di lepri nascoste in una macchia. Il centro del quadro raffigura un prato situato ai piedi d’una catena di monti, dai quali scorre un fiume. Si scorgono torri di guardia sui monti, alberi e capre pascolanti sui fianchi delle alture, e un armento di cavalle e poledri che pascolavano sul prato. I cavalli sono ben disegnati. Cf. la nostra tav. LXIII, 2.
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dei più terribili flagelli dell’umanità19. Lo scambio dei beni diventò sempre più irregolare, e le varie parti dell’Impero si ridussero sempre più a dover contare soltanto su ciò che producevano esse stesse. Indi le frequenti carestie; indi la decadenza dell’industria, che fu sempre più ridotta a lavorare soltanto per piccoli gruppi di consumatori locali, la cui domanda si limitava ai prodotti meno costosi e più grossolani20. Naturalmente ogni famiglia, grande o piccola, cercò di bastare per quant’era possibile a se stessa, e la produzione domestica fiorì come mai per l’innanzi. Nessun provvedimento parziale poteva arrestare questa decadenza progressiva. Sulle terre spopolate vennero trapiantati gruppi di prigionieri di guerra; fu considerata delitto la fuga dalla propria residenza; ma tutto fu vano. Il processo di decadimento non poteva fermarsi con tali espedienti: la produttività dell’Impero s’abbassava incessantemente, e il governo si vedeva costretto a ricorrere anch’esso con crescente energia alla violenza e alla coercizione21.
19. Circa la malaria vd. H. NISSEN, Italische Landeskunde, I, pp. 413 sgg.; W.H.S. JONES, «Liv. Ann. of Arch.», 2 (1909), pp. 97 sgg. e gli articoli Febris nella «R. E.», in DAREMBERG e SAGLIO, Dict. d. ant., e in DE RUGGIERO, Diz. ep. Non abbiamo tuttavia dati sufficienti circa l’estensione della malaria in Italia nei secoli II e III; e si disputa se lo spopolamento dell’Etruria, del Lazio, dell’Italia meridionale sia da attribuirsi principalmente alla malaria, o se piuttosto questa sia stata causata dallo spopolamento. 20. Chi ha famigliarità con gli scavi fatti nelle province romane e con le collezioni dei locali musei d’antichità conosce bene la grande differenza che corre tra il materiale archeologico del sec. II e quello della seconda metà del III. Uno dei fatti più caratteristici del sec. III e l’ulteriore decentramento dell’attività industriale, la graduale scomparsa della merce d’importazione e la prevalenza del prodotto locale. Altra caratteristica è la povertà delle tombe di questo periodo. La generale mancanza di sicurezza è attestata dalla frequenza dei cosidetti rinvenimenti di tesori. Ma la prova più semplice e sicura l’offre il confronto delle monete dell’età degli Antonini e dei Severi con quelle della seconda metà del sec. III. Constatiamo la mancanza quasi assoluta di tipi nuovi, i frequenti errori nelle leggende, uno stile rozzo e povero; una vera desolazione in confronto con la monetazione ancor fiorente del periodo anteriore. Le stesse osservazioni possono farsi rispetto all’arte monumentale di questo periodo, eccezion fatta dei ritratti: basta confrontare i rilievi della colonna di Marco Aurelio e dei monumenti di Settimio Severo coi prodotti artistici posteriori, quali per es. l’arco di Costantino o l’arco di Galerio a Salonicco. Va rilevato che la seconda metà del sec. III non vide sorgere alcun monumento importante all’infuori degli edifici di Aureliano. 21. È ben noto il provvedimento (COD. IUST., 11, 58, 1) con cui Aureliano rese le città responsabili dei terreni incolti e abbandonati. Dubito ch’esso sia stato il primo di questo genere: per lo meno il metodo era molto più antico (mie Studien Gesch. Kol., p. 395). L’aumento delle terre incolte in Italia, e specialmente la rovina della viticoltura, sono attestati anche dal noto tentativo fatto da Aureliano di ravvivare in Etruria questo ramo dell’agricoltura mediante la distribuzione di famiglie di prigionieri di guerra tra i proprietari dei vigneti abbandonati (SCR. HIST. AUG., Aur., 48, 2; L. HOMO, Aurélien, p. 150; E. GROAG, «R. E.», V, col. 1410). Abbiamo già visto come la decadenza economica dell’Italia rendesse difficile l’approvvigionamento di Roma, obbligando gli imperatori (e specialmente Aureliano) a far assumere dallo Stato questo ramo dell’amministrazione della capitale. L’irrimediabile rovina della viticoltura in Italia offre la spiega-
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Quest’era a larghi tratti la condizione generale dell’Impero. Se ora poi vogliamo passare a cercare dati specifici per le singole province, troviamo ch’essi sono straordinariamente scarsi. Tuttavia è possibile dare un quadro un po’ più particolareggiato almeno dell’Asia Minore e dell’Egitto. Nell’Asia Minore, e così pure in Siria, uno dei caratteri dominanti della vita era il ritorno graduale al sistema feudale. Abbiamo già esposto come i dinasti locali di Palmira fossero diventati per qualche tempo signori della parte orientale dell’Impero, e abbiamo accennato alla ricomparsa della dinastia dei Sampsicerami ad Emesa22. La cosidetta ribellione degli Isaurici nell’Asia Minore è un altro sintomo della stessa tendenza alla formazione di Stati semi-indipendenti entro i confini dell’Impero23. Ancor più caratteristica per le condizioni del terzo secolo è un’iscrizione di Termessus in Licia, appartenente all’età di Valeriano (253 d.C.). In questo documento un uomo che porta un bel nome romano, quello di Valerio Statilio Casto, appare con lo strano titolo di kravtisto~ suvmmaco~ tw`n Sebastw`n, cioè egregius socius Augustorum. Egli era comandante del locale distaccamento di soldati, indubbiamente una milizia locale, ed è esaltato per aver ristabilito la pace per terra e per mare; prendeva parte attiva alla vita della città, sebbene non vi risiedesse, e attestava ossequio e lealtà verso l’imperatore. È evidente che abbiamo qui, come a Palmira e ad Emesa, un caso d’autodifesa d’una provincia contro scorribande di Persiani e contro i pirati indigeni e gotici. Anche qui il fatto assume la forma del sorgere d’uno Stato vassallo quasi indipendente sotto la guida di un uomo energico, probabilmente discendente d’una nobile famiglia locale romanizzata, rappresentante dei dinasti del paese24. Un buon parallelo a
zione della politica liberale di Probo nei riguardi della viticoltura provinciale (SCR. HIST. AUG., Prob., 18, 8). I provvedimenti a protezione della viticoltura italica erano ormai superflui, perché in Italia v’era ben poco da proteggere. La riforma di Probo dette almeno alla Gallia la possibilità di riaversi; cf. C. JULLIAN, Hist. de la Gaule, IV, p. 609; J.H. CREES, Reign of Probus, pp. 142 sg. La sua ordinanza, che non è attestata soltanto dal biografo latino, ma anche da Vittore e da Eutropio, può ritenersi fatto certo. Fino a che punto fossero ancora in vigore nelle province, prima di Probo, le antiche limitazioni della viticoltura, non si può conoscere; ma è indubitabile che né la Gallia meridionale né la Spagna né la Dalmazia erano soggette in alcun modo a restrizioni di questo genere, a tacere delle province d’Oriente compresavi la Tracia. 22. Cap. VII, nota 29. 23. Vd. sopra, nota 17. Il Lydius di Zosimo (Palfurius nel biografo latino) era probabilmente uno dei personaggi cospicui della sua patria, membro dell’aristocrazia locale e cittadino romano. Il suo nome completo era forse Palfurius Lydius: i Palfurii Surae erano una buona famiglia romana ancora esistente nel III secolo (SCR. HIST. AUG., Gall., 18, 6). Se così fosse, l’eroe isaurico apparirebbe piuttosto nell’aspetto d’un dinasta locale come, p. es., i dinasti di Palmira, di Emesa, di Edessa ecc., che in quello d’un brigante volgare. Il fatto che dopo la morte di Lidio furono inviati soldati romani a colonizzar l’Isauria dimostra che in questo paese si manifestavano assai vigorose tendenze separatistiche. 24. I. G. R. R. III, 481; DESSAU, 8870; cf. A. VON DOMASZEWSKI, «Rh. Mus.», 58 (1903), pp. 382 sgg. e Gesch. d. röm. Kaiser, II, p. 297; Prosop. imp. Rom., IV, p. 378, n. 137: Oujalevrion Stateivlion Ka`ston to;n kravtiston suvmmacon tw`n Sebastw`n,
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questi casi della Licia e della Siria ce lo fornisce l’usurpatore Proculo, uomo di origine ligure, uno dei capi della stirpe degli Ingauni (oggi Albenga presso Genova), il quale, segnalatosi col brigantaggio, divenne ricco e potente, costituì un piccolo esercito di duemila uomini, e col loro aiuto aspirò al trono dell’Impero romano25. Un altro aspetto della vita dell’Asia Minore è illustrato da un ben noto documento che fa menzione d’una petizione compilata da un certo Aurelio Eglecto in nome d’un gruppo di coloni imperiali, e presentata all’imperatore Filippo da un intermediario di nome Didimo, che copriva un alto grado (centenarius) nella polizia militare (frumentarius). La lagnanza dei contadini è del seguente tenore: «Mentre nei felicissimi tempi del vostro governo, piissimi e felicissimi tra quanti imperatori siano mai stati, tutti gli altri uomini conducono vita pacifica e indisturbata, essendo cessata ogni malvagità ed esazione, noi soltanto ci troviamo esposti a sfortune che non sono consone all’età vostra felicissima. Noi perciò vi presentiamo la seguente petizione. Noi abitatori dei vostri beni, sacratissimi imperatori, siamo tutta una comunità, e in questa qualità ci rivolgiamo supplichevoli alla protezione della vostra maestà. Noi siamo atrocissimamente oppressi e angariati da coloro che dovrebbero proteggere il popolo […]. Costoro – ufficiali, soldati, potenti di città (magistrati), e vostri agenti inferiori – […] vengono nel nostro villaggio e c’impediscono di lavorare togliendoci i nostri buoi da lavoro, ed esigendo da noi ciò che non è loro dovuto, sicché noi soffriamo ingiustizie ed estorsioni straordinarie»26.
praipovs iton bixillatiwvnwn Termhssevwn tw`n pro;~ Oijnoavndoi~ hJ boulh; kai; oJ dh`mo~ kai; hJ gerousiva to;n eujergevthn pronohsavmenon th`~ eijrhvnh~ kata; qavlassan kai; kata; gh`n, ejpidhmhvsanta th`/ lampra`/ hJmw`n povlei meta; pavsh~ eujkosmiva~ hJmerw`n bæ, ajnagovnta de; kai; ijnpevrion filotivmw~ ejn tw`/ louswrivw/ th`/ pro; eæ eijd(w`n) Noembrivwªnº ejn h|/ ªhJºmevra/ ejkomivsqh ªeºijkw;n iJera; tou` kurivou hJmw`n Oujalerianou` nevou Sebastou`. Cf. Forsch. in Ephesos, III, n. 38. 25. SCR. HIST. AUG., Proc., 12, 1-3: Proculo patria Albingauni fuere, positi in Alpibus maritimis. domi nobilis sed maioribus latrocinantibus atque adeo pecore ac servis et is rebus, quas abduxerat, satis dives. fertur denique eo tempore quo sumpsit imperium duo milia servorum suorum armasse […]. 5: idemque fortissimus, ipse quoque latrociniis adsecutus, qui tamen armatam semper egerit vitam. 26. L’epigrafe fu trovata e per la prima volta pubblicata da J.G.C. ANDERSON, «J. H. S.», 17 (1897), pp. 417 sgg., cf. A. SCHULTEN, «Röm. Mitt.», 13 (1898), pp. 231 sgg.; J.G.C. ANDERSON, «J. H. S.», 18 (1898), pp. 340 sgg.; DITTENBERGER, O. G. I. S., 519; C. I. L. III, 14191; il mio articolo in «Klio», 6 (1906), pp. 249 sgg.; J. KEIL e A VON PREMERSTEIN, Dritte Reise, p. 12. Nei tentativi fatti per restaurare l’epigrafe non si è badato che le linee del documento (il margine destro è corroso) erano molto più brevi di quanto generalmente si ritenesse. Ciò si rileva dalle prime linee, che si possono integrare con tutta sicurezza. Secondo i miei calcoli, il numero delle lettere mancanti è nelle prime 14 linee di 12 a 13; di 15 a 16 nelle ll. 15-17; di 18 nelle ll. 18-20; di 21 nelle linee 21-23 e da 23 a 25 nelle ultime linee. Tenuto conto dello spazio disponibile, non occorre neppure discutere i primi tentativi di restituzione. ∆Agaqh`/ tuvc(h/). Imp. Caes. M. [Iulius P]hi[lippus p. f. Aug.] et [M. Iulius Philippu]s n[o]bi[l]issimus Caes. M. Au[r. Eglecto] | pe[r] Didymum mil(item) cen(tenarium) frum(entarium): proco[n]sule v. c. per-
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Si vede dunque che le condizioni, anziché migliorare dopo l’età di Settimio Severo, eran diventate molto peggiori. I contadini di Arague potevano a lor posta esaltare i felici tempi di Filippo, ma non per questo la loro situazione diventava migliore di prima. Infatti i prepotenti principali sono gli stessi che abbiamo trovati sotto Settimio Severo, e gli stessi sono anche i metodi
specta fide eorum quae [adlegastis si] | quid iniuriose geratur, ad sollicitudinem suam revocabit. [V]a[l]e. ∆Autokravtori Kaivsari M. ∆Ioulivw/ Filivppw/ Eujdebei` Seb(astw`/) kªai; M. ∆Ioulivw/º ⁄ Filivppw/ ejpifanestavtw/ Kaivsari devhsi~ para; Aujrhlivou ∆Eglevktªou peri; tou` koiº⁄nou` tw`n ∆Aragouhnw`n paroivkwn kai; gewrgw`n tw`n uJmetevrwn ªtou` ejn th`/ ∆Appiaº⁄nh`/ dhvmou koino(u` T)otteanw`n Sohnw`n tw`n kata; Frugivan tovpwn dia; T. Oujªlpivou Diduvmouº ⁄ stratiwvtou. pavntwn ejn toi`~ makariwtavtoi~ uJmw`n kairoi`~, eujsebevsªtatoi kai; ajluº⁄povtatoi tw`n pwvpote basilevwn, h[remon kai; galhno;n to;n bivon diagªovntwn pavsh~ poºnhriva~ kai; diaseismw`n peªpºaumevnwn, movnoi hJmei`~ ajllovtria tw`n eªujtucestavtwnº ⁄ kairw`n pavsconte~ thvnde th;n iJkevteian ªuJºmei`n prosavgomen. e[ceªtai de; to; th`~ deº⁄hvsew~ ejn touvtoi~: cwrivon uJmevterovn ªejºsmen, iJerwvtatªoi aujtokravtore~, dh`º⁄mo~ oJlovklhro~ oiJ katafeuvgonte~ k(ai;) geinovmenoi th`~ uJmetevra~ ªqeiovthto~ iJkevtai: diaº⁄seiovmeqa de; para; to; a[logon kai; paraprassovmeqa uJp j ejkeivnwn oªi|~ swvzein to; dhmovº⁄sion ojf(e)ivlei: mesovgeioi ga;r tugcavnonte~ kai; mªhvºte (leggi mhde;) para; strataªrcivai~ o[nte~ pavsº⁄comen ajllovtria tw`n uJmetevrwn makariwtavtwn kairw`n. ªdiodeuvonte~ ga;rº to; ∆Appianw`n klivma paralimpavnonte~ ta;~ lewfovrou~ oJªdou;~ stratavrcai te k(aiv) straº⁄tiw`tai k(ai;) dunavstai tw`n proucovntwn kªatºa; th;n povlin ªKaisarianoiv te uJº⁄mevteroi ejpeiseªrºcovmenoi kai; katalimpavnonte~ ta;~ leªwfovrou~ oJdou;~ kai; ajpo; tw`nº ⁄ e[rgwn hJma`~ ajfistavnte~ kai; tou;~ ajroth`ra~ bova~ ajngªareuvonte~ ta; mhde;n ojfeiº⁄lovmena aujtoi`~ parapravttousi: kai; sumbaivnei ouj ªta; tucovnta hJma`~ ejk tº⁄ouvtou ajdikei`sqai diaseiomevnou~: peri; w|n a{paªx h[dh kathvlqomen ej~ to; sovn, w\º⁄ Sebastev, mevgeqo~, oJpovte th;n e[parcon diei`peª~ ajrch;n ejmfaivnonte~ to; gegoº⁄nov~. kai; o{pw~ peri; touvtwn ejkeinªhvºqh sou` hJ qeªiva yuchv, ejpistolh; dhloi` hJ ejntetagmevnh. quae libe(l)lo complexi esti(s, ad procos. misimus) | qui dabit operam ne d(iu)tiu‹i›s querell(is locus sit). ejpeidh; ou\n oujde;n o[feloª~ hJºmei`n ejk tauvth~ tªh`~ dehvsew~ gevgone, sunbevº⁄bhken de; hJma`~ kata; th;n ajgroikivan ta; mh; ojfeiªlovmena parapravssesqai, ejº⁄penbainovªnºtwn tinw`n kai; sunpatouvntwn hJma`~ ªpara; to; divkaion, wJsauvtw~ dº⁄e; uJpo; tw`n Kaisarianw`n ouj ta; tucovnta diªasºeivesªqai kai; ta; hJmevtera eij~ aujtou;~º ⁄ ªejxanalivºskesqai kai; ta; cwvria ejrhmouvsqai kai; ajnªavstata givgnesqai: mesovgeioi ga;rº ⁄ ªtugcavnonteº~ kai; ouj para; tªh;n oJºdo;n katoikou`nte~ … (Seguono qui pochi resti di altre due linee, al disotto delle quali la lapide è spezzata). In questa breve nota non posso motivare le nuove lezioni che ho introdotte nel testo, ma dirò due parole su quella della l. 2: mil(item) cen(tenarium) frum(entarium). Essa corrisponde esattamente al facsimile dato dall’Anderson nel secondo articolo. Il titolo di centenarius dato ad un frumentarius appare qui nel secolo III per la prima volta, ma nel secolo IV lo portano comunemente i successori dei frumentarii, gli agentes in rebus. Intorno ai frumentarii vd. O. HIRSCHFELD, Sicherheitspolizei, Kl. Schr., pp. 588 e 592; D. VAGLIERI in DE RUGGIERO, Diz. ep., III (1903), pp. 221 seg.; FIEBIGER, «R. E.», VII (1912), coll. 122 sgg.; P.K. BAILLIE REYNOLDS, «J. R. S.», 13 (1923, comparso nel 1925), pp. 177 e 183 sgg.; cf. cap. VIII, nota 10 e cap. IX, nota 7. Sugli agentes in rebus e il titolo di centenarius ad essi applicato vd. O. HIRSCHFELD, Die agentes in rebus, Kl. Schr., pp. 624 sgg., specialmente pp. 626 sgg.
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d’oppressione. Una petizione contemporanea e quasi identica presentata a Gordiano III (238 d.C.) da un soldato di nome Pirro e corredata di un supplemento redatto da un legale (?), Diogene di Tiro (defensor del villaggio?), dipinge quasi le medesime condizioni a Skaptoparê, villaggio della Tracia nel territorio di Pautalia. I reclamanti non sono qui coloni dell’imperatore ma proprietari di terre e di case (oijkodevspotai): anch’essi si lamentano delle esazioni ed estorsioni dei soldati, dei minori agenti imperiali, e d’altri. Il villaggio ha la disgrazia d’esser situato nelle vicinanze d’un luogo di cura e di un importante posto di mercato ove si tiene una grande fiera stagionale. In condizioni normali questa vicinanza sarebbe stata un vantaggio, e tale era stata realmente per molto tempo, ma nel terzo secolo divenne per gli abitanti del villaggio un vero flagello. I numerosi visitatori del luogo di cura e della fiera, nonché altri viaggiatori, si servivano del villaggio come di una comoda fermata e come fonte di rifornimenti, pretendevano alloggi e vitto senza pagare, e a poco a poco andavano riducendo il paese a tale stato di miseria, che la popolazione di esso diminuiva continuamente. Gli abitanti invocano soccorso, mancando il quale minacciano di fuggire dalle case avite, privando così il tesoro imperiale dei loro pagamenti e d’altri servizi27. Passiamo all’Egitto. I papiri posteriori ad Alessandro Severo non vi sono molto frequenti in confronto con quelli del secolo secondo e dei primi trent’anni del terzo: tuttavia essi dànno un quadro fedele sebbene incompleto delle condizioni del sec. III. Un eccellente colpo d’occhio sulle preoccupazioni dominanti nella media degli Egiziani di vari classi ci è dato da un elenco di domande rivolte a un oracolo. Esse probabilmente erano le domande che si facevano comunemente; quindi furono catalogate da uno che o intendeva rivolgerne qualcuna o più probabilmente doveva rispondere ad esse. Alcune fra queste sono di carattere neutro, come queste che ricorrono di frequente nel secondo secolo: «mi sposerò», oppure: «l’affare è buono per me?»; ma delle ventun domande conservate nel papiro almeno otto sono peculiari a quest’età (fine del terzo secolo), e ne rispecchiano le maggiori preoccupazioni. «Mi si metterà sotto ipoteca? – è una domanda che evidentemente si riferisce a confisca di proprietà; lo stesso quesito è posto anche in forma diversa: «la mia proprietà sarà venduta all’asta?». Altre domande tipiche sono: «diventerò mendicante?»; «dovrò prender la fuga?»; «diventerò inviato?»; «diventerò membro del Consiglio municipale?»; «la mia fuga sarà impedita?»; «riceverò il mio denaro?»; e così
27. DITTENBERGER, Syll.3, n. 888; C. I. L. III, 12336; I. G. R. R. I, 674; cf. F. PREISIGKE, Die Inschrift von Skaptopare in ihrer Beziehung zur kaiserlichen Kanzlei in Rom, «Schr. d. Wiss. Ges. in Strassburg», 30 (1917); M. ROSTOVTZEFF, «J. R. S.», 8 (1918), p. 33; U. WILCKEN, «Hermes», 55 (1920), pp. 1 sgg.; cf. H. DESSAU, ibid., 62 (1927), pp. 205 sgg. e U. WILCKEN, «Arch. f. Pap.-F.», 9 (1928), pp. 15 sgg. Nei primordi del sec. IV i funzionari di polizia erano sempre altrettanto opprimenti quanto nel III: le riforme di Diocleziano e di Costantino non riuscirono a far loro mutare sistema. Vd. i frammenti di una lettera imperiale in risposta alle lagnanze sulle estorsioni dei beneficiarii, trovati a Thuburbo Maius in Africa (315-18 d.C.?), I. L. A., 269. Verso la fine v’è una notevole tariffa delle competenze dovute ai beneficiarii. Cf. nota 17.
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via28. Si vede quali fossero i grandi pericoli che minacciavano la carriera d’un uomo; essi nascevano dall’ingerenza dello Stato nella vita degli individui. Era caso ordinario per un uomo vedere la sua proprietà messa all’asta, diventare mendicante, fuggire dalla sua residenza, o, ciò ch’era peggio, diventar membro del Consiglio oppure, essendolo già, esser mandato alla capitale in qualità d’inviato della propria città, il che naturalmente gli addossava gravi spese. Uno sguardo negli affari di una grande casa, appartenente probabilmente ad uno dei personaggi cospicui di Hermupolis, ci permette di darlo una lettera scritta da un agente al suo padrone per dargli conto delle spese fatte in un certo periodo di tempo. La maggior parte degli articoli di spesa si riferiscono a requisizioni o sportule o regolari pagamenti fatti a soldati, per esempio: «prezzo del vino di Cnido dato al soldato dimorante nella casa di Demetrio il tarsicarius» (l.12); «A Plutione, beneficiarius del prefetto, che trasporta l’annona per il prefetto, due spathia di vino» (l.15); «al suo servitore perché non informi il soldato che il praepositus è qui» (l.18); «costo di legna da ardere per il praepositus della legione» (l.27) ecc. Il tono del poscritto è assolutamente disperato: l’amministratore chiede risposta immediata e istruzioni29. I caratteri predominanti della vita egiziana nel terzo secolo erano lo spopolamento graduale del paese, la decadenza del sistema irrigatorio, l’aumento dei terreni abbandonati e improduttivi. Per esempio il papiro di Theadelphia, che contiene la corrispondenza di un certo Sakaon e risale al periodo compreso tra il 280 e il 342 d.C., mostra che nel territorio di questo villaggio già fiorente la terra si trovava in condizioni miserrime. All’inizio del quarto secolo il terreno coltivabile, e quindi tassabile, non superava le 500 arurae, di cui soltanto 200 erano effettivamente coltivate30. Le condizioni non erano migliori a Philadelphia, altro grosso e fiorente villaggio. Tre ricchi proprietari, possessori di numerose porzioni di terreno in quel territorio, si lagnano coi dekaprotoi perché il pragmatikov~ (il ragioniere) del villaggio aveva fatto una valutazione eccessiva dell’estensione e della qualità dei fondi da loro posseduti. L’eccesso di valutazione consisteva probabilmente nel fatto che nella registrazione dei libri quei fondi apparivano più grandi e più fertili di quel che realmente fossero. Su un totale di 80 5/12 arurae di terra tassata, vi erano 33 21/32 arurae probabilmente affatto improduttive. Inoltre, certe terre che i proprietari riconoscono far parte dei loro possessi, essi le dichiarano effettivamente improduttive, o almeno assai difficili a lavorarsi: in parte erano terreni non inondati, in parte maggiore terreni piantati ad alberi, ch’erano inselvatichiti, oppure gli alberi vi erano stati abbattuti totalmente o in parte31.
28. P. Oxy., 1477. Nell’introduzione a questo papiro B. GRENFELL cita tutti gli altri dello stesso tipo, tutti anteriori. 29. C. WESSELY, Cat. P. Rain., 75 (III-IV sec. d.C.). 30. P. JOUGUET, Papyrus de Théadelphie (1911). 31. P. Wis., inv. 56, inedito. Debbo la trascrizione del testo all’amicizia del prof. A.G. Laird dell’Università di Wisconsin. Intorno al territorio di Philadelphia vd. M. ROSTOVTZEFF, A Large Estate, pp. 13 sg.
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Questo stato di cose non era ristretto al Fajiûm. In un documento dell’età di Gallieno (265-266 d.C.) una commissione riferisce al Consiglio di Hermupolis Magna intorno alle condizioni d’alcune tenute assegnate al Sarapieion della città e affittate a due importanti funzionari municipali. Il rapporto constata che 22 arurae di vigneto contengono soltanto «pochissime vigne che ancora diano frutto, e anch’esse sono terribilmente trascurate e tutte invase dai giunchi, mentre tutta la tenuta è circondata da molto terreno incolto e da giuncheti»; i torchi e i recipienti sono in condizione miserrima; e la maggior parte degli altri appezzamenti sono nello stesso stato miserevole. È evidente che i terreni esaminati dalla commissione erano stati confiscati agli antichi proprietari diventati debitori dello Stato come funzionari civici o statali, e che la rovina della terra era dovuta alla scomparsa dell’iniziativa privata e dell’accurata amministrazione privata32. Terra incolta e terra dello Stato divennero a poco a poco espressioni sinonime. Lo Stato cercava di rimediare assegnando queste terre alle comunità o a ricchi agrari, oppure obbligandoli a prenderle (il noto sistema della ejpibolhv), o vendendole per un prezzo soltanto nominale a persone disposte a tentar la sorte: ma nella maggior parte dei casi il risultato era deplorevole. Vigneti e oliveti già fiorenti si rinselvatichivano e non era facile restituirli all’antica fertilità. Naturalmente quella che andava soggetta a questa triste sorte era per lo più terra già di proprietà privata, non inondata, che nel buon tempo antico si era potuta mettere in coltura solo grazie agli sforzi dei proprietari privati e mediante l’irrigazione artificiale. Le terre della corona accessibili alle acque di piena erano ancor fertili e trovavano abbondanza di coltivatori. Il deterioramento del terreno era dovuto interamente al pernicioso sistema delle liturgie, che rovinava le proprietà medie e piccole della borghesia agiata. Sopravvivevano invece i contadini proprietari e, come vedremo, i latifondisti. La causa immediata del rinselvatichimento della terra era naturalmente il fatto che in tutto il paese il sistema delle dighe e dei canali era trascurato e quindi si deteriorava, con danno non soltanto dei proprietari privati, ma anche dei contadini delle terre demaniali. Il deterioramento poi era dovuto alle ripe-
32 C. WESSELY, Cat. P. Rain., 58 (265-266 d.C.), di Hermupolis Magna col. II, ll. 13 sgg.: ojlivghn me;n a[mpe⁄lon zwfutou`sªanº kai; ªtºauvthn ejn ª. .ºwtavtw/ ajmeliva/ ou\san kai; e[nqruon, kuvklw/ de; tou` ⁄ cwrivou cevrson pollh;n kai; qruvªonº; cf. col. III, l. 4: genavmªenoi de; eºij~ e{teron cwªrivonº ejpeqewrhvsamen aujto; me;n ªkeivmenon o{ºlon ejn cevrsw/ ª. .º kai; a[crhston. Cf. anche il noto P. Rain. riferito dal MITTEIS, Chrestom., p. 76, n. 69; C. WESSELY, Cat. P. Rain., 86 (330 d.C.) di Hermupolis e le mie Studien Gesch. Kol., pp. 198 sgg. Una parte del fondo è così descritta ll. 3 sgg.: w|n to; ⁄ kaqæ e}n ou{tw~ e[cei. ajmpeliko;n cwrivon uJpo; tevlou~ (ajrourw`n) hlæ, i~æ, lbæ, kalamiva~ (ajrourw`n) gæ hæ, pwmarivou (a[roura) læ h, a{panta nuni; ⁄ ejn cevrsw/ kai; ta; ejn autw`/ oijkovpeda kai; ejk novtou touvtou gewvrgion kalouvmenon Pwvlupon, o{son ejsti;n ajrourhdou` ⁄ kai; oujs iakh`~ gh`~ uJpo; tevlou~ (ajrourw`n) mb lhæ kai; th;n pa`san cevrson kai; a[sporon th;n ejn aujth`/. II tenimento consta di parcelle di vigneto e frutteto privato e di un grande nucleo di terreno imperiale. [Vd. anche SB, 7360, che è un ajpografhv di oliveti abbandonati].
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tute guerre e rivoluzioni, alla cattiva distribuzione del lavoro tra la popolazione, ai guadagni illeciti e alle sportule cui erano tanto accessibili i funzionari dello Stato. Il governo cercava per quanto gli era possibile di restaurare il sistema irrigatorio seguendo però il suo abituale metodo di violenza e di coazione. Il più grande sforzo fu quello fatto dall’imperatore Probo; e fu così celebre da essere ricordato dal biografo latino dell’imperatore33. Un papiro del 278 d.C. mostra in qual maniera e con quali mezzi si eseguivano questi lavori di restauro. Venivano mobilitati tutti i possessori di terreno: non si accettava alcuna scusa, non si concedeva ad alcuno di esimersi dal lavoro personale con pagamenti. Tra i magistrati municipali e i proprietari privati venivano nominati speciali curatori sotto la soprintendenza del dioiketes, degli strategoi, dei dekaprotoi. Le sanzioni erano rigorose: «Se qualcuno oserà tentare alcunché di questo genere [cioè accettare denaro invece di lavoro], o trascurerà questi ordini, sappia con certezza che rischierà non soltanto il suo denaro ma anche la sua vita per l’offesa fatta ai provvedimenti intesi a salvare tutto l’Egitto»34. Un altro documento, posteriore di circa venti anni (298 d.C.), mostra che gli ordini severi di Probo non erano valsi a migliorare la moralità dei funzionari egiziani né avevano potuto costringerli ad essere onesti. Infatti in questa petizione gli abitanti di un villaggio reclamano contro l’oppressione e le frodi dei funzionari. Le espressioni da loro usate sono caratteristiche. «Noi troveremmo difficile, signore – dicono i contadini –, anche quando si fosse proceduto con giustizia nelle incombenze addossateci, di adempiere appieno ai nostri doveri; se poi per giunta siamo anche trattati disonestamente, saremo sciolti dalle nostre obbligazioni per l’impossibilità di adempierle». Si trattava, è vero, di un affare secondario – l’ingiusta assegnazione a credito di un certo gruppo di un’opera di 150 misure cubiche compiuta invece da un altro gruppo: ma esso dimostra pur sempre il marciume del sistema e gli effetti rovinosi ch’esso aveva sulla popolazione35. Il declinare della prosperità economica dell’Egitto, come abbiamo già più volte rilevato, era causato principalmente dal funesto sistema delle liturgie, che distrusse l’opera dei primi imperatori, i quali avevano promosso in tutto il paese il sistema della proprietà privata della terra e in tal modo restituito all’antica prosperità gran parte del paese. Nel capitolo IX abbiamo rilevato come nessun mutamento avesse arrecato nel sistema delle liturgie la concessione della cittadinanza fatta da Caracalla e preceduta dall’introduzione della vita municipale in Egitto. Quivi infatti le istituzioni municipali vennero introdotte proprio quando avevano perduto dappertutto il loro valore originario. Lo stabilimento di esse non era più il mezzo d’introdurre l’autogoverno in quelle parti
33. SCR. HIST. AUG., Prob. 9, 3. 34. P. Oxy. 1409 (278 d.C.); cf. W.L. WESTERMANN, «Aegyptus», 1 (1920), pp. 279 sgg. Vd. specialmente la sanzione: eja;n ga;r toiou`to ejpiceirªh`sºai tolmhvªsºh/ h} tw`n prªostetaºgmevnwn ajmelhvsh/, i[stw o{ti wJ~ lumainovmeno~ toi`~ ejpi; th`/ swthriva/ sunpavªshº~ th`~ Aijguvptou proh/rªhmevºnoi~ ouj movnon peri; crhmavtwn ajlla; kai; peri; aujth`~ th`~ yuch`~ to;n ajgw`na e{xªei. Cf. cap. IX, nota 15. 35. P. Oxy. 1469 (298 d.C.).
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del mondo antico che non lo avevano mai conosciuto: esse erano ormai in realtà soltanto il mezzo con cui legare la popolazione allo Stato coi vincoli del servizio personale e della responsabilità materiale. Creando nuove masse di cittadini, il governo voleva creare nuove masse di portatori di oneri, nuovi leitourgoiv o munerarii, ordinati in gruppi per agevolarne la sorveglianza. Da tempi immemorabili i contadini e gli artigiani d’Egitto avevano costituito gruppi professionali legati al loro mestiere e al loro domicilio; ma le classi possidenti erano finora sfuggite all’obbligo di eseguire speciale lavoro per lo Stato ed erano rimaste libere di svolgere a proprio arbitrio la loro attività economica. Ora esse venivano organizzate, secondo la loro residenza, in gruppi di servitori dello Stato sotto il nome glorioso di cittadini romani e di liberi cittadini di comunità greche. L’opera speciale loro assegnata era di portare la responsabilità del pagamento dei vari balzelli dovuti allo Stato, e di assisterlo nella riscossione di essi. Altro aspetto della medesima opera era la responsabilità per la prestazione effettiva del lavoro coattivo dovuto dalla popolazione e per le rendite derivanti dalle proprietà dello Stato, soprattutto per le sue terre incolte e abbandonate. Quella che nel secolo secondo era stata ancora responsabilità individuale gravante solo su certi membri della classe privilegiata, divenne ormai responsabilità degli individui di un determinato gruppo organizzato di essa, un membro sostituendo l’altro in caso di difetto. Questi gruppi venivano chiamati Consigli civici; e ad essi erano assegnate alcune parti della terra egiziana coi contadini e artigiani ad essa appartenenti. Gli oneri che ricadevano sulla popolazione, la responsabilità dei quali spettava alle città rappresentate dai loro dignitari e dai membri dei Consigli civici, mai erano stati così pesanti come nel terzo secolo. I più gravi di essi non erano quelli regolari, cui la popolazione era assuefatta da tempi immemorabili, cioè le imposte e le regolari prestazioni d’opera, sibbene i pesi imposti in via d’urgenza: pagamenti straordinari, requisizioni straordinarie (annona), trasporti. Non dobbiamo meravigliarci nel vedere che nei verbali delle adunanze dei Consigli civici della seconda metà del secolo, dei quali possediamo alcuni frammenti (delle città di Ossirinco e di Hermupolis), i membri dei Consigli e i funzionari parlino quasi esclusivamente di liturgie: come esse dovessero distribuirsi tra le persone più ricche e chi doveva essere scelto come prossima vittima destinata alla rovina e alla fuga. Intorno al 270-275 d.C., sotto Aureliano, nel senato di Ossirinco s’ebbe una vivace discussione intorno al denaro da spendersi per le corone che dovevano offrirsi all’imperatore in memoria della sua recente vittoria36. Siccome la seconda metà del secolo terzo fu tutta piena
36. P. Oxy., 1413 (270-75 d.C.), ll. 25 sgg. Cf. 2130 (267 d.C.), di Antinoe, relativo alla liturgia della ginnasiarchia. Non ho potuto giovarmi del libro di S. SINGALEVICˇ , Il Senato di Ossirinco nel sec. III d.C., Charcov, 1913 (in russo), che studia i più importanti tra i papiri che illustrano l’attività della boulhv di Ossirinco nel sec. III; cf. U.E. P(AOLI), «Riv. di filol.», 43 (1913), pp. 178 sgg. Cf. un documento analogo del IV sec., P. Oxy., 2110 (370 d.C), e il papiro di Princeton degli inizi del sec. IV, H.B. VAN HOESEN e A.CH. JOHNSON, «Journ. of Eg. Arch.», 12 (1926), pp. 118 sgg.; cf. U. WILCKEN, «Arch. f. Pap.-F.», 8 (1927), p. 314.
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di guerre e di movimenti di truppe, uno dei tormenti maggiori per i Consigli civici erano l’incetta e la consegna di viveri alle truppe (annona). Nel 265 d.C. il presidente (prytanis) dette disposizioni per l’incetta del grano da consegnare alle legioni37. Nello stesso anno vennero consegnati generi alimentari ai soldati che accompagnavano il prefetto Claudio Firmo38. Nel 281 fu fornito del pane «ai soldati e marinai in marcia» (toi`~ cwrhvsasi stratiwvtai~ kai; nauvtai~)39. Nel 299 venne data della paglia «per consegnarla ai nobilissimi soldati marcianti per la città»40. Al regno di Diocleziano e di Massimiano appartiene anche un lungo resoconto di consegne di ei[dh eujqhniakav (species annonariae), destinate ai soldati41. Mentre nel secondo secolo l’annona era stata soltanto un’addizionale d’urgenza ai tributi ordinari, e probabilmente si supponeva che le robe così consegnate verrebbero pagate dal governo, nel terzo secolo essa diventò pura e semplice requisizione, imposta addizionale levata sui proprietari di terre e sugli affittuari dei demani pubblici e imperiali. I Consigli civici, tenuti responsabili delle consegne, nominavano persone particolarmente incaricate di sorvegliare l’incetta dei viveri e del foraggio, il loro invio nei porti o in città, la loro consegna ai rappresentanti delle truppe42. Quale terrore incutesse l’annona
37.
P. Oxy., 1419 (265 d.C.). Sull’annona vd. D. VAN BERCHEM, L'Annone militaire dans l'Empire romain au IIIe siècle, «Mém. de la Soc. d. Ant. de France», 10 (1937), pp. 117 sgg.
38. P. Oxy., 1194 (263 d.C.). 39. P. Oxy.,1115 (281 d.C.). 40. P. Oxy., 1543 (299 d.C.): pro;~ diavdosin toi`~ diodeuvousin genneotavtoi~. 41. C. WESSELY, Cat. P. Rain., 84 col. I, ll. 1 sgg.: ÔErmopoleivtou brevouion ejktagevntwn ajnakomi⁄sqh`nai eijdw`n eujqeniakw`n kai; tw`n ajp j aujtw`n ajnakomisqevntwn eij~ thvn⁄i th;n ejnestw`san hJmevran. Le derrate sono cereali, paglia, vino, carne. Sono nominati appositi propompoiv. Sui sithrevs ia (razioni) dati ai soldati in aggiunta al soldo vd. FERGUSON ad Herodian., 3, 8, 5, che sottolinea l’incremento delle razioni sotto Severo e spiega questo incremento con il permesso dato ai soldati di sposarsi, dal momento che la la razione era una razione per famiglia. Perciò in età severiana i soldati non detraevano le spese per il vitto dal loro soldo come era stato nel I e nel II sec.
42. Circa le contribuzioni coattive di diverse specie di cose nel corso del sec II e nei primi anni del III vd. cap. VII, nota 34 e cap. IX, nota 44. Indubbiamente la contribuzione coattiva era di regola considerata come vendita coattiva, e realmente si pagava del denaro per le merci così fornite, vd. J. LESQUIER, L’Armée romaine d’Égypte, pp. 258 sgg. Uno degli esempi più calzanti è la fornitura di stoffe per l’esercito di Giudea fatta dai tessitori di Soknopaiu Nesos nel 128 d.C. (P. Ryl. II, 189); cf. P. Tebt., 347, 12 e P. GRADENWITZ, citato in P. Hib., 67, 10 nota. Analoghe forniture per l’esercito di Cappadocia e per l’ospedale della ratio castrensis di Roma sono menzionate nel 238 d.C. a Filadelfia (B. G. U., 1564), cf. cap. V, nota 43. Ancora nel 232 d.C. gli officiali di Severo Alessandro andavano pagando le robe ch’erano state fornite ai soldati per ordine del prefetto, P. S. I., 797. Cf. lo stesso procedimento relativo alle forniture di ejsqh;~ stratiwtikhv nel sec. IV, P. Lips., 45, 46, 48-60; U. WILCKEN, Grundzüge, p. 362, e di abiti per i gladiatori, P. Lips., 57, 6-11. Cf. anche P. Oxy., 1424 (circa 318 d.C.), 1428 e 1448, e P. S. I., 781. Per l’ordinamento della riscossione dell’annona nel IV sec. vd. P. JOUGUET, La Vie municipale, pp. 387 sgg.; WILCKEN, Grundzüge, p. 360; P. Oxy., 1115 e 1419; C. WESSELY, Cat. P. Rain., 84; P. S. I., 795. Il fatto che ancora nel sec. IV si
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tanto nei collettori quanto nei contribuenti, è dimostrato da una lettera privata della fine del terzo secolo. Lo scrivente spiega che la lettera è una richiesta d’aiuto inviata a domanda di uno gnwsthvr, di una persona cioè che aveva l’obbligo d’indicare nomi di gente che poteva esser chiamata a sostenere liturgie, e che si trovava in difficoltà. Lo scrivente espone: «Egli [lo gnwsthvr] dice: “Gli ho dato grande aiuto in fatto di annona”. Egli dice anche che adesso è indetta l’annona. Se dunque tu puoi a tua volta liberarlo, tutto va bene; se non puoi, dacci istruzioni sui preparativi che desideri vengano fatti. Non trascurare questo, perché essi [i collettori dell’annona?] non sono ancora andati via. Se tu sei abbastanza potente da liberarlo, ci farai un grosso favore, perché non abbiamo bestiame bovino né maiali»43. Altro problema difficile, che le città dovevano risolvere, era quello di trasportare l’annona e il ricavo delle imposte in natura sino ai porti del Nilo e ad Alessandria. Il trasporto terrestre veniva fatto, sotto la sorveglianza di agenti speciali nominati dal Consiglio (katapompoiv, o parapompoiv, prosecutores), da corporazioni di proprietari di bestie da soma, per le quali rispondevano o i dekaprotoi municipali o i grandi proprietari e gli affittuari generali dei demani imperiali. Il trasporto fluviale era nelle mani di speciali associazioni di padroni di navi o di locatari di battelli appartenenti al governo44. Agenti spe-
pagavano talvolta le forniture di annona militaris non basta a dimostrare che questa fosse nel sec. III la consuetudine. Lo stesso procedimento, cioè probabilmente requisizione senza effettivo indennizzo, sembra sia stato introdotto anche nelle altre parti dell’Impero e in Italia; v. per es. l’interessante iscrizione di A. Vitellio Felice, dell’età di Gallieno, che è stata rinvenuta a Thugga, C. I. L. VIII, 26582. Tutte le cariche ricoperte da quest’individuo sono in relazione coi trasporti e con la riscossione dei fitti dei demani imperiali, specialmente d’Africa. Uno degli uffici più importanti era quello di p(rae)p(ositus) agens per Campaniam, Lucaniam, Picenum annonam curans militibus Aug. n. 43. P. Oxy., 1490 (scorcio del sec. III d. C.). 44. Mi sono occupato del trasporto dei beni imperiali in Egitto in tre lavori speciali, «Arch. f. Pap.-F.», 3, pp. 215 sgg., «Klio», 6 (1906), pp. 253 sgg. e «R. E.», VII, coll. 169 sgg.; cf. WILCKEN, Grundzüge, p. 370; F. OERTEL, Die Liturgie, pp. 115 sgg. e A. CH. JOHNSON, Roman Egypt, in T. FRANK, An Economic Survey of Ancient Rome, II, Baltimore, 1936, pp. 400 sgg. Posteriormente ho modificato le vedute da me esposte in questi arti-
coli relativamente al trasporto per terra. Il trasporto dai magazzini locali lungo il fiume o per canale era certamente eseguito dalle corporazioni degli ojnhlavtai e kthnotrovfoi e dei kamhlotrovfoi. Erano responsabili di esso o i magistrati municipali, verso i quali rispondevano alla loro volta le amministrazioni dei villaggi per le prestazioni dovute dal rispettivo villaggio, oppure i magistrati municipali e i grandi proprietari di terre. Mi sembra difficile ritenere che le quietanze di Filadelfia, redatte a nome di Appiano (grande proprietario agrario, uno dei padroni di Heroninus, vd. infra, nota 59) e di Sodikes siano state rilasciate ai nauvklhroi, funzionari governativi addetti al trasporto terrestre: penso adesso che Appiano e Sodikes fossero grandi proprietari agrari e fittuari di tenute imperiali, ch’erano responsabili del trasporto dei loro pagamenti fino al posto di sbarco. A tale scopo essi adoperavano i loro propri asini e cammelli oppure, di regola, quelli delle corporazioni. Vedi F. PREISIGKE, «Arch. f. Pap.-F.», 3, pp. 44 sgg.; i miei scritti, ibid., pp. 223 sgg., «Klio», 6 p. 253 e «R. E.», VII, col. 163; F. OERTEL, Die Liturgie, pp. 117, 122, nota
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ciali dei Consigli avevano anche l’obbligo d’invigilare l’imbarco ed erano responsabili dell’incolumità delle cose trasportate: si supponeva ch’essi accompagnassero la carovana dei battelli fluviali e si trovassero presenti alla consegna del carico ad Alessandria. La liturgia della prosecutio annonae era dunque una delle più onerose e pericolose. Non deve sorprenderci il fatto che sotto Diocleziano due figli di senatori municipali, deputati a «inoltrare giù per il fiume» vino e orzo, abbiano preso entrambi la fuga, dandosi alla lati-
6, 431, cf. P. Oxy., 2131 (207 d.C.) e i documenti, del 163 d.C. all’incirca, di cui s’è occupato C.W. KEYES, «Journ. of Eg. Arch.», 15 (1929), pp. 160 sgg. e che riguardano gli affari d’un gruppo di kamhlotrovfoi. Si veda inoltre la lettera dello strathgov~ dell’Arsinoite agli strathgoi`~ dell’Ossirinchite dell’anno 166 d.C riguardante gli kthnotrovfoi dell’ultima e alcuni inviati nel nomo dell’Arsinoite per il trasporto del grano, la maggior parte dei quali fuggì: P. Oxy., 2182 (vd. i documenti citati dal JOHNSON, loc. cit., p. 404. Si noti che gli eujschvmone~ dell’Ossirinchite si occupavano dei muli requisiti. Cf. nel sec.
IV la responsabilità degli speciali curatores frumenti Alexandrini (ejpimelhtai; sivtou A ∆ lexandreiva~), membri del Senato municipale, per il trasporto fluviale dal Nilo ad Alessandria, P. Flor., 75 (WILCKEN, Chrest., 433, anno 380 d.C.); WILCKEN, ibid., 434 (390 d.C.); P. Br. Mus. III, p. 220; Stud. Pal., I, 34; WILCKEN, Grundzüge, p. 371. Il trasporto fluviale veniva eseguito principalmente dai proprietari e affittuari di navi, dai nauvklhroi. La nauklhriva era una liturgia? Certamente già sotto i Tolomei il governo esercitava una stretta sorveglianza sui nauvklhroi (che, almeno ad Alessandria, erano costituiti in corporazione), [vd. il mio scritto nel «Journ. of Econ. and Business History», 3 (1932)]; e i Romani avevano continuato questo sistema. Tuttavia la nauklhriva era un buon affare, e v’erano numerosi nauvklhroi disposti ad impiegare il loro denaro in affari di trasporto. Ma nel sec. III le cose cambiarono: senza dubbio allora lo Stato ricorse a provvedimenti coattivi per assicurarsi un sufficiente numero di nauvklhroi e la nauklhriva divenne una liturgia. Ciò risulta da numerosi documenti, specialmente dal P. Oxy. 1418 (247 d.C.), 8: ªth`~ plhrwºqeivsh~ uJp j em j ou` nauklhriva~ kai; tw`n a[llwªn leitourgiw`n (?) …; cf. B. GRENFELL, P. Oxy., 1412, 14 nota. Il Grenfell ha certamente ragione nel vedere nel P. Oxy., 1261 – dichiarazione relativa al trasporto di merci per le truppe di Babilonia, eseguito da un buleuta che indubbiamente adempiva così a una liturgia – un esatto parallelismo con le dichiarazioni di un nauvklhro~ ceirismou` Neva~ Povlew~ (P. Oxy., 1259, anno 211 d.C.), e di un kubernhvth~ (P. Oxy., 1260), cf. F. PREISIGKE, P. Cairo, 34, 3-4. F. OERTEL, Die Liturgie, p. 431, non ha interpretato esattamente il contenuto di questi documenti. Cf. anche P. Oxy. 1553-5 (214, 251, 260 d.C.), che contengono dichiarazioni giurate di kubernh`tai proprietari di navi, con l’enumerazione dei loro mallevadori. Non affermo che nel sec. III la nauklhriva fosse un mero munus e che non potesse anche essere, a motivo dei privilegi ad essa connessi, considerata un buon affare (vd. P. Br. Mus., 1164[h], vol. III, p. 163, anno 212 d.C., e P. Oxy. 2136, anno 291 d.C.); ma in momenti di bisogno si ricorreva alla costrizione, e questa gente veniva costretta a fare il suo mestiere anche contro volontà. Talvolta forse anche coloro che avevano cessato d’essere proprietari di navi, o anche individui che non erano affatto per professione armatori di navi o vettori, venivano costretti ad assumere la responsabilità del trasporto fluviale d’un determinato carico. In seguito alle nuove conclusioni sui granai alessandrini, che presenta l’interessante articolo di U. WILCKEN, «Hermes», 63 (1928), pp. 48 sgg., l’ordinamento dei nauvklhroi di Alessandria dovrebbe esser fatto oggetto di nuova accurata indagine.
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tanza. I membri del Consiglio si dettero da fare per sostituire i fuggiaschi. In un’assemblea i membri del Consiglio, dissero: «Non affrettatevi tanto a nominare i sostituti, altrimenti scappano»; frattanto furono staggite le garanzie reali dei fuggiaschi45. Le peripezie cui era esposto un prosecutor annonae ci sono descritte in un papiro del quinto secolo, e non v’ha dubbio che le stesse cose avvenissero anche nel terzo. Sembra (sebbene i fatti non siano molto chiari) che il povero prosecutor o katapompov~ sia stato cacciato via dalla nave su cui accompagnava il carico, dopo essere stato truffato, percosso e ingiuriato da un certo Aurelio Claudiano e dallo stolarca o comandante della flotta46. Il sistema delle requisizioni e della responsabilità addossata ai magistrati cittadini, ai membri del Consiglio civico, e ai cittadini ricchi in generale, colpì anche l’organizzazione dell’industria e la riportò alle condizioni prevalenti durante il periodo tolemaico. L’industria, che nel secolo secondo si era fino a un certo punto emancipata, fu ora riassoggettata al controllo statale, esercitato nella maniera peculiare all’età tolemaica. Nell’industria tessile il motivo del ritorno all’antico sistema fu la forte richiesta dello Stato per gli indumenti militari. Uno sguardo sull’organizzazione di questo ramo d’industria ci permette di darlo un papiro che riferisce lo svolgimento di una seduta del Consiglio di Ossirinco nel 270-275 d.C. Si discuteva una certa consegna d’indumenti di lino al tempio: e dalla discussione risulta che tanto la manifattura quanto la consegna erano organizzate sul modello tolemaico. La città incettava il filo dai contadini e lo passava ai tessitori; se vi era deficienza di materia, la città ne acquistava sul mercato. I tessitori erano obbligati a lavorare per la città a prezzo fissato, e a consegnare quante pezze di stoffa essa ordinava: l’avanzo probabilmente si vendeva a mercanti e a clienti privati47. Lo stesso ritorno al sistema tolemaico si scorge nell’ordinamento di alcuni altri rami d’industria e di piccolo commercio, che erano indispensabili per l’approvvigionamento delle città, come per esempio la manipolazione e la vendita dell’olio. Troviamo dei concessionari cui si dava il monopolio del commercio al minuto, e che sembra siano stati affittuari di oleifici annessi ai templi. È da notare che lo stesso processo si riscontra nell’ordinamento degli approvvi-
45. Per la prosecutio annonae vd. il mio articolo nella «R. E.», VII, col. 63, 170. Ho dimostrato nel cap. IX quanto essa fosse diffusa in altre parti dell’Impero all’inizio del sec. III, e nel cap. VIII che vi si ricorreva, in caso di necessità già fin dai primi decenni del sec. II. Tuttavia quella che nel sec. II era stata una libera e spontanea prestazione di ricchi provinciali divenne a poco a poco munus obbligatorio. In Egitto essa appare nella seconda metà del sec III istituzione normale. I Senati delle città nominavano regolarmente a tal fine speciali incaricati, responsabili dei trasporti navali. Vedi P. Oxy., 1414, 19 sgg.: katapomph; zw/w v n, e 1415, 4 sgg., specialmente 7: bouleutai; ei\pon: mh; proªtraphvtwsan(?) i{nºa mh; feuvgwsin. Nel sec. IV l’istituzione era in pieno fiore, vd. WILCKEN, Chrest., 43, introduz. (P. Oxy., 60, anno 323 d.C.). 46. P. S. I., 298 (sec. IV d.C.). 47. P. Oxy., 1414 (270-5 d. C.); cf. C. WESSELY, Cat. P. Rain., I, n. 53; WILCKEN, «Arch. f. Pap.-F.», 7 (1924), p. 103; e supra, nota 42.
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gionamenti di Roma, attuato da Alessandro Severo e da Aureliano, che abbiamo descritto precedentemente48. La borghesia municipale d’Egitto, per la prima volta organizzata da Settimio Severo, non si trovava dunque in condizioni migliori che nelle altre parti del mondo romano. Ogni giorno i membri di essa erano minacciati non soltanto di rovina per la perdita della loro proprietà, ma anche di degradazione, vale a dire di cessare d’appartenere alla classe degli honestiores e di essere invece annoverati tra gli humiliores, diventando così passibili di carcere e di punizioni corporali per mano dei funzionari dello Stato, come avveniva comunemente nel secolo IV, a quanto sappiamo da Libanio. All’inizio del terzo secolo, tuttavia, secondo le ordinanze imperiali – delle quali la più antica emanata da Augusto – coloro che rinunciavano alla loro proprietà erano immuni da pene corporali. Ciò è prescritto espressamente in un rescritto di Settimio: «Tuttavia il tuo diritto di cittadinanza non soffrirà da ciò pregiudizio, né tu potrai essere assoggettato a punizioni corporali». Questi rescritti erano ancora in vigore almeno sino al 250 d.C.: infatti sono ricordati in un documento di quest’anno da un certo Ermofilo nell’atto ch’egli rinunciava alla sua proprietà. In pratica però le cose andavano in modo diverso: altrimenti un tale Aurelio Hermias nel rinunciare alla sua proprietà non avrebbe supplicato umilmente il procuratore di non assoggettarlo a pene corporali. «Mi trovo nella necessità – egli dice – di gettarmi ai tuoi piedi […] e ti prego che la mia persona non sia trattata duramente e oltraggiata, sicché io grazie alla tua umanità possa vivere indisturbato nel mio paese nativo»49. Evidentemente molto spesso alla rovina finanziaria s’accompagnavano anche maltrattamenti corporali, e l’unico scampo era la fuga dal proprio domicilio. Nel secolo III tali fughe erano in Egitto avvenimenti d’ogni giorno: il lettore ricorderà a questo proposito quei quesiti all’oracolo che sono stati menzionati precedentemente. È notevole anche una lettera privata di Ossirinco. In essa Charmus così scrive al fratello Sopatrus: «Il prefetto ha fatto qui pubblicare un’amnistia, e non vi è quindi più nulla da temere, sicché, se vuoi, puoi tornare senza paura: giacché noi non possiamo più vivere entro casa. Annoe infatti è molto stanca del
48. C. WESSELY, Cat. P. Rain., II, 177, 24: oujk ejxevstai de; oujdeni; a[llw/ ⁄ kotulivzein ejn tw`/ ejpoikivw/ eij mh; ejmoi; kai; toi`~ ⁄ su;n moi ªmovnºw/, cf. P. Oxy., 1455 (275 d.C.), dichiarazione d’un mercante d’olio. Cf. cap. X, nota 39, e la precedente nota 21. 49. Per la cessio bonorum vd. cap. VIII, nota 41 e cf. cap. IX, nota 44. Rescritto di Severo: P. Oxy., 1405, 10 sgg., hJ de; ejpiteimiva sou ejk touvtou oujde;n ⁄ blabhvsetai, oujde; eij~ to; ⁄ sw`ma uJbrisqhvsei, cf. B. C. U., 473; MITTEIS, Chrest., 375 (200 d.C.), 6: nomoqeth`sai o{ti ouj crh; tou;~ th;n e[ªkstasin poihsamevnou~(?)º ejnevcesqai ou[te poleitikoi`~ ou[te ijdiwtiªkoi`~ pravgmasin. Richiamo di Hermophilus a questo rescritto o ad altro analogo: C. P. R., 20; WILCKEN, Chrest., 402 (250 d.C.), col. I, 15 sgg. La mia citazione è presa da P. S. I., 292 (vd. il testo greco nel cap. IX, nota 44). Altrettanto chiaro è il P. S. I., 807 (280 d.C.), supplica di un tale Aurelius Heracleius a un beneficiarius del prefetto, cioè ad un poliziotto. Heracleius era stato dai decaproti dichiarato responsabile per terreno che non gli apparteneva. Nella sua doglianza egli aggiunge, ll. 21 sgg.: ajnagkaivw~ ejpidivdw⁄mi ta; bibleivdia ajxiw`n ⁄ e[cein to; sw`ma ejleuvqeron kai; ajnuvbriston (teme d’essere carcerato e punito corporalmente).
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suo viaggio, e noi aspettiamo la vostra presenza, affinché non senza ragione noi possiamo andar via; infatti essa pensa di aver essa sola qui una casa». Queste espressioni enigmatiche, intelligibili soltanto al destinatario, mi ricordano molte lettere che io ricevo dalla Russia dei Soviet: il terrorismo provoca gli stessi fenomeni sempre e dappertutto50. Strumenti dell’oppressione e delle esazioni erano i soldati, conformemente alla regolare prassi amministrativa del terzo secolo. Essi erano il terrore delle popolazioni, e venivano adoperati ai più vari scopi. Alcun tempo dopo il 242 d.C. uno stationarius ebbe ordine da un centurione di scovare, arrestare e inviare dal centurione medesimo gli eredi d’un disgraziato dekaprotos, responsabile dei pagamenti di una tenuta imperiale, la cui mancanza minacciava di far fallire l’ejmbolhv, cioè l’imbarco del grano per Alessandria (e Roma) o per le truppe di occupazione dell’Egitto51. Gli ordini dati a soldati di arrestar decurioni e di mandarli presso gli alti funzionari militari sono affatto comuni nel terzo e quarto secolo in Egitto52. Nella corrispondenza di Heroninus, della quale parleremo tra breve, i soldati rappresentano una parte non indifferente. Allorché uno dei magnati, al cui servizio si trovava Heroninus, non sa più come fare per piegare ai suoi ordini un recalcitrante frontisthv~ (amministratore) o qualche altro subordinato, ogni volta finisce col minacciare l’invio di soldati: «Fallo immediatamente – dice Alypius – se non vuoi esser costretto a farlo da un soldato»; «non trascurare ciò, altrimenti sarà mandato contro di essi [coloro che non pagano gli arretrati d’imposta] un soldato»; e aggiunge: «stava per esser mandato contro di loro un soldato. Sono stato io a fermarlo». Si vede dunque che cosa voleva dire un soldato per la popolazione d’un villaggio. In realtà, la soldatesca era ormai la padrona dell’Egitto. Anche quando erano in lite tra loro, i contadini e i proprietari ricorrevano, non all’amministrazione regolare, ma all’onnipotente centurione53. In condizioni siffatte non ci sorprende il vedere che la vita in Egitto era tutt’altro che sicura e che il paese era infestato da briganti. Coloro che prendevano la fuga, gli «anacoreti», come venivano chiamati, dovevano necessariamente darsi al brigantaggio, se non volevano crepar di fame. Perciò nel terzo secolo si fa frequente menzione di persone espressamente nominate dai villaggi per dare la caccia ai briganti, che erano chiamate lh/stopiastaiv. Come era da supporre, anche questo servizio era una liturgia, ma di scarsa efficacia. Non è mero caso che tutti i documenti relativi alla caccia ai briganti, raccolti
50. P. Oxy., 1668 (sec. III d.C.). Cf. P. Oxy., 2107 (262 d.C.): ordine ai capi di polizia (eijrhnavrcai), del nomo oxyrhynchite di mandare all’epistratego un certo individuo dopo che abbia fatto ciò che deve, se no al prefetto. 51. P. Oxy., 62; WILCKEN, Chrest., 278 (dopo il 242 d.C.). 52. P. Oxy., 64 e 65; cf. WILCKEN, Chrest., 475 e Grundzüge, p. 414. 53. P. Flor., 137*, 7; 151, 10, 12; 250, 4; cf. P. Gen., 16; WILCKEN, Chrest., 354 (207 d.C.). Molto istruttiva è la lettera privata del P. S. I., 842, ll. 7 sgg.: dio; gnwvtwsan o{ti eja;n ajmelhvswsin ejlqei`n … Sarapivwn aujtoi`~ pravgmata keinhvsei h[melle ga;r stratiwvthn pemyai ktl.
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dal Wilcken nella sua Chrestomathie, appartengano al terzo o al quarto secolo. È caratteristico per le condizioni di quest’età che i poliziotti regolari non fossero sufficienti a combattere il brigantaggio e dovessero essere aiutati da siffatti ausiliari. Uno di questi documenti è particolarmente interessante. Lo strategós scrive: «È stato dato avviso ai cacciatori di briganti (lh/stopiastaiv) qui sotto elencati di congiungersi con la polizia del villaggio e di scovare i malfattori che vengono ricercati. Se essi trascurano di farlo, falli mandare incatenati all’eccellentissimo prefetto». I cinque uomini elencati sono indigeni, che certamente non erano mai stati educati al mestiere di scovare e arrestar ladri. Quanto fossero numerosi gli individui senza tetto ricercati dall’amministrazione lo dimostra un documento dei tempi di Gordiano, nel quale il capo della polizia regolare d’un villaggio (ajrcevfodo~) giura ai due magistrati municipali che stavano a capo del servizio di pubblica sicurezza nel nomo di Hermupolis (eijrhnavrcai) – nuovo ufficio liturgico introdotto in Egitto dall’Asia Minore insieme col sistema municipale in generale – che quattro uomini di un altro villaggio, ch’erano ricercati dall’amministrazione, non si nascondevano nel suo villaggio54. Naturalmente, chi maggiormente soffriva del sistema delle requisizioni e della responsabilità coattiva erano i membri della classe benestante ma non ricchissima e quelli ch’erano relativamente onesti. Costoro perdevano la loro proprietà, erano degradati e prendevano la fuga; in tutto il paese vi erano di questi profughi, che vivevano in latitanza55. Meglio se la cavavano gli uomini ricchi e senza scrupoli, che avevano i mezzi e l’astuzia di corrompere i funzionari, e fondavano così la loro prosperità sulla disgrazia dei loro colleghi meno ricchi e più onesti. Ciò posto è naturale che si vedessero nuovamente fiorire grandi tenute e che si formassero nuove oujs ivai. L’estensione della terra confiscata cresceva giornalmente; le città ne erano sovraccariche, e ne dovevano sopportare la responsabilità collettiva. I terreni confiscati per lo più erano di quelli cui non giungeva l’inondazione, e richiedevano perciò
54. P. Flor., 2; WILCKEN, Chrest., 401 (265 d.C.); cf. WILCKEN, Grundzüge, p. 349, B. G. U., 325 e WILCKEN, Chrest., 472 (sec. III. d.C.): kwvmh~ Soknopªaivou Nhvsºou. ªpaºraggevlletai toi`~ uJpªoº⁄gegrammevnoi~ lh/stopiastai`ª~ proseºlqei`n toi`~ th`~ kwvmh~ ⁄ dhmosivoi~ kai; ajnazhth`sai tou;ª~ ejpºizhtoumevnou~ kakouvrgou~. ⁄ eja;n de; ajmelhvswsi, dªeºdªeºmevnoi pemfqhvsonªtºai ejpi; to;n lamprovªtatonº⁄ hJmw`n hJgevmona, [cf. P. Osl. II, 2] e P. Oxy., 80; WILCKEN, Chrest., 473 (età dei Gordiani). O. HIRSCHFELD, Die ägypt. Polizei der römischen Kaiserzeit nach Papyrusurkunden, Kl. Schr., pp. 612 sgg. Cf. cap. IX, nota 44. 55. Non possedendo statistiche, non possiamo sapere a quanto ammontasse in media il patrimonio d’un membro della borghesia urbana. Quello che occasionalmente veniamo a conoscere dimostra che non si deve sopravalutare la ricchezza della borghesia. La maggior parte dei suoi membri erano agiati, non ricchi, Nel P. Ryl. II, 109 (235 d.C.) gli eredi di Aurelio Hermias calcolano il patrimonio paterno a 10 talenti sebastav; nel P. Amh., 72 (236 d.C.) abbiamo un altro calcolo del medesimo genere per l’ammontare di tre talenti; nel P. Oxy. 1114 (237 d.C.) un altro di 200 m. sesterzi. Non dobbiamo inoltre dimenticare quanto il denaro fosse svalutato in questo periodo.
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cure speciali56. Lo stesso può dirsi degli appezzamenti compresi nella categoria della gh` oujs iakhv (cioè terra imperiale), per la quale lo Stato si sforzava di trovare affittavoli solventi. Tanto lo Stato quanto le città ricorsero a vari espedienti per salvare dall’abbandono completo le terre trascurate. Si richiamò in vita l’antica prassi di venderle a prezzi soltanto nominali a soldati e veterani. Alcuni tra i veterani realmente tentarono la sorte, per esempio un beneficiarius del prefetto nel 246 d.C. e i tre coltivatori di Philadelphia del papiro di Wisconsin citato precedentemente. Sembra che particolare energia nel tentare il sistema delle vendite nominali per restaurare la prosperità dell’Egitto abbia spiegato Filippo, e che il suo prefetto e il suo kaqolikov~ (rationalis) abbiano emanato in proposito un editto speciale. Tuttavia l’esperimento dei coltivatori di Philadelphia non fu molto incoraggiante. Mediante la ejpibolhv, cioè aggiunta coattiva di terreno improduttivo al produttivo, o mediante misurazioni false o esagerate, l’amministrazione volle costringere i nuovi proprietari a pagare per un’estensione di terreno maggiore di quel ch’essi pensavano: il risultato fu probabilmente per lo più la rovina dei nuovi proprietari57. Non è mera coincidenza che nello stesso anno 246 d.C. il prytanis di Ossirinco sia stato inviato ad Alessandria per reclamare contro una ejpibolh; tou` iJerou` ajpotavktou, cioè contro un aumento delle terre pubbliche «gettate addosso»
56. I terreni confiscati e assegnati a una città venivano chiamati ta; uJpostevllonta th`/ dekaprwteiva/ oppure ta; uJpavrconta th`/ dekaprwteiva/, giacché delle entrate di essi rispondevano appunto i decaproti. Altra designazione: ta; uJpavrconta oi[kou povlew~. Vedi P. S. I., 187; P. Flor., 19, cf. P. Fay., 87, 5; 88, 5; P. Oxy., 122, 1; 54, 1; C. P. R., 39, 8. Intorno ai politikav in contrapposizione ai kwmhtikav e intorno alla particolare cassa della città in contrapposizione a quella del governo vd. B. GRENFELL, P. Oxy., 1419, 2 nota. Cf. la precedente nota 32. Per l’attività e l’arbitrio dei decaproti vd. P. Ryl. II, 114 (280 d.C.) e P. S. I. 807 (280 d. C.). 57. Il tentativo di Filippo è bene attestato da numerosi documenti. Il più noto tra questi è il P. Brit. Mus. III, pp. 109 sgg.; U. WILCKEN, Chrest., 375 (246 d.C.): è una vendita di terreno fatta dal governo ad un beneficiarius del prefetto a tenore dell’ordinanza del kaqolikov~ (rationalis) Claudio Marcello e del procuratore Marcio Salutario. A quest’ordinanza dei due funzionari si richiama anche il P. Oxy., 78, 11 sgg., che ci offre un elenco di lotti di terreno posseduti da privati, uno dei quali lotti è venduto a norma dell’ordinanza. Quest’ultima è menzionata indubbiamente anche nel P. Wis., inv. 56, 22 sgg.: o{qen oujk ojlivgou o[nto~ tou` ajdikhvmatªoº~ th;n ejpivdosin tw`n bi⁄bleidivwn poiouvmeqa marturoªuvºmenoi kata; ta; keleusqevnta uJ⁄pªo;º Kªlºaudivou Markevllou tou` diashmotªavºtou kaqolikou` kai; Mªaºrkivou Saloªuºtarivou krativstou ejpªiºtrovpou ªtºw`n Sebastw`n. Evidentemente i tre veterani di Antinoupolis erano stati indotti dalla notificazione dei funzionari a comperare il terreno, e ora, trattati male in qualche maniera dai funzionari locali, si richiamano alla notificazione medesima, che verosimilmente conteneva qualche clausola destinata a tutelare i compratori contro la negligenza e la disonestà degli impiegati locali. Suppongo che nello stesso tempo e nella stessa maniera sia stata venduta anche una parte delle tenute di Aurelio Sereno, P. Oxy. 1636 (249 d.C.), 6: ajpo; tou` uJpavrxantov~ moi ajgora⁄ªstikw`/ dikºaivw/ peri; ªtºh;n aujth;n Seru`fin; cf. P. Wis., inv. 56, 30: throumevnªou hJºmw`n tou` dikaiv⁄ªoºu th`~ kthvsew~. Cf. cap. IX, nota 52.
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al nomo, per le quali, naturalmente, dovevano pagare i proprietari di terre del nomo medesimo58. Altro mezzo d’assicurare la coltivazione delle terre imperiali e di quelle altre per le quali erano responsabili le città era trovare ricchi affittuari allettandoli con buone condizioni di fitto. Il miglior sistema era quello di trovar qualcuno che volontariamente volesse accingersi all’impresa, ma sembra che di tratto in tratto, specialmente nel caso delle città, si adoperasse in una forma o nell’altra la coercizione. Uomini e donne che amministrano vasti tratti di terreno compaiono frequentemente nel terzo secolo: essi sono allo stesso tempo proprietari di appezzamenti probabilmente comperati dallo Stato e affittuari di terre imperiali. Il più conosciuto è Alypius, la cui corrispondenza con Heroninus, suo fattore (frontisthv~) nel villagio di Thraso, è stata riportata alla luce nella scoperta di una parte dell’archivio di Heroninus fatta nelle rovine del villaggio di Theadelphia. Tra i corrispondenti di Heroninus vi erano anche altri ricchi e influenti possessori di ampie tenute, specialmente un Appiano, già exegetes ad Alessandria. È evidente che tutti costoro erano affittuari di ampi lotti di terreni pubblici, che impiantavano le loro intraprese su scala larghissima e probabilmente investivano nelle loro proprietà grandi somme di denaro. Disgraziatamente sappiamo pochissimo intorno alle loro relazioni con lo Stato, e non conosciamo neppure quali fossero le funzioni effettive di un frontisthv~. Sembra ch’esso non fosse un impiegato privato del grande possessore, ma un agente di nomina governativa, subordinato però al magnate ch’era responsabile verso l’amministrazione imperiale della terra affidatagli. Così pure non sappiamo per quanto tempo questi grandi affittuari e questi semi-funzionari conservassero rispettivamente la terra e l’ufficio. È possibile che quelli tenessero la terra col sistema di una specie di emphyteusis, cioè di fitto senza termine fisso (locatio perpetua), e che a poco a poco siano diventati effettivi proprietari delle vaste oujs ivai di cui si trova così frequente menzione in Egitto nel quarto secolo59. Tanto Alypius quanto Appiano erano persone influentissime, in relazioni strette con l’amministrazione del nomo e anche della provincia: abbiamo visto che avevano a loro disposizione la forza armata. D’altra parte, il tono delle
58. P. Oxy., 1662 (246 d.C.), 11: e{neka presbeiv⁄a~ peri; th`~ ejpiblhqeivsh~ ⁄ ejpibolh`~ tw`/ hJmetevrw/ ⁄ nomw`/ tou` iJerou` ajpotavktou, cf. 1187, 13-15, e 1630. Anche in Africa Filippo ripristinò i sistemi dei Severi, proteggendo la piccola proprietà, vd. S. GSELL, «Bull. arch. du Comité d. travaux histor.», 1909, p. 183 e J. CARCOPINO, «C. R. Acad. Inscr.», 1919, pp. 379 sgg. 59. Intorno alla corrispondenza di Heroninus vd. D. COMPARETTI, P. Flor. II, pp. 41 sgg.; cf. P. Ryl. II, pp. 236-40 e F. OERTEL, Die Liturgie, pp. 231 sgg. Non è facile decidere se Alypius, Appiano ecc. agissero in qualità di leitourgoiv assumendo coattivamente la responsabilità di vasti tratti di gh` oujs iakhv, o se, fidando nella propria influenza, abbiano voluto spontaneamente tentar la sorte aggiungendo alla loro proprietà privata frazioni di gh` oujs iakhv. Inclino a credere che nel sec. III la pressione governativa e l’iniziativa privata concorressero di pari passo alla formazione di grandi proprietà come quelle di Appiano, Alypius ecc. Cf. le mie Studien, pp. 198 sgg.; WILCKEN, Grundzüge, pp. 310 sgg. e 314 sgg.
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lettere da loro scritte ai dipendenti mostra chiaramente ch’erano abituati a dare ordini e ad essere obbediti. È da notarsi che la maggior parte della terra da loro coltivata era dello stesso tipo di quella posseduta da proprietari privati, e in gran parte constava di vigneti un tempo posseduti da privati. Quasi tutta l’economia dei grandi signori terrieri si fondava sulla viticoltura, ed è segno caratteristico dei tempi che nelle tenute di Alypius la valuta corrente era appunto il vino, mentre il denaro veniva adoperato pochissimo. Anche un paese economicamente così progredito come l’Egitto ritornava a poco a poco alle condizioni dell’economia naturale. Sembra che nel terzo secolo anche le altre grandi tenute fossero condotte alla stessa maniera, com’è dimostrato, per esempio da numerosi papiri d’Ossirinco che si riferiscono a singole porzioni delle vaste tenute di un certo Aurelio Sereno, alias Sarapion, che sembra aver operato tra il 270 e il 280 d.C. Non sappiamo se egli fosse affittuario di gh` oujs iakhv, ma certamente accrebbe le sue proprietà acquistando terra dallo Stato a prezzo nominale60; e sembra che si occupasse principalmente di vigneti e di frutteti. Anche talune ricche donne possedevano terre dello stesso tipo, come per esempio Claudia Isidora hJ ajxiologwtavth, alias Apia (intorno al 222 d.C.), e Aurelia Thermutharion, alias Herais (intorno al 261 d.C.)61. È manifesto adunque che
60. Circa i possedimenti di Aurelio Sereno (249-280 d.C.) vd. P. Oxy. 1209, 1276, 1558, 1631, 1633, 1646, 1689, 1763. Particolarmente importante è il n. 1633 (275 d.C.): Aurelio Sereno fa domanda di terreni invenduti dello Stato (l. 8: ajpo; ajpªravºtwn th`~ diªoikhvseº⁄w~ provteroªnº Sarapivwno~ ªtou`º Zwivlou, e presenta inoltre un altro offerente maggiore (un membro della sua stessa famiglia?). Inoltre si possono ingrandire le proprie tenute prendendo in fitto terreni da altri: nel P. Oxy. 1646 (268-9 d.C.) Aurelio Sereno affitta terre dagli eredi del veterano Vibio Publio, ajpo; ojffikialivwn ejpavrcou Aijguvptou, già bouleuthv~ di Alessandria. S’intende facilmente che persone ricche, attive e influenti si industriassero in tal guisa d’accrescere i loro possessi rurali. La parte più considerevole delle entrate di Sereno gli proveniva da vigneti e frutteti (P. Oxy. 1631, anno 280 d.C.). Il P. Oxy. 1631 è uno dei più importanti tra quei documenti che ci apprendono quanto fossero precise e minuziose le norme per la coltivazione metodica della vite e degli alberi da frutto; vd. l’introduzione a questo papiro e il commentario di B. Grenfell e mio. Cf. P. Oxy. 2153 (sec. III d.C.): rapporto fatto da Didymus all’«onorevolissimo Apollon», dei cui beni era amministratore, circa il bel raccolto d’uno dei suoi vigneti. 61. Cf. supra, p. 458. Claudia Isidora hJ ajxiologwtavth hJ kai; Apiva. P. Oxy., 919; 1578; 1046, 8; 1630; 1634; 1659 (214-22 d.C.). Il P. Oxy. 1630 fa supporre che le terre di CIaudia Isidora fossero coltivate con un sistema diverso da quello ch’era abituale nella gh` ijdiovkthto~ e simile a quello seguito nelle oujsivai statali. Probabilmente gran parte delle sue tenute era formata di gh` oujsiakhv. Vd. P. Oxy. 1630, introduzione. In tal caso Claudia Isidora sarebbe un altro esempio di quei ricchi e potenti proprietari agrari, che in Egitto coltivavano grandi estensioni di terre della corona. Aurelia Thermutarion hJ kai; ÔHraiv~: F. PREISIGKE, SB, 5126; C. WESSELY, Mitt. P. E. R., II, 33; per i particolari agricoli vd. P. Oxy. 1631. Nel III sec. si faceva in generale netta distinzione tra proprietari agrari e contadini, tra geou`coi o geucou`nte~ e kwmh`tai. P. Oxy. 1531 (sec. III, prima del 258 d.C.). e 1747 (dal III al IV sec. d.C.). Nel sec. IV sono tipiche in Egitto le grandi oujsivai enfiteutiche, WILCKEN, Grundzüge, pp. 316 sg.; cf. P. S. I. 820 (312 e 314 d.C.).
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in Egitto il terzo secolo fu un periodo opportuno per far valere certe qualità atte a metter pochi individui in condizione non soltanto di conservare le loro fortune, ma anche di accrescerle, mentre altri soffrivano le più grandi disavventure. Insieme con alcuni magnati alessandrini troviamo spesso dei membri della burocrazia militarizzata che si valgono delle occasioni offerte dalla loro posizione per acquistare e accrescere proprietà e così conseguire un posto eminente nell’aristocrazia provinciale. Abbiamo già menzionato alcuni di questi ex-soldati: si può aggiungere un certo Publio Vibio, già soldato e officialis del prefetto di Egitto, poi decurione di Alessandria e grande proprietario, i cui affari dopo la sua morte vennero curati nell’interesse dei suoi eredi da un pragmateuthv~ o actor (268-269 d.C.)62. Il quadro che abbiamo dato, per quanto incompleto, mostra all’evidenza il disordine e la miseria che dominarono in tutto l’Impero romano nel terzo secolo, e specialmente nella seconda metà di esso. Abbiamo tentato d’indicare le forze che a poco a poco precipitarono l’Impero in questo stato miserando, dovuto alla coincidenza della guerra civile in permanenza con fieri assalti di nemici esterni. Questo stato di cose fu peggiorato dalla politica di terrorismo e di coercizione seguita dal governo verso la popolazione, strumento l’esercito. La chiave per intendere la situazione è data adunque dal retto apprezzamento della contesa civile, che sola rendeva possibile le aggressioni dei circostanti nemici, indeboliva la capacità di resistenza dell’Impero, e obbligava gli imperatori a ricorrere, nei loro rapporti con la popolazione, ai mezzi del terrorismo e della costrizione, che a poco a poco si svolsero in un vero sistema amministrativo più o meno logicamente costruito. Nella politica degli imperatori non abbiamo potuto scorgere alcun disegno sistematico: essi non fecero altro che cedere alle pretese dell’esercito e alla necessità assoluta di conservare l’esistenza e l’unità dell’Impero. La maggior parte degli imperatori di questo torbido periodo non furono uomini ambiziosi disposti a sacrificare gli interessi della comunità alle loro personali aspirazioni; essi non desideravano il potere per se stesso e non erano nemmeno influenzati, come è stato suggerito di recente, dalla prospettiva di diventare proprietari delle tenute imperiali, che erano aumentate in misura considerevole con le confische attuate da Settimio Severo.
I migliori tra essi assunsero il governo soltanto perché costrettivi, e lo assunsero in parte per naturale istinto di conservazione, in parte per sacrificio volontario delle loro vite al nobile compito di conservare e tutelare l’Impero. Se gli imperatori trasformarono lo Stato secondo le su esposte direttive di livellamento generale ottenuto mediante l’annullamento della parte già tenuta nella vita dell’Impero dalle classi privilegiate e colte, mediante l’assoggettamento del popolo ad un crudele e folle sistema d’amministrazione fondato sul terrorismo e sulla costrizione, e mediante la creazione d’una nuova aristocrazia sorta dalle file dell’esercito; se questa politica a poco a poco creò uno Stato di schiavi con una piccola aristocrazia dominante capeggiata da un monarca autocratico, comandante di un esercito di mercenari e di una milizia levata coattivamente;
62.
Vd. nota 60.
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tutto questo avvenne non perché fosse l’ideale degli imperatori, ma perché era la via più facile per mantenere in moto le ruote dello Stato ed impedirne lo sfacelo finale. Ma questo scopo poteva conseguirsi soltanto se l’esercito prestava l’appoggio necessario: e manifestamente gli imperatori credevano di assicurarselo appunto con la loro politica. Se adunque non fu l’ambizione degli imperatori quella che spinse lo Stato sempre più vicino all’orlo della rovina e minacciò di distruggere i fondamenti effettivi dell’Impero, quale fu allora il vero motivo che spinse gli eserciti a mutare continuamente gli imperatori, a massacrare quelli testè proclamati, e a combattere contro i propri fratelli con una violenza di cui difficilmente si trova altro esempio nella storia dell’umanità? Quale fu la «psicosi di massa» che invase i soldati e li spinse sulla via della distruzione? Non è strano che siffatto squilibrio mentale abbia durato almeno mezzo secolo? La spiegazione consueta degli studiosi moderni è che le violente convulsioni del terzo secolo furono la concomitanza della naturale e necessaria trasformazione dello Stato romano in monarchia assoluta. La crisi, si dice, fu soltanto politica, e fu generata dalla brama degli imperatori di sopprimere politicamente il Senato e di trasformare in monarchia pura la diarchia augustea: per giungere a questa mèta gli imperatori si appoggiarono sull’esercito, lo corruppero, e causarono così lo stato di anarchia, che condusse allo stabilimento del dispotismo orientale del quarto secolo. Noi invece abbiamo cercato di dimostrare che tale spiegazione non regge al paragone dei fatti. Il Senato come tale non aveva più alcuna importanza politica già sotto la monarchia illuminata. Il suo prestigio sociale anche nell’esercito era ancor grande, perché esso rappresentava era il simbolo di Roma e della sua grandezza e rappresentava le classi colte e possidenti di tutto l’Impero, ma la sua diretta partecipazione agli affari dello Stato era scarsissima. Per fondare il sistema autocratico non v’era la minima necessità di attraversare un periodo di distruzione e d’anarchia. La monarchia era stata stabilita effettivamente dagli Antonini senza spargere una goccia di sangue. La lotta che si combattè nel secolo III non fu tra l’imperatore e il Senato. Sicché deve respingersi come non rispondente ai fatti la teoria secondo cui nel sec. III sarebbe stata combattuta una lotta sanguinosa tra gli imperatori e il Senato. Certamente la trasformazione del Principato in monarchia militare non rispondeva ai desideri del Senato, ma questo non era in grado di opporsi come forza politica agli imperatori. Tenendo conto di ciò, alcuni tra i più eminenti studiosi hanno cercato di spiegar la crisi per altra via, sempre però con cause politiche: essi pensano infatti che la crisi del terzo secolo sia sorta non tanto dall’opposizione attiva del Senato quanto dai rapporti esistenti tra gli imperatori e l’esercito. Il nuovo esercito della seconda metà del secolo terzo non era più l’esercito della cittadinanza romana, reclutato dall’Italia e dalle province romanizzate: gli elementi di cui esso si componeva erano provinciali poco o punto romanizzati e gente bellicosa arruolata oltre confine. Non appena quest’esercito – terminato il periodo degli Antonini – ebbe sperimentato la propria potenza, e si vide corrotto dagli imperatori con donativi, adulato, abituato alla corruzione, si sentì naturalmente padrone dello Stato e dettò legge agli imperatori. Le condizioni da esso imposte furo-
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no di natura in parte materiale, in parte, fino a un certo punto, politica: per esempio, i privilegi goduti dalle classi dominanti dovevano estendersi anche ai soldati. Poiché gli imperatori non seppero dare al loro potere un fondamento giuridico o religioso così evidente e luminoso da convincere immediatamente le masse e l’esercito, divenne sempre più manifesto ch’essi governavano soltanto per il favore dei soldati: ogni corpo di truppe si scelse il suo imperatore e lo considerò strumento della soddisfazione dei suoi desideri62a. Questa teoria, che spero d’aver formulata esattamente, indubbiamente aderisce meglio alla realtà dei fatti e in buona parte coincide anche con le vedute da me esposte in questo libro. Ho mostrato come gli imperatori romani si siano dati disperatamente alla ricerca d’una legittimazione del proprio potere. Sovrani come Vespasiano e specialmente Domiziano videro chiaramente che il principio dinastico della successione ereditaria, fondato sulla concezione orientale del carattere divino del potere imperiale e quindi sull’apoteosi dell’imperatore vivente, era molto più intelligibile alle masse che non la sottile e complicata teoria del Principato, quale era stata formulata da Augusto e propugnata poi dalla maggior parte dei suoi successori, principalmente dagli Antonini. Senonché la semplificazione propostasi da Domiziano non poteva essere accettata dalle classi dirigenti dell’Impero romano, in quanto significava pura e semplice negazione dell’idea della libertà, così amorosamente nutrita e accarezzata. Queste classi combatterono contro la trasformazione del Principato in aperta monarchia una lotta tenace, nella quale esse ebbero se non alleato l’esercito, composto di cittadini che condividevano in gran parte le loro vedute, almeno non avversario. Ne risultò che tra il potere imperiale da un lato, e le classi colte dell’Impero e il Senato rappresentante di esse dall’altro, si venne ad un compromesso, attuato dal governo degli Antonini. Allorché, alla fin del secolo II, fu compiuto l’imbarbarimento dell’esercito, questo non ebbe più la capacità di capire la fine teorica del Principato. L’esercito era invece disposto ad accettare la monarchia ereditaria stabilita da Settimio Severo, che con l’aiuto di esso potè soffocare senza difficoltà l’opposizione sorta contro questo suo procedimento. Fino a questo punto anch’io sono pienamente d’accordo con la teoria precedentemente esposta. In connessione con questa spiegazione è stato suggerito che la crisi fosse prodotta
62a. La teoria secondo cui la crisi del sec. III fu causata dalla lotta degli imperatori contro il Senato – o viceversa – è sostenuta da molti studiosi, tra cui G. FERRERO (vd. cap XII, nota 12) e fino a un certo punto L. HOMO nei suoi brillanti articoli e libri (vd. cap. X, note 4, 7, 10). Anche l’altra teoria, secondo cui la causa principale della crisi fu l’imbarbarimento dell’esercito e della classe dominante, trova molti difensori, p. es. H. DELBRUECK, Gesch. d. Kriegskunst, II, 19213, pp. 219 sgg. La medesima concezione hanno manifestato molti miei recensenti, e più efficacemente di tutti G. DE SANCTIS, «Riv. di filol.», 4 (1926). Cf. H.M.D. PARKER, A History of the Roman World from A.D. 138 to 357, London, 1935, pp. 163 sgg. e A. ALFOELDI, C. A. H. XII, 1939, pp. 138 sgg. Parker, ha sottolineato come seconda causa per l’anarchia del III secolo, in aggiunta al mutato stato d’animo dell’esercito, la crisi economica e la politica finanziaria del governo. Io ho sottolineato prima questo punto.
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dalla mancanza di disciplina, dallo spirito egoistico dell’esercito e dalla politica economica e finanziaria degli imperatori62b.
Ma qui cominciano le difficoltà. Come mai la dinastia dei Severi, una volta fondata e accettata di buona voglia dall’esercito e di malavoglia dai ceti colti, non ebbe alcuna consistenza? Come si spiega che i soldati abbiano trucidato Severo Alessandro e siano poi giunti ad uccidere e tradire gli imperatori da loro stessi eletti e a creare così quel caos politico, ch’espose l’Impero ai più gravi pericoli? Le perturbazioni incessanti dovevano avere una causa più profonda che non fosse la lotta per la monarchia ereditaria di diritto divino. Quest’ultimo scopo era stato già conseguito fin dal primo momento: perché adunque la lotta durò ancora altri cinquant’anni? Forse la cosa più prudente sarebbe accontentarsi di questa mezza spiegazione, come fanno la più parte degli storici. I dati che abbiamo sono scarsi; e la via più comoda è sempre quella del non liquet e dell’ignoramus. Nell’edizione inglese di questo libro io ebbi l’audacia di proporre una spiegazione, che si presenta in certo modo suffragata dalle nostre meschine fonti, e che, ove fosse accettabile, permetterebbe effettivamente di capire la crisi dell’Impero romano. Le cinque pagine da me dedicate a questa spiegazione hanno attirato l’attenzione della maggior parte dei critici, e molte pagine sono state scritte contro la mia «teoria»: non si è potuto addurre un solo fatto in contrario. Il motivo principale messo in opera per respingere la mia «teoria» è questo: che il corso dei miei pensieri abbia risentito l’influenza di ciò ch’è avvenuto nella Russia moderna. Senza entrare in discussioni intorno a questo punto, non vedo alcun motivo di rinunziare alla mia spiegazione solo perché io sia stato o no guidato ad essa dallo studio di avvenimenti consimili avveratisi nel corso posteriore della storia. Essa continua a soddisfarmi e si concilia, per quanto è a mia conoscenza, coi fatti62c. Secondo me avvenne che, terminata la lotta politica pro e contro la monarchia ereditaria, combattutasi tra gli imperatori spalleggiati dall’esercito e le classi colte, la medesima lotta fu poi combattuta sotto altre insegne. Non si tratta più ormai di scopi politici, ma della lotta tra l’esercito e le classi colte per la direzione dello Stato. Non sempre gli imperatori furono con l’esercito: anzi non pochi di essi tentarono di salvare il sistema di governo che la monarchia illuminata aveva fondato sulle classi colte; ma questi sforzi non approdarono a nulla, perché ogni concessione degli imperatori, ogni loro atto che significasse ritorno alle condizioni degli Antonini, incontrava la resistenza mezzo inconscia dell’esercito, e perché la borghesia non era più in grado di dare agli imperatori aiuto efficace.
62b.
Si veda ad esempio H.M.D. PARKER, A History of the Roman World from A.D. 138 to 357, London, 1935, pp. 163 sgg. 62c. Non posso elencare qui tutte le discussioni e le menzioni casuali del mio punto di vista che è stato accettato o respinto dai vari autori. Cf. le bibliografie al capitolo di A. ALFOELDI in C.A.H., XII e in F.M. HEICHELHEIM, Wirtschaftsgesch. d. Alt., p. 1123. Si veda anche N. BAYNES, The Decline of the Roman Power in Western Europe. Some modern Explanations, «J. R. S.», 33 (1943), pp. 28 sgg.
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Questo fu il vero significato delle guerre civili del terzo secolo. L’esercito combattè le classi privilegiate, e non cessò di combatterle finché esse non ebbero perduto ogni prestigio sociale e non giacquero impotenti e prostrate sotto il tallone della soldatesca semibarbara. Possiamo però affermare che la soldatesca abbia combattuto questa lotta col preciso proposito di creare una specie di tirannide o di dittatura dell’esercito sul resto della popolazione? Non vi è il minimo appiglio che avvalori siffatto punto di vista. Quello che si verificò fu un capovolgimento di tutti i valori, la cui meta finale può essere veduta da noi, ma non fu capita dai contemporanei, tanto meno poi dagli attori della terribile tragedia. Le forze motrici furono l’invidia e l’odio, e coloro che cercavano di distruggere il governo della classe borghese non avevano programma positivo. L’opera costruttiva venne poi fatta a poco a poco dagli imperatori, che sulle rovine di un ordine sociale distrutto edificarono bene o male quel che si poteva edificare, ma ben lontani dal seguire lo spirito dei distruttori. All’antica classe privilegiata se ne sostituì un’altra, e le masse, anziché trovarsi meglio di prima, diventarono molto più povere e misere. L’unica differenza fu che le file dei sofferenti e degli oppressi s’erano ingrossate, e che l’antica civiltà dell’Impero s’era dileguata per sempre. Se l’esercito operò da distruttore dell’ordine sociale esistente non fu già perché lo odiasse. La posizione dell’esercito era tutt’altro che cattiva anche sotto l’aspetto sociale, dacché esso costituiva il naturale semenzaio della borghesia municipale. Esso operò da vigoroso agente di distruzione e di livellamento perché alla fine del secolo secondo e per tutta la durata del terzo rappresentò quelle masse della popolazione, che poco partecipavano alla splendida civiltà dell’Impero. Abbiamo detto come l’esercito di Marco Aurelio e di Commodo fosse composto quasi interamente di contadini cioè della classe esclusa dai benefici della civiltà urbana, e come questa classe rurale costituisse la maggioranza della popolazione dell’Impero. Alcuni di questi contadini erano piccoli proprietari, altri «coloni», servi dei grandi signori oppure dello Stato: in complesso erano i sudditi, mentre i membri dell’aristocrazia urbana erano i dominatori. Formavano la classe degli humiliores in contrapposizione agli honestiores delle città, la classe dei dediticii in confronto coi borghesi delle città. Insomma, costituivano una classe speciale, che un profondo abisso separava dalle classi privilegiate; una classe che aveva il dovere di sorreggere l’elevata civiltà urbana col suo lavoro e coi suoi stenti, con le sue tasse e coi suoi canoni di fitto. Gli sforzi fatti dalla monarchia illuminata e dai Severi per elevare questa classe, per farne una borghesia di villaggio, per assimilarne alle classi privilegiate la più grande porzione possibile, e per fare al rimanente il miglior trattamento possibile, destarono nella mente degli humiliores la coscienza della loro umile posizione e rafforzarono la loro adesione agli imperatori. Ma questi non conseguirono lo scopo principale. In effetti, il potere della monarchia illuminata poggiava sulla borghesia cittadina, la quale non aveva alcuna voglia d’allargare le sue file indefinitamente e di dividere i suoi privilegi con forti masse di nuovi venuti. Il risultato fu che l’ottusa sottomissione, che per secoli aveva costituito il tipico stato d’animo degli humiliores, andò a poco a poco cedendo il passo all’acuto sentimento d’odio e d’invidia verso le classi privilegiate. Questi senti-
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menti naturalmente si riflettevano nelle file dell’esercito, composto ormai soltanto di contadini. Allorché, dopo l’usurpazione di Settimio Severo, l’esercito andò accorgendosi del suo potere e della sua influenza presso gli imperatori, e quando i Severi ripetutamente fecero mostra del loro consentimento coi soldati e della loro simpatia coi contadini, trattando invece duramente la borghesia delle città, l’esercito si abbandonò a mano a mano ai suoi sentimenti e cominciò ad esercitare sugli imperatori una pressione semi inconscia, reagendo violentemente contro le concessioni fatte da alcuni di essi alla classe odiata. La borghesia tentò di affermare la sua potenza e di salvare i suoi privilegi, e ne risultò di tratto in tratto la guerra aperta e il brutale sterminio della classe privilegiata. Esplosioni violente si ebbero dopo il regno di Alessandro, che sembra avesse accarezzato gli ideali della monarchia illuminata, e specialmente dopo il breve periodo di restaurazione seguito alla reazione di Massimino. Questa restaurazione appunto fu in ultima analisi la causa delle terribili calamità del regno di Gallieno; e la politica seguita per conseguenza da quest’ultimo imperatore e dalla maggior parte dei suoi successori mise definitivamente da parte l’idea di restaurare il dominio delle città e cercò di soddisfare i desideri dell’esercito contadinesco. Questa politica, sebbene dettata dalla disperazione, salvò almeno l’edificio dell’Impero. La vittoria dei contadini sulla borghesia urbana fu adunque completa, e sembrò cessato il periodo della dominazione della città sulla campagna. I successori di Gallieno costruirono su nuove basi un nuovo Stato, con ritorni solo accidentali agli ideali della monarchia illuminata. Certamente non è facile dar le prove della nostra tesi che l’antagonismo tra città e campagna sia stato la principale forza motrice della rivoluzione sociale del terzo secolo63 [S1]. Ma il lettore ripensi al quadro da noi dato della politica di Massimino, dello sterminio della borghesia cittadina da lui compiuto, dell’appoggio datogli dall’esercito contadinesco d’Africa contro gli agrari di
63. O. SEECK, Gesch. d. Unterg. d. ant. Welt, I, 2a ed., pp. 420 sgg. A quanto io so, questi è stato il primo studioso che abbia messo in rilievo il mutamento di umori avveratosi nel sec. III tra i contadini: egli indicò la causa di siffatto mutamento nella politica imperiale di stanziar barbari nell’Impero. Dubito assai che questo fattore abbia minimamente contribuito a causare l’accennato mutamento. Molte province dell’Impero non furono affatto toccate da stanziamenti barbarici, per es. l’Asia Minore, la Siria, l’Africa, la Spagna, e anche la maggior parte della Gallia. D’altra parte i barbari non avevano ancora una parte essenziale neppure nell’esercito: il grosso di quest’ultimo era composto di contadini levati nelle province tra l’antica popolazione. Ho quindi la convinzione che il cambiamento d’umori dei contadini sia stato causato non dall’infiltrazione di nuovo sangue, sibbene dalla politica degli imperatori del sec. II e degli inizi del III, e dal processo naturale che portava le masse dei contadini a un più elevato grado di civiltà. Per me è assolutamente indubbio che gli imperatori e gli uomini dirigenti del sec. III si siano perfettamente accorti del mutamento che andava compiendosi. Vedi DIO CASS., 52, 19, 6 (supposto discorso di Mecenate): w{ste kai; th`~ politeiva~ pa`s iv sfisi metadoqh`naiv fhmi dei`n, i{na kai; tauvth~ ijsomoirou`nte~ pistoi; suvmmacoi hJmi`n w\s in, w{sper tina; mivan th;n hJmetevran povlin oijkou`nte~: kai; tauvthn me;n o[ntw~ povlin ta; de; dh; sfevtera ajgrou;~ kai; kwvma~ nomivzonte~ ei\nai. È evidente che sotto Severo Alessandro i contadini delle province non vedevano in Roma la loro città.
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città; e ricordi gli scoppi violenti dell’anarchia militare dopo i regni di Pupieno e Balbino, di Gordiano III, di Filippo. Alcuni altri fatti attestano anch’essi l’antagonismo tra città e campagna. È notevole con quanta facilità i soldati potessero venire indotti a saccheggiare e massacrare nelle città dell’Impero romano. Abbiamo parlato della distruzione di Lione perpetrata dai soldati dopo la vittoria di Settimio Severo su Albino, dei massacri ordinati da Caracalla ad Alessandria, della richiesta fatta dai soldati ad Eliogabalo di poter saccheggiare Antiochia. Abbiamo accennato allo scoppio frequente della guerra civile tra la popolazione di Roma e i soldati. È tipica la sorte toccata a Bisanzio, che fu saccheggiata dalla sua stessa guarnigione ai tempi di Gallieno. Anche più caratteristica per lo stato d’animo sia dei contadini sia dei soldati è la distruzione di Augustodunum (Autun), avvenuta ai tempi di Tetrico e di Claudio (269 d.C.). Allorché questa città ebbe riconosciuto Claudio, Tetrico inviò contro i «ribelli» un distaccamento dei suoi soldati, coi quali s’unirono torme di briganti e di contadini. Essi tagliarono l’acquedotto e finalmente presero la fiorente città, distruggendola in maniera tale ch’essa non si riebbe mai più. In tal guisa le due più grandi creazioni del periodo dell’urbanizzazione della Gallia – Lione e Autun – furono ridotte a mucchi di rovine dalla rabbia dei soldati e dei contadini64. Una delle più ricche città dell’Asia Minore, Tyana, sotto Aureliano corse pericolo di subire la stessa sorte; fu salvata dall’imperatore, e sono interessanti le parole da lui adoperate per convincere i soldati ad astenersi dalla distruzione: «Noi andiamo combattendo una guerra per liberare queste città; se le saccheggiamo, esse non avranno più fiducia in noi. Andiamo alla ricerca delle spoglie dei barbari, e risparmiamo questi uomini come nostra propria gente». Evidentemente non era cosa facile convincere i soldati che le città dell’Impero non erano le loro nemiche65. I soldati si comportavano con esse in modo non molto diverso dai saccheggiatori gotici, come ce li descrive Pietro Patrizio, le cui parole senza dubbio rispecchiano i sentimenti di non pochi soldati romani: «Gli Sciti deridevano coloro che si tappavano nelle città, dicendo:«essi vivono non da uomini ma da uccelli appollaiati sui loro nidi; lasciano la terra che li nutrisce e preferiscono sterili città; pongono la loro fiducia in cose inanimate anziché in se stessi»66.
64. I dati relativi a quest’episodio sono riuniti e brillantemente illustrati da C. JULLIAN, Hist. de la Gaule, IV, pp. 587 sgg. 65. PETR. PATR., fr. 10, 4 (DIO CASS., ed. Boissevain, vol. III, p. 746, 176). Aureliano promise ai soldati, che, se prendeva la città di Tyana, non vi avrebbe lasciato vivo neppure un cane. Presa la città, fece ammazzare tutti i cani, kai; meta; tau`ta sugkalevsa~ aujtou;~ ei\pe o{ti «hJmei`~ uJpe;r tou` ejleuqerw`sai ta;~ povlei~ tauvta~ polemou`men: kai; eja;n mevllwmen praideuvein aujta;~, oujkevti hJmi`n pisteuvousin: ajlla; ma`llon th;n prai`dan tw`n barbavrwn zhthvswmen kai; touvtwn wJ~ hJmetevrwn feiswvmeqa». 66. PETR. PATR., fr. 9, 2 (DIO CASS., ed. Boissevain, vol. III, p. 745, 170): o{ti oiJ Skuvqai pro;~ tou;~ ejn povlei ejgkekleismevnou~ ajpevskwpton, o{ti ou\toi oujk ajnqrwvpinon bivon zw`s in, ajll j ojrnivqwn ejn kaliai`~ eij~ to; u{yo~ kaqhmevnwn kai; o{ti katalipovnte~ th;n gh`n th;n trevfousan aujtou;~ ajkavrpou~ povlei~ ejpilevgontai kai; o{ti toi`~ ajyuvcoi~ qarrou`s i ma`llon h[per aujtoi`~.
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Abbiamo più volte messo in rilievo anche le intime relazioni esistenti tra i contadini e i soldati. Per il tramite appunto di soldati i contadini presentavano le loro petizioni all’imperatore così nei tempi di Commodo e di Settimio Severo come in quelli di Filippo e di Gordiano. Infatti la maggior parte dei soldati non conoscevano né capivano le città, e conservavano invece le loro relazioni coi villaggi nativi; questi riguardavano i loro soldati come naturali patroni e protettori, e consideravano l’imperatore come imperatore loro e non delle città. Nei capitoli sesto e settimo abbiamo esposto la parte importante che nel secolo terzo soldati ed ex-soldati avevano nella vita dei villaggi balcanici e siriaci, nei paesi cioè di liberi contadini possessores in contrapposizione coi paesi di affittuari o coloni, e abbiamo rilevato che essi costituivano la vera aristocrazia dei villaggi ed erano intermediari tra i villaggi medesimi e le autorità amministrative. Abbiamo mostrato quanto larga fosse nello stesso secolo l’infiltrazione di antichi soldati nelle parti rurali dell’Africa; e descrivendo le condizioni dell’Egitto nello stesso periodo abbiamo più volte richiamato l’attenzione sulla parte importante che nella vita economica del paese avevano operosi soldati in congedo. Tutto questo vale a dimostrare che mai restavano spezzati i legami tra i villaggi e l’esercito, e ch’era cosa affatto naturale che questo condividesse le aspirazioni della campagna e considerasse estranei e nemici gli abitatori delle città. Benché alla fine del secolo quarto le condizioni generali fossero mutate, i rapporti tra l’esercito e i villaggi rimanevano esattamente gli stessi che nel secolo precedente. Le città continuavano ad esistere, e dell’aristocrazia municipale continuava a valersi il governo per riscuotere le imposte ed esigere lavoro coattivo dagli abitanti dei villaggi: non è dunque strano che, anche quando le città avevano ormai perduto quasi completamente l’antica importanza politica e sociale, non fossero mutati i sentimenti dei contadini verso di esse. I villaggi consideravano ancora le città come centri del loro sfruttamento e della loro oppressione: e questi sentimenti si manifestano incidentalmente negli scrittori del quarto secolo, sia dell’Occidente (specialmente in Africa), sia, principalmente, dell’Oriente [SS 2-5]. Abbiamo a questo proposito notizie insolitamente copiose per la Siria, e specialmente per i dintorni di Antiochia, grazie a Libanio e a Giovanni Crisostomo. Uno dei temi principali che ricorrono in entrambi questi scrittori è infatti quello dell’antagonismo tra città e campagna. In questa lotta perpetua il governo non segue alcuna politica precisa, ma i soldati si schierano a lato dei contadini contro i pezzi grossi delle città. Le simpatie dei soldati sono sufficientemente messe in luce da un celebre passo dell’orazione di Libanio de patrociniis, dove si descrive l’appoggio ch’essi dànno a certi grandi villaggi abitati da contadini liberi, gli eccessi cui s’abbandonano i membri di questi villaggi, la situazione miserabile dell’aristocrazia cittadina, che non riusciva a riscuotere alcuna imposta dai contadini ed era maltrattata tanto da questi quanto dai soldati. Libanio, ch’era anch’egli cittadino e grande proprietario di terre, dovette sperimentare personalmente le sconfortanti conseguenze di questa cordiale intesa tra contadini e soldati. I coloni di una delle sue tenute, situata forse in Giudea, per quattro generazioni non avevano mostrato il minimo segno d’insubordinazione; ma ora diventavano irrequieti, e con l’aiuto di un alto ufficiale loro patrono cercavano d’imporre al proprietario le proprie condizioni di lavoro. Naturalmente Libanio è pieno di risenti-
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mento e d’amarezza contro soldati e ufficiali. D’altra parte, l’appoggio dato dai militari ai villaggi non può attribuirsi soltanto ad avidità. I soldati stanziati nelle province continuavano ad essere anch’essi contadini, e la stessa origine avevano i loro ufficiali: avevano dunque reale simpatia per i contadini ed inclinavano a sostenerli contro gli spregiati abitanti delle città67. Anche in Egitto possono trovarsi prove sporadiche dell’aspro antagonismo tra i contadini e gli agrari delle città. In un caratteristico documento del 320 d.C., un magnate della città di Hermupolis, il ginnasiarca e membro del Consiglio municipale Aurelius Adelphius, presenta un reclamo allo stratego del nomo. Egli era affittavolo ereditario (ejmfuteuthv~)* di gh` oujs iakhv: aveva ereditato la sua tenuta dal padre e l’aveva coltivata per tutta la vita, aveva investito denaro nella terra e ne aveva migliorato la coltivazione. Venuto il tempo della raccolta, i contadini del villaggio entro il cui territorio era posta la tenuta, «con la solita insolenza degli uomini dei villaggi» (kwmhtikh`/ aujqadiva/ crhsavmenoi), tentarono d’impedirgli di cogliere la messe. L’espressione citata mostra quanto fosse acuto l’antagonismo tra città e campagna; non è improbabile che l’«insolenza» dei contadini debba spiegarsi con la loro speranza di qualche appoggio esterno. Può essere ch’essi avessero ragione, che il proprietario fosse un usurpatore che li avesse privati di appezzamenti soliti a coltivarsi da loro; ma il punto essenziale rivelato da questo fatto è la radicata mutua ostilità tra contadini e proprietari68. Per me adunque è fuori dubbio che la crisi del terzo secolo sia stata di natura non soltanto politica ma anche e in forte misura sociale. La borghesia cittadina a poco a poco s’era sostituita all’aristocrazia dei cittadini romani e dal suo seno si reclutava per lo più la classe senatoriale ed equestre: a sua volta essa
67. LIB., de patrociniis (Or. 47, III pp. 404 sgg. Foerster). Un’eccellente analisi di quest’orazione è data da F. DE ZULUETA, De patrociniis vicorum, negli «Oxford Studies in Social and Legal History» di P. Vinogradov, I, 1909, pp. 28 sgg. Purtroppo però quest’autore non ha rivolto maggiore attenzione ai primi undici capitoli del discorso, nei quali vien descritto un tipo speciale di patrocinium: non quello d’un potente ufficiale, come nel caso dello stesso Libanio, ma quello di un intiero distaccamento di soldati. La circostanza che i patroni dei villaggi erano per la massima parte ufficiali dell’esercito si spiega non soltanto con la posizione importante che i titolari dei posti militari di comando avevano nelle province, ma anche con l’inclinazione dei contadini a cercar protezione in coloro dai quali si attendevano simpatia. Ricordo nuovamente al lettore la fedeltà e devozione che nelle province gli abitanti dei villaggi mostravano verso i loro compaesani che avevano fatto fortuna e che ormai erano i loro protettori naturali. Intorno ai patrocinia vicorum vd. F. MARTROYE, Les Patronages d’agriculteurs et de vici, «Rev. hist. du droit fr. et étr.», 1928, pp. 201 sgg. (parlando dell’Egitto l’autore trascura i dati papirologici). *. Cf. pp. 732 e 779. 68. F. PREISIGKE, P. Cairo, 4; WILCKEN, Chrest., 379 (320 d.C.); cf. IDEM, Grundzüge, p. 311. La recisa distinzione tra geou`coi e kwmh`tai (alla quale ho già accennato nella nota 61) mise capo alla divisione della popolazione in due classi o caste. Nel sec. III molti geou`coi decaddero e divennero kwmh`tai, ma difficilmente un kwmhvth~ sarà mai diventato geou`co~ se non passando per l’esercito.
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veniva ora assalita dalle masse dei contadini. In entrambi i casi il processo fu svolto dall’esercito sotto la guida degli imperatori. Il primo atto di esso si chiuse con la breve ma sanguinosa rivoluzione degli anni 67-69 d.C., ma non attaccò le fondamenta della prosperità dell’Impero, dacché il mutamento non fu radicale. Il secondo atto, di portata molto più vasta, dette inizio alla lunga e calamitosa crisi del terzo secolo. Terminò questa con la vittoria completa dei contadini sulla borghesia cittadina e con la creazione di un ordine di cose affatto nuovo? Non v’ha dubbio che la borghesia cittadina, come tale, sia stata disfatta ed abbia perduto l’influenza esercitata nel secolo secondo per il tramite del Senato. Ma non disparve. La nuova burocrazia dominante ben presto strinse intime relazioni coi residui di quella classe, di cui lo strato più vigoroso e ricco continuò a costituire un elemento importante dell’aristocrazia imperiale. Quella che stava per dileguarsi era la classe media, gli attivi ed accorti cittadini delle mille città dell’Impero, che avevano costituito l’anello di congiunzione tra le classi inferiori e le superiori. Di questa classe media sentiamo parlare assai poco dopo la catastrofe del terzo secolo, salvo per la parte che i suoi membri, in qualità di curiales delle città, avevano nella riscossione delle imposte per conto del governo imperiale. Essa divenne sempre più oppressa e sempre meno numerosa. Mentre la borghesia soggiaceva al descritto mutamento, si può dire che le condizioni dei contadini divenissero migliori per effetto della loro temporanea vittoria? Senza ombra di dubbio si può affermare che allo stringer dei conti non vi fu alcun vincitore nella terribile guerra di classi di questo secolo. Se la borghesia soffrì terribilmente, i contadini dal canto loro non guadagnarono nulla. Chiunque legga le già ricordate lagnanze dei contadini dell’Asia Minore e della Tracia, o le orazioni di Libanio e i sermoni di Giovanni Crisostomo e di Salviano, o magari le constitutiones dei codici di Teodosio e di Giustiniano, si accorge che nel secolo quarto i contadini stavano molto peggio che nel secondo. Questo movimento, iniziato dall’invidia e dall’odio, svoltosi tra i massacri e la distruzione, mise capo a tale depressione degli spiriti che una quale che fosse condizione stabile sembrò a tutti preferibile all’anarchia senza fine. Le popolazioni quindi accettarono di buon grado la stabilità creata da Diocleziano, sebbene essa non significasse per nulla miglioramento delle condizioni della massa della popolazione dell’Impero.
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SCHEDA 1 La via più semplice sarebbe quella di convenire con le spiegazioni della crisi avanzate dagli studiosi menzionati prima. Esse sono ragionevoli e spiegano molto di quanto caratterizza la sostanza e lo sviluppo della crisi. Ma esse non spiegano il più importante fenomeno dell’epoca, il suo fondamento psicologico. Per questo io nella prima edizione del mio libro ebbi l’audacia di sottolineare quest’ultimo punto e di analizzare la psicologia di massa dell’epoca che, a mio modo di vedere, era un fattore importante nello sviluppo della crisi. Le cinque pagine ad essa dedicate nella prima edizione del mio libro sono state discusse più volte e criticate e in genere la mia analisi è stata respinta. Nessun fatto rilevante e nessuna obiezione reale alla mia «teoria» è stata prodotta in questa discussione, se si eccettua l’illazione secondo cui la mia analisi rappresenterebbe un’inaccettabile modernizzazione della storia dell’Impero romano in questo cruciale periodo della sua vita a causa dell’influenza esercitata su di me di quanto è accaduto ai giorni nostri in Russia. Sono stato accusato di postulare per l’Impero romano del III secolo una «rivoluzione bolscevica», cosa che ovviamente non ho mai fatto. Certamente la nostra documentazione è molto lacunosa e ambigua. Può essere interpretata in vari modi. Dunque per quel che riguarda la psicologia della popolazione dell’Impero romano nel III secolo non si può invocare altro se non un criterio di probabilità. Dopo attenta riconsiderazione dei pochi fatti noti e delle loro interpretazioni moderne non ho troavato ragione per abbandonare la mia interpretazione e la ripeto nelle pagine che seguono in una forma leggermente modificata. I continui attacchi dei barbari, in parte coronati da successo, contro l’Impero romano e i graduali mutamenti costituzionali, militari, finanziari, economici e sociali nella sua struttura così come sono stati esposti prima produssero una crisi psicologica nella popolazione dell’Impero romano. La ferma convinzione nella stabilità delle condizioni create dal periodo di pace e di prosperità dell’alto Impero strava declinando. Pochi individui erano soddisfatti delle condizioni in cui vivevano. Disordine e sensazione di insicurezza divennero i caratteri psicologici prevalenti dell’epoca. Le classi superiori non facevano eccezione a questo. Tuttavia, dal momento che il peso maggiore dell’oppressione, le richieste più gravose da parte dello Stato gravavano soprattutto sulle classi inferiori, era tra di loro che il sentimento di insicurezza stava crescendo più rapidamente che non tra le classi privilegiate. Il risultato fu che il tranquillo e apparentemente appagato stato d’animo delle classi inferiori si trasformò gradualmente in crescente risentimento. Non era diretto contro gli imperatori o il senato ma verso coloro che, negli occhi delle classi inferiori, erano responsabili per le condizioni insoddisfacenti della loro vita: l’amministrazione, i soldati, in quanto strumento nelle mani del governo e in ispecie della borghesia cittadina, la quale era in costante contatto con le classi inferiori nelle sue vesti di agente del governo in materia di tassazione, lavoro coatto, direquisizioni e di esazione. Dal momento che la maggioranza dei membri delle classi lavoratrici vivevano in campagna, il loro risentimento era diretto contro le città, dove la borghesia viveva apparentemente in un’opulenza e in un lusso tanto diversi dai generi di conforto che si potevano trovare nelle loro fattorie e nei loro villaggi. Questo risentimento era passivo e
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attivo. Tumulti come espressione di resistenza attiva del proletariato cittadino così come vere e proprie rivolte dei contadini erano eccezionali. Tuttavia risentimento e insoddisfazione divennero il supporto alla psicologia delle classi inferiori. Essi diedero sfogo ad esso di tanto in tano in tanto nelle loro petizioni ai loro protettori, gli imperatori. Tuttavia una parte delle classi inferiori, quelle che avevano prestato servizio nell’esercito, nella maggioranza ex-contadini, hanno giocato nella vita dell’Impero romano un ruolo attivo e non passivo. L’esercito era ora il principale sostegno degli imperatori. I soldati lo sapevano e agivano di conseguenza. Essi usavano il loro potere soprattutto per il loro tornaconto personale e in una maniera anarchica ma in uno spirito che era congeniale allo stato d’animo delle classi inferiori cui originariamente appartenevano. Il loro risentimento era diretto non contro gli imperatori – e neppure contro il senato che rimaneva ai loro occhi il simbolo della grandezza di Roma – ma contro le classi privilegiate della popolazione e, in primo luogo, contro la borghesia cittadina. In effetti la storia del III secolo mostra che l’esercito era un docile strumento nelle mani degli imperatori sino a che la loro attività era indirizzata ad incrementare il prestigio e a tutelare l’ambizione dell’esercito stesso ed essi trattavano con durezza la borghesia cittadina. Ad ogni modo, non appena alcuni degli imperatori tornarono, nella loro politica generale, alle tradizioni degli Antonini, persero il sostegno dell’esercito e furono sostituiti da altri che, agli occhi dei soldati, erano i loro imperatori, vale a dire provenivano dalle loro fila e condividevano i loro sentimenti. Il soldato dell’esercito ovviamente non ha mai avuto un programma politico positivo. Essi non hanno mai aspirato a creare una nuova forma di governo, ancor meno un nuovo ordine sociale. I loro atti erano caotici e distruttivi. Guidati da sentimenti elementari, agendo in un’atmosfera di oppressione e di concomitante disordine e di acuto risentimento contro le condizioni esistenti, l’esercito realizzò compiutamente l’opera di distruzione. L’opera di ricostruzione e di salvataggio dell’Impero romano fu compiuta – talvolta con l’aiuto dell’esercito – da parte di singoli imperatori. Fu fatta a tappe successive, a singhiozzo, a seconda delle necessità urgenti dello Stato, e con poco riguardo per lo stato d’animo dell’esercito e delle classi inferiori. È dubbio che la maggior parte degli imperatori ne fossero molto informati. Il risultato fu che la riforma dell’Impero romano intrapresa dagli imperatori più eminenti del III secolo non migliorò la condizione delle classi inferiori. Ad una classe di governo ne fu sostituita un’altra: le masse divvenero più povere e più miserabili di prima. L’unico risultato nella sfera della vita sociale e culturale fu che la parte più attiva e più creativa della popolazione dell’Impero romano – la borghesia cittadina – fu rovinata e umiliata. Il ritmo della sua attività creativa, per quanto lento fosse nel periodo della stagnazione del III sec. d.C., divenne ancora più lento. L’attività fu sostituita dalla rassegnazione, dalla passività e da inerte sottomissione. Le fondamenta della civilità antica furono così minate e in parte distrutte. Perciò a mio modo di vedere la crisi del III secolo fu una conseguenza naturale delle condizioni create dall’evoluzione generale dell’Impero romano. I suoi esiti più funesti erano in gran parte dovuti non solo a condizioni economiche,
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finanziarie e politiche ma anche a un profondo cambiamento nella psicologia che si manifestò nell’esercito nel periodo acuto della crisi e che portò alla passività e alla sottomissione nel periodo di ristabilimento della pace. Quanto avvenne naturalmente non fu una rivoluzione sociale basata su una qualsiasi teoria o su un programma, come la rivoluzione bolscevica in Russia. Ma lo sfondo della crisi caotica del III secolo a Roma era il medesimo di quello della rivoluzione bolscevica in Russia e di molte altre rivoluzioni simili: un sentimento generale di profondo scontento e di insoddisfazione specialmente delle classi più basse.
SCHEDA 2 SENTIMENTI ANTIROMANI IN MESOPOTAMIA Graffito di Dura, casa di Nabuchelos: Pevrsh~ katevbh ef j uJma`~ (?) 238 A.D. Il testo fa riferimento alla prima spedizione di Ardashir e si spiegherebbe come reazione alla pressione delle tasse e delle requisizioni militari.
SCHEDA 3 SENTIMENTI ANTIROMANI IN SIRIA La prima invasione della Siria da parte di Sapore (Trebonianus Gallus), 232-33 d.C. in ORAC. SIB., XIII, 110 sgg.: aujtivka dh; Persw`n ejpanavstasi~ ajlfhsthvrwn, ⁄
ÔRwmaivou~ d j ojlevsousi Suvroi Pevrsh/s i migevnte~:⁄ ajll j ouj nikhvsousi o{mw~ qeokravntori boulh`./ ⁄ ai\, oJpovsoi feuvxontai ajp j anj tolivh~ gegaw`te~ ⁄ su;n kteavtessin eJoi`sin ej~ ajlloqrovou~ ajnqrwvpou~:⁄ ai\, oJpovswn ajndrw`n pivetai cqw;n ai|ma kelainovn:⁄ e[stai ga;r crovno~ ou|to~, ejn w|/ pote toi`~ teqnew`sin ⁄ oiJ zw`nte~ makarismo;n ajpo; stomavtwn ejnevponte~ ⁄ fqevgxontai kalo;n to; qanei`n kai; feuvxet j ajp j aujtw`n. Il testo indica che i Siriani diedero il loro sostegno ai Persiani. Oppressi dal duro governo di Filippo, essi mostrarono già il loro stato d’animo sostenendo Giotapiano. Ora essi sostenevano Mareades. Dal quadro generale della Siria durante l’invasione, in ORAC. SIB., XIII, 113 sgg., si evince che i sostenitori di Sapore e Mareades non erano i ricchi ma i contadini e le classi più umili di Antiochia. Cf. il quadro della presa di Antiochia da parte dell’ANONIM. POST DIONEM, fr. 1 (F. H. G. IV, 192): quando Sapore e Mareades si accamparono nei pressi della città, i saggi fuggirono e la maggioranza rimase, alcuni come amici di Mareades, altri erano dilettati dalla prospettiva delle «nuove cose», naturalmente le classi inferiori.
SCHEDA 4 VALERIANO AD ANTIOCHIA POST DIONEM: o{t i oJ tw`n Persw`n basileu;~ meta; Mariavdnou pro; th`~ povlew~ ∆Antioceiva~ wJ~ ei[kosi stadivou~ stratopedeuvetai. kai; oiJ me;n frovnimoi e[fugon th`~ povlew~, to; de; polu; plh`qo~ e[meinen, tou`to me;n fivloi o[nte~ tw`/ Mariavdnw/, tou`to de; kai; toi`~ kainismoi`~ caivronte~, o{per uJpo; ajnoiva~ pavscein eijwqv asi.
FHG IV, 192, ANONIM.
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Cf. AMM. MARC., XXIII, 5, 4; MALAL., XII, p. 295 (ed. Bonn.); LIB., Or. 6, p. 185 B; ZOS., III, 32, 8; SCR. HIST. AUG., Trig. tyr., 2; ZON. XII, 23, p. 594 (ed. Bonn); PETR. PATR., fr. 10 (F. H. G. IV, 187) Odenato e la sua offerta di alleanza e di doni al re Sapore nella prima campagna. Nisibi, così come descritto da ZOS., I, 39, fu presa e distrutta da Odenato dopo la sua campagna; in precedenza era stata presa da Sapore. Questo sentimento antiromano è illustrato dal graffito dell’età di Ardashir (238 d.C.) trovato nella casa di Nabuchelos.
SCHEDA 5 GIOTAPIANO. MALCONTENTO DELLA SIRIA Nella Siria negli ultimi anni di Filippo e nel turbolento periodo dopo la morte di Filippo serpeggiava un diffuso malcontento, alimentato dalla pressione delle esazioni dei governatori. Non c’è quindi da stupirsi del fatto che siano comparsi imperatori rivali uno dopo l’altro, in primo luogo Giotapiano, la cui storia è poco conosciuta, forse una creazione di Antiochia (ORAC. SIB., XIII, vv. 59-64):
tlhvmwn ∆Antiovceia, se; d j ouj leivyei baru;~ “Arh~ ⁄ ∆Assurivou polevmoio ejpeigomevnou peri; sei`o:⁄ soi`~ ga;r ejni; melavqroisi katoikhvsei provmo~ ajndrw`n, ⁄ o}~ Pevrsa~ me;n a{panta~ oijstobovlou~ polemhvsei, ⁄ aujto;~ ªoJº ÔRwmaivwn gegaw;~ basileivdo~ ajrch`~. Sembra che negli ultimi anni di Filippo una nuova invasione di Persiani minacciasse la Siria. Apparentemente Prisco non era capace di proteggere Antiochia ed era in queste circostanze che Giotapiano, come Uranio Antonino ad Emesa, si proclamò imperatore e combattè con successo contro i Persiani. ZOS. I, 20, 2: pollw`n de; kata; taujto;n ejmpesousw`n taracw`n toi`~ pravgmasi, ta; me;n kata; th;n eJwv/an tai`~ tw`n fovrwn eijspravxesi kai; tw`/ Privskon, a[rcein tw`n ejkei`se kaqestamevnwn ejqnw`n, ajfovrhton a{pasin ei\nai barunovmena, kai; dia; tou`to pro;~ to; newterivzein trapevnta, ∆Iwtapiano;n parhvgagon eiJ~ th;n tw`n o{lwn ajrchvn, ta; de; Musw`n tavgmata kai; Paiovnwn Mari`non. AUR.VICT., Caes., 29, 2: Et interea ad eum Iotapiani, qui Alexandri tumens stirpe per Syriam tentans nova, militum arbitrio occubuerat, ora, uti mos est, inopinato deferuntur, simulque per eos dies Lucio Prisco, qui Macedonas praesidiatu regebat, delata dominatione, Gothorum concursu, postquam, direptis Thraciae plerisque, illo pervenerant. Subito dopo Giotapiano comparve un altro pretendente, Mereades (Cyriades): SCR. HIST. AUG., Trig. tyr., 2; AMM. MARC., XXIII, 5, 4; MALAL., XII p. 295 (ed. Bonn.); ORAC. SIB., XIII 89 sgg. (ejnq j oJpovtan dolovmhti~ ajnh;r ejpi; klivnh~ e[lqh/, ⁄ lh/sth;~ ejk Surivh~ profaneiv~, ÔRwmai`o~ a[dhlo~). Mereades è descritto come invasore della Cappadocia e, dalla Cappadocia, della Siria e in seguito costretto a fuggire in Persia. Le notizie su di lui sono contraddittorie. Sembra che sia stato esiliato da Antiochia o che fuggì da questa città perché approfittò del suo incarico di acquistare orsi per i giochi di un sena-
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tore sottraendo del denaro pubblico. Entrò in contatto con i Persiani, organizzò tra gli scontenti in Siria un esercito, invase la Cappadocia e saccheggiò Tiana, si rivolse alla Siria e forse si impadronì della città con l’aiuto dei suoi (se la lezione tradita è corretta), ma fu cacciato dai Romani, per quanto sembra che in Cappadocia fosse aiutato da Ormisda, figlio di Sapore. Quasi certamente si proclamò imperatore come Giotapiano. Questi tuttavia, chiamato a difendere la Siria contro i Persiani, fu sostenuto da quanti ritenevano che il governo persiano sarebbe stato meglio di quello romano. Poco diverso è il caso di Uranius Antoninus che, come principe nativo di Emesa, rappresenta la reazione contro il governo romano delle città per metà indipendenti della Siria e della Mesopotamia, come Odenato a Palmira.
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Alla fine del secolo terzo, dopo ostinata e sanguinosa guerra civile in cui i contrasti sociali si erano manifestati con asprezza implacabile, le condizioni generali erano molto simili a quelle che si erano avute al termine delle guerre civili del secolo I a.C. La popolazione, compresa buona parte degli stessi soldati, era stanca e disgustata e sospirava la pace e l’ordine; l’ardore di lotta di larghi gruppi della popolazione era scomparso, e ognuno era disposto ad accettare o a sopportare una condizione qualsiasi che garantisse almeno la sicurezza della vita e la possibilità di riprendere l’opera quotidiana senza il perpetuo timore d’una nuova convulsione, d’una nuova ondata di guerra e di distruzione. Ma l’Impero romano del terzo secolo d.C. era assai diverso da quello del primo secolo. La guerra civile del primo secolo era stata in ultima analisi una lotta contro il dominio d’un piccolo gruppo di famiglie e un tentativo di rimodellare la struttura dello Stato in armonia con le mutate condizioni della sua vita, di adattare la costituzione della città-Stato di Roma ai bisogni dell’Impero romano. Dopo un periodo di transizione inaugurato dalle riforme di Augusto – periodo in cui la lotta contro l’antica classe senatoria, rappresentante le antiche famiglie dominanti di Roma, condusse ad una nuova e omogenea struttura dello Stato, a poco a poco consolidata e accettata dalla popolazione (come apparve nella crisi del 69) – l’Impero costituzionale di Roma, fondato sulle città e sulla loro borghesia, fruì un periodo di calma e di pacifico sviluppo. La guerra civile e la sua inevitabile compagna, la tirannide militare, non avevano colpito le forze più vitali dell’Impero e del mondo antico in generale. Rimase intatta l’istituzione più importante del mondo antico, alla sorte della quale era legata quella di tutta la civiltà antica: voglio dire la città-Stato. Parve che dopo lunghi sforzi si fosse finalmente trovata una sistemazione costituzionale, per effetto della quale la città-Stato divenne fondamento dell’Impero mondiale. Questa sistemazione fu la monarchia costituzionale illuminata, assistita da un influente e ben preparato corpo di esperti, il Senato romano e i cavalieri romani, e da migliaia di corpi consimili sparsi per tutto l’Impero, i Consigli municipali. Finché l’Impero non dovette affrontare gravi pericoli esterni, finché durò nei popoli limitrofi il reverente timore inspirato dalle armi romane, dagli ordinamenti romani, dall’antica civiltà, l’edificio del nuovo Stato romano
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rimase saldo. Non appena, però, questo sentimento di rispettoso timore andò a mano a mano svanendo e i vicini di Roma presero a rinnovare i loro assalti, la struttura dello Stato cominciò a mostrare segni pericolosi di cedimento. Divenne evidente che l’Impero, sorretto soltanto dalle classi possidenti, non poteva sostenere l’urto di guerre esterne, e che per mantenere l’edificio dritto e saldo occorreva allargarne le fondamenta. La borghesia cittadina, la cui vita economica si era appoggiata per secoli al lavoro e agli stenti delle classi inferiori, specialmente della classe lavoratrice del suolo, mostrò di non avere né la volontà né la capacità di difender l’Impero contro i nemici esterni. Riuscirono vani i tentativi di ravvivare la borghesia, di accrescerne il numero, di risvegliarne lo spirito militare, che furon fatti da tutti gli imperatori dei primi due secoli. Per difender lo Stato gli imperatori si videro costretti a ricorrere a quegli stessi lavoratori della terra, sui quali riposava la prosperità economica dell’Impero, e ai quali ogni fatica e stento non arrecava mai il beneficio di partecipare in modo alcuno né alla vita civile delle città né alla gestione degli affari locali. L’esercito romano diventò a mano a mano esercito di contadini, guidato e comandato da membri della classe dominante; anzi un esercito composto dei più poveri tra i contadini, da contadini proletari, in quanto questi erano gli unici che si presentassero volontari o fossero presentati dalle comunità di villaggio allorché veniva indetta una leva obbligatoria. Rispetto alla composizione sociale (non alla razza e alle condizioni politiche) l’esercito della seconda metà del sec. III non era dunque diverso da quelli di Mario e di Silla, di Pompeo e di Cesare, di Antonio e di Ottaviano. Era quindi inevitabile che infine quest’esercito diventasse il rappresentante delle aspirazioni delle classi inferiori dell’Impero, come gli eserciti del primo secolo a.C. avevano espresso i desideri dei più poveri cittadini romani d’Italia. Gli strumenti dei quali esso cercò di servirsi a tal fine furono naturalmente i suoi capi, gli imperatori, ch’esso nominava e sosteneva. Poiché le sue aspirazioni non furono mai formulate chiaramente e il suo programma – se così possono chiamarsi i desideri imprecisi dei soldati – era più negativo che positivo, il processo assunse forme affatto caotiche. Inoltre, la borghesia a poco a poco andò accorgendosi del pericolo che la minacciava e tentò ripetutamente, con l’opera degli stessi capi militari, degli imperatori, di salvare la sua posizione privilegiata e d’impedire la sovversione della struttura dell’Impero quale era stata nel secolo secondo. Quindi le ripetute esplosioni della guerra civile che infuriò su tutto l’Impero e lo condusse all’orlo della distruzione totale. Ciò che l’esercito voleva, era la partecipazione di tutti all’amministrazione dello Stato, cioè un livellamento completo. Per quanto riguarda questo lato negativo del programma, la lotta dell’esercito fu coronata dal successo. La borghesia fu atterrita e decimata; le città sottoposte alle più gravi calamità; i nuovi dominatori, imperatori e funzionari, vennero per la maggior parte dalla classe dei contadini. A poco a poco, tuttavia, divenne evidente anche ora, come già nel sec. I a.C., che la guerra civile era disastrosa per il complesso dello Stato, e che il risultato principale di essa era la rovina politica ed economica dell’Impero. D’altra parte, come abbiamo detto, le masse della popolazione si stancarono della lotta e bramarono pace a qualunque costo. Divenne anche evidente che il compito principale del momento era la restaurazione dell’edificio statale, la
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1. Gallieno
2. a) Claudio Gotico; b) Aureliano; c) Tacito; d) Probo; e) Caro; f ) Carino.
TAV. LXXVII – GLI IMPERATORI DEL SEC. III INOLTRATO
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DESCRIZIONE DELLA
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1. BUSTO MARMOREO DI GALLIENO. Museo delle Terme, Roma. HELBIG e AMELUNG, Führer, II, p. 178, n. 1414; A. HEKLER, Die Bildnisskunst der Griechen u. Römer, tav. CCXCVIII; R. DELBRUECK, Antike Porträts, tav. LIII. 2a. AUREUS DI CLAUDIO GOTICO. Variante di COHEN, VI, p. 145, n. 161. Faccia IMP. C. CLAVDIVS. AVG. Busto di Claudio volto a d. con corona laurea. Rovescio MARTI PACIF(ero). Marte apportatore di pace, a cavallo, volto a sinistra, con ramo d’alloro e lancia. 2b. AUREUS DI AURELIANO. COHEN, VI, p. 175, n. 1. Faccia IMP. C. L. DOM. AVRELANIVS. P. F. AVG. Busto di Aureliano volto a destra, con corazza e corona radiata. Rovescio ADVENTVS AVG(usti). Aureliano in divisa militare e a cavallo verso d., con una lancia nella sinistra, fa con la destra un gesto di saluto. 2c. AUREUS DI TACITO. COHEN, VI, p. 233, n. 122. Faccia IMP. C. M. CL. TACITVS AVG. Busto di Tacito volto a destra, con corona laurea. Rovescio ROMAE AETERNAE. Roma assisa verso sin., con lancia, globo, scudo. 2d. AUREUS DI PROBO. Inedito. Faccia IMP. C. M. AVR. PROBVS AVG. Busto di Probo verso destra con corona laurea. Rovescio P. M. TR. P. V COS. IIII P. P. ANT(iochiae). Probo volto a sinistra montato su un cocchio trionfale, con ramo di palma e scettro. 2e. AUREUS DI CARO. COHEN, VI, p. 360, n. 86. Faccia DEO ET DOMINO CARO AVG. Busto di Caro verso d. con corona laurea. Rovescio VICTORIA AVG. La Vittoria stante verso sin. su un globo, con una corona e un ramo di palma. 2f. AUREUS DI CARINO. COHEN, VI, p. 397, n. 131. Faccia IMP. CARINVS P. F. AVG. Busto di Carino verso d. con corona laurea e corazza. Rovescio VENERI VICTRICI. Venere, stante verso sin., tiene una Vittoria e un globo. Questa serie di medaglie serve agli stessi fini di quella della tav. LXXV. Nota che il tipo di Filippo è ripetuto da Tacito: entrambi desideravano richiamare in vita la monarchia costituzionale degli Antonini. Nota anche il carattere militare dei conii di Claudio, Aureliano, Probo, Caro, Carino. Claudio fa risaltare il fatto che il suo fine ultimo era la pace duratura.
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preservazione dell’Impero. Non appena assolto questo compito grazie agli strenui sforzi dell’esercito medesimo e dei suoi grandi capi, divenne imperativamente necessario riordinare lo Stato in conformità con le mutate condizioni, rendendo queste stabili e sistematiche. Era la stessa situazione dei tempi di Augusto. Anche ora le linee fondamentali della ricostruzione erano indicate in precedenza dalle condizioni sociali ed economiche, e vennero tracciate dalla prassi seguita dai capi durante la guerra civile e dalle parziali riforme da essi attuate. All’attività di Mario, di Silla, di Pompeo, di Cesare, fece riscontro quella di Settimio Severo, di Gallieno, di Aureliano; e alla grande opera di Augusto, di Vespasiano, degli Antonini corrispose parallelamente la riforma dello Stato attuata da Diocleziano e Costantino e dai loro successori. La principale tra le riforme necessarie era quella che, anzitutto, desse stabilità allo Stato e lo ordinasse in maniera corrispondente al mutamento avvenuto nelle condizioni economiche, sociali, politiche, psicologiche. Fondamento della riforma doveva essere necessariamente lo stabilimento di condizioni uguali per tutti, ed era evidente che nel nuovo Stato non poteva esservi posto per la funzione direttiva che le città e la loro borghesia avevano esercitato nello Stato di Augusto e degli Antonini. Lo Stato doveva poggiare ormai sulla campagna e sui contadini. D’altra parte, in conseguenza delle mutate condizioni economiche e culturali s’imponeva la semplificazione di esso. In tal modo sorse lo Stato di Diocleziano e di Costantino. Nell’ordinarlo gli imperatori non ebbero mano libera: essi avevano ricevuto dal terzo secolo una pesante eredità, cui dovettero conformarsi. In quest’eredità non vi era quasi nulla di positivo, all’infuori dell’esistenza dell’Impero con tutte le sue risorse naturali. Gli uomini che lo abitavano avevano assolutamente perduto il loro equilibrio, dappertutto regnando odio e invidia: i contadini odiavano i proprietari di terre e i funzionari, il proletariato delle città odiava la borghesia cittadina, l’esercito era odiato da tutti, anche dai contadini. I Cristiani erano aborriti e odiati dai pagani, che li consideravano una torma di criminali occupata a scalzare lo Stato. Il lavoro era disorganizzato, la produttività declinante; il commercio rovinato dalla mancanza di sicurezza sui mari e nelle strade; l’industria non poteva prosperare dacché andava continuamente contraendosi il mercato dei suoi prodotti e abbassandosi la capacità d’acquisto della popolazione; l’agricoltura attraversava una terribile crisi, perché la decadenza del commercio e dell’industria la privava del capitale necessario, e le pesanti esigenze dello Stato le rapivano la mano d’opera e la maggior parte dei suoi prodotti. I prezzi erano in continuo aumento, e la moneta era deprezzata in misura inaudita. L’antico sistema tributario era sconvolto e non se n’era sostituito uno nuovo. Le relazioni tra lo Stato e i contribuenti assumevano l’aspetto di una rapina più o meno metodica: lavoro forzato, prestazioni forzate di cose, prestiti o donativi forzati erano il sistema corrente. L’amministrazione era corrotta e immorale. Pullulava una massa caotica di nuovi funzionari governativi, superimposta e soprastante all’antico personale amministrativo. Gli antichi funzionari continuavano ad esistere, ma, prevedendo la propria scomparsa, si sforzavano di approfittare appieno delle ultime opportunità. La borghesia cittadina era inseguita, angariata, frodata, maltrattata; l’aristocrazia municipale decimata dalla persecuzione sistematica e rovinata
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dalle replicate confische e dalla responsabilità impostale di assicurare la riuscita delle razzie organizzate dal governo sulla popolazione. Il disordine più spaventoso regnava in tutto l’Impero rovinato. Date queste condizioni, il compito di qualsiasi riformatore era di ridurre il caos a una qualche specie di ordine stabile; e quanto più semplici fossero i mezzi, tanto meglio. Il raffinato sistema del passato era distrutto senza possibilità di restaurazione: ciò che esisteva era la prassi brutale del terzo secolo, nella sua rozzezza e violenza. Questa prassi era fino a un certo punto imposta dalla situazione, e non vi era altra via per uscire dal caos che renderla fissa e stabile, riducendola a sistema semplice quant’era possibile. La riforma di Diocleziano e di Costantino fu la figlia legittima della rivoluzione sociale del terzo secolo, e non poteva che seguirne essenzialmente le linee. Questi imperatori nella loro opera non ebbero maggiore libertà di Augusto. Per l’uno come per gli altri la meta fu la restaurazione dello Stato. Col suo genio Augusto riuscì a restaurare non soltanto lo Stato ma anche la prosperità del popolo: Diocleziano e Costantino invece, certamente contro la loro volontà, sacrificarono gli interessi del popolo alla salvezza e conservazione dello Stato. Oggetto principale di questo volume è stata l’indagine delle condizioni sociali ed economiche della prima età imperiale, la delineazione del processo che gradualmente mise capo all’annullamento della parte rappresentata dalle città nella storia del mondo antico. Il nuovo Stato poggiato sui contadini e sulla campagna fu un fenomeno storico nuovo, e il progressivo sviluppo di esso richiede un’investigazione altrettanto accurata quanto quella che noi abbiamo cercato di fare per la genesi di esso. Il lettore adunque non si aspetterà in questo libro una particolareggiata analisi dello sviluppo del nuovo Stato: per lo studio delle condizioni sociali ed economiche del Basso Impero occorrerebbe un altro volume della stessa mole, scritto con le medesime vedute. Questo libro non è stato ancora scritto. Tuttavia un breve tracciato delle linee principali seguite dalle riforme di Diocleziano e di Costantino, nonché un quadro generale delle condizioni sociali ed economiche del nuovo periodo, possono già qui tentarsi per dare una qualche idea del nuovo regime e delle sue relazioni col mondo dell’anteriore Impero romano1.
1. La migliore esposizione generale della storia del Basso Impero romano, che tenga conto delle condizioni economiche e sociali, è quella di O. SEECK, Gesch. d. Untergangs d. ant. Welt, II, 19212, con copiose indicazioni di fonti; cf. i suoi numerosi articoli nella «R. E.» e in varie riviste, che sono citati dall’autore medesimo e da J.B. BURY, History of the Later Roman Empire (19232), i capp. 1 e 2 (la migliore esposizione riassuntiva delle condizioni generali del Basso Impero). Cf. L.M. HARTMANN, Der Untergang der antiken Welt, nella Allgemeine Gesch. in gemeinverständl. Darstellung, vol. III (1919), pp. 201 sgg. ed E. STEIN, Gesch. d. Spätrömischen Reiches, I, 1928. Il libro dello STEIN tratta nell’introduzione delle condizioni della più antica età imperiale; nei capitoli successivi dedica scarsa attenzione allo svolgimento delle condizioni economiche e sociali dopo Diocleziano e Costantino. Questa materia è meglio svolta nel quadro sintetico del Basso Impero dato recentemente da F. LOT, La Fin du monde antique et le début du moyen âge, nella Évolution de l’humanité di H. BERR (1927). L’esemplare esame della storia di
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Svariati erano i problemi che Diocleziano e i suoi successori dovettero affrontare. Uno dei più importanti era quello relativo al potere centrale, al potere imperiale per sé. Non poteva neppure pensarsi a sopprimerlo: se vi era un elemento che ancora tenesse insieme l’edificio dell’Impero e ne garantisse l’esistenza, se vi era istituzione popolare tra le masse, erano appunto il potere imperiale e la personalità dell’imperatore regnante. Ogni altra cosa era caduta in discredito. Ad onta delle convulsioni per cui l’Impero era passato, l’idea del potere imperiale rimaneva invece intatta. Se vi era salvezza per l’Impero romano – così pensava generalmente il popolo –, essa non poteva venire che dall’alto. Era profondamente radicato nell’animo di tutti gli abitanti dell’Impero il sentimento che senza imperatore Roma non poteva esistere e non sarebbe esi-
bizantina da parte di Ostrogorsky dedica solo poche pagine al periodo precedente. Buone rassegne generali sulle condizioni delle città nel tardo Impero romano si troveranno nelle sezioni corrispondenti del libro di A.H.M. JONES, The Greek City from Alexander to Justinian, Oxford, 1940. Non è necessario ricordare al lettore le splendide pagine del
Gibbon e il magistrale commento del Godefroy nella sua edizione del Codex Theodosianus. Buone bibliografie si trovano nell’articolo di J.S. REID, The Reorganisation of the Empire, che fa parte della Cambridge Medieval History, I (1911), pp. 24 sgg. e nel libro del LOT. Intorno a Diocleziano vd. K. Stade, Der Politiker Diocletian und die letzte grosse Christenverfolgung (1926). Per Costantino vd. J. MAURICE, Constantin le Grand et l’origine de la civilisation chrétienne (1925) [e N.H. BAYNES, Constantine the Great and the Christian Church, 1931]. Il breve schizzo dell’evoluzione economica e sociale dell’età postdioclezianea, che io do nelle pagine seguenti, è stato ritenuto malevolo e troppo tetro da alcuni tra i più eminenti studiosi, p. es. da M. GELZER, «Byz. Zeitschr.», 1927, pp. 387 sgg.; da K. STADE, Der Politiker Diocletian ecc., Appendice; da F. HEICHELHEIM, «Hist. Zeitschr.», 137, 2 (1927), pp. 289 sgg. Sono d’accordo coi miei recensenti nel ritenere antiquato il punto di vista di chi parla di una «rovina del mondo antico». Indubbiamente il Basso Impero romano non è un puro e semplice periodo di decadenza: è una fase dell’evoluzione dell’umanità e ha prodotto molti valori durevoli nel campo dell’arte, della letteratura, della teologia ecc. Sino a questo punto posso andar d’accordo con le vedute espresse da M. GELZER nel suo interessante articolo Altertumswiss. u. Spätantike, «Hist. Zeitschr.», 135 (1926), pp. 173 sgg. Inoltre anch’io penso, come il Gelzer, che tra l’antico e il Basso Impero romano non vi sia stato brusco distacco. Ma il mio breve schizzo si proponeva di rappresentare in qual modo l’Impero romano nell’età successiva a Diocleziano sia entrato, nei riguardi economici e sociali, in una nuova fase, e come quest’ultima sia stata preparata dall’evoluzione del primo Impero e dalla crisi del III secolo. Il Gelzer e il Heichelheim sono nel vero quando affermano che nel periodo tra Diocleziano e Teodosio si osserva dappertutto nell’Impero romano un certo risveglio di vita economica e che la popolazione dell’Impero non si trovava allora peggio, sotto questo rapporto, che alla fine del sec. II (cf. la nota 6 di questo capitolo, dove cito i documenti e gli scritti moderni relativi a questo problema). Ma questo risveglio fu di breve durata e di limitata ampiezza. La pressione esercitata dall’alto continuò ad essere il tratto caratteristico dell’età: basta, per convincersene, leggere i lamenti dei curiali dell’Egitto e delle altre parti dell’Impero. Ed io non posso far a meno di ricercare la causa della breve durata del risveglio economico non nell’inettitudine e malvagità degli imperatori, ma inter alia nel sistema fiscale creato da Diocleziano e da Costantino.
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stita. E i dolorosi avvenimenti del terzo secolo avevano dimostrato quanto questa credenza fosse giusta. L’unica questione era come si dovesse dare stabilità e ordine al supremo potere, in modo che l’imperatore non fosse più un fantoccio nelle mani della soldatesca. Il concetto del potere imperiale formatosi nei primi due secoli era troppo sottile, troppo complicato e raffinato per potere esser capito dalle masse dei contadini su cui il potere imperiale ormai si fondava. Questo concetto era stato una creazione dell’alta cultura delle classi privilegiate; ma queste classi ormai erano decimate e scoraggiate, e anche il loro tenore di vita s’era abbassato e semplificato. L’idea del governante quale primo magistrato dei cittadini romani, la cui autorità si fondasse sul concetto del dovere e sulla consacrazione per opera del Potere divino reggitore dell’universo, era tale da non poter giungere né esser intelligibile alla massa dei barbari e semibarbari che ormai costituivano il corpo dei funzionari e l’esercito, e alla classe da cui gli uni e l’altro uscivano, la popolazione contadinesca dell’Impero. Era urgentemente necessaria una concezione più semplice, un’idea più chiara e più piana, che fosse comprensibile a ognuno. Diocleziano per conto suo aderiva ancora all’antica idea del governante come supremo magistrato, del potere imperiale impersonato nell’uomo o negli uomini migliori, nel princeps o nei principes; tuttavia mise in risalto il carattere sovranaturale e sacro del proprio potere, esprimendolo nell’identificazione dell’imperatore con Dio e nel cerimoniale in parte orientale introdotto nella Corte. Il culto dell’imperatore, che nel secolo secondo era stato quasi impersonale, aderì ora alla persona dell’imperatore. La tendenza così manifestatasi non era del resto nuova. Vari tentativi erano stati già fatti per farla valere: da Caligola, da Nerone, da Domiziano, da Eliogabalo, da Aureliano. Costoro non erano riusciti, perché la loro dottrina era stata troppo aderente alle religioni speciali di particolari gruppi della popolazione. Apollo ed Ercole erano concezioni vaghe, incapaci di esercitare generale attrattiva; il Sole siriaco, Mithra, l’amalgama di Iupiter e di Donar, erano ben accetti a una minoranza ma non soddisfacevano le masse. Il carattere saliente della vita dell’Impero era l’aumento della religiosità: la religione a poco a poco prendeva nel pensare e nel sentire il sopravvento su quasi tutto il resto. E quanto più la società diventava religiosa, tanto più recise diventavano le divisioni tra i vari gruppi. Il fedele di Mithra non avrebbe accettato un imperatore che fosse l’incarnazione del germanico Donar; colui che aderiva ai culti egiziani non avrebbe dedicato la sua anima all’incarnazione di divinità così vaghe come l’Ercole stoico; e così via. Per giunta, i Cristiani respingevano risolutamente tutto questo e rifiutavano di riconoscere in un uomo l’incarnazione vivente di Dio. Era vano perseguitarli: ogni persecuzione non faceva che accrescere la loro coesione e render più salda la compagine della Chiesa. Nel terzo secolo la Chiesa cristiana aveva acquistato immensa forza: costituendo uno Stato dentro lo Stato, la sua organizzazione andava continuamente perfezionandosi nella stessa misura in cui quella dello Stato invece peggiorava. Le parole d’ordine dello Stato erano oppressione, coercizione, persecuzione; le massime della Chiesa erano amore, compassione, consolazione. La Chiesa, ed essa sola tra le varie comunità religiose, offriva non soltanto conforto spirituale, ma anche aiuto pratico nelle miserie della vita presente, mentre lo Stato opprimeva e perseguitava i confortatori.
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Ma col crescere del loro numero, i Cristiani si stancarono d’essere al bando dello Stato e di combatterlo. I tempi divennero maturi per la conciliazione dello Stato con la Chiesa, ciascuna di queste istituzioni avendo bisogno dell’altra. Secondo alcuni studiosi, Costantino ebbe un tratto di genio allorché si accorse di questo stato di cose e operò in conseguenza; secondo altri questo fu un errore grossolano, cui egli fu indotto dalle sue tendenze superstiziose. Per me credo che abbiano cooperato entrambi i moventi, e che l’impulso decisivo sia stato dato dalla ragion di Stato. Ad ogni modo, Costantino offrì la pace alla Chiesa a condizione ch’essa riconoscesse lo Stato e sorreggesse il potere imperiale. La Chiesa – con suo danno, pensano non pochi studiosi – accettò l’offerta. Per la prima volta il potere imperiale si erse saldamente su fondamenta ampie e solide, ma perdé quasi completamente, salvo poche formule irrilevanti, gli ultimi residui del suo carattere costituzionale di suprema magistratura del popolo romano. Esso rassomigliò ormai alla monarchia persiana dei Sassanidi e alle antenate orientali di essa, alle monarchie di Babilonia, di Assiria, d’Egitto, e così via: si fondò sulla forza e sulla coercizione da un lato, sulla religione dall’altro. Le persone degli imperatori potevano cader vittime di complotti militari e di congiure di Corte: ma il potere imperiale era eterno come la Chiesa che lo sorreggeva, ed era un potere mondiale come mondiale era la Chiesa. L’opera di semplificazione era così compiuta e il nuovo potere supremo era accettabile almeno da quella parte della popolazione ch’era risoluta a respingere ogni altra soluzione. A poco a poco la minoranza cristiana con l’aiuto dello Stato divenne una forte maggioranza e accolse in sé anche coloro che non erano atti né disposti a lottare e a fare sacrifici per le loro convinzioni religiose. Anche a costoro il cristianesimo recò in sostanza la soddisfazione delle loro aspirazioni religiose2. Dopo il problema del potere imperiale, veniva secondo per importanza, ed era con esso intimamente collegato, quello del riordinamento dell’esercito imperiale. Nel capitolo precedente abbiamo dimostrato quanta importanza avesse per l’Impero la soluzione di questo problema. Date le gravi guerre esterne e le frequenti irruzioni delle tribù limitrofe all’Impero, occorreva accrescere numericamente l’esercito e mantenerne la disciplina e l’allenamento al livello raggiunto sotto Traiano, Adriano, M. Aurelio. D’altra parte, un esercito, come quello esistente, levato mediante coscrizione dalle file dei contadini – cioè una milizia composta dei più poveri tra i contadini, con lungo termine di servizio – era uno strumento altrettanto inefficace quanto pericoloso. L’unica via per uscire da questa difficoltà era ritornare al sistema militare più semplice e primitivo delle monarchie ellenistiche e orientali. I primi passi verso il riordinamento dell’esercito furono fatti da Diocleziano. Conscio, come nessun altro imperatore prima di lui, della necessità di riserve permanenti per gli eserciti di frontiera delle province, aumentò su larga scala le forze militari; ma, pur accrescendo il numero degli effettivi, non intro-
2. Il punto di vista, dal quale io considero l’Impero di Diocleziano e di Costantino, s’avvicina molto a quello di ED. SCHWARTZ, Kaiser Constantin und die christliche Kirche (1913), cf. gli scritti citati nella nota precedente.
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dusse nuovi metodi di reclutamento né mutò il sistema militare. I mutamenti profondi erano riservati a Costantino. Diocleziano e Costantino videro che la principale forza militare dell’Impero doveva esser formata da una guardia pretoriana ampliata, da un forte esercito di cavalieri e di fanti acquartierato in vicinanza della residenza dell’imperatore, o delle residenze dei conreggenti imperiali, sempre pronto a marciare contro il nemico. Questo esercito campale, al pari di quelli dei re ellenistici (ad eccezione degli Antigonidi di Macedonia), non poteva essere se non un esercito mercenario, composto in massima parte di barbari, reclutati tra le tribù germaniche e sarmatiche alleate e vassalle e tra gli individui delle stesse stirpi viventi entro l’Impero. Esso constava di diversi corpi, alcuni dei quali costituivano in senso stretto la guardia personale dell’imperatore; ma i più importanti erano i comitatenses, una parte dei quali si chiamavano palatini, e che formavano in complesso un esercito campale realmente ben esercitato e bene ordinato. Gli eserciti di guarnigione nelle province, cui spettava il compito di reprimere eventuali ribellioni interne e di affrontare il primo impeto dei nemici esterni erano ordinati sul modello delle riserve dei re ellenistici. I soldati degli eserciti provinciali venivano reclutati fra gli uomini che avevano ricevuto terre presso le frontiere con l’obbligo del servizio militare ereditario. Questi coloni militari erano in buona parte barbari, Germani e Sarmati; alcuni discendevano da soldati in servizio o congedati che avevano ricevuto terre nei distretti limitanei dagli imperatori del terzo secolo. Se occorreva maggior numero di truppe, si ricorreva all’arruolamento volontario e coercitivo in mezzo alla popolazione dell’Impero, specialmente tra la popolazione rurale delle province più bellicose, come la Tracia, la Siria, la Britannia, le due Mauretanie. La maggiore importanza l’avevano gli auxilia, cioè le unità barbariche, mentre le legioni, i reggimenti di cittadini romani avevano parte soltanto sussidiaria. Non fu abbandonato il principio fondamentale dell’età repubblicana e della prima età imperiale, quello cioè del servizio militare obbligatorio per tutti gli abitanti dell’Impero; ma nella pratica l’obbligo del servizio venne trasformato in una tassa, detta aurum tironicum, imposta ai proprietari di terre e adoperata a coprire una parte del costo dell’esercito mercenario e a trovare un numero sufficiente di reclute tra gli abitanti dell’Impero che non erano legati ad una professione speciale o ad un fondo (vagi). Il corpo degli ufficiali per queste truppe non era preso da alcuna classe determinata. La classe senatoria era esclusa dal servizio militare, la classe equestre era scomparsa. Chiunque desse prova di capacità militare poteva sperare di salire dal grado di sottufficiale a quello di ufficiale superiore (tribunus), comandante di un distaccamento legionario o di un reggimento ausiliare, indi a quello di comandante d’esercito (dux) o anche di comandante in capo della cavalleria o della fanteria (magister equitum o peditum): questa almeno era la teoria, e talvolta anche la pratica. Naturalmente le famiglie degli ufficiali elevati con l’andar del tempo diventarono il semenzaio principale degli ufficiali e così si formò una nuova aristocrazia militare, che però non divenne mai casta chiusa3.
3. R. GROSSE, Römische Militärgeschichte von Gallienus bis zum Beginn der byzantinischen Themenverfassung (1920); cf. E.CH. BABUT, Recherches sur la garde impériale,
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Nel rimodellare l’amministrazione dell’Impero, la politica degli imperatori dei secoli quarto e quinto mirò ad accrescere il numero dei funzionari, a semplificare e livellare i loro doveri, e fino a un certo punto a dare alla gerarchia carattere quasi militare. Mentre i corpi dirigenti delle città, i Consigli municipali, perdevano l’uno dopo l’altro quasi tutti i loro diritti d’autogoverno, malgrado gli onesti sforzi degli imperatori di salvare il salvabile dell’autonomia al fine di mettere sotto controllo la forza crescente e l’attività arbitraria della burocrazia imperiale, e i loro membri venivano ridotti alla condizione di
agenti gratuiti dello Stato, responsabili della ripartizione e riscossione delle imposte nonché dell’esecuzione dei lavori obbligatori e delle altre prestazioni dovute dalla popolazione della città e del territorio cittadino, il corpo dei funzionari dello Stato andò crescendo di numero e d’importanza tanto nelle città quanto nelle province. Nel primo periodo dell’Impero il sistema burocratico soltanto lentamente e soltanto nella capitale aveva soppiantato il sistema dell’autogoverno cittadino, al quale era stato più o meno adattato e coordinato nelle province e in Italia. Ora esso venne svolto sistematicamente ed esteso a tutti i rami dell’amministrazione. Non possiamo qui delineare il graduale sviluppo dell’onnipotente burocrazia del Basso Impero romano e le successive modificazioni di essa: in questo campo quasi tutti gli imperatori vollero introdurre mutamenti e miglioramenti, carattere questo ch’è comune a tutti i governi fondati sulla burocrazia, perché in questo campo le riforme si presentano agevoli e palesano la loro efficacia sin dalla prima attuazione. Basti dire che dai tempi di Diocleziano e di Costantino in poi il governo centrale si propose di costruire un meccanismo burocratico bene ordinato, che, diretto dal centro, fosse pari al compito di maneggiare tutti gli affari d’uno Stato immenso. Paragonato col sistema delicato e complesso della prima età imperiale, in cui si dava tanta importanza all’autogoverno delle città, mentre la burocrazia era soltanto organo sussidiario e di sorveglianza, il sistema del Basso Impero, nonostante la sua apparente complessità, era molto più semplice, molto più primitivo, infinitamente più brutale. La burocrazia onnipotente, non molto poco soggetta ad alcun controllo esercitato in una maniera o nell’altra da quelli che formavano la linfa vitale dello Stato, divenne del tutto corrotta e disonesta e al tempo stesso relativamente inetta, nonostante la buona preparazione professionale dei suoi membri. Le sportule e gl’illeciti guadagni erano cosa comune, ed invano si cercava di rimediarvi mediante un vasto sistema di spionaggio e di mutua sorveglianza di un funzionario sull’altro. Ogni aumento dell’esercito dei funzionari, ogni aggiunta allo stuolo dei sorveglianti, non serviva ad altro che ad accrescere il numero di quelli che vivevano di mance e di corruzione. Peggiori di tutti erano le migliaia di agenti segreti di polizia, gli agentes in rebus, succeduti ai frumentarii: il loro compito era di sorvegliare la
«Rev. hist.», voll. 114 e 116. La trattazione, che della riforma militare dioclezianeocostantiniana fa E. NISCHER, «J. R. S.», 13 (1923, comparso nel 1925), pp. 1 sgg., è superficiale. Cf. P. COUISSIN, Les Armes romaines (1926), che offre un quadro interessante dell’imbarbarimento dell’esercito romano per ciò che concerne le armi.
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popolazione e lo stuolo dei funzionari imperiali. Corruzione e inettitudine sono il destino di tutte le burocrazie non frenate da ampi poteri di autogoverno, siano esse create in nome dell’autocrazia o in nome del comunismo. Evidentemente in questo sistema di governo burocratico molto elaborato era inammissibile la fusione del governo militare col civile nelle mani degli alti funzionari; e i due reparti, che avevano sempre avuto la tendenza a funzionare separatamente, vennero ora separati nettamente e largamente specializzati. Era anche evidente che questo nugolo di funzionari non poteva venire reclutato da una classe speciale, ma sibbene dalle file di tutti coloro che sembravano più idonei. Sennonché, dati i privilegi annessi alla posizione dei funzionari governativi, questi posti naturalmente tendevano a diventare privilegio ereditario d’una casta particolare. I posti più elevati venivano distribuiti personalmente dall’imperatore tra gli aspiranti, e per questa via pervenivano ad essi anche non pochi uomini nuovi; ma per forza di cose sorse una nuova aristocrazia di alti burocrati, che in pratica aveva il monopolio degli uffici più elevati dell’Impero. È agevole capire perché gli imperatori abbiano sostituito un nuovo sistema d’amministrazione all’antico. La rivoluzione sociale del terzo secolo aveva sconvolto l’autogoverno delle città, che in realtà si era già concentrato nelle mani della borghesia cittadina. Era molto più agevole e sicuro per il potere centrale, anziché rimodellare con nuovo indirizzo più democratico l’autogoverno municipale – il che avrebbe richiesto una gran dose di iniziativa creatrice – accettare le condizioni esistenti e uccidere l’idea stessa dell’ per ridurre gradualmente l’autogoverno, rendendo tutti i membri delle comunità cittadine responsabili verso lo Stato, accumulando su di essi doveri senza corrispondenti diritti. Distrutto così l’autogoverno delle città, le funzioni di controllo dovevano pure venire esercitate da qualcun altro, e si dovevano nominare sorveglianti per vigilare e contenere i Consigli municipali: naturali candidati a questi uffici erano i funzionari del governo centrale, che fin allora avevano avuto parte modesta nell’amministrazione delle province. È vano affermare che questa riforma sia stata gradualmente e sistematicamente attuata sin dalla prima età imperiale a motivo della bancarotta delle città, che avevano dimostrato la loro assoluta incapacità a gestire saggiamente gli affari municipali. La burocrazia della prima età imperiale poggiava su un principio diverso da quella del Basso Impero. Essa, naturalmente, gestiva gli affari dello Stato come tale, ma s’ingeriva assai poco negli affari delle città; e se v’interveniva, lo faceva per aiutarle a maneggiare più efficacemente i loro affari. Il mutamento fu causato dalla rivoluzione del terzo secolo. L’autogoverno delle città fu allora distrutto minato dalla lunga anarchia; invece di restaurarlo su nuove linee, il Basso Impero lasciò le cose come stavano, e mise le città, non più soltanto sotto la sorveglianza, sibbene sotto il diretto comando degli agenti del governo centrale, le rese serve e schiave dello Stato e ridusse il loro ufficio a quello ch’esse avevano avuto sotto le monarchie orientali, salvoché per la loro responsabilità nel pagamento delle imposte. La riforma venne attuata non nell’interesse del popolo ma per semplificare i compiti del governo: gli interessi del popolo vennero sacrificati ai pretesi interessi dello Stato. Anche i germi d’autogoverno, che nel secolo secondo e perfino nel terzo s’erano
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svolti nelle comunità di villaggio, furono travolti nella comune rovina e scomparvero4. Strettamente collegata con la riforma dell’amministrazione fu la grave e perniciosa riforma tributaria. Abbiamo spesso insistito sul fatto che il sistema tributario della prima età imperiale, molto differenziato e fondato sulle tradizioni esistenti nelle varie parti dell’Impero, non era molto gravoso. Esso si fondava essenzialmente sulle tasse indirette e sulle rendite derivanti allo Stato e all’imperatore dalle tenute e dagli altri beni immobili da loro posseduti. Le imposte dirette – imposta fondiaria e capitazione – venivano pagate nelle varie province conformemente alle rispettive tradizioni. Del loro importo non abbiamo notizia, salvo per l’Egitto; ma sappiamo che non poche regioni dell’Impero ne erano esenti parzialmente o totalmente (come l’Italia), e che tale esenzione tendeva ad allargarsi anziché a restringersi. Se le province si lamentavano dei loro oneri, non era a motivo delle imposte: ciò che gravava duramente su loro erano i pagamenti straordinari, l’obbligo di approvvigionare gli eserciti e i funzionari mediante le prestazioni forzate, le requisizioni di guerre, le confische spasmodiche, le prestazioni d’opera coattive. L’aristocrazia municipale non risentiva come onere molto gravoso la responsabilità della ripartizione e della riscossione delle imposte: ciò di cui essa si lagnava era la responsabilità addossatale per i carichi straordinari imposti alla popolazione, e i pagamenti coattivi, come l’oro per la corona. Ciò che rovinava a un tempo la borghesia cittadina e le classi lavoratrici era la maniera disordinata con cui venivano esatti i pagamenti straordinari, che nei torbidi anni del secolo terzo erano diventati la principale entrata dello Stato. Questo viveva ormai non della sua entrata ordinaria ma di un sistema di rapina più o meno metodica. Lo Stato romano non ebbe mai un bilancio regolare, e ogniqualvolta si trovava in difficoltà finanziarie, non aveva riserve fisse e stabili cui attingere. Di tratto in tratto alcuni accorti imperatori avevano accumulato del denaro, ma questo veniva poi facilmente dissipato da altri successori spenderecci, e mai costituì capitale bene amministrato e investito con buone garanzie. In caso di necessità gli imperatori non avevano riserve cui potere ricorrere, né cercavano di accrescere le entrate con un aumento graduale dei tributi: il modo abituale di far denaro, conformemente ai principii della città-Stato, era chiederlo alla popolazione o mediante tassazioni straordinarie o mediante requisizioni e confische. Non ci sorprende dunque che nei tempi difficili del terzo secolo i tributi ordinari restassero relativamente trascurati e che le principali risorse si ottenessero mediante tributi straordinari (specialmente l’oro della corona) e mediante requisizioni straordinarie di generi alimentari, materie prime, oggetti manifatturati. Questo sistema, congiunto con la generale incertezza dei tempi, condusse alla disorganizzazione del commercio e dell’industria, quindi a una fortissima diminuzione del gettito delle tasse indirette. Il progressivo deprezzamento della moneta, il peggioramento generale delle
4. Vd. l’articolo di J.S. REID (cf. nota 1) e cf. E.R. BOAK, Roman Magistri in the Militar and Civil Service of the Empire, «Harv. St. Class. Ph», 1915.
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condizioni economiche, nonché il sistema di saccheggio metodico costituito dalle liturgie, causarono violente e spasmodiche fluttuazioni dei prezzi, che non procedettero di pari passo col continuo deprezzamento della valuta. Queste erano le condizioni che gli imperatori del IV secolo ereditarono dai loro predecessori: e finché esse duravano, non v’era speranza di restaurare la stabilità economica e di dare alla valuta fondamenta sane. Ogni tentativo fatto in questo senso riuscì vano. L’insuccesso più noto fu quello cui andò incontro Diocleziano nel tentativo sia di risanare la valuta sia di rendere stabili i prezzi. Il suo notissimo editto del 301, che fissava i prezzi di vari prodotti, non era cosa nuova: lo stesso espediente era già stato tentato prima di lui e fu spesso tentato dopo di lui4a. Come provvedimento temporaneo in momenti critici, esso può anche esser utile; ma come regola generale e duratura non poté che causare grande miseria e terribile spargimento di sangue, senza tuttavia arrecare alcun sollievo. Diocleziano condivideva la perniciosa credenza del mondo antico nell’onnipotenza dello Stato, credenza cui continuano a rimaner fedeli non pochi teorici moderni. Quando la guerra civile si fu un poco calmata, diventò evidente a ognuno ch’era venuto il tempo di regolare il sistema tributario. A Diocleziano s’aprivano teoricamente due vie. Egli poteva ritornare alle tradizioni degli Antonini, cancellare i provvedimenti di necessità che s’erano accumulati come un sedimento sul sistema della prima età imperiale, e, nel far ciò, tener conto delle peculiarità della vita economica delle varie province. Questa era, certamente, la via più difficile e faticosa, ed è dubbio se fosse praticamente possibile. Per restaurare la prosperità dell’Impero sarebbero occorsi lunghi anni di tranquillo sviluppo, altrettanti anni di pace e di governo ordinato quanto quelli già assicurati all’Impero romano da Augusto, che dopo la fine delle guerre civili aveva dovuto affrontare quasi le stesse difficoltà. Diocleziano non aveva volontà e probabilmente neppure possibilità d’aspettare. Le circostanze non erano tali da dargli tempo di ricondurre pazientemente l’Impero a condizioni normali. Alle frontiere i nemici erano sempre pronti all’assalto, la situazione interna era tutt’altro che calma, e l’esercito accresciuto e riordinato esigeva somme immense di denaro. Quindi né Diocleziano né i suoi successori pensarono mai a restaurare l’antico complicato sistema tributario che teneva conto delle condizioni individuali, e seguirono invece l’altra via che loro s’apriva: accettare come definitiva la prassi del terzo secolo, trasformare in sistema i provvedimenti di urgenza, semplificare e render generale quanto fosse possibile questo sistema applicandolo a tutte le province senza badare alle peculiarità della loro vita economica e della loro struttura sociale. Poiché la moneta era senza base né stabilità, il sistema tributario non poteva fondarsi su di essa: in luogo dei tributi in denaro gli imperatori del terzo secolo avevano fatto rivivere più in grande il sistema primitivo delle imposte in natura, sotto forma di frequenti incette straordinarie di generi alimentari per l’esercito, per la città di
4a.
Testo e traduzione dell’editto in T. FRANK, An Economic Survey of Ancient Rome, V, Baltimore, 1940, pp. 307 sgg.
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Roma, per i funzionari dello Stato; nello stesso modo si raccoglievano anche materie prime e oggetti manifatturati. Questa era la famosa annona. Che cosa era più facile che trasformare queste prestazioni d’urgenza in tributi regolari? Si sarebbe così provveduto ai bisogni dell’esercito, delle capitali, della Corte, dei funzionari, mentre le altre spese dello Stato potevano coprirsi col ricavo degli antichi tributi, che non vennero affatto aboliti, e dei pagamenti straordinari del terzo secolo, resi ormai sistematici. Non era tuttavia cosa facile prevedere quali potrebbero essere in avvenire i bisogni dello Stato, che potevano aumentare o diminuire a seconda delle circostanze: questa fu la ragione per cui l’annona conservò il suo carattere di prestazione d’urgenza. Ogni anno l’imperatore stabiliva l’ammontare dei pagamenti necessari per l’annata in corso. L’annona così fu resa stabile, ma nella maniera peggiore possibile. Nel terzo secolo si poteva ancora sperare di vedere il giorno in cui i tributi sarebbero diventati regolari e fissi: ma con la riforma di Diocleziano questa speranza svanì. Nessuno poteva sapere in precedenza che cosa dovrebbe pagare l’anno successivo: non era possibile fare alcun calcolo finché lo Stato non avesse annunciato l’ammontare delle sue richieste per quell’anno. Senonché con lo stabilimento dell’annona come istituzione permanente il problema tributario era tutt’altro che risolto: la questione più importante era quella di una ripartizione onesta ed equa. Nel terzo secolo questo problema era stato risolto diversamente nelle varie province. In Egitto la ripartizione si fondava su un elaborato registro dei terreni, nelle province urbanizzate sui dati del censimento e sulla capacità contributiva delle varie città e delle altre unità tributarie (tenute imperiali e senatorie, terreni appartenenti a templi o a principi vassalli). Per Diocleziano questo sistema era troppo elaborato e complicato: nella maggior parte delle province dipendeva dall’attività delle città, e non era facile di prim’acchito capirne le particolarità. Era molto più semplice metter da parte l’opera dei secoli e introdurre un sistema di valutazione più semplice. La terra coltivabile, arata o piantata, era divisa in iuga, in gioghi di buoi; l’estensione del iugum variava a seconda che la terra era situata in pianura o su un pendio di monte, e produceva grano o vino od olio: non si tentò di rilevare alcun’altra differenza, non si tenne conto delle condizioni locali. Può essere che l’idea che noi ci facciamo della riforma di Diocleziano, così imperfettamente conosciuta com’è, ne esageri il semplicismo: forse il sistema era meno rigido di quanto appare, e variava secondo i luoghi. Tuttavia le linee fondamentali di essa non soggiacciono a dubbio e mostrano la tendenza a semplificare il problema tributario, anche a danno dei contribuenti. Può anche essere che vi sia stata l’intenzione di stabilire un sistema adatto all’intelligenza dei contadini, dai quali dipendeva la sua efficacia, e di distribuire equamente i pesi sulla popolazione. Gli imperatori del periodo della monarchia militare volevano apparire giusti e benevoli agli humiliores; questa politica, almeno in teoria, non fu mai abbandonata, e Diocleziano più volte la mise in rilievo. Può darsi che lo iugum fosse familiare a Diocleziano per sua personale esperienza; forse era usato come unità tributaria tra gli Illirii e i Traci che vivevano ancora nelle condizioni dell’economia di tribù. La divisione in iuga – la iugatio – era tuttavia soltanto un lato della riforma di Diocleziano. Un pezzo di terra senza mano d’opera è un corpo senza vita:
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un iugum presuppone quindi un caput, una testa, un uomo che lo coltivi. Nel terzo secolo il problema della mano d’opera si era fatto acuto. La popolazione dell’Impero era andata diventando sempre più facile a spostarsi: oppressi in un luogo, i lavoratori del suolo andavano a tentar la sorte altrove. Abbiamo ricordato vari documenti in cui l’ultima ratio dei contadini è la precisa minaccia di prender la fuga e di cercarsi altra residenza, se i loro desideri non venivano soddisfatti. Ora, il mondo antico aveva bensì sempre avuto l’idea che l’uomo appartenesse a un posto particolare, alla sua origo o ijdiva, ma soltanto i servi delle monarchie orientali erano stati legati alla loro residenza. Dacché l’Impero romano aveva unificato il mondo civile, tutti gli altri erano stati sempre liberi di mutar dimora a loro talento. Siffatta libertà era però dannosa alla riuscita della primitiva iugatio di Diocleziano. Infatti così un appezzamento di terra poteva venire coltivato un anno e un altro no; il contadino poteva emigrare e stabilirsi altrove, o rinunciare del tutto all’antica professione e diventar proletario di città. Orbene, il reddito delle grandi tenute era proporzionale non soltanto al numero dei iuga ch’esso conteneva, ma anche e soprattutto al numero dei capita. Il graduale spopolamento dell’Impero, e specialmente la diminuzione numerica dei coltivatori, facevano sì che l’unità tributaria fosse non tanto lo iugum quanto il caput: sicché da Diocleziano in poi l’unità di tassazione fu una combinazione di entrambe le cose. Chiunque coltivasse un appezzamento doveva dichiarare l’estensione del terreno che coltivava e il numero dei capita in essa compresi, inclusi gli animali. Questa dichiarazione rendeva l’individuo responsabile per la sua terra e per i suoi capita: dovunque egli si trovasse, era tenuto a pagare l’imposta conformemente assegnatagli. Poiché così formava con la terra una singola unità, egli perdette la libertà di muoversi, restò legato alla sua gleba e al suo lavoro, esattamente come i «contadini regi» delle monarchie orientali ed ellenistiche. Questo sistema non era per nulla nuovo in Egitto e in alcune parti dell’Asia Minore, forse nemmeno nei paesi celtici; la novità consisteva nella rinascita e nell’applicazione generale di un sistema, che ai tempi d’Adriano pareva destinato a scomparire per sempre. Lo stesso sistema primitivo di ripartizione fu stabilito per gli altri tributi, nessuno dei quali era nuovo. Mentre per i generi alimentari e per certe materie prime dovevano provvedere ai bisogni dello Stato i proprietari di terre, il denaro e gli oggetti manifatturati dovevano procurarli principalmente le città e i loro abitanti. Gli artigiani e i bottegai dovevano pagare un’imposta unitaria: non sappiamo in qual modo essa venisse calcolata. Da essi si esigeva inoltre che consegnassero allo Stato o alle città una certa quantità di prodotti a prezzo speciale. I grandi proprietari di terre, i senatori, pagavano per le loro tenute una speciale imposta in denaro (collatio glebalis). Infine gli artigiani, le città, i senatori ogni cinque anni dovevano pagare, sotto denominazioni varie, il tradizionale oro per la corona, e un altro tributo addizionale ogniqualvolta saliva sul trono un nuovo imperatore. Il riordinamento dei tributi non mutò del resto il principio delle esazioni coercitive in casi di necessità. In tempo di guerra le requisizioni e le rapine continuavano ad imperversare come prima. Nel lungo elenco degli obblighi del popolo continuò a figurare, per esempio, il lavoro coattivo e la prestazione di animali da trasporto (ajggarei`ai). Quanto fosse grave quest’ultimo onere lo dimostrano le costituzioni del Codice Teodosiano
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e l’orazione di Libanio Peri; tw`n ajggareiw`n, ma le altre esazioni non erano meno opprimenti e soffocanti. Dappertutto, adunque, ci imbattiamo in quella stessa politica di semplificazione accoppiata con la coercizione brutale, alla quale il mondo antico s’era assuefatto nei tetri giorni del terzo secolo. Si è già parlato del modo con cui i tributi si riscotevano. Il sistema già seguito dalla città-Stato, che si era servita di appaltatori d’imposte, era stato in gran parte abbandonato a poco a poco durante il primo periodo dell’Impero, e nei rami in cui era stato conservato (dazi e riscossione dei pagamenti in natura e in denaro dovuti dai demani imperiali) lo si era molto migliorato. Era stato creato un esercito assai specializzato di funzionari statali per mandare a vuoto i tentativi che gli appaltatori delle imposte potessero fare per frodare sia il tesoro dello Stato sia i contribuenti. Ma la maggior parte dei tributi, tolti alcuni amministrati direttamente dallo Stato (tassa di successione, tasse di manomissione e di vendita, dazi), erano riscossi dalle città e versati dai rappresentanti di esse nel tesoro di quella data provincia. Come essi poi venissero riscossi nel seno della città, allo Stato non importava. La collaborazione degli agenti dello Stato – governatori provinciali e altri funzionari del loro ufficio, procuratori imperiali – coi magistrati cittadini si restringeva a concordare l’ammontare complessivo dei tributi da pagarsi da quella data città, ammontare fondato sul censimento municipale e su altro censimento similare fatto per l’intiera provincia dal governo centrale. Dando alle città mano libera, gli imperatori insistevano su due punti principali: che la ripartizione si facesse onestamente ed equamente, e che i tributi venissero pagati integralmente senza arretrati. Di questo rispondeva l’amministrazione municipale. Di fatto, in tempi difficili gli arretrati s’accumulavano, e gli imperatori spesso li condonavano totalmente o parzialmente. Per rendere più metodica l’esazione dei tributi e per garantire l’imperatore contro gli arretrati, gli imperatori, oltre ai governatori e ai procuratori, nominavano speciali agenti d’alta condizione sociale che assistessero le città nella gestione delle finanze. Dal tempo di Adriano in poi essi inoltre tentarono d’impedire l’accumularsi di arretrati rendendone responsabili i membri più ricchi delle comunità, specialmente per gli arretrati relativi a prestazioni straordinarie e ad imposte supplementari. Nel terzo secolo, divenuto eccessivamente grave l’onere di riscuotere le tasse, d’assicurare i trasporti per conto dello Stato, di approvvigionare l’esercito, crebbe incessantemente la pressione esercitata dallo Stato sulla borghesia municipale, e la responsabilità di quest’ultima venne regolata sempre più minutamente. Impoverita e scemata di numero la borghesia, abbassata la capacità contributiva dei contribuenti, si esercitò senza alcun freno la coercizione. Furono violati alcuni dei diritti fondamentali degli uomini liberi e dei cittadini romani, quali erano legalmente i membri della borghesia municipale; il governo diventò duro e talvolta violento. E tuttavia la borghesia era ancora la classe privilegiata della popolazione provinciale e godeva ancora qualcuno degli dei suoi antichi privilegi. Diocleziano non fece alcun tentativo per mutare le condizioni ereditate dall’anarchia militare del terzo secolo. Non pensò mai né a ridurre la borghesia cittadina allo stesso livello del resto della popolazione del territorio col fare di ciascun membro di essa una semplice unità imponibile, né a restaurare la passata gloria delle città. Accettò la legislazione dei suoi predecessori, che ten-
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deva a trasformare la borghesia in un gruppo di impiegati gratuiti ed ereditari dello Stato, e la svolse con lo stesso spirito. I curiales (coloro cioè ch’erano eleggibili al Consiglio municipale e alle magistrature) formavano un gruppo di cittadini più ricchi ch’era responsabile verso lo Stato, attraverso i magistrati e il Consiglio, sia del buono stato della tranquillità, dell’ordine nella città, sia dell’adempimento di tutti gli obblighi della popolazione verso lo Stato. Al pari dei coltivatori del suolo, anche ogni curiale costituiva ai fini dell’imposta un’unità, e tutti i curiali presi insieme formavano una grande unità, collettivamente responsabile delle imposte e delle prestazioni personali dovute dalla città. Era naturale che ciascun curialis nonché l’insieme del gruppo fossero trattati alla stessa guisa dei singoli lavoratori del suolo: la loro responsabilità era non soltanto materiale ma anche personale. Così essi dovevano osservare strettamente la norma dell’origo restando nella loro città senza cercare di sfuggire agli oneri loro spettanti cercandosi altra residenza, e quando morivano tutti i loro obblighi passavano senz’altro ai figli. Un nugolo di funzionari li teneva strettamente d’occhio, pronto ad usare la violenza se qualcuno tentava di sottrarsi al cerchio di ferro in cui si trovava chiuso. Non è forse questa la prova più lampante dell’incapacità assoluta di Diocleziano ad inventare nulla di nuovo o almeno ad adattare le istituzioni esistenti alle condizioni dell’età in modo da tutelare quanto fosse possibile i diritti e la prosperità del popolo? Più di tutte le altre sue riforme, il riordinamento da lui fatto della vita municipale mi sembra un eloquente testimonium paupertatis, caratteristico di un’età sfornita di qualsiasi potere creativo e passivamente prona alla prassi corrente, anche se questa doveva la sua origine a un periodo di rivoluzione e d’anarchia. Augusto s’era trovato alle prese con le medesime difficoltà, perché anche il periodo delle guerre civili era stato un’età di oppressione e di rapina sistematica; ma egli non si sognò mai di legalizzare a sua volta la rapina e l’oppressione e di renderle permanenti. Nel pensiero di Diocleziano lo Stato voleva dire istituto di coercizione, e l’organizzazione voleva dire violenza organizzata. Né possiamo dire ch’egli abbia avuta forzata la mano dalla volontà dell’esercito. Diocleziano non pensò mai a cancellare l’antagonismo tra città e campagna col trasferire la responsabilità dei tributi e delle prestazioni coattive di lavoro dai Consigli civici ai funzionari dello Stato. Egli invece tenne in vita l’antagonismo, col risultato che nei secoli quarto e quinto la campagna odiava la città altrettanto cordialmente quanto nel terzo: testimonio Salviano coi suoi attacchi contro i tiranni delle città. Non possiamo dunque dire che Diocleziano non abbia trovato aperta alcun’altra via. Gli se ne aprivano parecchie; ma Egli scelse l’antica pesta che conduceva direttamente alla rovina e alla schiavitù5.
5. A. PIGANIOL, L’Impôt de capitation sous le Bas-Empire romain (1916) e la buona bibliografia di questo lavoro, specialmente gli scritti di O. SEECK; cf. quelli citati nella nota 1 e F. LOT, De l’étendue et de la valeur du caput fiscal sous le Bas-Empire, «Rev. hist. du droit fr. et étr.», 1925, e F. OERTEL, C. A. H., XII, pp. 259 sgg., cf. N.H. BAYNES, ibid., pp. 204 sgg.; Non ho potuto vedere H. BOTT, Die Grundzüge der diocletianischen Steuerverfassung, Diss. Frankfurt, 1928. Per l’editto di Diocleziano vd. il testo con la traduzione di E.R. GRASER, in T. FRANK, An Economic Survey of Ancient Rome, V, Baltimore,
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1. La tenuta di Julius (Mosaico di Cartagine)
2. Coloni che recano regali (Colonna di Igel)
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1. MOSAICO. Trovato a Cartagine. Museo del Bardo, Tunisi. A. MERLIN, «Bull. arch. du Comité d. travaux histor.», 1921, pp. 95 sgg.; cf. supra, cap. VII, nota 87. Riprodotto da una fotografia gentilmente favoritami dal signor A. Merlin. La composizione generale del mosaico è molto originale. Essa intende combinare due motivi che ordinariamente si presentano separati: le quattro stagioni (vedere, p. es., la nostra tav. LVIII, 1) e la vita di una grande tenuta (vedere, p. es., la nostra tav. LXIII). Al centro del quadro si vede una grande villa, in cui si combinano la casa residenziale e la fortezza. I suoi tratti salienti sono le due alte torri ai due angoli, un pianterreno massiccio con una porta d’ingresso ad arco, che dà accesso agli appartamenti d’abitazione e probabilmente ad una grande corte retrostante, una bella loggia al primo piano nel quale sono raccolti i locali d’abitazione. Dietro l’edificio principale si vedono altre due costruzioni separate: la stalla (?) o l’atrium, e un grande bagno con tetti a cupola. La villa è circondata d’un parco. Ai due lati di essa è raffigurata una spedizione cinegetica del padrone. Due servitori mostrano la strada, cioè un battitore e un uomo incaricato dei cani; nel campo vi è l’oggetto della caccia, una lepre; dietro viene il padrone, montato su un bel cavallo e seguito da un terzo servitore carico d’un pacco di provvigioni. Sulle zone superiore e inferiore sono raffigurate scene della vita della tenuta. Ciascuna stagione occupa un angolo. Nell’angolo di sinistra della zona superiore abbiamo l’Inverno. Un uomo porta due anitre vive; due ragazzi colgono olive; una donna trasporta un cesto carico di olive nere. Questi personaggi rappresentano la famiglia d’un colono ritratta nelle sue relazioni col padrone; essi portano i frutti della stagione alla signora della villa, che è assisa su una panca con un ventaglio in mano, in quella parte del parco dov’è il recinto per i polli: alla sua destra un gallo spiega la sua bellezza, e innanzi a lei il pollaio con dei pulcini davanti. L’angolo destro della stessa zona, raffigurante l’Estate, mostra la famiglia d’un altro colono: sullo sfondo vi è la sua modesta casa, un «gurbi» (mapale) o capanna rotonda, fatta di canne (cf. lo stesso tipo di capanna sul sarcofago di Philippeville, che raffigura una somigliante scena di vita rustica. S. REINACH, Rép. d. rel., II, p. 3, n. 5); sul davanti si vede il colono, che attende al suo gregge di capre e di pecore con l’aiuto del suo cane, e tiene nella sinistra un corno di pecora. Sua moglie (o sua figlia) porta un capretto alla padrona (la figura di quest’ultima serve per entrambe le scene). Nell’angolo di sinistra della zona inferiore è raffigurata la Primavera. La signora della villa sta in piedi davanti al suo seggiolone, in abito elegante, in mezzo a fiori, col suo cagnolino nello sfondo; davanti ad essa sta un’ancella che porta una collana e una cassetta da toeletta, mentre un ragazzo depone tre pesci ai piedi della signora; dietro di lei un servitore, o colono, porta un cesto pieno di fiori. L’ultimo angolo rappresenta l’Autunno. Il padrone della villa siede sotto gli alberi del suo verziere, carichi di frutti maturi; dietro a lui si stende un vigneto. Un colono corre tra gli alberi del giardino portando due gru e un rotolo su cui è scritto Iu(lio) dom(ino), probabilmente un indirizzo gratulatorio o una petizione. Dal vigneto s’avanza un altro colono, recante un cesto d’uva e una lepre viva, che probabilmente ha allora allora catturata tra le viti. Il mosaico mette in rilievo la parte preponderante tenuta dai coloni nell’economia della tenuta: tutta la vita della villa si fonda sul loro lavoro e sui loro contributi. Cf. cap. XII, nota 6. 2. RILIEVO DI MONUMENTO FUNERARIO. Parte della decorazione scultoria della colonna di Igel – Igel, presso Treviri. E. ESPÉRANDIEU, Rec. gén., VI, p. 442; DRAGENDORFF e KRUEGER, Das Grabmal von Igel (1924), tav. 9. Sei coloni in fila recano i loro contributi in natura alla casa del loro padrone. Essi sono or ora entrati nella corte passando per un’entrata ad arco, e sono ricevuti davanti all’ingresso dell’atrium (chiusa a metà da una tenda) dal padrone stesso o dal suo cameriere. I regali, o contributi, sono una lepre, due pesci, un capretto, un’anguilla(?), un gallo, un cesto di frutti. Sostanzialmente la medesima scena era rappresentata su un monumento funerario di Arlon (Orolaunum vicus) ora perduto. (E. ESPÉRANDIEU, op. cit., V, p. 271, n. 4102). Ivi il padrone riceveva i coloni seduto su una sedia dietro un tavolo; i contributi erano un gallo, pesci, un cesto di frutti, un maialino da latte.
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Il ritorno di condizioni stabili e il ristabilimento di una certa pace e di un certo ordine non potevano mancare di avere la loro efficacia. Ai terrori della seconda guerra civile non seguì un’età augustea dell’oro; ma non si può disconoscere che dopo le riforme dioclezianeo-costantiniane sia intervenuto un miglioramento delle condizioni economiche. Per esempio l’Egitto nel sec. IV ebbe una certa ripresa; e lo stesso può dirsi di varie città dell’Impero romano. Ugual significato ha anche il fatto che Costantino ottenne successo in un campo dove Diocleziano aveva fallito: riuscì cioè a ridare stabilità alla moneta e fino a un certo punto a rimettere in onore il denaro nella vita pubblica e privata. Ma questa ripresa fu di breve durata, e ciò non a causa delle condizioni esteriori o dell’inettitudine dei successori di Diocleziano e di Costantino, sibbene in massima parte per effetto del sistema che aveva causato la decadenza e conteneva in sé il germe di una decadenza ulteriore. Tributi oppressivi ed iniqui, fondati sull’asservimento così dei lavoratori del suolo come degli artigiani di città; paralisi della vita economica, impedita nel suo libero corso dalle catene che imprigionavano ciascun individuo; implacabile distruzione, voluta coscientemente e gradualmente attuata, declino e impoverimento della classe più attiva e colta dell’Impero, la borghesia urbana; incremento incessante della disonestà e della violenza tra i membri dell’amministrazione imperiale, in alto e in basso; impotenza degli imperatori, ad onta delle loro buone intenzioni, ad impedire l’illegalità e la corruzione, loro illimitato conservatorismo rispetto ai principii fondamentali delle riforme di Diocleziano e di Costantino: tutti questi fattori non potevano mancare di produrre il loro effetto naturale. Lo spirito della popolazione restò altrettanto depresso quanto era stato durante la guerra civile: unica differenza fu che su tutto l’Impero romano si stese un’ondata di rassegnazione. Era inutile lottare: meglio sottomettersi e accettare silenziosamente i pesi della vita con la speranza di trovarne una migliore dopo morte. Questo stato d’animo era inevitabile, ché i migliori sforzi degli onesti erano destinati in precedenza a fallire, e quanto più uno avesse prodotto, tanto più gli avrebbe tolto lo Stato. Se un contadino riusciva a introdurre migliorie nel suo fondo e ad accrescerlo, sapeva che il suo destino era d’essere promosso alla posizione di curialis, che significava schiavitù, oppressione e in ultimo rovina. Meglio era produrre soltanto quel ch’era necessario per sostentare la propria famiglia e non fare inutili sforzi per migliorare la propria posizione. Il soldato sapeva che, fino a tanto che rimaneva soldato e condannava alla stessa vita i propri figli, poteva stare relativamente bene; ma sapeva pure che non appena
1940, pp. 307 sgg.; cf. i nuovi frammenti di Afrodisia: G. JACOPI, «Mon. ant. dei Lincei», 38 (1939), pp. 130 sgg., e da Pettorano negli Abruzzi, M. GUARDUCCI, «Rendic. Pontif. Accad. Rom. di Arch.», 16 (1940), pp. 11 sgg., e «Boll. Mus. Imp. Rom.», 11 (1940), pp. 35-56; cf. E. GRASER, The Significance of Two New Fragments of the Edict of Diocletian, «Trans. Amer. Phil. Ass.», 71 (1940), pp. 157 sgg. Si veda sulla tariffa in generale C.L. WEST, «Class. Philol.», 34 (1939), p. 239 sgg.; K. BUECHER, Die diokletianische Taxordnung vom J. 301,
«Zeitschr. f. ges. Staatsw.», 50 (1894). Intorno alle condizioni del ceto medio vd. Sir S. DILL, Roman Society in the Last Century of the Western Empire (1899, ultima ristampa 1921), pp. 227 sgg.
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avesse tentato di spezzare il cerchio magico, il suo destino, o almeno quello dei suoi figli, era d’essere aggregato alla curia. Il colono di un gran signore terriero era contento d’adempiere ai suoi obblighi verso di lui e di godere in cambio la protezione, e l’oppressione, del padrone: la sorte del suo vicino, il contadino libero, non era tale da indurlo a fare alcuno sforzo per condividerla. Lo stesso avveniva per gli artigiani delle città e per gli sfortunati curiales. In momenti di disperazione singoli individui potevano cercare di migliorare la propria sorte con mezzi disperati: il colono e il contadino potevano desiderare d’entrar nell’esercito o di darsi al brigantaggio, il soldato di disertare, il curialis di diventare qualsiasi altra cosa, – funzionario, soldato, colono, contadino. – Ma tutto era inutile. Se uno riusciva, la sua situazione non migliorava. Sicché il sentimento dominante era quello della rassegnazione; e la rassegnazione non ha mai condotto alla prosperità. Il tratto saliente della vita economica del Basso Impero romano fu l’impoverimento progressivo. Quanto più povero diventava il popolo, tanto più primitiva si faceva la vita economica dell’Impero. Decadde il commercio, non soltanto per effetto della pirateria e delle incursioni barbariche, ma soprattutto perché vennero a mancare i clienti. I migliori tra questi ultimi, i borghesi delle città, andavano continuamente scemando di numero e di capacità d’acquisto. I contadini vivevano in povertà estrema e ritornavano alla quasi pura «economia domestica», ciascuna famiglia producendo da sé quanto le occorreva. Gli unici clienti rimasti erano i membri delle classi privilegiate, cioè i funzionari, i soldati, i grandi proprietari fondiari; e tutti costoro venivano provveduti, per le cose di prima necessità, o dallo Stato (gli stipendi essendo pagati in natura) o dai prodotti delle proprie tenute. Quindi il primo ramo di commercio che andò incontro alla decadenza fu proprio il più importante, il commercio cioè dei generi di prima necessità nell’interno d’ogni provincia e tra le varie province. Il piccolo commercio locale continuò a vivacchiare, e il commercio di articoli di lusso anzi prosperò, il che ci spiega, per esempio, la rinascita dei rapporti commerciali con l’Oriente. Ma la classe commerciale in se stessa era incapace di sviluppo e sprezzata. Non vi era possibilità di svolgere alcuna vasta intrapresa commerciale: e non appena qualcuno tentava di farlo, non appena comperava navi o stabiliva relazioni commerciali, era subito fatto membro di una delle corporazioni, di quella dei navicularii o di quella dei mercatores, e costretto a lavorare per lo Stato, a trasportare ogni cosa per conto di esso per un compenso meschino, o a dare allo Stato il diritto di prelazione su ciò che aveva da vendere. Sicché la condizione dei mercanti e dei battellieri non era migliore di quella di curiali, e si adoperava la costrizione sia per tenere i membri di questi gruppi legati alla loro professione sia per completare i gruppi medesimi arruolandovi nuovi membri. Come la proprietà della terra, anche il commercio e i trasporti diventarono onere ereditario cui non si poteva sfuggire. Lo stesso avveniva nell’industria. I clienti erano pochi, il mercato diventava sempre più ristretto, lo Stato sempre più oppressivo. Eccettuata la produzione di alcuni articoli correnti per il consumo delle masse e di alcuni oggetti di lusso per i pochi ricchi, l’industria viveva ormai soltanto delle ordinazioni dello Stato; ma questo era un cliente egoista e brutale: fissava i prezzi e, se pensiamo ai profitti che facevano i funzionari, li fissava rovinosamente bassi per gli artigiani.
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Naturalmente le grandi aziende industriali a poco a poco scomparvero. Siccome però lo Stato ne aveva bisogno, specialmente per l’esercito, per la Corte, per i funzionari, alcuni stabilimenti industriali furono trasformati in fabbriche statali, gestite sul modello egiziano e orientale, con una maestranza legata alla sua professione come onere ereditario [S1]. Nei capitoli precedenti abbiamo cercato di dimostrare che la crisi del terzo secolo era stata prodotta in buona parte da un moto rivoluzionario delle masse della popolazione, bramose di livellamento generale. Si raggiunse questo scopo con le riforme di Diocleziano e di Costantino? Possiamo dire che il Basso Impero sia stato più democratico dell’Impero dei Giulio-Claudii, dei Flavii, degli Antonini? È certo che scompare una delle antiche classe privilegiate, quella dei cavalieri; ed è anche vero che per qualche tempo, specialmente nel secolo terzo, fu aperto ad ognuno l’avanzamento nei gradi dell’esercito e nel servizio civile. Ma in realtà il Basso Impero, sebbene fosse una democrazia di schiavi, era meno democratico dell’Impero antico. Nei primi secoli dell’Impero infatti non vi era stata alcuna casta. L’individuo attivo e accorto aveva potuto facilmente, con l’accrescer la propria fortuna, salire dalla condizione di contadino a quella di grande proprietario, e in questa qualità raggiungere le file dell’aristocrazia municipale, ricevere la cittadinanza romana, diventar cavaliere e finalmente membro dell’aristocrazia senatoria. Abbiamo visto che siffatta carriera si percorreva agevolmente in due o tre generazioni. Anche nell’esercito era cosa normale l’essere promossi da soldati comuni a centurioni, sebbene fosse rara ed eccezionale la promozione del soldato comune fino al grado equestre e senatorio. Lo stesso accadeva nel servizio civile. Nemmeno gli schiavi facevano eccezione alla regola generale. I liberti avevano spesso infatti magnifiche occasioni di diventare procuratori d’alto grado, e niente impediva ad essi o ai loro figli d’entrare nelle file dell’aristocrazia municipale. Le cose andarono ben diversamente dopo le riforme di Diocleziano e di Costantino. Non vi fu più via legale per progredire dalla condizione di colono neppure a quella di contadino libero o di proletario urbano, per tacere delle altre classi. Il colono poteva diventare soldato, ma anche questa era una rara eccezione. La riforma tributaria di Diocleziano e gli editti dei posteriori imperatori fecero del colono un servo, sì che il colono, già di fatto ascritto ereditariamente al suo appezzamento di terra, rimanesse legato al suo domicilio e al suo padrone: egli diventò membro d’una chiusa casta ereditaria. Lo stesso avvenne al piccolo proprietario libero, membro d’una comunità di villaggio: anch’egli fu attaccato alla sua terra, al suo villaggio, alla sua professione. L’unico progresso possibile era per lui quello di passare nella condizione di curiale, che in realtà era però un passo indietro. Qualcuno poteva bensì entrare nel servizio militare, specialmente se si trovava a vivere in province dov’erano stanziati reparti di truppe; ma, come dimostra la legislazione contro i disertori, neppure la professione militare era ritenuta privilegio invidiabile. Nella stessa condizione si trovavano i proprietari di terre residenti nei municipii, i curiali. Costoro La maggior parte di loro, con l’eccezione di alcuni ricchi e influenti membri di una curia o dell’altra, come per esempio Sinesio di Cirene e alcuni altri, erano meno liberi perfino dei piccoli proprietari, e formavano una classe
chiusa e veramente esclusiva, in quanto ognuno tremava alla sola idea d’entra-
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re a farne parte. Il resto della popolazione cittadina, padroni di navi, mercanti, artigiani, operai, a poco a poco vennero tutti legati alla loro professione e alla loro residenza. L’unica classe privilegiata era quella dei proletari disoccupati e dei mendicanti di città e di campagna, dei quali si lasciava la cura alla Chiesa cristiana. Essi almeno erano liberi […] di morir di fame e di rivoltarsi. Altra classe libera e privilegiata era quella dei briganti, sempre più numerosi in terra e in mare. Non era ereditaria la classe dei funzionari, almeno legalmente: essere funzionari era un vantaggio, e l’imperatore non trovava difficoltà a reclutare i suoi agenti tra gli uomini migliori del paese. Ma questa libertà era limitata. Il curiale non poteva diventare funzionario governativo; e se qualcuno di essi riusciva ad infrangere la regola, doveva aspettarsi da un momento all’altro d’essere rinviato alla sua curia. Non erano eleggibili al grado di funzionario neppure i battellieri e i mercanti, tanto meno poi i contadini e i proletari di città. La carriera militare era rigidamente distinta dalla civile, e nessun soldato era eleggibile a un ufficio civile. Sicché per forza di cose i funzionari non potevano esser presi che dalle famiglie di funzionari, e la classe burocratica diventò praticamente, se anche non legalmente, una vera casta. Le stesse considerazioni si applicano alla nuova aristocrazia senatoria. Essa era un’aristocrazia di servizio; l’esservi ammessi era una concessione che gli imperatori facevano ai più elevati funzionari civili e militari, e il grado senatorio era ereditario. A poco a poco essa divenne anche un’aristocrazia di nascita e d’educazione, giacché le tradizioni intellettuali della classe venivano custodite gelosamente. Sotto l’aspetto sociale, dunque, non vi fu livellamento né pareggiamento. Nel Basso Impero romano la società era suddivisa non in classi, ma in vere e proprie caste, ciascuna il più possibilmente chiusa, in alcuni casi per effetto dei privilegi ad essa annessi, in altri casi per effetto dei pesi e dei disagi ch’essa importava, che distoglievano ognuno dal desiderare di farne parte, e facevano sì che occorresse l’eredità e la costrizione per entrarvi. Non v’era uguaglianza neppure nella comune schiavitù verso lo Stato. V’era, certo, un’uguaglianza di carattere negativo, in quanto non era tollerata alcuna libertà politica, non era lasciato in piedi quasi alcun residuo d’autogoverno, era ridotta al minimo la libertà della parola, del pensiero, della coscienza, specialmente dopo la vittoria del cristianesimo; ma perfino questa uguaglianza nella schiavitù era soltanto superficiale e relativa. I grandi proprietari fondiari erano schiavi degli imperatori ma padroni dei coloni-servi che vivevano sui loro dominii. I curiali erano schiavi dell’amministrazione e come tali da essa trattati, ma erano padroni non soltanto dei coloni delle loro terre, sibbene anche della popolazione della città e del territorio cittadino, in quanto ripartivano e riscotevano i tributi e sorvegliavano l’esecuzione dei lavori coattivi; e la popolazione li considerava e odiava appunto quali despoti, ch’erano essi medesimi servi e non potevano proteggere, ma soltanto angariare i propri servi. Nessuna meraviglia che questi ultimi cercassero protezione presso senatori, funzionari, soldati, e che fossero disposti a pagarla a qualunque prezzo e a privarsi per essa del poco denaro e della poca libertà che ancora possedevano. La classe operaia delle città si trovava a sua volta nei medesimi rapporti con le varie corporazioni di proprietari di navi, botteghe, officine. Questi ultimi in realtà erano più semplici sorveglianti minori delle proprie aziende per conto dello Stato che non proprietari di esse: erano
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1. a-c) Diocleziano
2. a) Costantino; b) Massimiano; c) Galerio; d) Licinio
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1a. MEDAGLIONE AUREO DI DIOCLEZIANO. Biblioteca nazionale di Parigi. – COHEN, VI, p. 441, n. 264; F. GNECCHI, I medaglioni romani, I, p. 11, n. 5, tav. IV, n. 12. Faccia IMP. C. C. VAL. DIOCLETIANVS. P. F. AVG. Testa di Diocleziano, nuda, verso d. Rovescio IOVI CONSERVATORI ALE. (Alessandria). Giove seduto rivolto a sinistra, con fulmine e scettro. Accanto a lui, l’aquila. 1b. MEDAGLIONE AUREO DI DIOCLEZIANO. Biblioteca nazionale di Parigi. COHEN, VI p. 421 n. 50, 1910, p. 32; F. GNECCHI, op. cit., p. 11, n. 2, tav. IV, n. 9 (296 d.C.). Faccia: la stessa iscrizione. Testa di Diocleziano verso destra con corona laurea. Verso CONSVL. VI P. P. PROCOS. S. M. A. (Antiochia). Diocleziano a sin. in abito consolare, col globo e il corto scettro consolare. 1c. MEDAGLIONE AUREO DI DIOCLEZIANO. Brit. Museum. «Num. Chron.» 1900, p. 32; F. GNECCHI, op. cit. p. 11 n. 7, tav. IV, n. 14. Faccia: identica iscrizione. Testa di Diocleziano volta a d. con corona radiata. Verso PERPETVA FELICITAS AVGG. P. R. (Roma). Giove stante rivolto a sinistra con folgore e scettro calca col piede un barbaro vinto. Davanti a lui la Vittoria verso d. gli offre il globo. 2a. MEDAGLIONE AUREO DI COSTANTINO. Biblioteca nazionale di Parigi. COHEN, VII, p. 288, n. 502; J. MAURICE, Numismatique constantinienne, II, 1911, p. 468; Atelier XIX, tav. XIV, n. 14 (326 d.C.). Faccia D. N. CONSTANTINVS MAX. AVG. Busto di Costantino volto a destra con corona laurea, vestito di un ricco manto orientale, con in mano un’aquila e un globo. Rovescio SENATVS S. M. T. S. (Thessalonica). L’imperatore stante verso sin., in abito consolare, con un globo e il breve scettro consolare. 2b. AUREUS DI MASSIMIANO. British Museum. COHEN, VI, p. 519, n. 271. Faccia MAXIMIANVS P. F. AVG. Busto di Massimiano a destra, con corona laurea. Rov. HERCVLI PACIFERO P. R. (Roma). Ercole ignudo, che tiene con la destra un ramo d’alloro, con la sinistra la clava e la pelle del leone. 2c. AUREUS DI GALERIO. British Museum. Cf. COHEN, VII, p. 113, n. 121. Faccia: la stessa iscrizione, testa di Galerio verso d. con corona laurea. Rov. IOVI CONSERVAT(ori) AVGG. ET CAESS. P. R. (Roma). Giove assiso verso sinistra, con fulmine e scettro. 2d. AUREUS DI LICINIO. British Museum. COHEN, VII, p. 205, n. 167. Faccia LICINIVS P. F. AVG. Busto di Licinio verso destra con corona laurea. Rov. VBIQVE VICTORES P. T. R. (Treviri). Licinio in abito militare volto a destra, con lancia e globo, stante tra due barbari vinti. Da notare la venerazione attestata da Diocleziano e dai suoi conreggenti verso Ercole e Giove, le grandi divinità dei soldati germanici travisate alla romana; il carattere militare di questo gruppo d’imperatori, gli ultimi del periodo della grande guerra civile; l’aspetto orientale della figura di Costantino col suo pesante manto persiano. Debbo la scelta delle medaglie e i calchi alla cortesia dei signori JEAN BABELON (Biblioteca nazionale di Parigi) e H. MATTINGLY (British Museum).
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essi medesimi alle dipendenze dei funzionari dei vari reparti e dei comandanti delle varie unità militari. Infine, i funzionari e i militari di vario grado, sebbene forniti d’immenso potere su migliaia di uomini, erano anch’essi sottoposti a una ferrea disciplina di tipo servile, praticamente schiavi gli uni degli altri, e tutti degli agenti della polizia segreta. Servitù generale era quindi il carattere distintivo dell’età; ma v’erano in essa, differenti gradi e sfumature, non uguaglianza. Schiavitù ed uguaglianza sono incompatibili: questo fatto non dovrebbe esser dimenticato da qualche moderno difensore del principio di eguaglianza6.
6. Sulle condizioni economiche e sociali del Basso Impero vd., oltre gli scritti menzionati nella nota 1, P. VINOGRADOFF, Social and Economic Conditions of the Roman Empire in the Fourth Century, nella Cambridge Medieval History, I (1911), pp. 543 sgg. Uno splendido quadro delle province occidentali, e specialmente della Gallia, si ha nell’opera del DILL citata nella nota 5. Utili dati per la Siria offrono Libanio, l’imperatore Giuliano, Giovanni Crisostomo, Giovanni d’Antiochia, Zosimo; vd. cap. VII, pp. 311 sgg., dove ho raccolto i dati e citato la letteratura recente. Il quadro che ci dànno gli scrittori su menzionati non differisce essenzialmente da quanto leggiamo per la Gallia in Ausonio, Paolino di Pella, Sidonio Apollinare, Salviano: per quest’ultimo vd. R. THOUVENOT, Salvien et la ruine de l’empire romain, «Mél. Éc. Fr. Rome Ant.», 38 (1920), pp. 145 sgg. Per l’Africa possediamo dati importanti nei mosaici del IV e V sec. d.C., che riproducono l’immagine di alcune grandi ville di questo periodo e fanno trasparire quali fossero le principali sorgenti di reddito dei proprietari. Alcuni di questi mosaici sono riprodotti nelle nostre tavv. LXIII, 2; LXXVI; LXXVIII, 1; LXXX [cf. P. ROMANELLI, La vita agricola tripolitana attraverso le rappresentazioni figurate, «Africa Italiana», 3 (1930), pp. 53 sgg.]. Un altro esempio dello stesso genere è il noto mosaico di Pompeiano (Ued Atmenia presso Costantina, vd. S. REINACH, Rép. d. peint., p. 359, 1). Per lo storico dell’economia questi mosaici sono importanti in quanto fanno vedere come nei grandi dominii l’agricoltura non fosse affatto in decadenza. Mentre si lasciava la coltivazione del frumento ai coloni, i rami di produzione più redditizi e progrediti erano concentrati intorno alla villa centrale della tenuta: produzione d’olio e di vino, allevamento di cavalli, assai redditizia a causa del grande sviluppo delle corse di circo, allevamento di bestiame e di volatili, e probabilmente anche coltivazione d’erbaggi e di frutta. In tempi anteriori i proprietari delle grandi tenute avevano abitato in città, ora; come attestano i mosaici, dimorano ordinariamente sulle loro terre, conducendovi la vita di ricchi signori rurali: vanno a caccia, sorvegliano i lavori agricoli, si affaccendano come patroni dei coloni, leggono e si chiamano accanto perfino dotti, filosofi o filologi (vd. il mosaico di Pompeiano con l’iscrizione filosofi – o filologi – locus). Si osservi anche che nel mosaico di Giulio tav. LXXVIII, 1) l’occupazione principale del padrone della tenuta è quella di ricevere i pagamenti, per lo più in natura, dai coloni: vd. le spiegazioni della tavola predetta. In questo periodo conosciamo l’Egitto meno bene della Siria e della Gallia: i documenti dei secc. IV e V non sono numerosi e dipingono la vita di questi secoli quasi con gli stessi colori dei documenti del sec. III. Nella seconda metà del IV sec. e nel V le condizioni diventarono un po’ migliori, o almeno più stabili: ma la decadenza economica continuava a fare sempre più rapidi progressi, e la pressione dello Stato pesava sempre più gravemente. Vd. H.I. BELL, The Byzantine Servile State in Egypt, «Journ. of Eg. Arch.», 4 (1917), pp. 86 sgg., e An Epoch in the Agrarian History of Egypt, nel Recueil Champollion (1922), pp. 261 sgg.; A. HEISENBERG e L. WENGER, Byzantinische Papyri in der K. Hof- und Staatsbibliothek zu München (1914); L. WENGER, Volk und Staat im Aegypten am Ausgang der Römerherrschaft (1922, con buona
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Soprattutto, non v’era eguaglianza di sorta nella distribuzione della proprietà. Certamente i senatori, i cavalieri, l’aristocrazia municipale, la piccola borghesia dell’antico Impero rimasero in massima parte rovinati e abbassati dal loro grado. Cessò per sempre l’opera paziente e creatrice con cui essi avevano fabbricato a un tempo le loro fortune e la vita civile delle città. Ma all’antica classe possidente altre se ne sostituirono, che anche sotto l’aspetto economico erano molto inferiori a quella che le aveva precedute. Le fortune dell’antico Impero erano state il risultato della crescente prosperità generale; erano derivate dal commercio e dall’industria, e il capitale accumulato lo si era investito nella terra, migliorandone la coltivazione e i tipi dei prodotti. Le guerre del secolo secondo scalzarono queste fortune e ritardarono o arrestarono lo sviluppo economico; ma non operarono vera rovina, e al ritorno di condizioni normali poteva sperarsi la ripresa. La catastrofe del secolo terzo vibrò un fiero colpo alla prosperità dell’Impero e fiaccò le energie creative della parte migliore della popolazione. Le riforme di Diocleziano e di Costantino resero difficile, anzi quasi impossibile qualsiasi attività economica produttiva; ma non arrestarono la creazione di grandi fortune, anzi contribuirono alla formazione di esse, mutandone tuttavia il carattere. A fondamento delle nuove fortune stava non l’energia fattiva degli individui, né la scoperta e lo sfruttamento di nuove sorgenti di ricchezza, né il miglioramento e lo sviluppo d’intraprese commerciali, industriali, agricole: le nuove fortune provenivano principalmente dal destro uso di posizioni privilegiate, che permettevano di frodare e di sfruttare a un tempo lo Stato e il popolo. I pubblici funzionari, alti e bassi, diventavano ricchi con le sportule e la corruzione. I membri della classe senatoria, immuni dai pesi municipali, investivano il proprio bottino in terreni e adoperavano la propria influenza, l’influenza
bibliografia); F. OERTEL, Die Liturgie (1917) e Der Niedergang der hellenistischen Kultur in Aegypten, «Neue Jahrb. f. Klass. Alt.», 45 (1920), pp. 361 sgg.; A.S. HUNT e H.I. BELL, P. Oxy., XVI (1924; documenti dal V al VII sec. d.C.); H.I. BELL, Jews and Christians in Egypt (1924). Due gruppi molto istruttivi di documenti illustrano la vita piacevole che i soldati conducevano ad Elefantina e la vita d’oppressione dei contadini del villaggio di Aphrodito: i primi sono tra i P. Mus. Brit. V (pp. 169 sgg.) e tra i Byz. P. München (vd. supra), i secondi in P. MASPÉRO, Papyrus grecs d’époque byzantine, voll. I-III (1910-16) [P. Flor. III, nn. 279 sgg. e P. Mus. Brit. V, pp. 21 sgg.]. Interessantissimi sono infine i documenti che si riferiscono alla famiglia d’Apion, famiglia d’origine locale che apparteneva alla nobiltà dell’Impero e possedeva molti beni in Egitto, P. Oxy., 1829 (si noti l. 24) [vd. il libro utilissimo di E.R. HARDY, The Large Estates of Byzantine Egypt, 1931; cf. W. HENGSTENBERG, Die griechisch-koptischen moulon Ostraka, «Zeitschr. f. äg. Spr.», 66 (1931), pp. 51 sgg. e 122 sgg.]. Sulla contabilità della tenuta di Apione: P. Oxy. XVIII, 2195 sgg. Per le condizioni economiche e sociali dell’Impero bizantino in generale vd. L. BRENTANO, Die byzant. Volkswirtschaft, «Schmoller’s Jahrb. f. Gesetzg. etc.», 41 (1917), pp. 11 sgg.; C. ROTH, Sozial- und Kulturgesch. des byzant. Reiches (19192). Un resoconto generale sugli ultimi lavori e suoi nuovi ritrovamenti di papiri relativi all’Egitto bizantino si ha in H.I. BELL, The Decay of a Civilization, «Journ. of. Eg. Arch.», 10 (1924), pp. 207 sgg. [cf. il Bulletin Papyrologique di M. HOMBERT pubblicato in «Byzantion» (dal 1926 in poi)].
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1. Romani della tarda età imperiale a caccia
2. Coloni che recano regali (Colonna di Igel)
TAV. LXXX – L’ITALIA E L’AFRICA NELLA
TARDA ETÀ IMPERIALE
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DESCRIZIONE DELLA
TAVOLA
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1. FRAMMENTO DI MOSAICO. Trovato a Roma presso la chiesa di S. Bibbiana. Antiquarium comunale, Roma. «Boll. Comm. arch. com. di Roma», 32 (1904), p. 375; HELBIG e AMELUNG, Führer, I, p. 603, nn. 1072-1074; J. AYMARD, «Mél. Éc. Fr. Rome Ant.», 54 (1937), p. 58.
Uno dei tre frammenti d’un grande mosaico, che raffigura un uomo a cavallo che dà la caccia ad un cinghiale nella foresta con l’aiuto di un grande e feroce molosso. L’uomo è barbato e vestito secondo la tarda moda romana; la sella e le briglie sono riccamente ornate. Gli altri due frammenti raffigurano altre scene di caccia: collocamento di reti per antilopi e cattura di orsi mediante trappole di legname. Stilisticamente questo mosaico va confrontato con quelli, recentemente scoperti, del palazzo di Teoderico a Ravenna, e certamente appartiene allo stesso periodo; vedi G. GHIRARDINI nei «Mon. ant. dei Lincei», 24 (1918), tav. V (scena di caccia quasi identica). Il nobile Romano del nostro frammento è indubbiamente un Goto-romano. Scene tarde di caccia: Di un insigne vetro romano-tardo da Charamonte Gulfi (Ragusa), «Riv. R. Ist. d’Arch. e Stor. d’Arte», 4 (1932-33), pp. 61 sgg.; in generale, sul vetro tardoromano con scene di caccia M. GINSBURG, Hunting Scenes on Roman Glass in the Rhineland, 1941 («Univ. of Nebraska Studies», 41, 2).
2. PARTE DI MOSAICO. Trovato a Cartagine ai piedi della collina Borgi Gedid. British Museum. Inv. d. mos., II, 1 (Tunisie), n. 763, cf. n. 886, dove si cita A.W. FRANKS, «Archaeologia», 38 (1860), p. 225, n. 5; N. DAVIS, Carthage and Her Remains, 1861, pp. 531 sgg.; MORGAN, Romano-British Pavements, pp. 272 sgg., che cita «Builder», 42 (1882), pp. 757 sgg.; British Museum Guide to the Greco-Roman Sculptures, II, 1876, parte II, pp. 80 sgg. Il nostro frammento, che io sappia, non è stato riprodotto. L’edificio in esso dipinto è stato descritto e riprodotto (come parte della cinta di Cartagine!) da A. GRAHAM, Roman Africa, 1902, p. 24 e tavola. Il mosaico è una delle più tarde repliche dei tipici modelli africani con scene di caccia (cf. tavv. LXIII e LXXVI, 1). Sulla parte qui riprodotta il proprietario d’una vasta tenuta cavalca nel paese collinoso che circonda la sua villa, da cui egli è testé partito. Con la destra fa un gesto di saluto. Il suo abito, lo stile dei finimenti del cavallo, e il suo tipo facciale fanno pensare a un Vandalo o a un Romano-africano dei periodi vandalico o bizantino. Il marchio impresso su una coscia del cavallo, formato da tre canne e da una mezzaluna disposte in croce, è uno scongiuro contro il malocchio. Il nostro frammento fa parte della prima zona del mosaico. Nella seconda zona lo stesso uomo (sullo stesso cavallo) dà la caccia a due gazzelle (Inv. d. mos., n. 763), mentre un altr’uomo cattura un cervo col laccio (ibid., n. 886). Altri frammenti mostrano un cinghiale e un cane, una lepre ecc. Il mosaico aveva almeno due zone, forse tre. Intorno alle scene di caccia nella tarda età romana, specialmente sui sarcofaghi, vd. G. RODENWALDT, «Röm. Mitt.», 36-37 (1921-2), pp. 58 sgg.
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della propria casta – che in questo campo era più potente degli imperatori e annullava tutte le loro buone intenzioni – nel divertire gli oneri tributari sulle altre classi, nel frodare direttamente il tesoro, e nell’asservire sempre maggior numero di lavoratori. Non possiamo qui esaminare come e a qual titolo essi abbiano usurpato grandi tratti di fertile terreno, tanto proprietà privata quanto della corona7. Li abbiamo visti all’opera in Egitto nel terzo secolo; nel quarto, essi continuarono a procedere per la stessa via. Vendita, fitto, patronato, fitto senza termine, fitto ereditario con l’obbligo della coltivazione (emphyteusis), furono tutti sistemi per i quali la classe senatoria divenne la classe dei grandi proprietari terrieri per eccellenza e si formavano vasti dominii sparsi per tutte le province e arieggianti a piccoli principati. Pochi tra i membri della classe senatoria vivevano nella capitale o nelle altre città: essi per lo più si costruivano in campagna grandi e belle ville fortificate e lì abitavano, circondati dalle loro famiglie, dai loro schiavi, da un corteggio di clienti armati, da migliaia di servi e dipendenti rurali. Conosciamo bene il loro tenore di vita dalle descrizioni di Ausonio, di Paolino di Pella, di Sidonio Apollinare, di Salviano, dalle numerose rovine delle loro ville, da alcuni mosaici di pavimenti che raffigurano la bellezza dei castelli rurali e urbani di questi signori. Questa classe era numerosa e potente. Ogni uomo «nuovo» che facesse fortuna si sforzava tenacemente di entrare a farne parte, e parecchi vi riuscivano. I membri di essa erano buoni patriotti, animati di amore sincero per Roma e per l’Impero, servivano fedelmente l’imperatore, e avevano in grandissimo pregio la civiltà e la cultura. La loro visuale politica era ristretta, la loro servilità sconfinata; ma la loro apparenza esterna era maestosa, e la loro aria da gran signori impressionava perfino i barbari che a poco a poco andavano diventando padroni dell’Impero. Per le altre classi avevano simpatie e comprensione soltanto in teoria, manifestando letterariamente la loro commiserazione: ma questa non aveva effetti pratici. In realtà questi gran signori consideravano le altre classi come composte di esseri inferiori, avvicinandosi per questo rispetto al modo di pensare dell’aristocrazia romana del primo secolo a.C. e del primo secolo d.C. Invece i senatori del secondo secolo non erano stati per nulla né così esclusivi né così orgogliosi. Non mancavano, naturalmente, le eccezioni, ma erano poco numerose. In tal modo più che mai la società era divisa in due classi: quella che andava diventando sempre più povera e derelitta, e quella che edificava la sua prosperità sul saccheggio del crollante Impero, composta in massima parte di veri e propri oziosi, che non contribuivano in alcun modo alla vita economica, e vivevano dei sudori delle altre classi. La rivoluzione sociale del terzo secolo, che distrusse le fondamenta della vita economica, sociale, intellettuale del mondo antico, non poté condurre ad
7. Intorno ai vari tipi di proprietà agraria del Basso Impero vd. le mie Studien, pp. 393 sgg. Molto istruttivo per noi è quel che apprendiamo su un grande patrimonio del sec. V dalle diverse fonti della vita di S. Melania, vd. P. ALLARD, «Rev. d. quest. hist.», 81 (1907), pp. 6 sgg.; cf. i suoi lavori sulla servitù e la schiavitù, ibid., 89 e 90 (1911) e 91 (1912).
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alcun risultato positivo. Sulle rovine di uno Stato prospero e bene ordinato, fondato sull’antichissima civiltà classica e sull’autogoverno delle città, essa costruì uno Stato fondato sull’ignoranza generale, sulla coercizione e sulla violenza, sulla schiavitù e il servilismo, sulla corruzione e sulla disonestà. Abbiamo noi il diritto d’accusare gli imperatori del quarto secolo di avere edificato un simile Stato deliberatamente e di loro propria scelta, mentre avrebbero potuto scegliere un’altra via e costruire non lo Stato di schiavi del Basso Impero, ma uno Stato immune dagli errori della prima età imperiale, che però non consacrasse la pratica brutale del periodo rivoluzionario? Sarebbe ozioso porre tale quesito. Gli imperatori del quarto secolo, Diocleziano anzitutto, crebbero in un’atmosfera di violenza e di coercizione; mai videro qualche cosa di diverso, mai s’imbatterono in un altro metodo. La loro educazione era modesta, la loro preparazione esclusivamente militare. Essi presero sul serio i loro doveri, ed erano animati dal più sincero amore per il loro paese. Si proposero di salvare l’Impero romano, e vi riuscirono. A questo scopo si valsero, con le migliori intenzioni, dei mezzi ch’erano a portata di mano, cioè violenza e coercizione. Non si domandarono se valeva la pena di salvare l’Impero romano per farne un vasto carcere a milioni di uomini. Chiunque legge un volume dedicato all’Impero romano si aspetta che l’autore dica la propria opinione su quel processo storico che generalmente, dal Gibbon in poi, suol chiamarsi decadenza e rovina dell’Impero romano, o piuttosto della civiltà antica in generale. Esporrò adunque le mie vedute su questo problema dopo avere definito in che cosa credo che esso essenzialmente consista. La cosidetta rovina dell’Impero romano, cioè della civiltà antica nel suo complesso, presenta due aspetti: da un lato l’aspetto politico, sociale, economico, dall’altro lato l’aspetto intellettuale e spirituale. Nel campo politico osserviamo un progressivo imbarbarimento dell’Impero dall’interno, specialmente in Occidente. Gli elementi forestieri, i Germani, assumono la parte dirigente così nel governo come nell’esercito, e stanziandosi in massa dislocano a mano a mano la popolazione romana. Avvenimento affine a questo, e conseguenza necessaria dell’imbarbarimento dall’interno, fu la graduale disintegrazione dell’Impero romano d’Occidente; le classi dominanti nelle antiche province furono sostituite prima da Germani e da Sarmati, poi da soli Germani, sia per penetrazione pacifica sia per conquista. In Oriente osserviamo la graduale orientalizzazione dell’Impero bizantino, che infine condusse al sorgere, sulle rovine dell’Impero romano, di forti Stati semi-orientali o puramente orientali, come il califfato di Arabia e gli imperi dei Persiani e dei Turchi. Sotto l’aspetto sociale ed economico intendiamo per decadenza la ricaduta del mondo antico in forme a un tempo primitive e raffinate di vita economica, che sogliono chiamarsi «economia domestica». Le città, che avevano creato e sorretto le forme più elevate della vita economica dell’antico mondo greco-romano, a poco a poco scomparvero, e la maggior parte di esse scomparvero in modo effettivamente definitivo dalla faccia della terra. Alcune poche, specialmente quelle ch’erano state grandi centri commerciali e industriali, continuarono a vegetare. Il complesso e raffinato sistema sociale del mondo antico seguì lo stesso corso retrogrado e si ridusse ai suoi elementi primitivi: il re, la sua Corte e il suo seguito, i grandi
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proprietari feudali, il clero, la massa dei servi rurali, e piccoli gruppi d’artigiani e di mercanti. Questo è dunque l’aspetto politico, sociale, economico del problema. Tuttavia non si deve troppo generalizzare. L’Impero bizantino non può mettersi a paro con gli Stati dell’Europa occidentale o con le nuove formazioni slave. Ma una cosa è certa: sulle rovine della vita economica uniforme delle città s’inizia dappertutto un’evoluzione speciale, localmente differenziata. Sotto l’aspetto intellettuale e spirituale, il fenomeno principale è la decadenza dell’antica civiltà, della civiltà urbana del mondo greco-romano. Le civiltà orientali si mostrarono più salde: mischiate con alcuni elementi di civiltà urbana-greca, esse si conservarono e anzi ebbero un brillante risveglio di vitalità nel califfato d’Arabia e in Persia, a tacere dell’India e della Cina. Anche qui si presentano due aspetti dell’evoluzione. Il primo è l’esaurimento delle forze creatrici della civiltà greca nei campi dov’essa aveva conseguito i suoi massimi trionfi, cioè nelle scienze esatte, nella tecnica, nella letteratura, nell’arte. La decadenza era incominciata già nel secolo II a.C. Seguì una temporanea rinascita delle forze creatrici nelle città d’Italia, e più tardi in quelle delle province orientali e occidentali dell’Impero. Il moto progressivo s’arrestò quasi completamente nel secondo secolo d.C., e, dopo un periodo di ristagno, ricominciò rapida e continua la decadenza. Parallelamente, notiamo un indebolimento progressivo delle forze assimilatrici della civiltà greco-romana. Le città non riescono più ad assorbire – vale a dire ad ellenizzare o a romanizzare – le masse della popolazione rurale. Anzi avviene l’inverso: la barbarie della campagna comincia ad inghiottire la popolazione urbana. Restano soltanto poche isole di vita civile, l’aristocrazia senatoria del Basso Impero e il clero; ma entrambe, eccetto una parte del clero, sono a poco a poco anche esse sommerse nel deserto della barbarie. Un altro aspetto del medesimo fenomeno è lo svilupparsi di una nuova mentalità nelle popolazioni: la mentalità delle classi inferiori, poggiata unicamente sulla religione e non soltanto indifferente, ma apertamente ostile alle conquiste intellettuali delle classi superiori. Questo nuovo atteggiamento spirituale a poco a poco s’impadronì anche delle classi più elevate, o almeno degli strati più ampi di esse. Esso si manifesta col diffondersi, in seno ad esse, di svariate religioni misteriche, in parte orientali, in parte greche: il punto culminante si raggiunge col trionfo del cristianesimo. In questo campo il potere creativo del mondo antico era ancor vivo, come dimostrano alcuni risultati di grande momento, quali la creazione della Chiesa cristiana, l’adattamento della teologia cristiana agli abiti intellettuali delle classi elevate, il sorgere di una poderosa letteratura cristiana e di una nuova arte cristiana. Il nuovo sforzo intellettuale mirava principalmente ad influire sulla massa delle popolazioni e rappresentava quindi un abbassamento dell’alto livello della civiltà urbana, almeno per quanto concerne le forme letterarie8.
8. Intorno all’antica e nuova mentalità vd. il libro splendidamente scritto di J. GEFFCKEN, Der Ausgang des griech.-röm. Heidentums (1929) con indicazione delle fonti
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Possiamo affermare dunque che vi è un carattere prominente nell’evoluzione del mondo antico durante l’età imperiale, tanto nel campo politico quanto nel campo sociale, nel campo economico, nel campo intellettuale: cioè il graduale assorbimento delle classi elevate nelle inferiori, accompagnato da un graduale livellamento in senso regressivo. Tale livellamento s’operò in più modi. Vi fu una lenta penetrazione delle classi inferiori nelle superiori che furono incapaci di assimilare i nuovi elementi. Vi furono quindi gli scoppi violenti della interna mancanza d’unità: il segnale ne fu dato dalle città greche, e poi tenne dietro la guerra civile del sec. I a.C., che coinvolse l’intiero mondo civile. In queste lotte rimasero in complesso vittoriose le classi superiori e la civiltà urbana. Due secoli dopo, un nuovo scoppio della guerra civile terminò con la vittoria delle classi inferiori, e inferse un colpo mortale alla civiltà greco-romana delle città. Finalmente questa civiltà fu totalmente inabissata dall’alluvione degli elementi barbarici venuti dall’esterno, in parte per via di penetrazione, in parte per via di conquista; ed essendo in punto di morte, essa non fu capace d’assimilare neppure una piccola parte di questi elementi. Il problema principale che dobbiamo risolvere è adunque il seguente: come mai la civiltà urbana della Grecia e dell’Italia si palesò incapace di assorbire le masse, perché mai essa rimase civiltà d’una classe scelta, perché mai essa fu impotente ad assicurare al mondo antico un progresso continuo, ininterrotto lungo le stesse vie della civiltà urbana? In altri termini: perché mai la civiltà moderna dovette costruirsi con penosa fatica come qualcosa di nuovo sulle rovine dell’antica, anziché esser continuazione diretta di questa? Sono state proposte varie spiegazioni, ciascuna delle quali pretende di dare la soluzione finale del problema. Esaminiamone le più importanti. Esse si suddividono in quattro gruppi9. 1) Non pochi eminenti studiosi cercano la soluzione nel campo politico. Per il Beloch10 la decadenza della civiltà antica fu causata dall’assorbimento delle città-Stato greche nell’Impero romano, dalla creazione di uno Stato mondiale che impedì alle forze creatrici della Grecia di svolgere e consolidare le grandi
e una buona bibliografia aggiornata; per l’Occidente dell’Impero questo tema è svolto dal DILL (cit. nella nota 5). Per l’incremento della Chiesa e lo svolgimento della mentalità cristiana vd. ED. SCHWARTZ, Kaiser Constantin und die christliche Kirche (1913). Non è il luogo di ricordare la copiosa letteratura relativa a quest’argomento: una buona bibliografia si trova nella Cambridge Medieval History, I, cap. 4-6, 17, 18, 20, 21; cf. le esposizioni generali da me ricordate nella nota 1. 9. È impossibile dar qui l’enumerazione completa di tutti i libri e articoli che sono stati scritti su questo tema. Nella maggior parte degli scritti recenti, che saranno citati nelle note seguenti, il lettore troverà esposizioni riassuntive delle varie teorie formulate dagli studiosi del sec. XIX. Al nostro scopo basta ricordare i più recenti tentativi fatti per risolvere questo problema. Son dolente di non poter trarre partito dell’articolo di M. WEBER, Die sozialen Gründe des Untergangs der ant. Kultur, «Die Wahrheit», 6 (1896), pp. 59-77; cf., IDEM, Wirtschaft und Gesellschaft, 1921 («Grundr. der Sozialökonomie», III, 2), II, pp. 211 sgg., e Agrarverhältnisse im Altertum (1924). 10. J. BELOCH, Der Verfall der ant. Kultur, «Hist. Zeitschr.», 84 (1900), pp. 1 sgg.
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conquiste della vita civile. In questa veduta vi è del vero. È evidente che la creazione dell’Impero romano fu un passo avanti nel processo di livellamento, e che facilitò l’assorbimento finale delle classi elevate. Dobbiamo tuttavia tener presente che la guerra di classe era un carattere ordinario della vita greca, e che non abbiamo il minimo diritto di supporre che le comunità cittadine della Grecia avrebbero trovato una soluzione dei problemi sociali ed economici dai quali nelle varie comunità scaturiva la guerra civile. Inoltre, questo modo di vedere presuppone che nel mondo antico vi fosse una sola razza creatrice, il che è notoriamente falso. Un’altra spiegazione, indirizzata nello stesso senso, è stata presentata dal Kornemann11. Questi ritiene che la causa principale della decadenza dell’Impero romano sia stata la riduzione delle forze militari, operata da Augusto e mantenuta dai suoi successori. Questa soluzione dà importanza al solo lato militare del problema, ed è quindi un ritorno all’idea antiquata che la civiltà antica sia stata distrutta dalle invasioni barbariche: idea che non si dovrebbe cercar di rimettere in onore. Del resto, il limitarsi ad un esercito relativamente piccolo era imposto in modo imperativo dalla debolezza economica dell’Impero; fatto, questo, che fu ben capito da tutti gli imperatori. Ancor meno convincente è l’idea del Ferrero12, secondo cui il collasso del-l’Impero fu dovuto ad un avvenimento disastroso, ad un accidente ch’ebbe le più gravi conseguenze. Egli ritiene infatti che Marco Aurelio, trasmettendo il potere al figlio Commodo anziché ad un uomo scelto dal Senato, abbia scalzato quell’autorità senatoria sulla quale poggiava l’intiero edificio dell’Impero; che l’uccisione di Commodo abbia condotto all’usurpazione di Settimio Severo e alla guerra civile del terzo secolo; e che l’usurpazione e la guerra civile abbiano distrutto l’autorità del Senato e tolto al potere imperiale la sua unica legittimazione agli occhi di quella parte della popolazione che ne era il sostegno principale. Il Ferrero dimentica che nel terzo secolo il potere imperiale derivava ancora legalmente dal Senato e dal popolo di Roma, che lo stesso concetto vigeva perfino ai tempi di Diocleziano, e che sopravviveva ancora sotto Costantino e i suoi successori. Dimentica altresì che la formula sottile di Augusto, di Vespasiano, degli Antonini, era incomprensibile alle masse popolari dell’Impero, e che era una creazione delle classi superiori completamente estranea alle concezioni popolari. Infine, egli non intende il vero carattere della crisi del terzo secolo. La lotta si combatteva non tra il Senato e l’imperatore ma tra le città e l’esercito – cioè, le masse dei contadini. ma era molto più complicato e dipendeva da varie cause tra le quali il disordine generale e l’insoddisfazione delle masse erano probabilmente quelle decisive. Una spiegazione più profonda è offerta da Heitland13.
11. E. KORNEMANN, Das Problem des Untergangs der ant. Welt, «Vergangenheit und Gegenwart», 12 (1922), 5, 6. 12. G. FERRERO, La Ruine de la civilisation antique (1921; pubblicato per la prima volta nella «Rev. d. Deux Mondes»). 13. W.E. HEITLAND, The Roman Fate, an Essay in Interpretation (Cambridge, 1922); Iterum or a further discussion of the Roman Fate (1925); Last words on the Roman Municipalities (1928).
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Egli pensa che il mondo antico decadde perché fu incapace di chiamare le masse a partecipare al governo, anzi andò sempre più restringendo il numero di coloro che prendevano parte alla vita dello Stato, riducendolo infine all’imperatore medesimo, alla sua Corte, alla burocrazia imperiale. Io considero questo punto soltanto come uno degli aspetti del grande complesso precedentemente descritto [S2]. Abbiamo noi il diritto di supporre che gli imperatori non avrebbero tentato di introdurre il sistema rappresentativo, se lo avessero conosciuto e avessero avuto fiducia in esso? Essi escogitarono vari altri disegni e fallirono. Se l’idea del governo rappresentativo era estranea al mondo antico (e in linea di fatto estranea non era, come dimostrano alcune istituzioni delle città e leghe greche), perché il mondo antico non pervenne a creare quest’idea, in realtà non molto difficile? Inoltre, sorgono molte domande. Siamo noi sicuri che il governo rappresentativo sia la causa della nostra brillante civiltà e non soltanto uno dei sintomi di essa? Abbiamo noi la più lieve ragione di credere che la democrazia moderna sia garanzia di continuo e ininterrotto progresso, e che sia capace d’impedire lo scoppio della guerra civile alimentata dall’odio e dall’invidia? Non dimentichiamo che le più moderne teorie politiche e sociali affermano essere la democrazia un’istituzione antiquata, fradicia e corrotta, rampollata dal capitalismo, e l’unica forma giusta di governo essere la dittatura del proletariato, che significa annullamento completo della libertà civile e impone a ciascuno l’unico ideale del benessere materiale e dell’egualitarismo su esso fondato [S3]. 2) Va completamente respinta la spiegazione economica della decadenza del mondo antico. Parlando dello sviluppo dell’industria nel mondo antico14, mi sono occupato della teoria di K. Bücher, accettata con modificazioni da M. Weber e da G. Salvioli. Se questa teoria non riesce a spiegare neppur questo punto secondario, tanto meno può servire a chiarir l’intiero fenomeno. I difensori di questa teoria dimenticano che il mondo antico attraversò parecchi cicli evolutivi, nei quali occorrono lunghi periodi di progresso e altri di ritorno a condizioni più primitive, a quella fase di vita economica che suol chiamarsi «economia domestica». È vero che il mondo antico non raggiunse mai quello stadio economico in cui viviamo noi; ma nella storia del mondo antico abbiamo parecchi periodi di grande sviluppo economico: così certi periodi della storia d’alcune monarchie orientali, particolarmente della Babilonia, dell’Egitto, della Persia; l’età del massimo sviluppo delle città-Stato, specialmente il secolo IV a.C.; il periodo delle monarchie ellenistiche, culminante nel secolo III a.C.; il periodo della tarda repubblica e del primo Impero romano. Tutti questi periodi mostrano differenti aspetti di vita economica e differenti aspetti del capitalismo: in nessuno di essi prevalse la forma dell’economia domestica. Possiamo paragonare l’aspetto economico della vita di questi periodi con quello di parecchi paesi d’Europa durante il Rinascimento e più tardi, sebbene in
14. Cap. VII, nota 91, [cf. O. VON ZWIEDINECK, Was macht ein Zeitalter kapitalisch, «Zeitschr. f. ges. Staatsw.», 90 (1931), pp. 432 sgg. e M. ROSTOVTZEFF, ibid., 92 (1932), p. 334].
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nessun caso il confronto possa riuscire perfetto, in quanto non v’è identità tra lo sviluppo economico del mondo moderno e quello del mondo antico. A seconda delle diverse condizioni economiche di questi vari periodi della storia del mondo antico, variarono i rapporti tra economia domestica ed economia capitalistica; e variarono non soltanto nei diversi periodi, ma anche nelle diverse parti del mondo antico durante lo stesso periodo. Sotto questo riguardo il mondo antico non era dissimile dal moderno. Nei paesi industriali d’Europa, come l’Inghilterra e alcune parti della Germania e della Francia, oggi la vita economica non è per nulla la stessa che nelle zone agricole quali la Russia, la penisola dei Balcani, gran parte del prossimo Oriente. La vita economica degli Stati Uniti d’America non è affatto identica a quella dell’Europa o delle varie parti dell’America meridionale, a tacere della Cina, del Giappone, dell’India. Così accadeva anche nel mondo antico. Mentre la Babilonia e l’Egitto avevano una vita economica complessa, con un’industria assai sviluppata e vaste relazioni commerciali, altre parti del prossimo Oriente conducevano una vita affatto diversa e più primitiva. Mentre nel sec. IV a.C. Atene, Corinto, Rodi, Siracusa, Tiro, Sidone erano centri di sviluppato capitalismo commerciale, altre città greche menavano vita quasi esclusivamente agricola. Precisamente lo stesso avvenne nei periodi ellenistico e romano. Il fatto principale da spiegarsi è come mai il capitalismo, che fece la sua comparsa in vari tempi e in vari luoghi, e prevalse in ampi tratti del mondo antico per periodi relativamente lunghi, da ultimo abbia dovuto cedere il campo a forme di vita economica più primitive. Queste ultime non sono completamente scomparse neppure ai giorni nostri. È evidente che il problema non può risolversi affermando che il mondo antico viveva interamente nelle forme della primitiva economia domestica: l’affermazione è manifestamente erronea. Possiamo dire esattamente lo stesso di vaste zone del mondo moderno; e non possiamo essere del tutto sicuri che una catastrofe violenta non possa ricondurre indietro anche il moderno mondo capitalistico verso la fase primitiva dell’economia domestica. Riassumendo quanto ho detto, la semplificazione economica della vita antica non fu la causa di ciò che chiamiamo decadenza del mondo antico, ma soltanto uno degli aspetti del fenomeno più generale che le teorie testé menzionate vorrebbero spiegare. In questa, come nelle altre sfere della vita umana, nel campo politico, sociale, intellettuale, religioso, le forme più primitive di vita esistenti tra le masse non vennero assorbite dalle forme più elevate, anzi da ultimo trionfarono su di esse. Possiamo a nostra posta scegliere uno di questi fenomeni e dichiarare ch’esso è la causa ultima; ma sarebbe un assunto arbitrario che non convincerebbe alcuno. Il problema resta quindi insoluto. Perché il capitalismo antico assunse forme diverse dal moderno? Perché non percorse le stesse vie di oggi? Perché non s’inventarono le macchine? Perché i sistemi degli affari non giunsero a perfezionarsi? Perché non si poterono toglier di mezzo gli elementi fondamentali dell’economia primitiva? Essi andavano a poco a poco scomparendo; perché la scomparsa non fu completa? Dire ch’essi erano quantitativamente più forti che ai giorni nostri non ci aiuta a spiegare il fenomeno principale. Alcuni storici dell’economia sentono bene che la spiegazione consueta tocca soltanto la superficie e non il nucleo del problema e tentano di salvare la
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spiegazione economica, nonché la concezione materialistica dell’evoluzione storica in generale, attribuendo ad alcuni potenti fattori fisici la debolezza che nel mondo antico mostrarono le forme più elevate di vita economica. Alcuni studiosi hanno voluto trovare questo fattore nel generale esaurimento del suolo di tutto il mondo antico, che avrebbe raggiunto il punto culminante sotto l’Impero romano, producendone la rovina. Mi sono già occupato di questa teoria precedentemente*: non vi è alcun fatto che la avvalori, anzi tutti i fatti che conosciamo sull’evoluzione economica del mondo antico stanno contro di essa. L’agricoltura decadde nel mondo antico nello stesso modo e per le stesse cause degli altri rami della vita economica. Non appena nelle varie parti del-l’Impero miglioravano le condizioni politiche e sociali, i campi e i frutteti ricominciavano a dare gli antichi raccolti; lo attesta la floridezza della Gallia ai tempi di Ausonio e di Sidonio Apollinare; lo attesta il fatto che in Egitto, che ha un suolo inesauribile e di cui anche le parti non accessibili all’inondazione si prestano tuttavia con grande facilità ad essere migliorate coi metodi più primitivi, nel terzo e quarto secolo l’agricoltura decadde non meno che nelle altre province. È chiaro dunque che la spiegazione economica non ci è di giovamento, e che le indagini degli storici dell’economia mettono in luce, non la causa del collasso del mondo antico, ma soltanto uno degli aspetti di esso. 3) Il rapido sviluppo delle scienze mediche e biologiche ha avuto la sua influenza anche sul problema della decadenza della civiltà antica. Si è più volte proposta una soluzione biologica, e al mondo antico sono state applicate le teorie della degenerazione e del suicidio di razza. La teoria biologica ci offre una spiegazione in apparenza esauriente del declinare delle forze assimilatrici delle classi superiori civili: esse a poco a poco sarebbero andate degenerando e non avrebbero avuto più la forza d’assorbire le classi inferiori, rimanendo anzi esse medesime assorbite da queste. Secondo il Seeck15 la causa della loro degenerazione e del loro regresso numerico fu lo «sterminio dei migliori» causato dalle guerre civili ed esterne. Altri, come Tenney Frank16, pensano ad una contami-
*. pp. 586 sgg. 15. La sua ben nota teoria è esposta integralmente nella sua opera principale, Gesch. des Untergangs der antiken Welt, I, 1901. 16. T. FRANK, Race Mixture in the Roman Empire, «American Historical Review», 21 (1916), pp. 689 sgg., e A History of Rome (1922), pp. 565 sgg. La sua concezione, quale è formulata nell’ultimo dei libri citati, è una combinazione della teoria economica e della biologica. Sul problema in generale e sul metodo seguito da T. Frank, M. GORDON, «J. R. S.», 14 (1924), pp. 93 sgg., e specialmente E. CICCOTTI, Motivi demografici e biologici nella rovina della civiltà antica, «Nuova Riv. Stor.», 14 (1930), fascc. I-II. Per l’Italia settentrionale, G.E.F. CHILVER, Cisalpine Gaul, Oxford, 1941, pp. 54 sgg. Mi piace qui aggiun-
gere una breve bibliografia degli scritti che negli ultimi anni si sono accinti al compito di raccogliere e spiegare i dati che noi possediamo intorno alla mescolanza delle razze in Italia e in Gallia: A. SOLARI, Delle antiche relazioni commerciali fra la Siria e l’Occidente I. In Roma e in Gallia, «Annali delle Università toscane», 6, (1916), pp. 1 sgg.; IDEM, I Siri nell’Emilia antica, «Rivista indo-greco-italica», 1921, pp. 165 sgg.; R. VULPE, Gli Illiri dell’Italia imperiale romana, «Ephem. Dacoromana», 3 (1925), pp. 129 sgg.; G.C. MATEESCU, I Traci nelle epigrafi di Roma, ibid., 1 (1923), pp. 57 sgg.
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nazione delle razze superiori dovuta alla miscela col sangue di razze inferiori. Altri ancora considerano la degenerazione come un processo comune a tutte le società umane: i migliori non sono sterminati né contaminati, ma commettono suicidio sistematico non riproducendosi e lasciando che i tipi d’umanità inferiore figlino invece liberamente17. Mi dichiaro incompetente a dare un giudizio sul problema della degenerazione sotto l’aspetto biologico e fisiologico; ma sotto l’aspetto storico mi permetto di rilevare contro il Seeck che nelle guerre e nelle rivoluzioni non vengono distrutti soltanto i migliori: d’altra parte, non sempre le rivoluzioni impediscono che segua un periodo di grande fiore. Contro il Frank posso osservare che non vedo alcun criterio per distinguere tra razze superiori e razze inferiori. Perché le razze greca e latina si vogliono considerare uniche razze superiori dell’Impero romano? Alcune delle razze che avrebbero «contaminato» i dominatori, per esempio le razze pre-indoeuropee e pre-semitiche, cioè le razze mediterranee, avevano avuto per l’innanzi grandi civiltà (l’egiziana, la minoica, l’iberica, l’etrusca, le civiltà dell’Asia Minore), e lo stesso vale per le civiltà semitiche e iraniche. Perché mai la mistura del sangue di queste razze dovrebbe aver contaminato e deteriorato il sangue dei Greci e dei Romani? D’altra parte, Celti e Germani appartenevano allo stesso ceppo dei Greci e dei Romani; i Celti possedevano una propria elevata civiltà materiale, i Germani erano destinati a svolgere un’alta civiltà più tardi. Perché mai la mistura del loro sangue avrebbe dovuto corrompere anziché rigenerare con sangue giovane i loro parenti arii, i Greci e i Romani? La teoria della naturale decadenza della civiltà per effetto del suicidio di razza non fa che constatare lo stesso fenomeno generale di cui ci andiamo occupando, vale a dire il graduale assorbimento delle classi superiori per opera delle inferiori e la mancanza di potere assimilativo nelle superiori. Essa constata il fatto, non lo spiega. Perché i migliori non riproducevano la loro razza? Il problema può risolversi in vari modi; può proporsi una soluzione economica, fisiologica, psicologica: ma nessuna di siffatte soluzioni è conveniente. 4) Spessissimo è stato chiamato responsabile della caduta della civiltà antica il cristianesimo. Questo è certamente un modo di vedere molto angusto. Il cristianesimo non è che un lato del cambiamento generale di mentalità intervenuto nel mondo antico. Possiamo dire che questo mutamento sia stato la causa ultima della caduta della civiltà antica? Non è facile distinguere tra cause e sintomi, e uno dei compiti più urgenti che si presentino alla storia antica è appunto quello d’indagare più a fondo questo mutamento di mentalità. Esso, senza dubbio, fu uno dei fattori più potenti della decadenza progressiva della civiltà dello Stato-città e del sorgere d’una nuova intuizione del mondo e d’una
17. Un’ottima esposizione del problema sotto l’aspetto biologico e stata data non ha guari da un giovane studioso russo, N.A. VASSILIEV, Il problema della caduta dell’Impero romano d’Occidente e della civiltà antica, Kazan, 1921 (in russo). In questa stessa categoria rientra in certo modo la teoria di O. SPENGLER, secondo cui ogni civiltà va necessariamente incontro alla rovina finale, vd. Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte, voll. I-II (1920-22).
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nuova civiltà. Ma come dobbiamo spiegare tale mutamento? È esso un problema di psicologia individuale e di psicologia di masse?18 Nessuna delle teorie proposte spiega adunque completamente il problema della decadenza del mondo antico, se applichiamo la parola «decadenza» al complesso fenomeno che io ho tentato di descrivere. Ognuna di esse, tuttavia, ha molto contribuito a chiarire lo sfondo, e ci ha aiutato a percepire che il fenomeno principale del processo di declinazione è il graduale assorbimento delle classi colte per opera delle masse e la conseguente semplificazione di tutte le funzioni della vita politica, sociale, economica, intellettuale, quel che noi insomma chiamiamo imbarbarimento del mondo antico. L’evoluzione del mondo antico è per noi una lezione e un monito. La nostra civiltà non sarà duratura se non a condizione ch’essa sia civiltà non di una sola classe, ma delle masse. Le civiltà orientali furono più stabili e durevoli della greco-romana perché, fondandosi principalmente sulla religione, erano più accessibili alle masse. Un’altra lezione è che i tentativi violenti di livellamento non hanno mai condotto all’elevamento delle masse: essi non hanno fatto altro che distruggere le classi superiori, accelerando così il processo di imbarbarimento. Ma il quesito ultimo rimane lì come un fantasma, sempre presente e non esorcizzabile: è possibile estendere una civiltà elevata alle classi inferiori senza degradare il contenuto di essa e diluirne la qualità fino all’evanescenza? Non è ogni civiltà destinata a decadere non appena comincia a penetrar nelle masse?
18. M. ROSTOVTZEFF, Il crollo della civiltà antica, «Russkaja Mysl», 1922, voll. VIXII (in russo, nel 1924 apparve una traduzione bulgara di G. Kazarov). Un nuovo tentativo (fatto sotto il punto di vista neomarxistico, bolscevico) di addossare al cristianesimo la responsabilità della rovina dell’Impero romano, è stato fatto nella 2a ediz. del libro di G. SOREL, La Ruine du monde antique (1925). Questo libro è senza valore per lo storico.
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SCHEDA 1 Fabbriche di Stato sono attestate, per il II sec. d.C., da un’iscrizione di Martigny (Octodunum-Forum Claudii-Vallesium), vd. E. HOWALD e E. MEYER, Die römische Schweiz, Zürich, 1940, n. 44: fabri[cam fun]ditus erutam cum porticu et tabernis vi igni[s consum]pta restituit … il procurator della provincia (sotto o poco dopo Marco Aurelio). Fabrica come fabbrica di stato per la produzione di armi è qui attestata per la prima volta prima del tardo Impero Romano: si veda DE RUGGIERO, Diz. ep., III, 18 sgg.; «RE», VI, coll. 1925 sgg.
SCHEDA 2 RECENTI POSIZIONI SULLA CRISI DELL’IMPERO ROMANO. N.H. BAYNES N.H. BAYNES, The Decline of the Roman Power in Western Europe. Some modern Explanations, «J. R. S.», 1943, pp. 28 sgg. Baynes nel suo articolo confonde due questioni: 1) Perché ci fu un cambiamento in generale nell’assetto politico, economico e sociale dell’Impero romano, che iniziò con la crisi del III secolo, cambiamento segnato da un elemento del tutto evidente, ossia il declino della forza militare, e 2) perché questo processo di cambiamento si svolse con tempi diversi in Occidente e in Oriente, in altre parole perché la crisi del III secolo minò radicalmente le forze dell’Occidente mentre la parte orientale recuperò la sua forza militare. Questo si spiega molto più facilmente che non le cause e le origini della crisi del III secolo, e la sua spiegazione è così ovvia che non può essere detta tale. L’Oriente era molto più ricco quanto a risorse e doveva affrontare un minor numero di fattori negativi dell’Occidente. Tuttavia questa spiegazione non regge per quel che riguarda il problema di fondo: perché la civiltà del mondo antico si trasformi nel suo complesso, in Oriente così come in Occidente. La spiegazione di Baynes è che l’Occidente era esposto a pesanti attacchi da parte di barbari organizzati, che fecero sì che il suo territorio si riducesse, e così pure la sua disponibilità di risorse umane (mancava il denaro per arruolare mercenari), mentre nell’Impero bizantino c’era una fonte di ricchezza e di uomini, soprattutto in Asia Minore, che non era sottoposta ad alcun attacco. L’Impero bizantino fu salvato dai soldati isaurici. Non riesco a capire Baynes. L’Italia non era nella stessa posizione dell’Asia Minore, protetta dalle province occidentali? La questione del declino dell’Impero romano non è la questione del suo collasso politico. Questo è facilmente spiegabile. Quello che conta non è il problema del collasso politico né quello della differenza, sotto questo profilo, tra Oriente e Occidente, ma il problema del cambiamento nella morfologia urbana, che in genere è detto «decadenza», che era comune ad Oriente e ad Occidente.
SCHEDA 3 LA POSIZIONE DI C. BARBAGALLO Una certa modifica nella teoria che fa dello Stato il responsabile del declino delle civiltà antiche, determinandone la crisi economica e sociale, è stata di recente avanzata da C. Barbagallo, Roma antica II. L’Impero, Torino, 1932; cf.
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IDEM, Il problema della rovina della civiltà antica, «Civiltà moderna», 5 (1933), n. 6 dello stesso autore. Secondo la sua opinione era l’organizzazione finanziaria dell’Impero romano, il suo principio di base di impiegare la ricchezza delle classi agiate per creare il benessere dell’Impero, che era responsabile, nel periodo catastrofico del II e III secolo d.C., della grave crisi sociale ed economica che portò al rapido declino della civilizzazione antica. Ma ho molti dubbi che i metodi finanziari possano essere resi i soli responsabili del declino di una grande civilizzazione. Essi non sono una bella creazione del governo. Come la vita costituzionale essi da una parte dipendono dalle tradizioni e, dall’altra, dallo sviluppo sociale ed economico che non può essere modificato a piacimento. Metodi finanziari sbagliati contribuiscono al declino, ma non ne sono la causa ultima. Ma noi sappiamo davvero quale sia il sistema finanziario migliore? Siamo sicuri che la libertà economica in quanto opposta al sistema di economia controllato sia la sola forma sana di organizzazione finanziaria di uno stato?
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Elenco degli imperatori da Augusto a Costantino
AUGUSTO (C. Octavius, dopo l’adozione C. Iulius Caesar Octavianus). – Imp. Caesar Augustus (27 a.C. - 14 d.C.). TIBERIO (Ti. Claudius Nero, dopo l’adozione Ti. Iulius Caesar.) – Ti. Caesar Augustus (14-37 d.C.). C ALIGOLA (C. Iulius Caesar). – C. Caesar Augustus Germanicus (37-41 d.C.). CLAUDIO (Ti Claudius Nero Germanicus). – Ti. Claudius Caesar Augustus Germanicus (41-54 d.C.). NERONE (L. Domitius Aenobarbus, dopo l’adozione Nero Claudius Drusus Germanicus Caesar). – Nero Claudius Caesar Augustus Germanicus (54-68 d.C.). G ALBA (Ser. Sulpicius Galba). – Ser. Galba imp. Caesar Augustus (68-69 d.C.). O T TONE (M. Salvius Otho). – Imp. M. Otho Caesar Augustus (69 d.C.). VITELLIO (A. Vitellius). – A. Vitellius imp. (oppure Germanicus imp.) (69 d.C.). VESPASIANO (T. Flavius Vespasianus). – Imp. Caesar Vespasianus Augustus (69-79 d.C.). TITO (T. Flavius Vespasianus). – Imp. Titus Caesar Vespasianus Augustus (79-81 d.C.). DOMIZIANO (T. Flavius Domitianus). – Imp. Caesar Domitianus Augustus (81-96 d.C.). N E RVA (M. Cocceius Nerva). – Imp. Caesar Nerva Augustus (96-98 d.C.). TRAIANO (M. Ulpius Traianus). – Imp. Caesar Nerva Traianus Augustus (98-117 d.C.). ADRIANO (P. Aelius Hadrianus). – Imp. Caesar Traianus Hadrianus Augustus (117-138 d.C.). ANTONINO PIO (T. Aurelius Fulvius Boionius Arrius Antoninus, dopo l’adozione T. Aelius Caesar Antoninus) – Imp. Caesar T. Aelius Hadrianus Antoninus Augustus Pius (138-161 d.C.).
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STORIA ECONOMICA E SOCIALE DELL’IMPERO ROMANO MARCO AURELIO (M. Annius Catilius Severus, dopo l’adozione M. Aelius Aurelius Verus Caesar). – Imp. Caesar M Aurelius Antoninus Augustus (161180 d.C.). LUCIO VERO (L. Ceionius Commodus, dopo l’adozione L. Aelius Aurelius Commodus). – Imp. L. Aurelius Verus Augustus (161-169 d.C.). COMMODO (L. Aelius Aurelius Commodus). – Imp. Caesar L. Aurelius Commodus; Imp. Caesar M. Aurelius Commodus Antoninus Augustus (176192 d.C.). P ERTINACE – Imp. Caesar P. Helvius Pertinax Augustus (193 d.C.). D IDIO G IULIANO – Imp. Caesar M. Didius Severus Iulianus Augustus (193 d C.). S ETTIMIO S EVERO – Imp. Caesar L. Septimius Severus Pertinax Augustus (193-211 d.C.). C LODIO A LBINO – Imp. Caesar D. Clodius Septimius Albinus Augustus (193-197 d.C.). P ESCENNIO N IGRO – Imp. Caesar C. Pescennius Niger Iustus Augustus (193-194 d.C.). CARACALLA (Septimius Bassianus, dal 196 M. Aurelius Antoninus Caesar). – Imp. Caesar M. Aurelius Antoninus Augustus (198-217). G ETA – Imp. Caesar P. Septimius Geta Augustus (209-212). M ACRINO – Imp. Caesar M. Opellius Macrinus Augustus (217218 d.C.). ELAGABAL O ELIOGABALO (Varius Avitus). – Imp. Caesar M. Aurelius Antoninus Augustus (218-222 d.C.). S EVERO A LESSANDRO (Alexianus Bassianus). – Imp. Caesar M. Aurelius Severus Alexander Augustus (222-235 d.C.). M ASSIMINO – Imp. Caesar C. Iulius Verus Maximinus Augustus (235-238 d.C.). G ORDIANO I – Imp. Caesar M. Antonius Gordianus Sempronianus Romanus Africanus Augustus (238 d.C.). G ORDIANO II – Imp. Caesar M. Antonius Gordianus Sempronianus Romanus Africanus Augustus (238 d.C.). B ALBINO – Imp. Caesar D. Caelius Calvinus Balbinus Augustus (238 d.C.). PUPIENO – Imp. Caesar M. Clodius Pupienus Maximus Augustus (238 d.C.). G ORDIANO III – Imp. Caesar M. Antonius Gordianus Augustus (238-244 d.C.). F ILIPPO A RABO – Imp. Caesar M. Iulius Philippus Augustus (244-249 d.C.). D ECIO – Imp. Caesar C. Messius Quintus Traianus Decius (oppure Decius Traianus) Augustus (249-251 d.C.). T REBONIANO G ALLO – Imp. Caesar C. Vibius Trebonianus Gallus Augustus (251-253 d.C.).
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Elenco degli imperatori da Augusto a Costantino V OLUSIANO – Imp. Caesar C. Vibius Afinius Gallus Veldumnianus Volusianus Augustus (251-253 d.C.). E M I L I A N O – Imp. Caesar M. Aemilius Aemilianus Augustus (253 d.C.). VA L E R I A N O – Imp. Caesar P. Licinius Valerianus Augustus (253-260 d.C.). G A L L I E N O – Imp. Caesar P. Licinius Egnatius Gallienus Augustus (253 -268 d.C.). C L AU D I O II G OT I C O – Imp. Caesar M. Aurelius Claudius Augustus (268-270 d.C.). Q U I N T I L LO – Imp. Caesar M. Aurelius Claudius Quintillus Augustus (270 d.C.). AURELIANO – Imp. Caesar L. Domitius Aurelianus Augustus (270-275 d.C.). TAC I TO – Imp. Caesar M. Claudius Tacitus Augustus (275276 d.C.). F LO R I A N O – Imp. Caesar M. Annius Florianus Augustus (276 d.C.). P RO B O – Imp. Caesar M. Aurelius Probus Augustus (276-282 d.C.). C A RO – Imp. Caesar M. Aurelius Carus Augustus (282-283 d.C.). C A R I N O – Imp. Caesar M. Aurelius Carinus Augustus (283285 d.C.). N UMERIANO – Imp. Caesar M. Aurelius Numerius Numerianus Augustus (283-284 d.C.). D IOCLEZIANO – Imp. Caesar C. Aurelius Valerius Diocletianus Augustus (284-305 d.C.). M ASSIMIANO – Imp. Caesar M. Aurelius Valerius Maximianus Augustus (286-305 d.C.). C OSTANZO I – Imp. Caesar M. (oppure C.) Flavius Valerius Constantius Augustus (293-306 d.C.). G ALERIO – Imp. Caesar C. Galerius Valerius Maximianus Augustus (293-311 d.C.). C OSTANTINO I – Imp. Caesar Flavius Valerius Constantinus Augustus (306-337 d.C.).
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Indice delle tavole
Tavola
I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV XV XVI XVII XVIII XIX XX XXI XXII XXIII XXIV XXV XXVI XXVII XXVIII XXIX XXX XXXI XXXII XXXIII XXXIV XXXV XXXVI XXXVII XXXVIII XXXIX XL
pag. IV 13 17 39 46 57 77 81 85 89 93 99 113 131 135 139 175 187 191 194 195 199 217 221 237 241 245 251 257 301 305 309 313 319 325 331 333 335 343 347
Tavola
XLI XLII XLIII XLIV XLV XLVI XLVII XLVIII XLIX L LI LII LIII LIV LV LVI LVII LVIII LIX LX LXI LXII LXIII LXIV LXV LXVI LXVII LXVIII LXIX LXX LXXI LXXII LXXIII LXXIV LXXV LXXVI LXXVII LXXVIII LXXIX LXXX
353 361 369 373 377 405 411 415 419 423 441 449 459 465 467 477 481 489 493 501 505 513 515 519 521 525 527 557 561 563 569 575 611 629 685 709 747 763 769 773
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Elenco dei documenti citati nel testo, nelle note e descrizioni delle tavole
PAPIRI* P. Amh. — The Amherst Papyri, ed. B.P. GRENFELL e A.S. HUNT, II (1901). II, 1901 68 pag. 456 72 726 79 462 107 646 108 646 109 646 P. Bad. 37
551
Papyrusurkunden d. öff. Bibl. d. Univ. Basel, hrsg. von E. RABEL (1917). 2 646 B. G. U. — Aegyptische Urkunden a. d. Museen zu Berlin. Griech. Urkunden, I-VI (1895-1923). 8 453 31 453
63 104 105 106 160 172 181 191 199 202 204 206 210 211 212 248 249 262 266 277 280 284 325 372 382
454 453, 454 453 454 452 453 452 451 452, 453 453 454 454 454 454 452 462 462 454 646 452 452 453 726 471 454
*. Per le informazioni relative alle raccolte di papiri e alle loro abbreviazioni si può consultare la Checklist of Editions of Greek, Latin, Demotic and Coptic Papyri, Ostraca and Tablets, a cura di J.F. OATES, R.S. BAGNALL, W.H. WILLIS, K.A. WORP, Atlanta 19924, che è disponibile da qualche tempo anche in edizione elettronica (il sito è http: //scriptorium.lib.duke.edu/papyrus/texts/clist/_papyri.html/).
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STORIA ECONOMICA E SOCIALE DELL’IMPERO ROMANO
390 438 441 473 484 512 531 594 595 603 604 611 650 653 655 807 810 842 850 889 902 904 915 979 980 985 1047 1157 1168 1180 1563 1564 1572 1591 1614 1636 1646 1669 Vol. V, 1
462 454 452 724 620 454 462 462 462 462 462 108 451, 452 452 646 646 452, 453 646 462 452, 463 471 471 456 451 451 453 451 230 454 266, 454 456 266, 720 266 266 266 454 451 454, 456, 462 275
P. Berl., inv. nn. 11537, 11540, 11541, 11545
P. Bouriant, n. 42
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45
451, 452, 453, 454, 456, 461, 462, 572
P. Brem., inv. n. 34
571
P. Br. Mus. — Greek Papyri in the British Museum. I n. 131, p. 166 sgg. 455, 456 II n. 195, p. 127 452, 453, 455 n. 214, p. 161 454 n. 280, p. 193 451 n. 445, p. 166 451, 452 III n. 900, p. 89 452, 453, 454 n. 948, p. 220 722 n. 1157, p. 109 sgg. 727 n. 1164, p. 163 230, 722 n. 1223, p. 139 458 n. 1912 453 p. XLIII e 129 sgg. 448 p. 121 453 V p. 21 sgg. 772 Papyrus Cattaoui, ed. B.P. GRENFELL e A.S. HUNT, «Arch. f. Pap.-F.», III, 55 sgg. Col. II, 1 sgg. pag. 620 P. Cair. Zen. 59015 59075 59076 59133
431 431 431 268
P. Chic. — E.J. GOODSPEED, Papyri from Karanis, «Studies in class. phil.», III (1900). 4 452 6 452 7 452 10 452 19 453 31 452 32 453 36 453 39 453 41 453 43 453 48 453 49 453 50 453 52 453
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Elenco dei documenti citati nel testo, nelle note e descrizioni delle tavole 70 78 81 87
452 453 452 453
C. P. R. — Corpus papyrorum Raineri, hrsg. von C. WESSELY (1895). I, 20 pag. 646, 724 39 727 243 452 II, 33 471 92 646 P. Corn. 23 24
266 145
P. Fay. — FayumTowns and Their Papyri, ed. B.P. GRENFELL, A.S. HUNT, D.G. HOGART (1900). 20 657 40 452 60 452 82 451, 453 87 453, 727 88 727 96 462 99 462 102 456 108 647 P. Flor. — Papiri fiorentini (Pap. greco-egizi public. dalla R. Accad. dei Lincei). 2 726 6 620 16 tav. LI 19 727 40 452 75 722 91 647 121 388 126 388 137 725 151 725 250 725 278 646 279 sgg. 772 322 388
P. Fouad 21
797
118, 641
P. Gen. — Les Papyrus de Genève, ed. da J. NICOLE (1896-1906). 1 pag. 647 10 620 16 725 38 454 45 646 P. Giss. — Griech. Papyri im Mus. des Oberhess. Geschichtsvereins zu Giessen, ed. O. EGER, E. KORNEMANN, P.M. MEYER (1910-1912). 3-27 462 4-7 571 40 540, 620, 639, 641 48 654 60 462, 571 101 452 P. Giss. Univ. Bibl. n. 12 p. 28 sg. 22
453 635
P. Graux. 1 2
145 145
P. Hamb. — Griech. Papyrusurkunden d. Hamburger Stadt-bibliothek, hrsg. P.M. MEYER (1911-1924). 3 452, 453 8 454 11 461, 654 12 654 34 452 36 453 39 458 40-53 458 80 657 81 657 93 572
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P. Heid. 72
464
P. Hibeh. 67
720
P. Lips. — Griech. Urkunden der Papyrussammlung zu Leipzig, hrsg. L. MITTEIS (1906). 45 pag. 720 46 720 48-60 720 57 720 113 458 115 453 Inv. n. 266 571 P. Lond. II, p. 21 sgg.,n. 257 p. 127 n. 195
266 454
P. Mich. II, 121 V, 244 V, 312
451 451 452
P. Milan. (Pubblicaz. di «Aegyptus», ser. scient., I, 1928). n. 6, p. 26 sgg. 266, 451 P. Osl. I, 2 53 54 II, 2 21 26a 33, 4-5
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456 210 210 726 453 452,454 452
P. Oxy. — The Oxyrhynchus Papyri, ed. B.P. GRENFELL e A.S. HUNT (1898-). 54 727 60 723 62 451, 725 64 725 65 725
78 80 122 244 252 705 727 919 986 1046 1100 1114 1115 1119 1187 1194 1209 1242 1259 1260 1261 1276 1405 1406 1408 1409 1411 1412 1413 1414 1415 1418 1419 1424 1426 1428 1433 1434 1438 1441 1448 1455 1459 1467 1469 1475 1477 1483 1490 1531 1541 1543 1553-55
727 726 727 452 471 647 462 729 454 729 634 726 720 601 728 720 729 162 722 722 722 729 646, 724 639, 646, 729 646 718 271, 702 722 719 723 723 722 720, 727 720 268 720 657 447, 453, 455, 446 471 657 720 724 461 174 718 453 716 455 721 729 646 720 722
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Elenco dei documenti citati nel testo, nelle note e descrizioni delle tavole 1558 1578 1630 1631 1634 1636 1646 1659 1662 1668 1681 1689 1747 1763 1829 1979 2104 2107 2110 2130 2131 2136 2137 2153 2177 2182 2185 2195
729 729 458, 729 729 729 727 729 458, 657, 729 728 725 436 729 729 729 772 458 657, 658 725 719 719 722 230, 722 tav. LI 729 162, 163, 173 593, 722 454 772
P. Ryl. – Catalogue of the Greek Papyri in the J. Ryland’s Library, ed. J. DE M. JOHNSON, V. MARTIN, A.S. HUNT (1911-1915). 66 225 75 646 77 646 78 471 81 471 85 646 96 571 99 453, tav. LI 109 726 114 727 124-152 448 127 452, 455 128 453 129 462 131 452 132 454 133 455 134 451, 452 135 452
138 140 141 145 146 148 152 166 167 168 171 180 189 202 207 209 213-22 216 236 274 275 383 427 II, pp. 236-40 p. 244 p. 254 sgg. p. 255
799
452, 455 452 452 453, 455 454 451, 452 454, 455 454, 455 453 462 452, 453, 455, 456 453 720 447, 463 452, 453, 454, 462 463 461 461, 462 388 646 646 452 453, 454 728 455 452, 455 453, 455
Sitologen-Papyri, hrsg. K. THUNELL (1924). n. 1 451, 452, 453, 454 4 451, 454 P. S. I. – Pubblicazioni della Società italiana per la ricerca dei papiri greci e latini in Egitto. 31 462 101-8 461, 471 162 268 187 727 229-35 471 292 646 298 723 315 453 446 588 465 646 683 553, 620, 646 733 657 734 647 779 659 781 720 795 720
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STORIA ECONOMICA E SOCIALE DELL’IMPERO ROMANO 797 807 820 822 842 1002 1026 1028 1043 1063 1160
720 463, 724, 727 729 471 725 268 464 451, 456 471 179 60
P. Strassb. — Griech. Papyrus der Univ.u. Landesbibliothek zu Strassburg, hrsg. F. PREISIGKE. 30 453 74 458 78 454, 458 174 454 1108 453
«Ann. du Serv. Ant. de l’Égypte», 29 (1930). p. 51 n. 3 621 54 n. 4 621 «Arch. f. Pap.-F.», 2 (1903). p. 450 n. 90
225
«Classical Philology». p. 168 172
452 453
«Hermes», 50 (1915). pp. 47 sgg.
162
«Journ. of Eg. Arch.», 12 (1926). pp. 118 sgg. 628, 719
P. Tebt. — The Tebtunis Papyri, ed. B.P. GRENFELL, A.S. HUNT, J.G. SMYLY (1902-). 5 440 343 452 347 720 369 646 402 462 703 4, 155, 266 709 266
«Journ. of Eg. Arch.», 15 (1929). pp. 160 sgg.
Papyrus de Théadelphie, ed. P. JOUGUET (1911). 34 p. 184 659, 716
H. FRISK, Papyrus grecs de la Bibl. municip.de Gothembourg (1929). 3 646
Papyri of Wisconsin. inv. 56
716, 727
H. LIETZMANN, Griech. Papyri (19102). 21 173
«Aegyptus» 9 (1928). pp. 75 sgg.
534
«Ann. du Serv. Ant. de l’Égypte», 23 (1923). p. 95 n. 76 431 201 n. 84 431
722
«J. R. S.», 28 (1938). pp. 41-49 (P. Yale, inv. n. 1528) 118, 641 «Zeitschr. f. äg. Spr.», 60 (1925). pp. 90 sgg.
224
P.M. MEYER, Juristische Papyri (1920). 1 540 51 268 72 639 93 275
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Elenco dei documenti citati nel testo, nelle note e descrizioni delle tavole
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BROR OLSSON, Papyrusbriefe aus d. frühesten Römerzeit (1925). 1-7 462 24 462 25-28 462 29-30 462 34 462 41-47 462 50 462 52-65 458
646 724
F. PREISIGKE, Griech. Urkunden d. ägypt. Mus. zu Kairo (1911, P. Cairo). 4 738 34 722 F. PREISIGKE, Sammelb. griech. Urkunden aus Aegypten (SB). 2264 225 4284 620 4961 458 5126 729 5670 452 7360 621 7366 620 Raccolta Lumbroso (1925). pp. 265 sgg. 396, 409, 555, 594 ROSTOVTZEFF, Studien. pp. 120 sgg.
448, 451, 452
«Studien zur Palaeographie u. Papyruskunde», hrsg. von C. WESSELY. I, n. 34 722 XVII, p. 29 sgg. 461 C. WESSELY, Catalogus Papyrorum Raineri («Studien zur Palaeogr. ecc», XX, XII). I, 35 642 53 723 58 717 75 716 84 720 86 717 II, 33 471
92 177
C. WESSELY, Karanis u. Soknopaiu Nesos («Denkschr. Wien. Akad.»). n. 4 452 13 452 C. WESSELY, Papyrorum scripturae graecae specimina isagogica (1900). 20 sgg. 451, 453 WILCKEN, Chrest. — L. Mitteis e U. WILCKEN, Grundzüge u. Chrestomathie der Papyruskunde (1912). 6 704 19 471 20 173 22 639 43 723 69 717 176 451, 453, 456 202 620 215 471 251 266 278 725 315 266 327 268 341 462, 571 351 571 354 725 365 451, 452 367 452 368 446 369 446 370 458 374 456 375 456, 646, 724, 727 379 738 397 601 401 726 402 646, 724 407 647 416-18 646 433 722 434 722 461 653 472 726 473 726 475 725
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ISCRIZIONI** C. I. G. — Corpus inscriptionum graecarum (1828-1877). 1824-7 pag. 248 2720 208 2802 608 2924 401 3732 599 4258 401 4411 205 5465 648 C. I. L. — Corpus inscriptionum latinarum (1863-). I, 200 pag. 492 1013-15 tav. IV I2, 709 29 2340 24 pp. 280 sgg. tav. XXXVI II, 1423 184 1438 328 1528 37 1610 184 1964 329 1970 647
2917 6278 pp. 440 sgg. e 949 sgg. III, 183 184, Add. p. 972 282 356 582-84 586 591 656 703 707 722 749 770 827 974 1001 1104 1180 1181 1182 1208 1209
tav. XXXV pag. 601 tav. XXXV 422, 432 422 403 402 248 393 393 392, 393 392 392 386 386 386 380 380 380 380 380 380 380 380 380
**. Per le raccolte di iscrizioni si può consultare la Guide de l’épigraphiste. Bibliographie choisie des épigraphies antiques et médiévales, éd. par F. Bérard, D. Feissel, P. Petitmengin, D. Rousset, M. Sève, Paris 20003.
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Elenco dei documenti citati nel testo, nelle note e descrizioni delle tavole 1230b 1332 1393 1573a 1579 1650 2774 2776 3022 3066 3490 4057 5800 5816 5824 5830 5833 6423 6660 6810-12 7251 7466 7474 7526 7532 7533 7536 7565 7633 7795 7853 7868 7954, 7955, 7956 8009 8021 8060 8112 8169 8197 8199 8200 8238 8240 8350 10471-3 10570 10921 12010 12283 12336 12345
pag. 393 371 380 380 380 tav. LXXIV 368 368 368 368 422 376 357 357 357 357 357 311 426, 536 511 107 387 384 385 385 385 385 386 380 380 380 380 380 380 380 380 372 379 376 376 376 379 379 367 633 357 376 236 173 389, 715 386
12407 12419 12463 12479 12487 12488 12489 12491 12494 12656 12692 12693 13250 13737 13743 13750 13819 13820 13821 14068 14161 14162 14165 14191 14195 14203 14206 14214 14323-28 14356, 3a 14370 14384 14387a 14387 ff e fff 14409 14412 14422 14437 14440 14441 14442 14447 14448 14493 15062 sgg. Dipl. IX XVI = XXIII IV, 117 1507 2618 5563-68
803 pag. 386 386 386 385 384 386 386 386, tav. XLIII 385 372 368 368 366 386 385 227 368 368 368 376 426, 536 422 593 402, 403, 713 322 173 393 386 368 372 357 422 427 376 386 386 386 386 385 385 385 384, 386 384 311 368 304 367 tav. XV 138 88 88
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804 5572 5894 (e Add.) 6499 6672 6886 6887 6888 6892 6893 6995-97 V, 37-39 40 41 42 433 434 436 450 452 475 532 875 1874 2603 3346 5050 5267 8112 8190 VI, 22 967 1002 1377 1478 1603 1620 1958 2305 3829 9276 9783 9812 18548 31856 VII, 775 776 863 2170 VIII, 30 68 69
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STORIA ECONOMICA E SOCIALE DELL’IMPERO ROMANO tav. XIV 91 36 80 80 80 80 83 37 36 360 360 360 360 363 363 363 363 363 360 115, 317, 601 601 209 45 368 115, 317 503 239 360 578 572 578 121 511 593 tav. XXVII tav. IV tav. XXXVI 401 316 605 tav. IV 37 427 352 352 352 679 517 495 495
270 885 1641 4192 4194 4199 4205 4249 4836 4884 6357 7041 7963 7988 8210 8280 8369 9250 9663 10488 10570 11001 11451 11824 12065 12331 12387 14428 14451 14464 15497 15775 16911 17327 18490 18493 18503 19423 20077 20627 20834 22637 22729 23116 23125 23165 23166 23195 23246 23599 23831
pag. 508 498 517 508 508 508 508 508 503 503 508 504 507 507 507 508 504 209 517 529 608 529 508 512 507 504 498 608 608 608 209 498 503 498 508 508 508 504 508 508 498 24 504, 512 507 507 498 498 503 503, 508 496 511
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Elenco dei documenti citati nel testo, nelle note e descrizioni delle tavole 23832 23833 23834 23849 23876 23896 23897 24003 24004 25417 25450 25703 25704 25902 25943 26121 26239 26416 26582 27790 27823 28073 31697 IX, 10 338 2564 3028 3088 3651 3674 3675 6072 6075 X, 924 1613 1624 1797 2489 5081 6104 6592 6977 7041 7189 7957 8038 8051 8071 8222 XI, 139 377
pag. 511 498 498 498 498 568 568 498 498 497 498 209 209 500, 510 500 209 496 500 721 tav. XXVIII 498 503 401 388 379 368 316 317 316 316 316 207 207 37 74 74 74 322 316 496 316 322 322 322 316 323 24 tav. XV tav. XII tav. XXXII 209
379 3793 3797 3798 5215 5635 6107 6308 XII, 2459 2560 5874 p. 160 sgg. XIII, 3 2953 3652 4228 5010 6211 6358 6618 6623 7070 7507 8254 8830 10025 10029 11630 XIV, 2069 3608 4326 4378 4549 4570 4708 XV, 6957-63 XVI, 106
805 pag. 209 559 317 317 380 209 706 691 338 338 338 338 24 tav. XXXVIII 339 351 706 706 367 375 375 tav. XXV 367 338 531 267, 295 249 tav. LXXIV 559 708 597 427 230 316 118 267, 295 292
C. I. S. — Corpus inscriptionum semiticarum (1881-). II, 3910 224 4047 285-286 4235 290 III, 2 250 DESSAU, I. L. S. — Inscriptiones latinae selectae (1892-1916). 15 328 206 115, 317
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STORIA ECONOMICA E SOCIALE DELL’IMPERO ROMANO 444 478 509 852 853 897 901 986 1019 1098 1153 1327 1374 1461 1981 2378 2454 2455 2709 2764 3624 4440 4490 5163 5473 5648 5752 5834 5845a 5948-53 5953 a, b 5956 5958 a, b 5959 5961 5968 5969 5970 5971 5981 6089 6092 6146 6531 6675 6680 6775 6777 6783 6790 6800 6803
pag. 498 637 706 390 390 487 495 390, 708 304, 413, 559 121 633 427 601 531 184 tav. LXXIV 366 366 128 660 532 504 508 601 507 507 508 225 225 368 368 386 500 500 504 366 366 366 328 393 329 184, 205, 330, 337 532 317 316 317, 363 517 507, 568 498, 517 495 503 498
6805-7 6818 6850 6851 6852 6852a 6857 6864 6868 6869 6870 6885 6898 6902 6908 6916 6917 6921 6960 6987 7007 7367 7451 7453 7455 7457 7460 a-d 7725 7778 8499 8745 8770 8851 8853 8858 8869 8870 8888 8941 8958 9019 9057 9184 9199 9340 9378 9379 9380 9384 9391 9392 9393
498 517 508 508 508 508 504 507 508 508 608 498 329 330 330 330 330 330 330 593 631, 706 316 316 316 316 512 tav. IV tav.XXXII 605 679 tav. XXXVI 402 225 456 531, 597 427 712 29 568 427 233 292 641 376 601 368 368 503 432 503 503 503
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Elenco dei documenti citati nel testo, nelle note e descrizioni delle tavole 9394 9398 9400 9411 9412 9413 9445 9456 9473 9474 9482 9495
pagg. 504, 512 496 498 368 368 339 24 254 567 456, 608 495 495
O. G. I. S.— Orientis Graeci Inscriptiones Selectae, ed. W. DITTENBERGER (1903-1905). 44 402 55 205 132 225 186 225 190 225 200 479 262 422 338 400 383 407 424 430 455 399 484 (Add. p. 552) 271, 532, 577 485 208 488 403 496 531 502 402 504-9 213 508 567 510 213 511 209 515 271 516 647 517 647 519 713 524 265 527 403, 634, 648 543 554 544 554 550 707 565 330 595 235 609 648 629 pag. 224 632 250 633 250
638 639 640 646 669 767
807 pag. 250 225 648 250 276, 456 530
DITTENBERGER, Syll.3 — DITTENBERGER, Sylloge inscriptionum graecarum (1915-1923). 463 487 526 3 708 75 730 75 741 75 742 400, 402 747 402 762 75 800 388, 394 827 394 834 146 837 568 838 248 839 208, 578 850 213 880 651 884 395 888 389, 708, 715 1000 204 1229 248 1262 204 Fontes. — C. G. BRUNS, O. GRADENWITZ, Fontes iuris Romani antiqui (19097). 30 329 63 601 79 115, 317 86 608 97 399 115 311 116, 3 311 pp. 129 sgg. 330 G. D. I. — ST. COLLITZ, F. BECHTEL, Sammlung der griechischen Dialektinschriften (1884-1915). 3632 204
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STORIA ECONOMICA E SOCIALE DELL’IMPERO ROMANO
I. G. — Inscriptiones Graecae (1903-). II2, 1099 173 III, 38 577 49 173 IV, 759 555 V1, 719 179 V2, 516 107 p. 5 107 XII 2, 35 pag. 62 XII 5, 724 600 946 330 XII 7, 239 625 240 625 395 625 XII 8, 646 625 XII 9, 295 625 906 625 XII 9, 1240 248, tav. VII XII Suppl., 239 578 XIV, 283 322 284 322 830 235 I. G. R. R. — Inscriptiones Graecae ad res Romanas pertinentes (1906-1927). I, 421 235 497 648 498 322 502 322 591 388 599 385 674 715 677 387 721 387 728 387 764 389 766 388, 651 781 225 813 432 817 531 980 547 1013 547 1062 225 1370 225 III, 2 594 17 404 18 404 36 404 50 403 60 600, 625, 648
61 62 63 64 65 66 67 68 69 90 153 154 173 174 175 192 208 407 409 422 451 477 478 481 488 498 499 528 576 583 585 640 649 679 714 III, 800-802 801 804 904 1020 1023 1025 1035 1037 1050-52 1054 1056 1074 1112 III, 1119 1132
pag. 625 648 600, 625 600, 625 400, 600, 625 648 600, 625 648 399 pag. 432 404 403 157, 554 554 554 157 555 648 648 212, 401 401 401 401 707, 712 330 401 401 401 401 401 401 599 599 401 648 400 625 625 402 422 427 427 286 427 250 555 425, 600 422 432 431 431
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Elenco dei documenti citati nel testo, nelle note e descrizioni delle tavole 1136 1136-41 1142 1143 1146 1149 1154 1155 1171 1180 1186 1187 1191 1192 1213 1223 1235 1247 1252 1254 1262 1270 1276 1278 1284 1294 1298 1299 1301 1302 1305 1310 1313 1316 1317 1341 1362 1364 1376 1412 1421 III, 1427 1506 1536 1538 IV, 186 194 197 304 352 397
pag. 431 432 432 431 431 431 431 431 431 431 431 431, 432 433 431 431 430 431 431 432 431 431 431 431 432 431 432 432 432 432 432 432 432 432 432 431, 432 430 431 432 599 648 648 388 401 427 250 401 402 402 402 271 402
444 564 571 573-76 796 808 818 863 870 914 915 1087 1156 1177 1212 1228 1236 1237 1247 1248 1251 1257 1261 1265 1273 1290 1302 1306 1368 1381 1414 1441 1492
809
pagg. 174, 267 213 402 213 250 399 600 388 600 213, 267, 308, 577, 601 213, 308 400 568 402 157 600, 625 265 403 647 625 647, 648 265 625 265, 625 625 580, 600 401 402 622 404 265 330 404, 568
I. L. A. — R. CAGNAT, A. MERLIN, L. CHATELAIN, Inscriptions d’Afrique (1923). 9 649 52 510 78 508 102 503 103 503 135 510 180 509 257 597 269 708 279 511 280 511 301 498 306 495
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STORIA ECONOMICA E SOCIALE DELL’IMPERO ROMANO 422 440 455 501 568 569 609 610 634
495 510 597, 632 495 510 510 676, 704 676, 704 115
I. L. Al. — Inscriptions latines d'Algérie, ed. S. GSELL, I (1922). 89 510 92 510 99 510 100 510 101 510 102 510 285 510 323 510 325 510 476 510 477 510 2145 209 2195 512, 215 2939 500 2986 503 2988 500 2989 500 3062 510 3063 510 3079 509 3391 510 3992 510 LE BAS e WADDINGTON, Voyage archéolog. en Grèce et en Asie Mineure (18471870). 1213 308 2036 432 2564 427 MICHEL, Recueil (1900). 372
75
Monumentum Ancyranum — Res gestae divi Augusti, hrsg. v. TH. MOMMSEN (1888).
III, 35-39 c. 34
272 55
Die Inschriften von Magnesia, hrsg. O. KERN (1914). 114 267 I. O. S. P. E. — Inscriptiones antiquae orae septentrionalis Ponti Euxini Graecae et Latinae, ed. B. LATYSCEV (1885-1901). pag. 413 I2, 77 78 413 167 409 168 413 223 409 236 409 237 409 322 409 343 408 401 408 403 408 404 227 509 sgg. 225 668-73 413 687 409 II, 353 409 Die Inschriften von Priene, hrsg. v. HILLER VON GAERTINGEN (1906). 108 127 121 127 S. E. G.— Supplementum epigraphicum Graecum. I, 62 673 161 7 329 232, 531 II, 481 410 584 210 690 401 747 401 III, 537 381 565 409 583 409 584 409 IV, 522 265 539-41 265
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Elenco dei documenti citati nel testo, nelle note e descrizioni delle tavole
811
VII, 135 138 139 VIII, 703
65 67 70 1924, 21 28-30 82 1925, 68 1926, 15 16 1927, 49 1928, p. 358 n. 23 p. 97 p. 153
386 386 386 401 510 210 304 708 230 652 498 597 597
«Ann. du Musée nat. de Sofie» 1922-25, p. 121 sgg., n. 1 p. 138, n. 1
383 383
294 292 292 225, 226
Les Inscriptions d’Uchi Maius, éd. par A. MERLIN e L. POINSSOT (1908). pp. 17 sgg. 495, 498 26 496 58 sgg., nn. 40 sg. 511 Prosopographia imperii Romani. III, 69 245 «Africa Italiana» 1 (1927-28), p. 321 «Amer. J. Arch.» 11 (1907), pp. 315 sgg. «Analele Academiei Romane» 1913, p. 103 sgg. p. 471 sgg. p. 491 sgg. p. 502 sgg. p. 534 sgg.
645 660
487 «Ann. d. R. Scuola archeol. d’Atene» 2 (1916), p. 136, n. 19 265 3 (1921) 532 431
386 386 384 384 385
«Ann. of the Brit. School at Athens». 17 (1910-11), pp. 193 sgg. 393 18 (1911-12), p. 179, n. 23 393 23 (1918-19), pp. 67 sgg. 553 23 (1919), p. 76, n. 4 393 27 (1925-26), pp. 22 sgg., n. 3 395 28 (1926-27), p. 120 158 Ann. ép. — Année epigraphique. 1912, n. 10 171 1913, 226 1916, 60 1919, 22 91-93 1921, 21 148
1922,
304 224 508 45 487 487 509 304
«Anuarul Comisiuni monumentalor istoria pentru Transilvania» 1929, p. 208 531 «Archaiologikon Deltion» 2 (1916), p. 148, n. 4
392
«Arch.-ep. Mitt. aus Österr.» 1891, p. 153, n. 36
534
«Ath. Mitt.» 21 (1896), p. 112, n. 1 p. 113, n. 3 22 (1897), pp. 44 sgg. 24 (1899), p. 197, nota 62 27 (1902), p. 102 29 (1904), pp. 73 sgg. «Atti e Mem. della Soc. Istr.» 22 (1905), p. 11 22 (1905), pp. 213 sgg. 30 (1914), pp. 122 sgg. p. 124, n. 19
401 401 265 174, 267 264 271
316 351 360 360
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812
STORIA ECONOMICA E SOCIALE DELL’IMPERO ROMANO
«Bonn. Jahrb.» 120 (1911), pp. 76 sgg. p. 81 135 (1930), n. 23 «B. C. H.» 10 11 (1887), 21 (1897), 44 (1920), 45 (1921), 46 (1922), 47 (1923),
p. 415 p. 32 pp. 161 sgg. pp. 93, n. 28 pp. 156, n. 9 pp. 198 sgg. pp. 63, n. 23 p. 65, n. 24 pp. 183 sgg. 51 (1927), pp. 57 sgg. p. 97, n. 64 p. 108, n. 83 p. 123 sgg. 52 (1928), p. 412 p. 412, n. 4 p. 416, n. 5 p. 418, n. 7 59 (1935), pp. 131 sgg. «Berytus» 2 (1935),
Pagina 812
495 498 233
599 208 392, 553 208 208 45 393 393 553 399 208 208 399 401 208 401 402 174
pp. 143-148
226
«Bull. arch. du Comité d. travaux histor.» 1893, pp. 214 sgg., n. 25 511 1894, p. 321 498 1897, p. 296, n. 13 568 1911, p. 115 578 1920, tav. XL 509 1921, giugno, p. CLXVIII 508 «Bull. de l’Inst. archéol. bulgare» 2 (1923-4), pp. 95 sgg. 5 (1928-29), p. 379
304 388
«Boll. dell’Istit. archeol. russo di Costantinopoli» 4, 2 (1899), p. 171 330, 553 4, 2 (1899), pp. 166 sgg. 392
«Bull. d. la Soc. d. Ant. de France» 1924, p. 196 588, 590 «C. R. Acad. Inscr.» 1904, p. 479 p. 484 1909, pp. 568 sgg. 1913, p. 166 1915, pp. 4 sgg. 1916, p. 593 1919, pp. 352 sgg. 1920, pp. 339 sgg. 1923, pp. 197 sgg. 1924, p. 28 pp. 67 sgg. pp. 77 sgg. pp. 253 sgg. 1940, p. 131 sgg. 1940, pp. 237-249 «Eph. ep.» IX, n. 1012
503 503 503 495 497 504 704 497 507 432 260 115, 498 578 497 226
352
Excavation at Dura-Europos. Preliminary report. III (1931), pp. 156 sgg. 233 Forsch. in Ephesos — Forschungen in Ephesos (1906-). II, n. 21 107 22 107 23 567 27 213 28 174, 213 61-63 213, 253 64 sgg. 213 65 174 79-82 265 III, n. 10-12 207, 701 13-15 207 16 578 17-18 207 19 74 20 616, 675 38 713 45 232, 597 50 402 54 616
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813
Elenco dei documenti citati nel testo, nelle note e descrizioni delle tavole 63 68 70 71 72 79 80 82-85 p. 132
265 174 708 208, 253 555 265 208, 555 401 597
Harvard Excavations at Samaria Vol. I, p. 20, n. 30 p. 175
376 376
«Hesperia» 3 (1934),
pp. 191 sgg.
174
«Journ. of Eg. Arch.» 4 (1917), pp. 159 sgg.
473
«J. H. S.» 1883, 17 (1897), 33 (1913), 41 (1921), 42 (1922), 44 (1924),
«J. R. S.» 14 (1924), 14 (1924), 16 (1926), 18 (1928), 18 (1928), 18 (1928), 18 (1928), 20 (1930),
p. 422 pp. 417 sgg. pp. 337 sgg. pp. 217 sgg. pp. 167 sgg. pp. 173 sgg. p. 26, n. 9 p. 42, n. 76
404 713 393 456 393 566 555 401
pp. 179 sgg., n. 6 208 p. 244 352 pp. 74 sgg., n. 201 427 pp. 144 sgg. 127 p. 145, n. 1 185 p. 147, n. 4 185 pp. 152 sg., nn. 12-14 185 pp. 43 sgg. 127, tav. XIX
«Jahresh. Österr. Arch. Inst. Wien» 1 (1898), Beibl. p. 76 3 (1900), Beibl. p. 19, nn. 1-4 3 (1900), Beibl. pp. 87 sg. 8 (1905), p. 128 sgg. 8 (1905), Beibl. p. 3
597 426 208 174 233
9 (1906), pp. 40 sgg. 399 12 (1909), pp. 146 sgg. 577 13 (1911), pp. 204 sgg. 555 13 (1911), Beibl. p. 219, n. 31 376 18 (1915), p. 98 sgg. 269, 449 317, 359, 540, 597 21-22 (1922-4), Beibl. pp. 260 sgg. 594 23 (1926), Beibl. pp. 6 sgg. 402 23 (1926), Beibl. pp. 89 sgg., nn. 1 sgg. 403 23 (1926), Beibl. p. 118, n. 1 387 23 (1926), Beibl. p. 172, n. 121 381 23 (1926), Beibl. p. 263 174 23 (1926), Beibl. p. 270 232 23 (1926), Beibl. pp. 282 sgg. 207, 208 24 (1928), Beibl. pp. 31 sgg. 265 24 (1928), pp. 97 sgg. 594 25 (1929), Beibl. pp. 107 sgg. 402 26 (1930), p. 51 531 27 (1932), Beibl. p. 256 157 «Klio» 12 (1912),
p. 165
600
«Korr.-Blatt d. Westd. Zeitschr.» 1909, p. 28 pp. 36 sgg. «Liv. Ann. of Arch.» 14 (1911-12), p. 64
432 432
pp. 475, 479
«Mél. Éc. Fr. Rome Ant.» 48 (1931), pp. 1 sgg. 55 (1938), pp. 56 sgg.
517 554
«Nachr. Ges. d. Wiss. Göttingen» 1925, p. 95
224
«Notiziario archeologico del Ministero delle colonie» 2 (1916), pp. 165 e 173 487, 547 pp. 189 sgg. 487 pp. 195 sgg. 487 «Not. d. scavi» 1905, p. 257
91
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814 1911, 1912, 1913, 1914, 1915, 1916, 1918, 1921, 1922, 1929,
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Pagina 814
STORIA ECONOMICA E SOCIALE DELL’IMPERO ROMANO pp. 419 sgg. p. 455 sgg. p. 188 pp. 311 sgg. p. 199 p. 26 p. 139 p. 335, n. 5 pp. 287 sgg. p. 140 p. 69 p. 236 p. 460 pp. 494 sgg. p. 220
138 138 tav. XVI 212 88 207 45 88 141 207 207 316 36, 37 322 207
Publications of the Princeton University Expedition to Siria, III. Sec. A, n. 66 431 714 431 741 431 744 431 765 431 Sec. B, n. 874 422 875 422 881 422 918 422 «Rev. Arch.» 12 (1908), pp. 48 sgg., n. 51 534 37(1900), p. 489, n. 131 330 VI ser., 6 (1935), p. 211, n. 13 366 «Rev. Ét. An.» 22 (1920), pp. 97 sgg. 24 (1922), pp. 13 sgg. pp. 236 sgg. 28 (1926), p. 43 29 (1927), pp. 205 sgg. «Rev. Ét. gr.» 11 (1898), 19 (1906), 42 (1929), 47 (1934),
p. 273 sgg. p. 142, n. 75 pp. 33 sgg., pp. 31 sgg.
509 510 236 254 260
392, 553 706 264 393
«Rev. de philol.» 37 (1913), p. 289 sgg. 3 (55) (1929), p. 136, n. 2 p. 150, n. 18 «Rh. Mus.» 58 p. 224 sgg. «Riv. di filol.» 6 (1928)
264 264 383
555 486
«Riv. R. Ist. d’Arch. e Stor. d’Arte» 1 (1929), pp. 193 sgg. 484 2 (1930), pp. 88 484 3 (1932), pp. 268-298. 395 4 (1932-33), pp. 61 ff. tav. LXXX «Rivista indo-greco-italica» 8 (1924) p. 118 390 D. röm. Limes in Oesterreich. XI, pp. 337 sgg. 375 XII, pp. 314 sgg. 375 pp. 318 figg. 37-38 tav. LXXIV «Syria» 12 (1931), 12 (1931), 13 (1932), 14 (1933), 22 (1941), 22 (1941), 22 (1941), 22 (1941), 22 (1941), 22 (1941), 22 (1941), 22 (1941), 22 (1941), 22 (1941), 22 (1941), 22 (1941), 22 (1941),
pp. 105-115 294 p. 139, n. 18 294 pp. 278-292 292 p. 159 292 pp. 218-223 292 p. 224 sgg. 293, 294 pp. 226 sgg., n. 1-2 293 pp. 230 sgg., n. 3 292 pp. 231 sgg., n. 4 293 pp. 234 sgg., n. 5 291 sg. p. 242, n. 12 292 pp. 252 sgg., n. 21 284 pp. 253 sgg., n. 21 bis 284 pp. 255 sgg., n. 22 284 pp. 259 sgg., n. 23 285 pp. 263 sgg., n. 24 289 pp. 264 sgg., n. 25 289
«Sitzb. Berl. Akad.» 1904, p. 83 1928, pp. 3 sgg. 1931, pp. 9 sgg. 1935, pp. 967-1019
268 213 535 174
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Pagina 815
Elenco dei documenti citati nel testo, nelle note e descrizioni delle tavole FF. ABBOTT e A.CH. JOHNSON, Municipal Administration in the Rom. Empire (1926). Part. II, 1-2 p. 347, n. 49 115 p. 354, n. 51 107 p. 356, n. 53 115 p. 363, n. 59 323 p. 364, nn. 60 e 61 184 n. 82 205 n. 83 205, 568 n. 86 578 nn. 90-92 205 Anatolian Studies presented to Sir W. Ramsay (1929). p. 27 sgg. 267 p. 30 267 p. 34 sgg. 268 p. 36 sgg. 268 G. BRUSIN, Aquileia, guida storica ecc. (1929). pp. 10 e 222 96 p. 47 232 W.M. CALDER, Monumenta Asiae Minoris Antiqua (1928-). I, n. 24 401 IV, 139 157 269 402 279 402 F. CUMONT, Fouilles de Doura-Europos (1926). pp. 188 sgg. 432 p. 281 sgg. 274 p. 282 sgg. 253 p. 309 sgg. 274 p. 323 sgg. 227 M.G. DEMITSAS, ÔH Makedoniva ejn livqoi~ fqeggomevnoi~ (1896). p. 70, n. 58 393 p. 71, n. 72 392 p. 371, nn. 330-32 393
815
F. DURRBACH, Choix d’inscriptions de Délos (1921-). 64 20, 23 65 20 66 20 132 20 138 20 141 20, 23, 26 142 23 163 45 165 45 R. EGGER, Forschungen in Salona. II, n. 217
421
GEFFCKEN, Griech. Epigramme. p. 82
172
S. GSELL e A. JOLY, Khamissa (1914). p. 13 sgg. 503 p. 29 512 R. HEBERDEY, Opramoas (1897). n. 8 555 9 555 13 555 E. HOWALD e E. MEYER, Die römische Schweiz. Texte und Inschriften mit Übersetzung (1940). n. 44 785 54 234 55 234 92 254 152 254 L. JALABERT e R. MOUTERDE, Inscr. gr. et lat. de la Syrie, I (1929). 1 407 47 407 51 407 59 432 J. KEIL e A. VON PREMERSTEIN, Erste Reise in Lydien, 1908 («Denkschr. Wien. Akad.»). p. 50, n. 101 707
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816 Zweite Reise in Lydien. p. 16 pp. 34 e 36 Dritte Reise in Lydien. p. 11, n. 9 p. 28, n. 28 p. 38, n. 55 p. 40 p. 68, n. 85 pp. 82 sgg. p. 96, n. 137 p. 98, n. 99 p. 103, n. 204 B. LAUM, Stiftungen. I, pp. 8 sgg. II, n. 5 n. 162 n. 210
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STORIA ECONOMICA E SOCIALE DELL’IMPERO ROMANO
601 580
622, 633 622 622, 627 398 432 402 402 402 402
213 208 601 407
E.H. MINNS, Scythians and Greeks (1913). p. 655, n. 49 409 p. 655, n. 51 410 R. MOUTERDE e A. POIDEBARD, Le Limes de Chalcis. Organisation de la steppe en Haute Syrie romaine (1945). p. 200, n. 30 578 E. PAIS, Suppl. Italica. nn. 42-51
363
V. PÂRVAN, «Dacia», 2 (1925). pp. 198 sgg. p. 241, nn. 41 e 43
383 385
V. PÂRVAN, Histria («Mém. Acad. roumaine») (1923). IV, p. 557, n. 15 232 p. 560, n. 16 232 p. 617 385 VII, p. 42 385 p. 55, nn. 46-52 385 n. 53 385
p. 96 sgg., n. 61 p. 114
385 385
V. PÂRVAN, Inceputurile vietii Romane la gurile Dunarii (1923). pp. 52 sgg. tav. XLIII p. 147 385 C. PATSCH, Das Sandschak Berat i. Albanien («Schr. d. Balkankomission»). 3 (1904), pp. 91 sgg. 248 C. PATSCH, Arch.-ep. Untersuchungen zur Gesch. d. röm. Prov. Dalmatien. III, pp. 155 sgg. 368 IV, pp. 55 sgg. 368 VI, pp. 172 sgg. e 278 sgg. 365, 366 VII, pp. 155 sgg. 367, tav. XL VIII, pp. 92 sgg. e p. 155 365, 367 E. PETERSEN e F. LUSCHAN, Reisen im südwestlichen Kleinasien (1889). nn. 242 e 242a 308 C. PRASCHNIKER e A. SCHOBER, Arch. Forsch. in Albanien («Schr. d. Balkankommiss.», 8). p. 45, nn. 57 e 57a 248 W. PRENTICE, Greek and Latin Inscriptions («Publ. of an American Archaeological Expedition to Syria», 1908). III, p. 280, n. 335 536 A.J. REINACH, Rapport sur le fouilles de Coptos (1911). p. 17 224 L. ROBERT, Études anatoliennes. Recherches sur les inscriptions grecques de l'Asie Mineure, Paris, 1937. pp. 99 sgg. 647 pp. 119 sgg. 648 pp. 146 sgg. 174 pp. 207 sgg. 402
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Elenco dei documenti citati nel testo, nelle note e descrizioni delle tavole p. 308 sgg., n. 4 p. 409 sgg. pp. 434 sgg. pp. 570 sgg.
581 401 265 403
∆Epituvmbion H. Swoboda dargebracht (1927). p. 341, n. 724 330 A. SCHOBER, D. röm. Grabsteine v. Noricum u. Pannonia (1923). p. 50, n. 105 375, tav. LXXIV K. SKORPIL, Descrizione degli antichi monumenti che si trovano nella regione del Mar Nero, II (1927). p. 72, fig. 93 534 H. SWOBODA, J. KEIL, F. KNOLL, Denkmäler aus Lykaonien, Pamphylien und Isaurien (1935). p. 98, n. 282 403 p. 24 n. 34 707
817
O. TAFRALI, La Cité pontique de Dionysopolis etc. (1927). p. 71, n. 10 383 L.R. TAYLOR e A.B. WEST, Corinth, VIII, 2 (1931). pp. 1 sgg., n. 1 7 pp. 42 sgg., nn. 67 e 68 73 J. TOUTAIN, Les cités rom. de la Tunisie. p. 344 503 F.K. VOLLMER, Inscr. Baivariae Romanae sive inscriptiones provinciae Raetiae (1915). 111 357 127 357 135 357 141 357 144 357 175 357 361 357
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Indice dei nomi e delle materie*
Aargau 337. Abascantus tav. XXVI. Abbosus, komavrkh~ siriaco 422. Abdera (Tracia) 20, 388. Abgar, M. Ulpius 293. Abgari (Edessa) 425, 426. A ∆ bibhnw`n ejpoikivon (Transgiordania) 431. Abila (Siria) 422. Abissinia 220, 473, 474. abiti 16, 96, 97, 100, 264, 342, 349, 363, 474, 552, 704, 720. Abrega (Istria) 360. Abultronii (Dalmazia) 365. abundantia 205. Abundantia, Abbondanza (dea) 558, 570, tavv. LXVIII, LXXI, LXXII. Acaia, Achaia 161, 393-395, 541, tav. LXXII. acceptarius 504. Achille 408. ∆Acilleivdh~ 633. Achulla (Africa) 492. aciarius 96. Acornion (Dionysopolis) 75. acquartieramenti militari 552, 614, 638, 647. acquedotti 21, 203. Acra (Bosforo) 410. Acrae (Sicilia) 648. Acroceraunii, monti 248. actarii et numerarii stationum 594. actores 36, 730. Acutus, Cn. Domitius (Pompei) 36. Adana 129, 130. Adelphius, Aurelius, ginnasiarca 738.
Ad Mediam (Dacia) 380. ∆Adrahnw`n (Siria) 416, tav. XLVIII. Adriano 120, 122, 155, 157, 161-163, 167-169, 170, 171, 173, 174, 177179, 183, 248, 271, 272, 277, 278, 282, 287-289, 291, 293, 304, 311, 328, 368, 384, 349, 389, 391, 393, 394, 395, 404, 429, 451, 458, 463, 464, 486, 486, 497, 500, 503, 507, 508, 511, 533, 535, 541, 544, 545, 551-555, 559, 560, 565-580, 584, 586, 591, 593, 594, 596, 597, 599, 600, 601, 604, 610, 613, 618, 619, 620, 625-627, 640, 644, 645, 647, 648, 655, 681, 753, 760, 761; tavv. LXVIII, LXX, LXXI, LXXII. Esercito 169, 177, 567, 571; politica interna 157, 277 sg., 591, 593, 618, 626; politica econom. e sociale 271, 311, 487, 533, 535, 541, 572, 574, 584, 600, 601; colonizzazione 500; urbanizzazione 184, 368, 389, 464, 508, 544, 567 sg.; riforme amministrative 566 sg.; vallo di A. 566. Adrianopoli 184, 388, 389, 568. Adriatico, mare 95, 239, 299, 359, 363. Adulis (Africa) 483. Advena, D. Annaeus Arn. 507. Advento, Oclaziano 608. aediles 207. Aegae (Lidia) 402. Aegyssus (Mesia inferiore) 385. ∆Aeinaza`~, re axumita 479 (vd. Ezana). Aelia, municipia 568. Aelii Marcelli (Apulum) 380.
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Aenona (Dalmazia) 368. Aenus (Tracia) 380. Aequum (Dalmazia) 368 (Colonia Claudia). aerarium 580. aerarium militare 271, 272; Saturni 690. Aezani 189, 205, 402, 574. Afiniana 322. Afrarius, mercator frumentarius tav. XXVII. Africa 8, 10, 20, 22, 24, 26, 30, 38, 42-44, 61, 66, 67, 69, 73, 83, 87, 88. 91, 96, 124, 125, 141, 143, 153, 154, 156, 158, 184, 186, 189, 197, 201, 202, 207, 209, 212, 215, 220, 224, 228230, 232-234, 239, 244, 254-256, 261, 263, 278, 283, 293, 298, 299, 303, 307, 308, 311, 317, 318, 328, 351, 360, 368, 371, 390, 397, 398, 403, 404, 462, 474, 480, 483-485, 487-503, 508-510, 512, 517, 518, 523, 524, 528, 530, 532, 534, 536538, 540, 542, 544, 549-551, 568, 573, 582-584, 604, 605, 607, 617, 620, 623, 626, 631, 650-653, 655, 669, 673, 675, 679, 683, 684, 694 704, 705, 708, 715, 721, 728, 735, 737, 770, tav. LI; insurrezioni 604, 607, 608, 683; indigeni 298, 500 sgg., 509, 511, tav. LX; commercio 91, 220, 227, 228, 231, 232, 244, 483, 492 sg.; industria 255, 262, 263, 533 (miniere); colonizzazione 42, 43, 491 sgg., 497 sgg.; agricoltura 307, 308, 311, 488 sgg., 536, 572, 583, tavv. XXVII, LVII; contadini 498, 509, 511, 512; proprietà e proprietari fondiari 491, 499, 509 sgg., 538, 572 sg., 720; latifondi 82 sg., 141, 142, 499, 768 sg.; affittuari 510 (conductores), 572 sg., 626; ordinamento 492 sgg.; struttura sociale 511 sgg., 649 sgg., 737; città 185, 186, 190, 397; urbanizzazione 66, 67, 124, 156, 496 sgg., 551, 650 (castella); demani imperiali 143, 721. Africa centrale 474, 480, 360, 483, 484, 518, tavv. LXVI, LXVII. Africa proconsolare 20, 52, 59, 487, 488, 495, 496, 499, 503, 517, 518, 523; agricoltura 38, 209, 488 sg., 584, tavv. LVIII, LXII; colonizzazione
495, 523; condizioni economiche e sociali 487 sgg., tav. LXXVI; conductores 626; demani imperiali 626, 649; schiavitù tav. LXII; stirpi indigene 503; urbanizzazione 183, 488, 497, 503. Africani 496. Afroditopoli (Egitto) 458. Aga-Bei (Lidia), iscrizione di, 398, 627 sg., 633. ∆Agavqwn (Asia M.) 403. Agedincum (Sens) 339, tavv. XXV, XXXVII, XXXVIII. agentes in rebus 714, 755 sg. ager censorius 492; ager privatus vectigalisque 492; ager publicus vd. terra, ager Romanus 12; ager Campanus 28. ajggareiva 588 sg., 590, 760, tav. LXXIV. ajgoranovmoi (agoranomoi) 207, 208. agrarie, leggi 28, 398, 492 sg. Agricola 125, 352. agricoltura 536 sg.; trattati 10, 22, 33, 79, 488; strumenti 96, 97, tav. XI; sistematico-capitalistica 125, 536; in Africa 488 sg., 771 sg.; in Egitto 3 sg., 439, 446; in Britannia 352; negli Stati ellenistici 3 sg.; in Gallia 339; nell’Illiria 365; in Istria 360; in Italia 10, 15, 21, 25 sg., 33 sgg., 76 sg., 133 sgg. 299 sg., 300, 303, 312, 315 sg., 538; nei paesi renani 345-347, 349; crisi 749; provvedimenti per rialzarla 621 sgg.; decadenza 782. agri decumani 328. Agri decumates 341, 536. Agrii (Dalmazia) 365. agrimensores 499. Agrippa 36, 68, 72, 83, 141, 214, 322, 447, 451, 496, 497. Agrippa Postumo 36, 37, 79, 80, 83, 141, 447. Agrippiana, horrea 230. Agrippina 103, 447. Agrippino, Q. Paconio 487, 547. Ahnas 225. Aidepsos 248, tav. VII. Aigiale (Asia Minore) 625. Aila 126. Ain el Gemala (Africa) 500. Ain Vassel 500. Akinizaz, re di Meroe 476.
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Indice dei nomi e delle materie Alabanda (Caria) 555. alabastro, cave di, 471. alae 153, 654. Alamanni 672, 674. Albania (d’Europa) 198, 248, 365, 367, 368, 391, 392; (Caucasia) 407. A ∆ lbavnioi 614. Albano 614. Albingauni 713. Albino, D. Clodio 601, 606, 609, 613, 614, 618, 632, 736. Alcinoo 623. ÔAlentivwn (Cos) 400. Aleppo 215, 414, tav. XLVIII. Alessandria 1, 35, 45, 64, 65, 74, 87, 88, 92, 95, 106, 126-130, 134, 146, 161163, 174, 186, 204, 220, 224, 225, 229, 234, 247, 248, 263, 266, 268270, 275, 281, 283, 290, 434, 437440, 446, 453-455, 460, 462, 464, 475, 541, 578, 605, 606, 628, 638, 658, 675, 693, 721, 722, 725, 727730, 736, tavv. XXVI, LI, LIII. Borghesia 437 sg., 446, 454; commercio e mercanti 35, 74, 126- 128, 129, 134, 220, 224, 225, 234, 247; flotta commerciale 605, 658; industria 87, 88 sg., 92, 95, 98, 130, 247, 267; insurrezioni 161 sgg., 172, 174, 541, 638, 675, 736; opposizione contro Commodo 605 sg. Alessandrini 65, 104, 106, 107, 116, 160162, 163, 172, 173, 443, 448, 453, 454, 456, 461, 538, tav. LXXIX; martiri a. 65, 158, 161 sgg., 638. Alessandro Magno 3, 64, 67, 101, 182, 184, 186, 231, 233, 438, 644, tav. LI. Alessandro I di Russia 656. Alessandro II di Russia 12. Alessandro, C. Giulio 448, 454; T. Giulio 144, 146, 249, 454, 455, 456; Latinio 555. Alessandro Janneo 127. Alessandro Severo 381, 504, 624, 644, 648 sg., 655, 657 sg., 619, 642, 654, 656, 663, 668, 679, 687, 692, 695, 700, 702, 715, 724, tav. LXXIII. Esercito 632, 634 sg., 651, 652, 654, 656, 720; politica economica 645 sgg., 657 sg., 659 sg., 692, 723 sg.; politica interna 648 sg., 687 sg., 734 sg.
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831 ∆Alexadrianhv, oujs iva 452. ∆Alevxa√dro~, ∆Alexav√drou (Thyatira) 264. ∆Alevxa√dro~ Muvreino~ 409. Algeri 197. Algeria 197, 649. alimenta 272, 300, 556, 620, tavv. LXVIII, LXX, LXXI. Aljustrel (Spagna), iscriz. 535. Allier, fiume, 260. Allobrogi 338. Alpi marittime 713. Alpine, regioni, 68, 84, 112, 153, 203, 235, 706; stirpi, 112, 706. Alpino, Q. Decio 254. a[lsh (luci) 487. Alsazia 260. Altbach, fiume, 243, 349. Althiburos (Africa procons., oggi Medeina) 197, 200, 568; mosaico 254, tav. XXVIII. Alypius, ricco egiziano 725, 728 sg. Amandio, M. Fabius (Pompei) 137. Amanineras, regina di Meroe 476. ambra 84, 88, 219. America 204, 214, 350; meridion. 781. Americani 172, 414. Aminta, re di Macedonia 393. Amiso 220. Amlaidina, vicus (Mesia inferiore) 385. Ammaedara (Africa) 500, 502, 503. Amman (Siria) 189. amministrazione imperiale 59 (Augusto); 106 sgg. (Giulii e Claudii); 154 sgg., 169 sgg., 182 sgg., 350, 371, 457 sg. 566 sg. (Flavii e Antonini), 615, 631 sg., 643 sgg., 689 sg. (monarchia militare); 675 sgg., 688 sgg., 697, 704 sg., 746 sg. (anarchia militare); 755 sgg., 768 sg. (sec. IV); burocratizzazione 106, 110, 154, 183, 578, 587, 631, 755; corruzione 755, 765; militarizzazione 615, 617, 676, 689 sg., 693; a. di Roma 109 sg.; cf. liturgie. Ammone, santuario di A. in Etiopia 474, tav. LVI. Ammwnianov~ (Egitto) 454. Ammonio, P. Elio 225. Ammoniti 126. Ammonius (Egitto) 462.
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Ampio, M. (Pompei) 36. A ∆ muvnta~, Kl. 625. anabolicae species 659, 693. anabolicum 249, 503. ajnagrafhv 155. Anaitis 402. ajnacwvrhsi~ 267, 435, 608, 620, 627, 665. Anath 282, 288, 291. anatoliche, divinità 403. Anauni 107, 111, 115, 317. Anchialus (Tracia) 388. Ancyra 189, 386, 403. Andro 600. A ∆ √droklei`dai (Efeso) 265. Anfiarao 402. ajggareivai 588, 590, 648; tavv. LXXII, LXXIV. animali da trasporto 434, 552, 592, 594, 646, 677, 760, tavv. XVII, XLVIII, XLIX, LIII, LXIX; vd. ajggareiva; possessori di, 206, 434, 593, 721. Annaeus, vicus (Africa) 507. A ∆ √√ia√ov~ 707. Annibale 16, 27. Annoe 724. annona 205-209, 229-231, 234, 235, 268, 553, 555, 557, 578, 593, 598, 601, 699, 700, 705, 716, 719-723, 759 tav. XXVI; dea, tavv. XXVII, LXXII; species annonariae 720; curator annonae 207, 510; vd. praefectus, prosecutio. Annuna (Africa) 197, 504. ∆Antanoiv, stirpe macedonica 393, 553. Anteii (Dalmazia) 365. Anthedon (Palestina) 428. Anthée (Belgio), villa di, 260. ∆Anqesthvrio~ oJ ÔHghsivppou (Panticapaeum) tav. XLVII. Anthus (Egitto) 448, 453. Antigonidi 754. Antikrates 454. Antimene 233. Antinoe (Egitto) 719. Antinoupolis (Egitto) 184, 202, 464, 568, 601, 727. Antiochia sull’Oronte 1, 186, 201, 204, 215, 226, 270, 403, 414 sgg., 421, 428, 622, 638, 672, 736, 737, tavv. XLVIII, LXXVII, LXXIX.
Antiochia di Gerasene 126. Antiochia di Pisidia 53, 189, 198, 208, 308, 577. Antioco Epifane 163. Antiochos, re di Commagene 407 sg. Antistene 166. Antistii (Thibilis) 515. Antitauro 404. Antonia, moglie di Druso 452. Antonia, figlia di Claudio 447, 452, 456, 460. Antonia Saturnina 508. ∆Antwvnia, megavla (giuochi) 599. Antonini 106, 122, 151, 168 sgg., 181 sgg., 232, 297 sgg., 397 sgg., 457, 603, 610-614, 617, 619, 622, 624, 635, 639, 640, 643, 645, 649, 658, 661, 673, 676, 678, 687, 688, 690, 692, 695, 700, 701, 711, 730-732, 740, 748, 749, 758, 766, 778; tavv. LXIX, LXX, LXXV, LXXVII. antoniniano (moneta) 645, 700, tav. LXXV. Antonino, C. Arrio 209. Antonino Pio 114, 168, 169, 170, 182, 183, 226 sg., 282, 304, 349, 384, 385, 471, 508, 541, 579, 593, 594, 600, 601. Antonino, P. Vedio 213; Uranio 744. Antonio 108, 119. Antonio, M. 7, 30, 38, 44, 45, 48, 55, 57, 59, 61, 63, 90, 243, 244, 300, 338, 340, 341, 447, 586. Antonius, M. (Egitto) 447. ∆Anouba`, oujs iva 454. Anubis tav. LII. Aosta, valle d’ 112. Apamea (Frigia) 250; (Siria) 414, 417, 421, 422. Aperienses, coloni (Germania) 351. Aphrodisias (Caria) 399, 567, tav. XLVIII; iscrizione 608. Aphrodito (Egitto) 772. Aphroditopolis vd. Afroditopoli. apicoltura 235, 536. Apion 448, 453, 772. Apollinare, Sidonio 771, 775, 782. Apollinario, Elio 225, 226. Apollo 104, 106, 404, 752, tavv. XVIII, XLVI, LI, LXVIII; A. di Claro 580. Apollo Lairmenos 402.
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Indice dei nomi e delle materie Apollodoro, architetto 552. Apollon (Egitto) 729. Apollonia 75, 364, 388, 391. Apollonide, C. Agellio 600. Apollonio (Egitto) 3, 4, 208, 209, 266, 431, 458, 462; (Aspendos) 267; di Tyana 165, 174, 233, 267. Aponii 448. Appiano, atti di, 173, 606 (vd. Alessandrini, martiri); ricco egiziano 721, 728. Appsion (Cotiaeum) tav. XLVI. Apri (Tracia) 389. Apro, Arrio 676. Apulia 10, 28, 37, 83, 95, 137, 312. Apulum (Dacia) 379. Apustii (Abdera) 20. Aquae Helveticae (Baden) 337. Aquae Sextiae (Aix) 190, 338. Aquae Sulis (Bath) 202. Aquila, C. Giulio, 413, 455; Subaziano 620. Aquileia 75, 88 sg., 91, 95-98, 189, 190, 215, 219, 229, 232, 235, 236, 238, 244, 247, 271, 303, 316, 356, 357, 376, 380, 579, 584, 601, 619, 669, 684, tav. XLV; commercio 24, 25, 88, 95, 97, 133, 219 sg., 229, 235, 239, 244, 271, 303, 357; industria 88, 95 sg., 97, 137, 235 sg., tav. XXXII; mosaico 619; patera tavv. VI, XIII; territorio 24, 25, 42, 316, 584. Aquincum (Pannonia) 202, 371 sg., 375, 633. Aquinum (Umbria) 75. Aquitania 337. arabarches 223. Arabi 223, 298, 425, 426, 430, 696, tav. XLVIII. Arabia 69, 87, 184, 185, 189, 201, 220, 223-225, 227, 228, 280, 280-282, 287, 430, 431, 470, 504, 550, 583, 776; commercio 87, 126, 128-130, 189 sgg., 220, 223, 224, 227; porti 87, 129; stirpi 430 sg., 504; urbanizzazione 184, 189, 201, 583. Arabia Petrea 227, 414, 430, 431, 565. Aradus 189 Arague (Asia Minore), iscriz. 708, 712 sgg. Aramei 298. Ara pacis 54, 68, tav. VI.
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833 aratores 318. Arausio (Gallia) 187, 338. arca 71. Arcadia 394. Archelao, re di Cappadocia 407; (Palestina) 429. ajrcevmporoi 250. ajrcevfodo~ 448, 726. Archimede tav. LIII. archistrator 594. ajrcw`√ai 599 sg. Ardashir 281, 669, 742, 743. Ardiei (Illirico) 363, 364, 413. Areius 453. Arelate (Arles) 189, 190, 239, 243, 244, 268, 337. Arelatenses, navicularii 593, 625 sg. Arezzo 45, 91, tav. II. argapetes 427. argento 15, 36, 87, 92, 95 sg., 129, 219, 270, 280, 390, 535 sg., 551, 634, 646, 702; miniere 327, 380, 535 sg., 551, 634 sg., 702; moneta 129, 634, 702, tav. XXXV; toreutica 79, tav. XLI; vasi 95, 101, 219, tavv. XIII, XV, XVIII, XXXV, XLI. Argentorate 189 sg., tav. LXXIV. Arianna tavv. XIV, XLI. Ariassus (Asia M.) 401. Ariminum 209. A ∆ rishnoi; (Transgiordania) 431. Aristagoras (Istros) 75. aristocrazia 59, 63, 66-68, 72 sg., 182 sg., 559, 605, 732; a Cartagine 23, 684; nelle città ellenistiche 8; in Etruria 11; nella repubblica romana 11 sg., 15, 16 sg., 25, 27, 31, 72; di funzionari 3, 5, 59, 297, 303, 679, 689, 692, 694, 746, 756 sg., 759, 762, 768, 772; militare 653 sg., 677, 689, 694-697, 731, 754; municipale 144, 146, 152, 170, 212, 278, 280, 300, 303, 329, 380, 392, 514, 517, 539, 615, 635, 640, 644, 677, 680, 694 sg., 737, 749, 757, 767, 772: militarizzazione 615; oneri 647, 677, 733, 749 sg., 757; persecuzione 614 sg., 640, 680, 684, 737, 749, 772; nel Senato 157, 170; struttura sociale 59, 144, 147, 277, 279 sg., 299 sg., 338 sg., 367, 401, 512, 734 sg., 767; imperiale
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170, 303 sg., 426, 738 sg.: persecuzione 614 sg., 640, 679 sg., struttura sociale 147, 303 sg., 504, 537 sgg.; delle stirpi 67, 277, 339, 352, 366, 379 sg., 426, 429 sg., 491, 504, 511, 524 sg.; dei villaggi 431 sg., 524, 542, 734, 737; cf. Senato. Arles 190, 228, 230, 239. Arlon (Belgio) 215, 240, 269, 340, tavv. XII, XXXVII, LXXVIII; vd. Orolaunum vicus. Armeni 230. Armenia 6, 62, 161, 231, 286, 303, 305, 306, 307, 309, 406. armi 16, 79, 80, 192, 209, 408, tav. II. Arnea (Licia) 447. Arnensis, tribus 377. aromi (ajrwvmata) 87, 224; Arretium, vd. Arezzo. arretrati (d’imposte ecc.) 145, 272 sg., 553, 566, 572, 580, 598, 725, 761; tav. LXX; cf. debiti. Arrii (Africa) 511. Arsinoe (Egitto) 453. artaba 410. Artas 267, 295. Artemide 270, 409, tav. XIX. Artemidorus, Claudianus 393. artigiani, artigianato 44, 59, 67, 96 sg., 255 sg., 339, 349, 428, 434, 436, 463, 777; asservimento 443, 765, 767; assoggettamento al controllo statale 719, 766 sg.; concorrenza con le fabbriche 256 sg., 263; posizione sociale 279, 445, 464, 517, 538; schiavi-a. 21, 263; tassazione 658, 760; vd. associazioni. Artissius, Aur. 357. Artorii (Dalmazia) 365. Artritacus, M. Terentius 91. Arupium (Dalmazia) 368. arura 445, 455, 458, 461, 716, 717. Asboleidini (Mesia inferiore) 385. Ascalona 44, 428. Asclepiades, Aemilius Marcianus 294. Asclepiades, M. Iulius 448, 453, 462. Asclepiades figlio di Ptolomaeus 448, 453. ∆Asklhpiastaiv (Smirne) 265. Asellius (Pompei) 36. Asia 7, 8, 74, 107, 179, 186, 201, 209, 220 sg., 232, 247, 265, 308, 317,
328, 400, 404, 541, 568, 608, 610, 626, tav. XXIV; centrale 101, 207; provincia di, 181, 198, 205, 232, 264, 404, 541, 596 sg., 608, 626. Asia Minore 2, 6, 7, 8, 9, 11, 16, 22, 26, 35, 42, 52, 53, 66, 74, 75, 88, 92, 101, 102, 124, 157, 162, 164, 172, 174, 183, 186, 189, 198, 201-203, 206, 208, 209, 212, 215, 226, 228, 231, 247, 248, 250, 254, 263-267, 273, 274, 278, 281, 298,307, 208, 330, 385, 397-404, 407, 410, 414, 421, 430, 433, 438, 439, 456, 453, 474, 485, 530, 532, 533, 536, 538, 539, 541, 542, 545, 551, 553, , 516, 517, 519, 534, 538, 548, 550, 551, 553, 555, 568, 573, 577, 580, 583, 585, 588, 590, 591, 592, 594, 597, 598, 599, 610, 617, 621, 625, 628, 647, 672-674, 676, 690, 694 698, 703, 705-708, 712 sg., 735, 736, 739, 760, 783, 785; tavv. XVIII, XLVI. – Commercio 84, 88, 101 sg., 226, 232, 247 sg., 250, 410, 530 sg.; industria 92, 101 sg., 254, 263-265 (cave e miniere 530, 531, 536); condizioni di civiltà 6, 298 sg., 403 sg., 463, 539; agricoltura 26, 207, 229, 307 (grandi tenute 402, 538; imperiali 621, 713); struttura sociale 162 sg, 174, 212, 264, 267, 268, 303, 398 sgg., 421, 433, 484, 538 sg., 541 sg., 573 sg., 585, 590 (feudalismo 712 sg.); città 74, 189, 203, 404, 585, 591, tav. XVIII; urbanizzazione 66 sg., 301 sgg., 399 sg., 403, 439, 551, 568; condizioni economiche 7, 9, 11, 123 sg., 208, 209, 307 sg., 390 sg., 397, 552 sg. Asiatici 5. Asinnia 559. asino 721, tavv. XLVIII, LXIII. Asisium 75. Aspalta, re di Napata 483. Aspendus (Panfilia) 208 sg., 267, 625. Assaritanus, pagus (Africa) 495. assemblea popolare nelle città egiziane 464; a Roma 29 sg., 109. Asseria (Dalmazia) 367 sg. Assiri 273, 474. Assiria 6, 753.
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Indice dei nomi e delle materie associazioni (collegia, societates) 203, 212, 229-231, 243, 249, 264, 265 sgg., 280, 625, 768; militarizzazione 692; privilegi 229 sg., 249 sg., 571 sg., 627, 658; controllo statale 229, 658, 660, 692 sg., 721 sg., 766. associazioni di lavoratori (collegia tenuiorum) 264, 265 sg., 280, 357, 574, 692 sg.; di proprietari di miniere 533, centonariorum 359, 376, 601, 627, 692; conductorum 510; dendrophorum 692; fabrorum 601, 627; di artigiani 264 sg., 562; di industriali 503; collegia iuvenum 60 sg., 147, 152, 177, 358, 509, 656; di mercanti 223, 229 sg., 236 sg., 249 sg., 379 sg., 509, 593, 625, 658, 692, 766; di proprietari di botteghe 264, 289, 768; politeuvmata (vd.); religiose 211, 507; di padroni di navi 223, 229 sg., 437, 593, 625, 692, 721, 766, 768; di esattori d’imposte (vd.) 38, 42, 62, 249, 595, 601; socii Talenses vd.; di vettori 249, 593; di tessitori vd. linourgoiv. Assos (Asia Minore) 202, 215, tav. XVIII. ∆Astikhv (Tracia) 387. Asturia 329. Asturiani 328. Asturii, 329. Asturica (Spagna) 189. Atargatis 349, 409. Atbara, fiume 471. ∆Aqelenoiv (Transgiordania) 432. atelia 399. Atella 390. Atena (Athena) 129, 402. Atene 1, 3, 169, 174, 189, 198, 204 sg., 209, 212, 214, 394, 396, 457, 491, 574, 673, 781. Ateniesi 2. Athenais (Atenaide), Claudia 457, 458. Athenodorus, C. Iulius 448, 453; M. Acilius 293. Athesis (Adige), fiume 45. Atinii 448, 453. ∆Atintanoiv, stirpe macedone 393. Attalidi 184. Attalo III 8. Atte 142, 214, 323. Attica 293, 394, 573, tav. XLVI.
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835 Attici, famiglia 457. Atticilla, Tib. Claudia Eupatoris Mandane 458; Valeria 503. Attico, T. Pomponio 19; Ti. Claudio 213. Attii (Africa) 511. attributi, populi 204, 317, 355 sg., 363, 399. Aubuzza (Africa) 498. Aucissa, fibule di 92. auditoria 203. Augusta Praetoria 95, 266; Raurica (Augst) 161, 253; Taurinorum 266; Traiana (Tracia, od. Gostilitza) 283, 290, 291; Treverorum 157, 159, 257; Vindelicum (Augusta) 196, 266. Augusta, gens 54, 72, 96; pax 33, 49, 69. Augustales (Augustalis) 147 sg., 236, 375 sg., 395. augustei, poeti 54 sg., 74, 76, 83 sg., 87, 91, 180, 300. Augusto 1, 32, 33, 35-37, 42, 43, 45, 47102, 103, 104, 106, 108-112, 115118, 123-126, 128-130, 141, 143, 151, 164, 168, 169, 171, 205, 250, 270-272, 275, 277, 285, 287, 317, 320 sg., 323, 330, 357, 365, 382, 395, 398 sgg., 407, 440, 443-448, 452-456, 463, 464, 476, 487, 495499, 508, 534, 544, 545, 550, 552, 560, 567, 576, 585, 656, 708, 724, 732, tavv. VII, VIII, XII, XIII, XXXV; apoteosi 53 sg.; edifici come simboli dell’età augustea 48, 54 sg., 69; politica economica 63, 66 sg., 68 sgg., 76 sgg., 87 sgg., 98 sgg., 108, 126, 129 sg., 224, 233, 270 sg., 272; politica estera 66 sgg., 340, 497-499; politica interna 56 sgg., 83 sg., 95, 109 sg., 155 sg., 595 sgg., 762, tav. VI; colonizzazione 42, 53, 155, 375 sg., 392, 653 sg.; in Egitto 443 sgg., 588; riordinamento dell’esercito 49 sgg., 153, 696; politica verso le province 60 sgg., 112, 171, 318 sg., 324, 445 sgg., 496 sgg.; riforme 102, 745; rapporti col Senato 55, 156 sg.; urbanizzazione 63 sgg., 111, 152, 834, 496. Augustodunum (Autun) 339, 736. Aulerci Eburovices (Evreux) 339.
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Auranitide 430 sg., tav. XLVIII. aurei (moneta) 409, tavv. LXXI, LXXIII, LXXV, LXXVII, LXXIX. Aureliani 692. Aureliano, L. Domizio 388, 536, 659, 674 sg., 690-693, 696, 700, 703 sg., 705, 719, 724, 736, 749, 752, tav. LXXVII; autocrazia 690 sg.; politica economica e sociale 692 sgg., 711; politica interna 692. Aureliano (Siria) 432. A ∆ urhlianoiv (Asia Minore) 404. Aureolo 671-673. aurum coronarium 566, 637, 657, 687, 757, 760; a. tironicum 696, 754. ausiliarie, truppe, 50-53, 59, 117, 153, 156, 177 sg., 226 sg., 288, 292, 329, 366-368, 382 sg., 421, 425, 445, 508, 754, tav. XLV. Ausonio 771, 775, 782. Austria 239, 359, 371 sg., 375. Austriaci 371. autorità (auctoritas) 47, 50, 55, 108. auxilia, vd. truppe ausiliarie. Avaricum (Bourges) 339. Avensensis, civitas (Africa) 498. Avito, Lolliano 265. avorio 87, 101, 220, 227, 474, 480, 529, tav. LXVII. Avroman (Siria) tav. L. Axum, regno di, 220, 479, 483, 704. Axumiti 479, 483. Aza Khelaman, re etiopico 475. Azio, battaglia di, 32, 33, 45, 49. “Azita (Asia Minore) 402. Azov, mar d’, 413. Baal, 422. Baalbek (Siria) 422; vd. Heliopolis. Babilonesi 227, 273. Babilonia 224, 233, 254, 255, 531, 722, 753, 780, 781; associazioni commerciali 250; diritto 273. Bacco 106, tavv. XIV, XVIII, XXVI, XLI. Bacchuina, gens (Africa) 504. Baetocaece, tempio di, (Siria) 422. Bagaudae 706. Bagradas, fiume 155. Balácza (Ungheria) 375. Balbillo, T. Claudio 145, 146, 452.
Balbino, D. Celio Calvino 657, 664, 669, 684, 687, 736, tav. LXXV. Balbo, Cornelio 530. Balcanica, penisola 389, 592, 781. Ballista 672. Baltico, mare 92, 133, 216, 219. Banato 380. banche, 4, 44, 45, 268 sgg.; di cambio 269, 270 sg., 702 sg.; il fisco come banca 271 sg.; schiavi nelle b. 138; templi come b. 210, 270 sg.; affari bancarii 38, 74, 240, 244, 269, 270, 239. banchieri 23, 268, 269, 271, 303, 346, 577, 701, 702, tavv. XXXVII, XLIII. Baquates (Africa) 704. Barbalissus 672, 698. barbari, assalti di, 549 sg., 560, 580, 586, 644, 669 sgg., 689, 694, 703 sgg., 736, 754, 776 sgg., tavv. XVII, XLVII; stanziamenti di, 641 sg., 656, 708, 735, 776, 778 sg. Barbii 96, 236, 360, 376, 380. Basa (Nubia) 476. basiliche (basilicae) 186, 203, 367, 484 sg., 524, tav. XVIII. Bassa, Claudia 401. Bassiano, vd. Alessandro Severo, Eliogabalo. Basso, C. Lecanio 239. Bastarni 559. Batavia 261. Bath (Inghilterra) 352. Batna (Siria) 422. Battria 6. Bavares (Africa) 704. Baviera 357. Bayeux (Francia) tav. LIX. Beduini 87, 414. Beguensis, saltus (Africa) 503, 508. Beirut 201, tav. XLIX; vd. Berito. Beit Gebrin (Bethogabra, Palestina) 429. Belgi 414. Belgica, Gallia 337. Belgio 96, 219, 259, 260 sg., 337, 339, 340, 345, 360, 536. Belgrado 379, 594, tavv. XLIII, LXXIV. Bellichos 578. beneficenza 504 sgg.; cf. donazioni, fondazioni. beneficiarii 707 sg., 715, tav. LXXIV.
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Indice dei nomi e delle materie Benevento 167; aco 300, 304 sg., 559, 560, 610 tavv. LXVIII, LXIX, LXX. Berat (Albania) 248, 391. Berberi 293, 298, 491. Berenice (città in Egitto) 448, 454, 457; nella Transgiord. 126; regina di Cirene 130, 223 gg.; Giulia B. 448, 454, 457. Bergomum 316, 356. Berito 201, 422, 626. Berlino 198, 266, tavv. II, VII. Beroe vd. Augusta Traiana. Beroea (Macedonia) 330, 392, 393, 553. Bessi (Mesia inferiore) 385, 386. bestiame, allevamento del, 3, 4, 16, 22, 27, 124, 318, 345, 355; tavv. III, LXIII, LXXVIII. bestie feroci, 92, 220, 474, 523; tavv. LXVI, LXVII. Bethogabra vd. Beit Gebrim. Betica 52, 322, 324, 327, 328, 337, 338. biblioqhvkh ejgkthvsewn 275. Bihac´ 368. Bindus-Neptunus 368. Biracsaccarensium, castellum (Africa) 498. birra 243, 244, 349. Bisanzio 161, 201, 622, 673, 736. Bitinia 124, 162, 165, 174, 178, 189, 201, 230, 267, 385, 388, 397, 399, 401, 403, 410, 552, 554, 555, 594, 600, 601, 672. Bitinii 400. Bizacena 498, 500, 507. Bizantini 488. Blankenheim (Germania) 345. Blemmii 474, 479, 483, 694. Blickweiler 260. Blusso 244. Bois des Dames (Belgio) 261. Boliades 294 Bollendorf (Germania) 345, 351. Bologna 55, tavv. III, XXVII. Boncart tav. LXVI. Bonna 189, 342, 352. Bononia 42. Bonoso 675. Borani 672. Bordeaux 236. Borgogna tavv. XI, XXIX. Bori (Caucaso) 92. Borysthenes, fiume 167.
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837 Boscoreale 34, 35, 36, 37, 55, 80, tavv. XI, LI; coppa tavv. VII, XIII. Boscotrecase 36. Bosforo, regno del 219, 227, 270, 383, 407, 410, 413, 554, 672, 698. Bosnia 364. Bosra (Arabia) 189, 201, 202, 226, 227, 282, 430. Boston 472. botteghe 19, 21, 68, 97, 98, 101, 134, 137, 138, 256, 260, 262, 280, 341, 552, 583, 586; tavv. XI, XV, XVI, XVIII, XXIX, XXXI, XXXII, XXXIII, XXXVII, XXXVIII; b.-officine 34, 44; padroni di, 11, 38, 232, 264, 417, 586, 591, 768. Boudiga (dea) 236. bovini 36, 79, 83, 591, 592. Brestovica (Serbia) 379. Bretoni 609, 696. briganti, brigantaggio 172, 178 sg., 541, 631, 633, 660, 706 sgg., 725 sg., 736, 766, 768. Brigantinus, lacus (lago di Costanza) 235. Brigetio (Pannonia) 372. Brindisi 92. Brioni Grande (Maggiore), isola di (Istria) 360; tav. XLII (villa). Britannia 24, 68, 84, 88, 92, 125 sg., 156,184, 189, 202 sg., 219, 228, 235 sg., 244, 255-261, 271, 298, 311, 324, 341 sg., 251 sgg., 360, 533 sgg., 544, 549, 565 sg., 604, 607, 609, 635, 704 sg., 754; tav. LVIII; amministrazione 352; agricoltura 310 sg., 352 sg., 536, tav. XLI; commercio 24, 84, 219, 228, 235, 236, 244, 342, 352; industria 24, 255 sg., 260 sg., tav. XLI; miniere 533 sgg.; pastorizia 353; rivolte 565, 604, 607, 609 sg.; struttura sociale 352 sg.; urbanizzazione 156, 184, 189, 202, 203, 341, 352. Brixia 316, 356. bronzo 84, 92; industria 96; tavv. XLI, XLVIII, XLIX; lavori in b. smaltato 261; vasi 92, 95 sg., 219; tavv. II, LVI. Bruto, M. 32. Bruttius, L. 447. Bruxelles 261, tav. LXXIII.
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Bruzio 312. Bucarest tav. XLIII. Bug, fiume 405. Boukovloi 471, 541, 581. boulaiv, vd. città. Bulgari 184. Bulgaria 184, 381-384, 387, 390, tav. XLV. Bulla 631. Bulla Regia (Africa) 197, 597, 632. Burdigala 339. Burebista, re dacico, 382. Burgas (Tracia) 534. burgi 650, 652 sg., tav. XLV. Burnum (Dalmazia) 236, 366. burocrazia vd. amministrazione. Burro 130. Burunitanus, saltus 581, 607 sg., 622. Butzke (Pomerania) 96. Byblis (Macedonia) 392. Byblos 128. Cabrières d’Aigues (Vaucluse) tav. XXXIX. Caecilianus, C. Sulgius L. F. 660. Cadikoi (Kadikeui, Tracia) 388. Caerwent (Inghilt.) 202, 352. Caesarea, vd. Cesarea. Caesarenses ad Libanum 422. Caico, fiume 1. Cairo 118, tav. LVI. Cairuan (Africa) 507, tav. LX. Calabria 83, 312. Calama (Africa) 510. Calcide (Eubea) 422, 625. Caldei 298. Cales 45. Caleti (Gallia) tav. XXIX. Caligola, C. Cesare 103 sgg., 116-118, 144, 163, 165, 167, 171, 447, 606, 618, 752, tav. XIII. Callaecia 329. Callaeciani 329. Callatis (Mesia inf.) 383, 385. Calleva Atrebatum (Britannia, oggi Silchester) 202, 352. Callimachus 461. Callipolis 531. Callisto 672. Callistrato 229, 605, 624 sg., 627 sg. Calloniana (Sicilia) 322.
Calpurnii 74. Calvisiana (Sicilia) 322. Cama, fiume (Russia) 92. Camalodunum (Britannia) 352. cambiavalute 279, 702. Cambodunum (Norico, oggi Kempten) 202, 357. Cameiros tav. L. Camilliana, villa 454. cammelli 87, 447, 536, 646, tavv. XXIV, XLVIII, XLIX, L, LIII. campagna, cap. VI. Campagna romana 583. Campania 35, 61, 73 sg., 79, 137, 141 sg., 214, tavv. VIII, IX, XV, XVIII; agricoltura 35, 91, 299, 312; città 12, 15; colonizzazione 16; commercio 24, 73 sg., 95, 133; industria 10, 21, 22, 35, 95, 133, 137, 149; decadenza 299 sg. Campanus, ager 28. canabae 68, 342, 349, 357, 375, 384, 615, 617, 652, 656. canali 223, 437, 621, 717; cf. irrigazione. canapa 44, 87, 88, 247, 249. Canatha (Transgiord.) 430, 431. Candace, regina etiope 476. Canopo 440. Capelliano 669, 679, 684. Capheaton (Inghilt.) tav. XLI. Capidava (Mesia inf.) 386. capitale 45, accumulazione 4, 19, 20 sg., 27; decentramento 211 sg., investimento 20 sg., 276, 533: in proprietà agraria 20, 27 sg., 300, 303; nell’industria 137; scomparsa 638, 645, 681, 749, 757. capitalismo 2 sgg., 44, 249, 316, 542 sgg. Capitolina 401. Capitolino, Claudio Basso 401; Elio 665. Capitone, Titinio 158. Capitoniana (Sicilia) 322. Cappadoci 52, 298. Cappadocia 52, 220, 266, 383, 385, 397, 402, 404, 407, 410, 594, 698, 720, 743, 744. capre 36, tavv. XXXIII, LIX, LXIII. Capsa (Africa) 503. Capua 45, 88, 92, 95, 390, tav. XII. caput, come unità d’estimo, 759 sg. Caracalla 208, 232, 274, 359, 375, 431, 524, 539, 540, 597, 610, 614, 618
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Indice dei nomi e delle materie sgg., 635-646, 645, 648, 656, 673, 680, 700, 718, 736, tav. LXXIII; guerre 642 sg.; opposizione 638; constitutio Antoniniana (vd.) 539 sg., 639 sg., 661; rescritto 597, 627, 628, 646. Cara-Cutuc (Tracia) 652. Caralis (Sardegna) 323, 497. Caranis (Egitto) 202, 452, 461, 621 tavv. LIV, LV. Caranog (Nubia) 476, 480, tavv. LVI, LVII. carestie 143, 207 sgg., 577, 711. Caria 198. Carii 298. Carino 676, tav. LXXVII. Carisio, Arcadio 624 sg. Carni 363, 393, 601. Carnuntum (Pannonia) 121, 133, 202, 219, 371, 372, 379, 691, tav. LXXIV. Caro, M. Aurelio 675, tav. LXXVII. carovane 127, 225, 227, 250, 253, 282, 286-292, tavv. XIX, XXIV. Carpi 669, 670, 672, 675. Carrara 530. Carrhae (Mesopot.) 619. carri 239, 390, 410, 532, 591 sg., tavv. III, XVII, XXIX, XXXIII, XXXVI, XLVI, LIII, LVIII, LXIX, LXXIV. Carsium (Mesia inf.) 385. Cartagine 44, 54, 66, 67, 84, 155, 186, 189, 256, 273, 311, 323 sg., 488, 491 sg., 495 sgg., 504, 507, 512, 518, 523, 537, 544, 606, 683, 684, 693 tavv. VI, LXXVI; agricoltura 10, 23 sg., 26; commercio, 23 sg., 26; industria 256; mosaici 512, tavv. LXXVIII, LXXX; politica romana verso C. 15, 25, 26, 495 sgg.; possedimenti 8, 15, 16, 488, 491 sgg., 518. Cartaginesi 26, 124, 155, 483. Cartenna (Africa) 517. Carthago Nova (Spagna) 532. Casae (Africa) 503, 508. case 12, 16, 19, 25, 34, 38, 67, 74, 80, 83, 97, 413 sg., tavv. X, XXIII, XXXIII, LIV, LV. caseifici 83; tavv. X, LIX. Casellius 80. Casianus, vicus (Mesia inf.) 382, 385. Casr el Heir (Siria) 426. Cassandrea (Macedonia) 392.
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839 Cassio, Avidio 579, 603, 605 sg., 620, 636, 641; Caio 32, 75. Castabala (Hierapolis, Cilicia) 402. caste 763 sgg. castella 287, 290, 496, 498, 504, 507, 650 sg. castellani 641. castellieri 359. Casto, Valerio Statilio 712. Castra Regina (Ratisbona) 202, 357. Castra Vetera 190, 352. Castro Urdiales (Spagna) tav. XXXV. Castulo (Spagna) tav. XXXV. Casu (Cusciti) 479. Catali 363, 393, 601. catasto 275, 451, 458, 462. Catavellauni (Britannia) 352. Catilina 368. Catina (Sicilia) 321, 322. Catone 10, 21, 23, 97. catrame 88. Catullinus, Fl. Geminus 500. Caucaso 92, 220, 672. cavalieri 20, 26, 32, 38, 59, 79, 98, 146, 212, 278, 375, 448, 510, 512, 566, 615, 690, 691, 745, 754, 767, 772. cavalli 24, 83, 388, 409, 512, 591, 592, 594, 699, 771, tavv. XXXIX, LXXVI. Cavarna (Bulgaria) 383. cave 15, 154, 268, 434, 471, 529 sgg., 533 sg., 536, tav. XLIII. Cedreno 665. cedro 220. Celei (Dacia) 311. Celeia (Norico) 358. Cellae (Ain Zuarin, Africa) 503. cellae oleariae, vinariae 79, tav. X. Celene (Frigia) 163, 164. Celer, C. Vibius 292. Celeris, vicus (Mesia inf.) 385. Celsus, C. Papius 365. Celti 6, 8, 11, 117, 298, 342, 349, 355, 363, 381, 391, 783. Celtiberi 30, 298, 328, 364. censimento, censo 432, 443, 759, 761. censori 21, 318. centonarii 359; vd. associazioni. centuria 42, 368. centuriatio 368, 492, 495. centurioni 121, 177, 283, 615 sg., 641, 767.
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Centuripe (Sicilia) 321. cera 87, 88, 220. ceramica 45, 95, 126, 255, 260, 262, 294, 342, 480. Cercidas 3. Cerere 508, tavv. XIV, XXXVI, LXXII. Ceriale, M. Munazio Sulla 648. Cerialis, Pinarius, caelator tav. XV. Cerius, M. Bietius 393. Cesare, C. Giulio 24, 27, 31 sgg., 38, 42, 49 sg., 61, 76, 109 sgg., 156, 167, 184, 293, 317 sg., 321, 324, 330, 339, 342, 399 sg., 495, 518, 523, 550, 552, 595, 653, 746, 749. Cesare, Caio 451, 530. Cesarea (Iol, Mauretania) 189, 491; ad mare (Palestina) 428, 578; Trocetta 580. cessio bonorum 589 sg., 597, 634, 646, 724 . Ceutrones 111, 115. Chaeremon 75; ginnasiarca 462. Chalcis (Libano) 422. Cavmwn kwvmh (Siria) 422. Charax (Ai-Todor, Russia S.) 413 . Carmideanoiv (Asia Min.) 404. Charmus 724. Chedworth (Inghilt.) 261, tav. XLI (villa). Cherchel (Africa) 197. Chersoneso (Crimea) 220, 227, 286, 384, 385, 408, 410, 413, 532. cevr~o~ 440. Chicago tav. XXIV. Chiniava (Africa) 498. Chinithi (Africa) 503, 511. Chio 265. Chiragan (Francia) 261, 338, 396. Crhsimianovn ejpoivkion (Transgiord.) 431. Chullu (Numidia) 491, 503, 504. Cibyra (Asia Min.) 213, 308, 577, 594, 601. Cilicia 163, 189, 201, 254, 402, 404. Cillae (Tracia) 388. Cillium (Africa) 503. Cina 84, 87, 129, 220, 221, 222, 223, 227, 247, 565, 592, 777, 781, tav. XXIV. Cinici 158, 159, 160, 161, 163, 164, 166, 173, 606.
Cipro tav. LXXIII. Cirenaica 56, 189, 484-487, 518, 523, 541, 546, 565, 568. Cirene 8, 56, 61, 62, 63, 64, 65, 197, 205, 484-487, 523, 524, 529, 530, 546, 547, 767; editti 20, 48, 56, 61, 487. Cirta (Numidia) 42, 189, 491, 495, 496, 497, 498, 503, 504, 511. cistae tavv. II, XVIII. città, cap. V; attribuite 496; come fondamento del principato 111 sg., 155, 585, 591, 596; «alleate» 112; centri di grandi tenute imperiali 283 sg., 507, prosperità 70, 247; decadenza e rovina 718 sg., 749 sgg.; vita e civiltà 66, 111 sg., 171, 185, 278, 280 sg., 297, 463, 595, tav. XVIII; amministrazione; 25, 61 sgg., 143, 184, 206, 278, 389, 438 sg., 463, 503, 599 sg., 719 sg., 755; magistrati 147, 171, 205 sg., 595 sg.; senati municipali (boulaiv) 20, 63, 64, 65, 106, 381, 463, 628, 719, 722, 729; leghe di città 212, 392 sg. vd. koinav. città-Stato 2, 30, 185, 583 sg.; l’Impero come federazione di città-Stato 66, 185, 745. città carovaniere 126, 281, 282, 287, 341, 430, 583. cittadinanza, diritto di: estensione 29, 111 sg., 115, 116, 122, 152, 155, 171, 183, 293, 317 sg., 358, 384, 398, tav. LXVIII; conferimento agli ausiliari 52, 177, 179, 641; ritrosia a concederlo 60, 115; svalutamento per effetto della constit. Antoniniana 539 sg., 639 sgg., 642, 718; latina 152, 156, 317, 358, 539, 601 (cf. Latium maius). Civita Castellana tav. III. civitates nell’Africa 492, 500, 503; in Britannia 352; in Gallia 66, 67; in Germania 177, 342; nel Norico 358; nella Rezia 357; in Sardegna 323; in Sicilia 321 sgg.; civitates liberae 205; c. stipendiariae 291, 539. Cizico 189, 201. Clara, Norbana 448, 453. Claro, C. Sicinnio 651. Claros (Asia Min.) 580.
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Indice dei nomi e delle materie Claudiano, Aurelio 723. Claudii 105 sgg., 123, 126, 144, 155, 158, 164, 214. Claudio (I) 103 sgg., 107 sg., 110 sg., 115, 116, 129, 130, 141, 144, 171, 183, 210, 229 sg., 232, 234, 271, 304, 322, 382, 387, 422, 447, 486, 497, 508, 546 sg., 549, 590 sg., 596, tav. XIII; urbanizzazione 111 sg., 115, 358, 368, 389. Claudio (II), M. Aurelio 673 sgg., 700, 736, tav. LXXVII. Claudio, cittadino (?) di Pessinunte 265. Cleandro, pref. d. pretorio 604. Clementia (come dea) tavv. LXVIII, LXXI Clementianus, vicus (Mesia. inf.) 386. Klevwn ∆Atemidovrou 647. Cleopatra, reg. d’ Egitto 32, 70, 108; Latinia C. 555. clienti 231, 247, 307, 346. Clodio, Alfio 648. Clunia (Spagna) 327. Cnidia 635. Cnido, vino di 716. Coblenza 24. Cocceia, Iulia 386. Cocceii 385. cochlea tav. LIII. Coela, Aelium, municipium 210. cohortes 292, 425, 432, 654. Colapiani (Pannonia) 372, 376. Colchide 407. collatio glebalis 760. collegia vd. associazioni. colletiones 632, 633, 707. Colonia Agrippinensis 189, 341, 352. colonia partiaria 534. coloniae contributae 496; c. Iuliae 496498. colonie 12, 67; in Africa 44, 184, 474 491 sg., 503 sg., 508; in Britannia 352; in Gallia 59, 253; nell’Illiria 364 sg.; in Sardegna, Corsica 323; nella Spagna 67, 324 sg.; in Tracia 389; latine 15, 16, 20, 21, 112, 125, 171, 183; militari 42, 126, 376, 451, 651; di veterani 41, 95, 184, 278, 376, 392, 504, 556, 622. colonizzazione: in Africa 42, 488, 495 sgg., 499; nelle province danubiane 375 sg., 386 sg.; in Italia e Sicilia 15,
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841 34, 42, 304, 356; nella Spagna 42, 324, 327; in Tracia 389, 550. Colossae (Frigia) 600. Comata, Gallia 66, 338, 339. Comensi 213. comitatenses 754. comites Augusti 615. Comitiana (Sicilia) 322. Commagene 397, 402, 404, 407. commerciale, flotta 223, 225, 593, 604, 605; commerciali, città 126 sgg., 202 sgg. 207, 219, 422. commercio 10, 24, 44 sg., 69, 70, 73 sg., 84, 87 sg., 95, 181 sgg.; esterno: Africa 127, 220, 228; «silent trade» a Meroe 483 sg.; Arabia 87, 126 sg.; Egitto 87, 101, 220, 224 sg.; paesi germanici e settentrionali 92, 130 sgg., 216 sgg., 236; Indie 126 sgg., 223; Oriente 127 sgg., 202 sgg., 226 sgg., tav. XXIV; Russia meridionale 219 sgg., 307, 383, 532; interno 87 sgg., 232 sg. Commodo 168, 171, 173, 177 sg., 227, 371, 418, 422, 427, 497, 566, 567, 581, 597, 603-610, 613, 618 sg., 620, 623, 625, 631 sg., 644, 649, 652, 657 sg., 661, 673, 692, 734, 737, 779. Como 300. compita 148. concentrazione della proprietà agraria 21, 141, 144, 300, 394, 417, 447, 511, 537; vd. tenute. Concordia 356, 209. conductores 232 sgg., 328, 358, 510, 531, 566, 571, 582, 596 sgg., 626; c. piscatus 531. confische 28, 42, 65, 76, 108, 144, 154, 209, 231, 275, 328, 446-448, 451, 454 sg., 462, 497, 499, 509, 545 sg., 572, 588 sg., 598, 614, 620, 623, 626, 631, 644 sg., 653, 680 sg., 683 sg., 694, 715, 717, 726 sg., 730, 750, 757. congiaria 552, 604. Congo 523. Conone 161. consacrani 386. consilium 63. constitutio Antoniana 639 sg., 661 sgg.
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contributi, vd. attributi, incolae. Copaide, palude 574. Coptos (Egitto) 130, 223 sgg. Corconiana (Sicilia) 322. Corduba 189. Coreni, vicus (Macedonia) 393. Corinium (Dalmazia) 368. Corinto 84, 189, 208, 781. Cornoviorum, civitas (Britannia) 352. corruzione 566, 635, 755 sgg. Corsica 8, 317, 323 sgg, 487. corvate 5 sg., 437, 461, 471, 533 sg., 540, 552, 571, 581, 587, 595, 598, 600, 607, 627 sg., 638, 645, 658, 677, 719, 740, 757, 760, 768. Cos 204, 228. Costantini 700. Costantino 613, 665 sg., 700, 715, 749 sgg., 753 sg., 765, 767, 772, 779, tav. LXXIX; arco di C. 167, 711. Costantinopoli tavv. XVIII, XLVI. Costanza, l. di, vd. Brigantinus lacus. Costolaz (Mesia sup.) tav. LXXIV. Cotiaeum (Asia Min.) tav. XLVI. cotone 130, 223. Crasso 68 sgg. Cremona 119. Crescentianus, C. Iulius Crescens Didius 509. Creta 3, 484, 487, 546. Crimea 129, 189, 220, 227, 286, 383, 407, 703, tavv. XLVII, LXI. Crisanthus, L. Spedius 290. Crispillina, Calvia 236. Crispinus, Rutilius Pudens 670. Cristiani 349, 390, 421, 631, 660, 749, 752 sg.; cristianesimo 753, 768, 777, 783. Crutisiones, coloni (Germania) 351. Ctesifonte 127, 226, 281 sgg., 349, 631, 669. Cuban, fiume 413, vd. Kuban. Cubanieh (Nubia) 472. Cuicul (oggi Gemila, Numidia) 201, 504, 578. culto, cure della città per il culto 211; culto degli imperatori 55, 62, 104 sg., 168 sg., 280, 323, 618 sg., 676, 690, 752. Cuma 390. cuoiami 254, 345.
Cupido tavv. XIV, XV, XXVIII. curatores, frumenti Alexandrini 722; kalendarii 600; ripae Euphratensis 128; viarum 209; nelle città provinciali (logistaiv) 560, 566 sg., 598, 718; cf. annona. curiae 203, 509; iuniorum 509, 683. curiales 739, 762, 766. cursus publicus 106 sgg., 592, 594 tav. LXXIV. Cusc, Cusciti 479, 480. Cymmericum (Bosforo) 410. Daci 379 sgg., 386. Dacia 179, 184, 228, 231, 233, 253, 276, 293, 368, 371, 379 sgg., 389, 533, 536, 541 sg., 550 sg., 565, 568, 604, 672, 703 sg., tav. XLV. Dacia Maluensis 380. Dacibyza (Bitinia), iscrizione 594. Dalmati 51, 69, 363 sg. Dalmazia 96, 153, 179, 183 sg., 189, 197, 202, 233, 236, 247, 311, 330, 358 sg., 366 sgg., 371, 375, 384, 495, 530, 533, 536, 551, 712, tavv. XL, XLIII. Damasco 127, 128, 201, 282, 414, 422, 426 sg., 536. Damiano, T. Flavio 212, 401, 555. damnati in metallum 533. Danimarca 130, 219. danubiane, province, 24, 71, 84, 88, 95 sg., 126, 155, 184 sg., 215, 227, 232 sgg., 239, 247, 255 sg., 278, 283, 307 sg., 311, 318, 358 sg., 363, 375, 380, 386, 391, 393, 534, 536, 538 sg., 550, 568, 579, 622 sg., 626, 631, 670 sg., 674, 691, 694, 703, 708; vd. limes. Danubio, fiume 133, 138, 179, 219, 220, 231 sg., 233, 235, 247, 340, 357. Daorsi (Tracia) 367. Daphne (Siria) 186. Dar Buk Ammera (Tripolit.) tav. LIX. Dardani 372. Dardania 379, 594. Darenth (Inghilt.) 261. Dassareti (Macedonia) 393. datteri 87, 474, tav. LIII. Datus, A. Gabinius Quir. 510.
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Indice dei nomi e delle materie Dautenheim (Germania) 345. dazi e dogane 34, 70, 204, 225, 227, 232 sg., 249, 283, 380, 485, 626, 761; di accompagnamento 223; appaltatori 233, 283, 287 (vd. telw`nai). debiti, condono di, 2 sg., 271 sg., 566, 580, tav. LXX. Decapolis (Siria) 185, 414. Decebalo 382, 550. decemprimi, vd. dekavprwtoi. Decii 663. Decio, C. Messio Quinto Traiano 670 sg., 688, tav. LXXV. decuma 143, 322. decumates, agri 341, 351, 536. decuriones 317, 507, 624, 641, 725, 730. dediticii 539 sg., 639 sg., 641 sg., 661, 662, 734. defensio, definitio 432, 504, 650. defensores 715. dekadavrcai 708. dekavprwtoi 598 sg., 625, 716, 718, 721, 725. delatores 56, 688. Delfo, 7, 270, 349, 394. Delminium (Dalmazia) 236, 366. Delo 3, 20, 23 sg., 26, 45, 75, 106, 234, 248, 270, 491. Delta 145, 438 sg., 540, 581, tav. LII. Demetra tavv. XIII, XIV, XVIII, XLVI. Demetrio tarsicarius 716; Poliorcete 5. dh`moi 400, 404. dhmosiwvnh~ 286. denarius 700, tav. LXXI. denaro, monetato 16 sg.; cambiatori, vd. cambiavalute; distribuzioni 32, 109, 457; prestiti 9, 19, 38, 42, 73, 124, 172, 268, 271 sg., 278, 312, 346, 495, 556, 621; scarsità 269, 634 sg., 680 sg., 785; vd. banche. Derbyshire tav. LIX. Dessippo 636, 678. Deultum (Tracia) 389. Deutsch Altenburg tav. LXXIV. Dexter, L. Terpilius 546. Dia (Bitinia) 388. Diadumeniano 642. Diana tav. LXVIII. Didimo, T. Ulpio 713. Didymus 729. diffusio vini tavv. XIV, XXXIII.
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843 Digione tav. XXIX. Diocleziano 384, 432, 479, 613, 663668, 676, 694, 697, 701, 715, 720, 722, 739, 750 sgg., 753 sg., 754, 758 sg., 762, 765, 767, tav. LXXIX. Diogene di Tiro 715. Diogeniano;~ Nikomedeuv~ 248. Diogneto, Claudio 654. diwgmi`tai 179, 707. dioiketes 3, 266, 718. Diokleia (Frigia) 404. Dion (Transgiord.) 126. Dionisio, Papirio 604. Dioniso 388, 402, 408, tavv. XLVIII, LI. Dionysias (Soada, Transgiord.) 432. Dionysodorus 448, 454. Dionysopolis (Mesia inf.) 75, 383. Dioscuri 248, tavv. XLVI, LI. diritto: commerciale 277; ellenistico 273 sg.; procedura de repetundis 63; marittimo rodio 4, 276 sg. disceptator agrorum 486. Disciplina (dea) 169. Discoduraterae (Tracia) 388, 651. disertori 492, 581, 607, 632 sg. Dium (Macedonia) 392. Dnieper, fiume 133, 216, 219, 383, 408, 549. Dniester, fiume 383. Dobreta (Romania) 380. Dobrugia 383, 386, 536. Doclea (Dalmazia) 202, 367 sg. Docleati 367. Dodecaschoinos (Egitto) 475 sg., 479, 704. dogane, vd. dazi. Dolichani (Macedonia) 393. Doliche (Siria) 422. Domicella 37. Domiziano 121, 128, 130, 141, 153, 157 sgg., 164-167, 171, 208, 213 sg., 220, 225, 231, 287, 304, 308, 311, 322, 451, 550, 556, 581, 604, 615. Domizio Enobarbo 27, 38. Domna, Giulia 610, 631, tav. LXXIII. Don, fiume 92, 413. donativa 552, 604, 609, 616, 623. Donar 673, 752. Dovrou kwvmh (Asia Min.) 402. Dorylaeum (Asia Min.) tav. XLVI. dwreaiv 438, 447, 545.
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Doryphorus, Tib. Claudius 448, 453, 455. Drava, fiume 236, 372. Drepanum 322. Drinus, fiume 367. dromedarii 282, 288, 292, 425. Druso 68, 447, 452. Dugga (Africa) tav. LXII. Dumnonii (Britannia) 352. Dunapentele 372. Dura (Europos) 128, 201, 226 sgg., 233, 274, 282 sgg., 349, 409, 425 sgg., 432, 655, 691, 698, 742, tavv. XIX, L. Durocortorum (Gallia) tav. XXIX. Durostorum (Mesia inf.) 383. Dusares tav. XLVIII. Dyrrachium 365, 391 sg. ebano 227, 474, 480. Ebrei 106, 161 sgg., 172, 270, 430, 541, 565. Eburacum (York) 189, 352, tav. XLI. Ebuso 329. economia: domestica 31 sg., 262, 542 sg., 766, 776, 780 sg.; individualistica 249; monetaria 535 sg.; naturale 645, 659, 729; decadenza 711 sgg., 504 sg. 513 sg., 573, 588, 597, 603 sg., 609. Ecrené (Bulgaria) 383. Edessa 282, 422, 426 sg., 623, 672, 712. edictum de pretiis 758. educazione 60, 153, 203, 208 sg., 280 sg., 435, 439. ∆Eeiqhnw`n Kaisarevwn, dh`mo~ 432. Eesti 219. Efeso 107, 165, 174, 186, 207 sg., 210, 213, 248, 253, 264 sg., 267, 270, 322, 399, 402, 531 sg., 708, tav. XLVI. Efesto tav. LI. ejgdocei`~ 437. Egeo, mare 9, 388. Egerdir, lago di (Asia Minore), 532. Egitto 3 sgg., 433-471, 715-730, tav. LVII; amministrazione, 443 sgg.; contadini 464 sg., 540, 610; esercito 118, 152 sg., 179, 438, 445, 581, 653, 656, 725; insurrezioni 163 sgg., 471, 541, 565, 605, 620, 638; struttura sociale
163 sgg., 210, 433, 439 sg., 539 sg., 639 sgg., 649, 661, 715, 724 sg.: città 64, 101, 183 sg., 202 sg., 568, 625, 628; mhtropovlei~ vd.; posizione degli indigeni 356, 434, 436 sg., 642; posizione dei Greci (Romani) 436, 585; proprietari fondiari 438, 447 sg., 458 sg., 538; vita economica 3 sgg., 146, 155, 268 sg., 275, 433, 437, 469, 532, 587 sg., 718: agricoltura 3, 155, 206, 209, 307, 463, 572; commercio 87, 126 sgg., 143, 206, 220, 223 sgg., 228 sgg., 247 sgg., 593; industria 88, 98, 101, 264 sgg.; miniere e cave 533 sgg.; spopolamento 583; grandi tenute 141 sgg., tavv. LI, LII, LIII; categorie di terreni: gh` basilikhv 445, 461, 463, 485, 571; g. ejwnhmevnh 454; g. ijdiotikhv 455 sg., 461 sg.; g. klhroucikhv 452, 455, 462; g. oujs iakhv 451, 456, 462 sg., 728 sg., 738; g. prosovdou 572; cevrso~ vd. Egiziani 6, 179, 268, 365, 436, 438 sgg., 462 sgg., 474, 541, 715. Eglecto, Aur., supplica di, 714. Egnatia, via 392. Eia (divinità) 363. eijkosavprwtoi 598 sg. eijmatiopw`lai 264. eijrhnavrcai 707 725 sg. eijsagwvgion 410. ejlaiw`nai 210. Elam 282. El Auia (Tunisia) tav. LX. El Auza (Africa) 256. Elba, fiume 69, 340. Elefantina (Egitto) 772. Elemiotae (Macedonia) 393. Eleusinii, misteri, tav. XLVI. Eleutheropolis (Palestina) 429. El Gem (Tunisia) tav. LXXVI. Eliano, Plauzio Silvano 708. Eliodoro 173, 606; Avito, 225. Eliogabalo 632, 636, 642 sg., 648, 657, 736, 752, tav. LXXIII. Elius, Cocceius 386. ellenismo: civiltà 6, 115 sg., 289; monarchie 1 sgg., 9 sgg.; fisco 5 sg., 71; sviluppo economico 22, 126 sgg.; assoggettamento a Roma 6 sgg.
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Indice dei nomi e delle materie ∆Eubrh`, oujs iva 454. ejmbolhv 725. Emerita 189, 327. Emesa (Siria) 282, 287, 422, 425 sg., 642, 670, 712, 743. emigranti 42, 43, 499. emigrazione 3, 21, 43, 125, 499, 508, 583, 615, 708; divieto 556, 559. Emiliano, M. Emilio 663, 671. Emmaus 428, 429. Emona 189, 198, 684, 687. ejmfuvteusi~ 417, 728, 738, 775. ejmpovria 250 sg., 388 651 sgg., tavv. LXV, LXVII; cf. fiere. Emporium (Spagna) 324, 327. Enchelei (Illiria) 363. Ennio tav. XXVIII. Ennion 267, 295. e[xarco~ tw`n Palmurenw`n 286. Eolie, isole 321. ejpibolhv 463, 717, 727 sg. Epicurei 55. Epidamno 364. Epidaurum 365. Epidii 141. ejpikthnivth~ 388. Epimache, Flavia 462. ejpimerismov~ 461, 463, 620, 621. Épinal tav. XXIX. ejpoivkia 434, 455, 456. Epiphania (oggi Hamath, Siria) 422. Eporedia 356. Equi 12. equites singulares 608, 614. Erasto, L. 248; Laelus, tav. XV. Ercolano 35, 74, 79, 189, tavv. XII, XX, XXI, LI. Ercole 54, 104, 105, 106, 606, 673, 691, 752, tavv. XVIII, XLVI, LI, LXXIX; vd. Hercules. Eretria 626. Ergamene, re etiopico, 474, 475, 476. ejrgastaiv 265, 534. ejrgasthvria 124, 418. ejrgasthriavrcai 268. ergastulum 83, 141, 142, tav. X. Eritreo, mare 128, 129, 473. Ermaisco 162. Ermenne (Nubia) 472. Ermo, fiume 404. Ermofilo 724.
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845 Ermupoli (Egitto) 202, 458, 646, 716, 717, 719, 726, 738. Erode il grande 428, 430, 454; Agrippa 430; Attico 212, 213, 214, 394, 458. Eros, L. Eumachius 37; E [ rw~ (Asia Min) 707. Eruli 673. Erzegovina 239, 299, 364, 365, 366, 367, 368, 371. Esculapio 265, tav. LI. esercito 29, 38, 183, 356, 580 sg.; ammutinamenti 116 sgg., 153 sg., 165, 604, 607, 615, 616, 691; esponente dell’antagonismo tra campagna e città 119 sg., 638 sg., 734 sgg., 738 sg., 746, 779; approvvigionamento 19, 88, 143, 206, 220, 231, 235, 247, 249, 307, 342, 355, 371, 375, 383, 384, 388, 396, 410, 538, 552, 553, 554 sg., 567, 588, 591 sgg., 620, 632, 637, 647, 659, 705, 720, 723, 757, 759, 767, tavv. XVII, XLV, LXIX, LXXIV (cf. annona, frumentarii, liturgie, trasporti); comandanti straordinari 31, 32; disciplina 56, 120, 151 sg., 153, 168, 178, 565, 579, 580, 588, 603, 615 sg., 642, 643, 644, 648, 670, 673, 692, 696, 705, 733; imbarbarimento 152, 178 sg., 329, 615, 616, 676, 696, 731, 732, 752, 754; trasformazione in esercito di contadini 607, 649 sgg., 656, 696, 735, 736, 746, 754; ordinamento di Augusto (vd.) 49 sgg.; funzione politica 30 sgg., 51, 52, 103, 116 sg., 151, 153, 168, 174, 183, 643, 644, 653, 670 sg., 676, 688 sg., 700, 730, 731, 733, 734; provincializzazione 120, 122, 152 sg., 177 sg., 617 sg., 696 sg., 731; eserciti provinciali 117, 179, 565, 604, 607, 609, 754; reclutamento 29, 49, 51, 52, 120, 122, 152 sg., 178 sg., 329, 350, 358, 366, 368, 387, 421, 425, 432, 445, 508 sg., 549, 551, 565, 567, 580, 604, 610, 615, 632, 632, 644, 650, 651, 653, 654, 655, 675, 677, 696, 704, 731, 732, 736, 746, 754, 767; riforme: di Mario 29; di Vespasiano 329; di Settimio Severo 359, 615, 616; di
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Gallieno e successori 696 sg.; di Filippo 688; di Diocleziano 753 sg.; di Costantino 754 sg.; posizione nell’impero 29, 50 sg., 115 sg., 183, 614 sgg., 643, 682, 688, 695, 731; spese per l’esercito 49 sgg., 51, 108, 552, 604, 614, 615, 632, 658, 682, 696, 700, 758 sg.; struttura sociale 27 sgg., 31, 52, 53, 67, 120, 147, 148, 152, 177 sg., 183, 615, 649 sgg., 676, 696, 746, 753, 767. Esiodo 297. Estiones (Norico) 357. étatisation vd. statizzazione. Etiopi 472, 476, 475. Etiopia 128, 472, 475, 479. Etruria 9, 10, 11, 21, 22, 26, 27, 28, 34, 35, 38, 83, 711, tav. VIII; agricoltura 583, tav. II; industria 95. Etruschi 11, 243, tav. II. Euander, f. di Ptolomaeus 448, 454. Eubea 394, 625. Eubiotus, M. Ulpius 395. Eudaemon, Val. 594. Euergete vd. Tolomeo. Eufrate, fiume 71, 127 sg., 231, 233, 247, 281, 282, 283, 414, 425, 426, 474, 655, 672, 691, 698. Euganei, 155. Eu[karpo~ 707. Euhemeria (Egitto) 458, 451; papiri di E., 448, 454. Eumachia 137. Eunapio 665. Eupatoria (Russia merid.) 410. Euporus, Fabius tav. XV. eujposiavrch~ 208. Euricle, M. Ulpio Apuleio 213, 567. Europa, 4, 97, 186, 204, 207, 209, 219, 260, 308, 315, 380, 529, 543, 544, 592, 672, 675, 777, 780 sg., tav. LI. Europos vd. Dura. Eurycles, C. Iulius 73, 75, 212, 214. Eurysaces, M. Vergilius 578, tav. IV. eujqhniva 143, 205 sg., vd. annona; ei[dh eujqhniakav 720. Eujtucianov~ 388. Eutychides, Claudius 458. Eutychus, Tib. Claudius 37. exegetes 728. ejxevtaxi~ 155.
Exoratus, C. Attius tav. LXXIV. extramurani 317. Ezana, re axumita 479. fabbriche 11, 21, 44, 45, 97, 142, 236, 239, 255, 260 sg. 267, 295, 363, 437, 583, 586, 767; in tenute private 261 sg., tav. XL; di Stato 767. faber aciarius 96; f. ferrarius 96, tavv. XI, XXXI, XXXII; f. navalis tav. XXXII. Fabianus, M. Antonius M. f. Fabia, 233. fabri 627; vd. associazioni. Fabricius, L. 495. Fajiûm 144, 145, 202, 223, 224, 438, 439, 458, 462, 620, 647, 653, 717, tavv. LIII, LIV, LV. Falcidio 448. Falerienses (Africa) 508. Falernus ager 73, 83; vino 33. familia 141, 148. Fannio, C. 158. Faraoni 435, 436, 474, tav. LIII. Faras (Nubia) 472, 473, 476. Faraxen, re mauro, 673, 676, 704. fari 253, tav. XXV, XXVII. Farnaces magister tav. XXVI. Fausta, Clodia tav. XLIII. Favillenianus, fundus 316. Favonius Prior 432. favoriti degi imperatori 73 sg., 141 sgg. 144, 146, 214, 448, 453, 457, 604. Felice, A. Vitellio 721. Fenici 15, 295, 318, 324, 327, 397, 426, 523. Fenicia 44, 102, 126, 127, 128, 254, 283, 414, 427, 428, 622; città 130, 189, 283, 427, 428, 622, 653; commercio 224, 226, 248, 290; industria 267, 294. fenicie, città in Africa, 67, 488 sgg.; in Sicilia 318; nella Spagna 324; navi tav. XLIX. ferro 223, 236, 479; fonditori tav. XXXII; miniere 95, 236, 327, 358, 366, 371, 472, 479, 534; strumenti 96, 236, 479, 532, tav. XI. Festus, C. Herennius M. r. Quir. 656. Fezzan 518, 523. fibule 219, 244, 255, 355. Fides (come dea) tav. LXXI.
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Indice dei nomi e delle materie fiere 381, 388, 389, 390, 404, 422, 507, 508, 715. Filadelfia (Asia Min.) 404, (Egitto) 4, 104, 145, 266 404, 456, 716, 720, 721, 727; (Stati Uniti) tav. LVII; (Transgiordania, Rabbath Amman) 126, 189, 226, 430, 583. Filagro, Q. Veranio 213. Filippi (Macedonia) 392 sg.; battaglia di, 33, 43. Filippi, imperatori 663. Filippo l’Arabo, M. Giulio 431, 654, 669, 670, 678 sg., 681, 682, 683, 687, 688, 706, 713, 714, 727, 728, 736, 737, 742, 743, tav. LXXV. Filippo di Gamala 429; F. figlio di Jakin 428. Filippo II di Macedonia 2, 129, 393. Filippopoli 431, 432, 670, 703. filosofi, espulsi 159 sg.; 164; loro giudizi sugli imperatori 165 sgg.; opposizione 165 sgg., 161, 165, 173, 605 sg.; cf. Cinici, Stoici. finanziaria, amministrazione 63, 71, 106, 109, 110, 124, 154, 271, 555, 566, 588 sg., 595, 596 sg., 600, 631, 634, 644, 645, 656, 681 sg., 757 sg. Firenze tavv. VI, XXXII. Firmo, Claudio, pref. d’Egitto 720; usurpat. dell’impero 675, 704. Firmus, M. Atius 386. fiscus 71 sg., 107, 231, 271, 272, 281, 566, 580, tav. LXX. fittuari 22, 27, 28, 38, 42, 43, 79, 84, 142, 143, 148, 177, 264, 312, 315 ss., 318, 346, 394, 398, 400, 403, 417, 421, 445, 455, 457, 461, 463, 507, 517, 538 sg., 556, 571 sg., 587, 597 sg., 653, 737, 760; indigeni 323, 346, 355, 357, 365, 367, 386, 485, 487, 491, 504, 507, 510, 538, 572, 573, 650; di imposte, vd.; di miniere 328, 371, 533 sgg., 574; di tenute imperiali 322, 328, 403, 517, 571 sg., 581, 584, 597 sg. 607 sg., 621, 626 sg., 649, 650, 562, 654, 713, 720, 727 sg.; di terre pubbliche 21, 318, 322, 323, 328, 445, 462 sg., 491 sg.; scioperi 608; trasformazione in proprietari 398, 571 sg., 645, 649; cf. conductores.
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847 Flacco, Verrio 254. flamines 618. Flaminia 209. Flaviano, C. Asinio Nicomaco 322. Flavi 106, 112, 115, 120, 121, 122, 123, 127, 130, 147, 151 sg., 181 sg., 297 sg., 397 sg., 456, 457, 497, 556, 568, 572, 605, 620, 626, 654, 767. Flaviobriga (oggi Castro Urdiales, Spagna) tav. XXXV. Flaviopolis 184. Fliessem (Germania) 345. Floriano, M. Annio 675. Floro, Celio 555; L. Herius 36, tav. X; Labaeonis f. 504; N. Popidio 36, 80. flotta 50, 59, 60, 201, 225, 234, 235, 349, 365, 372, 413, 453, 464, 593, 604, 605, 658, 672, 698, 723 tav. LXII; del M. Rosso 130, 223, 225, 226; cf. commercio. fluviale, polizia, 223, 647. Focesi 324. Foligno 97. fondazioni e donazioni 172, 211, 212, 213, 215, 272, 308, 330, 393, 394, 418, 517, 553, 580, 600, 646, 647, 681, 703; degli imperatori 552, 566; donativi agli imperatori 523, 622, 637; degli imperatori ai soldati 51, 108, 552, 604, 614, 631; donazioni di terre degli imperatori, vd. dwreaiv. foraggio 83. Forat 282. foreste 14, 16, 154, 255, 323, 355, 358, 365, 366, 372, 386, 393, 432, 509, 512, 517, 529, 531, 532, 706, tavv. XVII, XXV, XLIII, LVI, LXVIII, LXXIV, LXXX. formaggio 83, 366, tavv. X, XXIX, LIX. fornai, sciopero 267. Fortis 92, 256. Fortuna tavv. XVI, XLVI; F. redux 498. Fortunalis, pagus (Africa) 498. Forum Claudii Ceutronum 111. Forum Claudii Vallensium 111. Forum Pacis 151. Francesi 303, 582. Franchi 672. Francia 67, 141, 190, 260, 303, 324, 337 sgg., 532, 781, tavv. XI, XXXVI.
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Franeker (Olanda) 340. Fréjus 190, 532. Frigi 298, 400. Frigia 157, 163, 189, 201, 209, 213, 248, 250, 298, 399, 401, 404, 540, 599, tav. XLVI. Frisii 261, 340. Frondenberg 216. Frontone 167, 170; Lucrezio tavv. VIII, IX; M. Cornelio 209; M. Fulvio 367; P. Celidio 392, 393, 553. Q. Aurelio Pactumeio 511. frumentarii 567, 608, 614, 631, 632, 633, 707, 714, 755. frumentatio, tav. XXVII. frumentum mancipale 322. frutta 23, 488, 771, tav. XXXVII. frutteti, frutticoltura 23, 38, 79, 88, 311, 321, 455, 488, 523, 571, 573, 583, 584, 717, 729, 782 tavv. LI, LIII, LXXVIII. Fugger, casa 244. fundi 80, 300, 339. fullones 134, 137. fullonicae (gualchiere) 261, tavv. XV, XVI, XXXVIII, XLI. funzionari 3, 5, 59, 65, 110, 116, 143, 146, 157, 169, 171, 205, 212, 233, 277 sg., 280, 286, 297, 303, 350, 368, 403, 427, 428, 429, 434, 435, 437, 438, 443 sgg., 458, 462 sg., 510, 533, 534, 540, 555, 556, 571, 579, 586 sgg., 594, 597, 602, 604, 615, 621, 627, 631-636, 644, 647, 679, 689, 692, 694, 704 sg., 715, 717, 746, 749, 752, 755 sgg., 771, cf. amministrazione, aristocrazia, Egitto, liturgie. Furianum, pratum (Carnuntum) 379. Gabinio 45. Gad 496. Gadara 126. Gades 324, 327. Gaetulicum, bellum 523. Galati 52, 298. Galazia 52, 189, 201, 209, 298, 379, 385, 397, 398, 404, 554, 555; città 189. Galba 117, 118, 119, 121, 171.
Galerio 700, tav. LXXIX; arco di, 711. Gales (Africa procons.) 498. Galilea 428, 429. Galli 12, 16, 107, 117. Gallia, 11, 20, 22, 24, 26, 42, 43, 52, 53, 66, 67, 68, 71, 73, 84, 88, 92, 95, 117, 118, 120, 121, 122, 124, 125, 126, 129, 133, 142, 153, 156, 158, 170, 178, 179, 184, 186, 189, 190, 203, 212, 215, 216, 228, 229, 230, 231 sg., 233, 234, 235, 236, 239, 243 sg., 247, 249, 254, 255, 256, 259, 260, 261, 263, 273, 294, 295, 298, 303, 307, 308, 318, 324, 328, 330, 337-340, 341, 342, 345, 350, 351, 352, 355, 356, 360, 396, 446, 495, 530, 531, 532 sg., 536, 538, 541, 544, 551, 568, 581, 583, 604, 607, 610, 614, 616, 626, 631, 632, 671, 672, 673, 675, 694, 703, 704, 705, 706, 712, 735, 736, 771, 782, tavv. XXIX, XXXVI, XXXVII, XXXVIII, L, LXXV, XXXVIII; imperium Galliarum 672 sg. Gallicanus, vilicus 322. Gallieno, P. Licinio Egnazio 322, 671673, 676, 678, 689 sg., 691, 694, 696, 697, 701, 703, 705, 706, 717, 721, 735, 736, 749, tav. LXXVII. Gallii 448. Gallix, Stercoria 432. Gallo, C. Vibio Treboniano, imperatore 663, 670, 671; Cornelio 475; Elio 69, 126; Vedio 511. Gammai (Nubia) 472. Garamanti (Africa) 523, 529, 530. Gargilius, L. 376. garum 91, 97, 137. Gaza 126, 428. Gazr Mezuar 608 (iscriz.). Gebel Barcal (Nubia) 474, 480, tav. LVI. Gebel ed Druz (Siria) tav. XLVIII. Gebel Geili (Nubia) 476. Gellio, Aulo 254. Gemello, L. Belleno 458, 461. Gemila (Algeria) 197, 504. gemme 262. Geneatae (Macedonia) 393. Genii tavv. XVI, LVIII. Genio 106. Genetiva, colonia Iulia (Spagna) 330 (lex).
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Indice dei nomi e delle materie Georgia 407. gewrgoiv 38, 297, 318, 398, 438; Cirene 485; gewrgoi basilikoiv 155. Gerasa 127, 185, 189, 201, 226, 264, 425, 430, 583, 599, tav. XIX. Germani 51, 117, 133, 178, 219, 298, 338, 346, 349, 549, 550, 579 sg., 644, 656, 672, 679, 696, 703, 754, 776, 783, tav. XVII. Germania 69, 84, 88, 92, 117, 126, 129, 130, 133, 155, 165, 177, 189, 219, 239, 244, 260 sg., 340 sgg., 351 sg., 355 sg., 358, 360, 375, 581, 583, 604, 607, 631, 633 sg., 674, 706, 781, tav. XLII; agricoltura 345, 350 sg., 360, 536, 652, tav. XXV; amministrazione 341 sg., 350; città 203, 244, 341 sg., 350, 352, 356, 358, 583, 650, 652 (castella); commercio 24, 84, 88, 92 126, 130, 133, 216, 219, 236, 244, 248, 254 sg., 307, 327, 342, 345, 350, 634; tavv. XXV, XXXIX; guerre 69, 549, 579, 580, 610, 631, 633, 641, 669, 679, 674, 679; industria 255, 259 sg., 267, 346, 350; pastorizia 350, tav. XXV; struttura sociale 177, 244, 346 sgg., 358, 433, 610, 650 sgg., tavv. XXV, LXXVIII; urbanizzazione 156, 203, 342, 350. Germanico 103, 209, 288, 291, 294, 447, 451, 452, 588. Gerone II 10, 15, 16, 318. Gerusalemme 189, 270, 428, tav. XIX. Gesire (Nubia) 476. Gessi Ampudi villa (Dacia) 386. Gesù Cristo 429, 582, 590. Geta 610, 635, 636, 637, 656. Geti 382. geu'coi 729, 738. ghiottonerie 91. Gharigé-Sciubeih (Siria) tav. XLVIII. Ghirza (Tripolitania) 649. Giano 152. Giappone 721. giardini, vd. frutteti. Giasone 267. Gigartheni (Siria) 422. Gigthis (Africa) 197, 201, 503, 511, 517. Ginevra, lago di 254. ginnasi 203, 209 sgg., 280, 539, 464, 539; ginnasiarchi 172, 173, 211, 393, 453,
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849 462, 738; ginnasiarchia come liturgia 601, 719. gioiellieri, gioielleria vd. oreficeria. Giordano, fiume 126, 227, 283. Giotapiano vd. Iotapiano. Giovanni di Antiochia 771; di Giscala 428 sg., 578. Giove 167, 524, 619, tavv. XVIII, LXXIII, LXXIX; G. Dolicheno 422, tav. LXIV; vd. Iupiter e Zeus. Giovenale, Q. Vetidio 512, 537. Girindi (Asia Min.) 403. Giudea 293, 428, 429, 720, 734. Giudei 106, 161, 172, 270, 298, 430, 485, 486, 565, 568; aristocrazia 429; guerra giudaica 549, 571; insurrezioni 161-163, 486 sg., 541, 565; persecuzioni. Giugurta 30. Giulia 37, 451 sg. Giuliano; Claudio 593, 653 sg.; Didio 609; prefetto al pretorio 604; imperatore 417, 657, 666, 668, 671. Giulio-Claudii 103 sgg., 155, 156, 158, 214, 448, 767, tav. XIII. Giunone 106, 524, 619, tav. XXVII; vd. Iuno. giuochi 21, 109, 210 sg., 552, 559, 680. giuramento (come patto di lavoro) 268. Giustiniano 273. Giustino, imperatore 421. Glevum (Britannia) 352. Glamocˇ (Bosnia-Erzegovina) 364. gnwsthvr 564. Gordiani 663, 664 sg., 668, 698, 726. Gordiano, M. Antonio (I) 669, 683, 684, 737. Gordiano II, 669. Gordiano III, 668 sg., 678, 683, 688, 698, 704, 715, 736, tav. LXXV. Gortina 484. Göteborg 646. Goti 219, 699, 670, 671-675, 698, 703, 712, 736. Gotland 219. graccana, rivoluzione 27 sgg. Gracchi 28, 29, 30, 495. Gracco, Caio 27, 42, 44, 492; Tiberio 27, 34. Gragnano tavv. X, XII. Graziano, imperatore 484.
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greca, civiltà dell’ellenismo, sua essenza 5 sg.; sua rinascita 164, 777; in Oriente 397. greca, lingua, adoperata ufficialmente in Oriente 280, 436, 445; sua diffusione nella campagna 539. Grecia 1 sgg., 7-10, 16, 22, 23, 26, 27, 87, 88, 102, 112, 124, 178, 183, 184, 185, 189, 198, 203, 207, 212, 220, 228, 231, 240, 253, 255, 264, 269, 307, 318, 330, 381, 393-396, 410, 413, 463, 530, 536, 537, 543, 544, 555, 559, 573, 582, 583, 584, 585, 589, 591, 592, 673, 694, 705, 708, 778, tav. LXXII; Magna G. 10, 15. greco-romana, civiltà: diffusione 583, caduta 312 sgg., 700. Grosfo, Pompeo 83. Gryphianus, Iucundus 448, 453. Grypus, L. Plotius 453. Guelma (Africa) 510. Gurulis Nova (Sardegna) 323. Gurzensis, pagus (Africa) 492. Gususi (Africa) 492. Gythion (Laconia), iscriz. 20, 73, 74, 104, 105, tav. XIII. Hadaran (divinità) 422. Hades 594. Hadriana, lex 311, 608, 620. Hadrianopolis, vd. Adrianopoli. Hadrianuthera (Asia Min.) 568. Hadrumetum 189, 488, 492, 497, 512, tavv. LVIII, LXII, LXXVI. Haemus, mons 386. Hairan 286. Hambleden Valley (Inghilt.) 261. Han, dinastia cinese 129. Hasta (Spagna) 328. Haterianus, vicus (Africa) 507, 568. Haterius, prefetto d’Egitto 572. Hatra 281, 282, 290, 615, 616. Hauran (Siria) 414, 429 sg., 669, vd. Transgiordania. Hecate 402, tav. XLVI. Hedulus, P. Perelius, tav. VI. Heidelsburg (Palatinato) 532. Heliopolis (Baalbek, Siria) 189, 201, 422. Helios tav. LI. Heloti vd. Iloti.
Helvetii 338. Henchir Mettich (Africa) 500. Heptakomia (Egitto) 458, 462. Hera tav. LI. Heraclea 110; Lyncestis (Macedonia) 392 sg. 552; penisola di H. (Russia merid.) 408. Heracleius, Aur. 724. Herais vd. Termutharion. Heras 160. Hercules tavv. XLII, XLVIII, LXIX; vd. Ercole. Herennius, L. 96. Hermias, Aur. 646, 724, 726. Hermupolis v. Ermupoli. Heroninus 721, 725, 728. Herpus, M. 432. Hiera 594. Hiera Nesos (Egitto) 451, 461. Hierapolis (Frigia) 248, 264, 399, 402, 600, 634. Hiera Sycaminos (oggi Maharraga, Nubia) 225, 475, 483. Hierocaesarea (Lidia) 402. Himiariti 130. Hippocrates, vilicus 316. Hippo Diarrhytus 497, 510. Hippo Regius 189, 491. Hispalis 189. Hispani 551, 558. Hispellum (Umbria) 75. Histria (Mesia inf.) 201, 232, 383, 385, 386. Hittiti 273, 400. Hludana (dea) 531. Honan (Cina) 129. honestiores 574, 590, 639, 645, 724, 734. Honos (come divinità) tav. XIII. Horion, Aur. 647. horrea (magazzini)79, 98, 209, 229, 230, 231, 234, 417, 458, 578, 637, 721; proprietari di, 229, 437. Horus tav. XVIII. Hoste (Belgio) 261. Huelva 324. humiliores 574, 590, 619, 621, 633, 639, 645, 724, 734, 759. Hurta 260. Hymenaeus, Epidius tav. VII.
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Indice dei nomi e delle materie ∆Iacfirhnoiv (Transgiord.) 431. Iader (Illiria) 367. Ialysus, M. Tigellius M. f. 448, 454. Iapudia (Dalmazia) 368. Iapudii 363, 368. Iarhai 284, 293; M. Ulpius 285, 293 sg. Iarhiboles 285, 293 sg. Iaso, colonus 316. Iavan 224. Iazigi 391, 550, 565. Iberi (Europa) 6, 298, 327, 363; (Caucaso) 407. Iberia (Caucaso) 407. Iccio (amico di Orazio) 83. Ida, monte 88. Idebessus (Licia) 599. Idumei 430. Igel (colonna di) 215, 239 sg., tavv. XXV, XXXIX, LXXVIII. Igilgili (Africa) 503. Il-Anderin (Siria) 422. Ilion 402. Illiria 273, 364, 365, 382, 610, tav. LXXV. Illirici 8, 298, 358, 363, 364, 365, 367, 381, 409, 696, 759. Illirico 53, 156, 232, 233, 675. Iloti 364, 382. immunitas 62, 65, 422, 772. impensae 72. imperium Galliaram vd. Gallia. impero, concetto di esso 182 sg.; nel sec. IV, 751; unione con la Chiesa 752 sg. imposte e tasse 62, 70 sgg., 346, 410, 421, 540, 552, 580, 591, 598, 734, 749, 757; appalto 19, 595 sg.; appaltatori (publicani) 5, 38, 42, 458, 531, 532, 589, 595, 596, 602, 626, 760, vd. ajrcw'nai associazioni, telw'nai; esenzione 318, 399, 417, 422, 452 sg., 757, vd. immunitas; fissazione 106, 385, 595, 726 sg., 755, 757, 759 sg., 768, 775; pagamento in natura (anabolicum) 143, 249, 634, 637, 658 sg., 720 sg., 758; pressione 5 sg., 70, 145 sg., 457, 540, 566, 571, 580, 582, 598, 604, 677, 681 sg., 765; responsabilità per le i., 145, 457, 560, 589, 595 sgg., 719, 753, 757, 760 sg.; riduzione 452 sg., 566, 572, 580, 600, 657; riforma di Diocleziano 757
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851 sgg., 767; riscossione 5, 62, 71, 106, 110, 124, 146 sg., 185, 234, 437, 540, 553, 566, 589, 595 sgg., 626, 677, 737, 739, 760 sg., 768 (vd. pra'xi" ejk tw'n swmavtwn). imposte, varie specie: dirette 62, 106, 109, 595 sgg., 757; fondiaria 72, 205, 318, 321, 453, 492, 595, 597, 637, 720, 716, 757; testatico 145, 321, 553, 595, 637, 757; indirette 106, 110, 595 sg., 598, 757; sugli affari commerciali 205, 761; sugli artigiani 658, 760; sulle eredità 70, 638, 761; sulle manomissioni 70, 265, 638, 761; municipali 62, 65, 70, 72, 205, 652; speciali 531 sg., 580, 596, 597, 599; quadragesima Galliarum, vd.; vectigal ferrariorum 445: vectigal lenocinii 194; vd. anabolicum, aurum. Ince-Blundell Hall (Inghilt.) 138, tavv. XIV, XXXIII, LIX. incolae 111, 115, 204, 208, 330, 337, 367, 384, 388, 464, 507 sgg., 517, 601. In-Daghinda Qogia-in (Asia Min.) 707. India 6, 69, 87, 101, 126, 128, 129 sg., 220, 223 sg. 225, 247, 282 sg., 285, 291, 294, 592, 634, 703, 777, 781, tavv. XVIII, XXIV. Indo, fiume 220, 285. Indocina 220. Indoeuropei 177. Indosciti 285. indulgentia, tav. LXXI. industrializzazione 97 sg., 134, 137, 149, 542 sgg. infectores 101. Ingauni 713. Ingenuo 672. Inghilterra 202, 236, 781. Inihimeus, re bosforano 409. inquilini 204. institores 280. instrumentum domesticum 236. insurrezioni 5, 8, 51, 117, 143, 153, 162 sg., 174, 267 sg., 322, 357, 436, 439, 471, 530, 579, 580, 602, 609, 615, 616, 638, 672, 674, 679, 684, 712., vd. Giudei, sociali rivoluzioni. Interamna 671.
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Intercisa (Dunapentele) 372, tav. LXXIV. intramurani 315, 317, 330, 517. intraprenditori 42 sgg., 212, 413, 452, 533, 535, 574, 608; vd. conductores, redemptores. Iol (Caesarea, Numidia) 491. Ionia 183. Ioppe (Palestina) 428. Iotape 204. Iotapiano 670, 742 sg. Ipparco di Alessandria 129; di Atene 213, 214. Iranici 288, 294, 407, 408, 413, 426, 427, 550, 644, 669, 783, tav. L. Irenaeus, Ti. Claudius 462. Irlanda 125, 236. irrigazione 144, 146, 426, 437, 440, 455, 471, 536, 584, 654, 708, 716 sgg. Isauria 403, 404, 703, 712. Isaurici 703, 706, 712. Iside 225, tavv. XVIII, XXVI, LI; I. Taposiris 455. Isidora, Claudia 458, 462, alias Apia 729. Ispani 329, 358. Israele 428. Istria 239, 307, 359 sgg.. Istros (città sul M. Nero) 189, 201, 220, 531 sg.. Italia 1 sgg., 6, 8, 9 sgg., 15, 19 sgg., 35, 50, 51, 52, 53, 59, 60 68, 72, 75 sgg., 87, 106, 108, 111, 112, 115, 116, 117, 119, 120, 122 sgg., 124, 143, 146, 146, 147, 148 sg., 152, 156, 158, 178, 183, 189, 203, 205, 207, 209, 212, 213, 214, 235, 236, 243, 253, 254, 259, 262, 267, 269, 271, 276, 277, 297, 299 sgg., 318, 324, 327, 329, 337, 342, 357, 358, 360, 365, 366, 385, 388, 392, 395, 396, 398, 401, 417, 421, 492, 499, 508, 532, 537, 545, 552, 553, 559, 560, 577, 579, 582, 585, 586, 591, 594, 597, 600, 614, 631, 652, 669, 671, 672, 673, 674, 675, 684, 692, 708, 755, 757, 778, 782, 785; tavv. VIII, XXVI, XXXIII, XXXIX, XLV, XLVI, LXVIII, LXIX, LXX, LXXII; città 20, 25, 38, 61, 75, 91, 97 sgg., 124, 183, 184, 189, 299, 304, 316, 356, 686 sg.; esclusione del proletariato dall’esercito 120, 121 sg., 153,
177; struttura sociale 22, 25, 27, 38, 41, 43, 59, 72 sg., 76, 80, 83 sg., 147, 303 sg., 311 sg., 315 sgg.; vita economica 10 sgg., 20 sg., 33 sgg., 44: agricoltura 25, 33, 35, 76, 88, 91, 133, 148, 206, 228, 236, 300, 307 sgg., 308, 311 sgg., 316, 538, 556, 583 sg., 711, tav. X; commercio 22 sgg., 35, 72 sg., 79, 87, 88, 91 sgg., 102, 126, 133, 141, 228, 234 sg., 239, 248, 255, 312, 544; concentrazione della proprietà agraria 27, 76, 141 sg., 299 sg., 303, 308, 311, 538; decadenza 133 sgg., 148, 156, 234 sgg., 244, 247, 248, 254, 256, 300, 304, 307, 308, 311, 559, 566, 583, 616 sg., 686 sg., 711; industria 44, 45, 88, 91, 92, 95 sgg., 101 sg., 133, 137, 239, 254, 312; miniere e cave 530; pastorizia 25, 33; spopolamento 556, 582, 583 sg.,645, 708; sviluppo 22 sg., 25 sgg., 33 sgg., 76, 95, 102, 395; tenute imperiali e private 154, 300; vie 75; ville 79. Italica (Spagna)189, 327. Italici 6, 29, 42, 52, 120, 121, 124, 153, 164, 177, 179, 235, 278, 349, 359, 363, 495, 508, 617; in Occidente 42 sg., 52, 125, 248, 278, 324, 359, 495, 499, 508, 616; in Oriente 20, 42, 52, 62, 248, vd. emigrazione. Italo, P. Cornelio Felice 209. Itanos (Creta) 2. Item, villa (Pompei) 34, 36, 80. Iturei (Siria) 315, 322, 388. Iucundus, pecuarius tav. XXV. Iuenna (Norico) 358. iugatio 759. iuger 12, 33, 42, 73, 79, 83, 485, 492. ∆Ioulianov", Mavrko" Stavtio" 594. Iulianus, Iulius 605; L. Iulius (qui et Rundacio) 386; L. Vehilius Gratus, 427. Iuliae, coloniae (Africa) 496. Iuliobona (Gallia) tav. XXIX. Iuliopolis 183, 554. Iulius, dominus 512, 537, 771, tav. LXXVIII. Iuncino, Bebio 646. Iuno tav. LXXIII; I. Saponaria, tav. XXIX. Iupiter 752; I. conservator tav. LXXIX.
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Indice dei nomi e delle materie ius civile 276; colendi 572; gentium 276; honorum 107; italicum 61; legatorum capiendorum 507. Iustitia tavv. LXVIII, LXXI. Iutungi 674. Iuvavum (Norico) 358. iuvenes vd. associazioni. Jaszalsószentgyörgy (Ungheria) 391. Kamilianhv ou\s iva 454. Kastovlou pedivon 403. katapompoiv vd. prosecutores. kaqolikov~ (Egitto) 653, 654, 727. kavtocoi 422. katoikivai 403. kavtoikoi 204, 388, 399 sgg., 443, 445, 464, 485; cf. pavroikoi, attributi (populi). Kercˇ (Russia merid.) 409, 413, tav. XLVII. Kerma (Nubia) 472, 476, tav. LIV. Khamissa (Africa) 197, 299, 503, 511. Killuvrioi 38. Klagenfurth 61, 202, 358. klh`roi 399, 408, 417, 452, 454 sg. klhrou`coi 205, 443, 445, 454, 462 sg. koinav 212, 392, 393, 403, 431 sg., 464, 553, 657. Kollhausen (Lorena) 351. kolwnivai 653 sg. kwmarciva 387. Kraft (Germania) 346. Kthsavmeno~ tav. XLVII. Kula (Asia Min.) 404. Kytaia (Bosforo) 409. Labeo, L. Vaccius L. f. Aem., 401. Laberii tav. LXIII. Laconia 20, 73, 395. Laecanii 360. Laeeivnou kai; ÔHra`to~ oujs iva 454. Laelianus, vd. Leliano. Laevianus 600. Lagidi vd.Tolomei. La Graufesenque (Francia) 126, 260, 298. Lai (Mesia inf.) 385. Lambaesis (Africa) 197, 201, 504, 507 sgg.
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853 Lambiridi (Africa) 507, 508. Lampo 163. Lampsaco tav. XVIII. lana 10, 44, 95, 261, 265, 318, 345, 363, tav. XVI; indumenti 95, 97, 254, 255, 265, 363; industria 101, 261.; stoffe 4045, 97, 101, 227, 247, 430, tav. LV. lanavrioi 265, tav. XVI. Langres tav. XXIX. Laodicea 414; L. ad Lycum (Frigia) 264, 388; L. Combusta (Asia Min.) 404. Lari 106, 316. latifondi vd. tenute. latina, lingua; propagazione 41, 112, 154, 157, 248, 279 sg., 299, 349, 356, 375, 517, 539, 616, 642; nell’esercito 119, 177, 179, 356, 445. Latini 11, tav. II. Latium maius 601. Latobici (Pannonia) 376. Latro, M. Vettius 504. Lauriacum (Norico) 371, 375. Lavinium 559. lavoratori 41, 43, 44, 59, 263, 264, 266, 315, 328, 339, 365, 381, 387, 408, 418, 421, 439, 457, 491, 504, 517, 530, 538, 541, 543, 581, 586, 607, 624, 637, 652, 677, 701, 740, 746, 757, 760, 765; cf. associazioni, origo, schiavi. lavori per l’esercito 371 (vd. liturgie). lavoro, concezione del, 239 sg., 584 divisione 544. Lazio 11, 12, 28, 35, 35, 77, 583, 711, tavv. II, VII, XLIII. leges sumptuariae 84, 102; lex coloniae Genetivae Iuliae 330; lex Iulia municipalis 110, lex Malacitana 330; lex Mamilia Roscia Peducaea Aliena Fabia 28; cf. Adriano. Legiah (Siria) 414. legioni 50, 51, 52, 53, 59 sg., 68,115, 117, 118, 120 sg., 122, 152, 156, 177, 179, 293, 329, 337, 358, 366 sg., 372, 375, 376, 379, 421, 445, 464, 508, 614, 754 cf. esercito. legname 44, 88, 95, 228, 231, 232, 235, 236, 342, 366, 375, 393, 532, tav. XLV; mercanti di, 228. legni preziosi 523.
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STORIA ECONOMICA E SOCIALE DELL’IMPERO ROMANO
Leliano, Ulpio Cornelio 674. Lemanus, lacus 254. Lentulo, Q. Vibio 213. Leptiminensis, regio (Africa) 510. Leptis Magna 201, 518, 523, 524, 529, 610, 619, 623, tavv. LXIV, LXV, LXVI, LXVII. Leptis Minor 492. Leros 75. lh/stopiastaiv 725. Letnica (Illiria) 597. Leto, pref. al pretorio 604. Lhtovdwro" 410. Leuke Kome 126, 130. Leuvkoullo" {Hduo" 594. Levenna, val 358. Lezoux 126, 260, 294. Libano, m. 422. Liberale, M. Sempronio 471. Liberalitas tav. XXVII. Liber coloniarum tav. LXVIII, 559. Libero tavv. XXVI, LXVII; Liber pater 529, tav. LXVI. Libertas 118, tav. LXXI. liberti 36, 50, 59, 60, 70, 71, 73, 74, 83, 137, 138, 141, 142, 147, 148, 149, 214, 268, 278, 279, 280, 300, 315, 322, 360, 365, 400, 559, 574, 581, 586, 619, 767. liberti imperiali 37, 60, 107, 110, 147, 303, 360, 448, 453, 457, 510. Libia 568. Libii 474, 485. Liburni 363. Liburnia 368, 401. Licaonia 619. Licia 161, 198, 212, 214, 215, 330, 401, 578, 599, 712, 713. Licii 298. Licinie, leggi 12. Licinio tav. LXXIX. Lidia 198, 264, 397, 398, 399, 402, 600, 621, 627, 632, 633. Lidii, 298, 400. lignarii 375. Liguria 115. Lillebonne tav. XXIX. limes, 220, 565, 652; Africa 518, 651; Britannia 351; Dacia 380; Danubio 267357, 359, 371, 375, 549 sg., 551, tav. XLV; orientale 287, 290,
292, 418, 425, 427, 672; Reno 239, 350, 356, 357, 672. Linares (Spagna) tav. XXXV. Lincesti (Macedonia) 393. Lincoln 236. Lindum (Britannia) 352. Lingones (Gallia) tav. XXIX. lingue, indigene 279, 280, 288, 291, 294, 298, 299. Linz 96. Lione 186, 189, 228, 235, 236, 239, 244, 247, 259, 342, 352, 622, 659, 693, 736. Lipara 322. Lirensis, portus 233, 234. Liris, fiume 74. Lisimaco 129. Lissa 311. Litarba (Siria) 422. liturgie 61, 62, 65, 145, 211, 266, 435, 443, 445, 547, 462 sg., 471, 587 sgg., 593, 595 sg., 598, 599, 601, 605, 615, 624 sgg., 638, 639, 646, 647, 658, 661, 681, 694 sg., 708, 717, 718, 719, 721, 722, 725, 726, 728, 758. Liverpool 472. Livia, imperatrice 447, 451, 452, 456, tav. XIII; nuora di Tiberio e moglie di Druso 447, 452. Livii 365. locatio perpetua 728. logistaiv vd. curatores. Londinium 189, 190, 352. Londra 303. Longidiena tav. XXXII. Longidienus, P., faber navalis tav. XXXII. Longino, Flavio 248; M. Ulpio 386. Lowbury Hill (Inghilt.) 355. Lucania 83, 721. Lucano 123. lucerne fittili 88, 92, 95, 126, 255, 256 sg., 261, 543, tavv. XVIII, LV, LVIII. Lucifer, aquatarius tav. XXXI. Lucilio tav. XXVIII. Lucio (personaggio delle Metamorfosi) 207; (Cesare) 656. Lucullo, L. Licinio 484; Lurio 607. Lucretius, vicus (Gallia) 338. Lübsow (Germania) 133. Lugdunensis, Gallia 337.
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Indice dei nomi e delle materie Lugdunum Convenarum 190. Luna 530. Lurii 448, 453. Lusitania 26, 153, 324, 327, 328. Lussemburgo 215, 240. lusso, articoli di, 44, 87, 88, 91, 126, 129, 223, 228, 247, 766; leggi contro il l., 84, 102, vd. leges. Lutetia 339. Lybianus, Flavius 578. Lycarion 448, 454. Lycosura (Arcadia) 107, 394. Lydae 401. Lydius, Palfurius? 712. Lyrboton come (Asia Min.) 403. Lusavnio~, A. Novuio~ 625 Lyssus (Macedonia) 391. Macedo, T. Ael. Geminius 393. Macedoni, 364, 381, 462, 616. Macedonia 7, 8, 23, 43, 53, 153, 177, 189, 198, 203, 209, 243, 330, 381, 391, 392-394, 530, 533, 552, 554, 573, 754; città 189, 203, 391 sg., 553. Macer, T. Flavius T. f. Quir. 510. Macriano 225, 672, 702; iunior, 672. Macrino, M. Opellio 608, 636, 642, 644, 678; Nonio 208. Mactar (Africa) 512. Mactaris (Africa) 496. Madaurus (Africa) 201, 215, 500, 503, 512. Madison (Stati Uniti) 97. Madre, Gran 690. Maesa, Giulia 486, tav. LXXIII. maestri 160, 173, 210, 279, 648, 649. Maezaei (Illiria) 363, 368. mavgdwla 647. magistri 147, 148, 385, 507 sg. magistratus 385, 498; cf. amministrazione,funzionari. magnati 71, 72, 75, 125, 141, 144, 147, 155, 240, 312, 318, 456, 524, 538, 587, 725, 730. Magone 10, 488. Magonza tavv. XXV, XXXIX. maiali 11, 79, tav. III. Maikhnetianhv, oujs iva 454, 463. Malaca 184, 327.
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855 Malacitana, lex 327, 329. Malakastra (Albania) 391. malaria 583, 708. Mamaea, Giulia 642, 643, tav. LXXIII. Malko-Trnovo (Bulgaria) 534. Mamertino, M. Petronio 588. manceps 290. Mancia 574. Manciana, lex 311, 500, 510, 572, 573, 620, manifatture 24, 44, 87, 88, 91, 235, 266, 445, 544, 583, 677,758, 759; tav. XXIII. Manlienses 61. Mansueto, Giulio 119. Mantinea 208. manumissio 556, tav. XI; vd. imposte. mapalia 508, 511, tavv. XXXIV, LXVIII. Marabbaa (Nubia) 476. Marcelli, Aelii 380. Marcello, di Side 213; vescovo di Apamea 421; Claudio 727;Cornelio 118; Elio 380, 386; M. Livio 37; Vario 637. Marciano, Elio 632. Marcianopoli (Mesia inf.) 184, 384. Marcianus, M. Aemilius 294. Marco Aurelio 73, 121, 122, 170, 172174, 178, 179, 209, 214, 220, 227, 240, 265, 304, 349, 380, 384, 385, 388, 471, 518, 541, 551, 553, 567, 577, 579-582, 585, 593, 597, 599603, 606, 607, 613, 618, 623-627, 634, 636, 641, 645, 649, 651, 652, 657, 660, 673, 674, 711, 734, 753, 779, 785 ; esercito 169, 174-176, 579 sg.; guerre, 579 sg., tav. XVII; politica econom. e sociale 579 sgg., 581 sg.,; torbidi 601, 626; colonna, tavv. XVII, LXIX. Marcomanni 371, 580, 672, 674. Margus (Mesia sup.) 376. Mariamne, asmonea 474. Mariana, colonia (Corsica) 324. Marianus,fundus 316. Mariccus 541, 542. Mariemont (Belgio) tav. XII. marinai 59, 60, 67, 121, 129, 160, 223, 248, 304, 365, 434, 641, 720. Marino di Tiro 483. Mario, C. 29, 31, 42, 49, 323, 324, 495, 498, 653, 746, 749.
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Marissa (Palestina) 254, 426. Marmara, mare di 189. Marmaricum, bellum 484, 487. Marmarides (Tripolit.) 523, 529. marmo 530, 536. Maroboduo 133. Maroneia (Tracia) 388. Marsiglia (Massilia) 25, 26, 189, 190. Marsyas, tav. LXX. Marte tavv. XIII, XXVI, LXVIII, LXXIII, LXXVII. Marus, fiume (Morava) 594. Masculula (Mauretania Caes.) 498, 503. Massalioti 324. Massilia, vd. Marsiglia. Massimiano, imperatore, tav. LXXIX. Massimino, C. Giulio Vero, imperatore, 664, 668, 669, 674, 678 sgg., 687, 689, 693 sgg., 704, 735. Mastarense, castellum (Africa) 508. materie prime 88 sg., 95, 102, 217, 223, 227, 247, 261, 437, 659, 677, 757, 759, 760. Materno 631. Matidiano, M. Aurelio Miudio 597 sg. Matres Aufaniae 233, 349, 531. Matrina, Titia 386. Matronae 351. mattoni 192 sg., 363, 409, 414. Mauretania 107, 111, 115, 124, 125, 189, 202, 220, 488, 491, 495 sgg., 503, 509, 517, 541, 550, 565, 656, 671; Caesariensis 503; città 189, 198, 201 sgg., 491, 504. Mauri 609, 696. Maurizio 683. Mayen (Germania) 345. Mdaurusc (Algeria) 197, 503, 504. Mecca 224, 253. Mecenate 54, 72, 76, 84, 142, 214, 272, 448, 452, 645, 658, 660, 735, . Medamut (Egitto) 223, 225. Medeli (Africa) 498. Mediolanum Santonum (Saintes) 339. Mediomatrices (Gallia) 339. Mediterraneo 7, 182, 253, 263, 324, 394, 523, 532, 544, 582, 700. Medusa tav. LXXIV. Mela, Pomponio 75. Melania, S. 649, 775. Melagro, casa di (Pompei) tav. XIV.
medici 210, 279, 601, tav. XXX. Memmius, L. f. Quir. Pacatus 511. Men Tiamu 402, tav. XLVI. Menandro 182; Arrio 632. Mendechora (Asia Min.) 622. Mendes (Egitto) 461. Menelao, Giulio 648. Menfi, decreto di, 440. Meno, fiume 340 sg., tav. XXV. Menodora figlia di Megacle 400. Menofilo, Tullio 669. mensae fiscales 272. mensores frumentarii tavv. XXVI, XXVII. Meonia, 402. mercanti 3, 11 sg., 19, 23, 74 sgg., 125, 129 sg., 202, 206, 212, 219, 226, 228 sgg., 239, 248 sgg., 263, 278, 338, 342, 355, 379, 388, 413, 446, 495, 507, 523, 593, 625 sgg., 658, 692, 723, 766; in Africa 507; nel Bosforo 220 sg., 409 sgg.; in Britannia 355; in Egitto 130, 220, 248 sgg.; etruschi 11; gallici 235 sgg., 243 sgg., 339; greci 394 sgg.; italici 311 sgg.; orientali 224 sgg.; palmireni 225 sg., 228, 250 sg.; a Roma tav. LXVIII; in Tripolitania 523 sg.; m. di fiori 111, tav. XIV; m. di grano 143, 227, tavv. III, XXV, XXVII; m. di vino tav. XIV; mercanti all’ingrosso 62, 250, 253, 249, 255, 234, 304, 692; m. al minuto 38, 97, 232, 248 sgg, 280, 303, 574, tavv. XXII, XXXI; negotiatores 20, 71, 228, 294, 495, 510, 601, 625. mercati 22, 74, 165, 322, 402, 408 (Roma), 496, 557, tav. LXV. merciai ambulanti tav. XXIV. Mercurialis, pagus (Africa) 498. Mercurio 54, 106, 134, 243, 498; tavv. XVI, XVIII, XLI, XVI; M. Gehrinius 261. Merida 328. Meroe, regno di, 128, 220, 471 sgg., 704, tav. LVI. Mesauvarat (Nubia) 476. Mescenii 365. Mesembria (Tracia) 388. Mesia 153, 179, 184, 201, 225, 358, 376, 379, 382, 389, 550, 671; inferiore 363 sgg., 383 sg.; superiore 371 sgg.; urbanizzazione 154.
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Indice dei nomi e delle materie Mesii 372. Mesopotamia 189, 201, 225, 253, 275, 281 sg., 426, 550, 559, 565, 615, 623, 655, 669 sgg., 742, 744; città 208 sgg.; commercio 253. Messalina 447, 452. Messana 88, 321. Messene 7, 16. Metalla (Sardegna) . metalli 14, 40, 75, 79, 184, 188, 191, 204, 244, 258, 359; manufatti metallici 11, 20 sg., 40, 75, 77 sg., 82, 105, 109, 204, 208, 209, tav. XXXVIII. mhtropovlei~ 202, 271, 434, 458, 463 sg., 628. miele 87. Milano 396, 443, 669, 674. Mileto189, 198, 268; iscriz. 158. Mileu (Africa) 501. militari, stanziamenti , 66, 328, 349, 652, 655, 753 sgg. minatori 59, 479, 535. Minerva, 106, 134, 619, tav. II. miniere, 15, 19, 88, 95 sg., 154, 236, 261, 268, 324, 327 sgg., 358, 371, 379 sgg., 434, 475, 479, 529 sgg., 551, 574, 634 sgg., tav. XXXV; vd. ferro ecc.; provvedimenti in Italia 530. ministri 130, 138, 147. Miseno, flotta di, 365, 660. missio 179; agraria 376; nummaria 376. misqoprasiva 230. Mitilene 62. Mithradates 75. Mitra 349, 690 sg. Mitridate 9, 43. Modestino, Erennio 624 sg., 633. Mogontiacum 121, 342, 352, 357, tavv. XXV, XXXIX. monetaria, economia, 535 sg. monetazione 269 sgg.; unificata da Aureliano 692. monete 105, 118, 128, 186, 269 sgg., 291, 634, 702 sg., tavv. LXXI, LXXII, LXXIII, LXXV, LXXVII, LXXIX; come fonti storiche 104, 128, 185, 216, 634; monete di credito 701. Monetium, 368. Mongolia tav. XXIV.
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857 monopolii 44, 70, 249, 265 sgg., 531, 702, 723, 756. Montano, T. Flavio 213. Montans 260. Montenach 260. Montenegro 202, 364, 367, 391. monumenti funerari come fonti storiche 214 sg., 239 sg., 255 sg., 342, 345. Moregine (Pompei) 36. Mosa, valle 343. Moschion 127, 208 Mosella, valle 239 sgg., 255, 269, 342, 350, 355; fiume 295, 341. Mosigeni (Tracia) 387. Mothana (Siria) 432. Moxeanw`n dh`mo~ (Frigia) 404. Mozaiedhnoiv (Siria) 432. Mucianus, C. Licinius 286. muli 591, 722. munera 61 sg., 553, 591, 595, 601 , 624 sgg.; vd. liturgie. municipes 317, 330, 517; extramurani 317. municipia 107, 120, 358, 367, 368, 503, 508, 539, 568, 651, concessione dell’ordinamento municipale 318, 357, 376, 389, 392, 498, 503, 508; m. Aelia 568; Iulia 499. Mourmateanov~, Teimeva~ tav. XLVI. Mursa 372. Musonio 159. Musulamii (Africa) 500. Musunii Regiani (Africa) 503. Muxsi (Africa) 492, 495. Muzakhia 391. Mylasa (Caria) 268, 270,701. Myos Hormos (Egitto) 130. Myrinus 3401. Nabatei 224. Nabatene 127, 431. Naboo (Egitto) 462. Naga (Nubia) 476. Naissus (Mesia sup.) 376. Namnetes (Nantes) 339. Namur 262. Napata 472 sgg., 483. Napoli 15, 36, 48, 98, tavv. VIII, IX, X, XI. Narbo 189 sg., 243, 256, 337, 396. Narbonensis, Gallia, 308, 324, 338 sg.
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STORIA ECONOMICA E SOCIALE DELL’IMPERO ROMANO
Narcisianus,vicus (Mesia inf.) 385. Narcissus 214; liberto di Claudio 448, 453. Naro, fiume (Dalmazia) 365. Narona (Dalmazia) 365, 367. Nasone, Antonio 376. Nasso 226. nationes 495. Nattabutes (Africa) 503. Naucratis 439. nauvklhroi 248, 410, 437; vd. associazioni. Nauna 388. nautae 229, 254. Nautica 253 sg., tavv. LXII, LXIV. navi 38, 92, 130, 206, 223, 229, 247, 410, 587, 723, tavv. XXVI, XXVIII, XXXIX; commerciali, 365, tavv. XXVI, XLIX; costruzione 88, 551, 595, tav. XXXII; fluviali 229, 234, 194, 565; proprietari di n.,166, 174, 180, 185 sg., 190, 196, 198 sg., 200, 215, 218, 234, 310, 458, 523, 592, 625, 677, 692, 722, 767 sgg. navicularii vd. proprietari di navi. Navigius 256. Nazalhnoiv (Siria) 426. nazionalizzazione, vd. statizzazione. Neapolis (Crimea) 410; (Palestina) 428. Nebuchelus 426. Neckar, fiume 126, 341. Nedinum (Dalmazia) 368. Neetum (Sicilia) 321. negotiatores 20, 74, 228, 294, 357, 495, 510, 601, 625; vd. mercanti. Negri 483. Nemausus 189. Nemesis tav. XLVI. Nemi, navi di, 262. Nennig (Germania) 345. Nereidi tav. LVIII. Nero, mar 7, 9, 75, 88, 92, 133, 189, 219, 285, 383, 385, 388, 407, 413, 513, 544, 672. Nerone, 60, 104 sg., 116 ssg., 121, 129, 130, 131, 141 sgg., 154, 157 sg., 164 sgg., 214, 219, 220, 234, 235, 271, 290, 304, 323, 328, 447 sg., 456, 476, 486, 546, 550, 572, 596, 606, 609, 634, 752, tavv. XIII, LXXII; colonie 376; confische 143, 153, 328, 447, 339, 451; culto imperiale 104;
opposizione 116 sgg., 158 sg.; politica economica 118 sg., 141, 145, 303 sg., 455 sg., 596 sg. pseudo-Nerone 164. Nerva, imperatore 122, 153, 167, 265, 272, 304, 392, 487, 504, 510, 553, 556, 559, 574, 584, 594. Nerva, Cocceio 83. Nesactium (Istria) 363. Nettuno tavv. XVIII, XXVI, XLI, LVIII. Neumagen 215, 239 sg., 346, tavv. XXV, XXXIX. New Forest (Inghilt.) 261. New York tav. L. Nicaea 189. Nicaenses, vicus (Maced.) 393. Nicagoras 678. Nikavs ippo~ 394. Niceratus 75. Nicivibus (Africa) 503. Nicola I di Russia 656. Nicomaco 666. Nicomedia 189, 248, 399. Nicopolis ad Istrum 198, 202, 384, 623; ad Nestum (Tracia) 389. Nicosia (Cipro) tav. LXXIII. Nicostrato, P. Aureliano 265. Nigellio, L. Blassio, speculator, tav. LXXIV. Nigro, C. Pescennio 609, 614, 616, 620, 623. Niha (Siria) 422. Nijni-Novgorod 390. Nilo, fiume 1, 223 sg., 457, 471, 476, 480, 483, 572, 721; porti 721; N. Azzurro 471. Nimega vd. Noviomagus. Ninfe 388, tav. XXVI. Nisibis (Mesopotania) 281, 623. Nobadi (Africa) 474, 479. nobiles, nobilitas 19, 59, 156, 170, 303, ; vd. aristocrazia. Nola 390. Nomavde~ (Transgiord.) 431. Nomento 142. Nonio 254. Norbani 448, 453. Norici 616. Norico 61, 95, 96, 153, 177, 202, 235, 236, 239, 357 sgg., 380, 530, 533, 536, 623; città 202, 358, tav. LXXIV.
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Indice dei nomi e delle materie Norvegia 130. Novae (Mesia sup.) 383. Novaesium (Germania) 342, 352. Noviodunum (Mesia inf.) 384, 631. Noviomagus (Nimega) 339, 342. Nubia 471 sgg., 704. Nuceria 390. Nuffusis, re africano, 704. Numanzia 330. numeri 153, 288, 293, 425, 652, 654 sgg. Numeriano 676. Numidae (Africa) 503. Numidi 503, 518. Numidia 23, 42, 67, 124, 125, 155, 189, 202, 220, 373, 487 sgg., 495 sgg., 518, 523, 530, 669, 684; città 189, 198, 491. Numlulis (Africa) 498. nundinae vd. fiere. Nuraghe Losa (Sardegna) 323. Nysa 75. ∆Okahnw`n kwvmh 401. Oceano (divinità) tav. XXVIII. Octodurenses 111, 115. Odenato, Settimio 289, 427, 655, 672, 743, 744. Odessos (oggi Varna, Mesia inf.) 383, 531. Odrisii (Tracia) 382, 387. Oea 201, 512, 518, 529. Oenoanda (Asia Min.) 330, 401. Oescus (Mesia inf.) 285, 286. Oescus, fiume (Tracia) 383. offectores 241, tav. IV. officiales 730. officine 11, 34, 44, 96, 97, 124, 133, 138, 147, 253, 256, 259 sg., 263, 279 sg., 413, 434, 445, 479, 586, 768; proprietari 607. ∆Ognedhnw`n fulhv (Transgiordania) 431. oijkevtai 683. oijkonovmo~ (actor) 401. Olanda 339. Olbia 75, 201, 215, 219 sg., 285; 383, 408 sgg., 703. Olimpiade, Elia 181. olive (e olio) 10, 22 sgg., 44, 80, 87 sgg., 95, 133, 210, 228, 231, 235 sg., 327, 394, 428, 461, 523, 583, 705, 759;
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859 commercio 10, 22 sg., 84 sgg., 227 sg., 235 sgg., 327, 394, 472, 536, 574 sgg., 717, 723 sg. (leggi di Adriano); lavorazione per profumi 95, 133, 229, tav. XV; magazzini 80, tav. XVI; molini 723, tav. LXIII; sovraproduzione in Italia 304 sgg. Omerus, C. Sentius 92. ojnhlavtai 721. Onesimus 448, 454. operae 155, 510. opifici vd. fabbriche, officine. Opimii 392. oppida 321, 327; libera 496, 497. Opramoas 172, 212 sgg., 401, 554 sg. oracoli 580. Orano 201. Orbio 83. oreficeria e gioielleria 95 sgg., 127, 133, 253, 262 sg. Orenburg 390. ojrewkovmu~ 594. Orestes, Norbanus 453. Oresti (Macedonia) 393. Orfeo 254. origo (ijdiva) 244 sg., 760. ÔWrivwn Luvkou Marwneuv~ 447. Orione, Giulio 461. Ormisda 744. oro 87, 96, 129, 236, 270, 472, 480, 700, 760; miniere 88, 95, 154, 268, 324, 328, 358, 371, 379, 380, 434, 475, 529, 531 sgg., 574, tav. XLIII; vd. oreficeria. Orolaunum vicus (Arlon, Belgio) 340, tavv. XXXVII, LXXVIII. Oronte, fiume 1, 186. Oropus 402. Orpeus, Ti. Claudius 91. orti 35, 79, 428, 455. ∆Osainhnw`n fulhv (Transgiordania) 431. Osrhoene 472. Osterburken (Germania) 375. osti 271. Ostia 10, 38, 87 sgg., 98, 189, 189, 204, 229, 234 sg., 271, 523, tavv. XXIII, XXVI, XXX, XXXI, LXVII; mosaici 38, 213 sg. Ostiliano 659. Ottaviano 586; C. Furio 281. Ottaviano 32 sg., 318.
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Ottone 117, 610. Oxford 130, 352. Oxyrhynchus 264, 464, 646 sg., 702, 719, 723 sg., 727. Pacatus, L. Memmius L. f. Quir. 511. Pacaziano, Tib. Claudio Marino 670. Pachten (Germania) 351. Paestum 304. Paflagoni 298. Paflagonia 201. pagamenti straordinari 598, 628, 719, 757, 759; responsabilità per i p. s., 719 sg., 724, 756. pagani 59, 162, 315, 317, 421, 638, 666, 679, cf. contadini. pagi 176, 312, 315, 317, 338, 393, 492, 498. Palatinato 532. palatini 754. Palemone, Remmio 142. Palestina 43, 126, 162, 202, 226, 154, 283, 293, 307, 414, 428 sgg., 538, 565, 622, 653; città 189, 428 sg.; struttura sociale 429. Palestrina, mosaico di 254, tavv. II, LII. Palfurii Surae 712. Palfurius 712. Pallas, M. Antonio 214, 453, 455, 457 sg. Palmira 127 sg., 189, 201 sg., 215, 224 sgg., 228, 233, 250, 264, 281-290, 414, 422, 425 sgg., 523, 583, 600, 641, 648, 655, 672 sgg., 703 sg., 712, 744. Palmireni 224, 225, 228, 250, 282 sg., 703 sg. Pavmfilo~, Ou[lpio~ 625. Pan tav. XIV. pane, panetteria 207, 578, 693, 720, tav. IV. Panamara 208. Panezio 118. Panfilia 198. Panormus 189. Pannoni 51, 69, 379. Pannonia 153, 189, 198, 219, 236, 239, 358, 363, 366, 368, 376, 379, 384, 504, 533, 594, 609, 670, 672, 674; tavv. XLII, LXXIV; città 186, 371 ssg.; commercio 216; miniere 231 sg.
Panopolis (Egitto) 646. Pansa, casa di (Pompei) 34; (Tergeste) 239. Panticapaeum 92, 189, 201, 215, 219, 227, 385, 409, 422, 703, tavv. XLVII, L. Paolino di Pella 771, 775. Paolo, S. 298; (giurista) 619, 632, 657. Papianus, T. Ulpius Aelianus 399. Papii 365, C. Papio Celso, M. Papio Kano 365. Papinia, tribù, 34. Papiniano 619, 624, 632. papiro 88, 101, 104, 247, 254, 267, 715, 718, 723, 727. Paraetonium (Egitto) 438. parafuvlake~ 647. parapomphv 647 sg. Parentium (Istria) 239, 359. Parigi 303, tavv. VII, XIII, XLVIII, LI, LX, LXXIX. Parisii 339. Parnaso, monte, 172. Pavroikoi,vd. incolae. Parti 69, 127, 226, 255, 275, 282, 284, 409426, 550, 565, 579, 642, 647, 655, tav. L. Partia 6, 220, 283 sg., 287, 288 sgg., 425, 550, 554, 560, tavv. XXIV, L. pastori 11, 36, 177, 322, 351, 355, 358, 381, 387, 392, 404, 414, 430, 480, tavv. III, XXV, XXXIV, XLI, LIX, LXIII. pastorizia 11, 34, 321, 322, 350, 363, 471, 474, 480, 536. Patara (Asia Min.) 401. Paterno, prefetto al pretorio 604. Patrae 396. patrimonium 338, 396, 661, Pausanias 462. Pautalia (Tracia) 389. pecore 11, 36, 79, 355, 363, 428, 480, 512, 536, tavv. III, XXV, XXXIII, XXXIV, XLI, LIX, LXIII. peculium 138. pelavtai 409. Pevlh (isola di Cos) 400. Peligni 317. Pella 392. pellicce 87, 220, Peloponneso, guerra del, 1, 2.
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Indice dei nomi e delle materie Penati 106. Penesti 382. Pennsylvania 472, 473. Pentapoli cirenaica 65, 485. Peonia 385, 386. Peonii, 392. Pepareto 625. peregrini 53, 359, 367, 384, 539, 540, 586, 639, 641, 662 ; princeps peregrinorum 608. Perenne, pref. al pretorio 604. Perga (Panfilia) 403. pergamena 551. Pergamo 1, 3, 4, 8, 72, 75, 101, 174, 189, 198, 208, 264, 267, 270, 545, 577; iscriz. 400. Pericle 394. Perinto 381, 675. Persia 6, 127, 669, 743, 777, 780, tav. L. Persiani, 281, 400, 643, 656, 669, 670, 672, 675, 676, 703, 712, 742, 744, tavv. XXIV, L. Persico golfo 127, 285, 286. Persico, Paulo Fabio 107. Pertinace, P. Elvio, 607, 609, 618, 644. Perusia 75. pesci 44, 219, 231; pescatori 381, 434; peschiere 19, 154, 372, 413, 434, 529. Pessinunte 265. Pestilenza 208, 471, 579, 580, 620, 671, 674. Petra 126 sgg., 189, 202, 224, 226, 281, 288, 290, 523, 583. Petraeivth~ kwvmh (Asia Minore) 402. Petroniana, horrea 232. Petroniano, P. Statieno 208. Petronio 73, 123, 448, 475, 499. Petronio, C. 448, 451; P., 448. Petrossa tav. LXIX. Pettau tav. XLII. Peuke (isola) 232. Pforzheim (Germania) 345, 351. Phaenae (Transgiord.) 431. Phanagoria (Bosforo) 409. Phaos 530. Philadelphia vd. Filadelfia. Filadefevwn kwvmh (Asia Minore) 403. Philadespotus tav. XXXII. Philemon 125. Pilippeville tav. LXXVIII.
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861 Philippopolis (Transgiord.) 389, 431. Philodamus 448, 454. Philosophiana (Sicilia) 322. Philoxenos di Theon 455, 461. forthgoiv 265. frontisthv~ 725, 728. Piacenza 388. Piceno 12, 27, 38. Piemonte 115. Piercebridge (Inghilt.) tav. XLI. Pieria 698. pietre preziose 87, 472, 480. Pinara (Licia) 401. piombo 271, 327, 358, tav. XXXV; miniere vd. oro. Piquentum (Istria) 363. pirati 129, 365, 712. Pirenei tav. XXXV. Pirustae (Dalmazia) 379. Pisidia 53, 198, 308, 532. Pisone 673. Pithom (Egitto) 440. Pitiniana (Sicilia) 322. Pizus (Tracia)388, 651. Plotina 173. Plotinopoli (Tracia) 184, 389. Plutione, beneficiarius 716. Po, valle del, 38, 209, 312, 584. Podolia 92. Poetovio (Pettau, Pannonia) 187, 202, 232, 236, 371, 372, 376. Pogla (Asia Min.) 648. Pola 189, 239, 351, 359, 360, 363. Polemon 75. politeuvmata 439, 641, 653. Polla 448 sgg.; Iulia 458. Pollione, Trebellio 665. Povlupo~ 717. Pomerania 96, 133. Pompei 12, 15, 25, 34, 41, 60 sg., 74, 79, 80, 83, 91, 97, 101, 123, 137, 189, 276, 304, 339, 350, tavv. VIII, IX, XI, XVI, XXVII; ville 35 sgg., 74, tavv. IX, X, XIV, XV, LIII. Pompeiano 771. Pompeo, Cn. 31, 32, 38, 49, 50, 61, 63, 65, 76, 111, 127, 315, 746; Sesto 37, 315, 453. Strabone 30. Ponto 9, 201, 385, 410, 554; polemoniaco 380.
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Ponto Eusino 228. Popidii 36. populi 496. Porfirio tav. LXVI. Porolissum (Mesia) 409. porti 35, 45, 91, 137, 201, 234 sg., 239, 248, 253, 265, 283, 322, 359, 392, 410, 414, 524, tavv. VIII, XII, XIV, XXVI, XXVII, XL, LX, LXIV. portorium 232 sgg. Portunus tav. LXVIII. Portus Augusti 235, tav. XXVII. Posideos 413. Posidonio 321. Posidwvnio~ Gluvkwno~ 388. possessores 205, 318, 338, 375, 571, 573, 737. posta vd. cursus publicus. Postumo, Curio (C. Rabirio Postumo) 24; M. Cassiano Latinio 555 sgg. potamofulakiva 647. Potens, M. Pompeius 232. potentiores 323, 465, 467. Pozzuoli 46. praedia populi Romani 16. praefecti, dell’Egitto 145 sg., 225, 445, 452, 454 sgg., 464, 588, 591, 594, 621, 638, 646, 653, 702, 716, 724, 726 sg., 730; della flotta 225 sg.; di ejmpovria 651 sg.; del pretorio 179, 427, 511, 604, 615, 642, 670, 672, tav. LXX; annonae 268, 577, 578, 593, 604; arcendis latrociniis 631, 706, 708; gentium 286, 500, 503; iuvenum 509; ripae Euphratensis 128; sagittariorum 293. pragmateuthv~ (actor) 401, 730. pragmatikov~ 716. praktores 65. Praxinoa 436. pra`xi~ ejk tw`n swmavtwn 589 sg. prata legionum 372, 275. prede 16, 19, 30, 119, 551, tav. LXIX. Premis (Casr Ibrim, Nubia) 476, 483. Preneste tav. II. pretoriani 50, 51, 60, 104, 109, 116, 117, 120, 122, 147, 153, 177, 179, 392, 484, 486, 551, 604 sgg., 642, 669, 672, 754. Priapo tav. XIV. Priene 127.
prigionieri di guerra 118, 480, 524, 645, 696 sg., tav. LXIX, stanziamento di 711. Primogene, L. Cornelio tav. XIV. princeps libertinorum tav. XV; loci 376 sgg., tav. XLIII; peregrinorum 608. Princeton, papiri di, 719. Prisca, Flavia 367. Prisco, C. Giulio 670; Elvidio158, 161, 166, 173. privatum 65. Probo, M. Aurelio 308, 311, 659, 675, 701, 703 sgg., 612, 712, 718, tav. LXXVII. Proculo, P. Paquio 67; usurpatore 520, 555. Proculus, colonus 241; Aurelius 290. procuratori 63, 110, 118, 162, 322, 371, 418, 596, 608, 615, 620, 657, 761, 767. professiones 91 sg. Profhtianh; oujsiva 454, 458. profumi 95, 101, 134, 137, 227, 247, tav. XV. Promagistri (ajrcw`nai) 597. provoiko~ 401; vd. actor. Properzio 83, 123. prosecutio 647; annonae 648 sg., 722 sgg., tav. XLVI. prosecutores 564 sgg. prosodikav 572. protectores 696. Protus, C. Aelius Flavianus Simplicius 402. Prusa 124, 143, 154, 159, 162, 172, 209, 213, 308, 396. Prusias ad Hypium (Bitinia) 399, 600, 625, 648. Psenamuis 464. Psiche tav. XIV. Ptolemaici Cyrenenses 462. Ptolemaiei`on (Cirene) 487. Ptolemais (Ake) (Palestina) 202. Publio, Vibio 729. Pulaieni 261. Pupieno, m. Clodio P. Massimo, 395, 657, 664, 669, 684, 687, 736, tav. LXXV. puvrgo~ 456. Puteoli, 45, 74 sg., 91, 95 sgg., 189, 190, 229, 234, 248, 390, tav. X.
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Pythodoros 75. Python, C. Popilius 392, 553.
Rhesenae (Mesopotamia) 623. Rhesos 391. Rhodiapolis (Licia) 212. Rhoemetalkes, re bosforano, 409. ÔRouvstiko~, Aujrhvlio~ ÔErmovlao~ 633. Rieti tav. XLVI. Risinum (Dalmazia) 368. Rodi 4, 5, 161, 189, 204, 276, 491, 781. Roma 1, 6-12, 15 sg., 19, 20-25, 27-30, 32 sg., 35, 38, 41, 44 sg., 48 sg., 5254, 56, 59, 61, 65, 68-74, 79, 87, 91 sg., 96, 98, 101, 103 sg., 106, 108 sgg., 116 sgg., 121 sg., 125, 143, 146-148, 150, 153, 156, 159, 160, 164 sg., 170sg., 173, 177, 180, 182 sg., 185 sg., 205 sg., 211 sg., 214 sg., 227 sgg., 234 sg., 244, 247 sgg., 269 sg., 271, 277, 279, 280, 282-284, 286-291, 296, 300, 303, 307, 312, 316 sg., 321, 323, 327, 329, 366 sg., 387, 390, 397, 409, 414, 429, 443, 453, 457, 464, 476, 486, 492, 496, 510, 523 sg., 529, 544, 546 sg., 550, 552, 556, 559 sg., 565, 578 sg., 584, 602-605, 608 sgg., 614, 616, 623, 631 sg., 635 sg., 640, 643, 645 sg., 658 sg., 669-672, 674 sg., 679, 684, 687, 690, 692 sg., 700, 702, 711, 720, 724 sg., 731, 735 sg., 741 sg., 745 sg., 751, 759, 775, 779, 785; tavv. III, IV, VI, XII, XVII, XVIII, XXVI, XXVII, XXX, XXXI, XXXIV, XL, XLI, XLV, LXVIII, LXIX, LXX, LXXIII, LXXV, LXXV, LXXVII, LXXX; mercato di Traiano 98; sviluppo edilizio 552; servizi pubblici 71, 108. Roma, dea, 54, 69, tav. XVIII. Romania 184, tav. XLV. Romolo 55. Rosetta, iscriz. 440. Rosso, Mar 130, 223, 226, 281, 283, 474, 483. Rossolani 550, 565, 672. Rothweil 126. Rotomagus (Rouen) 339. Rouen tav. XXIX. Rufo, Basseo 179; Domnino 404; Q. Numerio 676; Venidio 644, Verginio 118. Rullo, Servilio 546.
Qarietein (Siria) 423. Quadi 371. quadragesima Galliarum et Hispaniarum 118, 231. Quadratus, Antistius 223; Antius 157, 401; C. Iulius C. f. 386, tav. XLIII. quaestor 385, 422. Quieto 225, 672, 702. Quinquegentanei (Africa) 704. quinquennalis 385. Quintillo, M. Aurelio Claudio 674. Quintionis, vicus (Mesia inf.) 385. Quirinio 520, 530; P. Sulpicius 530. Raetinium (Bihac´ ? Dalmazia) 368. rame 96, 270, 327, 472, 479, 634. Raphia, battaglia di, 440. Rapidus (Mauretania) 498. Rasparagano, P. Elio 390. Ratiaria (Mesia inf.) 372, 383, 384. ratio castrensis 720; patrimonii 302; privata 399, 584, 631. rationalis vd. kaqolikov~. a rationibus 71. Ravenna 138, 365, tavv. XXXII, LXXX; flotta di, 273. Ravonii 365. Razgrad 391. redemptores 533 sg. Regaliano, 672. Regillo, prefetto al pretorio, 604. Regina, castra, 202. Reims tav. XXIX. Remi (Gallia) tav. XXIX. Renana, regione, 24, 51, 67, 69, 117 sg., 177, 184, 219, 231, 233 sgg., 239 sg., 243, 247, 249, 254 sgg., 270 sg., 298, 339, 340-342, 345 sg., 351 sg., 355, 371, 488, 509, 512, 549, 568, 650, 652, 655, 669, 671 sg., 691, 704, tav. XXXIX; città 239; esercito 117 sg., 243, 249; stanziamenti militari 84, 235; urbanizzazione 67. Reno, fiume 231, 260, 270, 340. Rezia 96, 202, 357, 674, 675. Rheinzabern (Renania) 260.
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Rusgunii (Africa) 498. Rusicade (Numidia) 504. Russia meridionale 84, 92, 95, 101, 129, 210, 219 sg., 228, 247, 255, 285, 307, 382, 383, 385, 408, 410, 413, 634, 649n, 669, 703; tavv. XXIV, XLV, XLVII. Rusticeliana, praedia 316. rustici 59. Rustico, L. Antistio 208, 209. Sabina 12. Sabino, Q. Geminio 507; M. Salario 553; Obultronio 118. Sabinum 76. Saboides (Africa) 503. Saborenses (Spagna) 205, 330, 337. Sabrathensium, statio (Ostia), 523, 529. Sabrathus (Tripolit.) 197, 518, 523, 524. Saccaei 432. sacerdoti 172, 205, 210-211; in Egitto 5 sg., 435 sgg., 439 sgg., 444; - re 426 sgg. Safa (Transgiordania) 416, 430. Safaiti (Transgiordania) 431, 433. Safinii 365. Sahara 87, 220, 518, 523. Saint Bertrand de Comminges 190. Saint Roman en Gal, tav. XXXVI. Sakaon 716. Sala (Africa) 517 (iscriz.). Salassi 115. sale, miniere, 380, 530. Salisbury 355. Salona 189, 198, 359, 364, 365, 367, 421, tavv. XLIII, XLIV. Salonicco 711; vd. Thessalonica. Salpensa (Spagna): lex 184, 330, 375. saltuarii 532. saltus 338, 500, 503, 508, 509, 510, 581, 607, 608, 622; vd. tenute. Salus (dea) tav. XXXV. Salutare, C. Vibio 213, 322. Salutario, Marcio 727. Salviano 739, 762, 771, 775. Salvium, municipium (Dalmazia) 367. Salzburg 358. Samaria 376, 428, 622, 653. Samo 161, 476. Samosata 407.
Sampsicerami, dinastia dei 425, 427, 712. Sampsiceramus di Emesa 426, 427. Sangiaccato 364. San Giorgio 390. Sannio 12, 37, 137, 312. Sanniti 11, 15, 243. Sant Martin am Baker tav. XLII. sapone tav. XXIX. Sapore I 281, 669, 698, 743, 744. Sarapivwn 725; vd. Sereno. Sardeis (Mesia inf.) 385. Sardegna 8, 10, 15, 20, 23, 26, 37, 38, 83, 142, 228, 234, 307, 323, 324, 351, 487, 497, 533, 534. Sardi 157, 189, 198, 268, 270, 401, 404, 601. Sarmati 128, 220, 285, 293, 390, 391, 408, 413, 549, 550, 565, 579, 609, 672, 696, 703, 754, 776, tav. XVII. Sarmizegetusa (Dacia) 380. Sassanidi 426, 427, 655, 753. Satur, Publilius tav. XII. Saturnino, M. Aponio 452; Giulio 648; (usurpatore) 675. Saturnus Balcaranensis 517. Sauromates II, re bosforano 410, 673. Sava, fiume 236, 372, tav. XL. Savaria (Steinamanger, Pannonia) 376. Scafati (Pompei) 36, 37. Scandinavia 92, 133, 216, 219. Scaptopare, iscriz. di, 389, 708, 715. Scarbantia (Pannonia) 376. Scauro, Umbricio tav. XLVI. Scen-si (Cina) tav. XXIV. scioperi 267, 268, 435, 471, 540, 541, 543, 593, 607, 608, 625, 626, 627, 702. vd. ajnacwvrhsi". Sciro 396. Sciti 285, 381, 383, 390, 391, 410, 413, 736, tavv. XLII, XLVII. Scizia 294. Scodra (Dalmazia) 368. Scopeliano 213, 308. Scozia 351. scuole 174, 210, 281, 539, 648, 649. Scupi (Mesia sup.) 372. Schwarzwald 341. Sebaste (Samaria, v.) 428. Secunda, Sentia 96. Secundini, vicus (Mesia inf.) 385. Secundinii 215, 239, tav. XXV.
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Indice dei nomi e delle materie Securitas (come dea) tav. LXXI. Segesta 321. Segusio 356. Sei’ (Siria) tav. XLVIII. Shlhtikh; ojreinhv (Tracia) 387. Seleucia (Mesopotamia) 189, 201, 202; di Pieria (Siria) 201; (Ctesifonte) 127. Seleucidi 126, 127, 184, 274, 285, 417, 430. Selinunte 322. Selinousiva livmnh (Asia Min.) 531. Semta (Africa) 507. Senato 49 sg., 59 sg., 108, 169, 504, 745; competenze: elezione degli imperatori 151, 153, 168, 669, 675, 684, 687, 693; riconoscimento degli imperatori 53, 103, 117, 613, 618, 669, 671, 674, 678 sg., 779; nell’amministrazione 16, 62, 71, 106, 108, 109, 110, 579, 603, 731; coniazione 270, 692; opposizione 55 sg., 118, 158 sgg., 164 sgg., 603, 607, 614, 635; composizione 146, 159, 169, 170, 277, 367, 427, 511, 603, 615, 616 sg., 677, 693 sg., 767; politica economica 21, 25 sg., 492 sg.; politica degli imperatori verso il S., 156 sg., 170, 603 sgg., 613, 635, 642, 666, 693; posizione e importanza 168, 185, 605, 644, 684, 693, 731, 739, 779; nella repubblica 15, 21, 25, 31, 32, 44, 158 sgg. Senia (Illiria) 365. Sens tavv. XXV, XXXVII, XXXVIII. Senones (Gallia) tav. XXXVIII. Serapide 225. Serbia 364. Serdica (Sofia) 389. Sereno, L. Giulio 458, 461; Aurelio, 727, alias Sarapion (vd.) 729. Sergii Paulli 402. serviana, riforma, 12. Servitium (Illiria) 364. servizio militare ereditario 754. sestertii tav. LXXII. Settimio, L. 453. Severi 566, 608, 610, 619, 624, 632, 642, 643, 645, 647, 649, 650, 651, 654, 655, 656, 657, 663, 676, 678, 689, 696, 703, 704, 706, 711, 720, 728, 733, 734, 735, tav. LXXIII.
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865 Severino L. Emilio (Phillyrio) 679. Severo, Ti. Giulio 554, 555. Severo, Settimio (amico di Stazio) 453. Severo, Settimio 179, 227, 229, 249, 271, 279, 281, 286, 290, 292, 293, 299, 359, 396, 400, 429, 453, 518, 523, 524, 529, 553, 593, 594, 597, 606, 609-637, 642-646, 648, 649 sg., 651-656, 659, 661, 673, 676, 680, 681, 687, 689, 691, 694, 695, 701, 711, 714, 724, 730, 732, 735-737, 749, 779, tav. LXXIII. seviri 148, 236. Sfax 197, tav. LVIII. Shablul (Nubia) 473. Si’ a (Transgiordania) 431. Si-anfu (Cina) tav. XXIV. Si-Aun (Tunisia) 649. Sicca (Africa) 498, 504. Sicilia 16, 24, 37, 83, 317 sgg. 324, 398, 487, 510, 530; agricoltura 10, 26, 37, 38, 88, 317 sgg.; amministrazione 8, 15 sgg.; città 15, 61, 189, 318 sg.; 10, 23, 37, 228, 307, 317, 321; insurrezioni 322, 706; organizzazione sociale 317 sgg.; pastorizia 36 sg. 73, 88, 318, 321, 322; vita 10, 15, 20, 317 sgg.; zolfo 88, 321. Sidone 189, 267, 422, 426, 781, tav. XLIX. Sidyma (Asia Min.) 401. Silla 7, 30, 31, 34, 35, 49, 50, 76, 97, 111, 653, 746, 749. silphium 484 sgg. Silvano (divinità) 386, tav. XLIII.; Silvanus Sator 386; S. Saxanus tav. LXVIII. Silvano, Tito Plauzio 390. Silvano, comes limitis 426; (Siria) 536. Simmaco 666. Simone il Cireneo 590. Sincello 665. Singara (Mesopotamia) 623. Singidunum (Pannonia) 372, 376, 384. Sinope 201, 220. Siocharax (Frigia) 404. Siraci (Russia merid.) 413. Siracusa 189, 321, 781. Siria 3, 6, 7, 71, 74, 87, 116 sg., 124, 127, 186, 201, 224, 274, 298, 341, 390, 400, 413-434, 463, 474, 504, 530,
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550, 553, 568, 578, 582, 583, 585, 590, 623, 631, 639, 647, 650, 655, 705, 708, 735, 737, 742-744, 754, 771, 782, tavv. XVIII, XLVI, XLVIII, XLIX; agricoltura 307, 414 sg., 536; città 189, 203, 414 sg., 429, 583 sg., 585, 622, 623 commercio 92, 126, 224 sgg., 247 sg., 431; diritto 273; feudalismo 427 sg., 712 sg., industria 88, 92, 101, 227, 254, 263; invasioni 669 sgg., 675, 703; monumenti 215, 414; religione tav. XLVI; rivolte militari 609; struttura sociale 303, 413 sg., 417 sgg., 538, 585, 622; templi 422; urbanizzazione 66, 550, 585; vie 224 sg., 231. Sirii 380 sg., 425 sg., 430. Sirmium (Pannonia) 372, 675. Sirti tav. LXII; grande 529. Sisapo (Spagna) tav. XXXV. Siscia 372, tav. XL. Sitifis (Setif, Algeria) 649. sitolovgoi, papiri dei, 451. sitw'nai 206 sg., 210, 231. Sittio, P. 495. Skelani (Dalmazia) 367, tav. XL. Skiluros, re scita, 410. Slavi tav. XVII. Smirne 174, 189, 198, 204 sg., 265, 267, 271, 330. Soada (Siria) tav. XLVIII. Soados 294. Soba (Nubia) 476. sociali, rivoluzioni, 27 sgg. (Gracchi); locali 2, 8, 160, 174, 206, 208, 267, 308, 322, 400 sg. 607; nel secolo III, capp. X, XI, 533 sgg., cap. XII. societates 250, 531, 596, 597. Socotra 129. Soda (Nubia) 476. Sodikes 721. Soemiade, Giulia 642. Sofia 389. Sofisti 213. Soknopaiu Nesos (Egitto) 452, 620, 720, 726. Sokrates 454. Sole (come divinità) 690, 691, 752. soldati 51, 147; latini tav. II; romani tavv. II, XIII, XVII, XL, LXVIII, LXIX, LXX, LXXIV; come spie 567.
Solone 409, 574. Solva (Norico) 359, 376, 597, 598, 601; rescritto 627. Somaiqhnw'n fulhv (Transgiordania) 431. Somalia 223, 224. Sopatrus 724. Sorotus tav. LXXVI. Sostrato 172. Sostratus 454. Spagna 8, 15, 20, 22, 24, 26, 30, 38, 42, 43, 53, 66-68, 84, 88, 92, 104, 111, 117, 118, 120, 122, 124, 125, 142, 153, 155 sg., 158, 170, 177 sg., 183 sg., 190 sg., 203, 207, 212, 215, 228 sg., 234 sg., 244, 255, 263, 273, 278, 298, 303, 307 sg., 311, 318, 324-330, 358, 364, 366, 371, 495, 530, 532-536, 544, 551, 580, 583, 595, 604, 607, 672, 704, 712, 735. Spagnuoli 551, 616. Spalato 198, tavv. XLIII, XLIV. Sparta 75, 179, 208, 212-214, 364, 395. speculatores 707 sg., tav. LXXIV. Spasinu Charax 282, 284 sg., 292 sgg. speculazione 20 sg., 206 sg., 270, 308, 428, 577 sg., 695, 701, 702. spezierie 220 sg. spionaggio 56, 681, 683, 684, 688, 755. spopolamento 145, 556, 582 sg., 645, 706, 707 sg., 760; cf. alimenta. Stabia 35, 37, 74, 79, 80, 83, 141, tavv. VIII, IX, XII, XIV. stagno 84, 324, 327. Stahl (Germania) 345, 351. stalle 83, 417. stanziamenti militari 67 sg.,328, 349 sg., 451 sg., 651, 754. staqmoiv vd. ejmpovria. Statii 96. stationarii 631-633, 707, 725. stationes 129, 230, 248, 594, 651, 707; annonae 230; mercantili 234, 248. Stati Uniti d’America 97, 781. statizzazione 5, 70, 249 sg., 265, 437, 439, 659, 692, 693; cf. associazioni, monopoli, secolarizzazione. Stato, sue entrate 5, 71, 106, 108, 143, 154; supremazia 584 sgg., 758. statores 707. Stepanus, T. Siminius 36; M. Publilius tav. XII.
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Indice dei nomi e delle materie stipendiarii 485, 492. Stobi (Macedonia) 392. stoffe 45, 88, 101, 137, 227, 231, 239, 243 sg., 247, 260, 357, 434, 543, tavv. XXIV, XXV, XXXII; colorate 101, 227, 247, 254. Stoici 55, 158 sgg., 164-167, 240, 243, 606. Stolac (Erzegovina) 367. Strabone, Acilio 486. Strandza (Bulgaria) 534. Strasburgo tav. LXXIV. strathgivai 387, 389, 404. strathgoiv 462, 620, 702, 718, 726, 738. Stravtwn Stravtwno" 534. Stratonax 75. Stratonicea (Caria) 205, 208, 402, 568. Sua (Africa) 498. Suburbanus, pagus 330. Suburbures (Africa) 503. Successus, L. Arellius 36. Sudan 472, 473, 518 sg., tav. LII. Sufetula (Africa) 197, 201. Sugambri tav. XIII. Sulmona 317, tav. III. Sulpicio, L. Aurelio 670. Sumatra 220. summa honoraria 172, 211, 595. suppellettili 247, 479, 536, 579, tavv. XXIV, LV. Sura (Licia) 648. Sus (Sousse) (Africa) 197, tavv. L, LX, LXII, LXXVI. Susa 75, 282, 287. Sussex tav. XLI. Sutunurca (Africa) 498, 504. Svezia 130. Svizzera 190, 202, 235, 337. Syagros (M. Rosso) 130. Syllium (Panfilia) 400, 625. symmachiarii 329. sunodiavrcai 250. Synistor, P. Fannius 36, tav. XI. Synnada 230. sunoikismoiv 399, 639. Tabarca vd. Thabraca. Tacape 503. Tacito, M. Claudio 675, 693, tav. LXXVII. Tacfarinas 499, 524.
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867 Tages, P. Cornelius 137. Taifa (Arabia) 224. Tala (Africa), 509; Talenses socii 509. Taman, penis. di, 409, 413. Tamili 224. Tanais, fiume 219, 413. Tanatamon, re meroitico, tav. LVI. T’ang, dinastia cinese, tav. XXIV. Taparura (Africa) tav. LVIII. Taranto 45, 88, 255. Tarraco 189, 327, 551. Tarraconensis 324, 327. Tarso 162 sg., 189, 264 sg., 267, 394, 675. Tartessos 324. Taso 208. Taulantii (Illiria) 363, 364. Taunus, monte 341. Taurici 408, 410, tavv. XLII, XLVII. Tauro, monte 404. Tauroi 383. Tauromenium 88, 189, 321. teatri annessi a templi 340, 349, 431. Tebaide 475. Tebe (Egitto) 225, 479. Tebessa (Africa) vd. Theveste. Tebtunis (Egitto), papiri 4, 451. tecnica agricola 538; industriale 262, 437, 543 sg. Tegea 106. Teheran tav. L. Téké (Bulgaria) 383. Telamone tav. II. tevlo~ pornikovn 286. telw'nai 233, 286, 428. telwnikov~, novmo~ 283, 286. Tellus (dea) tavv. LXXI, LXXII. Telmessus 205, 401. Tembrogius, fiume (Frigia) 404. Temistocle 394. templi 203, 346 sg.; diritto d’asilo 439, 471; confische delle loro proprietà 680, 684; gallici 339 sg.; opifici 264 sg., 437, 723; privilegi 422, 439, 531; proprietà di terre 318, 394, 401 sgg., 409, 422, 443, 455, 573 sg.; territori 64. Tenos 330. tenuiores vd. collegia. tenute, grandi: degli imperatori in Africa 154 sg., 328, 500, 504 sgg., 540, 607, 649; Asia Minore 397, 400 sgg., 540,
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713; Corsica 323; Egitto, v.; Gallia 338; Germania 350; Istria 359 sg.; Italia 300, 581; Palestina 428, 429; Sardegna 323; Sicilia 322; Siria 432; Spagna 328; Tripolitania 524; amministrazione 144, 154, 185., 322, 328, 350, 509 sg., 571 sgg., 584; affitto 307, 322, 626., 646, 653, 720: a conductores 510, 571, 596; a possessores 573 sgg., 649. tenute private, grandi 11, 41 sg., 72 sg., 125, 141 sgg., 300, 338, 359, 360, 376 sg., 400 sgg., 507, 537, 587, 694, 717, 775, in Africa 73, 83, 141, 142, 491 sg., 500 sgg., 509 sg., tavv. LXIII, LXXVIII; Asia Minore 400 sgg.; Britannia 352; Dalmazia 367; province danubiane 376 sg.; Egitto 70, 141 sg., 446 sgg., 726 sg., 728; Gallia 73, 338 sg.; Germania 345, 350; Italia 20 sg., 27, 38, 41, 44, 73, 76 sgg., 133 sgg., 236 sgg., 300 sg., 303 sg., 315; Macedonia 392; Palestina 429; Sardegna 73, 323; Sicilia 73, 322; Siria 417 sgg., 432; Tripolitania 524; amministrazione 79 sgg., 312, 350, 355, 360, 403, 418, 491, 507, 509 sg., 512, 538, 556, 728, 737 sg., 760, tavv. LXIII, LXXVIII. tenute, medie 76 sgg., 141 sg., 236 sgg., 303 sg., 315, 338, 499. Teodorico, palazzo di tav. LXXX. Teodosio, imperatore 484, 666, 705, 739. Teofrasto 4. Teopompo 364. Teos 210, 534. Terentius tav. XXV. Tergeste 115, 189, 236, 239, 316 sg., 359, 363, 393, 601. Termessus (Licia) 594, 712. terra; categorie: ager censorius 492; ager publicus 15 sgg., 106, 107, 154, 318, 322, 328, 350, 397 sg., 399, 445, 446, 461 sg., 485 sg., 492, 537, 571 sgg.; ager privatus vectigalisque 492; ager stipendiarius 398. terra sigillata 92, 125 sg., 260, 262. Tertius, T. Publicius 532. Tessaglia 392, 393, 394. tesserae 60, 269.
tessili, materie 24, 249, 265; industrie 723, tav. XVI; vd. stoffe e lana. tetagmevno~ ejn Palmuvroi~ 286 sg., 291. tetavrth 283, 287, 289 sg. tetartw`nai 283, 290, 294. Tetrapolis siriaca 414. Tetrico, C. Pio Esuvio 675, 736. Teurnia (Norico) 358. Tevere 71, 109, 271, 623. Thabbora (Africa) 568. Thabraca (Africa) 512, tav. LXIII. Thallus 36. Thamugadi vd. Timgad. Thapsus (Africa procons.) 492. Theadelphia (Egitto) 339; papiri 716, 728. Theodosia (Bosforo) 409. Theiss, fiume 391, 565. Theon, C. Iulius 448, 453, 455; figlio di Theon 448, 453; Qevwn oJ kai; ‘Anqo" A ∆ mmwnianou' 453, 454. Theoninus 448, 454. Theopompus, Ti. Claudius 387. Theophrastus, C. Iulius 395. Thermae (Sicilia) 321. Thermutarion Lycarionis 448, 454, 455; Aurelia, alias Herais 729. Thessalonica 189, 198, 391, 392, tav. LXXIX. Theudalis (Africa procons.) 492. Theveste (Tebessa) 197 sgg., 500, 504, 510. Qiannevoi (Bosforo) 409. Thibaris (Africa) 495, 498. Thibilis (Africa) 504. Thiges (Bizacena) 498. Thignica (Africa) 498. Thinissut (Africa) 495. Thisbe (Grecia) 395 (iscrizione). Thmouis 461, 471. Thraso (Egitto) 728. Thuburbo Maius (Africa) 197, 198, 497, 511, 708, 715. Thuburnica (Africa) 259, 509, 656. Thubursicum Bure (Africa) 510. Thubursicu Numidarum (Africa) 198, 503, 512. Thugga (Numidia) 42, 197 sg., 496, 498, 510, 547, 721. Thyatira (Lidia) 264, 265, 403, 554, 600, 625, 647, 648. qunei'tai 531; vd. associazioni.
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Indice dei nomi e delle materie Thyphon, T. Calpurnius 448. Thysdrus (Africa) 683. Tiberiade (Palestina) 162, 428 sg. Tiberio 20, 68 sg., 71, 74, 103-106, 109, 111 sg., 116, 120, 122, 124, 127, 129, 143 sg., 151, 165, 167, 171, 208 sg., 232, 271 sg., 281, 286, 288, 291, 376, 382, 447, 451, 452, 498 sg., 577, 596. Tibullo 83 sg., 123. Tibur 76. Tigellio vd. Ialysus. Tigri, fiume 127, 281. Til Chatel (Francia) tav. XXIX. Timesiteo, C. Furio Sabino Aquila 669, 683, 688. Timgad (Thamugadi, Numidia) 189, 197, 201, 260, 279, 384, 504, 547, 583, tav. XXII. Timminus, L. Aelius 215, 512. Tipasa (Africa) 498. tiranni, trenta 673. Tiro 201, 270, 324, 427, 622, 653, 781. tirones 179, 509. Tironianus, fundus 316. Tito 151, 156, 164, 171, 341, 451, 454, 456, 457. Titulitanenses (Africa) 498. Tivoli tav. LIX. toeletta, articoli da, 88, 228, 247, 543, tav. XXIX. Tolemaide (Egitto) 184, 202, 438 sg.; (villaggio egiziano) 461; (Cirenaica) 487. Tolomei 6, 65, 71, 127, 184, 224, 230, 231, 249, 265, 433, 434, 436, 438, 439, 443-445, 447, 455, 462-464, 475, 484, 485, 538, 588, 589, 597, 605, 654, 656, 722, tav. LI. Tolomeo Apione 484, 485. Tolomeo Epifane 475. Tolomeo Euergete I 266, 446. Tolomeo Euergete II 8, 440, 475, 484. Tolomeo Filadelfo 3, 266, 431, 436, 444447, 462. Tolomeo VI Filometore, 475. Tolomeo IV Filopatore 440. Tolomeo Neoteros 486. Tolomeo Soter 439. Tolosa 260. Tomi (Mesia inf.) 189, 201, 220, 383, 385, 386, 391.
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869 toparchie 428. tovparcoi bouleutaiv 651. Topirus 389. Torre Annunziata 36. Torino 75. Toronto 129. Totteanw'n Sohnw'n dh'mo" (Frigia) 714. Traci 6, 8, 153, 298, 358, 363, 364, 367, 372, 381-383, 387-393, 408, 616, 669, 696, 759, 782, tav. XVII. Tracia 184, 203, 273, 381-383, 387-391, 428, 432, 534, 549, 550, 552, 568, 610, 639, 650, 651, 653, 670, 675, 712, 715, 739, 754, tav. XVIII. Traconitide (Transgiordania) 430, 536. Traiani Portus tav. XXVI. Traiano 42, 98, 120-122, 127, 149, 153, 157, 161, 165-167, 169, 170, 174, 177, 178, 183, 184 sg., 208, 209, 213, 214, 220, 225 sgg., 231, 234, 253, 265, 272, 278, 279, 281, 282, 292, 293, 304, 311, 322, 328, 329, 341, 371, 376, 379, 380, 382-384, 387, 389, 392, 393, 409, 422, 425, 463, 486, 500, 503, 507, 508, 510, 541, 550-568, 572, 574, 579, 580, 583, 591, 593, 597, 599-601, 610, 613, 617, 620, 626, 640, 645, 654, 655, 662, 674, 687, 688, 707, 753, tavv. XVII, XXII, XL, XLV, LXVIII, LXIX, LXX, LXXI. Traiano arco di, 559 sg., tav. LXVIII; colonna 551, 553, tavv. XVII, XXII, XL, XLV, LXIX. Traianopoli (Tracia) 184, 389. Tralles (Asia Min.) 401, 578. Tranquillitas (come dea) tav. LXXI. Transgiordania 126-128, 184, 185, 429433, tavv. XIX, XLVIII. Transilvania 531. Translucanus, pagus 330. Transpadana, regio 122, 209. Trasea, Peto 158. trasporti 124, 206, 216., 229 sgg., 239, 263, 445, 591 sgg., 626, 705; per acqua 263, 593, 721 sg.; di derrate alimentari (annona) 206, 208 sg., 230 sg., 647, 692; dell’esercito 551 sg., 554, 594, 632, 647, tavv. XV, XL, LXIX; come liturgia 588, 590 sgg., 632, 719, 721 sg., 761, 766; mezzi
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206, 239, 552, 594, 632; statizzazione 206, 692; per terra 206, 207 sg., 577, 593 sg., tav. XXXIX. trasportatori 229, 235, 244, 249, 342, 437, 445. travpezai 268 sg., 272, 456, 702. Trebenisˇte (Macedonia) 364. Treveri 342, 346, 706. Treviri 215, 228, 235, 239 sg., 243, 244, 247, 260, 315, 340, 342, 345 sg., 349, 352, 594, tavv. XXV, XXXIX, LXXVIII, LXXIX. tribus 12. Tridentum 111, 115, 316. Trieste vd. Tergeste. Trimalcione 35, 73, 74, 138, 207, 214, 240, 499, tavv. VII, XII. Tripolis 197, 201, 496, 518, 523, 623. Tripolitania 197, 486, 518-524, 529, 537, 624, 649, tavv. LIX, LXI, LXVII. Trita (divinità) 363. Tritoni tav. LVIII. Trittolemo tav. XIII. Trocetta vd. Cesarea. Troesmis (Mesia inferiore) 383, 384. Trezene (Grecia) 555. Tropaeum Traiani (Mesia inferiore) 384. Trophimus 401. Trullenses (Tracia) 386 sg. Tubias 431. Tuletanensis, saltus (Africa) 500. Tunisi tavv. XXVIII, LVIII, LX, LXII, LXXVI, LXXVIII. Tunisia 189, 197, 503, 649, tavv. LVIII, LXII, LXIII, LXXVI, LXXX. Turah (Nubia) 472. Turchi 418, 776, tav. XXIV. Turkestan 390. Turnacum (Tournai) 340. Turranio, C. 455. Turre Mucaporis (Mesia inferiore) 385. Turris (Sardegna) 323. Turris Tamalleni (Africa) 503. Tyana (Asia Minore) 736. Tyche 496, tavv. XVI, XXVI. Tyndaris (Sicilia) 321. Tyranus, T. Atinius T. f. Fabia 453. Tyras, fiume 383; città (Bosforo) 383, 408, 409, 413.
Ubii 342, 346. Uchi Maius (Africa) 197, 209, 495, 496, 498, 511, 652, 653. Ucubi (Africa) 498. Udine 96. Udna (Africa) tavv. LXIII, LXXVI; vd. Uthina. Ued Atmenia (Algeria) 771, tav. LXXVI. Ugri 219. Ulmetum (Mesia inferiore) 385, 386, tav. XLIII. Ulpiana (Mesia superiore) 376. Ulpii 385. Ultinsium, vicus (Mesia inferiore) 386. Umbria 12, 38, 75, 209, 706. Umbrii 365. Umbro-Sabelli 11. Umeri (Spagna) tav. XXXV. undecimprimi 504, 598; vd. decemprimi. Urali, monti 87. Uranio, Antonino 427. urbanizzazione 539, 544 sg., 567 sg., 583, 585; in Italia 12, 25; nelle province 63 sgg., 152, 155, 183 sg., 206 sg., 359, 365, 432 sg., 508, 539, 559, 649 sgg.; Africa, 496 sgg.; Dacia 550; Dalmazia 365 sg.; Egitto, 438 sg., 463 sg.; Macedonia 391 sg.; Mesia 372, 550; Norico 357 sg.; Pannonia 372; Sicilia 318 sgg.; Spagna 184, 324 sg.; Tracia 389, 550; conseguenze di essa per l’evoluzione economica 585 sgg., 591 sgg. Urbino 97. Urgulanilla 452. Uselis (Sardegna) 497. oujs ivai 447, 451, 453, 457, 726. Uthina (Africa proconsolare) 512, tav. LXIII; vd. Udna. Utica 488, 491. Utius, C. tav. XLIV; P. tav. XLIV. Uzalis (Africa proconsolare) 492. Vaballato 427, 673, 674. Vaccaei (Spagna) 364. Vaga (Numidia) 495, 652, 653. vagi 754. Vaison 190, 592. Val Camonica 115. Val Catena (Istria) tav. XLI.
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Indice dei nomi e delle materie Valens, L. Pompeius 386 Coccius 386; M. Longinius 464. Valente, imperatore, 399 sg.; usurpatore, 673. Valentiniano I. 484. Valentia (Sardegna) 323. Valeria Gai 462. Valeriani 663. Valeriano, Annio Ottavio tav. XXXIII; P. Licinio 422, 427, 668, 671, 672, 698, 712, 742 sg. Valerius, C. 447. Vallensium, Forum Claudii 111. Vallis Poenina 111. Val Trompia 115. Vanacini (Corsica) 323, 324. Vandali 488, 500, 674. Vanisnenses (Africa) 508. Varciani (Pannonia) 376. Varo 69. vectigalia 205, 225, 227, 265, 337, 492, 597, 601, 658. Veii 12, 317. Veleia 149, 300; tabula Veleias 304, 316. Velitrae 207. Venafro 33. Venere 106, tavv. XXVI, XLVI; V. Ericina 318; Venus Genetrix tav. XIII; Venus Victrix, tav. LXXVII; V. Pompeiana tav. XVI. Venta Silurum (Caerwent, Inghilterra) 202, 352. Venus vd. Venere. Vercelli 239. Verecundensis, vicus (Africa) 507, 508. Verecundus tav. XVI. veredarii 652. Vero, L. 227, 425, 555, 593, 624, 627, 655. Verobrittianus, vicus (Mesia inferiore) 385. Verona 189, 190, 356, 670. Verre, C. 10, 37. Vespasiano 115-117, 119-123, 146, 149, 151-164, 171, 173, 174, 183, 184, 220 sgg., 304, 308, 323, 324, 329, 337, 340, 341, 366, 367, 428, 447, 451, 453, 454, 456, 457, 486, 487, 497, 546 sg., 549, 551, 560, 567, 596, 606, 661, 696, 732, 749, 779. Vesta tavv. XV, LXXIII. Vestino, prefetto d’Egitto 146.
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871 Vesuvio 79, 299, 300. Vetera, castra 341 sg. veterani 38, 119, 559, 653, 654, tav. LXVIII; come aristocrazia urbana 30 sg., 278, 329, 366, 367, 431 sg., 458, 517; ausiliari 329; esenti da liturgie 615; proprietari agrari 41, 70, 76, 95, 278, 350, 355, 376, 384, 386, 445 sg., 458 sg., 556 sg., 727, con domicilio urbano 41 sg., 312, 376; stanzionamento 31, 33, 41, 68, 496, 498, 556, 653, 703 sg., 737, 754, tav. LXVIII. vetro 88, 92, 95, 96, 101, 129, 130, 133, 219, 227, 236, 247, 249, 254-256, 260-262, 267, 294 sg., 342, 659, 693, tavv. LV, LXXX. Vettii 134; casa dei, tavv. XIV, XV. Vetulonia tav. III. vexillationes 226, 689. Viatka (Russia) 92. Vibio, Publio 729, 730. vicani 315, 317, 393, 507. vicarii 178, 535; servus vicarius 148. Vicetia 356. vici 177, 312, 315, 317, 338-340, 375, 385, 393, 507, 508, 652, 738. vicini 403. vicoministri 138. Victor, Caesius 393. Victoriae castrum (Africa) 504. vie di comunicazione 21, 67, 71, 75, 84, 87, 108, 127, 128, 134, 202, 206, 207, 220, 223, 225, 226, 228, 231, 232, 235, 247, 281 sg., 287, 290 sg., 340, 341, 350, 393, 409, 418 sg., 430, 464, 474, 518, 523, 551 sgg., 592, 594, 647. Vienna 273, tav. XIII. Vienna, colonia Iulia (St.-Roman en Gal) 338, tav. XXXVI. vignaiuoli 80 sg. vigneti 23-27, 35, 80, 83, 88, 136 sg., 141, 142, 308, 311, 312, 455, 458, 461, 491, 556, 711, 717, 729, tav. LXXVIII; lavori nei, tavv. XXXIII, LXIII; strumenti tav. XI. vilicus 79, 83, 142, 316, 322, 360, 367, 386, tav. LIX. villaggi 25, 38, 262, 346, 355, 387, 403 sg., 421 sg., 428, 434, 503, 539,
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596; attribuiti a campi legionari 372; a città 67, 399, 403 sg., 421, 432 sg., 496, 498, 504; trasformati in città 25, 64, 111, 184, 317, 375, 376, 403, 432, 650 sgg. ville: in Africa tavv. LII, LVIII, LIX, LXIII, LXXVIII; in Britannia 260, 352 sg. (Chedworth), tav. XLI; in Campania 35 sgg., 74, 141, tav. VIII; in Gallia 260 sg. (Anthée); in Germania 261, 345, 350; in Illiria 365, 365; in Istria 365 sg., tav. XLII (Brioni grande); in Palestina 429; in Siria 417; villae rusticae 34, 35, 79 sgg., 141, 346 sg., 350, 538, tavv. X, LIX, LXIII. Ville des Bois de la Louvrière (Belgio) 261 sg. Ville di Pompei 35 sg. Viminacium 215, 233, 372. vindemiatores 80 sg. Vindice 118. vindictarii 400. Vindonianus, vicus (Pannonia) 375. Vindobona 372. Vindonissa (Gallia) 121, 126, 202, 259, 337. vino: per l’esercito 235, 342; distribuzioni di 211, tav. XXXIII; come mezzo di pagamento 728; prezzi 137 sg.; strumenti per la preparazione 311, 717, tavv. X, XIV, XXV, LXIII. vino, commercio del, 10, 22, 25 sg., 44, 73, 79, 80, 88, 95, 133, 137 sg., 228, 229, 235, 236 sgg., 244, tavv. XXVI, XXIX; esportazione 22 sg., 87, 91, 236 sgg., 243 sg., 300, 308, 395; magazzini 79, 138, tav. X; spacci tavv. XXXIII, LXII; trasporto 231, tavv. XXXIV, XXXIX. Vipasca (Spagna) 155, 328; lex metalli 155, 286, 533 sgg. Virtus tavv. XIII, LXVIII. Virunum (Norico) 63, 96, 202, 236, 239, 358, 359. Vitellio 117, 120, 151, 171. viticoltura 10, 22, 25 sg., 35, 79, 88, 91, 124, 125, 133 sgg., 228, 235, 300, 345, 360, 365, 394, 395, 408, 417, 418, 428, 430, 438, 454, 455, 461, 488, 512, 537, 728 sg., 759: divieto nelle province 25, 308 sgg., 556, 711
sg.; protezione in Italia 308, 711 sg.; regresso 300 sg., 571, 717; sovraproduzione 141, 307. Vittoria tavv. XIII, XVIII, XXX, LXXIII, LXXV, LXXVII, LXXIX. Vittore, Arrio 620, 621; P. Sallustio Sempronio 660. Vittorico (Veroca) 679. Vittorino, M. Piavonio 674. Vitulo, M. Rossio 597, 632. Vocontii (Gallia) 338. Vologesias 282, 284, 293. Volsci 12. Volusiano 663. Volubilis (Mauretania) 107, 111, 115 sg., 197, 201, 497 sg., 517. Vopisco, Flavio 618, 665. Vorode, Settimio 427. Vulcano 357, tavv. XVIII, XLVI. Waldfischbach (Palatinato) 532. Washington 129. Weisenau 244. Wetterau 350 sg. Wroxester (Inghilterra) 352. Württenberg 190, 340, 350. Xifilino 638. Yale (Università) 127, 128. York 236, tav. XLI. Zara 96, 364, 368. Zcambu, vicus (Macedonia) 393. zecche 692. Zelea (Frigia) 401. Zelobastanhv, kwmarciva (Tracia) 387. Zenobia 289, 655, 673, 674, 675, 691, 704. Zenone 4, 215, 322; papiri di Z., 4, tav. LIII. Zhrkolhnhv, kwmarciva (Tracia) 387. Zeugei (Africa) 492. Zeus 402, 574, tav. XIII; Z. Chrysaor 399; Z. Panamaros 399. Zeuxi, Flavio 248. Zimizenses (Zimizes) (Africa) 503, 504.
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Indice dei nomi e delle materie Zliten (Tripolitania) 197, 524, 537, mosaici tav. LIX. Zorauhnw'n mhtrokwmiva (Transgiord.) 431.
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873 Zorauhnw'n gewrgoiv (Transgiordania) 431. Zorzines, re dei Siraci, 413. Zulouxenuv (Tracia) 387.
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Indice degli autori moderni citati nel testo, nelle note e descrizioni delle tavole
Abaecherli A.L., 105n.
Abamelek-Lazarev P., 201n. Abbott F.F., 64n., 72n., 107n., 112n., 115n., 184n., 205n., 209n., 280n., 323n., 568n., 578n., 582n. Abel F.M., 431n. Abele Th.A., 60n. Abramicˇ M., 202n., 232n., 239n., 364n., 368n., 372n., 707n.; tavv. XLIII, XLIV. Albeda J., 324n. Albertini E., 67n., 104n., 197n., 328n., 329n., 500n., 504n., 508n., 578n. Albizzati R. 497n. Alexander P.J., 566n. Alföldi A., 380n., 390n., 652n., 371n., 391n., 668n., 671n., 697n., 732n., 733n. Allard P., 262n., 649n., 775n. Allen K., 55n. Allmer A., 189n. Almgren O., 216n. Altheim F., 619n., 691n. Amelung W., 137n., tav. II. Amiranscvili A., 407n. Amundsen L., 152n., 179n., 464n., 640n., 642n. Ancona M., 674n. Anderson J.G.C., 63n., 107, 125n., 201n., 298n., 352n., 587n., 634n., 690n., 713n., 714n. Andrae W., 290n. Andreades A.M., 1n., 233n. Andriesescu I.G., 380n. Antonelli U., 262n.
Appleton C., 706n. Arangio-Ruiz V., 56n., 63n., 275n. Arkas Z., 408n. Arne T., 133n., 219n. Arnold W.T., 63n. Asboek A., 400n. Ashby Th., 76n., 186n. Ashmole B., tavv. XXXIII, LIX. Assmann, 254n. Atkinson D., 126n., 352n., 355. Aubin H., 219n., 236n., 254n., 260n., 342n. Audollent A., 189n., 605n. Aurigemma S., 197n., 395, 518n., 537n., tav. LIX. Avogadro S., 458n. Aymard J., tav. LXXX. Baaz E., 636n. Babelon E., 189n., 700n. Babelon J., 45n., tav. LXXIX. Babut E.Ch., 754n. Bachmann W., 201n. Bacon B.W., 431n., 432n. Bacon F.H., 202n., tav. XVIII. Baedeker, tav. XIX. Baehrens W.A., 165n. Baillie Reynolds P.K., 714n. Ballou, 445n. Ballu A., 197n., tav. XXII. Balsdon J.P.V.D., 104n., 105n. Bang M., 107n., 143n., 147n., 148n., 605n. Barbagallo C., 173n., 542n., 647n., 785. Bardt C., tav. XLIII.
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Barker E.A., 3n. Barnabei F., 36n., 45n. Barrow B.H., 148n. Barthel W., 328n., 338n., 376n., 495n., 497n., 498n., 499n., 503n., 584n. Bartoccini R., 197n., 529n., 547, 610n., 619n., tav. LIX. Bartoletti V., 181n. Bassett H.J., 642n. Baur P.V.C., 201n. Baynes N., 666, 667, 667n., 668n., 690n., 733n., 751n., 762n., 785. Becker P., 408n. Beer G., 422n. Behrens G., 244n. Beigel R., 269n., tav. XLIII. Bell G., 425n. Bell H.I., 105n., 107n., 116n., 146n., 162n., 163n., 202n., 210n., 440n., 443n., 445n., 453n., 456n., 601n., 771n., 772n. Bellinger A., 551n., 553n. Bellissima G.B., 560n. Beloch J., 1n., 3n., 38n., 321n., 778n. Beltrami A., 641n. Bendinelli G., 280n., tav. XXXIII. Benedict C.H., 229n., 244n., 256n., 338n. Benedict R.O., 277n. Benndorf O., 198n. Bennett H., 706n. Benzinger I., 422n., 426n., 427n. Bequet A., 261n. Béquignon Y., 534n. Berger A., 330n. Bernays J., 160n. Bernhardt M., 270n. Berr H., 750n. Berthelot A., 428n. Besnier M., 20n., 26n., 45n., 87n., 300n., 311n., 404n., 508n., 531n., 610n., tav. III. Besta M.C., 532n. Beuchel F., 382n. Beurlier E., 105n. Bevan E., 429n. Bianchi P., 676n. Bickermann E., 105n., 210n., 440n., 464n., 540n., 641n., 708n. Bidez J., 422n., 657n. Bihlmeyer K., 636n. Billeter G., 559n., 702n.
Billiard R., 76n., tav. XXXVI. Binding K., 273n. Birley E., 640n. Blackmann W.S., 444n. Blake M., 38n., 322n., tav. LII. Blanchet A., 671n., tav. XV. Bloch G., 34, 104n. Blümlein K., 190n., 345n. Blümner H., 531n., tavv. IV, XXXIII. Blumenthal F., 105n. Boak A.E.R., 31n., 456n., 621n., 757n., tav. LV. Bobcˇev S., 202n., 384n. Boesch C., 553n. Boeswillwald E., 197n., tav. XXII. Boethius A., 98n., 552n. Böhm F., 106n., 148n. Bohn O., 24n., 26n., 327n., 337. Boissevain Ph., 530n., 541n., 580n., 637n., 638n., 648n., 656n., 691n., 736n. Boissier G., 60n., 197n. Bolin St., 133n., 219n. Boll F., tav. LVIII. Bonacelli B., 487n. Bonfante P., 641n. Bonnard L., 254n. Bormann E., 371n., 372n., 375n., tav. LXXIV. Bosanquet R.C., 476n. Bosch-Gimpera P., 324n. Bott H., 762n. Bouchier E.S., 18n., 197n., 201n., 323n., 417n. Boulanger A., 172n., 181n., 198n., 213n., 402n. Bourguet E., 394n. Bowermann H.C., 55n. Box H., 395n. Boyce G.K., 106n. Boyd C.E., 173n. Boyé A., 274n. Brandis C.G., 201n., 380n., 598n. Breasted H., 128n. Breccia E., 65n., 101n., 186n., 202n., 204n. Brentano L., 542n., 772n. Brewster E.H., 74n., 87n., 216n., 255n., 266n. Britschkov M., 623n. Brizio E., tav. XXVII. Brogan O., 133n.
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Indice degli autori moderni citati nel testo, nelle note e descrizioni delle tavole Brogger A.W., 133n. Broughton T.R.S., 397n., 488n., 499n., 568n. Brown W.E., 425n. Brückner, 582n. Brünnow R., 201n. Bruns C.G., 115n., 276, 311n., 317n., 330n., 399n., 601n., 608n. Bruns I., 581n. Brusin G., 25n., 96n., 190n., 215n., 232n., 619n., tav. XXXII. Bryant E., 170n., 579n. Buckland W.W., 250n., 581n. Buckler W.H., 260n., 267n., 268n., 427n., tav. XLVI. Buckmann-Hall W.R., tav. XLI. Buday A., 391n. Bücheler F., 426n. Bücher K., 542n., 765n. Bürchner L., 189n., 198n., 264n. Bulard M., 20n. Bury J.B., 104n., 750n. Buschor E., tav. II. Butler H.C., 201n., 417, 417n., 431n. Butler O.E., 642n. Byrne A.H., 19n. Byvanck A.W., 198n. Cagnat R., 43n., 45n., 52n., 69n., 87n., 110n., 115n., 189n., 197n., 203n., 215n., 228n., 230n., 232n., 271n., 311n., 375n., 495n., 503n., 504n., 509n., 511n., 530n., 537n., 547n., 605n., 704n., tavv. XXII, XXVII, XXXVI. Calder W.M., 157n., 198n., 274n., 298n., 401n., 402n., 404n., 427n., tav. XLVI. Calderini A., 25n., 232n., 266n., 267n., 443n., 444n., 559n., 580n., 670n., tav. LXIX. Calhoun G.M., 1n. Calmette J., 190n. Calza G., 38n., 97n., 98n., 190n., 203n., 230n., 234, 235n., 280n., 316n., tavv. XXIII, XXVII, XXX, XXXI. Cameron A., 402n. Canina L., tav. IV. Cantacuzène G., 409n., 425n., 534n., 555n., 594n., 707n.
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Cantarelli L., 229n., 230n. Cantineau J., 284, 290, 292, 294, tav. XLIX. Carcopino J., 28n., 31n., 34, 37n., 55n., 98n., 190n., 275n., 300n., 464n., 497n., 500n., 508n., 510n., 517n., 551n., 559n., 560n., 649, 649n., 691n., 704n., 706n., 728n. Cardinali G., 48n., 62n., 64n., 72n., 110n., 205n., 443n. Carl G., 193n., 137n. Carpenter R., 324n. Carrington R.C., 35n., 37n., 79n., 80n. Carton L., 197n., 256n., 503n., 509n., 547. Cary M., 45n., 269n. Casson S., 364n., 381n., 385n., 386n., 391n. Cavaignac E., 23n. Cesano A., 700n. Cesano L., 60n. Chabot J.B., 201n., 226n., 427n. Chapot V., 104n., 189n., 198n., 201n., 203n., 205n., 215n., 232n., 264n., 265n., tav. XXXVI. Charlesworth M.P., 87n., 108n., 128n., 129n., 130n., 161n., 224n., 228n., 232n., 236n., 247n. Chatelain E., 676n. Chatelain L., 115n., 197n., 495n., 498n. Cheesman G.L., 425n., 476n. Cheikho L., 201n. Chilver G.E.F., 53n., 60n., 95n., 115n., 121n., 147n., 148n., 156n., 236n., 363n., 531n., 782n. Christ W., 159n., 172n. Christescu V., 380n. Chvostov M., 87n., 101n., 130n., 223n., 224n., 226n., 247n., 249n., 266n., 473n., 476n., 479n., 480n., 483n. Ciaceri E., 9n., 104n. Ciccotti E., 542n., 782n. Cichorius C., 29n., 44n., 145n., 264n., 425n., tavv. XVII, XL, XLV, LXIX. Clarke J.T., 202n., 215n. Clausonn.Y., 233n. Clerc M., 190n. Cohen H., 656n., tavv. LXXI, LXXII, LXXIII, LXXV, LXXVII, LXXIX. Colin J., 7n., 190n. Colini A.M., 48n., 484n.
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Collart P., 337n., 392n., 393n., 451n., 456n., 461n., 462n., 572n. Collignon M., tav. LI. Collinet P., 274n. Collingwood R.G., 190n., 259n., 261n., 352n., 356n., 566n., 607n., tav. XLI. Comfort H., 45n., 260n. Comparetti D., 728n. Constans L.A., 115n., 190n., 197n., 230n., 244n., 511n. Conti-Rossini C., 473n. Conze A., 174n. Cormack J.M.R., 392n. Costa G., 670n., 700n. Cou H.F., 35n., tav. XI. Couissin P., 755n. Courteault P., 236n. Cowles F.H., 37n. Cox C.W.M., 198n., 427n., tav. XLVI. Coxe E.B., 472n. Crees J.H.E., 675n., 703n., 712n. Croenert W., 75n. Crowfoot J.W., 472n., 473n., 479n., 480n., tav. XIX. Crum W.E., 446n. Cultrera M., 203n. Cumont F., 96n., 128n., 190n., 201n., 224n., 227n., 228n., 243n., 253n., 259n., 261n., 274n., 298n., 337, 337n., 340n., 345, 345n., 359, 407n., 409n., 422n., 425n., 432n., 655n., 657n., 691n., 708n., tavv. XII, XLVI. Cuntz O., 53n., 69n., 232n., 317n., 321n., 359n., 540n., 554n., 598n., 601n. Cuq E., 7n., 45n., 97n., 115n., 250n., 487n., tav. XII. Curcio C., 21n. Curtius L., 189n. Daicoviciu C., 380n., 671n. Dall’Olio G., tavv. III, XXVII. Dalman G., 201. Dannhäuser E., 675n., 700n. Daremberg Ch.V., 52n., 60n., 76n., 87n., 98n., 110n., 228n., 232n., 261n., 269n., 271n., 316n., 317n., 339n., 375n., 404n., 508n., 531n., 711n.,
tavv. XII, XXVII, XXVIII, XXIX, XXXV, XLVI. Dareste R., 277n. Daubrée A., tav. XXXV. Daumet H., 248n. Davies O., 531n. Davis N., tav. LXXX. Day J., 35n., 75n., 80n. De Cou H.F., 35n. De Dominicis M., 230n. De Francisci P., 185, 276n. De Gérin-Ricard H., 339n. Degrassi A., 280n. Deissmann A., 105n., 444n. De la Berge C., 550n. Delbrück H., 535n., 635n., 657n., 732n. Delbrück R., tav. LXXVII. Della Corte M., 36n., 37n., 60n., 74n., 80n., 83n., 134n., 137n., 138n., 141n., 147n., 148n., 189n., 307n., 390n., tavv. VII, X, XI, XIV, XV, XVI, LXII. Della Seta A., 243n. Del Marmol E., 261n., 262n. De Loe A., 261n., 262n., 337n., 340n. De Longpérier A., tav. LIX. De Marchi A., 211n. De Martino F., 48n. Demitsas M.G., 391n., 392n., 393n. De Morgan J., 407n. De Pachtère F.G., 149n., 300n., 559n., 568n. De Ruggiero E., 72n., 107n., 110n., 186n., 230n., 272n., 317n., 327n., 330n., 380n., 388n., 421n., 426n., 566n., 596n., 670n., 671n., 676n., 700n., 714n., 741n., 785. De Sanctis G., 6n., 28n., 65n., 107n., 115n., 365n., 585n., 665, 667n., 732n. Deschamps P., 201n. Dessau H., 24n., 29n., 48n., 64n., 66n., 68n., 104n., 115n., 116n., 118n., 121n., 128n., 157n., 172n., 184n., 189n., 205n., 225n., 226n., 232n., 233n., 254n., 298n., 304n., 316n., 317, 317n., 328, 328n., 329n., 330n., 337n., 339n., 363n., 366n., 368n., 376n., 386n., 389n., 390n., 393n., 396n., 397n., 398n., 399n., 400n., 402n., 408n., 427n., 429n.,
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Indice degli autori moderni citati nel testo, nelle note e descrizioni delle tavole 432n., 440n., 443n., 456n., 487n., 495n., 496n., 497n., 498n., 499n., 500n., 503n., 504n., 507n., 508n., 512n., 517n., 531n., 532n., 541n., 559n., 567n., 568n., 593n., 597n., 601n., 605n., 608n., 616n., 631n., 633n., 637n., 641n., 660n., 664667, 667n., 679n., 706n., 708n., 712n., 715n., tavv. IV, XXXII, XXXVI, LXXIV. De Visscher F., 661. De Vogué, tav. XLVIII. De Witt N.J., 66n. De Zulueta F., 274n., 276n., 738n. D’Hérouville P., 76n., 537n. Dickey S., 429n., 542n. Diehl Ch., 198n., 588n. Diehl E., 665, 667n., 668n. Dierauer J., 550n. Dill S., 73n., 765n., 771n., 778n. Dissard P., 189n., 659n. Dittenberger W., 3n., 75n., 107n., 144n., 146n., 173n., 179n., 204n., 205n., 208n., 209n., 213n., 224n., 225n., 235n., 248n., 250n., 265n., 271n., 276n., 388n., 389n., 394n., 395n., 399n., 400n., 402n., 403n., 407n., 422n., 430n., 456n., 479n., 487n., 530n., 531n., 532n., 554n., 567n., 568n., 577n., 578n., 634n., 647n., 648n., 651, 707n., 708n., 713n., 715. Dobiasˇ J., 381n., 414n., 670n. Dobó A., 232n., 372n., 380n. Dobrusky W., 202n. Dörner F.K., 107n., 108n. Donnadieu B.A., 190n. D’Orbeliani R., 401n., 555n. Douel M.D., 547. Downey G., 417n. Dragendorff H., 190n., 215n., 219n., 240n., 259n., 340n., tavv. XXV, XXXIX, LXXVIII. Drexel F., 110n., 215n., 240n., 243n., 244n., 267, 270, tavv. XXV, XXXIX. Drexler H., 429n. Dubois Ch., 45n., 74n., 190n., 235n., 461n., 531n. Ducati P., 9n. Duff A.M., 148n. Durrbach F., 20n., 23n., 26n., 45n. Duruy V., 574n.
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Dury M., 52n., 53n., 122n. Dussaud R., 201n., 267n., 337n., 430, 430n., 433n., tav. XLVIII.
Edgar C.C., 3n., 431n., tavv. LI, LIII. Egger R., 61n., 202n., 358n., 359n., 421n. Ehrenberg, 276n. Eitrem S., 105n., 572n. Engelmann N., 189n. Ensslin W., 28n., 230n., 495n., 657n., 668n. Erman H., 148n. Espérandieu E., 240n., 269n., 346n., tavv. XXV, XXIX, XXXVII, XXXVIII, XXXIX, LXXIV. Esser J.J., 211n. Fabia Ph., 107n., 118n. Fabricius E., 28n., 652n. Falchi I., tav. III. Fazio M., 6n. Feliciani N., 118n., 380n. Ferguson R.M., 368n., 607, 614, 615, 616, 720n. Ferguson W., 3n. Fernique E., tav. II. Ferrabino A., 48n. Ferrero G., 732n., 779, 779n. Ferri S., 240n., 487n., 529n. Fettich N., 391n. Fevrier J.G., 226n., 286n., 427n., 673n. Fiebig P., 590n. Fiebiger O., 351n., 714n. Fiechter E., 578n. Fiehn K., 531n. Fiesel L., 224n., 233n. Filov B., 185n., 202n., 359n., 364n., 382n., 387n. Fink R.O., 619n. Fiorelli G., 34n., 35n. Fischer C.S., 376n. Fischer F., 146n. Fitzler K., 47n., 68n., 534n. Fluss M., 610n., 617n. Fölzer E., tav. XXXIX. Förster R., 186n. Forestier A., tav. XLI. Forrer R., 190n.
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Fox G.E., 261n., tav. XLI. François L., 154n. Francotte H., 204n. Frandsen, 72n. Frank T., 6n., 9n., 20n., 21n., 23n., 24n., 25n., 26n., 27n., 28n., 34n., 37n., 38n., 45n., 55n., 64n., 66n., 67n., 72n., 79n., 80n., 95, 95n., 97, 97n., 125n., 126n., 133n., 138n., 148n., 155n., 189n., 229n., 235n., 255n., 260n., 272n., 304n., 311n., 317n., 327n., 352n., 395n., 397n., 398n., 421n., 443n., 446n., 448n., 487n., 488n., 500n., 531n., 545, 553n., 573, 578n., 582n., 607, 614n., 631n., 661, 721n., 758n., 762n., 782n., 783n. Frankfurter S., 202n., 219n. Franks A.W., tav. LXXX. Frazer H.M., 537n. Fremersdorf F., 259n., 267n., 295. Friedländer L., 25n., 60n., 72n., 73n., 87n., 107n., 110n., 128n., 143n., 147n., 148n., 157n., 211n., 707n., tav. XXXV. Friis-Johansen F., 133n., 217n. Frisk H., 128n., 620n., 646n. Fröhner P., 454n. Frothingham L.A., 75n. Früchtl A., 19n. Fuhrmann H., 235n. Furneaux H., 125n., 272n., 352n., 534n. Furtwängler A., tav. II. Gabriel A., 201n., 426n. Gaebler H., 391n. Gagé J., 105n., 610n. Gaheis A., 371n. Gardthausen V., 530n. Gargazé S., 407n. Garroni A., 634n. Garstang J., 472n., 473, 473n., 475, 475n., 476n., 480, 483n. Gastinel G., tav. VI. Gauckler P., 254n., tavv. LVIII, LXII, LXIII. Gauthier H., 440n. Geffcken J., 142n., 172n., 666, 667n., 777n. Gelzer M., 19n., 28n., 32n., 60n., 214n., 279n., 641n., 751n.
Gentile I., 213n. Gercke A., 47n., 48n., 104n., 118n., 667n. Geweke L.K., 48n. Ghirardini G., tav. LXXX. Ghislanzoni E., 487n. Gibbon E., 613n., 751n., 776. Gilliam J.F., 128n. Gilliard F., 337n. Ginsburg M.S., 429n., tav. LXXX. Giovannoni R., 203n. Girard P., 250n., 276, 608n. Girke G., 261n. Glotz O., 1n., 28n. Gnecchi F., tav. LXXIX. Gnirs A., 25n., 197n., 239n., 351n., 359n., 360, 360n., 363n., 371n., tav. XLII. Godefroy J., 751n. Goessler P., 190n., 350n. Goldschmidt L., 276n., 277n. Goodenough E.R., 159n., 436n. Goodspeed E.J., 452n. Gordon M., 148n., 149n., 782n. Gottschald M., 48n. Gouvet Ch., tav. LVIII. Gradenwitz O., 276, 311n., 317n., 330n., 399n., 601n., 608n. Gradenwitz P., 720n. Graebner F., 664n. Graeven H., tav. XVIII. Graffunder P., 186n. Graham A., tav. LXXX. Graindor P., 213n., 226n., 395n., 396n. Graser E.R., 762n. Gray W., 170n. Greaves I., 9n., 19n., 72n., 73n., 76n., 83n., 84n., 122n., 574n. Grégoire H., 201n. Grenfell B., 269n., 453n., 455n., 657n., 716n., 722n., 727n., 729n., tav. LV. Grénier A., 24n., 125n., 126n., 190n., 255n., 260n., 294, 317n., 339n., 607, 631n. Grether G., 148n. Grier E., 458n., 459n. Griffith F.Ll., 472n., 473, 473n., 475n., 476n., 479n. Grimm E., 60n., 105n., 166n. Grinevicˇ K., 408n. Groag E., 60n., 146n., 214n., 229n., 379n., 395n., 401n., 454n., 529n., 530n., 626n., 659n., 670n., 674n., 678n., 688n., 693n., 711n.
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Indice degli autori moderni citati nel testo, nelle note e descrizioni delle tavole Groebe P., 32n. Grosse R., 697n., 754n. Grupe E., 107n. Gsell St., 23n., 24n., 26n., 28n., 61n., 125n., 155n., 197n., 209n., 215n., 299n., 491n., 495n., 496n., 497n., 500n., 503n., 504n., 511n., 512n., 517n., 518n., 524n., 529n., 532n., 534n., 547, tavv. VI, XXXIV. Guarducci M., 484n., 765n. Guenoun L., 598n. Guey J., 231n., 554n. Guidi G., 198n., 199n., tavv. LXIV, LXV, LXVI, LXVII. Guignebert Ch., 267n. Gummerus H., 21n., 23n., 25n., 45n., 80n., 87n., 123n., 126n., 243n., 260n., 261n., 264n., 543n., tav. XII. Guthe H., 127n., 201n., 227n., 430n., tav. XIX. Gwatkin W.E., 404n., 405n. Gwynn A., 174n. Gylarz E., 473n. Haehnle A., 593n. Hahl L., 240n. Hahn L., 157n., 173n. Halkin L., 205n. Hallam G.H., 76n. Hammer J., 76n. Hammond M., 48n., 613n. Hampel H., 359n., 379n. Harden D.B., 294. Hardy E.G., 28n., 110n. Hardy E.R., 772n. Harper G.M.L., 421n., 431n., 432n. Harrer G.A., 610n., 623n. Hartmann L.M., 750n. Hasebrock J., 1n., 2n., 279n., 610n., 614n., 616n., 617n., 618n., 623n., 628n., 631n., 632n. Hatzfeld J., 20n., 26n., 208n., 399n. Haussoullier B., 274n. Haverfield F., 92n., 125n., 190n., 203n., 259n., 261n., 298n., 352, 352n., 355n., 356n., 359, 379n., 534n., 704n. Hay J.S., 643n. Haywood R.M., 311n., 397n., 488n., 518n., 623n.
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Heberdey R., 107n., 208n., 213n., 322n., 399n., 536n., 555n. Hébrard E., 198n. Heer J.M., 604n., 605n., 607n., 608n. Heichelheim F., 3n., 421n., 440n., 551n., 635n., 661, 733n., 751n. Heinen H., 105n. Heinze R., 118n. Heisenberg A., 771n. Heitland W., 21n., 27n., 43n., 112n., 137n., 138n., 300n., 312n., 315, 315n., 316n., 500n., 608n., 779n. Hekler A., 372n., 375n., 379n., tavv. XLIII, LXXV. Helbig W., tavv. II, LI, LXXV, LXXVII, LXXX. Hellems F.B.R., 151n. Henderson B.W., 118n., 151n., 170n., 179n., 550n., 565n., 566n. Hengstenberg W., 772n. Henne H., 145n. Hennig R., 253n., 254n., tav. LXXIV. Hentze C., tav. XXIV. Henze W., 676n. Herfurth K., 25n. Hermet F., 260n. Héron de Villefosse A., 36n., 228n., 230n., 244n., 338n., tavv. VII, XIII, XVIII, LI. Herrmann A., 220n., 224n., 286. Herrmann P., tavv. XIV, XV. Hertlein F., 190n., 340n., 341n., 350n., 351n. Herz D.J., 429n. Herzfeld E., 290. Herzog E., 105n. Herzog G., 610n., 643n. Herzog R., 45n., 174n., 204n., 269n. Herzog-Hauser G., 105n. Hesselmeyer E., 341n., 491n. Hetherington A.L., tav. XXIV. Hettner F., tavv. XXV, XXXIX. Heuzey L., 248n. Hild, 391n. Hill G.F., 429n., 430n., 618n., 619n. Hirschfeld O., 63n., 66n., 67n., 72n., 106, 107n., 109n., 110n., 144n., 145n., 151n., 154, 154n., 207n., 227n., 232n., 272n., 328n., 338n., 456n., 534n., 567n., 594n., 596n., 597n., 598n., 601n., 608n., 634n.,
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647n., 666, 706n., 707n., 708n., 714n., 726n. Hirst G., 55n. Hobson H.L., tav. XXIV. Hoenn K., 48n., 636n., 643n., 650n., 658n. Hoey A.S., 619n. Hohl E., 104n., 118n., 279n., 551n., 618n., 664n., 666, 667n., 668n., 670n., 675n., 679n., 687n. Holl K., 298n. Holleaux M., 6n., 20n., 365n., 392n., 393n., 553n. Holmes T.R., 9n., 27n., 29n., 32n., 48n., 110n., 495n. Holwerda J.H., 339n., 340n. Hombert M., 443n., 461n., 772n. Home G., tav. XLI. Hommel F., 473n. Homo L., 7n., 104n., 197n., 280n., 486n., 668n., 670n., 671n., 674n., 688n., 690n., 711n., 732n. Homolle Th., tav. XLVI. Honigmann E., 201n., 407n. Hopkins C., 163n., 655n. Hornickel O., 445n. Hornig K., 375n. Horsfield G., tav. XIX. Hoskins F.E., 201n. Howald E., 115n., 121n., 233n., 234n., 254n., 337n., 785. Hudson G.F., 483n. Huebner E., 328n., tav. XXXV. Huelsen Ch., 25n. Huettl W., 579n. Hughes T.H., 203n. Hula E., 205n., 599n. Humann K., 201n., 578n. Hunt A., 266n., 396n., 409n., 555n., 594n., 657n., 772n., tav. LV. Huntington E., 582n. Huvelin P., 253n., 276n. Ingholt H., 292, 427n. Ippel A., 189n. Jacobone N., 95n. Jacono L., 532n., tavv. XII, XIV, LIII. Jacopi G., 765n. Jahn O., tav. IV.
Jalabert L., 201n., 407n., 432n. Jardé A., 228n., 617n., 636n., 643n., 684n. Jaussen A., 286. Jenison E.S., 37n., 321n. Jeremias J., 429n. Jessen O., 324n. Johannesen R., 4n., 197n., 279n. Johnson A.Ch., 64n., 72n., 107n., 112n., 115n., 184n., 205n., 209n., 323n., 568n., 578n., 582n., 628n., 654n., 719n., 721n., 722n. Johnson J., 233n. Jollife R.O., 7n. Jones A.H.M., 37n., 127n., 185n., 231n., 421n., 422n., 429n., 430n., 432n., 661, 751n., tav. XIX. Jones W.H.S., 711n. Jordan H., 186n. Jorgan., 703n. Jouguet P., 3n., 202n., 210n., 226n., 440n., 464n., 572n., 628n., 659n., 716n., 720n. Joulin L., 261n. Judeich W., 198n. Julien A., 547. Juliot G., tavv. XXV, XXXVII, XXXVIII. Jullian C., 24n., 26n., 60n., 66n., 92n., 184n., 189n., 190n., 228n., 236n., 254n., 255n., 298n., 337n., 338n., 339n., 340n., 359, 542n., 673n., 694n., 712n., 736n., tav. XXIX. Jung J., 358n., 359n., 376n., 380n., 391n. Jungklaus E., 96n., 133n. Junker H., 472n. Kaerst J., 3n., 108n. Kahrstedt U., 2n., 28n., 37n., 321n. Kaibel G., 209n. Kakabazé S., 407n. Kalen T., 654n. Kalinka E., 198n., 381n., 387n., 426n., 536n. Kalopothakes D., 387n. Kammerer A., 127n., 201n., 431n., 473n., 479n. Kampstra J., 598n. Kazarov G.I., 198n., 359n., 381n., 382n., 384n., 387n., 388n., 391n., 393n., 534n., 652n., 784n.
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Indice degli autori moderni citati nel testo, nelle note e descrizioni delle tavole Keil B., 6n., 38n., 226n., 267n., 271n., 678n. Keil J., 74n., 107n., 108n., 174n., 186n., 198n., 207n., 208n., 232n., 264n., 265n., 397n., 398n., 402n., 403n., 404n., 432n., 531n., 578n., 580n., 594n., 596n., 597n., 601n., 604n., 616n., 619n., 622n., 627n., 633n., 634n., 701n., 707n., 713n. Kelsey F.W., 36n. Kennedy A., 201n. Keune B., 351n., 421n. Keyes C.W., 616n., 689n., 722n. Kiepert H., 403n. Kiessling E., 647n. Kjellberg E., 73n. Klaffenbach G., 63n. Klebs E., 618n. Klose O., 358n. Knipfing J.R., 688. Knoll F., 403n., 707n. Knorr R., 126n. Knorringa H., 1n. Knox A.D., 3n. Kock T., 577n. Koepp F., 190n., 259n., 340n. Koerber K., 244n. Koerte A., 265n., 400n. Koester A., 254n., tavv. XXVI, XLIX. Kondakov N., tav. XLVII. Kontchalovsky D., 28n. Kornemann E., 9n., 10n., 41n., 47n., 48n., 61n., 66n., 69n., 104n., 105n., 115n., 118n., 128n., 130n., 229n., 316n., 338n., 495n., 496n., 497n., 500n., 540n., 559n., 566n., 571n., 587n., 653n., 666, 667n., 779n. Kortenbeutel H., 223n., 480n. Koschaker P., 253n., 274n. Kostrzewski J., 92n., 133n., 219n. Kowalczyk G., 197n. Kraeling C.H., 185n., tav. XIX. Kraemer, 462n. Krasceninnicov M., 148n. Kreller H., 277n., 642n. Krencker D., 190n. Kroll W., 169n. Kromayer J., 27n., 34n., 41n., 300n. Krueger B., 409n. Krueger E., 215n., 240n., 345n., tavv. XXV, XXXIX, LXXVIII.
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Kubitschek W., 43n., 44n., 202n., 219n., 232n., 359n., 376n., 432n., 536n., 688n., tav. XVI. Kuebler B., 19n., 202n., 276n., 316n. Kugeas S.B., 20n. Kuhn E., 112n., 202n., 421n., 595n. Kunkel W., 133n. Lacey R.H., 277n., 278n., 566n. Lackeit C., 189n. Lafaye G., 76n., 186n., 187n., 261n., 271n., 531n., tav. XXXVI. Laird A.G., 716n. Lamborn E.A.G., 203n. Lambrechts P., 146n., 157n., 170n., 617n., 668n., 690n., 694n. Lambrino S., 23n. Lamer H., 204n. Lammens P.H., 253n. Lammert F., 707n. Lanckoronsky Ch., 198n. Landvogt P., 401n. Lang M., 379n. Lantier R., 190n., 256n., 337n., 503n., 507n., 532n. La Piana G., 148n. Larsen J.A.O., 395n., 553n. Last H., 122n. Latyscev B., 227n., 408n., 409n., 410n., 413n. Laufer B., tavv. XXIV, LVII. Laum B., 45n., 172n., 208n., 211n., 212n., 269n., 308n., 407n., 578n., 601n., 681n., 703n., tav. XII. Laur-Belart R., 337n. Lavedan P., 190n., 203n., 204n. Le Bas Ph., 308n., 402n., 432n. Lécrivain Ch., 269n., 316n., 665n., 667n., 668n., tav. XII. Ledroit J., 254n. Lee Howe L., 52n. Lefebvre des Noettes, 232n., 591, 592n. Legrand A., tav. XLVI. Lehmann K.F.W., 670n. Lehmann-Hartleben K., 45n., 55n., 235n., 253n., tavv. XII, XVII, XXVI, XL, XLV. Lehner H., 190n., 233n., 349, 350n., 391n. Le Maistre L., 534n. Lemerle P., 174n.
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Lenel O., 275n. Lenschau T., 198n. Leonhardt R., 201n. Le Pape A., 146n. Le Roy-Wallace S., 224n., 233n., 458n., 654n., 659n. Lesquier J., 52n., 230n., 372n., 445n., 446n., 458n., 464n., 541n., 581n., 646n., 653n., 704n., 720n. Leuze D., 128n. Levi M.A., 7n., 28n., 37n., 64n., 160n., 174n., 398n. Levi Della Vida G., 228n. Lévy E., 274n. Lévy I., 205n. Libbey W., 201n. Libertini G., 317n. Lichtenberger A., 19n. Liebenam W., 52n., 205n., 211n., 212n., 595n., 599n., 600n. Liebig J., 582. Liermann O., 211n., 213n. Lietzmann H., 173n. Lipsius H., 16n. Littmann E., 201n., 417n. Lizop R., 190n. Loane H.J., 45n. Loesch S., 107n. Loeschke S., 126n., 243n., 349n. Loewy E., 55n., tav. XIII. Lombroso-Ferrero G., 262n., 542n. Longden R.P., 554n. Lot F., 703n., 750n., 751n., 762n. Lotmar Ph., 581n. Lucas A., 267n. Lugli G., 186n., 388n. Lugli H., 76n. Lully G., 146n., 214n. Lumbroso G., 145n., 446n. Lyon D.G., 376n. Macchioro V., 148n., 559n., 610n. Mac Clees H., tav. III. Macdonald G., 261n., 352n., 356n. Mac Elderry R.K., 67n., 184n., 327n., 329n., 337n. Mac Fayden D., 48n. Macias M., 328n. Mac Iver D.R., 9n., tav. III. Maclennan H., 464n.
Macler F., 430n. Magie D., 407n. Mahieu M., 261n. Maionica E., 25n., 96n., 190n., tav. XXXII. Maiuri A., 36n., 60n., 137n., 189n., 198n., 265n., 559n., tavv. XIV, XXI, LIII. Malcovati E., 63n. Mancini G., 566n. Manigk A., 250n. Marçais G., 197n., 547. Marchetti M., 327n. Marconi P., 190n. Mariani L., tav. LIX. Maroi F., 706n. Marschall F.H., 647n. Marsh F.B., 7n., 28n., 32n., 104n. Marti J., 410n., 532n. Martin V., 443n., 461n., 572n. Martroye F., 738n. Maspero G., tav. LVI. Maspero J., 772n. Mateescu G.C., 782n. Matheson P.E., 580n. Mathew G., 671n. Matthies G., tav. II. Mattingly H., 63n., 105n., 110n., 118n., 151n., 167n., 219n., 270n., 271n., 560n., 668n., 670n., 700n., 701n., tavv. LXXI, LXXII, LXXIII, LXXV, LXXIX. Mau A., 34n., 35n., 36n., 83n., 134n., 189n., tavv. II, XIV-XVI, XLVI. Maurice J., 751n., tav. LXXIX. Mayreder K., 215n. Méautis G., 202n. Mehier de Mathuisieulx H., 649n., tav. LXI. Meitzen A., 338n. Mélida J.R., 328n. Meomartini A., 560n. Mercati S.G., 230n. Merle H., 201n. Merlin A., 197n., 209n., 259n., 311n., 495n., 496n., 497n., 498n., 511n., 512n., 537n., 559n., 568n., 588n., 652n., tavv. VI, LX, LXII, LXXVIII. Merzagora M., 254n. Mesk J., 181n. Meyer E., 32n., 115n., 121n., 233n., 234n., 254n., 337n., 427n., 785.
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Indice degli autori moderni citati nel testo, nelle note e descrizioni delle tavole Meyer P., 268n., 275n., 434n., 461n., 462n., 471n., 532n., 540n., 598n., 638, 639n., 647n., 657n., 658n., 662. Michel Ch., 75n. Milani A., tav. II. Miller E., 232n. Miller S.N., 610n., 616n., 661. Milne J.G., 64n., 146n., 271n., 443n., 638, 657n., 673n. Milton Vance J., 417n. Mingazzini P., 148n. Minns E.H., 201n., 274n., 409n., 410n. Mitteis L., 64n., 269n., 272, 273, 273n., 275, 277n., 403n., 646n., 717n., 724n. Mohler S.L., 61n., 577n. Molmenti P., 197n. Momigliano A., 52n., 107n., 108n., 446n., 641n., 661. Mommsen Th., 41n., 52n., 105n., 112n., 120n., 178n., 189n., 214n., 226n., 272n., 322n., 358n., 359n., 371, 391n., 492n., 530n., 540n., 559n., 574n., 581n., 641n., 665, 666, 697n., 700n., 708n. Monneret de Villard, 225n. Montelius O., 133n., tav. III. Montet P., 128n. Moret A., 435n. Moretti G., 707n. Morgan T., tav. LXXX. Morr J., 167n. Mouterde R., 201n., 294n., 407n., 417n., 422n., 426n., 431n., 432n., 537n., 578n., 708n. Mueller, 211n. Mueller E., 48n. Mueller I., 186n., 198n. Mueller K.O., 421n. Mueller-Graupa E., 517n. Muenscher K., 167n., 213n. Muenzer F., 19n., 28n., 387n., 452n., 458n. Murray G.W., 247n. Musil A., 201n. Mylius H., 345n. Myres J., 582n. Nallino A., 274n. Nerman B., 216n., 219n.
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Nesselhauf H., 232n., 233n., 349n. Nicolai A., 260n. Nicorescu P., 409n. Nielsen D., 473n. Niemann G., 198n. Nilsson M.P., 72n., 104n., 148n. Nischer E., 359n., 755n. Nissen H., 9n., 25n., 34n., 42n., 75n., 189n., 711n. Noack F., 197n., 230n. Nock A.D., 60n., 148n. Nogara B., tav. XXVI. Norden E., 47n., 48n., 55n., 104n., 118n., 125n., 133n., 635n., 667n. Norsa M., 64n., 65n.
Odobesco A., tav. LIX. Oehler F., 264n. Oelmann F., 341n., 345n. Oertel F., 1n., 403n., 443n., 445n., 462n., 463n., 588n., 590n., 625n., 646n., 647n., 701, 701n., 721n., 722n., 728n., 762n., 772n. Olck F., 537n. Oldfather Ch.H., 174n., 649n. Oliver J.H., 65n., 174n., 209n., 213n., 395n., 567n. Oliverio G., 486n., 487n., 546, 547. Olsson B., 70n., 458n., 462n. Oppermann H., 399n. Orlandos A.K., 392n. Ormerod H.A., 7n. Orth F., 9n., 101n. Ostrogorsky G., 751n. Oswald F., 262n. Otto W., 3n., 60n., 105n., 165n., 214n. Oxé A., 24n., 260n., 298n., 376n. Pais E., 9n., 26n., 38n., 41n., 115n., 142n., 197n., 317n., 330n., 363n., 531n., 559n. Panaitescu E., 380n. Pantzerhielm-Thomas S., tav. LXX. Paoli U.E., 74n., 719n. Pappadakis, 574n. Paret O., 190n., 350n. Paribeni R., 98n., 121n., 170n., 197n., 205n., 230n., 231n., 253 n., 380n., 382n., 551n.,
112n., 323n.,
185n., 235n., 552n.,
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559n., 560n., 578n., 670n., 671n., tavv. XXVII, XXXIV. Paris P., 197n. Parisius A., 668n. Park M., 45n. Parker H.M.D., 52n., 53n., 121n., 610n., 616n., 624n., 668n., 732n., 733n. Partsch J., 275n., 434n., 595n. Pârvan V., 74n., 87n., 201n., 228n., 229n., 232n., 233n., 236n., 248n., 359n., 380n., 382n., 383n., 384n., 385n., 386n., 495n., tav. XLIII. Paschetto L., 190n., tav. XXVII. Pasqui, 36n. Passerini A., 52n., 53n., 121n., 464n. Passov, 542n. Patsch C., 179n., 197n., 239n., 248n., 299n., 359n., 364n., 365n., 366n., 367n., 368n., 371n., 376n., 380n., 391n., tav. XL. Paulovicˇ S., 372n. Peaks M.B., 358n. Pearl O.M., 163n., 593. Pechonkin N.M., 408n. Peek W., 578n. Pelekidis S., 392n. Pellati F., 327n., 532n. Perdrizet P., 201n., 392n., 553n., tavv. XLVI, LI, LIII. Pernice E., 35n., 189n., tav. II. Perret L., 566n. Perrot G., 265n. Persson A.W., 249n., 266n., 658n. Peter H., 105n., 551n., 665n., 673n. Peters J.P., 254n. Petersen E., 198n., 559n., 560n., 580n., tavv. XVII, LV, LXVIII-LXX. Petersson T., 19n. Petri F., 72n. Pézard M., tav. L. Philipp H., 76n., 189n., 323n. Picard C., 20n., 189n., 392n., 393n., 580n. Pick B., 129n. Piganiol A., 452n., 762n. Pijoan J., 129n., tav. XXIX. Pillai, 224n. Pippidi D.M., 105n. Plasberg O., 47n. Plassart A., 553n. Platnauer M., 607n., 610n., 613n., 616n., 619n., 623n., 631n.
Platner S.B., 186n. Plaumann G., 202n., 275n. Pohl R., 210n. Poidebard A., 281, 417n., 426n., 537n. Poinssot L., 197n., 209n., 495n., 496n., 497n., 498n., 503n., 507n., 510n., 511n., 568n., 590n., 652n., tav. VI. Poland F., 264n. Pomtow, 7n. Pottier, tav. XLVIII. Powell U.J., 3n. Praschniker C., 248n., 367n., 368n., 391n. Preisigke F., 269n., 403n., 452n., 458n., 620n., 715n., 721n., 722n., 729n., 738n., tav. LI. Prentice W., 536n., 578n. Preuner E., 248n., tav. VII. Pridik E., 92n. Pringsheim F., 45n. Pryce T.D., 262n. Puchstein O., 201n., 578n. Puschi A., 317n. Rabel E., 646n. Ramsay W.M., 47n., 198n., 201n., 208n., 209n., 264n., 298n., 397n., 402n., 404n., 530n. Randall J., 356n. Rau R., 365n. Regling K., 129n., 216n., 219n., 270n., 635n. Rehme P., 276n. Reid J.S., 43n., 112n., 115n., 116n., 125n., 317n., 329n., 337n., 751n., 757n. Reil T., 101n., 266n., 267n., 659n. Reinach A.J., 224n. Reinach S., 26n., 311n., 560n., 771n., tavv. XII-XV, XVIII, XXV, XXVI, XXVIII, XXIX, XXXII, XXXIII, XXXV, XXXVI, XXXIX, XL, XLIII, XLVI-XLVIII, LI, LII, LVIII, LXII, LXIII, LXVIII, LXIX, LXX, LXXVI, LXXVIII. Reinach Th., 174n., 271n., 275n., 407n., 608n., 706n. Reinmuth O.W., 146n., 456n. Reisner G.A., 128n., 376n., 472n., 473, 473n., 474, 476n., 479n., 483n., tav. LVI. Reitzenstein R., 118n., 158n.
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Indice degli autori moderni citati nel testo, nelle note e descrizioni delle tavole Remark P., 83n. Reusch W., 636n. Reynolds P.K.B., 567n. Rhé J., 375n. Rhodokanakis N., 473n. Ribbeck O., 146n. Ricci C., 98n., 461n., 552n. Riccobono S., 273n. Rich A., 35n. Richter G.M., tav. III. Richter O., 186n. Rickard T.A., 328n., 534n., tavv. XXXV, LIII. Riewald P., 105n., 106n. Rink H., 464n. Ritterling E., 42n., 52n., 53n., 68n., 115n., 116n., 120n., 121n., 178n., 213n., 292, 376n., 382n., 427n., 487n., 530n., 555n., 559n., 604n., 639n., 643n., 648n., 707n. Robert L., 174n., 179n., 205n., 208n., 212n., 264n., 265n., 308n., 383n., 392n., 393n., 401n., 402n., 403n., 568n., 581n., 588n., 619n., 647n., 648n., 706n., 707n. Robinson D.M., 198n., 201. Rockwell J.C., 172n. Rodenwaldt G., 133n., tavv. XXXIII, LXXX. Roeder O., 473n. Romanelli P., 98n., 189n., 197n., 230n., 517n., 529n., 537n., 547, 649n., 771n., tav. LXI. Roos A.G., 598n., 636n. Rosenberg A., 60n., 105n., 393n., 667n., 689n. Rossberg W., 487n. Rostovtzeff M., 2n., 3n., 4n., 20n., 37n., 38n., 55n., 60n., 62n., 64n., 69n., 70n., 72n., 75n., 101n., 106n., 207n., 109n., 110n., 128n., 129n., 133n., 138n., 143n., 145n., 146n., 154n., 155n., 162n., 163n., 170n., 198n., 201n., 209n., 210n., 212n., 215n., 219n., 220n., 223n., 224n., 225n., 226n., 227n., 228n., 230n., 231n., 232n., 243n., 249n., 250n., 253n., 268n., 271n., 272n., 274n., 290, 304n., 307n., 311n., 322n., 330n., 379n., 382n., 383n., 390n., 391n., 392n., 400n., 401n., 402n., 404n., 407n., 409n., 410n., 413n.,
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425n., 426n., 427n., 429n., 431n., 432n., 433n., 434n., 444n., 446n., 448n., 451n., 452n., 455n., 456n., 462n., 471n., 487n., 495n., 500n., 507n., 509n., 529n., 531n., 534n., 537n., 542n., 551n., 553n., 554n., 567n., 571n., 574n., 577n., 578n., 582n., 585n., 590n., 596n., 597n., 605n., 620n., 627n., 633n., 634n., 635n., 646n., 648n., 652n., 668n., 673n., 691n., 697n., 703n., 707n., 708n., 711n., 713n., 715n., 716n., 717n., 721n., 722n., 723n., 728n., 729n., 775n., 780n., 784n., tavv. III, VI, VIII, IX, X, XIII, XIV, XIX, XXIV, XXXIII, XLI, XLIII, XLVII, LI, LII, LVIII, LIX, LXIII, LXXIV. Roth C., 772n. Roussel P., 20n., 399n. Rowell H.Th., 425n., 640n., 641n., 655n. Rubel J., 170n., 173n. Ruge W., 201n., 308n., 404n. Ruggiero M., 35n. Rzach A., 172n. Sabbadini R., 322n. Sadée E., 190n., 341n., 653n. Saglio E., 52n., 60n., 76n., 87n., 98n., 110n., 228n., 232n., 261n., 269n., 271n., 316n., 317n., 339n., 375n., 404n., 508n., 531n., 711n., tavv. XII, XXVII, XXVIII, XXIX, XXXV, XLVI. Saintel J., 190n. Sak P., 230n. Salacˇ A., 383n., 393n., 531n., 652n. Salin, 45n. Salisbury F.S., 167n., 666n. Salvioli G., 19n., 529n., 542, 542n., 780. Samesreuther E., 337n. Sandalgian J., 407n. Sandars H., tav. XXXV. Sanders H.A., 445n., 464n. Sanna G., 6n. San Nicolò S.M., 266n., 274n., 403n. Santini E., 36n. Sapène B., 190n. Saria B., 392n., 671n., 691n. Sarre F., tav. L. Sauciuc-Savenau T., 383n.
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Saumagne Ch., 28n., 495n., 510n. Savignac R., 286. Sayce A.H., 472n., 473, 475n., 476n., 479n. Scalais R., 21n., 37n., 45n. Schaal H., 87n., 128n., 130n., 133n., 219n., 220n., 226n., 236n., 254n. Schanz M., 55n. Schehl F., 594n. Schenk von Stauffenberg A., 427n. Scherling K., 189n. Schiller H., 304n., 559n. Schlumberger D., 224n., 226n., 286, 425n., 427n., 661. Schmid W., 159n., 172n., 376n. Schmidt A., 267n. Schmidt K.F.W., 210n. Schmitz H., 202n. Schnebel M., 4n., 444n., 446n., 537n., tavv. LI, LIII. Schober A., 240n., 248n., 367n., 368n., 375n., 379n., 391n., tav. LXXIV. Schnober F., 198n. Schoenbauer E., 47n., 48n., 118n., 155n., 249n., 266n., 275n., 328n., 398n., 530n., 531n., 534n., 535n., 536n. Schoenbauer O., 661. Schoene R., tav. II. Schoff W.H., 224n. Schreiber Th., tav. XXVI. Schubart W., 64n., 65n., 101n., 186n., 210n., 249n., 266n., 269n., 275n., 440n., 443n., 444n., 588n., 661n., 704n. Schuerer E., 429n. Schulten A., 66n., 67n., 190n., 191n., 197n., 299n., 317n., 324n., 327n., 328n., 329n., 330, 338n., 372n., 388n., 399n., 713n. Schulz O.Th., 105n., 118n., 170n., 604n., 616n., 636n., 668n., 679n. Schumacher K., 126n., 190n., 261n., 262n., 340n., 341n., 342n., 345n., 346n., 350n., 351n., 359, 359n., 375n. Schur W., 69n., 128n., 129n., 130n., 410n. Schwalb H., 239n., 360n. Schwartz E., 453n., 753n., 778n. Schwarz A.B., 275n. Schwendemann J., 178n., 179n., 209n., 508n., 580n., 581n., 606n., 707n., 708n. Scott K., 55n., 105n.
Scramuzza V.M., 37n., 108n., 115n., 546. Seckel E., 275n. Sedgwick H., 581n. Seek O., 47n., 52n., 68n., 138n., 304n., 316n., 394n., 535n., 559n., 582, 582n., 598n., 599n., 645n., 666, 667n., 669n., 679n., 708n., 735n., 750n., 762n., 783. Segré A., 118n., 598n., 635n., 661, 662, 700n., 701, 701n., 702n. Segré G., 540n., 641n. Seligman C.G., tav. XXIV. Sergejevski D., 364n. Seston W., tav. LXX. Sethe K., 434n. Seure G., 20n., 202n., 390n., 391n., 534n. Sewell R.B., 129n. Seyrig H., 127n., 128n., 201n., 224n., 226n., 228n., 283-286, 289-290, 292-294. Shear T.L., 198n. Shebelev S., 394n. Sherwin-White A.N., 62n., 107n., 115n., 172n., 181n., 641n., 661. Shetelig H., 133n. Sibenaler J.B., 340n. Sieveking J., tavv. VI, XXXII. Sigwart G., 539n., 582n. Simkhovicˇ V.G., 582n. Sintenis F., 617n. Skorpil K., 383n., 531n., 652n. Skrabar V., tav. XLIII. Smirich G., 96n. Smith A.H., tavv. XLVI, LXXI. Smits J.Cl., 643n. Snellmann W.I., 299n., 433n. Snijder G.A.S., 560n. Snyder W.F., 619n. Soelch J., 162n. Sogliano A., 91n., 235n., tav. XIV. Solari A., 782n. Solazzi S., 598n. Soltau W., 9n., 668n. Sombart W., 542n. Sommer A., 670n. Sommerfeldt E., 636n. Sorel G., 784n. Sottas H., 440n. Spano G., 190n., 204n., tav. XII. Spengler O., 783n. Spiegelberg W., 440n. Spinazzola V., 134n., 189n.
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Indice degli autori moderni citati nel testo, nelle note e descrizioni delle tavole Spizyn A., 219n. Sprater F., 339n., 532n. Stade K., 751n. Staehlin F., 115n., 190n., 236n., 298n., 337, 337n., 359n., 427n. Starr Ch.G., 190n., 225n., 371n. Stassov V., tav. XLVIII. Stech B., 146n., 157n. Stein A., 19n., 60n., 61n., 64n., 146n., 157n., 215n., 220n., 225n., 281, 290, 376n., 387n., 395n., 402n., 427n., 445n., 452n., 471n., 511n., 512n., 566n., 597n., 616n., 643n., 654n., 670n. Stein E., 60n., 657n., 670n., 688n., 750n. Steiner P., 345n. Steinhausen J., 340n., 594n. Steinwenter A., 233n., 353n., 598n. Stevenson G.H., 29n., 232n. Sticotti P., 202n., 316n., 317n., 360n., 363n., 367n., 368n. Stoeckle A., 231n., 264n. Stout S.E., 382n. Strack M., 148n., 201n., 387n. Strantz E., 487n. Strong A., 55n., 243n., 560n., tavv. VI, XXXII, LXX. Stroux J., 20n., 56n., 62n., 63n., 108n., 487n. Struve V., 434n. Stuart Jones H., 7n., 48n., 104n., 107n., 145n., 158n., 203n., 215n., 275n., 617n., 668n., tav. LXXV. Stutten J., 98n. Summer H., 261n. Susemihl F., 454n. Svensson N., 213n. Swoboda H., 400n., 403n., 404n., 429n., 707n. Sydenham E., 151n., 271n., 560n., 668n., 701n. Syme R., 48n., 53n., 122n., 530n., 551n. Taeubler E., 105n., 429n. Tafrali O., 198n., 383n., 391n. Tahon V., 262n. Tait J.G., 130n., 224n. Tallgren A.M., 219n. Tarn W.W., 3n. Taubenschlag R., 274n.
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Taylor L.R., 7n., 55n., 60n., 73n., 105n., 148n. Taylor M.V., 190n., 261n., 352n., 534n., tav. XLI. Technau W., 262n., 311n. Tedeschi C., 487n. Terruzzi P., 28n. Teuffel W.S., 55n. Thiele W., 636n., 643n., 694n. Thiersch H., 227n., 253n. Thomas E., 166n. Thompson H.A., 4n. Thompson M.S., 393n. Thomsen P., 202n. Thorpe W.A., 295. Thouvenot R., 497n., 771n. Thunell K., 451n., 452n., 453n., 454n. Tocilescu G., 359n. Tod M.N., 208n., 391n., 392n., 393n., 395n., 407n., 553n., 566n. Todorov J., 383n., 384n. Toller O., 211n. Tolstoi J., tav. XLVII. Torrey Ch., 433n., 708n. Toussaint M., 337n. Toutain J., 105n., 184n., 197n., 299n., 503n., 517n. Townsend P.W., 518n., 524n., 525n., 670n. Tropea G., 665. Tudor D., 691n. Turzevicˇ I., 678n. Vaglieri D., 404n., 566n., 676n., 714n. Vagt R., 399n. Valtrovicˇ, 215n. Vancura J., 28n. Van Berchem D., 110n., 229n., 230n., 231n., 337n., 616n., 651n., 659n., 720n. Van Buren A.W., 98n. Van de Weerd H., 382n. Van Gelder H., 198n. Van Groningen B.A., 64n., 210n., 440n., 462n., 464n. Van Hoesen H.B., 628n., 719n. Van Nostrand E., 500n. Van Nostrand J.J., 66n. Vasicˇ, 215n. Vassicˇ M.M., 359n., 379n. Vassiliev N.A., 783n. Velkov I., 304n., 383n., 388n.
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Venturi A., 197n. Viereck P., 4n., 202n. Vincent R.P.L., 429n. Vinogradoff P., 771n. Virolleaud Ch., tav. XLVIII. Visconti C.L., tav. XXVI. Vitelli G., 64n., 65n., 440n. Vogt J., 19n., 605n., 618n. Volkmann H., 48n. Volkmann R.E., 172n. Vollgraff W., 340n., 708n. Vollmer F., 357n. Von Arnim H., 124n., 143n., 154n., 159n., 166n., 167n., 172n., 265n., 399n., 574n. Von Behr, 345n. Von Bonsdorff M., 417n. Von der Mühll P., 453. Von Domaszewski A., 52n., 104n., 179n., 201n., 230n., 279n., 372n., 376n., 387n., 427n., 432n., 530n., 555n., 559n., 560n., 565n., 567n., 580n., 604n., 607n., 613n., 616n., 636n., 637n., 648n., 652n., 660n., 666, 667n., 668n., 671n., 673n., 678n., 683, 683n., 690n., 707n., 712n., tavv. XVII, XLV, LXVIII, LXIX. Von Duhn F., 189n. Von Luschan F., 308n. Von Margwelaschwili T., 407n. Von Massow W., 215n., 240n. Von Poehlmann R., 1n., 3n. Von Premerstein A., 20n., 47n., 48n., 56n., 61n., 62n., 63n., 65n., 72n., 107n., 110n., 158n., 162n., 163n., 173n., 179n., 198n., 264n., 372n., 379n., 382n., 394n., 397n., 398n., 402n., 427n., 432n., 487n., 541n., 555n., 580n., 596n., 600n., 601n., 606n., 622n., 627n., 633n., 634n., 639n., 707n., 708n., 713n. Von Rohden P., 452n. Von Scala R., 640n. Von Schneider R., 236n. Von Schroetter F., 270n. Von Stern E., 408n., 409n., 410n. Von Uxkull-Gyllenband W., 56n., 63n., 163n., 249n., 275n., 456n., 486n., 487n. Von Wilamowitz-Moellendorf U., 197n., 213n.
Von Woess F., 275n., 634n. Von Zwiedineck O., 542n., 780n. Vulicˇ N., 198n., 233n., 359n., 364n., 368n., 376n., 380n., 381n., 594n., 671n. Vulpe. R., 782n. Wace A.J.B., 393n. Waddington W.H., 308n., 402n., 432n. Wagner F., 357n. Walters H.B., tavv. XLVIII, L, LVIII. Walton C.S., 157n., 162n., 213n., 395n. Waltzing J., 229n., 267n., 340n. Warmington E.H., 130n., 223n., 224n., 285, tav. XVIII. Warscher T., 189n. Watzinger G., 201n. Waszynski, 205n. Weber M., 492n., 542n., 778n., 780n. Weber W., 48n., 55n., 162n., 170n., 541n., 555n., 560n., 565n., 566n., 568n., 604n. Wecker, tav. XVIII. Weigand E., 366n. Weiss E., 115n., 269n., 340n., 403n., 590n., 598n. Weiss J., 239n., 360n., 363n., 364n., 383n. Welles C.B., 118n., 173n., 253n., 274n., 426n., 551n., 641n., 701n. Wendland P., 160n. Wenger L., 20n., 56n., 62n., 63n., 108n., 118n., 268n., 273n., 274n., 275n., 299n., 403n., 487n., 532n., 771n. Wessely C., 451n., 452n., 453n., 461n., 471n., 642n., 646n., 702n., 716n., 717n., 720n., 723n., 724n., 729n. West A.B., 7n., 73n. West L.C., 234n., 247n., 327n., 352n., 431n., 765n. Westermann W.L., 4n., 70n., 118n., 148n., 207n., 266n., 433n., 434n., 444n., 458n., 571n., 572n., 581n., 587n., 592n., 641n., 654n., 718n. Weynand R., 151n., 157n., 161n., 164n., 184n. Wheeler R.E.M., 356n. Whittick C.C., 534n. Wickert L., 230n., 313n., 376n., 386n., 535n., 671n.
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Indice degli autori moderni citati nel testo, nelle note e descrizioni delle tavole Wiegand Th., 198n., 201n. Wiehn E., 27n., 29n. Wilcken U., 64n., 65n., 72n., 101n., 118n., 127n., 145n., 146n., 163n., 173n., 204n., 210n., 224n., 225n., 249n., 266n., 267n., 268n., 275, 389n., 436n., 443n., 446n., 451n., 452n., 453n., 454n., 456n., 458n., 461n., 462n., 463n., 471n., 553n., 554n., 571n., 572n., 578n., 601n., 620n., 621n., 628n., 639n., 646n., 647n., 653n., 654n., 657n., 704n., 715n., 719n., 720n., 721n., 722n., 723n., 724n., 725n., 726, 726n., 727n., 728n., 729n., 738n. Wilhelm A., 7n., 16n., 20n., 173n., 198n., 205n., 207n., 208n., 226n., 264n., 265n., 330n., 381n., 382n., 407n., 577n., 662, 678n. Willems J., 146n. Willems P., 146n. Willers H., 25n., 92n., 216n., 271n. Williams M.G.W., 610n., 643n. Willrich H., 48n. Winlock H.E., 446n. Wissowa G., 25n., 60n., 72n., 87n., 107n., 110n., 128n., 143n., 147n., 148n., 157n., 211n., 707n., tav. XXXV. Wolff G., 345n., 350n., 351n.
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Wolko J., 382n. Wood J.T., tav. XLVI. Woodward A.M., 158n., 393n., 395n. Wooler E., tav. XLI. Woolley C.L., 142n., 418n., 472n., 479n., tavv. LVI, LVII. Wuilleumier P., 115n., 197n., 517n. Wulzinger K., 201n. Young, 22n. Youtie H.C., 593n., 659n. Yver G., 197n., 547.
Zahn R., tav. VII. Zancan P., 118n. Zeiller J., 198n. Zeretheli G., 407n. Ziebarth E., 2n., 7n., 45n., 60n., 173n., 270n., 401n. Ziegler K., 37n., 190n. Zielinski T., 240n. Zimmer V., 125n. Zingerle J., 402n. Zippel G., 365n. Zottoli, 74n. Zucker F., 249n., 267n., 395n., 620n., 654n., 659n.