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ERICA SPINDLER ANGELO NERO (All Fall Down, 2000) PROLOGO Charlotte, North Carolina Gennaio 2000 Il ripostiglio era piccolo, angusto. Troppo caldo. Buio, salvo che per la sottile lama di luce proveniente dalla camera da letto. Dentro, la Morte aspettava. Pazientemente. Senza muoversi né lagnarsi. Quella era la notte. Presto l'uomo sarebbe venuto. E, come gli altri, avrebbe pagato. Per i crimini non puniti. Contro i deboli. Contro coloro a cui il mondo aveva voltato le spalle. La Morte aveva fatto accuratamente il suo piano, non aveva lasciato nulla al caso. La donna era lontana, con i bambini, fra le braccia amorose e protettive della sua famiglia. Da un altro punto della casa giunse un suono... un tonfo, poi un'imprecazione. Una porta sbatté. Eccitata, la Morte si avvicinò alla porta, sbirciando la scena attraverso la fessura: il letto sfatto, la biancheria sporca sparsa dappertutto, l'immondizia sul pavimento. L'uomo barcollò nella stanza, palesemente ubriaco. Immediatamente, il piccolo spazio buio si colmò dell'odore delle sigarette e dell'alcol... L'alcol che lui e i suoi compari avevano consumato quella sera. Ridendo. Sfidando allegramente gli dei. La giustizia. L'uomo perse l'equilibrio e batté contro il comodino. La lampada traballò e si infranse sul pavimento. L'uomo cadde di traverso sul letto, con i piedi penzoloni. I minuti passarono. Ben presto un sonoro russare riempì la stanza. Il russare di un uomo che non si sarebbe svegliato facilmente. Fino a quando non fosse stato troppo tardi. Il momento era venuto. La Morte scivolò fuori dal ripostiglio e si avvicinò al letto, guardando l'uomo con disgusto. Fumare a letto era pericoloso. Era stupido. Non si sarebbe mai dovuto sfidare il destino in quel modo. Ma già, quello era un uomo stupido. Il tipo d'uomo senza il quale il mondo sarebbe stato migliore.
Con la punta della scarpa, la Morte spinse il cestino della cartaccia sotto la mano dell'ubriaco, che penzolava fuori dal letto. La sigaretta era della marca che l'uomo fumava. I fiammiferi provenivano dal bar in cui aveva passato la serata. La fiammella crepitò al contatto con il tabacco. Con un sorrisetto soddisfatto, la Morte lasciò cadere la sigaretta accesa nel cestino colmo, poi girò sui tacchi e se ne andò. CAPITOLO 1 L'agente Melanie May era ferma a un passo dalla soglia della camera del motel, con lo sguardo fisso sulla vittima legata per i polsi e le caviglie alla struttura del letto. La giovane donna era nuda. Giaceva a faccia in su, con gli occhi aperti, la bocca sigillata con del nastro adesivo argentato. Il sangue era colato dal viso e dalla parte superiore del corpo verso la schiena, e là aveva formato una pozza. Il rigor mortis sembrava completo, il che significava che era morta da almeno otto ore. Melanie fece un incerto passo avanti. Il gran capo Greer aveva interrotto la sua doccia mattutina. Avvolta in un asciugamano, lei aveva dovuto chiedergli di ripeterle l'ordine tre volte. Non solo non c'era stato alcun omicidio, a Whistlestop, da quando lei era entrata nella polizia, tre anni prima, ma, per quanto ne sapeva, non c'era mai stato un omicidio in quella minuscola comunità nei sobborghi di Charlotte. Il gran capo Greer le aveva ordinato di presentarsi allo Sweet Dreams Motel, immediatamente. La prima cosa da farsi era stata chiamare la vicina che badava a Casey, il suo bambino di quattro anni. Dopodiché, Melanie aveva indossato l'uniforme, si era affibbiata il cinturone con la pistola e aveva raccolto i capelli biondi, ancora umidi, in un severo chignon. Aveva appena fissato l'ultima forcina quando il campanello aveva suonato, annunciando l'arrivo della babysitter. Ora, neppure venti minuti dopo, stava fissando con orrore la sua prima vittima di un omicidio, pregando di non vomitare. Per farsi coraggio, spostò lo sguardo sugli altri occupanti della stanza. A quanto pareva, era stata l'ultima ad arrivare. Il suo collega, Bobby Taggerty, magro, con una massa di capelli rossi, stava fotografando la scena. Il capo, in piedi in un angolo, discuteva con due uomini che Melanie riconobbe come investigatori della Squadra Omicidi del CMPD, il dipartimen-
to di polizia di Charlotte-Mecklenburg. Fuori, assieme agli agenti del dipartimento di polizia di Whistlestop, c'erano due uomini in uniforme del CMPD. Un uomo che Melanie non riconobbe, ma che immaginò essere anche lui dello stesso dipartimento, probabilmente della Scientifica, stava esaminando il cadavere. Che cosa ci facevano là gli agenti del CMPD? E perché in così gran numero? Certo, la polizia di Whistlestop era un corpo minuscolo, operante all'interno della grande area controllata dal CMPD, che contava quattrocento agenti e disponeva di tutte le attrezzature più all'avanguardia, compreso un laboratorio di analisi. Tuttavia, il protocollo richiedeva un'indagine iniziale della polizia di Whistlestop, seguita eventualmente da una richiesta di aiuto. Quindi, quello non era un comune omicidio. Doveva essere qualcosa di grosso. E lei, Melanie, non intendeva rimanerne tagliata fuori. Neppure dagli uomini del CMPD. Determinata a stabilire quel principio, entrò decisa nella stanza, ma si fermò di botto, colpita dal fetore. Non della decomposizione, che non era ancora iniziata, ma delle escrezioni che a volte accompagnavano la morte violenta. Melanie si portò una mano al naso, con lo stomaco in subbuglio. Chiuse gli occhi e deglutì a vuoto. Non poteva vomitare. Non davanti a quelli del CMPD, che già pensavano che la polizia di Whistlestop fosse fatta di smidollati. Non intendeva dimostrare che avevano ragione. «Ehi tu, dolcezza!» Melanie aprì gli occhi. L'uomo vicino al letto le fece cenno di avvicinarsi, con aria disgustata. «Hai intenzione di fartela sotto, o di venire qui a lavorare un po'? Mi serve una mano.» Con la coda dell'occhio, Melanie vide il suo capo e gli investigatori guardare dalla sua parte e, seccata, si avvicinò all'uomo. «Mi chiamo May. Agente May. Non: Ehi tu, e neppure dolcezza.» «Come che sia...» L'uomo le tese un paio di guanti in lattice. «Metti questi e vieni qui.» Lei gli strappò i guanti di mano, li infilò e si inginocchiò accanto a lui. «Hai un nome?» «Parks.» Quando l'uomo parlò, Melanie colse un vago odore di alcol nel suo alito. A guardarlo, decise, si sarebbe detto che quell'omicidio lo aveva disturbato nel bel mezzo di una colossale sbronza.
«CMPD?» «FBI.» Parks sbuffò, chiaramente spazientito. «Possiamo cominciare, ora? Questa pollastrella non diventa più fresca.» Melanie non nascose la sorpresa, né l'antipatia, per quanto, all'apparenza, Parks non avrebbe potuto curarsi meno di ciò che pensava di lui. «Che cosa vuoi che faccia?» «Vedi quello? Sotto il sedere?» Parks indicò qualcosa di minuscolo che sporgeva da sotto il corpo. «Io la sollevo, e tu lo tiri fuori.» Melanie annuì. Parks sollevò la vittima con un certo sforzo, poiché la rigidità cadaverica rendeva il corpo difficile da maneggiare, anche per un uomo robusto come lui, e Melanie afferrò l'oggetto. Era l'incarto di un profilattico, aperto e vuoto. Parks lo prese e lo esaminò per un momento, corrugando le sopracciglia. Melanie lo osservò, chiedendosi perché fosse là. Perché quell'omicidio aveva richiesto la presenza non solo di due corpi di polizia, ma anche dell'FBI? A quel punto, Parks alzò su di lei gli occhi iniettati di sangue. «Hai un'idea di quello che è successo qui, May? Vuoi provare a indovinare?» «A giudicare dal colorito bluastro della vittima e dall'assenza di ferite visibili, sospetto che sia stata soffocata. Probabilmente con un guanciale del letto.» Melanie ne indicò uno proprio accanto alla testa della donna. «A parte questo, non posso ancora dire altro.» «Leggi la scena. Tutto quello che dobbiamo sapere è qui.» Parks indicò la diafana biancheria drappeggiata sulla sedia e la bottiglia vuota di champagne sul pavimento. «Vedi quelle? Mi dicono che è venuta qui per giocare. Nessuno l'ha costretta.» «Ed essere legata faceva parte del gioco?» «Secondo me, sì. Pensaci. Non ci sono lividi visibili sul corpo. Ci vuole un bel po' di forza per legare in quella posizione una persona adulta che si dibatte. Anche un uomo molto robusto non ci riuscirebbe senza esercitare una notevole violenza fisica sulla vittima. E guarda anche i polsi e le caviglie. Sono in condizioni quasi perfette. Sarebbero coperti di abrasioni, se avesse lottato a lungo.» Melanie seguì il suggerimento, e vide che Parks aveva ragione. C'erano solo dei leggeri segni delle corde, a indicare una lotta breve. «L'assassino ha dai venticinque ai trentacinque anni. È un bell'uomo. Se non è arrivato, lo sembra. Guida una macchina costosa, magari straniera.
Sportiva. Una BMW o una Jaguar.» Melanie guardò Parks, incredula. «Non hai modo di saperlo.» «Ah, no? Da' un'occhiata alla vittima. Questa ragazza non era una qualunque sgualdrinella. Era giovane, bella, ricca. La migliore famiglia, il miglior...» «Aspetta un momento» lo interruppe Melanie. «Chi è?» «Joli Andersen. La figlia minore di Cleve Andersen.» «Oh, diavolo» borbottò Melanie. Ora capiva. Gli Andersen erano una delle più vecchie e più influenti famiglie di Charlotte. Avevano a che fare con le banche, con la politica e con un gran numero delle maggiori organizzazioni civiche e benefiche della città. Melanie non dubitava che Cleve Andersen avesse una linea diretta con l'ufficio del sindaco e con quello del governatore. «Ecco perché sei qui» commentò. «E anche quelli del CMPD. Perché è una Andersen.» «Esatto. Con una vittima come questa, la voce si sparge in fretta. La donna delle pulizie scopre il corpo e, dopo aver urlato, corre dal direttore. Per prima cosa, lui controlla l'identità della pollastra. Allora lo scenario si fa interessante. Preso dal panico, il direttore chiama il CMPD e dice al centralinista non solo che cosa è successo, ma anche di chi si tratta. E in men che non si dica, io vengo buttato giù dal letto per venire qui a offrire la mia abilità.» Melanie May meditò per qualche istante sulle parole dell'uomo. «Perciò, la famiglia sa già?» «Diavolo, sì. Ha saputo prima di te e del tuo capo, dolcezza.» Parks riprese l'analisi della scena. «La successione degli eventi non fa che confermare la mia teoria. Questa ragazza era abituata ad avere il meglio in tutto. Non se la sarebbe mai spassata con il ragazzo del distributore di benzina.» «E quanto a eventuali droghe? O a una ribellione verso i suoi genitori?» «Non c'è traccia di droghe. E quanto alla ribellione, guarda i suoi vestiti, la BMW posteggiata qui fuori, il suo passato. Non quadra.» Melanie rifletté, ricordando ciò che aveva letto sulla figlia minore degli Andersen, e riconobbe che Parks aveva ragione. «E così, perché è andata in un motel in compagnia di uno sconosciuto?» «Chi ha detto che era uno sconosciuto?» Melanie guardò il viso, un tempo bellissimo, di Joli Andersen, ora irrigidito nella morte, i suoi occhi spalancati, immaginando gli ultimi istanti
della ragazza. «E poi lui l'ha uccisa.» «Sì. Ma non ne aveva l'intenzione. Scommetto che lei ha cominciato a protestare quando il gioco si è fatto spiacevole. O magari lui era in difficoltà, e lei lo ha preso in giro, o ha riso. Questo tizio è il classico inadeguato, e lo scherno della ragazza gli ha fatto perdere la testa. Le ha tappato la bocca, ma allora lei ha cominciato a dibattersi sul serio. Questo lo ha sconvolto ancora di più. Non si comportava come avrebbe dovuto, come lui aveva immaginato. E così le ha premuto un guanciale sulla faccia per farla smettere.» «Se non aveva l'intenzione di ucciderla, perché il nastro adesivo?» Melanie scosse la testa. «Per come la vedo io, ogni dettaglio era stato preparato con cura.» «Non ho detto che non avesse già recitato questa scena. Lo ha fatto senza dubbio, dozzine di volte, e qualcuna con delle prostitute. Capisci, questo è come un copione che ha scritto nella sua testa, e che continua a perfezionare. La bella ragazza. La corda. La sottomissione. Il nastro adesivo. E, stanotte, l'omicidio. Chiedete in giro fra le lucciole. Ne salterà fuori qualcuna che conosce questo tizio.» Melanie lo fissò, per metà con incredulità e per metà con reverenza. Benché la sua analisi fosse perfettamente logica, a lei sembrava che Parks dovesse possedere poteri paranormali per sapere tutte quelle cose. «Non credi che quello che stai facendo sia un po' pericoloso? In sostanza, tiri a indovinare.» «In che cosa pensi che consista il lavoro della polizia? Ipotesi razionali. Istinto. Fortuna. E inoltre, io sono maledettamente bravo a indovinare.» Parks guardò da sopra la spalla, mostrando l'incarto. «Qualcuno ha trovato un profilattico usato?» Nessuno lo aveva trovato. Parks corrugò le sopracciglia. «Dubito che abbia fatto sesso con lei. Non il genere di sesso per cui gli sarebbe servito un profilattico.» «Credi? La confezione è aperta, no? Il profilattico manca» ribatté uno degli uomini del CMPD. Prese l'incarto, lo mise in una busta di plastica, la sigillò e la contrassegnò. «Probabilmente lo ha portato via. Oppure lo ha gettato nel water.» Parks scosse la testa. «Lei ha portato il profilattico, non lui.» L'investigatore sollevò le sopracciglia.
«Come lo sai?» «L'ultima cosa che lui aveva in mente era la protezione. Guarda la stanza. Non ha fatto alcun tentativo di cancellare le tracce. Vedo le impronte digitali sulla bottiglia di champagne fin da qui.» «E allora?» «E allora» continuò Parks, «perché questo disorganizzato avrebbe gettato il profilattico nel water, ma lasciato le impronte? Scommetto che questo posto è stracolmo di tracce e prove.» Mentre Parks ripeteva la sua teoria all'investigatore, Melanie esaminò l'area attorno al letto, attenta a non distruggere eventuali indizi. Aveva un'idea. Se Joli aveva portato il profilattico e l'assassino non lo aveva usato, avrebbe scommesso che si trovava ancora sul letto, o nelle vicinanze, come l'incarto. L'idea si rivelò esatta. Melanie esibì il profilattico non ancora svolto. «È questo che voi ragazzi stavate cercando?» Quando i due uomini la guardarono, sorrise. «Era nello spazio fra il materasso e la testiera. Provate a guardarci, la prossima volta.» Parks sorrise a sua volta. L'investigatore, irritato, le strappò di mano il profilattico. «Non è riuscito a farsela. Sporco bastardo.» «Oh, lo ha fatto» lo contraddisse Parks, togliendosi i guanti. «Solo, non con il pene. Controllate il corpo. Non dubito che abbia lasciato qualche traccia. Spazzola da capelli. Pettine. Chiavi della macchina... Bottiglia.» Melanie lo fissò, inorridita. Negli ultimi minuti era riuscita a concentrarsi sul lavoro, non sul delitto. Era stata capace di dimenticare che la vittima di cui parlavano così spassionatamente era stata, solo poche ore prima, un essere umano vivente, una persona che aveva speranze, paure e sogni, proprio come lei. Ora, non riusciva più a fingere. Con una mano sulla bocca, balzò in piedi e corse fuori dalla stanza. Arrivò giusto fino alla prima auto posteggiata, una Ford bianca. Si appoggiò al veicolo, si piegò in due e vomitò. Parks le arrivò dietro. Le tese un rotolo di carta igienica. «Stai bene?» «Benissimo.» Melanie prese una manciata di carta e si pulì la bocca, umiliata. «Grazie.» «Il tuo primo morto?» Lei accennò di sì con la testa, senza guardarlo. «Che dannata sfortuna che si sia fatta ammazzare a Whistlestop. Un paio
di isolati più in là e ti saresti risparmiata questa spiacevole esperienza.» A quel punto, Melanie gli lanciò un'occhiata. «Sei sempre così odioso?» «Quasi sempre.» L'ombra di un sorriso sfiorò le labbra di Parks. «Non c'è niente da vergognarsi, sai. Ci sono persone che, semplicemente, non sono tagliate per questo lavoro.» «Persone come me, vuoi dire? Il genere di persone di cui è composta la polizia di Whistlestop?» «Non ho detto questo.» «Non ce n'era bisogno.» Melanie si raddrizzò, furiosa, dimenticando il proprio malessere. «Tu non sai proprio niente di me. Non hai idea di che cosa è giusto per me o di quello che posso o non posso affrontare.» Senza dire un'altra parola, Parks salì sulla Ford e si allontanò. Alle tre di quel pomeriggio, Melanie tirava avanti a forza di nervi e caffeina. Dopo aver vomitato, aveva preso una Coca al distributore automatico del motel per sciacquarsi la bocca, e poi era tornata al lavoro. La squadra scientifica del CMPD era arrivata, e lei e Bobby avevano lavorato assieme ai colleghi, localizzando e contrassegnando gli elementi di prova. Era arrivato anche il medico legale, seguito dal servizio di pompe funebri di cui la contea si serviva per il trasporto dei cadaveri all'obitorio. Infine, Melanie e Bobby si erano presentati al quartier generale della polizia di Whistlestop per cominciare ufficialmente la loro giornata. Melanie si versò un'altra tazza di caffè, ignorando sia l'acidità di stomaco, sia la sorda emicrania. Non aveva tempo per la nausea o la stanchezza. Il peggio doveva ancora venire, con quel caso in cui erano coinvolti l'FBI, il CMPD, il cittadino più potente di Charlotte e, naturalmente, la piccola banda di agenti in uniforme blu di Whistlestop. La vittima era stata giovane, bella e ricca. La sua morte macabra e oltremodo raccapricciante. Roba da prima pagina, senza alcun dubbio. «May!» sbraitò il capo Greer, dalla soglia del suo ufficio. «Taggerty! Qui, presto!» Melanie guardò Bobby, che alzò gli occhi al cielo. Decisamente, qualcosa aveva mandato in orbita il loro capo. E Gary Greer in orbita era qualcosa da vedere. Un metro e ottantacinque, forte come un toro e con la pelle del colore del cioccolato fondente, ispirava insieme rispetto e timore. Ma a dispetto, o forse a causa, della sua imponente presenza fisica, perdeva raramente la calma. Quando accadeva, tutti scattavano sull'attenti.
In effetti, Melanie lo aveva visto arrabbiato solo una volta, quando aveva scoperto che uno degli agenti in servizio notturno di pattuglia chiudeva un occhio sulle prostitute, in cambio, da parte loro, di servizietti particolari. Melanie agguantò un taccuino e balzò in piedi. Bobby la seguì. Quando arrivarono nell'ufficio, Greer ordinò loro di sedersi. «Ho appena parlato al telefono con il gran capo Lyons. Il bastardo ha suggerito educatamente di tirarci fuori da questa indagine. Per il bene di tutti gli interessati, dovremmo passare l'intera faccenda al CMPD.» «Che cosa?» Melanie balzò in piedi. «Non avrà accettato...» «Diavolo, no! Gli ho detto il fatto suo» esclamò Greer, ridendo. Melanie sorrise. Il capo era stato lui stesso un investigatore della Omicidi del CMPD, e pluridecorato, per giunta. Quattro anni prima, era rimasto gravemente ferito in servizio e, quando era guarito, la moglie gli aveva posto un ultimatum: il lavoro o il matrimonio. A soli quarantasei anni, troppo giovane per essere messo a riposo nel pascolo come un vecchio cavallo, Greer aveva scelto il matrimonio e accettato quel posto. Benché, in apparenza, sembrasse contento della sua decisione, Melanie sospettava che, come lei, avesse una gran voglia di indagare su qualche vero crimine. «Non ci butteranno fuori» continuò Greer, allentandosi il nodo della cravatta. «L'omicidio è avvenuto nella nostra comunità, e devo renderne conto ai cittadini. Che gli piaccia o no, non si libereranno di noi.» Strinse le labbra. «È una faccenda grossa. Tutti gli occhi saranno puntati su di noi. Riceveremo pressioni da tutte le parti per una soluzione rapida. La stampa è già impazzita e Andersen ha cominciato a tirare dentro pezzi grossi. Tenete la testa a posto e fate il vostro lavoro. Non lasciatevi impressionare dal chiasso. La verità» continuò, «è che il CMPD ha più esperienza, più uomini, più attrezzature, più mezzi. Bene, accettiamo il loro aiuto. Ma niente di più. Domande?» «Sì» disse Melanie. «Quel tizio dell'FBI, Parks. Che c'entra?» «Mi chiedevo quanto ti ci sarebbe voluto per domandarlo.» Greer sorrise, per la prima volta quel pomeriggio. «Che individuo sgradevole, eh?» «E niente affatto nemico della bottiglia» aggiunse Melanie. Il capo corrugò le sopracciglia. «Aveva bevuto?» «Aveva bevuto è un eufemismo» affermò Melanie. «Alla vista e all'odore, sembrava sbronzo da un anno senza interruzione.» Greer parve riflettere su quell'informazione, corrucciato. «Connor Parks è un profiler. Fino a un anno fa era un pezzo grosso a
Quantico, in quella che allora si chiamava Unità di Scienze Comportamentali. Non conosco i particolari, ma corre voce che abbia messo pubblicamente in imbarazzo l'FBI. È stato censurato e trasferito.» Un profiler. Non c'era da stupirsi. Melanie aveva partecipato a un seminario patrocinato dall'FBI, circa un anno prima, e lo aveva trovato affascinante. A sentire il docente, ogni assassino lasciava, senza volerlo, una firma sulla scena del delitto. Era compito del profiler leggere quella firma, entrare nella mente sia della preda, sia del predatore, e ricostruire il come, il perché, e soprattutto il chi del crimine. Infatti, era esattamente ciò che Parks aveva cercato di fare quel giorno. «E che cosa ci fa a Charlotte a lavorare al nostro caso?» chiese Bobby. «È qui che è stato trasferito.» Greer guardò da Bobby a Melanie. «Non lasciatevi ingannare. Quell'uomo sa il fatto suo, alcol o no. Servitevi di lui.» «Con quel carattere, è meglio per lui che sia in gamba» borbottò Melanie, prendendo nota di chiamarlo. Lanciò un'occhiata a Greer. «Che altro?» «Voglio che interroghiate gli amici della vittima, la sua famiglia e i suoi compagni di studi. Scoprite chi frequentava, che cosa combinava. Ma, prima di tutto, andate al quartier generale del CMPD. Assicuratevi che non abbiano già mandato fuori qualcuno. In caso, scoprite chi e trovatelo. Dobbiamo presentare un fronte unito, o il sindaco vorrà la mia testa.» «C'è ancora dell'altro?» si azzardò a chiedere Bobby. «Sì» abbaiò Greer. «Muovetevi!» I due balzarono in piedi e si affrettarono a uscire dall'ufficio. Per prima cosa, Melanie chiamò la sua gemella, Mia. «Mia, sono Mel.» «Melanie! Mio Dio, stavo giusto guardando il notiziario. Quella povera ragazza!» Mia abbassò la voce. «È stato orribile?» «Peggio» rispose lei, cupa. «È per questo che ti telefono. Ho bisogno di un favore.» «Spara.» «È un manicomio, qui, e non credo che farò in tempo ad andare a prendere Casey all'asilo. Ti dispiacerebbe...?» Melanie scoccò un'occhiata alla foto del suo bambino di quattro anni sulla scrivania, sorridendo involontariamente. «Lo chiederei a Stan, ma non ho tempo per una delle sue prediche sul perché dovrei lasciare il mio lavoro e sul fatto che avere una madre poliziotto è un male per Casey.»
«È odioso. Ma sì, mi fa piacere andare a prendere Casey. E visto che sono da quelle parti, immagino che non ti dispiacerebbe se passassi a ritirare le tue uniformi in tintoria.» «Mi salvi la vita.» Con la coda dell'occhio, Melanie vide che Bobby era pronto e l'aspettava alla porta. «Senti, quando vai a prendere Casey, non farti passare per me. Le sue maestre si spaventano.» Mia rise. «A che serve essere gemelle identiche, se non ci si può divertire un po'? Inoltre, a Casey piace. È un nostro piccolo gioco.» Melanie scosse la testa. Per la verità, non solo lei e Mia erano identiche, essendo gemelle monovulari, ma avevano anche una terza gemella. La gente stentava a crederci, ma avevano una sorella, Ashley, nata dallo stesso parto, ma concepita separatamente. Quello che rendeva la cosa ancora più strana era la sorprendente somiglianza di Ashley con le sorelle. Quando erano insieme, tutte e tre bionde, con gli occhi azzurri e praticamente identiche, attiravano gli sguardi stupiti della gente. Perfino i loro amici, a volte, si lasciavano trarre in inganno. «Ricordi gli scherzi che facevamo ai nostri insegnanti?» chiese Mia, divertita. «Ho trentadue anni, non novantadue. Certo che li ricordo. Eri sempre tu a istigarci. E io mi prendevo la colpa.» «Ricordi male. Vedi di invertire le parti, cara sorella.» Bobby si schiarì la gola, indicando l'orologio e poi l'ufficio del capo. «Vorrei avere il tempo, Mia. Al momento, devo risolvere un omicidio.» Con l'augurio di sua sorella: «Buona fortuna, Sherlock» ancora nell'orecchio, Melanie riattaccò e si affrettò a raggiungere il collega. CAPITOLO 2 La sede della procura distrettuale della bella contea di Mecklenburg era situata nella parte nord di Charlotte, nel vecchio edificio del tribunale, e non somigliava per nulla ai moderni palazzi di uffici, quei parallelepipedi disadorni, pieni di cubicoli color vaniglia, dal soffitto basso, tutti uguali, che l'assistente del procuratore distrettuale, Veronica Ford, chiamava gabbie per conigli: monumenti alla spersonalizzazione della vita moderna. In contrasto, il vecchio tribunale possedeva una sorta d'aura di sbiadita grandeur che, per Veronica, si adattava bene all'immagine di un luogo in cui le ruote della giustizia giravano lentamente, ma con sicurezza. Un luo-
go dove, sia pure con i difetti di un sistema antiquato, la giustizia aveva la meglio. Proprio come si adattava all'immagine di Charlotte, una città del Sud vecchio e nuovo, una città di alberi in fiore e grattacieli, di aristocrazia meridionale e di rampante attività commerciale. Una città in cui si era sentita a casa fin dal momento in cui ci era arrivata, nove mesi prima. Benché fosse in ritardo per una riunione, Veronica evitò di prendere lo scricchiolante ascensore e salì il grande scalone centrale, facendo scorrere la mano sull'elaborata ringhiera in ferro battuto. Veronica amava la legge. Amava la propria parte nel sistema, era fiera del fatto che, senza di lei, il mondo non sarebbe stato un posto altrettanto bello in cui vivere. Ne era convinta... forse ingenuamente, forse con troppa presunzione. Ma se non lo fosse stata, che senso avrebbe avuto lavorare per la procura distrettuale? Avrebbe guadagnato molto di più, e con assai meno stress, esercitando la professione come civilista. «Salve, Jen» disse alla receptionist, mettendo piede sull'ultimo ballatoio. «Buongiorno.» «Messaggi?» «Parecchi.» La donna indicò una pila di foglietti rosa. «Niente di urgente.» Veronica sfogliò rapidamente i messaggi. Niente che non potesse aspettare fino a dopo la riunione. «Sono in ritardo? Rick è già arrivato?» Rick Zanders era il supervisore della squadra di cui Veronica faceva parte e che si occupava di tutti i crimini violenti contro la persona, con l'eccezione degli omicidi e dei crimini commessi contro bambini, vale a dire stupri, aggressioni, percosse, molestie sessuali e rapimenti. La squadra si riuniva ogni mercoledì per discutere i casi in corso, per essere informata delle novità e per concordare le strategie. «Solo da un paio di minuti, e aveva parecchie telefonate da fare prima della riunione» la rassicurò Jen. «Scommetto che ne ha ancora per dieci minuti. A quanto pare, Rick conosce personalmente gli Andersen.» Abbassò la voce. «Ha sentito dell'omicidio?» «Ho sentito.» Veronica corrugò le sopracciglia. «Che cosa si dice in giro? C'è più di quanto dicono i media? Qualche indiziato?» «No, che io sappia. Ma scommetto che Rick ha qualche dettaglio.» Jen rabbrividì. «È orribile. Era una cara ragazza. E così bella, anche!» Veronica pensò alla giovane donna bionda, attraente, di cui aveva visto la foto alla televisione quella mattina. Non era a Charlotte da abbastanza
tempo per avere incontrato personalmente qualcuno degli Andersen, ma ne aveva sentito parlare. A quanto ne sapeva, Joli Andersen aveva avuto davanti a sé un brillante futuro. «Alla televisione hanno detto che è stata strangolata» continuò Jen. «Soffocata» la corresse Veronica. «Crede che prenderanno l'assassino? Sapere che un tipo del genere se ne va in giro per Charlotte mi dà i brividi. Voglio dire, se una persona come Joli Andersen può venire assassinata, allora può capitare a chiunque.» Veronica sapeva che Jen non era la sola ad avere dei timori, quel giorno. Senza dubbio venivano espressi, quasi con le stesse parole, nella maggior parte delle case di Charlotte. Un omicidio come quello, una vittima come Joli Andersen facevano riflettere su quanto era pericoloso il mondo, e quanto incerto il destino. «Posso assicurarle una cosa, Jen: questa sarà la più massiccia caccia all'uomo che Charlotte abbia mai visto.» Veronica prese i messaggi e raccolse la borsa portadocumenti e la tazza reclamizzata di Starbucks che aveva portato per aggiungerla alla sua collezione. «E quando lo troveranno, noi lo inchioderemo.» A quella dichiarazione, la receptionist sorrise, palesemente sollevata. «La giustizia trionfa sempre.» Dopo averne convenuto, Veronica si diresse verso la sala riunioni. Gli altri assistenti, con l'eccezione di Rick, erano già lì e, come prevedibile, parlavano tutti della stessa cosa, l'assassino di Joli Andersen. Veronica salutò con un «Salve» generale, posò le sue cose in un punto libero del tavolo e si avvicinò a un gruppo di colleghi, ascoltando i loro commenti. «Non è incredibile?» «Ho sentito che Rick è uscito con Joli per un po'. Sarà un colpo duro, per lui.» «Sei sicuro? È parecchio più anziano di...» «Ho saputo che hanno chiamato l'FBI.» «Uno dei migliori profiler. Si dice che...» «Pare che l'omicidio sia legato a qualche tipo di sesso estremo.» Veronica si interessò a quell'informazione. «Dove lo hai saputo? I media non ne parlano.» Il collega la guardò. «Un amico nella Omicidi. Non è entrato nei particolari, ma mi ha lasciato intendere che erano... sgradevoli.» Rick entrò nella stanza, pallido come un cencio. Immediatamente le
conversazioni cessarono e tutti presero posto attorno al tavolo. Lui si schiarì la gola. «Prima che me lo chiediate, non ne so molto più di voi. L'omicidio è avvenuto a Whistlestop. In un motel. La vittima è stata soffocata. Non hanno ancora alcun indiziato, ma l'FBI sta elaborando un profilo dell'assassino. A quanto pare, hanno trovato delle tracce sul luogo del delitto, ma non so di quale natura. Per rispetto alla famiglia Andersen, la polizia ha concordato di nascondere alla stampa i particolari più scabrosi.» Si passò una mano sulla fronte. Veronica vide che tremava, e pensò che le voci che correvano su lui e Joli dovevano essere fondate. Si chiese anche se questo lo includesse fra i possibili indiziati. Probabilmente, decise. In quell'indagine sarebbe stato rivoltato ogni sasso. «E ora, mettiamoci al lavoro» mormorò Rick. «Che abbiamo? Qualcosa di nuovo?» Laurie Carte fu la prima a parlare. «Ho una bella aggressione a mano armata. Due vicine hanno avuto una discussione su una tazza di zucchero presa in prestito. La discussione è degenerata e la vicina numero uno ha colpito la numero due con una padella.» Tutti risero. «Chiami aggressione a mano armata una botta con una padella?» chiese Ned House. «Ha ottenuto il risultato voluto» ribatté Laurie, secca. «La vittima è finita all'ospedale. Commozione cerebrale, punti, naso rotto. Ma la storia non finisce qui. È saltato fuori che la vicina numero due non prendeva in prestito solo lo zucchero. Pare che lei e il marito della numero uno se la spassassero insieme, quando pensavano che nessuno li vedesse.» Ned scosse la testa. «E la gente poi pensa che i sobborghi siano sicuri.» «La giuria simpatizzerà per la moglie tradita» osservò Veronica. «A meno che non sia composta in prevalenza di uomini» la contraddisse Ned. «Non ha importanza. Questo è un paese fondato dai Puritani. Maschi o femmine, in fondo al cuore i giurati penseranno che la sgualdrina se l'è voluta.» «Aggressione semplice è il massimo che otterrai» obiettò Rick. La riunione proseguì. Si discusse di due aggressioni e di un tentativo di stupro. Ogni volta, i colleghi attesero l'opinione di Veronica. Benché fosse a Charlotte solo da nove mesi, era stata per tre anni alla procura distrettua-
le di Charleston, prima, e là si era guadagnata la fama di accusatore implacabile. La verità era che odiava i prepotenti. Odiava la feccia codarda che se la prendeva con i più deboli: le donne, i bambini, gli anziani. Aveva dedicato la sua vita a punire quella feccia, e la sua dedizione si era tradotta in un tasso di condanne del novantasette per cento. Non mancava mai di stupirla come quella percentuale suscitasse la reverenza dei colleghi. Per lei, non era stato difficile conseguire quel risultato. Se si occupava di un caso, era convinta di poter vincere. E non si fermava finché non c'era riuscita. «Veronica, come va il caso Alvarez?» le chiese Rick. Gli altri la guardarono, in attesa. Quando il caso si era presentato, Rick l'aveva avvertita che sarebbe stato duro vincerlo. Lo stupro della propria fidanzata era sempre difficile da sostenere in tribunale. E in quel caso, poi, era ancora più difficile, perché la ragazza aveva una reputazione dubbia, mentre il ragazzo era di buona famiglia, studente modello e capitano della squadra di football della scuola. Ma Veronica si era battuta. Aveva visto i lividi di Angie Alvarez. Aveva ascoltato la sua storia e le aveva letto un autentico terrore negli occhi. Quella era l'America, purtroppo, aveva detto a Rick. Solo perché un ragazzo sapeva giocare a football e suo padre era ricco, non significava che fosse al di sopra della legge. Aveva promesso a Rick, e a se stessa, che avrebbe vinto quel processo. E ci sarebbe riuscita. Veronica sorrise, ricordando come, durante il loro primo colloquio, il ragazzo l'aveva trattata con sarcasmo. Ora, avrebbe avuto il fatto suo. «Ho un'altra ragazza» annunciò. «Ed è disposta a testimoniare?» chiese Rick. «Disposta e pronta.» «Perché ha taciuto finora?» «Per paura. Sua madre l'ha avvertita che, se avesse sporto denuncia, la sua reputazione sarebbe stata rovinata e nessun ragazzo perbene avrebbe mai più voluto avere a che fare con lei. L'ha supplicata di dimenticare e fingere che non fosse accaduto nulla.» «E che cosa è cambiato?» «Semplice. Non è stata capace di dimenticare. Inoltre, l'unione fa la forza. E credetemi, questo ragazzo si è dato da fare.» «Ci sono altre vittime?» domandò Laurie, scuotendo la testa con disgusto.
«Sembra possibile. La mia testimone ha sentito delle voci. Sto controllando.» «Inchioda al muro quel dannato farabutto...» brontolò Laurie. «Consideralo fatto.» Veronica sorrise, decisa. «A questo punto, è solo una questione di quanto in alto, e con quanti chiodi.» Erano quasi le sette, quella sera, quando Melanie riuscì a lasciare il lavoro per andare a prendere Casey da sua sorella. Era stata una giornata esaltante, faticosa, illuminante. Aveva imparato più nelle ultime dodici ore di quanto avesse appreso in tutti i manuali della polizia che leggeva e su cui meditava ogni volta che ne aveva l'occasione. Indagare su un omicidio, aveva scoperto, era un processo tedioso. Richiedeva pazienza, logica, intuito e tenacia, qualità che si potevano acquisire, ma non necessariamente imparare. Trattare con la famiglia e gli amici della vittima richiedeva non solo sensibilità e tatto, ma anche una pelle dura e una mente pronta. Le persone più vicine a Joli avevano tracciato il ritratto di una ragazza felice, bene inserita, a cui piacevano gli uomini e le feste. Melanie aveva messo insieme una lista dei locali che Joli aveva frequentato e una degli uomini con cui era uscita nell'ultimo anno. Erano entrambe molto lunghe. Tutti coloro con cui aveva parlato erano o sotto shock, o profondamente addolorati, e questa era stata la parte più difficile della giornata per gli agenti di Whistlestop, forse anche peggiore della scena del delitto in se stessa. Melanie era stata incapace di rimanere distaccata. Aveva guardato quelle persone negli occhi e aveva sentito profondamente la loro perdita. Dopo un po', lei si era scoperta a evitare il loro sguardo. Melanie si fermò davanti alla grande, lussuosa casa di sua sorella. Come l'ex marito della stessa Melanie, Mia risiedeva nella parte sudorientale di Charlotte, una zona abitata da famiglie ricche e influenti, che vivevano in grandi proprietà ben recintate. Melanie aveva sempre trovato quella zona troppo lussuosa. Tanta ostentata ricchezza quasi la intimidiva. Scese dalla macchina. Casey stava giocando con dei soldatini nel portico anteriore. Mia lo sorvegliava dal dondolo. Sorridendo, Melanie si concesse un momento per ammirare il quadretto. I capelli biondi e il leggero vestito di cotone di Mia, il lieve movimento del dondolo, il chiacchierio allegro di Casey. Un quadretto domestico pieno di calore. Piegò la testa da un lato. Il più delle volte, guardando Mia, vedeva semplicemente la sua gemella. Ma qualche volta, come ora, provava una curio-
sa sensazione di déjà vu, come se stesse guardando se stessa. Una versione diversa di se stessa, la Melanie di prima del divorzio. Casey alzò gli occhi, la vide e balzò in piedi. «Mamma!» gridò, e scese di corsa gli scalini per andarle incontro. Lei gli aprì le braccia e lo strinse a sé. La dolcezza di quel momento scacciava le brutture della giornata. Provava per Casey un amore così grande da rasentare la sofferenza. Prima di diventare madre, non aveva creduto che fosse possibile. Ma quando l'ostetrica le aveva messo suo figlio fra le braccia, aveva capito. Istantaneamente. Irrevocabilmente. «Ti sei divertito?» chiese, allentando la stretta per guardare Casey negli occhi azzurri come i suoi e quelli delle sue sorelle. Lui annuì, eccitato. «La zia Mia mi ha portato a prendere il gelato. Poi siamo andati al parco e mi ha spinto sull'altalena. Sono andato sullo scivolo grande, mamma!» «Lo scivolo grande?» Melanie spalancò gli occhi per dimostrare l'appropriata meraviglia. Erano settimane che Casey voleva provarci, ma, ogni volta che cominciava a salire la scala, cambiava idea prima di arrivare in cima. «Avevo paura, ma la zia Mia mi ha seguito su per la scala ed è scesa con me, come aveva promesso.» Melanie lo baciò sulla guancia. «Sei proprio il mio bambino grande. Devi essere davvero fiero di te.» Casey annuì, sorridendo da un orecchio all'altro. «Ma bisogna stare attenti, perché si può cadere, come la zia Mia» sentenziò. «Si è fatta male a un occhio.» Melanie guardò la sorella e sussultò. L'occhio destro era nero, e il lato della faccia era gonfio. «Sei caduta dallo scivolo?» «Certo che no.» Mia sorrise a Casey. «Ho inciampato.» «Su uno stupido stivale dello zio Boyd» spiegò Casey. «Non si dice stupido» lo corresse Melanie. Poi, rivolta alla sorella: «Non ti sapevo così maldestra». Mia ignorò il commento. «Hai tempo per un bicchiere di vino? Boyd ha una riunione, stasera, perciò sono libera come l'aria.» Come quando avevano parlato al telefono, poco prima, Melanie colse, nel tono della sorella, qualcosa che la turbò.
«Dopo una giornata come questa?» rispose, in tono leggero. «Il tempo lo trovo eccome!» Arruffò i capelli di suo figlio, una massa ribelle di riccioli biondi, quindi salì con lui nel portico. Raccolti i giocattoli, i tre entrarono in casa. Melanie accese il televisore sul canale dei cartoni animati, poi andò in cucina, dove Mia stava aprendo una bottiglia di vino bianco. Si lasciò cadere su uno degli sgabelli di vimini e metallo allineati lungo il bancone della colazione. «Vuoi parlarne?» chiese. «Parlare di che cosa?» Mia versò un bicchiere di vino, lo spinse verso Melanie e ne versò un altro per sé. «Non lo so. Quello che sento nella tua voce, qualunque cosa sia. C'è qualcosa che ti preoccupa...» mormorò lei. Mia la guardò per un momento, poi andò ad aprire un cassetto, tirò fuori un pacchetto di sigarette e ne accese una, con una mano che tremava. Melanie la osservò aspirare una profonda boccata. Non fece alcun commento, anche se le spiaceva il vizio del fumo della sorella... un vizio a cui Mia ricorreva solo quando era turbata. «Dev'essere una cosa seria» osservò. «Erano mesi che non ti vedevo fumare.» Mia aspirò un'altra boccata, poi la fissò. «Boyd mi tradisce.» «Oh, Mia.» Melanie allungò una mano per metterla su quella della sorella. «Sei sicura?» «Praticamente, sì.» Mia respirò a fondo. «Sta fuori la sera, spesso. A volte fino a molto tardi. Ha sempre una scusa plausibile. Una riunione con gli amministratori dell'ospedale. O il consiglio. O una delle associazioni mediche.» «E tu credi che menta?» «So che mente. Quando toma a casa... il suo aspetto, il suo... odore.» Mia si voltò verso il lavello, chinando la testa. «Profumo da quattro soldi... e sesso.» Melanie strinse le mani in grembo. Era stata contraria al matrimonio fra Mia e Boyd Donaldson, aveva cercato di convincerla a non sposarlo. Nonostante il suo bell'aspetto e il suo successo professionale, le era sempre sembrato che ci fosse qualcosa che non andava in lui, come una fotografia leggermente sfuocata. Non le era mai piaciuto, come non le era piaciuto
l'accordo prematrimoniale che Mia era stata costretta a firmare. Ora rimpiangeva di aver espresso le proprie critiche ad alta voce. Se non lo avesse fatto, forse Mia si sarebbe confidata con lei prima. «Hai controllato?» chiese. «Hai assunto qualcuno per seguirlo, o hai telefonato all'ospedale, quando sarebbe dovuto essere là?» «No.» Mia aprì il rubinetto, bagnò quello che restava della sigaretta e la gettò nella pattumiera. «Ho avuto paura, Melanie. È come se una parte di me non volesse sapere con certezza.» Perché, di fronte alle prove, sarebbe costretta ad agire. E agire non è il forte di mia sorella. «Oh, Mia, capisco. Davvero. Ma non puoi nascondere la testa sotto la sabbia. Se ti tradisce, devi saperlo per certo. Non fosse che per la tua salute...» «Non cominciare, Melanie, ti prego. Sto già abbastanza male, grazie.» Mia si passò una mano sul viso. «Si tratta della mia vita e del mio matrimonio, e mi arrangerò da sola, in qualche modo.» «Vale a dire: Stanne fuori.» Melanie era ferita. «Lo sai che non posso starmene da parte senza fare niente. Non è nel mio stile.» «Ma è nel mio?» «Non ho detto questo.» «Forse non c'era bisogno che lo dicessi.» Le due donne si guardarono. Mia fu la prima ad abbassare gli occhi. «In realtà, ho già adottato il tuo metodo. Mi sono chiesta: Che cosa farebbe Melanie? E così, l'ho affrontato. E indovina un po'?» Melanie deglutì a vuoto. «Che cosa?» «Ha perso le staffe.» Mia indicò l'occhio nero. «Ecco il risultato.» Melanie fissò la sorella per un momento. No, non poteva essere. Non voleva credere a ciò che aveva sentito. «Non vorrai dire... Ti ha picchiata?» «È esattamente quello che intendevo.» «Quel figlio di buona donna!» Melanie balzò in piedi. «Quell'inetto... spudorato... Ucciderò quel bastardo. Giuro. Lo...» Si interruppe, cercando di controllarsi. Chiuse gli occhi, respirò a fondo e contò fino a dieci. Da adolescente aveva goduto fama di essere una testa calda. Il suo carattere l'aveva messa nei guai, spesso. Una volta, l'aveva quasi portata alle soglie del riformatorio, se non fosse stato per un'assistente sociale comprensiva. Da adulta, aveva imparato a dominarsi. A riflettere prima di agire. A te-
nere conto delle conseguenze delle proprie azioni. Ma le vecchie abitudini erano dure a morire. E quando si trattava delle sue sorelle, e in particolare di Mia, Melanie era sempre stata ciecamente, ferocemente protettiva. «Che intendi fare?» chiese a denti stretti. Mia sospirò. «Che cosa posso fare?» «Che cosa puoi...» Melanie si interruppe, incredula. «Chiama la polizia. Fallo portare dentro, e poi denuncialo. Piantalo, santo cielo!» «Lo dici come se fosse facile.» «Lo è. Basta farlo.» «Come tu hai piantato Stan?» «Sì.» Melanie si avvicinò alla sorella, le prese le mani e la guardò negli occhi. «Lasciare Stan è stata la cosa più difficile che abbia mai fatto. Ma è stata la migliore. Lo sapevo allora, e lo so adesso.» Mia cominciò a piangere. «Io non sono forte come te, Mellie. Non sono coraggiosa. Non lo sono mai stata.» «Puoi esserlo.» Melanie strinse le mani della sorella. «Ti aiuterò.» Mia scosse la testa. «No, non puoi. Sono solo una stupida, lamentosa...» «Smettila! Mi sembra di sentir parlare nostro padre. E Boyd. Non è vero.» Melanie guardò la sorella negli occhi. «Non credi che io avessi paura, quando lasciai Stan? Ero spaventata a morte. Non avevo mai dovuto badare a me stessa, tantomeno a un bambino. Non sapevo come lo avrei mantenuto. E avevo il terrore che lui mi portasse via Casey.» Rabbrividì, ricordando la paura, i dubbi che aveva avuto sulle proprie decisioni. Il suo ex marito era un noto avvocato, socio in uno dei più importanti studi di Charlotte. Avrebbe potuto privarla della custodia di Casey con irrisoria facilità... e poteva ancora. E si era servito della propria influenza per far respingere la sua domanda di iscrizione all'Accademia del CMPD. Lei, però, lo aveva lasciato ugualmente. Per se stessa. E per Casey. Non era stata la moglie che Stan voleva o di cui aveva bisogno, anche se per molto tempo si era sforzata di diventarlo, di trasformarsi in una donna che necessitava di un uomo a cui appoggiarsi, che si accontentava di starsene da parte e lasciare che il marito prendesse ogni decisione, mentre lei badava alla casa e alla famiglia. Aveva fallito. E, nel processo, era diventata
una persona che non conosceva, e che non le piaceva. Il loro matrimonio era diventato un campo di battaglia. E un campo di battaglia non era il posto adatto per crescere un bambino. «Puoi farlo» ripeté, decisa. «So che puoi, Mia.» Mia scosse la testa, con aria sconfitta. «Vorrei essere come te. Ma non lo sono.» Melanie la prese fra le braccia e la tenne stretta. «Andrà tutto bene. Supereremo questo momento. Io ti farò superare questo momento. Te lo prometto.» CAPITOLO 3 Quando Melanie e Casey arrivarono a casa, dopo aver fatto una breve sosta a un fast food, trovarono Ashley ad aspettarli. Lei non fu sorpresa di vederla. Ashley lavorava come rappresentante di una ditta farmaceutica nel territorio delle due Caroline, e spesso passava da casa sua, tornando in città. «Guarda chi c'è, Casey» disse Melanie, fermandosi nel vialetto. «La zia Ashley.» Il piccolo balzò dalla macchina non appena Melanie gli sganciò la cintura di sicurezza. «Zia Ashley! Guarda che cosa mi ha regalato la zia Mia!» esclamò Casey, eccitato, mostrandole il suo nuovo giocattolo. Melanie sorrise, guardando suo figlio gettarsi nelle braccia di Ashley. Le sue sorelle erano sempre state le persone più importanti della sua vita, e il loro affetto per Casey le riscaldava il cuore. «Ehi, sorellina, viaggio redditizio?» Ashley sorrise. «Oh, sai com'è... anche i medicinali seguono le mode. In questo momento vanno forte.» Melanie rise. Ashley era un paradosso. Benché avesse molto successo nel suo lavoro, conservava la sua fede nei rimedi naturali. Quando una di loro si ammalava, consigliava erbe, radici e tisane, anziché uno dei farmaci miracolosi che vendeva per guadagnarsi da vivere. «Potevi entrare» osservò Melanie, mentre salivano gli scalini. «Meno zanzare.» «Lo so. Ma era una serata troppo bella per aspettare in casa.» Melanie aprì la porta e le due donne e il bambino si diressero verso la
cucina, accendendo le luci lungo il percorso. Era una casa piccola, composta da due camere da letto, soggiorno e cucina. Anche se, praticamente, sarebbe entrata tutta nella camera matrimoniale della casa di suo marito, Melanie l'amava. Situata in uno dei più vecchi quartieri di Whistlestop, aveva un fascino particolare, con le sue molte finestre, i pavimenti in legno e i soffitti alti. E il meglio era che l'aveva pagata da sola, senza l'aiuto del suo ex, né di nessun altro. «Hai mangiato?» chiese alla sorella, facendo sedere Casey al bancone della colazione. «Avevo intenzione di mettere insieme un'insalata. Ce n'è abbastanza per due.» «No, grazie.» Ashley si tolse la giacca e la drappeggiò sullo schienale di una sedia. «Ho pranzato tardi con un medico.» Melanie corrugò le sopracciglia, notando quanto Ashley fosse magra. Un po' più alta di lei e Mia, era anche più dotata di curve. Quella sera, tuttavia, i pantaloni del tailleur sembravano cascarle di dosso. «Sei stata ammalata?» chiese Melanie. «No. Perché?» «Sei troppo magra.» Ashley sollevò un sopracciglio. «È un troppo che non esiste.» Andò al frigorifero. «Hai della birra fresca?» «Credo. Serviti.» Detto questo, Melanie aprì la confezione del cheeseburger di Casey, posò il sacchetto delle patatine su un piatto e glielo mise davanti, approfittando per rubarne una. «Succo di frutta, mamma.» «Latte» ribatté lei. «Il succo dopo, se avrai ancora sete.» Casey brontolò solo un po', sapeva che era una battaglia persa, e attaccò il cheeseburger. Melanie gli versò il latte, poi tirò fuori dal frigorifero l'occorrente per l'insalata. «Hai sentito di Joli Andersen?» «Alla radio.» Ashley si versò la birra e bevve un sorso. «Mmh... non c'è niente come una bella birra fresca alla fine della giornata.» «Parli come uno spot pubblicitario» rise Melanie. «Sì, vero? Forse ho sbagliato mestiere.» Ashley bevve un altro sorso, poi posò il bicchiere sul piano di lavoro. «E così, raccontami di oggi.» Melanie cominciò a lavare la lattuga. «Che vuoi sapere?»
«Solo le cose più importanti. Se è stato davvero macabro, se avete bagnato il naso al grande CMPD, se ti sei rovinata le scarpe quando ha vomitato...» A quel punto, Ashley rise, ma poi, vedendo l'espressione di Melanie, si coprì la bocca con la mano. «Oh, Mel, non avrai...» «Fatto la figura della stupida? Proprio così. Ho vomitato l'anima davanti a tutti.» «Oh, sorellina, mi dispiace.» «Non c'è problema...» Melanie deglutì a vuoto. «È stata la cosa peggiore che abbia mai visto, Ash. E per tutti gli altri era... ordinaria amministrazione, immagino.» Cominciò a sbucciare un cetriolo. Non aveva più appetito, ma aveva bisogno di tenere le mani occupate. «Parlavano di quella povera ragazza in un modo... non so, così noncurante. È stato questo. Fino a quel momento avevo tenuto duro, concentrandomi sul lavoro.» Ashley la strinse a sé per un attimo. «Comunque, so che sei stata grande. La mia adorata sorella poliziotto.» Melanie sorrise e scosse la testa. Ashley aveva sostenuto più di chiunque altro la sua decisione di entrare nella polizia. Aveva sempre capito che era non solo quello che Melanie voleva, ma anche ciò di cui aveva bisogno. «Quello che posso dire, è che il lavoro è stato affascinante. C'era un tizio, un profiler dell'FBI. Il modo in cui lavorava era stupefacente...» «Mamma, che cos'è l'FBI?» Melanie guardò Casey, rendendosi conto che non solo stava ascoltando, ma che era anche affascinato. «È una speciale polizia, tesoro. Molto importante.» «È quello che pensavo.» Casey si mise in bocca una patatina. «State parlando di quella signora?» «Quale signora?» «Quella che è stata assassata.» Assassinata, fu sul punto di correggerlo Melanie, automaticamente. Ma si trattenne. «Che cosa sai di lei?» «Ho sentito la zia Mia che ne parlava con la maestra.» Ashley emise un borbottio disgustato. Melanie guardò il piatto di Casey. Era vuoto, a parte i sottaceti che aveva scartato. «Tesoro, hai finito?» Lui annuì, sbadigliando. «Posso guardare la televisione, adesso?» Melanie gli pulì la bocca con un tovagliolino di carta, provando una
punta di rimorso per averlo tenuto alzato fino a così tardi. «Mi spiace, tesoro, ma è l'ora di andare a letto. Anzi, è passata da un pezzo.» «Ma, mamma, non sono stanco» piagnucolò il bambino. «Non ne dubito, però è ugualmente l'ora di andare a letto.» Melanie lo aiutò a scendere dallo sgabello e lo spinse verso la porta. «Da' la buonanotte alla zia.» Casey ubbidì, ma riuscì a estorcere alla sua mamma la promessa di tre storie, prima di uscire dalla cucina. Melanie guardò la sorella con aria di scusa. «Torno subito.» «Non c'è problema. Io non mi muovo.» Quando Melanie tornò in cucina, un quarto d'ora più tardi, trovò Ashley che, in piedi davanti al lavello, guardava fuori dalla finestra, con un'espressione incredibilmente triste. Fece un passo verso di lei, preoccupata. «Ash, stai bene?» Ashley si voltò, rasserenandosi. «Sicuro. Il nostro tigrotto dorme?» «Non ancora. Era così eccitato.» Melanie corrugò le sopracciglia. «Non posso credere di essere stata così incauta, poco fa, a parlare in quel modo del mio lavoro. Ha ascoltato ogni parola. Devo stare più attenta a quello che dico. Non è più un neonato.» «Mi pare che anche nostra sorella e la maestra sarebbero dovute stare più attente.» Ashley rubò una fetta di cetriolo dall'insalatiera. «Ora, dimmi di questo tizio dell'FBI.» «Il modo in cui lavorava era affascinante, ecco tutto. Ha guardato la scena del delitto, l'ha analizzata, e poi ha tratto le sue conclusioni sull'accaduto. L'ho trovato davvero straordinario.» Ashley sorrise. «Addio servizio di pattuglia a dare la caccia ai cani che calpestano i fiori. Benvenuta Squadra Omicidi.» Melanie pensò a tutte le chiamate che in effetti aveva ricevuto da cittadini adirati perché il cane del vicino scavava nel loro giardino o dava la caccia al loro gatto, a tutte le multe per divieto di sosta, e a quando aveva sognato di svolgere un vero lavoro di indagine. Ora, finalmente, aveva la sua occasione. Ma a che prezzo?
Guardò la sorella, sentendosi in colpa. «Essere così contenta di indagare su un caso di omicidio mi fa sentire una persona orribile. Capisci quello che intendo dire?» «Non essere sciocca. Tu non c'entri con l'omicidio di Joli Andersen.» «Lo so, è solo...» Melanie sospirò, prendendo lo spargipepe. «Quello che so è che, una volta risolto questo caso, sarà difficile tornare alla solita routine.» Ashley fece una smorfia. «Non saresti costretta a occuparti di bazzecole, se non fosse stato per quel bastardo che hai sposato. Qualcuno dovrebbe dargli una lezione.» «Ashley!» Melanie guardò in direzione delle camere da letto. «Casey potrebbe sentire. Ricordati che Stan è pur sempre suo padre.» «E questa è l'unica ragione per cui lo lasciamo vivere.» «Molto divertente» commentò Melanie, cospargendo l'insalata di formaggio grattugiato. «Non posso farci niente, Mel. Lo odio per averti impedito di frequentare l'Accademia del CMPD. È sempre stato il tuo sogno, e lui te lo ha rubato.» «La polizia di Whistlestop non è il CMPD, ma è pur sempre un corpo di polizia.» Melanie andò a prendere il condimento in frigorifero. «E questo è una perenne spina nel fianco per Stan» aggiunse, con un mezzo sorriso. «Non sopporta l'idea che l'ex moglie del grande Stan May sia un poliziotto. Il fatto che indosso un'uniforme lo fa impazzire. Mi diverto un mondo quando incontro le mogli dei colleghi. Fanno sempre una faccia inorridita.» La verità era che lei odiava l'uniforme quasi quanto Stan, ma non perché fosse tutt'altro che elegante e troppo mascolina, ma perché la identificava come un piccolo poliziotto di una piccola città. Nella polizia di Whistlestop, diversamente dal CMPD, non esistevano agenti in borghese. Il capo voleva che i suoi agenti fossero immediatamente riconoscibili dai cittadini. Versò il condimento sull'insalata. «E poi, chissà che cosa può riservare il futuro? Se mi distinguessi nella polizia di Whistlestop, non credo che l'influenza di Stan basterebbe a tenermi ancora fuori dal CMPD. Per questo è così importante, per me, non solo indagare su questo omicidio, ma anche collaborare a risolverlo.» «Sembra che tu abbia già fatto il tuo piano» commentò Ashley. «Naturalmente, sei sempre stata così.» Al leggero tremito nella voce della sorella, Melanie corrugò le sopracciglia.
«Anche tu, Ash. Hai sempre cercato di ottenere quello che desideravi, quello in cui credevi. È solo Mia...» Non completò la frase, pensando al guaio in cui si trovava l'altra sorella. «È un po' che non parli con Mia, vero?» «Almeno una settimana. Perché?» L'insalata che un momento prima sembrava così appetitosa aveva perso le sue attrattive. Melanie mise da parte l'insalatiera. «Boyd l'ha picchiata» cominciò, e proseguì raccontando la sua conversazione con Mia. Il viso di Ashley si colorì per la collera. «Quel bastardo! E lei, che cosa ha fatto?» «Prova a indovinare.» «Niente, vero? Perché ha paura.» «Esatto.» Melanie si alzò e andò alla finestra. Guardò fuori, nella notte, per un momento, poi si voltò. «Che facciamo?» «Che cosa possiamo fare?» Ashley si strinse nelle spalle. «È il suo matrimonio, Mel.» «Ma lui la picchia! Non possiamo permetterlo.» «È lei che lo permette, non noi.» «Come puoi dire una cosa simile?» scattò Melanie, irritata dall'atteggiamento della sorella. «Sai quanto è pericoloso per lei. Lo sarebbe per tutte noi, a causa del nostro passato. Tutte e tre siamo esposte ad acquisire una mentalità da vittima e a subire un'escalation di abusi.» «Parla per te.» Ashley pescò un'altra fetta di cetriolo dall'insalata. «Nostro padre era un mostro. Ma ora è morto, e io non ci penso più.» «Oh, giusto. È per questo che stai il più alla larga possibile dagli uomini.» Gli occhi di Ashley si strinsero. «Non stiamo parlando del mio stile di vita.» «No, stiano parlando di come aiutare nostra sorella. Qualcosa che tu non sembri interessata a fare.» Per un momento, Ashley rimase immobile. Poi si alzò, e Melanie vide che stava tremando. «Io amo nostra sorella quanto te, Melanie, perciò non pensare neppure di metterti in mezzo.» «Non stavo suggerendo...» «Oh, sì, invece.» Ashley guardò Melanie negli occhi. «Vuoi la verità? Hai reso Mia troppo dipendente. Ti sei sempre presa cura di lei, correndo
continuamente a soccorrerla. Lo fai da quando eravamo bambine. Che cosa si aspetta da te, stavolta? Che tu metta fine al suo matrimonio per lei? Che lo arresti? Che gli spari?» «Molto divertente, Ash.» «Non sto affatto ridendo. Devi permetterle di crescere.» Melanie si irrigidì, sforzandosi di mantenere la calma. «E così, pensi che dovrei starmene da parte e lasciare che lui la maltratti. Proprio un comportamento da buona sorella.» «Fino a quando non farà qualcosa per aiutare se stessa, sì, è esattamente quello che penso che dovresti fare. Offrile consiglio. Però, smettila una buona volta di cercare di salvarla.» «Forse tu puoi farlo, ma io no.» «Piantala di fare la santerellina» scattò Ashley. «La ragione per cui sei così protettiva è che ti senti in colpa.» «In colpa?» ripeté Melanie, sollevando le sopracciglia. «Di che cosa dovrei sentirmi in colpa?» «Che domanda sciocca, Mel. Ti senti in colpa perché Mia era la vittima preferita di papà.» «Che stupidaggine. Perché dovrei...» «Perché, anche se eravate identiche, lui se la prendeva sempre con lei.» Melanie fece, senza volerlo, un passo indietro, come se le parole della sorella l'avessero colpita fisicamente. Tremando, andò fino alla porta del soggiorno e la chiuse per tre quarti per non farsi sentire dal figlio, nel caso che fosse stato ancora sveglio. «Non era colpa mia» mormorò alla fine. «Era colpa di papà. Non ho alcuna ragione di provare rimorsi.» «Certo che no. Ma li provi. Stai ancora cercando di farti perdonare da lei per essere stata la figlia prediletta.» «Non capisci. Non hai mai capito.» Ashley strinse le labbra. «Perché non sono mai stata un membro del vostro piccolo club delle gemelle, vero? Non Ashley, la diversa.» «Mia e io non ti abbiamo mai esclusa, Ashley.» «Oh, per favore! Io ero solo la terza sorella. La ruota di scorta. Lo sono ancora.» «Mi fai infuriare, quando parli così» protestò Melanie, frustrata. Ashley fece un passo verso di lei, poi si fermò. «Hai mai pensato che è perché sono diversa che vedo le cose così chia-
ramente? Te, Mia, papà... tutto?» «Mia ha bisogno di me. È più sensibile di noi. Più vulnerabile. Per questo papà la perseguitava, sapeva che non si sarebbe ribellata. Ed è per questo motivo che ho dovuto fermarlo.» Ashley aprì la bocca per rispondere, ma lo squillo del telefono glielo impedì. Melanie si affrettò a rispondere. «Oh, ciao, Stan.» Ashley agguantò la borsa, con una smorfia. «Devo andare.» «Stan, puoi aspettare un momento?» Melanie coprì il microfono con la mano. «Resta, per favore.» Ashley scosse la testa. «Ti chiamerò.» Melanie le tese la mano, dispiaciuta per la loro discussione. «Caffè, venerdì?» «Tenterò. Non prometto niente.» «Ti voglio bene.» Ashley sorrise. «Idem, piccola.» Si avviò alla porta, poi si fermò e guardò Melanie con aria maliziosa. «Riferisci al farabutto che lo saluto e ho detto che può bruciare all'inferno.» Melanie la guardò uscire, poi tornò alla sua telefonata. «Che cosa posso fare per te, Stan?» «Quale delle sorelle è lì?» chiese lui, ignorando la domanda. «La lamentosa o la strega?» Anche Melanie lo ignorò. «C'era Ashley. È appena andata via. Ha detto di salutarti.» «È più probabile che abbia detto che posso bruciare all'inferno.» Melanie si trattenne dal ridere. «Che cosa vuoi, Stan?» «Quello che è successo oggi... l'omicidio. Sei coinvolta, in qualche modo?» «Coinvolta?» ripeté Melanie, fingendo di proposito di non capire. «Nelle indagini» chiarì lui, irritato. «Sei coinvolta?» «Il delitto è avvenuto a Whistlestop. Sì, sono coinvolta nelle indagini.» Lei sorrise fra sé. «Ma senza dubbio capisci che non sono libera di discutere i particolari.» Lui imprecò.
«Non mi importa niente dei particolari. Non voglio che mia moglie abbia a che fare con...» «Ex moglie» lo corresse Melanie. «Ora sei un problema di Shelley, grazie al cielo. Non ti sei dimenticato di lei, vero?» «Piantala, Melanie. Certo che non mi sono dimenticato di Shelley.» «E poiché sono la tua ex, tu non hai alcun diritto di interferire nella mia vita. Quello che faccio è affar mio. Solo mio. Intesi?» «Tranne quando è potenzialmente dannoso per mio figlio.» «Nostro figlio sta benissimo. È felice, sano e amato. Il fatto che io stia indagando su un omicidio non gli reca più danno delle tue battaglie legali.» «È qui che le nostre opinioni differiscono.» Melanie rise senza allegria. «Le nostre opinioni differiscono su tutto, Stan. Se non c'è altro, è tardi, ho fame e sono stanca.» «Oh, sì, c'è dell'altro. Dobbiamo parlare del futuro, Melanie. Il futuro di Casey.» Una pausa. «Comincerà il prescuola, l'anno prossimo.» Melanie guardò l'orologio, poi l'insalata. «Lo so, Stan.» «Allora sai anche che io abito nel quartiere dove si trovano le migliori scuole della città.» Melanie impiegò un momento per assimilare quelle parole. Quando ci riuscì, fu sommersa da un'ondata di paura. Lottò per respingerla. Non poteva significare quello che pensava. Dopotutto erano divorziati da tre anni e Stan sembrava più che soddisfatto di essere padre un finesettimana su due. «Le migliori?» ribatté. «E secondo quali criteri? Nel mio quartiere ci sono ottime scuole. Non così eleganti, magari, ma...» «Via, Melanie» cominciò lui, paziente, come se parlasse a un bambino. «Non credi che sia ora di mettere da parte i nostri desideri personali e chiederci che cosa è meglio per Casey?» «Intendi dire chi è meglio per lui, vero?» «Forse sì.» Melanie chiuse gli occhi e contò fino a dieci. Stava rivivendo l'incubo che l'aveva tormentata per tutto il primo anno dopo il divorzio: che Stan cercasse di toglierle la custodia di Casey. «So già chi è meglio per lui. Io. Sono sua madre, Stan.» «E io sono suo padre. Posso offrirgli una famiglia stabile, con due geni-
tori, in una delle migliori comunità di Charlotte. E anche una delle più sicure.» «Senza parlare della piscina, delle lezioni di tennis e dei pranzi al club» completò lei, sarcastica. «E forse, già che ci sei, potresti indorare la pillola con un viaggetto annuale in Europa?» «Queste cose sono importanti.» «Che c'è di più importante dell'amore, Stan? Della continuità? Casey è con me da quando è nato. Un cambiamento ora gli creerebbe solo confusione. Inoltre, tutti i suoi amici dell'asilo...» «I bambini si abituano in fretta.» Stan parlava con tanta disinvoltura, con tanta noncuranza! Ma era della vita di Casey che stavano parlando. Dei suoi sentimenti. Melanie si sentiva ribollire il sangue all'idea che lui ne tenesse così poco conto. «Brutto bastardo» sibilò, con voce tremante. «Non ti importa d'altro che di te stesso.» «Questa è la tua opinione.» «Non ti permetterò di farlo.» «Non puoi impedirmelo.» «Mamma?» Melanie si voltò. Casey era sulla soglia, allarmato. Il telefono doveva averlo svegliato, se dormiva già. Melanie fece uno sforzo per sorridere, rassicurante. «Solo un momento, tesoro. Toma a letto, e verrò a mettermi vicino a te. Okay?» Casey esitò un momento, poi ubbidì. Melanie si rivolse nuovamente all'ex marito. «Non è il momento adatto per questa conversazione. Ti richiamerò.» «Non sperare che cambi idea, Melanie. Intendo chiedere la custodia di nostro figlio. E posso assicurarti che farò di tutto per ottenerla.» CAPITOLO 4 Nella sala riunioni del quartier generale del CMPD faceva troppo caldo. Le personalità attorno al lungo tavolo ovale erano troppo forti. Ciascuno di loro era abituato ad averla vinta. Melanie li guardò a uno a uno. Il sindaco di Charlotte, Ed Pinkson, il capo Lyons, del CMPD, il capo Greer, il procuratore distrettuale, rappresentanti di tutti i rispettivi uffici, e anche della polizia dello stato. E poi, Connor Parks e l'uomo che era con lui, probabil-
mente un altro agente dell'FBI. Il sindaco di Whistlestop non c'era, fatto che Melanie trovava strano. O minaccioso, si corresse, spostando lo sguardo sul viso impenetrabile del proprio capo. Erano riuniti, quella mattina, perché la figlia del cittadino più in vista di Charlotte era morta da ormai una settimana, e quel cittadino reclamava risposte. E anche la stampa. E loro non erano più vicini a ottenerne di quanto lo fossero al momento dell'omicidio. Non ci sarebbero state reciproche congratulazioni e pacche sulle spalle, quel giorno. Invece, potevano cadere diverse teste... compresa quella di Melanie. Anche i ragazzi del CMPD sembravano preoccupati. Il sindaco di Charlotte si alzò, per dare inizio alla riunione, ma, prima che potesse farlo, la porta si apri di scatto ed entrò Cleve Andersen, in compagnia di un altro uomo. E a quel punto un silenzio imbarazzato cadde nella stanza. «Scusate il ritardo» disse Andersen, sbrigativo, prendendo posto accanto al sindaco. Pinkson si schiarì la gola. «Cleve, non ci aspettavamo...» «Ho pensato che fosse meglio» lo interruppe l'altro. «Le decisioni che saranno prese oggi riguardano me. La mia famiglia.» Sorrise, secco. «Come sai, non sono abituato a lasciar fare agli altri.» Indicò l'uomo che lo accompagnava. «Il mio avvocato, Bob Braxton. E ora...» Si guardò attorno. «Vogliamo cominciare?» Il sindaco sembrava impotente quanto un pesce tirato in secco, con l'amo ancora agganciato alla bocca. Chiaramente, non aveva il fegato di opporsi a un uomo così potente. A quanto pareva, Connor Parks, invece, l'aveva. «Scusate» disse, alzandosi. «Con il dovuto rispetto, signor Andersen, questo non è il suo posto.» Seguì qualche attimo di silenzio. Tutti gli occhi si concentrarono su Andersen. «Giovanotto, mia figlia è l'argomento di questa riunione» gli ricordò lui a denti stretti, rigido. «Proprio per questo lei non dovrebbe essere qui. Non abbiamo il tempo di aggirarci in punta di piedi attorno ai suoi sentimenti. Vada a casa a condividere il lutto della sua famiglia, signor Andersen. Quello è il suo posto. È là che può rendersi utile.» Il viso pallido di Andersen cominciò a colorirsi per la rabbia. Melanie
trattenne il fiato. Parks aveva espresso a parole quello che certo tutti i presenti pensavano. Pur apprezzando il suo coraggio, lei non poté fare a meno di chiedersi se era del tutto sano di mente. Non aveva certo misurato le parole o espresso la sua opinione in termini deferenti. «Non la conosco» disse Andersen. «Come si chiama?» «Agente Connor Parks, FBI.» «Be', allora, agente Parks, lasci che le dica una cosa. Non sono arrivato dove mi trovo oggi standomene da parte ad aspettare che gli altri agissero. Io assumo il controllo. Io faccio accadere le cose.» «Con tutto il rispetto, qui non si tratta di alta finanza. Questa è un'indagine di polizia. Qualcosa di cui lei non sa nulla. Temo proprio che stavolta dovrà starsene da parte. La prego, ci lasci fare il nostro lavoro.» «Cleve» intervenne il sindaco, gentilmente, mettendo una mano sulla spalla di Andersen. «L'agente Parks ha ragione. Nessun padre dovrebbe sentire le cose di cui dobbiamo parlare oggi in questa stanza. Sarebbe meglio che andassi via.» Andersen lo guardò. «Ho già sopportato il peggio che possa accadere a un padre» mormorò, con un leggero tremito nella voce. «Mi hanno detto che mia figlia era morta. Che era stata assassinata.» Girò lo sguardo dall'uno all'altro dei presenti, e si fermò su Parks. «Voglio che il suo assassino sia preso. Voglio giustizia. E l'avrò, costi quel che costi. Intesi?» Senza aspettare risposta, si rivolse al suo avvocato. «Bob, da questo momento mi affido a te.» Come tutti gli altri, Melanie lo seguì con lo sguardo mentre si dirigeva a passo deciso all'uscita. Aveva il cuore stretto al pensiero della sua sofferenza. Capiva perché era andato là, quel giorno. Starsene seduto ad aspettare doveva essere un inferno, per un uomo abituato ad agire e a comandare, come Andersen. Quando la porta si richiuse alle sue spalle, ci fu un lungo momento di silenzio. Poi il sindaco si schiarì la gola e aprì la riunione. Dopo aver rimproverato Parks per il modo in cui aveva parlato al padre della vittima, passò la parola ai due capi della polizia, che esposero tutte le fasi delle indagini e assicurarono che non era stata trascurata alcuna pista. «Non voglio sentir parlare di piste» scattò il sindaco. «Voglio sapere se ci sono degli indiziati. Voglio che mi diciate che prenderete quel bastardo, e come intendete riuscirci.» Il capo Lyons si rivolse a Pete Harrison, il suo migliore investigatore. «Harrison?»
L'uomo annuì. «Abbiamo un indiziato. A quanto pare, il giorno in cui fu uccisa, Joli passò la prima parte della serata in un club con degli amici. C'era un tizio che le fece il filo per la maggior parte della serata. Pesantemente. Lei non era interessata, e lo umiliò davanti a un gruppo di persone. Lo chiamò un perdente e gli consigliò di tornare sotto il sasso da cui era strisciato fuori. Lui perse le staffe, le disse che se ne sarebbe pentita e se ne andò. Un testimone, un cliente del club, dice di aver visto l'uomo nel posteggio, più tardi, all'incirca all'ora in cui Joli uscì. Purtroppo, nessuno sa chi fosse. Non era mai stato prima nel locale e ha pagato in contanti. E, dopo, nessuno lo ha più visto.» «Vuole dire che non potete trovare quel tizio?» chiese l'avvocato di Andersen, incredulo. «Non lo abbiamo ancora trovato» lo corresse Harrison. «Lo troveremo, stia tranquillo. Abbiamo fornito la sua descrizione a ogni barista della contea di Mecklenburg. Si rifarà vivo. E allora lo prenderemo.» «Non mi piace rovinare la festa a nessuno, ma non credo che dovremmo riporre troppe speranze in questo tizio» si intromise Parks. «Sembra un disorganizzato e un incapace, come il nostro soggetto, ma per tutto il resto non quadra con il profilo.» Per la seconda volta, quella mattina, tutta l'attenzione si concentrò su di lui. «Profilo?» chiese il sindaco. «Un ritratto psicologico del soggetto» spiegò Parks. «Lo tracciamo confrontando quello che sappiamo sul comportamento criminale con i dettagli della scena di un particolare delitto. Di solito, è molto accurato. Le nostre conclusioni sono basate su dati raccolti studiando centinaia di casi.» Il sindaco si sistemò più comodamente sulla poltrona. «Allora, ci dica qualcosa di questo soggetto, agente Parks.» «È un uomo bianco» cominciò Connor. «Di età fra i venticinque e i trentacinque anni. È di bell'aspetto e probabilmente si mantiene in forma frequentando una palestra. È un professionista... medico, avvocato, commercialista. Se non è arrivato, ha tutte le apparenze del successo... abiti, macchina. Una BMW, direi. Ma uno dei modelli più piccoli, vecchia di qualche anno.» Uno degli agenti della polizia di stato gli chiese spiegazioni sul suo ragionamento. Connor rispose con gli stessi argomenti che aveva esposto a Melanie sulla scena del delitto una settimana prima: Joli Andersen era bel-
la e ricca, e poiché, secondo ogni apparenza, era andata con il soggetto di sua spontanea volontà, l'uomo doveva rispondere a certi requisiti. «Ha ragione» intervenne Melanie. «Ho interrogato i suoi amici e i suoi compagni di studi e, secondo la loro testimonianza, a Joli piacevano gli uomini, anche troppo, ma era difficile nella scelta. Per uscire con lei, un uomo doveva essere bello. E anche ricco.» «Esattamente» mormorò Connor. Poi continuò: «I vicini lo descriverebbero come un tipo simpatico. Tranquillo, forse perfino timido. Vive o lavora vicino al luogo del delitto. Per questo ha scelto il Sweet Dreams Motel». «Quanto vicino?» chiese Lyons. «Da quattro a sei chilometri, direi. Ma non più di quindici.» Ci fu un mormorio, attorno al tavolo, ma Connor lo ignorò e proseguì: «Come evidenziato dal suo tipico rituale sgualdrina-madonna e dal fatto che non ha penetrato la vittima in modo naturale, ha avuto un rapporto difficile, ma ossessivo con la madre. Ha una storia di relazioni finite male con le donne. Se è sposato, il suo non è un matrimonio felice». «E quanto ai precedenti?» chiese Bobby Taggerty. «Buona domanda. Se c'è qualcosa, non è niente di grave. Nessuna condanna.» Connor rimase in silenzio per un momento. «Non aveva mai ucciso. Ma ucciderà di nuovo.» Ci fu un altro mormorio. Harrison fu il primo a parlare. «Ne è sicuro, Parks?» «Sicurissimo. Ha nutrito la sua fantasia per molto tempo. Con Joli ne ha perso il controllo, poiché, diversamente dalle prostitute con cui l'aveva sperimentata, Joli ha smesso di comportarsi come lui voleva. Nel tentativo di controllarla, l'ha uccisa. Uccidere gli ha dato un intenso piacere sessuale. Vorrà provarlo di nuovo. Lo desidererà disperatamente.» «Potremmo controllare gli ospedali» mormorò Harrison. «Gli studi dei medici e degli avvocati, cominciare a stilare una lista di nomi di uomini che corrispondono a questa descrizione.» «E fare altrettanto con le palestre, incrociare le liste e vedere quanti nomi coincidono» aggiunse il suo collega Roger Stemmons. Connor annuì. «Suggerisco anche di interrogare le prostitute della zona. Come ho detto, il nostro soggetto ha elaborato i dettagli della sua fantasia per parecchio tempo. Ha fatto pratica sulle prostitute. Là fuori ci sono ragazze che conoscono questo tizio dal suo rituale.» L'uomo che accompagnava Connor si presentò come l'agente speciale
Steve Rice, capo dell'ufficio dell'FBI di Charlotte. «Dovremmo sorvegliare il cimitero dove è sepolta Joli» affermò. «Piazzare telecamere. Gli assassini di questo tipo di solito vanno a visitare la tomba della vittima. È un modo per rivivere la loro fantasia. È così stimolante, per loro, che spesso li sorprendiamo a masturbarsi.» «Gesù» mormorò l'avvocato, visibilmente nauseato. «Se gli appostamenti non dessero risultati» continuò Rice, «cercate di stanarlo pubblicando un servizio su Joli sul Charlotte Observer, un pezzo di interesse umano. Fate in modo che si svegli, si ecciti. E tenete quelle telecamere puntate sulla tomba. Credetemi, funziona.» Per parecchi minuti si parlò di varie altre possibilità di indagine. Quando la discussione si esaurì, il sindaco intervenne di nuovo. «Sono incoraggiato da ciò che ho sentito oggi...» cominciò, in tono da consumato politico. Mentre Pinkson pontificava, Melanie si concesse di pensare ai propri problemi. Problema, si corresse. Ne aveva uno solo. L'intenzione di Stan di ottenere la custodia di Casey. Si massaggiò i muscoli irrigiditi del collo. Aveva aspettato diversi giorni prima di richiamare Stan. Aveva approfittato di quel tempo per prepararsi a sostenere le proprie tesi. Era stata pronta a ragionare con calma, a controbatterlo elegantemente, a supplicare, se necessario. Invece, aveva perso le staffe e aveva finito per mettersi a sbraitare. Che cosa c'era di sbagliato in lei? Perché permetteva a Stan di farle perdere la calma in quel modo? Soffocò un sospiro. Era sempre stato così, durante il loro matrimonio. Lei era il fuoco, Stan il ghiaccio. Lei discuteva con passione, lui controbatteva con logica. Ogni volta che litigavano, e succedeva spesso, più lei diventava appassionata, più lui era freddamente razionale, in un circolo vizioso senza fine. A un certo punto, Melanie si era resa conto che Stan si serviva della propria abilità di distaccarsi dalle emozioni come di un mezzo per manipolarla, e per dimostrare costantemente la propria superiorità. Aveva funzionato. Dopo una lite, lei si era sempre sentita una pazza che rovinava tutto. Aveva promesso a se stessa che non gli avrebbe più permesso di farla sentire in quel modo. Invece, era ricaduta nella sua trappola. «... ancora alcuni dettagli amministrativi da discutere. Il primo è il coinvolgimento di due forze di polizia in questa indagine.» Quando le giunse all'orecchio quella frase, Melanie alzò la testa. Guardò
Bobby, vide dalla sua espressione che anche lui sapeva quello che stava per succedere, e si sentì cadere il cuore. «Abbiamo deciso un cambiamento. Siamo convinti che la divisione fra le due forze di polizia non faccia che diluire l'indagine. D'ora in avanti, quindi, le indagini sull'omicidio Andersen saranno ufficialmente affidate al CMPD. Naturalmente avrà l'aiuto dell'FBI e della polizia di Whistlestop, ma sarà il principale responsabile delle investigazioni.» «Questa è una stupidaggine!» scattò Melanie, prima di potersi trattenere. Balzò in piedi, con il viso in fiamme. «Mi scusi, signor sindaco, ma l'omicidio è avvenuto a Whistlestop. Siamo pronti e impazienti di fare tutto il necessario per assicurare alla giustizia l'assassino di Joli Andersen.» «Ne sono certo, agente May. E mi creda, il suo capo ha fatto un discorso molto convincente in favore dell'affidamento del caso alla polizia di Whistlestop. Comunque, riteniamo di dover privilegiare l'esperienza.» «Ma...» «La decisione è presa, agente May» la interruppe il sindaco, cercando di apparire comprensivo, ma riuscendo solo ad assumere un'espressione irritata. «Abbiamo, però, un importante incarico per il dipartimento di polizia di Whistlestop. Lo illustrerà l'avvocato Braxton. Bob?» L'avvocato si alzò. «Il signor Andersen ha deciso di offrire una ricompensa per qualunque informazione che porti all'arresto dell'assassino di sua figlia. La squadra del capo Greer si occuperà di ricevere le telefonate.» «Che cosa?» saltarono su Melanie e Bobby all'unisono. Melanie sentì i ragazzi del CMPD ridacchiare e le salì il sangue alla testa. Con un commento rabbioso sulla punta della lingua, si voltò di scatto verso Harrison e Stemmons, ma Bobby la fermò, allungandole un calcio sotto il tavolo. Steve Rice si alzò. «Con tutto il dovuto rispetto e tutta la comprensione per il signor Andersen e la sua famiglia, devo avvertirvi che queste promesse di ricompensa raramente hanno altro risultato che quello di procurare grattacapi a noi e alle forze di polizia impegnate nel caso. Prima di domani a mezzogiorno saremo così occupati a seguire false piste che non avremo il tempo di seguire quelle vere. Le consiglio di chiedere alla famiglia Andersen di ripensarci.» «Ma la ricompensa non potrebbe spingere un testimone recalcitrante a farsi avanti?» ribatté l'avvocato. «La promessa di centomila dollari è una
forte motivazione.» Melanie gemette. A quel punto, attorno al tavolo scoppiò il caos. Quella ricompensa avrebbe spinto a farsi avanti non solo ogni avido bugiardo della contea, ma anche ogni sorta di squilibrati. Era una pessima idea. Ed era umiliante che lei e Bobby fossero stati incaricati di ricevere le telefonate. Era troppo arrabbiata per seguire il resto della riunione. Il solo momento buono fu quando l'avvocato accettò di cercare di convincere Andersen a ridurre drasticamente la ricompensa. Non appena la riunione si sciolse, Melanie affrontò il suo capo, in corridoio. «Perché non ce l'ha detto?» gli chiese, così furiosa che la voce le tremava. «Ha lasciato che ci prendessero in giro. Mi sento un'idiota.» «L'ho appena saputo anch'io» spiegò Greer, in un tono rabbioso quasi quanto il suo. «Mi hanno preso da parte pochi minuti prima dell'inizio della riunione.» «E così, ecco dov'era il nostro illustre sindaco, stamattina. Nascosto sotto il suo viscido sasso.» «Politici dei miei stivali» borbottò Bobby. Il capo sospirò. «Non prendetevela troppo con lui. Non poteva vincere. La pressione veniva dall'alto.» «Questa è opera di Andersen, ci scommetto» osservò Bobby. «Fino a chi è arrivato? Al governatore?» Greer non negò. «Sempre la stessa storia» disse Melanie amaramente. «Loro sono dentro, e noi siamo fuori.» «No» la corresse Bobby. Il suo viso, di solito placido, era contorto dalla rabbia. «Noi siamo al telefono a sorbirci tutte le informazioni fasulle da ogni svitato avido della ricompensa.» «So che siete delusi. Lo sono anch'io.» Il capo guardò dall'uno all'altro. «Ma ho un paio di consolazioni. Primo, anche senza partecipare direttamente alle indagini, siamo ancora coinvolti. Ricerche, interrogatori, confronti... qualunque cosa succeda, ci siamo dentro anche noi. Secondo, ho ottenuto che un gruppo di agenti del CMPD ci aiuti ai telefoni.» Sorrise, malizioso. «Poveracci.» Bobby si consolò un po' a quelle notizie, ma Melanie no. Quel caso era stato la sua grande occasione, la sua via d'uscita dalla polizia di Whistlestop. Ora, era sfumata.
A volte, decise, la vita faceva davvero schifo. «Guarda la cosa dal lato migliore, Mel» disse Bobby, poco dopo, mentre attraversavano il posteggio. «Ora che ne siamo fuori, non potranno dire che è colpa nostra, se questa storia finirà in una bolla di sapone.» «Per noi, è già finita in una bolla di sapone» ribatté Melanie, frustrata. «L'importante era collaborare alle indagini.» «Lo so, socia. Sono arrabbiato anch'io.» Quando Melanie si limitò a guardarlo, Bobby rise e le assestò una leggera pacca sulla spalla. «Okay, forse non arrabbiato quanto te. Ma diavolo, è una questione di orgoglio. I telefoni! Per l'amor del cielo!» «Grazie per il conforto» brontolò Melanie. «Mi sento molto meglio, ora. Anzi, mi gira la testa per la gioia.» Il martedì era giornata di scartoffie, nell'ufficio del procuratore distrettuale. Quel giorno, uno degli assistenti era disponibile per consigliare e rivedere il merito dei casi con la polizia. Benché molti assistenti non gradissero quell'incarico, Veronica Ford era di parere diverso. Le piaceva incontrare la polizia, avere l'occasione di ascoltare e valutare i casi prima che chiunque altro ci mettesse le mani. C'erano giornate tranquille e altre, come quella, anche troppo dense. Sembrava che stupri, aggressioni e percosse fossero diventati il passatempo favorito nella contea di Mecklenburg. Veronica decise che doveva essere colpa o della luna piena o dell'inizio di una recessione economica. Erano due fattori che accrescevano il tasso di criminalità. Il telefono interno ronzò. «Veronica, una certa agente Melanie May chiede di vederla» annunciò Jen. «Melanie May» ripeté lei, riconoscendo con sorpresa il nome. Era una coincidenza curiosa, visto che proprio quella mattina aveva scambiato il turno con Rick perché lui potesse partecipare a una riunione sull'omicidio Andersen. La notizia del giorno era la ricompensa di centomila dollari offerta da Cleve Andersen. In ufficio non si parlava d'altro. «Falla entrare.» Un momento dopo, Melanie comparve sulla porta. Veronica sorrise e le accennò di farsi avanti. «Si sieda, agente May.» Melanie si sedette su una delle due sedie davanti alla scrivania. «Mi sembra di conoscerla» osservò. «Dove posso averla vista?» Veronica accennò alla collezione di tazze allineate sul mobile alla sua
destra. «Abbiamo in comune la passione per il caffè.» «Oh, certo. Frequentiamo la stessa caffetteria.» Melanie rise. «Io sono una patita del cappuccino. E lei?» «Latte macchiato.» Veronica si appoggiò allo schienale. «Quando la receptionist l'ha annunciata, ho capito subito chi era. L'ho notata alla caffetteria. L'uniforme e la targhetta di identificazione la rendono molto riconoscibile.» Melanie scoccò un'occhiata alle tazze. «Una collezione?» Veronica sorrise. «Sì. Odio bere il caffè nelle tazze di carta. E sono riuscita a convincermi che giovo all'ambiente, usando quelle di plastica. Salvo almeno qualche albero.» «Un avvocato dotato di coscienza» commentò Melanie. «Che novità.» Veronica rise. «Oh, sembra che abbia qualche problema con gli avvocati.» «Non con i penalisti. Il mio ex marito si occupa di diritto commerciale.» L'altra scosse la testa, con una smorfia. «Non fa per me. Datemi un delinquente da mettere al fresco ogni giorno.» Melanie rise. «Be', ecco la sua occasione. Ho un farabutto di prima forza per lei.» «Mi dica tutto.» «Si chiama Thomas Weiss» cominciò Melanie, porgendole il rapporto. «Maltrattamenti. Ha mandato la sua convivente all'ospedale. E non per la prima volta. Comunque, stavolta l'ha pestata così bene che la ragazza è pronta a denunciarlo.» Veronica esaminò il rapporto e annotò il nome, l'indirizzo e il luogo di lavoro della vittima e dell'accusato. «Qui dice che è proprietario di un ristorante.» «Il Blue Bayou, a Dilworth.» «Ci sono stata. Bel posticino, ottima cucina cajun.» «È proprio quello.» «E la ragazza ci lavora come barista.» Veronica rifletté. «È già successo altre volte?» «Sì.» «Ma lei non ha mai sporto denuncia?»
«L'ha fatto, ma poi l'ha ritirata. Stavolta non succederà.» «Come lo sa?» «Lui ha minacciato di ucciderla. È davvero spaventata.» Veronica scosse la testa e gettò il rapporto sul tavolo. «Mi dispiace. Niente da fare.» «Niente da fare?» ripeté Melanie, stupita. «Ma perché? È un buon caso.» «Con quello che abbiamo, non possiamo vincere. E io non sono disposta a mettere in moto la faccenda finché non sono convinta di riuscirci. Provi a pensarci. Non abbiamo altro che la ragazza. Una ragazza spaventata. Le ragazze spaventate che hanno già ritirato altre volte una denuncia non sono buone testimoni in tribunale.» «Non cambierà idea, ne sono sicura» insistette Melanie. Veronica la interruppe, sollevando una mano. «Se la vittima esita, se mostra la minima incertezza, la giuria pensa: E allora? Questo tizio è pulito, sulla carta. È proprietario di un noto ristorante. È il ritratto del cittadino istruito e di successo.» «Perciò può picchiare liberamente la sua ragazza?» Veronica sostenne lo sguardo di Melanie. «Sì.» Frustrata, lei si riprese il rapporto e si alzò. «È uno schifo.» «Non lo dica a me.» Anche Veronica si alzò. «Mi piacerebbe mettere dentro questo farabutto, Melanie, mi creda. Mi porti qualcosa di più e ci riuscirò. Un testimone. Un vicino. Un'altra donna. Se lo farà, lo inchioderò, glielo prometto.» CAPITOLO 5 Ashley entrò in casa di Mia servendosi della chiave che la sorella le aveva dato per i casi di emergenza. Si chiuse la porta alle spalle e consultò l'orologio. Alle cinque di un martedì pomeriggio, era stata certa di trovare Mia a casa. Be', sarebbe tornata presto, si disse, attraversando l'imponente ingresso, diretta in cucina. Nel frattempo, tanto valeva che si mettesse comoda. Prima fermata, il frigorifero, e una delle costose birre d'importazione di Boyd. I suoi tacchi ticchettarono sul pavimento di marmo e Ashley si fermò, improvvisamente conscia del silenzio che regnava nella casa. Neppure il ticchettio di un orologio, né il ronfare di un gatto, né il brusio di un televi-
sore dimenticato acceso, o il chiacchierio di bambini che giocavano all'aperto. Ashley aveva sempre trovato la casa di Mia troppo simile a un mausoleo. Bella, ma fredda, poco accogliente. Una specie di gabbia dorata. Ora, dopo quello che Melanie le aveva raccontato sulla vita coniugale di sua sorella, si rendeva conto di come fosse andata vicino alla verità. Forse, non stava perdendo completamente la ragione, dopotutto. Forse si stava ancora aggrappando a un filo. Era passata esattamente una settimana dalla sua discussione con Melanie a proposito del matrimonio di Mia, e Ashley non era riuscita a smettere di pensarci, a dimenticare come quella discussione l'aveva fatta sentire: arrabbiata, piena di amarezza e di risentimento. Non capiva perché Melanie si rifiutava di accettare la verità, perché non voleva credere che lei, Ashley, poteva vedere le cose più chiaramente poiché non faceva parte della piccola cricca sua e di Mia. Il club delle gemelle. Tre era una folla. La stupida terza incomoda. Ecco che cosa sono sempre stata. Le sorelle e il nipotino erano tutto, per lei. Erano la parte più importante della sua vita. La sola parte che avesse un senso. Loro, invece, avevano di più. Tanto di più che a volte Ashley pensava che non avessero affatto bisogno di lei, che se fosse sparita dalla faccia della terra se ne sarebbero a malapena accorte. Si ribellò contro quei pensieri. Non era vero. Melanie e Mia le volevano bene. La sua emarginazione era solo una sua invenzione. La sua solitudine non aveva nulla a che vedere con gli altri... solo con lei stessa. Con la sua rabbia diretta verso le persone sbagliate. Non era quello che la psicologa da cui era andata per un po' le aveva detto? Che sarebbe sempre stata sola, fino a quando non avesse guardato in faccia la verità del suo passato? Ashley posò la borsa sul piano di lavoro di cucina e andò al frigorifero, ma non lo aprì. Attaccata alla lucida superficie nera c'era una foto sua e delle sorelle, scattata il giorno del loro tredicesimo compleanno. Tre ragazze sorridenti, sottobraccio, bellissime negli abiti rosso fiamma identici, quasi immagini allo specchio l'una dell'altra. Lei guardò la propria immagine e un dolore sordo le strinse il cuore. Quasi immagini allo specchio. Non del tutto, però. La sua parte dello specchio presentava una distorsione. Sottile, era vero, ma sufficiente a distinguerla. Ashley, quella che era diversa. Ashley, per
sempre emarginata. Tagliata fuori. Le lacrime la soffocarono e si schiarì la gola, lottando per respingerle, desiderando di poter cancellare altrettanto facilmente la sofferenza, desiderando di trovare qualcosa che colmasse il vuoto doloroso dentro di lei. Si passò le mani sugli occhi. Che cosa le stava succedendo? Era come se stesse diventando una persona che non conosceva, piena solo di paura e di rabbia. A volte vendicativa, a volte contrita. Una persona che voleva integrarsi, ma si sentiva sempre emarginata, che desiderava disperatamente l'amore e aveva paura di lasciare che qualcuno le si avvicinasse troppo. Perché non poteva abbassare la guardia, né con un uomo, né con chiunque altro? Perché non poteva lasciarsi amare? Batté le palpebre per ricacciare le lacrime che l'accecavano. Quando la vista le si schiarì, notò che, accanto alla fotografia, fissato anche quello con una calamita, c'era un biglietto di Boyd che informava Mia che sarebbe rientrato molto tardi e che era meglio che non lo aspettasse alzata. Quel biglietto le restituì il suo equilibrio. Innamorarsi e finire come le sue sorelle? Una costretta a lottare sempre per la propria indipendenza, l'altra troppo debole anche solo per provarci? Con una smorfia, Ashley aprì il frigorifero e allungò una mano per prendere la birra. Proprio in quel momento sentì aprirsi la porta del garage. Mia, senza dubbio con un baule pieno di pacchetti. Sua sorella amava fare acquisti, e passava buona parte della giornata a godersi il denaro di Boyd. Ashley scosse la testa. Medici. Individui troppo pagati che si credevano i re dell'universo. Era a contatto con loro quotidianamente, e a parte i pochi che davvero consideravano il loro lavoro una missione, ne avrebbe fatto volentieri a meno. Compreso il suo onorevole cognato. Aprì la bottiglia e si mise in cerca di un bicchiere. La porta d'ingresso si aprì e si richiuse. Ashley sentì il fruscio delle borse degli acquisti e Mia che canterellava sottovoce. Sorrise. Sua sorella era decisamente prevedibile. Prese una manciata di noccioline dal barattolo sul piano di lavoro e la birra e si diresse verso il soggiorno. Mia era china sul tavolino e le voltava le spalle, sempre canterellando. «Bel motivetto» commentò Ashley dalla soglia. «Dove sei stata tutto il pomeriggio?» Mia si voltò di scatto. «Ashley! Che ci fai qui?» «Bevo una birra e passo il tempo aspettando che mia sorella torni a ca-
sa.» Ashley entrò nella stanza, masticando le noccioline. «Ho forse bisogno di un invito per venire a trovarti?» «No, certo.» Mia sorrise debolmente. «Mi hai spaventata, ecco tutto.» «La mia macchina è posteggiata davanti alla casa. Non l'hai vista?» «No. Dovevo essere distr...» «Oh, mio Dio. È una pistola, quella?» Mia guardò il revolver che stringeva in mano, con aria smarrita. Un attimo dopo tornò ad alzare gli occhi sulla sorella, arrossendo. «Sì.» «Che cosa te ne fai?» «Niente.» A disagio, Mia si voltò e rimise l'arma nella scatola decorativa al centro del grande tavolino di cristallo e ottone, poi chiuse il coperchio con uno scatto secco. «Niente.» Ashley raggiunse la sorella e la guardò negli occhi. Le fece male vedere, sulla guancia, il giallo bluastro dei lividi che il trucco non riusciva a nascondere. «Perché hai bisogno di una pistola, Mia? Pensi di liberarti di tuo marito nel modo più tradizionale?» «Non essere stupida.» «Non credo di essere stupida.» Ashley posò la birra sul tavolo e si chinò ad aprire la scatola. Dentro c'era un revolver a canna corta, con il calcio di madreperla. Un revolver vero, non un giocattolo. «Se quel bastardo fosse mio marito, sarei tentata. Anche se dubito che gli sparerei. È troppo facile essere scoperta.» Mia sbuffò, esasperata. «Smettila. L'ultima cosa che potrei pensare è uccidere mio marito.» «È qui che siamo diverse, cara. Se mio marito avesse fatto quello alla mia faccia, sarebbe già morto.» Ashley fece per prendere la pistola, poi si fermò. «È carica?» «No, certo.» Ashley afferrò la pistola, soppesandola in mano. Non era pesante come aveva immaginato. E neppure fredda. In realtà, le piaceva il modo in cui sembrava annidarsi nel suo palmo. La prese con entrambe le mani e la puntò. «Fermo, bastardo! O ti faccio saltare le cervella!» Mia scoppiò a ridere, benché la sua espressione fosse inorridita. «Ash, sei impossibile.» Anche Ashley rise. «Potrei abituarmi a girare armata. Che frustata di emozione.» Restituì
l'arma alla sorella e, per la seconda volta, Mia la ripose nella scatola. «Credi che sia così che si sente Melanie ogni mattina, quando si allaccia il cinturone? Tutta macho e via dicendo?» «Conoscendo Mel, è probabile.» Ashley prese la birra e bevve un sorso. Era già più calda di come la preferiva. «Allora, che cosa significa la pistola? Mi sembra pericoloso tenerla in casa, se non hai intenzione di sparare a qualcuno. Carica o no.» Il sorriso di Mia svanì. «Boyd è... è spesso fuori, la notte, e ho pensato... per la mia protezione...» Le parole le morirono in gola. Ashley si fece seria. «Non hai bisogno di fingere con me. Melanie mi ha detto tutto. I tuoi sospetti. Quello che Boyd ti ha fatto.» Mia si portò una mano al livido sul viso. «È stato orribile, Ash. Il modo in cui Boyd... Ho avuto paura. Ce l'ho ancora.» Ashley scosse la testa. «Non hai bisogno di una pistola, Mia. Lascialo, e basta.» «Non posso.» Mia scosse la testa. «Ho paura della sua reazione. Ha detto che, se ci provassi, lui... lui mi farebbe del male.» Ashley sollevò le sopracciglia, sempre più preoccupata. Aveva sempre giudicato suo cognato un mascalzone arrogante, ma non lo aveva mai ritenuto un violento. Ma già, il loro padre era stato un pilastro della comunità. «Non puoi vivere sempre nella paura, Mia.» «Lo so.» Mia fece una pausa. «Quando l'ho conosciuto, Boyd era... tutto. Il Principe Azzurro. Ai miei occhi era perfetto. Pensavo che tutte le voci che circolavano erano dovute solo all'invidia. Quelle storie sulla morte misteriosa di sua moglie, sul fatto che era stato interrogato dalla polizia... ignorai tutto.» «Anch'io.» «Non Melanie, però» mormorò Mia, amara. «Ma già, Melanie sa sempre che cosa è meglio.» Ashley distolse lo sguardo. A volte sembrava proprio che fosse così. Melanie era sempre la più acuta. Quella che faceva le scelte giuste, prendeva le decisioni migliori. E anche le rare volte in cui commetteva un errore, il più notevole era stato il matrimonio con Stan, sapeva correggerlo da sola, senza l'aiuto di nessuno. Neppure delle sorelle.
Ashley guardò la pila di borse di acquisti davanti alla porta. «Sembra che ti sia data alle spese, oggi. Qualcosa di spettacolare?» Mia si illuminò. «Un abitino nero. Te lo farei vedere, ma Boyd...» «Tornerà tardi, stasera. Una riunione. Ha lasciato un biglietto sul frigorifero.» All'espressione ferita di Mia, Ashley sospirò. «Mi dispiace, sorellina.» «Non è colpa tua.» «No, ma mi dispiace lo stesso.» Ashley toccò il braccio di Mia, con il cuore pesante. «Sei troppo buona per lui. Piantalo in asso.» «Vorrei che fosse così facile.» Mia guardò Ashley con improvvisa durezza. «E non azzardarti a dire che lo è. Lo ha già detto Melanie, e sono stufa di sentirlo.» Bruscamente, andò a raccogliere le borse e si diresse verso le camere da letto. Ashley la seguì, stupita. Sua sorella aveva sempre celato accuratamente le proprie emozioni... agli altri e a se stessa. Ashley aveva deciso molto tempo prima che Mia trovava più facile negare i propri sentimenti che affrontarli. Perciò, come mai quello scatto? La trovò occupata a tirare fuori i suoi acquisti e ad allinearli amorosamente sul copriletto di raso color champagne. Mia non la degnò di uno sguardo. Ashley si appoggiò allo stipite della porta e rimase un momento a osservarla, prima di parlare. «Okay, e così non è facile. È maledettamente complicato. Contenta?» Quando Mia la ignorò, aggiunse: «Mi fa piacere vedere che anche tu sei capace di scattare. Era ora. Ma non sono io che ti ho picchiata, perciò non prendertela con me». Mia si fermò, ma non alzò gli occhi. «Lo so. Scusami tanto. È solo che ce l'ho con tutto il mondo.» «Posso capirlo, Mia, davvero...» Finalmente, Mia la guardò. «Ma?» Ashley respirò a fondo, scegliendo con cura le parole. «Quell'uomo ti ha picchiata. Ti ha minacciata. Forse sono stupida, ma non mi sembra che ti trovi di fronte a una decisione difficile.» «Lo so, però Boyd ha promesso che non lo farà mai più...» Ashley sbuffò.
«Buon Dio, Mia, una volta non è abbastanza?» Ignorandola, Mia riportò l'attenzione sui suoi acquisti. Ashley la guardò, calcolando fra sé quanto doveva avere speso. Erano svariate centinaia di dollari, forse più di un migliaio. In un solo pomeriggio. Mia andava a fare spese diverse volte alla settimana. All'improvviso, capì. «Sai» cominciò, a bassa voce, «comprare delle belle cose può anche farti sentire meglio, sul momento, ma non può sostituire l'amore. La tenerezza. L'affetto.» Mia si irrigidì. «Prego?» Ashley accennò agli indumenti accuratamente disposti sul letto. «È per il denaro, vero? Per questo non vuoi lasciarlo?» Mia arrossì. «Ho promesso davanti a Dio, Ashley. Nel bene e nel male. Devo dargli un'altra possibilità. È questo il senso del matrimonio.» Sollevò il mento. «Ma tu non sei mai stata sposata, perciò non puoi capire.» Ashley accusò il colpo. Dolorosamente. «Hai detto una cattiveria, Mia.» «E accusarmi di aver sposato mio marito per denaro non lo è?» «Non ho detto questo. Sto solo cercando di dare un senso a qualcosa che non ne ha affatto. Ossia, perché resti con un uomo che non solo ti è infedele, ma anche ti maltratta?» «Che cosa ti dà il diritto di chiedermelo? Che cosa sai dell'amore? Di che cosa significa un impegno? Niente. E non lo saprai mai, perché tieni tutti a distanza.» Ashley fece un passo indietro. Le parole di sua sorella la ferivano profondamente. Vide il suo futuro estendersi all'infinito davanti a lei, vuoto e senza amore. Si vide sola, sempre sola. Lottò contro quell'immagine. «So che cosa tu e Melanie dite di me. Che sono una strega senza cuore che odia gli uomini. Che ucciderei un uomo piuttosto che aprirgli il mio cuore.» «Non è vero! Noi non...» «Be', ti dirò qualcosa che ti farà ridere, Mia. Anch'io desidero l'amore. Specialmente quando vedo uno di quegli spot all'acqua di rose alla televisione, quelli che mostrano due persone belle e abbronzate che camminano mano nella mano lungo qualche spiaggia esotica. Lo vorrei anch'io. Poi mi
sveglio e mi rammento che sono tutte fandonie.» «Non è vero, Ash.» Mia le prese la mano. «In fondo, solo l'amore esiste. È...» «Un tizio di cui ti fidi che ti assesta un pugno in faccia. È questo che stavi per dire? O uno che ti tiene ferma e ti costringe a...» Ashley si interruppe. «Non sono io ad avere un problema, Mia. Sei tu. Perché credi nelle favole.» «No.» Mia scosse la testa. «Tu hai un problema. Hai tanta paura di essere amata che tieni lontano tutti. Ti rifiuti di vedere che può essere bello...» «A che cosa ti serve la pistola?» chiese Ashley bruscamente, incapace di sopportare un'altra parola. «Speri che Melanie si metta in mezzo, come quando eravamo bambine, e risolva tutto? Speri che ficchi una pallottola in testa a quel dannato bastardo di tuo marito?» «Smettila!» gridò Mia, afferrandola per le braccia e scrollandola. «Smettila! Ti odio, quando fai così. Che cosa ti succede, Ashley?» Gli occhi di Ashley si colmarono di lacrime. Amava tanto le sue sorelle. Perché non potevano capirla? Perché non erano capaci di farla sentire meglio? Perché nessuno ne era capace? Lottò contro le lacrime, aggrappandosi alla sofferenza e alla rabbia... i demoni gemelli a cui ricorreva così spesso. I suoi soli amici. L'avrebbe fatta vedere a Mia. E a Melanie. Un giorno avrebbero saputo che cosa aveva fatto per loro. E le sarebbero state grate. E si sarebbero pentite... «Va' al diavolo!» Ashley si liberò dalla stretta della sorella. «Non mi succede proprio niente. Vedrai. Capirai. E allora, mi supplicherai di perdonarti. Mi supplicherai.» CAPITOLO 6 La tequila bruciava, scorrendo giù per la gola di Connor Parks. Lui scolò ugualmente il bicchiere, lo riempì di nuovo e buttò giù il contenuto. E poi ancora. E ancora. Sapeva per esperienza che quattro dosi, inghiottite in rapida successione, lo avrebbero catapultato sul margine dell'ubriachezza. Dopo, avrebbe potuto varcare quel confine sorseggiando e assaporando. Negli ultimi cinque anni era diventato un esperto sugli effetti anestetici dell'alcol. Si versò un altro dito di liquore, poi posò il bicchiere sul tavolino, sopra una busta su cui era stampigliato: Fotografie - Non piegare. Non era la sola. Altre buste, fogli e cartelle coprivano ogni centimetro del tavolino, del
pavimento intorno e perfino il sedile di una poltrona. Quei documenti rappresentavano gli ultimi cinque anni della sua vita. Rappresentavano le sue ricerche per trovare un assassino e consegnarlo alla giustizia. Non un assassino qualsiasi. L'uomo che gli aveva strappato sua sorella. La sua dolce Suzi. Tutta la sua famiglia. Connor prese una delle cartelle, ma non l'aprì. Conosceva il contenuto a memoria, avrebbe potuto recitarne ogni parola, come da bambino recitava la Dichiarazione d'indipendenza. Il profilo dell'assassino di sua sorella. Aveva impiegato ogni momento libero degli ultimi cinque anni a studiarlo, assieme alle corrispondenti tracce trovate sulla scena del delitto. Senza autorizzazione, aveva usato le risorse dell'FBI per scovare delitti simili. E nel frattempo aveva gettato via il suo matrimonio, la sua carriera, la sua reputazione. Eppure non era più vicino a prendere l'assassino di Suzi di quanto lo fosse stato il giorno in cui lo avevano informato della sua scomparsa. Connor si passò una mano sugli occhi. Aveva la testa pesante per il troppo alcol e il troppo poco sonno. Una parte di lui voleva rinunciare, anche solo per una notte. Si costrinse a continuare, a concentrarsi sui fatti. Benché il corpo di Suzi non fosse mai stato trovato, era risultato evidente, dalla scena, che era stata uccisa. La scena. La graziosa casetta con il patio a Charleston. Quella che lui l'aveva aiutata a comprare. Con l'occhio della mente, Connor si rivide in quella casa, cinque anni prima, in quel terribile giorno. Il giorno in cui la polizia di Charleston gli aveva telefonato a Quantico per informarlo che Suzi era sparita da quattro giorni, e che si sospettava un crimine... Connor era in piedi in mezzo all'ingresso di Suzi, circondato da un caos organizzato. Come cortesia professionale, la polizia di Charleston aveva consentito a lui e a un suo collega l'accesso alla scena prima che qualcosa fosse toccato. Si guardò intorno. La morte violenta lasciava un segno indelebile. Un'aura palpabile. Anche quando una scena appariva, a prima vista, normale, come quella, la presenza della morte si avvertiva. Connor si fece avanti, inoltrandosi in casa. Alcune scene urlavano, altre gemevano. Le aveva viste tutte. Scene dipinte di rosso dal sangue, altre immacolate come una stanza d'ospedale. Aveva visto vittime brutalizzate fino a renderle irriconoscibili e altre che sembravano più addormentate che
morte. E tutte le situazioni intermedie. O così aveva creduto. Fino a quel giorno. La disperazione lo assalì di nuovo. Lottò per combatterla e si concentrò sul lavoro che aveva davanti. Il soggetto si era dato molto da fare, e aveva impiegato un bel po' di tempo, per non lasciare tracce. Questo rivelava a Connor che non aveva avuto timore di essere disturbato o scoperto, che conosceva bene il vicinato, forse anche la casa. Si avvicinò alle macchie di sangue sul tappeto davanti al caminetto e si chinò a esaminarle. Il soggetto aveva tentato di pulirle. Connor indossò un paio di guanti in lattice e ispezionò la macchia più grande. Era ancora umida. Avvicinò le dita al naso. Odoravano di detersivo al pino. Girò lo sguardo sulla stanza. Giudicando dalle impronte, sulla folta moquette era stato passato di recente l'aspirapolvere. Guardò quindi il caminetto, fermandosi sul trespolo degli attrezzi. Scoperto. Paletta. Molle. Il quarto gancio era vuoto. Connor prese nota mentalmente di parlare con gli investigatori di entrambe quelle osservazioni, poi proseguì. La cucina era pulita, a parte i due asciugamani insanguinati ficcati nella pattumiera sotto il lavello. Odoravano di detersivo, e dovevano essere stati usati per pulire le macchie in soggiorno. Li prese, li esaminò accuratamente, quindi studiò il contenuto della pattumiera. «Trovato qualcosa?» Connor alzò gli occhi. Ben Miller, il capo dell'ufficio dell'FBI di Charleston, lo osservava dalla porta di cucina. «Un flacone vuoto di detersivo al pino» rispose lui. «Una lattina di Coca dietetica. Una buccia di banana.» «Abbiamo fatto come hai chiesto. Tutto è com'è stato trovato dalla polizia. I ragazzi della Scientifica stanno raccogliendo gli indizi dietro di te.» «Ve ne sono molto grato, Ben.» «Capisci bene che, ufficialmente, tu non sei coinvolto. Che l'FBI non è coinvolta.» «Capisco.» Connor lottò contro il nodo che gli stringeva la gola. «Assicurati che prendano il sacchetto dell'aspirapolvere. Sospetto che l'assassino abbia ripulito la scena.» «Lo farò.» «E uno degli attrezzi del camino manca. L'attizzatoio. Qualcuno lo ha trovato?»
«Non che io sappia. Controllerò.» Connor annuì e si spostò nel corridoio che conduceva alle due camere da letto. Il ripostiglio nell'ingresso era aperto e ne spuntavano diverse valigie. Come se Suzi le avesse tirate fuori frettolosamente, con l'intenzione di partire a precipizio. Guardò le valigie. Due, non tre. Una mancava. Lo sapeva perché le aveva regalato lui quel set, in occasione della maturità. Che cosa significava? Entrò in camera. Il letto di Suzi era disfatto, le ante dell'armadio aperte. Gli indumenti erano in disordine. Parecchie grucce erano sparpagliate sul pavimento. Connor fissò il contenuto dell'armadio, riflettendo. Dopo la morte dei loro genitori, Suzi era diventata ossessivamente ordinata. Il disordine la faceva addirittura piangere. Lo psicologo da cui lui l'aveva portata aveva spiegato che la perdita dei genitori aveva gettato la vita di Suzi nel caos. Il suo mondo di undicenne, sicuro e prevedibile, era diventato improvvisamente incontrollabile. Lei trovava conforto nell'ordine, perché l'ordine rappresentava un modo per controllare ciò che la circondava. Suzi non avrebbe mai lasciato le sue cose in quello stato, per quanto andasse di fretta. Connor voltò le spalle all'armadio e andò al cassettone. Il cassetto della biancheria era aperto. Sul lato destro, gli indumenti più sexy, mutandine di pizzo, baby-doll trasparenti, erano accuratamente piegati. A sinistra, invece, c'era una confusione di slip e reggiseni di cotone, collant e sottovesti. Le cose pratiche che una donna poteva indossare tutti i giorni, per sua comodità, non per un amante. Dall'esterno giunse il suono improvviso di un clacson. Connor sobbalzò, riportato bruscamente al presente. Batté le palpebre, momentaneamente disorientato, poi si passò una mano sul viso, recuperando l'equilibrio. Cercò la tequila, ma subito dopo posò il bicchiere senza bere, tornando con il pensiero alla morte di Suzi. Ripassò quello che la scena gli aveva detto, rivedendo fatti che conosceva a memoria. L'assassino di Suzi doveva essere un individuo decisamente molto organizzato. Intelligente. Istruito. Inoltre, non c'erano segni di effrazione. Il letto era disfatto, la lampada sul tavolino da notte accesa, gli occhiali da lettura accuratamente piegati sul libro aperto sul letto. Questo lo aveva portato a pensare che l'aggressione fosse avvenuta di notte, e che Suzi conoscesse il suo assassino.
Connor fece uno sforzo per concentrarsi, per far combaciare i pezzi, cercando quello mancante, quello che avrebbe messo a fuoco la figura completa. Suzi e l'assassino erano andati dall'ingresso al soggiorno dove, a giudicare dalle macchie di sangue, era avvenuta l'aggressione. Il soggetto l'aveva stordita con l'attizzatoio mancante, probabilmente con uno o più colpi alla nuca. Connor prese il bicchiere. La mano gli tremava talmente che un po' del liquore traboccò. Buttò giù il resto, continuando le sue riflessioni. A giudicare da quanto di maldestro e indeciso aveva rilevato sulla scena, l'assassino non era un criminale esperto. E Connor non riteneva che l'omicidio fosse stato premeditato. L'aggressore aveva visto l'occasione e l'aveva colta. Dopo, non solo aveva cercato di ripulire la scena, aveva anche tentato di nascondere il delitto portando via il corpo e facendo credere che Suzi avesse preparato una valigia e se ne fosse andata. Imprecò. Con tutto quello che sapeva, mancava pur sempre qualcosa. Qualche indizio, qualche collegamento. Così, non aveva senso. Si passò una mano sugli occhi, sforzandosi di dimenticare i propri sentimenti, di concentrarsi sulla firma dell'assassino. Invece, ricordò l'ultima conversazione che aveva avuto con Suzi, una frettolosa telefonata che lei gli aveva fatto a Quantico. Una telefonata che gli aveva rivelato che sua sorella era spaventata, e in cui lo aveva supplicato di andare a casa... «Con, sono io. Ho bisogno del tuo aiuto.» Non un'altra volta. Non in quel momento. «Suzi, non si può rimandare?» Connor guardò l'orologio, impaziente. Era impegnato in un caso che sembrava diventare più complicato a ogni minuto che passava. «Devo partire per l'aeroporto fra venti minuti e ho ancora cento cose da fare.» «No! Non si può rimandare, Con. Stavolta è una cosa seria e... Mi vedo con questo tizio e lui... io...» Suzi respirò a fondo. «Ho scoperto che è sposato.» La sua dolce, sventata sorellina sembrava attirare un mascalzone dopo l'altro. Connor soffocò un sospiro, tornando a guardare l'orologio. «Oh, Suzi, ci siamo passati altre volte.» «Lo so, lo so. Sono un'idiota. C'erano tutti i segnali, ma io... li ho ignorati. Non volevo crederci.» La voce di Suzi assunse una familiare nota di isterismo. «Ma poi non ho più potuto ignorarli e... e ho cercato di rompere.»
«Cercato?» «Lui mi ha minacciata, Con! Mi ha detto che, se lo lascio, non vedrò più un altro uomo. Mai! Ho paura, davvero. Devi venire a casa. Devi!» Connor amava sua sorella. Più grande di lei di dodici anni, l'aveva praticamente cresciuta, dopo la morte dei genitori. Era più un padre che un fratello. Ma Suzi era una donna, ormai, e lui aveva il suo lavoro. La sua vita. Nei tre anni da che lavorava all'Unità di Scienze Comportamentali, Suzi lo aveva chiamato per una dozzina di differenti crisi. E, ogni volta, lui aveva mollato tutto ed era corso a casa. Stavolta, però, no. Era tempo che Suzi imparasse a reggersi sulle sue gambe. E glielo disse. Lei cominciò a piangere, e Connor mitigò il tono. «Ti voglio bene, Suzi. Ma il fatto che io corra a casa a rimediare qualcosa nella tua vita non aiuta nessuno dei due. Devi crescere, piccola. È ora.» «Ma non capisci! Questa volta...» Lui tagliò corto, anche se era la cosa più difficile che avesse mai fatto. «Ora devo andare. Ti chiamerò al mio ritorno.» Non aveva mai più parlato con lei. Connor imprecò di nuovo. L'odio gli bruciava dentro... odio per se stesso, per i suoi errori, per il bastardo che Suzi aveva frequentato. Perché era certo che l'amante sposato di Suzi era anche il suo assassino. Ma quell'uomo, chiunque fosse, aveva coperto bene le proprie tracce. Una furia ben nota si impadronì di lui. Una furia nata dal rimorso, dalla frustrazione, dall'incredulità, dall'orrore. Conosceva bene il tipo d'uomo che seduceva, malmenava, e poi, in un momento di rabbia possessiva, uccideva una ragazza bella e intelligente come sua sorella. Conosceva il tipo perché lo aveva visto anche troppe volte all'opera. Si portò il bicchiere alle labbra, sperando di cancellare sia il sapore orribile che aveva in bocca, sia le immagini dalla mente. Immagini di Suzi e di innumerevoli altre vittime. Di Joli Andersen e del terrore che aveva visto nei suoi occhi privi di vita. Non esisteva liquore bastante a liberarlo da quelle immagini. Ci aveva provato altre volte. Il meglio che poteva sperare era l'oblio. Il campanello della porta suonò, interrompendo il suo procedere in quella direzione. Borbottando un'imprecazione, si alzò e andò ad aprire, pronto ad aggredire lo sfortunato che si era avventurato nel suo portico.
Spalancò la porta. E si trovò davanti Steve Rice. Connor lo guardò male. «Che c'è?» «Simpatica accoglienza» commentò Rice, senza scomporsi. «Dovrei considerarla un invito a entrare?» «Accomodati.» Connor si fece da parte e, senza aspettarlo, tornò al divano e al suo drink. Rice chiuse la porta e si fece strada fra le pile di fogli e cartelle, fermandosi davanti a Connor. «Ti spiace se mi siedo?» «Serviti pure. Libera un posto.» L'altro raccolse in una pila ordinata i fogli sparpagliati sulla poltrona, li posò sul pavimento e si sedette. «Hai sete?» chiese Connor. «No, grazie. Diversamente da te, sono piuttosto affezionato al mio fegato. Vorrei tenermelo.» «Divertente.» Connor sollevò il bicchiere in un ironico brindisi, poi lo scolò. «Sei qui come capo o come amico?» Quando Rice non rispose, Connor seguì il suo sguardo e vide che fissava una foto incorniciata sul tavolino della lampada. Era una foto del figlio della sua ex moglie, scattata durante una delle loro gite a pesca. Il bambino sorrideva da un orecchio all'altro, mostrando fieramente il pesce che aveva preso. Connor allungò una mano e appoggiò la foto a faccia in giù sul tavolo. «Hai sentito Trish o il bambino, ultimamente?» chiese Rice. «Non li ho più sentiti da quando mi ha lasciato.» «È stato molto tempo fa, Con. Quanto, un paio d'anni?» Connor si strinse nelle spalle. «Ricordo che eri molto affezionato al bambino. Come si chiamava?» Jamey. Connor strinse i pugni. «Vuoi arrivare da qualche parte, Rice?» «Semplice curiosità.» «Be', piantala.» L'altro si guardò le mani intrecciate in grembo. «Hai acceso la televisione, stasera?» Connor alzò gli occhi di scatto. «Avrei dovuto?» «La ricompensa offerta da Cleve Andersen è il titolo principale. Dopo-
tutto, centomila dollari fanno notizia. C'è anche una breve intervista con te che critichi l'iniziativa. Con parole pesanti.» «Su che canale?» «Tutti. Sia nei notiziari delle sei, sia in quelli delle dieci.» Rice guardò Connor negli occhi. «Cleve Andersen è il padre della vittima. È un uomo importante, in questa città. Ha contatti che non si fermano al confine dello stato. Conoscenze potenti. Mi senti?» «Ti sento.» Connor si alzò. «Ma non stai dicendo niente. Sputa il rospo, Steve.» «Prima, lo sfidi in una stanza piena di gente, poi parli con la stampa. A questo punto, Andersen è sul sentiero di guerra.» «E vuole il mio scalpo.» «Ha raccolto qualche informazione su di te, oggi pomeriggio. Ha scoperto che bevi. Ha scoperto che sei stato censurato. Trasferito.» Connor si irrigidì. «Faccio ancora il mio lavoro. Meglio di chiunque. E tu lo sai.» «Lo sapevo, una volta» ribatté Rice. Guardò Connor, preoccupato. «Devi smetterla, amico.» Accennò alla stanza, ai fogli, alla bottiglia. «Ti stai uccidendo.» Connor rise, aspro. «Ci vuole più di un po' di tequila per uccidermi.» «Non parlavo della tequila. Lascia perdere Suzi, Connor. Non pensarci più.» Quelle parole lo colpirono con la forza di una pallottola. «Non pensarci più» ripeté, roco. Fissò sul collega gli occhi brucianti. «Come diavolo potrei farlo?» «Fallo, e basta.» «Tu non sai» scattò Connor, con voce sorda. «Non puoi immaginare che cosa... che cosa ho...» Un gemito soffocato gli sfuggì. «È colpa mia, capisci? Mi chiese aiuto, mi supplicò di andare a casa. Invece, le feci una predica sul fatto che doveva reggersi sulle sue gambe. Le dissi che era tempo che crescesse...» Fece uno sforzo per controllarsi. «Non capisci? Se l'avessi ascoltata, quando mi chiese aiuto, se solo...» Si interruppe e voltò le spalle a Rice, tremando di rabbia impotente. «Mi dispiace, Con.» L'altro si alzò e gli si avvicinò, mettendogli una mano sulla spalla. «Ti consiglio di chiedere un periodo di ferie. Con effetto immediato.» Connor si voltò.
«Perché ho offeso il cittadino più importante di Charlotte? O perché sto macchiando l'immagine immacolata dell'FBI?» «Guardati! Sei un disastro. Che tu metta in imbarazzo l'FBI è l'ultima delle mie preoccupazioni. Se ti permettessi di continuare a lavorare in questo modo, ti faresti ammazzare, o causeresti la morte di qualche altro agente.» «Non farmi questo, Steve» disse Connor con voce incolore. «Senza l'FBI non prenderò mai questo tizio. La farà franca.» «Non lo capisci, Con? L'ha già fatta franca. Devi smettere di pensarci. Devi continuare la tua vita.» Connor scosse la testa. «Mi è sfuggito qualcosa, ecco tutto. Con le risorse dell'FBI...» «È questo che è diventato il tuo lavoro, per te? Un mezzo per alimentare le tue ossessioni?» «Non capisco.» «No, credo di no.» Rice tese una mano. «Ti chiedo il distintivo e la pistola. Mi dispiace, Connor. Non mi lasci altra scelta.» CAPITOLO 7 Il telefono riscosse Melanie da un sonno profondo. Subito sveglia, afferrò il ricevitore. «May.» La persona all'altro capo del filo sussurrò qualcosa che Melanie non capì. «Agente Melanie May. Chi parla?» «M... Melanie, s... sono i... io.» «Mia?» Melanie guardò la sveglia. Quasi le due del mattino. Il cuore le balzò in gola. «Che cosa è successo?» Mia cominciò a singhiozzare. Allarmata, Melanie si rizzò a sedere. «Calmati, Mia. Dimmi che cosa è successo. Non posso aiutarti, altrimenti.» «È... Boyd» riuscì a rispondere Mia. «Ha... ha...» I singhiozzi la soffocarono nuovamente. Melanie scese dal letto e andò all'armadio, con il cordless all'orecchio. Tirò fuori un paio di jeans e un pullover. «Tesoro» disse, lottando contro il panico, «devi calmarti. Devi dirmi che cosa è successo. Che cosa ha fatto Boyd?» Per un lungo momento, Mia rimase in silenzio, sforzandosi palesemente di recuperare il controllo. Poi sussurrò: «Ha perso le staffe. Ha detto...». Alzò la voce. «Ho paura, Mellie. Devi aiutarmi. Devi!»
Melanie consultò l'orologio, calcolando i tempi. «Dove sei?» «Sono a casa. Mi sono chiusa a chiave in bagno. Credevo... credevo che quel pazzo volesse abbattere la porta!» Reggendo il telefono fra l'orecchio e la spalla, Melanie si infilò i jeans. «È lì, adesso?» «No... almeno non... non credo.» «Bene.» Melanie chiuse la lampo, poi si tolse la camicia da notte e andò in cerca del reggiseno. «Voglio che tu stia nascosta. Non uscire dal bagno. Mi hai capita bene?» Mia mormorò un assenso. «Arrivo subito.» «Ma C... Casey... Non puoi...» «È con Stan. Lo ha portato a Disney World, ieri.» Melanie agganciò il reggiseno e si passò sopra la testa il pullover. «Esco adesso. Promettimi che resterai in bagno.» Mia promise e lei riattaccò, infilò le scarpe e corse alla porta. Si fermò a metà strada e tornò indietro a prendere la pistola. Non intendeva correre rischi. Assolutamente. Se Boyd aveva perso il controllo come Mia asseriva, poteva essere capace di tutto. Venti minuti dopo, Melanie fermò la macchina nel vialetto di Mia. Balzò fuori e corse alla porta. Provò ad aprirla e scoprì che non era chiusa a chiave. Con il cuore in gola, entrò nella casa buia, estraendo la pistola. «Boyd?» chiamò. «Mia? Sono io, Melanie.» Nessuno rispose. Lei accese la luce e sussultò. Sembrava che suo cognato avesse avuto un vero accesso di furia. Sedie rovesciate, lampade e soprammobili infranti e sparsi sul pavimento. «Mia!» chiamò di nuovo, stavolta con una nota di panico nella voce. Dimenticando ogni cautela, corse verso il retro della casa, dove si trovava la camera da letto. Tentò la maniglia del bagno. La porta era chiusa a chiave. Bussò. «Mia, sono io! Apri!» Dall'interno sentì un grido, poi un tonfo sul pavimento. Un attimo dopo la porta si spalancò e Mia le cadde fra le braccia. «Melanie! Grazie a Dio! Ero così spaventata!» Melanie strinse a sé la sorella tremante. Sembrava piccola e fragile fra le sue braccia. «Va tutto bene. Sono qui, ora. Non lascerò che Boyd né nessun altro ti faccia del male, te lo assicuro.» Mentre pronunciava quelle parole, Melanie si rese conto che erano le stesse che aveva ripetuto innumerevoli volte quando erano bambine. La
sua mente si colmò di ricordi che avrebbe preferito dimenticare, dei momenti passati ad abbracciare e confortare Mia, proprio come ora. Di tutte le volte che era corsa in aiuto della sorella. Della prima volta, solo poche ore dopo il funerale della loro madre. Chiuse gli occhi, lottando contro i brutti ricordi, contro la sofferenza che provocavano. Quel giorno, Mia era diventata il bersaglio preferito del padre, benché Melanie non avesse mai capito il perché. Come un animale selvaggio che divorava i propri cuccioli, lui aveva fatto del suo meglio per distruggere Mia. E ci sarebbe riuscito, se non fosse stato per Melanie. E per Ashley. Ogni volta che potevano, avevano serrato i ranghi, deviando la sua rabbia su loro stesse. E a tredici anni, quando gli abusi verbali e fisici erano diventati sessuali, Melanie aveva minacciato il padre di ucciderlo. Svegliandosi da un sonno profondo, l'uomo si era trovato legato mani e piedi, con la sua gemella primogenita che gli puntava alla gola uno dei suoi coltelli da caccia. Se avesse toccato un'altra volta Mia, gli aveva promesso, lo avrebbe ucciso. Melanie era convinta di quello che diceva... e doveva essersene convinto anche lui, perché gli abusi sessuali erano cessati. A quel punto, lei strinse più forte a sé la sorella, con il cuore stretto. Perché Mia?, si chiedeva. La più indifesa, la più sensibile delle tre? E ora, perché questo? Perché sua sorella non poteva avere l'amore che meritava? Perché nessuna di loro poteva averlo? Si staccò dalla sorella per guardarla. «Ti ha toccata?» Mia scosse la testa, lottando per ritrovare la voce. «Non gliene ho dato la possibilità. Sembrava impazzito quando ho agguantato il cellulare e sono corsa a chiudermi qui. Ha preso a calci la porta... credevo che l'avrebbe abbattuta. Poi... ha smesso. Lo immaginavo nascosto qui fuori, a studiare un modo per stanarmi. Lo immaginavo prendere la pistola...» «Ha una pistola?» Mia impallidì. «Non... non lo so. Voglio dire, lo immaginavo prendere una pistola. Ero così spaventata!» Melanie guardò la porta. La vernice bianca era macchiata dalle tracce nere di uno stivale. «Hai chiamato la polizia?» «Come?»
«La polizia. L'hai chiamata?» «No, io...» «Va bene, possiamo chiamarla adesso.» Raccolse il telefono dal pavimento del bagno, ma, quando glielo tese, Mia si tirò indietro. «Devi farlo, Mia. Devi proteggerti. Devi fermarlo.» «Non posso.» «Mia...» «Non sopporterei che tutti sapessero!» Mia si coprì il viso con le mani. «Mi vergogno tanto.» Melanie posò il telefono e le scoprì il viso. Le mani erano fredde, tremanti. «Guardami, Mia. Tu non ha niente di cui vergognarti. È lui che deve vergognarsi. È lui che...» «La farà franca. Lo sai bene. Negherà, e tutti gli crederanno. E io sarò considerata la moglie patetica, affamata di attenzione.» «Hai delle prove. Guarda questo posto, i segni sulla porta, le...» Melanie si interruppe, rendendosi conto che la sorella aveva ben poco, a parte i lividi vecchi di due settimane. Neppure una telefonata al 911. «Vedi che ho ragione?» Mia scosse la testa, con le lacrime che le scorrevano lungo le guance. «Sarebbe la mia parola contro la sua. A chi pensi che crederebbero?» Melanie si era trovata di fronte a pregiudizi simili, quando aveva lasciato Stan, benché lui non l'avesse mai maltrattata fisicamente. L'aveva fatta infuriare allora, e la faceva infuriare anche adesso. Era stufa di un sistema che permetteva ai ricchi e ai potenti di sopraffare i più deboli. Qualcuno avrebbe dovuto fargliela pagare. Mia chinò la testa. «È colpa mia. Gli ho chiesto dove andava. Avrei dovuto tacere.» «Non fare così, Mia. È ragionare da vittima. Sono sciocchezze.» Melanie prese la sorella per le spalle. «È tuo marito. Avevi tutte le ragioni, e tutto il diritto, di interrogarlo.» «Ma io...» «No! Tu non diventerai una vittima. Non lo permetterò, hai capito?» Melanie scrollò Mia, costringendola a guardarla negli occhi. «Devi lasciarlo. Devi. È il solo modo per venire fuori da questa situazione.» Mia ricominciò a piangere, annuendo. «Hai ragione, Mellie. Ma non voglio farlo. Voglio il mio matrimonio. Quello che credevo di avere. Quello che sognavo.»
Gli occhi di Melanie si colmarono di lacrime. Capiva bene sua sorella. La strinse fra le braccia. «Lo so, cara. È quello che vorrei anch'io. Quello che credevo di avere. Ma non è possibile. Devi lasciarlo, prima che ti faccia realmente del male.» Melanie rimase con Mia fino all'alba. Dopo aver rimesso in ordine la casa, si raggomitolarono insieme sul letto, sorseggiando un goccio di brandy e ricordando i giorni belli della loro infanzia, gli amici che avevano avuto e i bei posti in cui avevano abitato. Dopo un po', Mia si era assopita. Ma anche quando l'aveva vista profondamente addormentata, a Melanie si stringeva il cuore all'idea di lasciarla. Tuttavia, era stata costretta a farlo. Era evidente che Boyd non sarebbe ritornato, e lei aveva sperato di dormire un'ora, prima di andare al lavoro. E invece era rimasta distesa, sveglia, a fissare il soffitto e a preoccuparsi per la sorella. Benché Mia avesse promesso di lasciare il marito, Melanie non credeva che lo avrebbe fatto. Accadeva spesso che una donna maltrattata decidesse di farla finita, durante una crisi, solo per cambiare idea una volta che la crisi era passata, o il marito si scusava e prometteva di non farlo più. Boyd doveva pagarla, aveva deciso Melanie, mentre faceva la doccia. Doveva sapere che il suo comportamento era tenuto d'occhio e che altre violenze non sarebbero state tollerate. Che lei non le avrebbe tollerate. Aveva un piano. «Buongiorno, Bobby» disse al collega, arrivando al quartier generale, un po' più tardi. «Salve, Mel» rispose l'eternamente allegro Bobby, alzando gli occhi dalla pagina sportiva del Charlotte Observer. «Che faccia, stamattina! Sei stata alzata tutta la notte a vegliare un bambino ammalato?» «In un certo senso.» Melanie posò la borsa e puntò sulla caraffa del caffè. Bobby si alzò e la seguì. «Aspetta un momento. Credevo che Casey fosse a Orlando con suo padre...» «Infatti. Si tratta di un bambino diverso.» Melanie raccontò come aveva passato la notte, anche se non entrò nei particolari dei problemi della sorella. «Pensavo che potremmo fare una visita non ufficiale al buon dottore.» Bobby sorrise. «E dargli una piccola scrollata.» «Appunto.»
«Ci sto.» Melanie aggiunse la panna liofilizzata al suo caffè e lo assaggiò. «Ci sono novità?» «No. Solo la vecchia signora Grady che ha segnalato la presenza di un bandito mascherato nel suo cortile.» Melanie alzò gli occhi al cielo. Il breve incontro con il vero lavoro di investigazione faceva apparire la routine di Whistlestop più inutile che mai. «Un procione?» «Piccoli bastardi irritanti, vero? La signora ha richiesto un intervento immediato.» Tornarono alla scrivania di Bobby, e Melanie si sedette su un angolo. «E il centralino telefonico? Qualche chiamata?» «Qualcosa di promettente? No. Chiamate, sì.» Bobby le tese uno stampato. Melanie scorse le pagine, frustrata. «Devono essere un centinaio.» «Centododici. Ma chi le conta?» Lei sospirò, rassegnata. «Cima o fondo?» chiese, riferendosi a quale metà della lista il collega preferiva. «Spiacente di rovinarti la giornata, ma quella che hai in mano è la cima della lista.» Melanie gemette, e lui emise un brontolio comprensivo. «È una scocciatura, eh?» «Puoi dirlo.» Melanie gli scoccò un'occhiata. «Bobby, tu sei nella polizia di Whistlestop da dieci anni. Come fai a non essere stufo di questa noiosa routine?» Lui rimase in silenzio per un momento, poi rispose, in tono misurato: «Melanie, ho trentotto anni, quattro figli e una moglie da mantenere e solo un diploma universitario biennale. Qui guadagno quanto un agente del CMPD dello stesso grado, posso portare la pistola e apparire un eroe agli occhi dei miei ragazzi, ma so che il bandito mascherato della signora Grady non li renderà orfani. E questo è molto importante per me». Melanie guardò il collega con nuovo rispetto... e anche con un certo senso di colpa. Lei avrebbe dovuto pensarla allo stesso modo, per via di Casey. Ma non era così. L'ambizione, il desiderio di svolgere un vero lavoro di polizia le bruciavano dentro. A volte, sentiva che quel fuoco avrebbe finito per consumarla. Mostrando un sorriso forzato, mostrò la sua metà della lista. «Okay, signor Raggio-di-sole, dipingi questa di rosa per me, ma sbrigati,
finché ricordo ancora come si fa a sorridere.» «Con piacere.» Bobby batté il dito sullo stampato. «Il fatto è che circa un terzo della lista può essere eliminato come invenzioni pure e semplici.» «E questo dovrebbe farmi sorridere?» «Aspetta. Un altro terzo può essere verificato semplicemente. Una telefonata, un controllo sul computer e così via.» «Ma sul resto dobbiamo indagare.» Melanie si prese la testa fra le mani. «Daremo la caccia ai fantasmi per tutto il giorno.» «Non per tutto il giorno.» Bobby sorrise e abbassò confidenzialmente la voce. «Dopo esserci occupati di questi seccanti fantasmi, potremo fare una visitina al tuo manesco cognato.» Anche Melanie sorrise. «La giornata comincia a piacermi.» Parecchie ore dopo, Melanie e Bobby entrarono nell'atrio del Queen's City Medical Center. Poiché era situato a soli cinque minuti dal quartier generale della polizia, avevano lasciato quella tappa per ultima... una specie di ricompensa per le precedenti ore di noioso lavoro. «Salve» disse Melanie all'impiegata in servizio al banco informazioni. «Sono l'agente May, e questo è l'agente Taggerty. Dobbiamo parlare con il dottor Donaldson. C'è?» La donna esitò. «Chiamo il suo ufficio.» Telefonò e, dopo un momento, tornò a rivolgersi a Melanie. «Non risponde. Vuole che lo faccia rintracciare?» Melanie disse che voleva, e pochi minuti dopo lui rispose al cercapersone. La receptionist voltò le spalle ai due agenti e parlò sottovoce al telefono, senza dubbio informando il grande dottor Donaldson... il più rispettosamente possibile... che la polizia voleva vederlo. «Scenderà subito» annunciò, dopo avere riattaccato. «Grazie.» Ammiccando a Bobby, Melanie voltò le spalle agli ascensori, fingendo di interessarsi alla gente che andava e veniva nell'atrio. Non voleva che Boyd la vedesse subito. Sapeva che a suo cognato piaceva avere il controllo di ogni situazione. Ma stavolta lei intendeva fare in modo che non ci riuscisse. Non dovettero aspettare a lungo. Boyd cadde nel tranello, ritenendo che Bobby fosse l'agente che voleva vederlo. «Buongiorno, agente» disse, gioviale. «Dottor Boyd Donaldson. Che cosa posso fare per lei?»
Melanie si voltò e sorrise amabilmente. «Sei bravo a ingraziarti i poliziotti. Dove hai imparato?» Per un attimo, lui parve spiazzato. Poi, un cupo rossore si diffuse sul suo bel viso. «È uno scherzo?» «Uno scherzo? Come sarebbe a dire?» «Avete detto a Nancy che era una visita ufficiale.» «Niente affatto.» Melanie si rivolse alla receptionist. «Mi scusi tanto se io le ho dato questa impressione.» La donna parve turbata, e Boyd le sorrise, rassicurante. «Nancy, questa è mia cognata.» Si rivolse a Melanie. «Non ho tempo per fare due chiacchiere in famiglia, in questo momento. Chiama la mia segretaria e fissa un appuntamento.» Il suo atteggiamento non sorprese Melanie. Non erano mai andati d'accordo. Aveva cominciato lei, supplicando Mia di non sposarlo, e lui aveva risposto facendo del suo meglio per tenerla alla larga da Mia, dopo il matrimonio, e arrivando perfino a dire alla novella sposa che sua sorella non era la benvenuta nella loro casa. Fece per allontanarsi, ma Melanie lo fermò, mettendogli una mano sul braccio. «Trova il tempo. Adesso.» Lui guardò ostentatamente la mano. «Prego?» «Si tratta di Mia.» Boyd esitò, guardò l'orologio, poi sospirò, seccato. «Bene.» Accennò a un angolo tranquillo dell'atrio. «Sbrigati, però. Sono atteso in sala operatoria fra quaranta minuti.» Melanie attese che fossero relativamente soli, poi attaccò: «La tua preoccupazione per la salute di mia sorella è commovente, Boyd, davvero». «Non c'è niente di cui preoccuparsi. Stamattina stava benissimo. E se avesse avuto un incidente, me lo avresti detto subito. Mi sbaglio?» Inarcò le sopracciglia, arrogante, e Melanie si sentì ribollire il sangue. «Brutto bastardo.» Fece un passo avanti. «So tutto di te, dottor Donaldson. So quello che combini, e farai meglio a smettere.» L'espressione di Boyd non cambiò, anche se Melanie credette di vedere un lampo di panico nei suoi occhi. Lei fece un altro passo avanti. «Se picchierai ancora mia sorella, non sarò responsabile delle mie azioni» affermò, senza curarsi di abbassare la voce.
Parecchie persone guardarono dalla loro parte, e Boyd arrossì. «Se stai parlando di quel ridicolo occhio nero, Mia può prendersela solo con se stessa. A causa della sua disattenzione, sono stato costretto a intervenire al party annuale dei sostenitori dell'ospedale da solo. Non mi è piaciuto.» Come se avvertisse che Melanie stava per scoppiare, Bobby le mise una mano sul braccio, in un muto avvertimento. Lei capì e si concesse un momento per calmarsi, prima di parlare di nuovo. «Questa storia va bene per i tuoi compagni di golf e di bisturi, ma non per me» l'ammonì Melanie. «So tutto, e ti assicuro che se toccherai un'altra volta mia sorella...» Una guardia del servizio di sicurezza dell'ospedale si avvicinò. «Tutto bene, dottor Donaldson?» «Sì.» Boyd sorrise. «Mia cognata ha frainteso alcune cose. Ma stava giusto per andarsene. Non è vero, Melanie?» Lei lo ignorò. Sporgendosi verso di lui, abbassò la voce. «Se farai di nuovo del male a mia sorella, non risponderò delle mie azioni. Capito?» Un sorrisetto di superiorità incurvò le labbra di Boyd. «Sembrerebbe una minaccia.» Guardò la guardia, poi Bobby. «Siete entrambi testimoni.» A quel punto, riportò lo sguardo su Melanie. «Ti consiglio di imparare a controllarti, cara cognata. Ho la sensazione che un giorno ti metterai nei guai.» Boyd guardò Melanie allontanarsi, sempre con lo stesso sorriso divertito sulle labbra. Ringraziò la guardia, si scusò per il comportamento della cognata, poi si allontanò... l'autentico ritratto della calma, del controllo e della sicurezza. Salvo per il tic rivelatore sopra l'occhio destro. Imprecò sottovoce e respirò a fondo. Accidenti a sua cognata. Come osava presentarsi in ospedale a sfidarlo? Là, lui era Dio. Tutti si piegavano alla sua volontà, seguivano con deferenza le sue opinioni. Melanie non sapeva niente di lui. Niente. Passando davanti al banco delle informazioni, vide che la receptionist lo guardava con curiosità. Il tic divenne uno spasmo. Era così che cominciava, di solito. Uno sguardo curioso. Una domanda sussurrata. Un bisbiglio, una voce, un'accusa. Indirizzò alla donna un secco sorriso e lei chinò la testa, imbarazzata.
Faceva bene a temerlo, pensò Boyd. Avrebbe potuto farla licenziare quel giorno stesso. Una telefonata, e sarebbe stata fuori. Per un momento, pensò di farlo davvero, poi rinunciò. Avrebbe sortito l'effetto opposto. Prendersela con la donna avrebbe attirato l'attenzione su di lui e fatto parlare la gente. No, meglio fingere che non esistesse e che l'episodio di poco prima non fosse mai accaduto. Tornò al suo ufficio, salutando dei colleghi al passaggio, godendo della deferenza con cui lo guardavano. Entrò nell'ufficio e si chiuse la porta alle spalle. Melanie lo aveva accusato di picchiare la moglie. Bella roba. Nessuno andava in prigione per una cosa del genere. Ma se Melanie avesse davvero sospettato la verità su di lui, non sarebbe stato là, ora, e meno che mai sarebbe stato primario di chirurgia toracica in uno degli ospedali più quotati del Sudest. No, decise Boyd. Melanie stava solo sparando a casaccio, preoccupata per il disintegrarsi del suo matrimonio con Mia. Era proprio da Mia correre a piangere dalla sorella. Piccola strega viziata. Scosse la testa. Quando aveva sposato Mia, aveva creduto di fare una scelta perfetta. Essendo infermiera, aveva familiarità con le politiche dell'ospedale e possedeva la necessaria abilità mondana per aiutarlo a migliorare la sua posizione nella gerarchia ospedaliera. Faceva un'ottima figura al suo fianco e, cosa ancora più importante, era docile, si lasciava intimidire facilmente ed era innamorata di lui e dello stile di vita che il loro matrimonio le avrebbe permesso. Non aveva tenuto conto del fatto che quella gatta selvatica di sua sorella era un poliziotto. Un poliziotto. Qualcosa che somigliava al panico gli strinse la gola. Era stato così attento alle donne che sceglieva, a dove le trovava... Non a tutte le donne che sceglieva. Aveva commesso degli errori. Si lasciò cadere sulla poltrona della scrivania e solo allora si concesse di abbassare la guardia. Gli sbirri avevano un loro modo di fiutare in giro. E se sua cognata avesse cominciato a ficcare il naso, a fare domande ai suoi ex colleghi e superiori? Charleston era più piccola di Charlotte. La gente parlava. Che cosa sarebbe riuscita a far saltare fuori? Chi sarebbe riuscita a far saltare fuori? Boyd lottò contro il panico. Melanie May era un poliziotto di paese. Che danno poteva fargli? Sbuffò, disgustato. Nessuno. Melanie non era più pericolosa per lui della
guardia di un centro commerciale. CAPITOLO 8 Il destino era un'entità imprevedibile. A volte sorrideva a chi meno lo meritava e voltava le spalle ai buoni e ai miti. Ma la Morte, no. La Morte era giusta. Equa. La Morte non si basava sul capriccio o sul caso, ma sulla lungimiranza e la pianificazione. Sulla giustizia. Il tempo era venuto. Il tempo, per quell'uomo, di pagare, come gli altri, per i crimini impuniti. Per i peccati contro i deboli, contro coloro per cui la giustizia era una promessa vuota. La Morte emerse dall'ombra del ristorante e attraversò il posteggio, diretta al filare di alberi da frutta che lo delimitava, in fondo. Sugli alberi, in piena fioritura, i fiori erano bianchi, delicati, fragranti. Là, posteggiata sotto il baldacchino dei rami, la macchina dell'uomo aspettava. La Morte raggiunse il veicolo e si fermò a respirare il pesante profumo. A godere. Il profumo, certo, ma anche il momento della vittoria del bene sul male, della bontà sul potere. Il tempo era venuto. Com'era sua abitudine, l'uomo aveva lasciato il finestrino dell'auto parzialmente abbassato. Un'abitudine pericolosa, quando si posteggiava vicino a fiori dal profumo così dolce. Un'abitudine sciocca, specie per uno che era allergico al veleno delle api. Specie se una sola puntura in un momento inopportuno poteva provocare la chiusura della gola, il crollo della pressione, e finalmente l'arresto del cuore. La Morte portava con sé un sacchetto bianco, del tipo usato dai takeaway o dai fornai. C'era stampato il logo del ristorante alle sue spalle. Dall'interno del sacchetto proveniva un ronzio rabbioso. I messaggeri della Morte esigevano di essere liberati. Di adempiere al loro compito. «Fra poco» mormorò la Morte, socchiudendo il sacchetto e gettandolo frettolosamente attraverso il finestrino anteriore della macchina, dal lato del guidatore. Il sacchetto si aprì del tutto e i piccoli, ma potenti messaggeri della Morte si prepararono. Melanie entrò nel parcheggio, infilò la macchina nel primo posto che le capitò, raccolse in fretta la borsa e la sacca da ginnastica e scese. L'aria della sera era lievemente profumata, segno che la primavera era giunta.
Lei era in ritardo per la lezione di tae kwon do. Nei due giorni trascorsi da quando Cleve Andersen aveva annunciato la ricompensa, le chiamate si erano accumulate. Una, giunta proprio all'ultimo minuto, l'aveva trattenuta ben oltre la fine del suo turno. Ma, se si sbrigava, poteva essere sulla pedana in tempo. Al suo istruttore non piacevano i ritardi, specie da parte delle cinture nere. Lui li riteneva un chiaro segno di mancanza di disciplina e di rispetto. «Agente May?» Melanie si fermò, guardando da sopra la spalla la donna bionda che si affrettava per raggiungerla. «Avvocato Ford, che sorpresa.» Veronica indicò la sacca di Melanie. Ne aveva una simile sulla spalla. «Sembra che abbiamo altre cose in comune, a parte voler inchiodare i cattivi.» «Sembrerebbe.» Le due donne si incamminarono insieme. «Lei è cintura nera?» «Terzo grado. E lei?» «Primo.» Melanie aprì la porta della palestra, cedendo il passo a Veronica, e si diressero verso lo spogliatoio. «Quando ha cominciato a venire qui?» «Due settimane fa. Frequentavo un'altra palestra, dall'altra parte della città, ma non mi trovavo bene.» Melanie capiva il problema. Ogni palestra aveva la sua atmosfera, ogni istruttore la sua filosofia. Lei stessa aveva provato diverse scuole, prima di scegliere quella. Le due donne si cambiarono in fretta, indossando il tradizionale chimono e raccogliendosi i capelli, poi si diressero verso le pedane. Le cinture nere potevano usare la palestra in qualunque momento, partecipando alla mezza dozzina di allenamenti di un'ora che l'istruttore aveva fissato appositamente per loro. Melanie preferiva gli allenamenti riservati alle cinture nere per diverse ragioni. La principale era la possibilità di trovare un avversario che le fosse superiore. Aveva deciso fin dal primo momento che non avrebbe preso quella disciplina alla leggera. Se valeva la pena di dedicarle del tempo, e lei era convinta che la valesse, intendeva spingersi fino a dove le sue possibilità fisiche glielo consentivano. Non era stato facile. Aveva dovuto sopportare lividi e muscoli doloranti, orgoglio ferito e lacrime di frustrazione.
Il giorno in cui si era guadagnata la cintura nera era stato decisamente uno dei più fieri e orgogliosi della sua vita. Veronica e Melanie cominciarono il riscaldamento. Il tae kwon do impiegava una vasta gamma di calci, giravolte e salti, spettacolari ma difficili da eseguire. Richiedevano perfetta forma fisica e grande agilità. Melanie praticava la disciplina da più di tre anni, almeno tre volte alla settimana, e faceva precedere ogni allenamento da dieci minuti di stretching. Veronica, notò, faceva altrettanto. «Odia questa parte quanto me?» le chiese. «Anche di più» rispose Veronica. «Ma è un male necessario. Come l'insalata e i collant.» Melanie rise. «Ha un modo efficace di esprimersi, avvocato.» Finirono gli esercizi di stretching in silenzio, poi passarono alla consueta routine di colpi, parate e posizioni di guardia. «Vuole che ci alleniamo l'una contro l'altra?» le propose Veronica, interrompendo per un momento la concentrazione. Melanie notò le sue mosse. Erano bellissime: rapide, precise e forti. «Se promette di non umiliarmi completamente...» «Affare fatto. Stile libero?» chiese Veronica, riferendosi al tipo più avanzato di allenamento, in cui ciascun avversario poteva attaccare a piacere, senza preannunciare quando, come e dove avrebbe portato il colpo. Melanie scosse la testa. «Sta scherzando? Mi surclasserebbe. Cominciamo con qualche sequenza attacco-difesa e poi, quando avrò un'idea più precisa di che cosa ho contro, passeremo al combattimento semilibero.» Veronica si strinse nelle spalle. «Per me va bene. Ma non credo che la surclasserei. Mi pare che siamo bene appaiate.» «Come disse il ragno alla mosca.» Presero posizione e Melanie fu la prima ad attaccare, preannunciando il colpo. Veronica bloccò facilmente il pugno diretto alla testa, quindi ricambiò con un sinistro al petto di Melanie, fermandosi un attimo prima di toccarla. Si inchinarono, poi ripeterono la procedura, variando i colpi e attaccando e difendendosi a turno. Il resto della sessione passò in un batter d'occhio. Melanie era senza fiato, ma entusiasta. Era il migliore allenamento che avesse fatto da molto
tempo. Era certa che l'indomani avrebbe avuto tutti i muscoli doloranti. «È davvero in gamba» commentò, mentre lei e Veronica tornavano nello spogliatoio. Palesemente compiaciuta, l'altra sorrise. «Adoro questo sport. È il solo momento della mia vita in cui mi piace sul serio sudare.» Melanie rise. «Mi spiace che non siamo arrivate al combattimento semilibero.» «Non c'è problema. La prossima volta.» Si cambiarono, continuando a chiacchierare, e, quando furono pronte, uscirono nel posteggio. «Prendiamo un caffè?» propose Veronica. Melanie non esitò. Casey era ancora a Orlando con Stan, era venerdì sera e lei era libera. Scelsero una caffetteria non lontana dalla palestra e sedettero all'aperto. L'aria della sera era mite, il cielo cosparso di stelle. «Amo questo periodo dell'anno» mormorò Melanie, mescolando il caffè. «In nessun posto la primavera è bella come nelle Caroline.» «Non saprei» rispose Veronica. «Non ho mai vissuto da nessun'altra parte.» «È cresciuta a Charleston?» «Sì. La mia famiglia produceva mobili. La Markham Industries.» Era un nome che tutti conoscevano, nelle Caroline. I Markham erano fra i maggiori operatori del ramo, e molti di loro erano stati in politica. «E lei?» chiese Veronica. «Ha sempre vissuto qui?» «Oh, no. Io ero una figlia di un militare. Fino a quindici anni abbiamo vissuto dappertutto.» «Abbiamo include le copie perfette con cui l'ho vista da Starbucks?» Melanie sorrise. «Mia e Ashley. Le mie gemelle.» Quando ebbe spiegato la storia complicata di quel parto trigemino, Veronica scosse la testa, divertita. «Devo dire che, tutte e tre insieme, fate una certa impressione.» «Oh, su questo non c'è dubbio.» Melanie piegò la testa da un lato, studiando la sua compagna. Veronica Ford, con i suoi lineamenti delicati, i capelli biondi e i grandi occhi azzurri, poteva essere scambiata per una quarta sorella. Glielo disse. «Lo crede davvero?» Veronica sorrise. «Sarebbe carino. Io sono figlia
unica.» «Si è sentita sola, eh?» «Molto. Anche se ero incredibilmente viziata.» Veronica bevve un sorso del suo latte macchiato. «E dopo i quindici anni, che cosa accadde?» «Mio padre lasciò l'esercito e aprì una caffetteria qui a Charlotte.» «Ce l'ha ancora?» «È morto quattro anni fa.» «E sua madre?» «Morì quando eravamo bambine, di un cancro al seno.» «Mi dispiace.» Melanie si strinse nelle spalle. «È stato molto tempo fa. E che cosa mi racconta di lei? A parte il fatto che è stata una figlia unica incredibilmente viziata, cioè.» Veronica rise. «Io? È quasi un cliché, no? La povera ragazza ricca. Allevata da bambinaie e domestiche, mentre il padre costruiva il suo impero.» «Non mi sembra tanto male» commentò Melanie con un mezzo sorriso. «Specie a paragone di lustrare il retrobottega di una caffetteria ogni sera. E sua madre?» Il sorriso di Veronica svanì. «Per la verità, è un'altra cosa che abbiamo in comune. Mia madre morì quando avevo tredici anni.» «Noi ne avevamo undici. Come successe?» «Si sparò. Fui io a trovarla.» Le parole rimasero sospese a lungo fra le due donne, pesantemente. Melanie sospirò. «Mi dispiace molto. Non avrei dovuto chiedere. Quando si parla di madri, sono troppo ficcanaso. Aver perso la mia...» «Non ci pensi» la interruppe Veronica con un gesto noncurante. «Mi sono lasciata alle spalle quei momenti... per quanto una ragazzina possa riuscire a superare una cosa del genere.» Melanie la capiva perfettamente. In un certo senso, né lei né le sue sorelle avevano superato completamente il trauma della morte della madre. Ne soffrivano ancora. Erano sempre alle prese con la sensazione di essere state tradite, abbandonate. Immaginò che, date le circostanze, quei sentimenti fossero ancora più complicati per Veronica, il senso di perdita più acuto. Veronica si schiarì la gola, con un sorriso forzato. «Non so lei, ma io credo che sia meglio cambiare discorso. Questo è un
po' troppo intenso per un venerdì sera.» «Grazie.» Melanie rise, apprezzando il senso dell'umorismo della sua compagna. «Qualche suggerimento?» «Il tae kwon do mi sembra abbastanza neutro.» Veronica appoggiò il mento sulla mano e sorrise. «Mi dica, Melanie, perché proprio il tae kwon do?» Lei si strinse nelle spalle. «Per ovvie ragioni. Sono un poliziotto. Mi è utile nel mio lavoro.» «Perché ho la sensazione che sia una risposta un po' troppo semplice?» «Perché è avvocato.» «È vero.» Veronica scoccò a Melanie un sorriso malizioso. «Consideriamo i fatti, però. Primo, ho già notato che non c'è niente di ordinario in lei.» Quando Melanie fece per protestare, Veronica sollevò una mano per impedirglielo. «Secondo, all'Accademia di polizia tutte le reclute devono seguire un corso di tecniche di autodifesa. La maggioranza si accontenta del normale addestramento. Lei no. Perché?» «Facile. Prima di tutto, la maggioranza delle reclute non è costituita da donne che hanno la probabilità di dover affrontare un delinquente due volte più grosso e più forte di loro. Secondo, sono convinta che una donna, qualunque donna, dovrebbe sapersi proteggere da sola.» «Ah.» Melanie sollevò le sopracciglia. «Ah, che cosa?» «La vera ragione.» Melanie scosse la testa, divertita e seccata nello stesso tempo dall'intuito di Veronica. Era vero. A causa del suo passato, aveva sentito la necessità di proteggersi molto prima di entrare nella polizia. Mentre era ancora sposata, aveva assistito a un torneo dimostrativo di tae kwon do, ed era rimasta stupita vedendo delle donne difendersi contro uomini grossi il doppio di loro. Aveva deciso immediatamente che le arti marziali facevano per lei e, subito dopo la nascita di Casey, si era iscritta a una palestra. «Touché» mormorò. «Immagino che tenga in riga gli avvocati difensori. È in gamba.» «Il che è un modo gentile di farmi notare che la sto torchiando come un testimone alla sbarra.» Veronica sorrise. «Scusi. Mi capita, a volte. Tocca a lei. Mi torchi pure.» «Okay. Perché lei ha scelto il tae kwon do?» «Per le sue stesse ragioni, immagino. Vedo cose piuttosto brutte, nel mio
lavoro. Mi trovo alle prese con la violenza sulle donne ogni giorno. Ho giurato a me stessa di non diventare mai una vittima. Il tae kwon do è un modo per mantenere il giuramento.» Da quel momento in poi, la conversazione divenne più rilassata, e le due donne ordinarono un secondo caffè. Con il passare dei minuti, scoprirono di avere molte preferenze in comune, dai romanzi polizieschi ai film strappalacrime, al gelato alla crema. Entrambe avevano un'idea molto precisa del giusto e dell'ingiusto. Per nessuna delle due esisteva una zona grigia, in fatto di morale. Entrambe erano fieramente leali verso coloro che amavano e verso la loro professione. Entrambe avevano scelto quella professione, sperando di rendersi utili alla società. Ed entrambe erano sopravvissute a matrimoni difficili, benché Veronica fosse vedova, non divorziata. «Aveva una riunione di lavoro a Chicago» spiegò Veronica, quando Melanie le chiese com'era morto suo marito. «Lo accompagnai all'aeroporto, come al solito. E fu l'ultima volta che lo vidi. L'aereo esplose durante il volo.» «Mio Dio.» Melanie frugò nella memoria. Le sembrava di ricordare l'incidente. «È successo circa cinque anni fa?» «Sì.» Veronica fissò un punto imprecisato in lontananza. «Rimasi distrutta, al principio, naturalmente. Ero spaventata. Confusa.» Batté le palpebre e riportò lo sguardo su Melanie. «La verità, in retrospettiva, è che quell'esplosione fu la mia salvezza.» Arrossì lievemente, come imbarazzata dalla sua stessa ammissione. «Quando superai il trauma iniziale, vidi la verità. Su me stessa e sulla mia vita. Sull'uomo che avevo sposato.» «E...?» «Era un mascalzone. Crudele. Autoritario. Ipercritico. Ma il peggio era che non era stato lui a privarmi della mia indipendenza e del rispetto di me stessa. Glieli avevo consegnati io. Gli avevo permesso di controllare la mia vita.» «E ha giurato a se stessa che non sarebbe più accaduto.» «Esattamente. Avevo interrotto a metà gli studi di legge perché lo voleva lui. Aveva bisogno di una vera moglie, diceva, non una che fosse indaffarata a studiare e non avesse tempo per badare alla casa e al marito.» Veronica intrecciò le mani attorno alla tazza. «Quando mi ripresi dallo shock, la prima cosa che feci fu tornare all'università e laurearmi. Mi sentivo libera, forte, invincibile.»
«In questo siamo diverse. Quando lasciai Stan, avevo paura perfino di scendere in strada.» «Ma lei aveva un bambino di cui preoccuparsi. Sono sicura che temeva che suo marito potesse portarglielo via.» Lo temo ancora. Sta accadendo. «In effetti, cambia le cose.» Melanie consultò l'orologio, sorpresa di vedere che erano quasi le undici. «Dovrei andare, adesso.» Anche Veronica guardò l'orologio. «Santo cielo, com'è tardi.» Finì il latte macchiato e si alzò. Melanie raccolse la borsa e la imitò. Uscirono insieme dal locale. «A proposito» disse Veronica, mentre si avvicinavano alle rispettive macchine, posteggiate l'una accanto all'altra. «Ho cenato al Blue Bayou, mercoledì sera. Per poter gustare la loro favolosa insalata di pesce e dare un'occhiata all'uomo di cui mi aveva parlato e alla sua ragazza.» «È morto.» Veronica si fermò e guardò Melanie. «Morto? Sta scherzando, vero? Voglio dire, sono appena stata là, e...» «Un incidente d'auto. Ma c'è un particolare curioso. È risultato che Thomas Weiss era allergico alle api. Aveva posteggiato la macchina dietro al ristorante, vicino a certi alberi in piena fioritura. Una o più api devono essere entrate nell'abitacolo, perché è stato punto mentre guidava, diverse volte. I testimoni hanno riferito che la macchina zigzagava per tutta la strada. Lo hanno visto anche agitare le mani e le braccia, come se cercasse di scacciare un insetto. Ha attraversato due corsie dove le auto marciavano in senso opposto e si è schiantato contro un pilone di cemento.» «Ci sono stati altri feriti?» «No, grazie al cielo. Poteva andare molto peggio. E comunque, secondo il medico legale, se non fosse morto nell'incidente, lo avrebbe ucciso lo shock anafilattico delle punture delle api.» Veronica rabbrividì. «Il destino è strano, vero?» «Questo è certo. Ma per me la cosa più strana è stata la reazione della ragazza.» «Scommetto che era distrutta dal dolore.» «Completamente.» «Anch'io ero distrutta, quando morì mio marito. Sono sicura che anche lei si sveglierà.»
«Devo ammettere che io non sono così comprensiva. Non so come ho potuto credere che avrebbe testimoniato contro di lui. Lei aveva visto giusto.» «Ho visto più casi del genere di quanti mi piaccia ricordarne.» Veronica tirò fuori dalla borsa le chiavi della macchina. «Ho passato una bella serata.» «Anch'io. Rifacciamolo, qualche volta.» «Sicuro.» Veronica sorrise. «La prossima settimana, dopo l'allenamento?» «Benissimo.» Con un ultimo cenno di saluto, Melanie salì sulla sua jeep e accese il motore, sorridendo fra sé. Da quanto tempo non usciva con un'amica? Certo, si vedeva con le sorelle, ma non era la stessa cosa. Dopo il divorzio, fra la responsabilità di Casey e il lavoro, aveva avuto poco tempo per socializzare. Ne sentiva la mancanza. D'impulso, abbassò il finestrino. Accanto a lei, Veronica aveva acceso il motore della sua Volvo. «Veronica?» L'altra abbassò a sua volta il finestrino. «Che ne dice di pranzare insieme, sabato prossimo? Vedrò se possono venire anche Mia e Ashley.» «Con piacere. La chiamerò in settimana e decideremo il luogo e l'ora.» «Perfetto. Ci sentiamo.» Melanie salutò con la mano e uscì dal posteggio in retromarcia, imboccando uno dei grandi viali alberati per cui Charlotte era famosa. Strano come un giorno una persona poteva essere un'estranea, e quello dopo un'amica. Come poteva succedere così, da un momento all'altro? Sorrise di nuovo fra sé. Comunque era successo, ed era contenta che Veronica Ford fosse entrata nella sua vita. Il sangue rombava nelle orecchie di Boyd a un ritmo inebriante, che si mescolava stranamente al pulsare della musica che si riversava dall'impianto stereofonico del club. Boyd si fece strada a fatica nella sala affollata, scrutando le facce, cercando, scartando. Non temeva di venire riconosciuto. Non avrebbe incontrato nessuno dei suoi colleghi di lavoro, nessuna delle persone che frequentava abitualmente. I clienti di quel locale avevano tutti tendenze sessuali particolari. Erano i cacciatori. E le prede.
Gente come lui. Boyd continuò ad aggirarsi nel club, cogliendo ogni tanto una ventata di profumo. Il bisogno di soddisfazione sessuale era come un pugno chiuso attorno alle sue viscere che, alternativamente, stringeva e accarezzava. Puniva ed eccitava. Respirò a fondo. Doveva stare attento. Non poteva lasciarsi trascinare dai suoi appetiti. L'impazienza causava passi falsi. Ogni donna rappresentava un rischio. Doveva essere astuto. Cauto. Era il dottor Boyd Donaldson, aveva tutto da perdere. Il suo sguardo si posò su una bionda, un po' più matura delle donne che preferiva di solito. Lei sostenne audacemente il suo sguardo. Si fissarono per un lungo momento, poi la bocca scarlatta della donna si incurvò in un sorriso d'intesa. Un brivido corse lungo la schiena di Boyd, presagio del piacere che doveva venire. Ricambiandole il sorriso, si mosse verso di lei. CAPITOLO 9 Melanie detestava gli uffici degli avvocati. L'atmosfera ovattata, la moquette lussuosa, i divani di cuoio, l'odore di cera al limone e di libri polverosi. Li detestava a causa di Stan. E perché non le era mai derivato nulla di buono dall'entrare in uno di quegli uffici. Era colpa di Stan se si trovava là, quel venerdì pomeriggio, con le mani sudate e il cuore che le martellava nel petto. Fedele alla sua minaccia, lui aveva chiesto la custodia di Casey. Il suo avvocato l'aveva contattata il lunedì precedente, quasi tre settimane dopo la sua prima discussione con Stan sull'argomento. Durante quel tempo, Melanie, da quell'eterna ottimista che era, si era concessa di sperare che l'ex marito avesse cambiato idea. Aveva sperato che, nei giorni passati con Casey a Disney World, Stan si fosse reso conto che il bambino doveva stare con sua madre. «Signora May? L'avvocato Peoples è pronto a riceverla. Si accomodi.» «Grazie.» A quel punto, Melanie si alzò e seguì la segretaria lungo un corridoio dalle pareti coperte di scaffali pieni di libri di legge. Un'insegnante della scuola di Casey le aveva raccomandato quell'avvocato. Aveva assistito una sua amica nella causa per la custodia dei suoi due bambini, le aveva detto, e aveva vinto.
Quando avevano parlato al telefono, l'avvocato le era sembrato abbastanza preparato e cortese. Dopo avergli esposto la situazione, gli aveva comunicato il nome e il numero dell'avvocato di Stan. «Ecco» disse la segretaria, fermandosi davanti alla porta di un ufficio. «È sicura di non gradire una tazza di caffè?» «Sicurissima, grazie.» La donna bussò alla porta, poi aprì. L'uomo dietro la scrivania si alzò e tese la mano. Era grosso come una montagna. «Signora May... John Peoples.» Melanie gli strinse la mano. «Piacere di conoscerla.» «Si accomodi.» Lei prese posto su una delle due sedie davanti alla scrivania. «Veniamo subito al punto, vuole?» «Ha parlato con l'avvocato del mio ex marito?» «Sì.» L'avvocato intrecciò le dita, molto simili a salsicciotti, sulla scrivania. «È un ottimo legale. Uno dei migliori, anzi. Molto abile.» «Me lo aspettavo, visto che Stan fa parte di uno degli studi più prestigiosi di Charlotte.» «Il punto è proprio questo. Sarà molto difficile battere il suo ex marito.» «Prego?» L'avvocato ripeté la frase, e Melanie scosse la testa, lottando per mantenere la calma. «Non può dire sul serio.» «Mi dispiace, signora May. So che non è quello che sperava di sentire. Ma devo parlare secondo la mia valutazione dei fatti.» L'avvocato si schiarì la gola. «Vediamo questi fatti, vuole?» continuò. «Suo marito può offrire un ambiente familiare più stabile per suo figlio, un ambiente in cui ci sono un padre e una madre. E non ha un lavoro che può imporgli di uscire di casa a tutte le ore senza preavviso. Un lavoro, devo aggiungere, potenzialmente pericoloso.» Melanie lo guardò, sbalordita. Sembrava più l'avvocato di Stan che il suo! «Io faccio parte della polizia di Whistlestop, signor Peoples. Ha idea di come passo la giornata? Di quanto è potenzialmente pericolosa? Convinco i gatti a scendere dagli alberi e faccio ramanzine ai ragazzini che rubacchiano nei negozi. Ascolto le lamentele dei cittadini adirati con gli animali domestici dei loro vicini. Mi faccia il piacere!» «E il caso Andersen?» «È stato un avvenimento unico. E inoltre, non partecipo più attivamente alle indagini.»
«Comunque esiste, e suo marito se ne servirà.» Melanie non poteva credere che il caso importante che aveva sognato avrebbe contribuito a farle perdere Casey. Lacrime di rabbia e di frustrazione le punsero gli occhi, e lottò per respingerle. Era un'agente di polizia e una madre single. Non poteva assolutamente piangere. «Il suo ex marito vive in uno dei quartieri più prestigiosi di Charlotte, in una bella casa. Le scuole sono le migliori dello stato.» «Ma...» L'avvocato sollevò una mano per interromperla. «Visto che vivete ai lati opposti di Charlotte, una custodia congiunta sarebbe impossibile. Il suo ex marito si rifiuta di trasferirsi. Gliel'ho chiesto. E lei, per il suo lavoro, deve risiedere in modo permanente a Whistlestop. E a meno che non sia disposta a rinunciare al suo lavoro...» «Rinunciare al mio lavoro?» scattò Melanie. «E per fare che cosa? Sono una poliziotta. Ho studiato e mi sono addestrata per farlo. Non intendo rinunciarci.» L'avvocato arrossì. «Era solo un suggerimento.» «Be', era un cattivo suggerimento. Stan può traslocare. Il suo lavoro non gli impone di vivere in una zona in particolare.» «Come le ho detto, si rifiuta.» «E anch'io.» «Quindi, una custodia congiunta è impossibile. Se perderà la causa, potrà vedere suo figlio solo nei finesettimana. O magari, come chiede suo marito, ogni due finesettimana.» Melanie cominciò a tremare. «È impossibile!» «Mi dispiace.» «Ah, davvero?» Lei sollevò il mento. Detestava quell'uomo con ogni fibra del suo essere. «C'è bisogno che le rammenti che sono la madre di Casey? Che lo amo? Che sono un'eccellente madre, premurosa e affettuosa? Questo conta qualcosa?» «Certo che conta.» L'avvocato tentò un sorriso rassicurante, ma riuscì solo ad apparire condiscendente. «Ma il suo ex marito è il padre di Casey. E, secondo il suo avvocato, è un buon padre. Lei è d'accordo con questa affermazione?» «Dipende dalla sua definizione di buon padre» dichiarò Melanie. «Lasci che mi esprima in modo diverso. Crede che il suo ex marito ami
Casey? E che ritenga di agire nell'interesse del bambino?» «Sì» sussurrò Melanie, pur desiderando di poter affermare il contrario. L'avvocato si schiarì di nuovo la gola. «Forse, visto che è un genitore single con un lavoro impegnativo e pericoloso, dovrebbe chiedersi se avere suo figlio solo nei finesettimana sarebbe poi così duro.» Melanie lo guardò nei freddi occhi azzurri, incredula. «Come?» «Forse dovrebbe chiedersi che cosa è meglio per suo figlio.» Mentre assimilava il senso di quelle parole, Melanie si alzò lentamente in piedi, tremando di rabbia. «Io so che cosa è meglio per mio figlio. Stare con me, sua madre. Come osa insinuare che non sia così? Come osa consigliarmi semplicemente di cedere?» Rosso come un gambero, l'avvocato cominciò a farfugliare debolmente qualche formuletta legale. Stavolta, fu Melanie che alzò la mano per interromperlo. «Per caso, il grande avvocato del mio ex marito le ha detto fino a che ora lavora Stan la sera? O quanto spesso è fuori città per lavoro? O che, anche se adesso vede Casey solo un finesettimana su due, gioca ancora a golf per quattro ore ogni sabato?» Fece una pausa per prendere fiato. «Forse lei non ci ha pensato, ma, se vincesse la causa, non sarebbe Stan ad allevare Casey, bensì la sua nuova moglie. Io sono la madre di Casey, signor Peoples. E intendo allevarlo io.» «Mi dispiace, stavo solo...» «Stava dimostrando di essere un leguleio da quattro soldi.» Melanie fece alcuni passi indietro. «Consideri concluso il nostro rapporto. Mi troverò un avvocato che non solo creda che io posso vincere, ma che creda anche che dovrei vincere.» Prima che finisse la domenica, Melanie era uno straccio. Aveva lasciato l'ufficio dell'avvocato Peoples, il venerdì, piena di sacrosanta indignazione, pronta ad affrontare Stan e un intero esercito di avvocati di grido. Col passare delle ore, però, la sua indignazione si era trasformata in dubbio, e infine in terrore. Casey passava di nuovo il finesettimana con il padre, e la casa vuota sembrava ridere di lei, rammentarle come sarebbe stata la sua vita quotidiana se Stan avesse ottenuto la custodia del bambino.
Non riteneva che avrebbe potuto sopportarlo. Si era dedicata alle cose che faceva di solito quando Casey era con Stan: lavorare un po' in giardino, vedere un film, riportarsi in pari con le faccende domestiche che si erano accumulate durante la settimana, ma senza riuscire a togliersi dalla mente la causa per la custodia. Aveva telefonato alle sorelle, ma Ashley era fuori città per lavoro e Mia aveva l'influenza. Anche Veronica non era libera, poiché stava preparando un processo che doveva iniziare la settimana seguente. E così, Melanie si era aggirata come un animale in gabbia per casa. E si era arrabbiata parecchio. E aveva pianto tutte le sue lacrime. Era stato il finesettimana più lungo della sua vita. Adesso, era finito. O sarebbe dovuto esserlo. Melanie consultò l'orologio e si accigliò. Le quattro e venti. Dove diamine era Stan? Di solito, riportava a casa Casey assai prima. Ci voleva un po' di tempo perché Casey rientrasse nella loro routine consueta. Poi c'erano il bagno, la cena, e ben presto veniva l'ora di andare a letto. L'indomani era giorno di scuola. Melanie respirò a fondo, sempre più irritata. Ma Stan non si preoccupava di banalità come il bagno o l'ora di andare a letto. Non se n'era mai preoccupato, né prima, né dopo il divorzio. Cominciò a camminare avanti e indietro. Che cosa ne sapeva Stan della routine quotidiana di un bambino di quattro anni? Della necessità che dormisse abbastanza e seguisse una rigorosa dieta bilanciata? Che ne sapeva dei capricci, delle malattie, delle visite dal pediatra? Niente. Accidenti a lui per avere anche solo pensato di toglierle Casey. Bullo arrogante. Non sapeva niente del posto che lei, la madre, occupava nel cuore e nella vita del loro figlio. E accidenti a quel maledetto avvocato per averla fatta dubitare di se stessa. Per averla spaventata in quel modo. Dall'esterno venne il rumore della portiera di una macchina che sbatteva. Melanie corse alla porta e la spalancò. «Casey!» esclamò, rendendosi conto che non era mai stata altrettanto felice di vedere qualcuno. «Mamma!» Il bambino corse a gettarsi fra le sue braccia. Lei lo strinse così forte e così a lungo che, dopo un po', Casey cominciò a divincolarsi. Alla fine, allentò la stretta. «Mi sei mancato.» Lui sorrise. «Anche tu mi sei mancata.» Guardò Stan da sopra la spalla, e poi di
nuovo lei. «Indovina!» Melanie gli ravviò i riccioli dalla fronte. «Che cosa, tesoro?» «Papà mi ha comprato un cucciolo.» Lei si sentì gelare. «Un cucciolo?» «Sì.» Casey annuì entusiasticamente. «L'ho chiamato Spot. Papà dice che è un golden retriever.» Melanie guardò Stan, in piedi accanto alla sua Mercedes. Alto, bruno, bello come una star del cinema. Un tempo, solo guardarlo le toglieva il respiro. Ora, tutto quello che provava era rabbia. «Abbiamo giocato per tutto il finesettimana» continuò il bambino. «Gli piace che gli lanci un bastone o una palla. E indovina un po'? Papà gli ha perfino permesso di dormire con me!» Si interruppe, come aspettando una risposta, e Melanie sorrise, rigida. «È magnifico, tesoro. Mi fa piacere che tu sia così felice. So che ti prenderai molta cura di Spot.» «Gli ho dato da mangiare e l'ho portato fuori» annunciò Casey orgogliosamente. Ma poi il sorriso gli morì sulle labbra. «Ha pianto quando sono venuto via. Volevo portarlo con me, ma papà ha detto che Spot è il mio amico speciale a casa sua.» Melanie fece uno sforzo per controllarsi. «Ti ho comprato una piccola cosa. È sul tavolo di cucina. Perché non vai a vedere che cos'è?» Casey gridò: «Ciao!» a suo padre e corse in casa. Melanie lo guardò entrare, poi si avvicinò all'ex marito, fermandosi proprio davanti a lui. Si vide riflessa nei suoi occhiali da sole. «Come hai potuto, Stan?» chiese in tono misurato. Lui sollevò le sopracciglia. «Come ho potuto, che cosa? Comprare un regalo a mio figlio?» «Avevamo parlato di un cane, e concluso che era ancora troppo piccolo. Eravamo rimasti d'accordo che avremmo preso una decisione insieme.» Lui si strinse nelle spalle. «Uno dei soci dello studio aveva una cucciolata. Ho approfittato dell'occasione.» «Hai approfittato dell'occasione?» ripeté Melanie, con voce tremante per la collera. «Qui non stiamo parlando di qualche scappatoia legale. Stiamo parlando dell'educazione di nostro figlio.»
«Stai esagerando, come sempre. Quel cane ha un pedigree da campione, per l'amor del cielo. Non potevo lasciarmelo sfuggire.» Melanie ficcò le mani in tasca per nascondere che tremavano. «Non mi importa niente del suo pedigree. Avresti dovuto parlarne con me.» «Non l'ho fatto. Scusa.» Melanie avrebbe anche accettato le sue scuse, se le avesse ritenute sincere. Se lui non avesse avuto quell'aria così soddisfatta di sé. E se non lo avesse conosciuto bene. «Perché non ammetti la vera ragione per cui hai comprato quel benedetto cane? Perché sapevi che non potevo competere con te. Perché volevi un asso nella manica con Casey, una ragione perché preferisca vivere con te piuttosto che con me, se il giudice glielo chiederà.» «Queste sono stupidaggini, Melanie.» «Davvero?» scattò lei, frustrata. «Non so perché mi aspettavo che giocassi lealmente, ma è evidente che mi sono sbagliata. Per il bene di Casey, non pensavo che ti saresti abbassato a questo genere di... di ricatto morale. Un cucciolo? Santo cielo, Stan... quanto intendi scendere in basso?» «Molto più in basso, senza dubbio.» Stan rise, secco. «Hai sempre pensato il peggio di me. Per via del tuo vecchio.» «Mio padre? Lui non ha niente a che vedere con noi due.» «No? Non credi che forse, in fondo al cuore, sei convinta che, perché lui era un mostro, tutti gli uomini lo siano?» «Non cambiare argomento. Questi trucchetti funzioneranno in tribunale, avvocato, ma non con me. Siamo stati sposati, ricordi?» Lui sospirò. «Ho comprato un cane a Casey perché volevo farlo contento, okay? Perché sono suo padre e mi piace fargli delle gentilezze.» Stavolta fu Melanie a ridere. «Bella, questa! Stan May non fa mai niente solo per essere gentile, neppure per suo figlio. Stan May è sempre un passo avanti, a manipolare gli avvenimenti a suo vantaggio. Sempre.» Stan le voltò le spalle, sbuffando. «Mi rifiuto di parlare con te, quando cominci così. Ciò che dici non ha senso.» Salì in macchina e accese il motore. «Se hai un problema, chiama il mio avvocato. O, meglio ancora, fallo chiamare dal tuo.» Melanie afferrò la portiera prima che lui la chiudesse. «Casey è felice, qui. È felice con me. Non rivoluzionare così la sua vita.
Pensa a lui.» «È quello che faccio» ribatté lui, brusco. «Posso dargli molto più di te.» «Solo cose.» Melanie si chinò a guardare l'ex marito negli occhi. «Il posto di Casey è qui con me, Stan. E tu lo sai.» «Non so proprio niente.» Stan inserì la retromarcia. «Inoltre, a questo punto, la decisione spetta al giudice.» CAPITOLO 10 La donna seduta di fronte a Melanie non era graziosa, anche se forse, un tempo, lo era stata. Il viso truccato recava i segni della vita di una prostituta di strada, una vita piena di abusi, fisici e morali. Nel tentativo di sbloccare le indagini, ormai da tempo arenate, sul caso Andersen, gli investigatori del CMPD avevano deciso di seguire il suggerimento di Connor Parks di interrogare le prostitute locali, nella speranza che qualcuna riconoscesse l'assassino dal suo rituale sessuale e dal profilo tracciato dallo stesso Parks. Quindi avevano ordinato una retata la sera precedente. Melanie era del parere che avrebbero dovuto farlo tre settimane prima, ma, poiché i poliziotti di Whistlestop erano relegati al ruolo di consiglieri, la sua opinione non contava. La sola ragione per cui lei e Bobby venivano impiegati attivamente negli interrogatori era che nella retata erano state prese quasi tre dozzine di ragazze, molte più di quante Harrison e Stemmons potevano interrogarne senza violare la legge che imponeva di incriminare o rilasciare un indiziato entro ventiquattr'ore. Represse uno sbadiglio e consultò l'orologio. Era là da poco dopo la mezzanotte, ed erano ormai le otto del mattino. Pensò a un'altra tazza di caffè, poi rinunciò. Il suo stomaco non avrebbe retto. Guardò la donna seduta di fronte a lei. Il suo nome era Sugar. Delle otto ragazze che aveva già interrogato, nessuna aveva riconosciuto, o aveva ammesso di riconoscere, il profilo di Parks. Qualcuna era stata disposta a collaborare, ma perlopiù erano abbottonate e arrabbiate. A giudicare dall'espressione, Sugar apparteneva a questa categoria. «Salve, Sugar.» «Ho diritto a una telefonata. Voglio fare una telefonata.» «Ci arriveremo fra un momento. Sigaretta?» Melanie fece scivolare il pacchetto verso la donna. L'altra non rispose, ma prese una sigaretta. Melanie gliela accese e a-
spettò che aspirasse un paio di boccate prima di parlare. «Ho bisogno di farti qualche domanda, Sugar. Sto cercando un tale.» «Non è quello che facciamo tutte?» «Uno in particolare. Uno che ha abitudini insolite. Gli piace legare le ragazze. Gli piace penetrarle con...» La prostituta rise, roca. «Piace a tutti, dolcezza. Si chiama scopare.» «Con degli oggetti» concluse Melanie. «In modo innaturale. Ti ricorda qualcosa?» «No.» «È un tipo distinto. Ha l'aria di avere soldi. Piacente. Guida una bella macchina. Lingua sciolta, almeno all'inizio.» Qualcosa passò negli occhi della donna, e svanì subito. «Mi dica, perché diavolo dovrei aiutarla? Gli sbirri non hanno mai fatto niente per me, anche quando non lavoravo per strada.» «Perché una ragazza è morta» rispose Melanie semplicemente. «E perché altre potrebbero morire.» Sugar aspirò un'ultima boccata dalla sigaretta e la schiacciò nel portacenere sul tavolo. «Sta parlando di quella ragazza ricca, non è così? Quella per cui tutti stanno facendo un gran chiasso.» «Joli Andersen, sì.» Per un momento, la donna non disse nulla. La sua espressione era dura, amara. «Pensa che mi importi qualcosa di una sgualdrinella ricca e viziata?» «Credi che meritasse di morire perché suo padre ha un mucchio di soldi? È questo che mi stai dicendo?» Melanie vide che la donna era rimasta sorpresa dalla domanda. Scosse la testa e prese un'altra sigaretta. «Non intendevo questo.» Melanie si chinò verso di lei. «C'è un assassino, là fuori. Riteniamo che frequenti, o abbia frequentato, delle prostitute. Nessuno può escludere che la prossima volta se la prenda con una di voi.» «A voi sbirri non importa un bel niente di noi ragazze, perciò non cerchi di darmela a bere. Se il mio uomo mi prende a calci, ve ne state a guardare.» «Tu potresti essere la prossima, Sugar. Lo sai, vero?» Melanie le passò
l'accendino, e lei si accese la sigaretta con una mano che tremava. «C'è qualcosa che ti preoccupa?» «Già. Devo andare in bagno.» «Tu conosci quel tale, vero? E hai paura di lui.» La donna soffiò una boccata di fumo in faccia a Melanie, poi sorrise. «Vada al diavolo.» «Posso aiutarti. Tu aiuti me, io aiuto te.» «Voglio fare la mia telefonata.» «Ti ha quasi uccisa, Sugar? Ti ha detto che ti avrebbe uccisa, e tu ti sei dibattuta, ma non riuscivi a liberarti?» «Stia un po' zitta.» «Ti ha messo un cuscino sulla faccia?» Melanie abbassò la voce. «Hai notato che stava per avere un orgasmo, vedendoti sul punto di morire? Vedendoti lottare per respirare?» «Le ho detto di chiudere il becco!» «Che cosa è successo, Sugar? Che cosa lo ha fermato?» Melanie afferrò la mano della donna, attraverso il tavolo. «Si è spaventato? Credi che sarai così fortunata, la prossima volta?» La donna ritirò di scatto la mano e balzò in piedi, impallidendo. La sigaretta le sfuggì, cadde sul tavolo e rotolò sul pavimento. «Non è successo niente, okay? Non conosco quel tale. Non voglio conoscerlo!» Mentiva. Melanie non sapeva perché ne fosse così certa, ma lo era. E glielo disse. «Lo conosci, e io lo so. Il solo modo in cui sarai al sicuro è denunciarlo. Aiutami a prendere questo animale.» Sugar andò alla porta e vi batté il pugno. «Voglio fare la mia telefonata! Avete sentito? Voglio la mia telefonata.» Melanie si alzò e le si avvicinò, guardandola negli occhi. «Raccontami che cosa è successo, Sugar. Parlami di lui. Io ti aiuterò. Quel tale... l'uomo che ti prende a calci... Tu parlami di questo tizio, e io lo metterò in riga.» «Arriva tardi. Quel bastardo è morto e sepolto. Grazie al destino e a madre natura, non a voi sbirri. E ora, posso fare la mia telefonata, o mi lasciate andare?» Melanie decise di lasciarla andare, anche se sapeva che, probabilmente, si sarebbe presa una lavata di capo. Incriminarla non sarebbe servito a nulla. Sarebbe tornata in circolazione entro poche ore. E aveva l'impressione
che Sugar ne avesse passate anche troppe, nella sua vita. Non c'era bisogno che ci si mettesse anche lei a complicargliela. Le consegnò un biglietto con il suo numero dell'ufficio. «Chiamami, se ti toma in mente un particolare. O se hai bisogno di qualcosa. In qualunque momento.» La donna prese il cartoncino, incredula. «Mi lascia andare?» Melanie apri la porta. «Sì, ma non raccontarlo in giro, okay?» Sugar la guardò un momento con un'espressione che somigliava alla gratitudine, poi annuì e se la filò. Mentre spariva dietro l'angolo, Melanie si voltò e vide Pete Harrison che puntava dritto su di lei. «Trovato niente?» le chiese, quando le fu abbastanza vicino. «Niente di concreto.» Melanie scoccò un'occhiata nella direzione in cui era scomparsa Sugar. «Ma ho la sensazione che l'ultima ragazza nascondesse qualcosa. Sembrava decisamente...» «Nascondono tutte qualcosa» la interruppe lui. «È nella natura della professione.» «Lo capisco, ma ho avuto la netta impressione che abbia incontrato quel tizio. Quando l'ho pressata, è stata colta da una crisi di panico. Non era una questione di tenersi abbottonata, Pete. Aveva paura.» «Mettilo nel rapporto. Lo leggerò e deciderò se è il caso di tenerla d'occhio.» Harrison consultò l'orologio. «Era l'ultima. Consegna i tuoi appunti, uscendo.» «Prego?» «Abbiamo finito. Grazie.» Mi sta mettendo alla porta, il mascalzone. Be', lei non si sarebbe lasciata congedare come un semplice fattorino. «Voi ragazzi avete trovato qualcosa?» «Un paio di piste. Se si riveleranno valide, lo saprai.» Dai giornali, come tutti gli altri. Che dannato bastardo. Stava per dirgli il fatto suo, ma, prima che potesse aprire bocca, Bobby uscì dalla stanza per gli interrogatori alle spalle dell'investigatore. Evidentemente aveva sentito il loro scambio di battute, perché fece una comica smorfia di avvertimento. Vedendo la direzione dello sguardo divertito di Melanie, Harrison si voltò. «Abbiamo finito, mi pare» disse Bobby, rivolto a Melanie.
«Infatti» rispose lei. «Che ne dici di sentire il quartier generale, e poi fare colazione? Sono affamata.» Lo era anche Bobby, perciò si fermarono in una tavola calda a metà strada fra il quartier generale del CMPD e quello di Whistlestop. Prima di sedersi in un box in fondo al locale, lui prese un giornale. La cameriera arrivò a prendere le ordinazioni e a servire il caffè. Quando si fu allontanata, Melanie chiese: «Hai scoperto qualcosa, stanotte?». «Sicuro.» Bobby aggiunse latte e zucchero al caffè. «Mamme, non crescete le vostre figlie per farne delle prostitute.» «Divertente.» Lui si fece serio. «In effetti, non è per nulla divertente.» Fece una pausa, poi continuò: «Non una delle ragazze che ho interrogato ha ammesso di avere avuto a che fare con un tizio che corrispondesse al profilo di Parks». «Neppure le mie» borbottò Melanie. «Ma, come mi ha detto una di loro, perché dovrebbero aiutarci?» «Per un senso di responsabilità civica?» «Svegliati, Bobby.» Melanie bevve il caffè. «Dov'era Parks, a proposito? Mi sorprende che non ci fosse.» «Non hai sentito? È stato sospeso.» Lei non lo aveva sentito, ma non se ne stupì. «Per aver pestato i piedi sbagliati, dico bene?» «Dici bene.» «Prima noi, poi Parks» elencò Melanie, irritata. «Poteva anche non essere la mia persona preferita, ma sembrava che sapesse il fatto suo. Più di tutti quei palloni gonfiati del CMPD.» «Sono bravi ragazzi. E buoni poliziotti. È solo che sei arrabbiata perché non sei una di loro.» La cameriera arrivò con le ordinazioni, e Melanie aspettò che si fosse allontanata prima di chiedere: «Che cosa intendi dire?». «Non è un segreto, Mel. Tu miri in alto. Io no, ma ti capisco. Dev'essere frustrante starsene seduti a guardare gli altri fare quello che vorresti fare tu. E poi, quando si presenta un caso grosso, essere spinta da parte. Sarei invidioso anch'io.» «Io non sono invidiosa.» «Oh, certo.» Bobby cosparse di sale le sue uova. «Ti spiace se leggo il giornale, mentre mangiamo?» «Fa' pure. Ma la gente comincerà a sparlare. Sembreremo sposati.»
Con una risata, Bobby aprì il giornale. Melanie cominciò a mangiare, riflettendo sul commento del collega. Era davvero ingiusta nei confronti degli investigatori del CMPD perché era invidiosa? Era un'idea sgradevole. Non le piaceva come la faceva sentire. Aprì la bocca per chiedere a Bobby di spiegarsi meglio, ma un titolo della prima pagina del Charlotte Observer attirò la sua attenzione. Uomo accusato di violenza sessuale trovato morto. Si chinò in avanti e scorse rapidamente l'articolo. «Oh, mio Dio» mormorò. «Hai visto, Bobby? La notizia su Jim McMillian.» «Chi?» «Jim McMillian. Il caso di stupro. Ricordi? Fece scalpore, sette o otto mesi fa.» Bobby annuì. «Quel riccone che fece venire una squadra di costosi avvocati da New York? Lo tirarono fuori, anche se la giuria e l'opinione pubblica lo ritenevano colpevole.» «Era colpevole come il diavolo. Passami il giornale. Voglio saperne di più.» L'articolo riferiva che Jim McMillian era morto in seguito a un attacco cardiaco, causato da una dose eccessiva di digitalina. Melanie rilesse l'ultima parte. Non credeva ai propri occhi. «È impossibile.» «Che cosa?» «È lo stesso modo in cui morì mio padre.» «Un attacco cardiaco?» «Causato da una quantità eccessiva di digitalina nel sangue.» Bobby corrugò la fronte. «Il medicinale per il cuore?» «Esatto. Come mio padre, McMillian assumeva regolarmente della digitalina.» «E ne ha preso una dose eccessiva?» «In pratica, sì. Il fatto è che una dose anche solo tripla o quadrupla di quella prescritta per regolare il ritmo cardiaco diventa letale» spiegò Melanie. «Per questo i pazienti che la assumono sono tenuti sotto stretto controllo medico. Me lo ha spiegato Ashley.» «Può davvero succedere?» chiese Bobby. «Mio padre prende quel medicinale.»
«Lo prende una quantità di gente. A quanto avevo capito, la morte di mio padre fu dovuta a un caso molto raro. Per questo trovo strano che McMillian sia morto nello stesso modo.» Bobby finì l'ultimo boccone di uova e pancetta e mise da parte il piatto. «Considerata la sua disfunzione cardiaca, mi stupisce che il medico legale abbia richiesto un esame del sangue. Succede raramente.» «Lo so. Nel caso di mio padre, era stato dal medico giusto un paio di giorni prima, e tutto andava bene.» «Strana coincidenza.» «Molto strana» convenne Melanie. «Quanto credi che sia comune questa causa di morte?» «Non molto, direi.» «Ho una curiosa sensazione su questa storia.» «Non è una novità. Cerchi il caso sensazionale dietro ogni piccolezza in cui ci imbattiamo.» «Oh, piantala!» Bobby rise, ma poi ridivenne serio. «Perché non fai un paio di telefonate, quando torniamo al quartier generale? Forse incidenti di questo tipo non sono rari come pensi.» «Hai ragione.» Melanie sorrise. «Bobby il saggio, che mi tiene sempre con i piedi per terra.» «Qualcuno deve pur farlo» commentò lui, malizioso. Dopo che lei e Bobby ebbero riferito al loro capo sugli interrogatori della notte, Melanie fece le sue telefonate. Le ci volle un po', ma finalmente si mise in contatto con il primario del reparto di cardiologia del Mecklenburg County General. Dopo aver parlato con lui, compose il numero dell'ufficio del medico legale. Un quarto d'ora dopo, riattaccò e si rivolse a Bobby. «Strano. Trovo tutta questa faccenda molto strana.» «Che cosa ti hanno detto?» chiese lui. «Hanno entrambi confermato che attacchi di cuore causati da livelli elevati di digitalina sono rari.» «Ma...?» «Ma hanno anche detto che due casi nello stesso stato a distanza di quattro anni non sono impossibili.» «In altre parole, non chiamare la cavalleria.» «Esattamente.» «Ma tu non sei soddisfatta?»
«Non ho detto questo.» «Non ce n'è bisogno. Te lo leggo in faccia. Hai quella certa aria che mi dice che non sei disposta a credere che tuo padre e questo tizio siano morti per un identico caso fortuito, e che ti attaccherai a questa idea fino a quando non scoprirai qualcosa di più concreto, o crollerai esausta. È il tuo modus operandi, socia.» Melanie stava per protestare, quando il telefono cominciò a squillare. «Polizia di Whistlestop. Taggerty» rispose Bobby. Ascoltò un momento, poi sorrise. «Salve, Veronica. Sì, è qui. Sta cercando guai, come sempre. Resti in linea» disse, e passò il ricevitore a Melanie. Nelle settimane trascorse dal loro primo incontro, lei e Veronica erano diventate amiche. Non solo fermarsi a prendere un caffè dopo gli allenamenti era diventato un rituale, ma si telefonavano ogni pochi giorni ed erano anche andate a pranzo con Mia. Melanie non aveva mai fatto amicizia così in fretta. Naturalmente, sembrava che Veronica avesse quell'effetto sulla gente. Riusciva subito simpatica. Era piaciuta a Mia, a Bobby, a Casey. La sola persona cara a Melanie che doveva ancora conoscerla era Ashley, ma avrebbero rimediato quel finesettimana. «Ciao. Che succede?» «È quello che ti chiedo. Che cos'è questa storia che cerchi guai?» Melanie rise. «Non badare a Bobby.» Guardò il collega e sorrise. «Non riconoscerebbe un criminale neppure se gli addentasse il sedere.» Bobby le indirizzò una scherzosa boccaccia, poi tornò alla lista delle telefonate della sera prima. «Hai letto il giornale di oggi?» «Non ho avuto il tempo. Perché?» «Jim McMillian è morto.» «Lo so. Me ne ha parlato il collega che sostenne l'accusa. Un suo amico del CMPD lo ha chiamato non appena ha sentito la notizia. Ma che cosa c'entra con il fatto che cerchi guai?» Melanie spiegò la coincidenza con la morte di suo padre e parlò delle telefonate che aveva fatto ai due medici. Veronica rimase in silenzio per un momento, a riflettere. «Sembra davvero bizzarro. Che cosa pensi di fare?» «Che cosa posso fare? Tenere occhi e orecchie aperti, magari ficcare un po' il naso in giro, anche se non so quanto.» Veronica si dichiarò d'accordo, poi cambiò argomento. «Scusa se non ti ho più chiamata, ma questo processo è stato duro. Il pa-
dre del ragazzo ha assunto un esercito di avvocati di grido. Ci hanno fatto sudare.» «Come sta andando?» «La giuria sta deliberando. Ma credo che lo abbiamo inchiodato. È stata la seconda ragazza che si è fatta avanti a far pendere il piatto della bilancia dalla nostra parte.» Melanie seppe che Veronica sorrideva. «Stavolta quel piccolo farabutto si è cacciato in un guaio da cui i soldi di papà non potranno tirarlo fuori.» «Buon per te.» «No» ribatté Veronica. «Buon per tutte le ragazze a cui ha fatto del male. E per quelle a cui non potrà farne in futuro. Resta in linea un momento.» Melanie sentì una voce in sottofondo. «Senti, non ho molto tempo, ma volevo sapere com'è andato l'incontro con l'avvocato.» «Non chiedermelo.» «Male, eh?» «Peggio. Ho passato l'intero finesettimana fra la rabbia e la disperazione.» Dopo che Melanie le ebbe raccontato tutto, Veronica borbottò un'imprecazione. «E poi la gente dice male di noi avvocati...» «Proprio così. Adesso non so che cosa fare. Non posso permettermi un avvocato del calibro di quello di Stan.» «Sì che puoi.» «Prego?» «Conosco un avvocato, una donna, a Columbia, che è pura dinamite. Il massimo. Specializzata in diritto di famiglia. E sta decisamente dalla parte dei buoni. Lascia che le faccia una telefonata per vedere come è messa. Se è appena possibile, ti patrocinerà per fare un favore a me.» «Sarebbe un miracolo, anche se non so come la pagherei. Sono un'agente di polizia, ricordi?» «Tu preoccupati di conservare la custodia di tuo figlio. Al resto, penso io.» «Ma, Veronica...» «Niente ma» la interruppe l'altra, sbrigativa. «Fidati di me. La chiamo subito.» Un nodo di gratitudine strinse la gola di Melanie. «Grazie, Veronica. Questo è... è troppo. Non so come ripagarti.» «Ripagarmi?» Veronica rise. «Non essere sciocca. Mi piace aiutare le
persone a cui sono affezionata. Chiamala la mia missione nella vita.» CAPITOLO 11 Melanie balzò a sedere sul letto, istantaneamente all'erta. Guardò l'orologio sul tavolino da notte. Le tre e quaranta. Corrugò la fronte e piegò la testa da un lato, in ascolto, cercando di capire che cosa poteva averla svegliata. La casa era così silenziosa che poteva sentire il mormorio delle bollicine d'aria nell'acquario in camera di Casey. Non soddisfatta, prese la pistola e fece il giro della casa. Guardò prima in camera di Casey, che non si era mosso da quando lo aveva messo a letto, ore prima, poi andò da una stanza all'altra, controllando porte e finestre. Non trovò niente di anormale. E allora, che cosa l'aveva svegliata? E ora che era completamente sveglia, con tutti i nervi tesi, che cosa doveva fare? Visto che di dormire non era proprio il caso, la scelta migliore sembrava una tazza di caffè e una buona occhiata al giornale. Melanie riportò la pistola nel cassetto, quindi andò alla porta di casa e sbirciò fuori del vetro laterale per vedere se il giornale era già stato recapitato. Aprì rapidamente per ritirarlo, poi andò in cucina a mettere su il caffè. Mentre aspettava che fosse pronto, si sedette su uno sgabello al bancone della colazione e aprì il giornale. Scorse i titoli più importanti, saltando da un articolo all'altro, ma all'improvviso si fermò, ricordando la storia da prima pagina del giorno precedente. Jim McMillian, accusato di percosse e stupro, era morto all'improvviso. Thomas Weiss, il violento che non era riuscita a incriminare, era morto all'improvviso. Melanie corrugò le sopracciglia. Bobby aveva parlato di strane coincidenze, a proposito della morte di McMillian. E quando aveva detto a Veronica Ford che Thomas Weiss era morto, lei aveva semplicemente commentato: Il destino a volte è strano. Melanie si raddrizzò sullo sgabello. Ecco che cosa l'aveva svegliata, che cosa le frullava in fondo alla mente. Non la coincidenza della morte di suo padre e di quella di Jim McMillian, a distanza di quattro anni, bensì quella della morte recente di tre uomini che maltrattavano le loro donne. Tre? Melanie si massaggiò la fronte. Perché aveva pensato a tre? Poi, ricordò. La prostituta che aveva interrogato al quartier generale del
CMPD. Che cosa aveva detto? Che il suo uomo era morto, che ci avevano pensato il destino e madre natura. Il destino. E madre natura. Un'altra volta. Melanie si alzò e andò a prendere la caffettiera, con la mente in tumulto. Prese una tazza, la riempì, ma non bevve. Che cosa stava pensando? Che c'era una relazione fra le tre morti? Un ricco imprenditore di mezz'età, un ristoratore di successo e uno sfruttatore? Come poteva essere? Che cosa poteva esserci in comune fra tre uomini così diversi? Picchiavano le donne. E ora erano morti. «Mamma?» Melanie sussultò e si voltò verso la porta di cucina. In piedi sulla soglia, Casey si strofinava gli occhi con una mano, stringendosi al petto con l'altra il coniglio di peluche. Lei scivolò dallo sgabello e gli si avvicinò. «Che cosa ci fai qui, tesoro? È ancora buio.» «Ho fatto un brutto sogno. Qualcuno ti portava via, e non riuscivo più a trovarti.» La voce del bambino tremava. Melanie lo prese in braccio, e lui le strinse le braccia al collo e le nascose il viso sulla spalla. «Non succederà» mormorò lei, decisa. Ma non poté fare a meno di pensare alla causa per la custodia. Strinse più forte suo figlio. «Vieni, piccolo, torniamo a letto. La mamma si metterà vicino a te.» Melanie non ebbe più un momento per riflettere sulla sua teoria che la morte di McMillian e quella di Weiss fossero collegate. Al quartier generale dovette occuparsi di una dozzina di compiti inutili e irritanti, comprese due pagine di presunte piste arrivate nottetempo sulla linea riservata al caso Andersen. Nessuna di loro aveva avuto altro effetto che farle perdere tempo. Per fortuna, quella mattina non giunsero altre telefonate. Subito dopo che Cleve Andersen aveva offerto la ricompensa di centomila dollari, i telefoni avevano squillato in continuazione. Ora, passate tre settimane, le chiamate erano sporadiche. Sbrigati finalmente tutti quei lavoretti, Melanie chiamò il medico legale. «Salve, sono Melanie May, della polizia di Whistlestop. Ci siamo sentiti ieri a proposito della morte di Jim McMillian.» «Sicuro. Che cosa posso fare per lei?»
«Ho solo una domanda. McMillian potrebbe essere stato ucciso?» Il medico non osò rispondere e rimase in silenzio per un lungo momento. «Ho certificato che McMillian è morto di morte naturale. Lei sa qualcosa che io non so, agente May?» «No, no» si affrettò a rispondere Melanie. L'ultima cosa che voleva era che il medico chiamasse il CMPD e raccontasse che lei stava ficcando il naso in uno dei loro casi. «Mi sono espressa male. Qualcuno potrebbe commettere un omicidio in quel modo?» «È possibile, ma non ne ho trovato alcuna prova.» «Ma se la vittima prendeva già la digitalina, può essere stata uccisa con una dose eccessiva del farmaco senza che il medico legale trovasse qualcosa di anormale?» L'altro si schiarì la gola. «Ha qualche motivo per sospettare che McMillian sia stato avvelenato? A parte, s'intende, il fatto che la sua morte ripete le piuttosto rare circostanze di quella di suo padre. McMillian era stato minacciato? Aveva una grossa assicurazione sulla vita? Aveva nemici che si sarebbero presi tanto disturbo per liberarsi di lui?» «No... Voglio dire, non lo so. Ma la coincidenza...» «Lei guarda troppi film, agente May» la interruppe il medico. «La morte porta con sé molte circostanze inesplicabili. Il corpo umano non è una macchina, non possiamo sempre stabilire esattamente perché si ferma. Perciò, a meno che non abbia qualcosa di concreto per riaprire il caso, la saluto.» Mentre deponeva il ricevitore, Melanie notò che Bobby la stava fissando. «Che c'è?» «Sei impazzita? Hai idea di quanto è pericoloso quello che stai facendo? Basta una telefonata del medico legale, e sarai nei guai fino al collo.» «Lo so, Bobby.» Melanie sfogliò gli appunti del giorno precedente, trovò quello che cercava e si alzò. «Se il capo chiede di me, digli pure che sono andata in cerca di una prostituta.» Melanie si aspettava che l'indirizzo che Sugar aveva dato alla polizia fosse falso. Tanto più quando si rese conto che quell'indirizzo corrispondeva a un dignitoso palazzo di appartamenti in una delle parti più tranquille di Charlotte, ben lontano dalla zona in cui era stata fatta la retata. Suonò il campanello. Una donna aprì la porta. Per una frazione di se-
condo, Melanie pensò che aveva avuto ragione. La donna, senza ombra di trucco, certo non somigliava alla prostituta indurita che aveva interrogato l'altra notte. Ma l'espressione degli occhi le disse che era stata riconosciuta. «Sugar?» La donna si guardò da sopra la spalla. Solo allora Melanie notò i suoni dei cartoni animati trasmessi dalla televisione. «Kathy» la corresse l'altra. «Kathy Cook. Che cosa ci fa qui?» «Ho bisogno di farti un paio di domande.» «Gliel'ho detto, non conosco quel tizio.» La donna fece per chiudere la porta, ma Melanie glielo impedì. «Non si tratta di lui, ma dell'uomo di cui mi hai parlato. L'uomo che ti picchiava.» Lei parve sorpresa. «Samson? Perché vuole sapere di lui?» «Che cosa intendevi dicendo che ci avevano pensato il destino e madre natura?» Lei scoccò un'altra occhiata da sopra la spalla. «Senta, c'è mio figlio di là. Non ho bisogno di uno sbirro che mi causi dei guai...» «Io non voglio causarti dei guai. Per favore, dimmi com'è morto. È importante.» «È morto di overdose. Okay? Ora vuole andarsene?» «Overdose» ripeté Melanie, delusa. Quadrava. Gente del genere moriva continuamente di overdose. Di certo non era opera di qualche maestro del crimine. «Ma prima che me lo chieda... Sì, lavoro per mantenere me e mio figlio, però non tocco quella roba. Per nessuna ragione al mondo.» Melanie aveva sentito troppe volte quell'affermazione, e spesso da persone così fatte da non reggersi in piedi. Stavolta, ci credette. Vedeva, negli occhi di quella donna, una feroce determinazione che non aveva notato sotto le luci fluorescenti della stanza degli interrogatori. «Era un drogato? Qualcuno che hai conosciuto lavorando per strada?» Lei scosse la testa. «Non ero per strada, allora. Avevo un vero lavoro, ben pagato. È là che incontrai Samson. Lavorava nel palazzo di fronte.» Rise, aspra. «Quando lo conobbi, pensai che la fortuna avesse bussato alla mia porta.» «Quando cominciò a picchiarti?» «Non subito. Sembrava... diverso dagli altri uomini che conoscevo.
Venne a vivere con me. E fu allora che cambiò. Cominciò a fiutare coca, pesantemente. Divenne imprevedibile. E cattivo. Perse il posto. E poi io persi il mio, perché veniva a cercarmi ogni momento. Minacciava i miei colleghi di lavoro.» Il viso di Sugar si indurì. «Andai alla polizia. Non fecero nulla. Uno di loro ricordò di avermi vista per strada, e tanto bastò» continuò amaramente. «Noi prostitute meritiamo tutto quello che ci succede, sa. Siamo solo sgualdrine.» All'interno si sentì una risata infantile. Melanie pensò a Casey e si sentì stringere il cuore. «E poi, che cosa accadde?» «Intervenne il destino. O il mio angelo custode. Lui mise le mani su della dinamite... sa, coca mescolata con eroina. Ma roba strana. Pura. Micidiale.» La donna corrugò le sopracciglia. «Non so neppure dove l'abbia trovata. Nessuno spacciatore commetterebbe un errore simile. La roba pura è impossibile da trovare per strada, costa troppo. E se il mio uomo avesse saputo che cos'era, non l'avrebbe fiutata. Era drogato, ma non stupido.» Melanie dominava a stento l'eccitazione. Con quello erano tre. Tre uomini morti in strane circostanze. «Mamma? Chi c'è?» Kathy si guardò alle spalle. «Solo un'amica, tesoro. Torna ai tuoi cartoni animati. Vengo subito.» Si rivolse a Melanie. «Devo andare.» «Lo so. Grazie.» Melanie le toccò il braccio, leggermente. «Non è vero. Non meriti quel genere di trattamento. Se avessi di nuovo bisogno d'aiuto, vieni da me. Farò tutto il possibile.» Lei annuì, con gli occhi improvvisamente lucidi. Melanie sospettò ancora una volta che quella Sugar, o Kathy, non avesse ricevuto molte gentilezze, nella vita. «Non deve preoccuparsi per me» disse la donna. «Ne sto venendo fuori. Mi troverò un lavoro di giorno, con un buon asilo interno. Non ci sono ancora riuscita, ma vivo qui perché voglio che mio figlio frequenti una buona scuola. Voglio che conosca dei bambini beneducati, di buona famiglia. Non voglio che diventi come...» Si interruppe, come se si fosse ricordata all'improvviso che parlava con il nemico. «Devo andare.» «Ancora una domanda. Da quanto tempo è morto?» Kathy fece un breve calcolo. «Quattro mesi. Sì, giusto. È stato poco prima del Ringraziamento. E le assicuro che sto ancora ringraziando.»
Melanie infilò la jeep in uno dei posteggi davanti al quartier generale della polizia di Whistlestop e spense il motore, senza smettere di pensare a ciò che le aveva detto Sugar. Aveva tre morti. Tutti colpevoli di violenze. Tutti sgusciati fra le maglie della giustizia. Tutti deceduti in seguito a strane coincidenze. Tutti, curiosamente, vittime delle proprie debolezze. Riesaminò mentalmente i fatti. Un drogato assumeva un'overdose di una sostanza che non avrebbe dovuto avere. Un malato di cuore diventava vittima del farmaco che avrebbe dovuto proteggerlo. Un uomo mortalmente allergico alle api andava a schiantarsi mentre cercava di evitare una puntura. C'era un nesso fra quelle tre morti? O non erano altro che coincidenze? O un castigo divino? Melanie appoggiò la testa allo schienale, a occhi chiusi, cercando di riflettere, riconoscendo che era convinta che quelle morti non fossero accidentali. Riteneva che quegli uomini fossero stati assassinati. E tutti dalla stessa mano. Ma se aveva ragione, significava che un serial killer agiva nell'area di Charlotte, scegliendo come vittime uomini che si erano resi colpevoli di abusi. Scosse la testa, ammettendo che gli altri avrebbero giudicato cervellotica la sua teoria. Doveva esserci qualcosa che collegava i tre uomini al loro assassino. Era necessario trovarlo. Apri la portiera giusto nel momento in cui Bobby usciva dall'edificio. «Bobby» chiamò, eccitata. «Devo parlarti.» Lui si avvicinò. «Accendi il motore. Abbiamo un indiziato per il caso Andersen. Il capo vuole che assistiamo all'interrogatorio.» «Bene.» Melanie richiuse la portiera e partì non appena Bobby fu salito. «Chi è?» «Si chiama Jenkins. Il tizio che minacciò Joli la notte in cui fu uccisa. È ricomparso un paio di sere fa. Il barista lo ha riconosciuto e ha chiamato il CMPD.» «Ricomparso nello stesso locale?» Melanie scosse la testa. «O è innocente, o è completamente idiota.» «Hanno fatto un controllo con il computer e hanno scoperto che ha dei precedenti. Rapina, aggressione. Nessuna condanna. A quanto pare, il si-
gnor Jenkins ha dei problemi a controllare i suoi malumori. L'ultima volta che ha avuto a che fare con la legge è stata quando ha rotto una stecca da biliardo sulla testa di un tizio che, pare, aveva messo in dubbio la sua virilità.» Melanie corrugò le sopracciglia, pensando al profilo tracciato da Connor Parks. La descrizione di quel tizio non vi si era mai adattata, a suo parere, e ora vi si adattava anche meno. Sembrava l'antitesi del bell'uomo dalla parola facile che Parks aveva descritto. «E pensano che sia l'assassino?» Bobby alzò le spalle. «Mi sembra naturale. Aveva il movente. Era là quella notte. L'ha minacciata.» «Vedremo» mormorò Melanie, poco convinta. Proseguirono per un po' in silenzio, nel traffico abbastanza caotico del tardo pomeriggio, e solo quando stavano per giungere al quartier generale del CMPD, Bobby osservò: «A proposito, il capo mi ha chiesto di te, oggi. Gli ho detto che stavi controllando un indizio giunto attraverso la linea telefonica riservata al caso Andersen. Per fortuna sei tornata in tempo». Melanie gli sorrise con gratitudine. «Grazie, socio. Sono in debito.» «Vuoi dirmi che cosa stai macchinando?» «Ricordi quell'articolo sul giornale di ieri a proposito della morte di Jim McMillian?» «Certo.» «La notte scorsa mi sono resa conto che quello che mi turbava non erano le analogie della sua morte con quella di mio padre, ma il fatto che tre uomini accusati di abusi erano morti di recente, tutti vittime di strani incidenti.» «Non ti seguo. Chi sarebbero gli altri?» Melanie spiegò la sua teoria, cominciando dal primo caso di cui si era occupata e concludendo con la conversazione avuta con Sugar. Nel frattempo, entrò nel parcheggio del CMPD, trovò un posto libero e spense il motore. Bobby non parve per nulla persuaso. «Perciò, ritieni che ci sia un rapporto fra queste tre morti?» «È esattamente quello che sto dicendo» confermò Melanie. «Non vedi anche tu che è la conclusione più logica?» «Non lo so, Mel. Dici sul serio?» Lei annuì. Bobby si passò una mano
sul mento. «Mi pare una teoria piuttosto stiracchiata. In che modo questi tre uomini sarebbero collegati fra loro?» «Sono tutti dei violenti che, per una ragione o per l'altra, l'hanno fatta franca. E sono tutti morti in circostanze bizzarre.» «Già, ma appartenevano ad ambienti diversi, vivevano e lavoravano in zone differenti della città, e non avevano in comune né l'età, né la condizione socioeconomica, né...» «Okay, ho capito» tagliò corto Melanie, frustrata. «La mia teoria ha più buchi di un formaggio svizzero.» «Ehi, non prendertela con me.» Bobby alzò le mani, in uno scherzoso gesto di resa. «Se pensi che io sia duro da convincere, immagina la risposta del capo.» I due scesero dalla macchina e si incamminarono verso l'edificio. «Mi stai di nuovo tenendo fuori dai guai, eh?» commentò Melanie. «Qualcuno deve pur farlo» ribatté Bobby, sorridendo. «Inoltre, mi sono abituato a lavorare con te. La vita non è mai noiosa.» «Grazie» brontolò lei. «Del resto» continuò Bobby, mentre entravano in uno degli ascensori, «non ho detto che hai torto, ma solo che non mi hai ancora del tutto convinto. Scava ancora un po', vedi se riesci a mettere insieme qualcos'altro, e poi parlane al capo.» «Aspettate!» Melanie impedì alle porte dell'ascensore di chiudersi, e Connor Parks entrò, con una bottiglia di champagne sotto il braccio. Sorrise. «Salve, dolcezza. Taggerty...» Bobby represse un risolino. Melanie lo guardò male. «Che cosa ci fai qui, Parks? Avevo sentito dire che Cleve Andersen ti aveva fatto buttare fuori dal caso.» «Che strano, avevo sentito la stessa cosa di te» ribatté lui con un mezzo sorriso. «Immagino che oggi stiano gettando un osso a entrambi.» Melanie non poté fare a meno di provare, mescolata all'antipatia, una punta di ammirazione. Quell'uomo era un tipo tosto. Sollevò un sopracciglio e indicò la bottiglia. «Festeggi l'osso o la conclusione del caso? O semplicemente preferisci non bere da solo?» Quello era un colpo basso, e lo sapeva. Andò a segno. La mascella di Parks si irrigidì. L'ascensore si fermò e le porte si aprirono. I tre uscirono in un corridoio.
A destra, in fondo, c'erano parecchie persone, fra cui Steve Rice, il diretto superiore di Parks. Gli fece cenno di affrettarsi. Parks guardò Melanie, e lei vide che l'irritazione che gli aveva causato aveva lasciato il posto al divertimento. «È un'occasione, bambola. Guarda i cervelloni al lavoro. Potresti imparare qualcosa.» Si incamminò, ma Melanie lo fermò, irritata, tuttavia incapace di resistere alla curiosità. «È la stessa marca di champagne che abbiamo trovato sulla scena del delitto Andersen.» Parks sorrise. «Vedi? Stai già imparando.» «Sei in ritardo» disse Rice, mentre Connor si avvicinava. Lui guardò l'orologio. «Considerando che mi hai chiamato meno di mezz'ora fa, mi sarei aspettato un'accoglienza diversa. Qualcosa tipo: Grazie per aver rischiato la vita per arrivare così in fretta.» «Sei sobrio?» «Va' al diavolo.» Gli occhi di Rice si strinsero. «Lo sei?» «Sì, maledizione. Sono sobrio. Da ventidue, deprimenti giorni.» «Bene. Io assisterò all'interrogatorio, giusto per aggiungere un po' di pressione. Tu osserverai. Voglio che noti ogni respiro di quel tizio. Qui pensano che sia il colpevole.» «Sei sicuro di volere che lo faccia, Steve? Non hai paura che metta in pericolo la vita o la carriera di qualcuno?» «Vuoi esserci dentro, o no?» «Diavolo, sì, voglio esserci dentro.» Connor tese la bottiglia a Rice. Come Melanie aveva notato, era identica a quella trovata sulla scena del delitto. «Il resto è pronto?» «Sì.» In quel momento sopraggiunsero Pete Harrison e Roger Stemmons. «Salve, ragazzi» disse Rice. «Vediamo se possiamo incastrare il signor Jenkins.» Alcuni minuti dopo, Connor entrò nella stanza dalla quale si poteva assistere, su un monitor, agli interrogatori. Vide che Melanie e Bobby erano già seduti al tavolo, assieme a un rappresentante dell'ufficio del procurato-
re distrettuale e ad altri poliziotti. Si sedette accanto a Melanie. Nell'altra stanza, Jenkins aspettava. A Connor bastò un'occhiata per confermare quello che sapeva già dalle descrizioni verbali. Ted Jenkins non era il loro uomo. Non quadrava con il profilo. Per quanto abbastanza attraente, recava l'inequivocabile marchio del perdente, dai capelli castani incolti alla maglietta senza maniche, per non parlare della sigaretta dietro l'orecchio. Aveva l'aria di un operaio o addirittura di un disoccupato, molto lontano dal tipo ricco e sofisticato da cui Joli si sarebbe lasciata attrarre. Rice e i due investigatori presero posto. Pete mise la bottiglia di champagne sul tavolo, assieme a una pila di cartellette. Jenkins sembrava terribilmente nervoso, anche se nessuno gli aveva ancora posto delle domande. Connor si chinò a parlare all'orecchio di Melanie. «Hai notato dove Harrison ha messo la bottiglia, giusto ai margini della visuale di Jenkins? Se è colpevole, non riuscirà a ignorarla. Continuerà a voltare la testa per guardarla. Comincerà a sudare e a respirare con difficoltà.» «Che cosa c'è in quella pila di cartellette?» «Niente. Hanno un'etichetta con il suo nome, ma dentro ci sono solo fogli bianchi. Per dargli l'impressione che abbiamo raccolto una quantità di informazioni su di lui.» «E questi sono i trucchi di voi cervelloni dell'FBI?» chiese Melanie, senza scomporsi. «Infatti. Sviluppati dall'agente speciale John Douglas dell'Unità di supporto investigativo di Quantico.» Ovviamente, Melanie aveva sentito parlare di Douglas, considerato una delle massime autorità in fatto di scene dei delitti e profili dei criminali, e la sua espressione cambiò. «Forse imparerò qualcosa, dopotutto.» Superate le formalità iniziali, l'interrogatorio ebbe inizio, e a quel punto Connor concentrò tutta la sua attenzione sull'indiziato. «A che serve il vino?» chiese Jenkins, accennando alla bottiglia. «Sono io che faccio le domande» tenne a precisare Pete con decisione. «Dove sei stato nelle ultime quattro settimane?» «Da nessuna parte. In giro.» «In giro?» ripeté l'investigatore. «Sì» confermò Jenkins, sulla difensiva, guardando Stemmons, poi Rice. «Che c'è di male?»
«Quello che vuoi dire è che te ne sei stato nascosto.» «No.» «Perché non ti sei presentato da noi?» chiese Stemmons. «P... perché avrei dovuto?» Gli agenti si scambiarono un'occhiata. «Oh, non lo so. Forse perché la donna a cui avevi fatto il filo, e che ti aveva rimesso al tuo posto...» «... Piuttosto brutalmente...» «... Era stata assassinata. Quella stessa notte.» «Io non c'entro!» «Quella sera, al bar, l'hai minacciata. Non è così, Ted?» «N... no.» «Abbiamo dei testimoni. Le hai detto che se ne sarebbe pentita. Non è questo che hai detto?» «Sì, ma... non significava niente.» Jenkins guardò dall'uno all'altro dei tre uomini. Sembrava un coniglio braccato da tre volpi. Connor corrugò le sopracciglia. Dopo la domanda iniziale, Jenkins sembrava disinteressarsi del tutto della bottiglia. «Forse dovrei avere un avvocato.» «È tuo diritto» affermò Pete. «Se ritieni di averne bisogno...» L'uomo esitò, poi scosse la testa. «Non ho niente da nascondere.» «Mi fa piacere sentirlo, Ted.» Pete sorrise, rassicurante. «Torniamo alla notte in cui Joli Andersen fu uccisa, alla tua discussione con lei. Le hai detto che se ne sarebbe pentita. Se non volevi farle del male, perché l'hai detto, Ted?» «Ero arrabbiato.» «Arrabbiato? Il nostro testimone dice che eri furioso. Così furioso che eri paonazzo in faccia e farfugliavi.» «Sì, okay, ero furibondo... lo ammetto... lei aveva riso di me. Davanti a tutti. Ma io non... non le avrei mai... fatto del male.» Gli agenti si scambiarono un'altra occhiata d'intesa. Roger si chinò verso Jenkins. «Capisco, amico» mormorò. «Era una bella bambola, e tu volevi solo avvicinarla. Non aveva alcun diritto di fare ciò che ha fatto. Chiamarti un perdente, e via dicendo.» Si concesse una pausa, poi aggiunse: «Anch'io sarei stato così arrabbiato che avrei voluto solo farla tacere. In qualunque
modo. È andata così, vero, Ted? Eri così furioso che avresti potuto metterle un cuscino sulla faccia, solo per chiuderle la bocca...». «No! Ero arrabbiato, ma l'ho minacciata solo per salvare la faccia, capisce?» Jenkins si inumidì le labbra. «Sì, volevo farla tacere. Le ho detto che... che se ne sarebbe pentita. Ma poi... poi me ne sono andato.» «Ma più tardi sei tornato?» «No.» «L'hai aspettata nel posteggio?» «No! Non l'ho più rivista, lo giuro.» «Abbiamo un testimone che è di parere diverso. Dice che ti ha visto avvicinarla nel posteggio.» «Non è vero!» «Che ti ha visto seguirla alla sua macchina.» L'uomo scosse la testa. Sembrava prossimo alle lacrime. «Non è vero» ripeté, disperato. «Sei stato l'ultima persona a vederla viva, Ted.» «No!» Jenkins balzò in piedi, tremando. Ma non di rabbia, notò Connor, bensì di terrore. «Voglio un avvocato. Non l'ho più rivista dopo essere uscito dal bar, e non dirò un'altra parola finché non mi avrete procurato un avvocato!» Qualche minuto dopo, Harrison, Stemmons e Rice entrarono nella stanza. «Be'?» chiese Pete. «Che ne pensate?» Connor distolse lo sguardo dal monitor. «Non è lui.» «Come fa a esserne così sicuro?» chiese l'assistente del procuratore distrettuale. «Perché è un perdente, proprio come ha detto Joli. Guardate com'è vestito. Il suo taglio di capelli. Che macchina ha? Un macinino Ford? Joli non lo avrebbe degnato di un'occhiata.» L'avvocato si irrigidì. «Non credo proprio che una vittima scelga il suo assassino.» «Sarebbe sorpreso di constatare quante vittime lo fanno, senza saperlo. Ma io parlavo del fatto che abbiamo stabilito che Joli andò volontariamente con il suo assassino in quel motel. Voleva andare là, con un uomo. E quell'uomo non era Ted Jenkins.» «La scena nel bar sarebbe potuta essere una commedia» si intromise Bobby. «Una finzione per trarre in inganno la gente. Più tardi, si sono in-
contrati nel posteggio.» «Ma perché?» chiese Rice. «Nessuno dei due era sposato. Per quanto ne sappiamo, non si erano mai conosciuti prima. Perché recitare una commedia del genere?» «Non è lui» insistette Connor. «Dopo la domanda iniziale sulla bottiglia di champagne, se n'è del tutto dimenticato. Se avesse adoperato quella bottiglia nel modo in cui è stata usata su Joli Andersen, non sarebbe stato capace di non guardarla. Diavolo, probabilmente avrebbe avuto un'erezione.» L'avvocato sbuffò. «È disgustoso.» «Già, è disgustoso. Ma stiamo parlando di un uomo che ha assassinato, e poi brutalizzato, un altro essere umano, e ne ha goduto sessualmente. Che cosa si aspettava, un sonetto?» «Devo concordare con Parks» affermò Rice. «Jenkins non ha ucciso Joli Andersen. Fra l'altro, riteniamo che l'assassino sia mancino, e lui non lo è. Continuate pure le indagini.» Pete sospirò, frustrato. «Mi piace, come indiziato. Aveva il movente, ha un passato di violenze, si comporta come se fosse colpevole come il diavolo...» «Andate avanti, allora» brontolò Connor, sarcastico. «Tanto, è solo con il denaro dei contribuenti e la vita di un povero diavolo che vi state divertendo.» «Parks» sibilò Rice in tono di avvertimento. Connor lo ignorò. «Continuate, ragazzi. Fingete che questa sia una pista valida. Ci rimedierete solo una brutta figura.» «Può darsi che tu abbia torto» disse Melanie a bassa voce. «Può darsi che il tuo profilo sia sbagliato.» Connor la guardò. «Non mi sbaglio mai così tanto. Mai. E ora scusatemi.» Uscì dalla stanza e aspettò, sapendo che il suo capo lo avrebbe seguito. Infatti, fu così. «Non puoi proprio agire con un po' di tatto, eh?» Lui si strinse nelle spalle. «Che ci vuoi fare? Sono pieno di difetti.» Rice scosse la testa. «Peggio. Sei una seccatura monumentale. Ma una seccatura che ha talento. Sei troppo bravo in quello che fai per startene seduto a casa a guar-
dare la televisione.» «È più stimolante di quanto pensi.» L'altro abbassò la voce. «Come stai?» «Bene.» Connor rispose senza guardare il suo capo. Perché non era vero. L'ultimo mese era stato un incubo. Era rimasto solo con se stesso e i suoi pensieri, senza neppure il conforto dell'alcol. «Ti rivoglio in ufficio. Ho bisogno di te. L'FBI ha bisogno di te.» «Ma...?» «Ma non basta che tu sia sobrio, ho bisogno che tu sia al cento per cento.» «Non chiedi molto, eh?» Rice sorrise senza umorismo. «Sono un bastardo, vero? Be', chiamami quando ci sei arrivato.» Connor lo guardò rientrare nella stanza del monitor, poi girò sui tacchi e si incamminò lungo il corridoio. Non lo avrebbe chiamato. Rice gli aveva assegnato un obiettivo irraggiungibile. Fino a quando non avesse scoperto che cosa ne era stato di sua sorella, non sarebbe mai più tornato al cento per cento. CAPITOLO 12 «Ehi, Ash.» Melanie accolse la sorella con un abbraccio. «Sei la prima. Entra.» «Che sorpresa.» Ashley sorrise con fare ironico. «Considerando che Mia non è mai arrivata in orario in vita sua...» Melanie rise allegramente. Era tutta la settimana che aspettava quella riunione di famiglia. «È vero. Ma Veronica è anche peggio. E dire che uno si aspetta che un avvocato conosca il valore della puntualità.» «E così, finalmente conoscerò la grande e misteriosa Veronica.» «Non è affatto misteriosa. Potresti già averla conosciuta, se non avessi avuto da fare.» «Ma è grande, vero? La cosa migliore che ti sia mai capitata dopo che hai assaggiato il cappuccino...» Melanie guardò la sorella, perplessa per il suo tono aspro. «Non ti seguo.»
Ashley scosse la testa. «Non importa, era una battuta sciocca. E così, dov'è il mio tigrotto, stasera?» «Casey? È da suo padre. È il finesettimana di Stan.» Melanie accennò alla cucina. «Stavo giusto preparando dei margaritas ghiacciati. Dammi una mano.» La sorella la seguì. Melanie aveva preparato delle verdure, una salsa calda di fagioli e delle tortillas. Ashley sollevò le sopracciglia. «È un vero festino, solo per noi ragazze.» «Avevo voglia di festeggiare.» «Mmh...» Ashley tuffò un bastoncino di carota nella salsa. «Perché?» «C'è bisogno di una ragione?» Melanie mise una scatola di succo di cedro ghiacciato nel frullatore, unì la tequila e il ghiaccio, e infine accese l'apparecchio. Quando la miscela parve della consistenza desiderata, lo spense. «Passami un paio di quei bicchieri» disse. «Facciamo un assaggio.» Versò il cocktail e porse un bicchiere alla sorella. Ashley assaggiò e mormorò la sua approvazione. «Ottimo.» «Che cosa ti ha tenuto tanto occupata?» chiese Melanie. «Non ti vedo da almeno due settimane.» Ashley si strinse nelle spalle. «Sono stata fuori per lavoro, come sempre. Inoltre, non credo di essere io la più indaffarata.» Ancora una volta, Melanie rimase confusa dal tono della sorella. Era come se fosse arrabbiata per qualcosa. Ma, prima che potesse chiederle il motivo, Ashley cambiò discorso. «Ho sentito che Veronica e Mia passano una quantità di tempo insieme.» «Sono andate a fare spese, e a pranzo un paio di volte.» «Interessante.» Stavolta, Melanie non lasciò passare il commento. «Come sarebbe a dire?» «Pensaci. Il matrimonio di Mia sta andando a rotoli, e lei che cosa fa? Pranza e fa spese con la sua nuova amica "del cuore.» «Preferiresti che restasse a casa a piangere ventiquattr'ore al giorno? Inoltre, ho controllato. Boyd si sta comportando molto bene.» Da quando Bobby e io gli abbiamo fatto una visitina. «Quanto a Mia, il suo stato d'animo varia dalla gaiezza alla disperazione. È sconcertante, ma, considerando le circostanze, c'era da aspettarselo, non credi?»
«Immagino di sì. Personalmente, credo che dovrebbe lasciarlo. Ma sembra che la mia opinione non le interessi.» Ashley si concesse una pausa, poi aggiunse: «Raccontami di nuovo come hai conosciuto Veronica». Grata di avere abbandonato l'argomento del matrimonio in crisi della sorella, Melanie cominciò parlando del loro primo incontro in tribunale, di come avevano scoperto di frequentare la stessa caffetteria e infine dell'incontro alla palestra. «Strano che frequentiate la stessa caffetteria e la stessa palestra» mormorò Ashley. «Charlotte è una città grande.» «Non tanto. Starbucks si trova in centro, ed è proprio per questo che lo abbiamo scelto. E il signor Browne è il solo maestro di tae kwon do di livello nazionale della zona.» All'espressione sospettosa della sorella, Melanie rise, abbracciandola. Ashley era fatta così, vedeva sempre ombre dappertutto. «Ti piacerà, lo so. Lei e Mia si intendono magnificamente.» «Magnificamente» ripeté Ashley, con un sorriso. «Questa devo proprio vederla.» Ne ebbe l'occasione poco dopo, quando Mia e Veronica arrivarono quasi nello stesso momento. Melanie le trovò a chiacchierare nel portico. Mia era colorita in viso, e il suo sorriso era allegro. Anche troppo, pensò Melanie. Quella serata sembrava cominciare all'insegna della gaiezza. Fatte le presentazioni, le quattro donne passarono nel patio, con i bicchieri in mano. «Dove ti eri nascosta, Ash?» chiese Mia, lasciandosi cadere su una sdraio. «Mi sei mancata.» «Davvero?» Ashley guardò Veronica, poi di nuovo Mia. «Il mio numero è sulla guida.» Mia scosse la testa. «Scommetto che quel poliziotto così sexy con cui esci ti tiene molto occupata.» Ashley arrossì. «Non lo vedo da un po', lo sai.» «Non so proprio niente. Inoltre, il modo in cui ti dilegui per giorni e giorni...» Veronica si intromise nella conversazione. «Per parte mia, sono felice di conoscere la terza gemella.» Sorrise con calore. «Anche se mi sembrava di conoscerti già, tanto Melanie e Mia mi hanno parlato di te.» «Mi chiedevo perché mi fischiavano le orecchie. Ora lo so.»
«Adoro i margaritas» sospirò Mia, bevendo un secondo sorso del suo drink. «Allora propongo un brindisi» disse Veronica, sollevando il bicchiere. «Ai buoni amici e ai drink ghiacciati. Che possano sempre trovarsi insieme.» Anche le altre brindarono e, da quel momento in poi, l'imbarazzo iniziale svanì rapidamente. Bevvero, risero, mangiarono e chiacchierarono di tutto, ma di niente di importante: il tempo, la moda primaverile, gli ultimi film in programmazione. Quando ci fu un intervallo nella conversazione, Veronica si chinò in avanti, eccitata. «Non so come ho potuto dimenticarmi di dirtelo, Melanie. Ho buone notizie. Può patrocinarti.» «Davvero?» Melanie si portò una mano al cuore. «Grazie al cielo. Cominciavo davvero ad avere paura. L'avvocato di Stan mi ha chiamata in settimana per sapere a chi avevo deciso di rivolgermi.» Veronica tirò fuori un biglietto da visita dalla borsa. «Non solo, mi ha anche detto di non preoccuparti per la parcella. Farà in modo che sia una cifra che puoi permetterti.» «Mi salvi la vita, Veronica. Non so come ringraziarti.» «Di che cosa state parlando?» chiese Ashley, perplessa. «Sei in qualche guaio, Mel?» «Come al solito. Uomini e guai sono sinonimi.» «I mariti sono dei bastardi» sospirò Mia, appoggiandosi allo schienale e guardando il cielo stellato. «Puoi divorziare, ma non puoi liberartene.» Ridacchiò. «A meno che non muoiano, naturalmente.» Ashley la guardò male, poi si rivolse a Melanie. «Perché è la prima volta che ne sento parlare?» «Non lo è» ribatté Melanie. «Ti ho parlato dell'avvocato che ho visto, e dell'asino che era. Quando l'ho raccontato a Veronica, lei mi ha raccomandato un avvocato specializzato in diritto di famiglia, che è anche una sua amica. Si è offerta di parlare con lei.» Guardò Veronica e sorrise. «Cosa di cui le sono più grata di quanto possa immaginare.» Ashley scoccò a Veronica un'occhiata ostile. «Anch'io avrei potuto raccomandarti un paio di persone.» Veronica guardò dall'una all'altra. «Mi dispiace. Ho fatto qualcosa di sbagliato?» «No, certo» si affrettò ad affermare Melanie. «Mi hai fatto un enorme
favore.» Si rivolse alla sorella. «Questa non è una competizione, Ash.» «È vero» rincarò Mia, apparentemente ignara della tensione attorno al tavolo. «Anzi, propongo che da questo momento Veronica entri ufficialmente a far parte del terzetto delle gemelle Lane.» «Un terzetto sono tre, non quattro» scattò Ashley. «Quartetto, allora. Che bello!» Mia si alzò, anche se piuttosto malferma sulle gambe. «Barista, un altro!» Anche Melanie si alzò. Benché ritenesse che sua sorella aveva bevuto abbastanza, per una sera, era grata per l'interruzione. A volte, non capiva Ashley. Era evidente che aveva provato un'immediata antipatia per Veronica, anche se Melanie non riusciva a immaginare il perché. Veronica era una di quelle persone che piacevano a tutti. E Ashley non lo era. Forse, era quello il problema. «I drink stanno arrivando» promise. «Ti aiuto» si offrì Veronica. «Ancora patatine?» chiese, prendendo il cestino vuoto. «Puoi scommetterci. Ash, ho dei biscotti glassati assolutamente peccaminosi in una scatola sul sedile della macchina. Puoi prenderli?» chiese Melanie. «Sicuro.» Ashley andò a prendere i biscotti, Mia disse che doveva andare in bagno e Veronica seguì Melanie in cucina. «Mi spiace molto per come si sta comportando Ashley» disse Melanie, quando lei e Veronica rimasero sole. «Non so che cosa le sia preso.» Veronica aprì un sacchetto di patatine e le versò nel cestino. «È evidente che si sente minacciata da me, anche se non riesco a immaginare il motivo.» Melanie ci riusciva. Ashley, con tutto il suo ostentato cinismo, era una persona profondamente insicura e molto sensibile, anche se spesso gli estranei non se ne rendevano conto. Veronica, d'altro canto, era brillante e piena di fiducia in se stessa. Se aveva anche lei i suoi demoni personali, sembrava averli sconfitti. «Sono contenta che possiamo stare un momento sole» cominciò Melanie a bassa voce. «C'è una cosa di cui volevo parlarti.» «Che cosa?» «Ricordi quando abbiamo parlato della morte di Jim McMillian?» «Certo.» «Be', ho scoperto qualcosa... Voglio dire, credo di aver scoperto qualco-
sa, e volevo la tua opinione.» «Sentiamo.» «Ho fatto qualche ricerca, e...» «Per caso, è un party privato? O chiunque può partecipare?» Ashley era sulla porta di cucina, con la scatola dei biscotti in mano. Melanie le accennò di entrare. Non riteneva che ci fosse niente di male a far conoscere la propria teoria alle sorelle. Dopotutto, a quel punto era solo una teoria. Inoltre, se aveva ragione, sarebbe finito tutto in prima pagina in ogni caso. «Non è un party privato» rispose. «È solo una teoria. Anzi, mi farebbe piacere sentire la tua opinione. Prendi uno sgabello.» «Che succede?» Mia uscì dal bagno, rossa in viso per aver bevuto troppo. «La nostra sorellona ha una teoria che sta per comunicarci.» Ashley scoccò un'occhiata a Melanie. Tutta la tensione di poco prima sembrava scomparsa. «Qualcosa di sinistro, spero...» Melanie rise. Quella era la Ashley che preferiva... spiritosa, un po' svitata, ironica. «Decisamente, sì.» «Proprio il mio genere» dichiarò Ashley, stropicciandosi le mani. Mia crollò su uno sgabello. «Possiamo bere mentre ascoltiamo?» «Ubriacona.» «Guastafeste.» «Signore!» Melanie batté un cucchiaio sul piano di lavoro, interrompendo le sorelle. «Prima di cominciare, devo avvertirvi che questa mia teoria è piuttosto azzardata. Cercate di ascoltarla con mente aperta.» Respirò a fondo. «Ritengo che un serial killer stia operando nella zona di Charlotte e Mecklenburg. Lui... o lei... si propone di punire uomini colpevoli di abusi che sono sgusciati fra le maglie della legge, o che comunque sono sfuggiti alla giustizia.» Veronica quasi si soffocò con il suo drink, Mia lasciò cadere una lattina di succo di cedro e Ashley fischiettò e mormorò: «Per tutti i diavoli, Batgirl...». Melanie guardò dall'una all'altra. «Ora che ho la vostra attenzione, lasciate che vi dica come sono arrivata a questa conclusione. Primo, tre uomini sono morti. Tutti accusati di maltrattamenti nei confronti delle loro donne.» Contò sulle dita. «Jim McMil-
lian. Accusato di stupro e percosse. Processato, ma i suoi avvocati lo hanno tirato fuori, anche se tutti sanno che è colpevole. Otto mesi dopo, muore in uno strano incidente.» Aprì un secondo dito. «Thomas Weiss. Ho fatto la conoscenza di quel simpaticone quando ha mandato la sua ragazza all'ospedale. Non avevamo elementi sufficienti a processarlo, e lui se l'è cavata. Pochi giorni dopo, è morto...» «Vittima di uno strano incidente» intervenne Veronica. Poi, rivolta alle altre due, raccontò la storia dell'incidente d'auto e di come si era verificato. «E il numero tre?» chiese Mia, interessata. «Chi è?» «Samson Gold. Un drogato che picchiava la sua donna. La polizia non ha mosso un dito, ma il destino sì. Ha messo le mani su una miscela di eroina e cocaina purissime che lo ha ucciso.» Ashley corrugò le sopracciglia. «Dove hai saputo di lui? Quello di McMillian fu un caso molto pubblicizzato, e Weiss lo hai conosciuto per ragioni legate al tuo lavoro. Ma come hai saputo di Gold? Dagli annunci mortuari?» Melanie scosse la testa. «Non ha importanza. Quello che conta è che abbiamo tre noti violenti, morti. Un po' troppi, a mio avviso, per essere una coincidenza.» «È fantastico» commentò Mia, scivolando dallo sgabello per impadronirsi della scatola dei biscotti. «Sembra la trama di un telefilm. Che cosa pensi di fare, ora?» «Non lo so.» Mel guardò Veronica. «Qualche idea?» L'altra rifletté. «È una teoria interessante, e se c'è qualcosa di vero, molto succosa. Hai uno straccio di prova che effettivamente colleghi questi uomini, o la loro morte?» «Ho confermato tutti i dettagli con l'ufficio del medico legale e ho controllato i rapporti di polizia, ma... no, finora, no» ammise Melanie. «Però, so di avere ragione. Me lo sento.» «Se fossi in te, starei molto attenta» le consigliò Veronica. «Ho visto molti ottimi casi... e ottimi poliziotti, quanto a questo... rovinati per mancanza di prove. Tu non fai parte del CMPD, e questo ti sfavorisce. Sai meglio di me che sarà difficile convincere qualcuno a prenderti sul serio.» Aveva ragione, per quanto fosse frustrante ammetterlo. «Credi che dovrei lasciar perdere?» «Puoi farlo?» «E dormire la notte? Non credo.»
«Perché no?» si intromise Mia. «Se quei bastardi sono morti, tanto meglio.» Melanie guardò la sorella, sbalordita. «Non puoi dire sul serio.» «Sicuro che dice sul serio» affermò Ashley, servendosi anche lei di un biscotto. «Perché non dovrebbe?» «Giusto. Perché non dovrei?» La voce di Mia era impastata. «Non avere fretta, sorellina. Se dai a questo tizio abbastanza tempo, forse se la prenderà anche con Boyd e Stan.» Melanie corrugò le sopracciglia. «Mia, sei ubriaca.» Mia barcollò e si aggrappò al bordo del piano di lavoro per sorreggersi. «C'è bisogno che sia ubriaca per volere morto mio marito? È un bastardo e lo odio.» «Mia» cominciò Melanie a bassa voce, pazientemente. «Capisco quello che provi. Stai passando un brutto momento. Ma l'omicidio è sempre sbagliato. Non voglio neppure che ci scherzi sopra.» «E chi scherza?» osservò Ashley. «Non credo proprio che Mia stia scherzando.» «Tu non detesti Stan?» rincarò Mia. «Sta cercando di portarti via tuo figlio. Ti ha messo i bastoni fra le ruote in ogni modo possibile. Non lo faresti a pezzi?» «In effetti, in certi momenti, vorrei che sparisse dalla faccia della terra. Ma posso tenere a bada Stan. Lo terrò a bada. Non mi affiderò a qualche squilibrato perché me ne liberi.» «Ma io non so badare a me stessa, giusto?» scattò Mia, con aria offesa. «Perché non sono forte come te.» «Non intendevo questo. Volevo solo dire...» «Oh, via.» Ashley gettò nella pattumiera l'avanzo del suo biscotto. «Sii onesta, Melanie. I criminali la fanno franca in continuazione. Specialmente quelli che commettono violenze sulle donne e i bambini. Si direbbe che non è neppure un reato, vista la protezione che ottengono. Prendi quel Jim McMillian. Colpevole come il diavolo, ma un avvocato lo tira fuori. Sono con Mia. Ben venga qualcuno che ci liberi da questa immondizia.» «Io sono avvocato, ma a volte l'ingiustizia del sistema mi rivolta» intervenne Veronica. «Perciò capisco il vostro punto di vista.» Si schiarì la gola. «La legge, però, protegge anche noi. Nessuno può essere giudicato e condannato senza delle valide prove. È per questo che è così difficile otte-
nere una condanna per la violenza domestica e lo stupro. Tuttavia, è così che deve essere. Le nostre leggi sono state studiate per proteggere l'innocente.» Ashley sbuffò, disgustata. «Questi discorsi mi danno la nausea. La verità è che di solito c'è la parola di una persona contro quella di un'altra... quasi sempre quella di un uomo contro quella di una donna o di un bambino. Chi pensate che prevalga?» Melanie la guardò, incredula. «Non pensi sul serio quello che dici, vero?» «Due piselli in un baccello» ironizzò Ashley, guardando da Melanie a Veronica. «Forse dovreste essere voi le gemelle.» Melanie si irrigidì. «Come ti aspettavi che la pensassimo, Ash? Entrambe siamo al servizio della legge. E quello che tu e Mia sostenete è che è lecito farsi giustizia da soli.» «È esattamente quello che sto dicendo» asserì Ashley. «Certa gente non merita di vivere. Nostro padre non meritava di vivere.» Guardò Mia, poi di nuovo Melanie. «Non vi chiedete mai come sarebbe stata la nostra vita senza di lui? O, meglio ancora, con un vero padre, invece di un porco violento? Non ripensate mai alla vostra vita, non risalite mai all'indietro per capire esattamente dove è andata storta? Chi l'ha fatta andare storta?» Melanie le tese una mano. «Non fare così, Ash, ti prego.» Ashley la ignorò. «Sarebbe dovuto essere rinchiuso. Sarebbe dovuto andare in prigione per quello che ci ha fatto. Per quello che ha fatto a... Mia. E invece, se ne andava in giro per strada, e per tutti era un luminoso esempio, come uomo e come padre. Quell'ipocrita.» «L'odio può divorarti viva» mormorò Veronica. «Non puoi andare indietro. Solo avanti. Lo so per esperienza, Ashley. Io...» «Che cosa sai tu di me?» Ashley si voltò verso Veronica, tremando di rabbia. «Tu non sei nella mia testa! Non sei una delle mie sorelle, checché ne dica Mia! Non sei niente per me, capisci? Niente. Perciò, non azzardarti a dirmi che cosa è meglio per me!» «Ma Veronica ha ragione, Ash.» Melanie le tese ancora una volta la mano. «La sola persona a cui tutto questo odio fa del male sei tu.» Ashley guardò la mano tesa con un'espressione colma di angoscia, poi
alzò gli occhi su Melanie. «Ti ho perduta?» chiese, in tono disperato. «Vi ho perdute tutte e due? Per lei?» Melanie scosse la testa. «Ma no, certo. Tu sei nostra sorella. Nessuno potrà mai prendere il tuo posto. Noi ti vogliamo bene...» «Sono tutte fandonie!» esclamò Ashley, afferrando la borsa sul piano di lavoro. Corse alla porta posteriore, e là si voltò a guardare le altre tre. «Sono tutte solo fandonie.» Melanie provò un'immediata simpatia per Pamela Barrett, l'avvocato che Veronica le aveva raccomandato. Aveva un sorriso cordiale, una stretta di mano decisa, un'aura di onestà e di fiducia in se stessa. «Veronica mi ha parlato molto bene di lei» le disse, dopo averla fatta accomodare sul divano del suo studio. «Ha anche detto che è disperata.» Melanie trasalì a quella parola, ma riconobbe che era vero. «Le sono grata di avermi ricevuta con un preavviso così breve. Veronica ha ragione, temo. Non sapevo a chi chiedere aiuto.» L'avvocato sorrise, comprensiva. «Capisco. E lasci che le dica che si è rivolta alla persona giusta.» La ragguagliò rapidamente non solo sulle proprie esperienze professionali, ma anche sul fatto che pure lei era una madre divorziata che aveva dovuto combattere per la custodia dei figli. «Perciò, vede, sono dalla sua parte, e farò tutto il possibile perché non perda suo figlio. Ora, perché non mi espone la situazione? Cominci pure da dove le sembra meglio.» Melanie raccontò le circostanze del suo divorzio e i successivi sviluppi del suo rapporto con l'ex marito, fino alla conversazione in cui Stan l'aveva informata di avere iniziato la causa per la custodia e al suo colloquio con l'avvocato Peoples. Quando si interruppe, Pamela rilesse rapidamente gli appunti che aveva preso, poi le chiese di raccontarle una settimana tipo della vita sua e di Casey. Alla fine, mise da parte il taccuino. Melanie trattenne il respiro. Pamela era dalla sua parte, ne era certa. Perciò, se si fosse rivelata pessimista solo la metà dell'altro avvocato, lei non avrebbe più saputo che cosa fare. «Prima di tutto, lasci che le dica che ho già avuto a che fare con l'avvocato Peoples, e l'ho trovato un pallone gonfiato, disinformato e misogino. Non pensi più a quello che le ha detto. Comunque, ho avuto a che fare an-
che con l'avvocato di suo marito. È un professionista estremamente in gamba.» «Il migliore che il denaro possa comprare» convenne Melanie amaramente. Pamela si chinò in avanti. «Sì, sicuramente è in gamba, ma non migliore di me» affermò, dura. Fece una pausa, quindi continuò: «Da quanto mi ha raccontato, non vedo alcuna ragione, per un giudice, di affidare a Stan la custodia di Casey. Anzi, lei sembra un genitore molto più presente del suo ex marito. Dimentichi gli argomenti di Stan sui vantaggi del suo stile di vita più lussuoso. È la sua scala di valori, non quella del giudice». «E quanto al mio lavoro? Peoples ha detto...» «Ripeto, non badi a quello che ha detto Peoples. Il giudice interrogherà lei, Stan, sua moglie e un paio di altri membri della famiglia da entrambi i lati. Faremo delle prove, ma le dico subito che voglio che traspaia chiaramente il suo amore per Casey. Il suo calore naturale. La sua devozione alla sua famiglia. Lo stretto rapporto con le sue sorelle, e il loro con Casey.» Pamela sorrise. «Batteremo suo marito, mi creda.» Melanie era sul punto di piangere per il sollievo. «Grazie. Oh, grazie tante.» «Non c'è di che.» Pamela si alzò, segnalando con quel gesto che l'incontro era concluso. «Contatterò al più presto l'avvocato del suo ex marito. Ci sentiremo fra un paio di giorni.» Melanie rinnovò i ringraziamenti e Pamela l'accompagnò alla porta e le tese la mano. «Non si preoccupi, Melanie. È in buone mani.» «Ne sono convinta.» Lei fece per uscire, poi si fermò. «La sua causa per la custodia... l'ha vinta?» «Sì.» «E quella è stata la fine?» Pamela si lasciò sfuggire un sospiro, e Melanie capì perfettamente. La lotta non sarebbe mai finita. Anche se il giudice avesse deciso in suo favore, Stan ci avrebbe provato ancora. E ancora. La risposta dell'avvocato le confermò che aveva visto giusto. «Capisco la sua preoccupazione, Melanie. Ma le assicuro che, a parte i casi di abusi o di negligenza, è difficile che la sentenza di un giudice venga capovolta. Questa è la migliore occasione per suo marito. E sono convinta che perderà.»
«E nel suo caso? Suo marito ha accettato la sentenza e si è tirato da parte?» «In un certo senso. Si è trasferito altrove poco dopo la sentenza. È stato un brutto colpo per i bambini. Mi è molto dispiaciuto che crescessero senza avere vicino il loro padre.» Ma, personalmente, non le era dispiaciuto affatto che lui se ne andasse, rifletté Melanie. Ricordò la discussione di qualche sera prima con le sorelle. Sì, le sarebbe spiaciuto che Casey non potesse vedere suo padre. Ma, a essere onesta, non avrebbe provato altro che sollievo se Stan fosse sparito dalla faccia della terra. CAPITOLO 13 Melanie uscì dall'ufficio dell'avvocato decisamente sollevata. Per la prima volta da quando Stan l'aveva informata che intendeva chiedere la custodia di Casey, sentiva che tutto sarebbe finito bene. No, meglio ancora. Si sentiva imbattibile. Era a metà della strada del ritorno, quando il suo cercapersone ronzò. Il quartier generale. Chiamò con il telefono cellulare, e fu Bobby a rispondere. «Ehi, socio, sei stato tu a chiamarmi?» chiese Melanie. «Dove sei?» «A una ventina di minuti da Charlotte. Che succede?» «Hanno organizzato un confronto per Jenkins, alle quattro. Il capo vuole che ci andiamo.» Melanie consultò l'orologio. «Ci vediamo là.» Il confronto era già iniziato quando arrivò. «Che cosa mi sono persa?» sussurrò a Bobby. «Non molto. Hanno appena cominciato.» Melanie si guardò rapidamente attorno. Oltre a Bobby e agli agenti del CMPD, vide l'assistente del procuratore distrettuale che seguiva il caso, e un altro tizio in completo scuro che immaginò essere l'avvocato di Jenkins. Connor Parks non c'era. Melanie riconobbe, sebbene a malincuore, di essere delusa. Parks la teneva sotto pressione e la costringeva a pensare. Si concentrò sul confronto in atto. Harrison invitava ciascuno degli uomini a fare un passo avanti, poi a girarsi a sinistra e infine a destra. Melanie riconobbe Jenkins, il terzo della fila. Pallido, con la fronte luccicante di
sudore, sembrava sul punto di sentirsi male. «Okay, Gayle» disse Harrison alla testimone. «Guardi bene. Riconosce l'uomo che ha visto avvicinarsi a Joli Andersen nel posteggio, la notte in cui fu uccisa?» La donna sospirò. «Non... non ne sono sicura.» «Non abbia fretta» suggerì l'assistente del procuratore. «Vogliamo che sia assolutamente certa.» La donna annuì, respirò a fondo e si chinò in avanti. «Era buio, ma... la corporatura somigliava a quella del numero tre. E anche i capelli sono simili. Piuttosto scuri... e ondulati.» «Piuttosto?» chiese l'avvocato di Jenkins. «Simili? I capelli erano come quelli di quest'uomo, o no?» La donna guardò nervosamente Harrison. «Io... sì, lo erano.» «È il numero tre l'uomo che ha visto?» L'assistente del procuratore si schiarì la gola. Era un segnale di avvertimento. La testimone esitò. «Non vorrei sbagliarmi.» «No, certo.» «Potrebbe chiedere al numero tre di fare di nuovo un passo avanti?» Pete fece avanzare Jenkins e la donna lo studiò un momento. «Potrebbe essere lui.» «Potrebbe?» ripeté Harrison. «Come ho detto, era buio. E io avevo fretta di raggiungere la mia macchina.» «Certo» intervenne l'avvocato, conciliante. «Dopotutto, era molto tardi.» La testimone parve sollevata. «Sì, molto.» «E lei aveva bevuto.» Gayle scoccò un'occhiata ai poliziotti. «Un po'.» Melanie scosse la testa. Non avrebbero ricavato niente da quella testimonianza. «Grazie per essere venuta, Gayle» disse l'assistente del procuratore. «Le siamo davvero molto grati.» «Abbiamo finito?» L'altro annuì. «Mi... mi spiace di non essere stata di maggiore aiuto.»
«Ci è stata di grande aiuto. L'accompagno fuori.» «Ve l'avevo detto che avete preso l'uomo sbagliato» affermò l'avvocato di Jenkins, non appena la porta si fu richiusa dietro i due. «Che cosa le fa credere che abbiamo l'uomo sbagliato?» scattò Stemmons. «Un testimone oculare ha appena confermato che il suo cliente ha la stessa corporatura e lo stesso colore di capelli dell'uomo che ha visto con Joli Andersen.» L'avvocato sbuffò, divertito. «Già, proprio. Somiglia, potrebbe essere... Non avete uno straccio di prova che colleghi il mio cliente alla scena del delitto, neppure un'impronta digitale. Non avete niente.» Andò alla porta, poi si voltò. «Lasciatelo libero, o vi ritroverete con una denuncia per arresto illegale così in fretta che vi girerà la testa.» Quando la porta si richiuse, Harrison scattò: «Quel farabutto è colpevole». Melanie scosse la testa, poco persuasa. «Non avete alcuna prova materiale. Questo non vi preoccupa?» «Sicuro che mi preoccupa, eccome.» «Quel che è certo è che sembrava colpevole» mormorò Bobby. «Mi sorprende che la testimone non lo abbia indicato con sicurezza solo per quanto sudava.» «Ma non credi che questo renda ancora meno attendibile la sua testimonianza? Jenkins sembrava colpevole, eppure lei non ha potuto identificarlo con sicurezza. Se lo incriminassimo e lui si presentasse in aula freddo come un cocomero, la sua incertezza raddoppierebbe.» «Che scocciatura» borbottò Harrison. «Eppure c'è qualcosa in quel tizio... qualcosa che non mi piace.» Melanie era abbastanza d'accordo. Ma il fatto che Jenkins era un tipo sgradevole non significava che era anche l'assassino. Continuava a pensare al profilo di Parks. Ted Jenkins non corrispondeva, e lo fece notare. «Al diavolo Parks» brontolò Stemmons. «Non lo hai visto qui, oggi, no? Quello è un piantagrane.» «Ma ottiene dei risultati» ribatté Melanie. «Era uno dei migliori profiler dell'FBI. Sarebbe stupido, da parte nostra, non approfittare della sua esperienza.» Con sua sorpresa, Harrison si dichiarò d'accordo, anche se, per il momento, non aveva alcuna intenzione di mollare Jenkins. I quattro uscirono dalla stanza e si incamminarono verso gli ascensori.
Melanie scoccò un'occhiata ad Harrison. «Tu non eri forse uno degli agenti che hanno indagato sul caso di Jim McMillian?» «Sì, e allora?» «Avrai saputo che è morto.» Lui sorrise. «Un punto per i buoni.» «Le circostanze della sua morte sono strane, mi pare.» «In che senso?» Melanie si strinse nelle spalle, cercando di apparire noncurante. «Il fatto che sostanzialmente sia stato ucciso dal farmaco che prendeva per curarsi.» «E allora? È raro, ma succede, giusto?» «Giusto. Ma anche un altro tizio che la sua ragazza aveva accusato di percosse è morto di recente, in circostanze strane.» Harrison la guardò. «E tu pensi che i due casi siano collegati?» «Non ho detto questo. Credo che sia una curiosa coincidenza, ecco tutto.» Melanie consultò l'orologio, come se fosse solo parzialmente interessata alla conversazione. «Sai di altri tipi come McMillian che siano morti in circostanze insolite?» «Oh, sicuro» disse Harrison, con un sorrisetto ironico. «Muoiono come le mosche.» «Andiamo, Mel» intervenne Bobby. «Il capo ci ha ordinato di riferire al più presto.» Lei lo ignorò. «In effetti, Pete, ho scoperto una terza vittima. Si chiamava Samson Gold. È morto fiutando quella che riteneva essere cocaina. Invece, era un miscuglio letale di coca ed eroina pura.» «Questa sì che è rara» ridacchiò Stemmons. «Un drogato che muore di overdose. Presto, chiamiamo l'FBI.» Harrison le batté un colpetto sulla spalla. «Stai dando la caccia a delitti che non esistono, May.» Lei si irrigidì. Non meritava la loro condiscendenza. Ma, poiché era un poliziotto di Whistlestop, tutto quello che diceva era uno scherzo. «Ne sei proprio sicuro?» ribatté. «Come sei sicuro che il profilo di Parks è sbagliato e Jenkins è l'assassino di Joli Andersen? Ma se siete così in gamba, come mai non riuscite a incriminarlo?»
L'investigatore arrossì. «Invece di correre dietro ad assassini immaginari, May, forse potresti fare più attenzione a quello che succede nel tuo orticello.» «Come sarebbe a dire?» «Chiedi a tuo cognato.» Harrison fece per allontanarsi, ma lei lo trattenne. «No, adesso me lo dici tu, perché non ho idea di che cosa stai parlando.» Lui la fissò duramente. «Con piacere. Tuo cognato è stato da noi, qualche settimana fa. Ha detto che lo hai minacciato. Che aveva dei testimoni.» Melanie aprì la bocca per negare, ma poi ricordò. All'ospedale. Gli aveva detto che, se avesse picchiato di nuovo sua sorella, non avrebbe risposto delle proprie azioni. «Non è stato niente. Un malinteso familiare.» «Non secondo il dottor Donaldson, però.» Harrison guardò Bobby. «Dovresti pensare a cercarti un altro compagno. Questa è una mina vagante. Qualcuno finirà per farsi male.» Si allontanò, e Melanie si rivolse a Bobby, furiosa. «Si sbaglia. Non do la caccia ad assassini che non esistono. Se non fosse una testa di legno...» «Piantala, Mel. Non voglio sentire.» Melanie si rese conto che anche Bobby, l'allegro, conciliante Bobby, era arrabbiato. Che lo aveva messo in imbarazzo. Sospirò. «Ho visto l'occasione e l'ho colta. Pensavo che forse Harrison...» «Che cosa?» sibilò Bobby. «Sarebbe andato in estasi di fronte alla tua abilità investigativa? Che non solo ti avrebbe dato ragione, ma ti avrebbe anche supplicata di permettergli di unirsi a te nella caccia al nuovo serial killer di Charlotte?» Sbuffò, esasperato. «La prossima volta che vorrai esporre le tue cervellotiche teorie ai ragazzi del CMPD... o a chiunque altro... fallo da sola. Non mi va di essere umiliato.» Melanie fece un passo indietro, sorpresa dalla veemenza del suo compagno. Evidentemente, quella collera covava da tempo. «Non sapevo che la pensassi così, Bobby. Ma ora lo so. Non ti umilierò più.» Lui borbottò un'imprecazione. «Senti, Melanie, tu mi piaci. Mi piace lavorare con te. Ma hai un grosso problema. Sei insoddisfatta. E questo sta diventando un intralcio.»
«Un intralcio a che cosa?» ribatté lei. «Al nostro rapporto? Al mio lavoro?» «A tutti e due» affermò Bobby. «Lavorare nella polizia di Whistlestop non sarà mai emozionante o importante. E questo mi sta benissimo. Forse è tempo che tu ti chieda se sta bene anche a te.» Incapace di dormire, Melanie fissava il soffitto. Era passata una settimana dalla sua discussione con Bobby, una settimana da quando aveva umiliato lui, e se stessa, davanti ai ragazzi del CMPD. In quei sette giorni, le parole che Bobby e gli altri investigatori le avevano detto erano state come una spina sotto la pelle, una costante irritazione che stazionava sempre ai margini dei suoi pensieri, che distoglieva la sua attenzione da altre cose meno spiacevoli. E questa era appunto la ragione per cui era sveglia alle quattro del mattino. Per la settima notte di fila. Sospettando che quella notte non sarebbe stata diversa dalle precedenti, Melanie scese dal letto e andò in cucina a farsi un caffè. Attenta a non disturbare Casey, preparò la caffettiera, poi si appoggiò al piano di lavoro e guardò il liquido scuro cadere goccia dopo goccia nella caraffa di vetro. L'aroma del caffè parve mettere in moto all'istante il suo cervello. La soluzione del suo problema era ovvia. Aveva bisogno di aiuto. Del sostegno di qualcuno che avesse credenziali maggiori delle sue. Invece, era sola. Bobby era stato chiaro in proposito, e anche il CMPD. Melanie non osava rivolgersi al suo capo, perché, se lui le avesse ordinato di lasciar perdere, sarebbe stata costretta a ubbidire, o a rischiare la carriera. Perciò, la domanda era: come convincere qualcuno a salire sul suo treno? Aveva bisogno di altre prove. Qualcosa che collegasse le vittime. Qualcosa di decisivo. O una coincidenza troppo improbabile per essere casuale. Aveva bisogno di un altro morto. Si raddrizzò, completamente sveglia, ora. Ma certo. Com'era potuta essere così ottusa? Potevano esserci molte altre vittime. Quel serial killer poteva essere all'opera da anni. Cominciò a camminare avanti e indietro, dimenticando il caffè. Aveva trovato tre vittime con estrema facilità, anzi, per caso. Ma ora sapeva che cosa cercare. Una storia di abusi contro le donne. Una morte causata da un
bizzarro incidente. Quanto poteva essere difficile? Nelle settimane seguenti, Melanie lo scoprì. Passò ogni momento libero a lavorare per localizzare le prove di cui aveva bisogno. Sacrificò il sonno. Trascurò Casey, affidandosi alla televisione e alle videocassette per intrattenerlo. Non vedeva le sue sorelle da due settimane e le aveva solo sentite un paio di volte al telefono, frettolosamente. Al lavoro, faceva il minimo indispensabile. Era una donna ossessionata, totalmente concentrata sul tentativo di provare che aveva ragione. La biblioteca divenne la sua migliore amica. Nei finesettimana che Casey passava con il padre, Melanie arrivava prima che aprisse e andava via quando chiudeva, e trascorreva la giornata esaminando i necrologi sui microfilm dei numeri arretrati del Charlotte Observer. Cominciò con i giornali di un anno e mezzo prima, cercando notizie su uomini che erano morti in seguito a strani incidenti. Escluse gli omicidi, i morti troppo giovani o troppo vecchi e quelli deceduti in seguito a una lunga malattia. Prese nota di tutte le vittime di infarti. Aveva creduto che sarebbe stato facile. Invece, era come cercare un ago in un pagliaio, tedioso, lento. Quasi impossibile. La lista aumentava. Il suo entusiasmo si raffreddava. Ma non la sua determinazione. Era come un cane con un osso fra i denti, deciso a non mollarlo. Di notte, studiava testi sui serial killer, leggeva resoconti delle unità speciali dell'FBI, e diverse volte si imbatté nel nome di Connor Parks. Dalle sue ricerche, aveva appreso che i serial killer erano quasi sempre uomini, che raramente infrangevano le barriere razziali, che operavano tipicamente in un luogo o una regione per molto tempo. Il rituale poteva evolversi, ma non variava, e questo creava una firma che gli investigatori potevano riconoscere, e da cui potevano dedurre un profilo dell'assassino, offrendo alla polizia i mezzi più efficaci per catturarlo. Ecco! La persona a cui doveva rivolgersi era Connor Parks. Quando avesse avuto le prove che cercava... Le parole sulla pagina davanti a lei si sfuocarono. Melanie si stropicciò gli occhi, riconoscendo che era stanca. E quasi disperata. Si alzò e si stiracchiò, ammettendo la stanchezza, ma lottando contro la disperazione. Non c'era da stupirsi se si sentiva depressa. La ricerca era inquietante. La induceva a chiedersi che cosa poteva contorcere la psiche umana al punto da rendere possibili quelle azioni orribili, al punto che neppure l'omicidio era abbastanza, che il piacere poteva derivare solo dalla sofferenza di
un'altra persona. Chi fabbricava questi mostri? Da dove venivano? Melanie rabbrividì, poi lanciò un'occhiata in direzione della camera di Casey, colta da una paura tanto irragionevole quanto raggelante. Corse alla porta, la socchiuse e sbirciò all'interno. Il suo adorato Casey era là, nel suo letto, al sicuro e addormentato, abbracciato al suo coniglio di peluche. Cresceva così in fretta!, pensò Melanie. Fra non molto le avrebbe chiesto di mettere via i suoi amati peluche... e nello stesso tempo, sospettava, avrebbe smesso di permetterle di baciarlo davanti ai suoi amici. «Ti voglio bene» sussurrò. Chiuse lentamente la porta. Si sentiva meglio. Aveva cominciato quella ricerca. L'avrebbe finita. Anche se fosse dovuta risultare del tutto deludente. Andò in camera sua e indossò il pigiama. L'indomani avrebbe intrapreso il prossimo passo della sua ricerca, cominciando a indagare sui nomi che aveva ricavato dagli annunci mortuari. Per ragioni pratiche, aveva deciso di cominciare dalle morti più recenti e risalire nel tempo. Avrebbe cercato ogni nome nel computer del dipartimento di polizia, controllando i precedenti. Dopo, avrebbe contattato le famiglie dei defunti. Con quale pretesto, non lo aveva ancora deciso. Ci avrebbe pensato l'indomani, si disse, spegnendo la luce. L'indomani arrivò in un batter d'occhio. Dopo aver accompagnato Casey all'asilo, Melanie, fra un'occupazione di routine e l'altra, riuscì a fare le sue telefonate. Si servì ogni volta di una storia diversa, a volte utilizzando informazioni lette nei necrologi, altre inventando di sana pianta. Era una vecchia amica dell'università, una rappresentante dell'ufficio lotterie, una lontana cugina. Dopo una dozzina di chiamate, dovette ammettere che stava diventando brava a improvvisare. Non si era mai considerata una bugiarda efficace, ma ora scopriva che si era sottovalutata. Forse, decise, non era mai stata così motivata. Verso l'ora di pranzo, Bobby, che era rimasto insolitamente silenzioso, le chiese che cosa stava facendo. «Compiti a casa» rispose lei, componendo un numero. Bobby sollevò un sopracciglio. «Non chiedere. Non voglio che tu sappia, almeno ufficialmente.» Ufficiosamente, Bobby sapeva già che cosa stava facendo. Lo capì dalla
sua espressione. Ma se non gli diceva nulla, lui poteva fingere di non sapere. In caso contrario, avrebbe dovuto riferire le sue attività al capo. O, tacendo, diventare suo complice. Melanie, però, non voleva l'aiuto di nessuno. Quell'indagine era un'idea sua, e se le scoppiava in faccia voleva che nessun altro rimanesse ferito dalle schegge. Bobby guardò da sopra la spalla la porta chiusa dell'ufficio del capo. «Non puoi lasciar perdere, vero, Melanie? Devi dimostrare che hai ragione.» Quelle parole le fecero male, ma cercò di non badarci. «No, non posso lasciar perdere. Però, non è perché voglio aver ragione. È perché so di avere ragione. Qualcuno sta assassinando questi tizi, Bobby. Non permetterò che la faccia franca. Non posso.» «Sei sicura di sapere quello che stai facendo? Questa cosa potrebbe scoppiarti in faccia.» Le parole di Bobby rispecchiavano esattamente i suoi pensieri di poco prima, e lei annuì. «Lo so. E non voglio che tu sia coinvolto, in caso succeda.» Lui la guardò ancora per un momento, poi tornò al suo lavoro, facendole intendere che il discorso era chiuso. E che l'avrebbe aiutata con il proprio silenzio. «Bobby?» Lui alzò gli occhi, e Melanie gli sorrise con gratitudine. «Grazie.» CAPITOLO 14 Veronica affondò la paletta nel terreno soffice. La giornata estiva era calda, il cielo azzurro e terso. Era quasi luglio, troppo tardi per le piante annuali, ma trovare il tempo prima era stato impossibile. Aveva avuto un processo dietro l'altro, tutti lunghi e complessi. Esaminò il lavoro fatto fino a quel momento e sorrise. Amava il giardinaggio. Amava i colori e gli odori, e sporcarsi le mani di terra. Se non avesse sentito il richiamo della legge, avrebbe aperto un vivaio. Forse lo avrebbe fatto, un giorno. Suo padre si sarebbe rivoltato nella tomba. Il sorriso di Veronica si allargò, mentre tornava al lavoro, gettando un pizzico di concime in ciascun buco che scavava e poi mettendo a dimora la piantina. Al suono del campanello si voltò verso la parte anteriore della casa.
«Sono qui!» chiamò. «Nel giardino.» «Ciao, Veronica.» Mia era sul cancello, incerta, con una mano sugli occhi per ripararli dal sole, e nell'altra un cesto di grosse fragole. Veronica sorrise, sorpresa ma contenta. «Salve, Mia. Come mai da queste parti?» «Ero... in zona e ho pensato di passare da te. Spero che non ti dispiaccia.» Normalmente, sì, le sarebbe dispiaciuto. Per quanto amasse la compagnia, Veronica era anche un tipo solitario. La sua casa era il suo dominio privato, un posto in cui leccarsi le ferite, pianificare le sue strategie e ricaricare il suo spirito. Non vi accoglieva volentieri degli ospiti, specie se si presentavano inaspettatamente. Mia, però, era diversa. Lei non sapeva esattamente il perché, ma lo era. «Certo che no. Entra.» «Ti ho portato una cosa.» Mia mostrò il cestino di fragole. «Sono dolcissime. Ne ho assaggiata una.» Veronica guardò i frutti, poi di nuovo Mia, senza avere cuore di dirle che era terribilmente allergica alle fragole. «Sono bellissime» mormorò. «Grazie.» Mia sorrise e Veronica provò un'ondata di affetto tanto forte da toglierle il respiro. Si fissarono per un momento così lungo da diventare imbarazzante. Alla fine, Veronica si riscosse, schiarendosi la gola. «Preparo del tè freddo.» Si alzò, si sfilò i guanti da lavoro e si spolverò le ginocchia. «Da questa parte.» Mia la seguì in casa. Mentre versava per entrambe il tè guarnito da una fettina di limone e un rametto di menta, Veronica avvertì, più che vedere, che Mia studiava la luminosa cucina, con i suoi piani di lavoro di piastrelle azzurre, la cappa di rame e gli armadietti in cipresso. Si chiese che cosa pensasse del suo bungalow vittoriano ristrutturato. Come se le leggesse nella mente, Mia mormorò: «È delizioso». Innervosita, Veronica le mise davanti un vassoio antico e vi posò il bicchiere. «Adoro Dilworth. È uno dei più vecchi quartieri di Charlotte. Ma Boyd ha insistito per una casa nuova. E Boyd ottiene sempre quello che vuole.» «Ti piacerebbe fare il giro della casa?» Le due donne chiacchierarono, mentre Veronica conduceva Mia da una stanza all'altra, cogliendo l'opportunità per studiarla. Trovava curioso che, per quanto identiche, lei e Melanie fossero diverse come il giorno e la not-
te. Mentre Mia era incerta e sembrava necessitare di costanti attenzioni, Melanie aveva l'aria di non avere bisogno di nessuno e diceva sempre quello che pensava. Benché Veronica ammirasse quella sicurezza e quella forza di volontà, erano qualità che non l'attiravano. Anzi, a volte si trovava spiazzata dall'atteggiamento determinato di Melanie. Conclusero il giro nella luminosa camera di Veronica. «Com'è graziosa!» esclamò Mia, avvicinandosi all'antico letto a colonne. Vi si lasciò cadere, passando la mano sul copriletto dal disegno vittoriano. «Uno dei vantaggi di essere single» mormorò Veronica. «La mia camera può essere femminile quanto la voglio.» Mia rise e si sdraiò sul grazioso copriletto a fiori, guardando il soffitto. «Mi sento come una ragazzina che è andata a passare la notte da un'amica.» Veronica la guardò, e il cuore cominciò a batterle all'impazzata. Mia era così bella e dolce. Non aveva alcuno spigolo tagliente, alcuna durezza disincantata. «Tu lo hai mai fatto?» chiese Mia. «Quale ragazza non lo ha fatto?» «Melanie è sempre stata la mia migliore amica. E anche Ash.» Il sorriso di Mia svanì. Si alzò a sedere. «Hai parlato con Mel, ultimamente?» «No. L'ho chiamata, ma...» «Ma era troppo indaffarata con quella sua stupida teoria» completò Mia, in tono dispiaciuto. «Sulle prime l'ho trovata interessante. Eccitante, perfino. Però, non credevo che avrebbe mollato tutto per dedicarsi solo a quella. Non è giusto, non credi?» Veronica, infatti, non lo credeva. Ed era arrabbiata con Melanie per la sua ossessione per l'Angelo nero. Nella sua ricerca della cosiddetta giustizia, finiva per ferire coloro che le volevano bene, che meritavano la sua lealtà, comprese lei e Mia. «È qualcosa che sente di dover fare» mormorò, non volendo confessare a Mia i suoi veri sentimenti. «Posso capirla. Ci sono cose che anch'io sento di dover fare.» «Ma tu non pianti in asso le persone che hanno bisogno di te. Non dimentichi perfino che esistono.» «No» mormorò Veronica, rendendosi conto che Mia si sentiva davvero abbandonata dalla sorella. Si avvicinò al letto e si sedette vicino a lei, toccandole la mano nel tentativo di confortarla. «Melanie non ha piantato in asso né te né me. E non può dimenticare
che esisti più di quanto possa smettere di respirare. È solo... totalmente concentrata sul suo serial killer. Finirà presto, perché o troverà qualcosa, o non troverà nulla. Nel primo caso, diventerà un'indagine ufficiale, parte del suo normale lavoro.» «E io che cosa farò, nel frattempo?» si lamentò Mia. «Melanie è la persona a cui mi sono sempre rivolta per aiuto. Sempre.» «Ci sono io.» Quando Mia la guardò, sorpresa, Veronica arrossì, imbarazzata. Per la propria offerta. E per quanto sperava che Mia l'accettasse. Si schiarì la gola. «Voglio dire, siamo... amiche. Sono qui, se hai bisogno.» Per un momento, Mia rimase in silenzio, poi sorrise, e il suo viso si illuminò come per magia. «Da ragazzina, hai mai giocato al gioco della verità?» Veronica annuì, e Mia continuò, quasi con civetteria: «Ebbene, avvocato Veronica Ford, dimmi la verità. Se potessi avere quello che vuoi, che cosa sceglieresti?». Veronica arrossì di nuovo, anche se non sapeva se per l'imbarazzo o per la propria reazione fisica alla domanda. Il cuore le batteva forte, le mancava il respiro, aveva le mani sudate. Che cosa le stava succedendo? «Se potessi avere qualunque cosa? Sceglierei l'amore. Vero amore, non infatuazione o sesso. Vorrei qualcuno a cui poter affidare tutti i miei segreti. E che riponesse in me la stessa fiducia. Qualcuno con cui stare e di cui prendermi cura.» La sua voce si fece roca. «Una persona che scacciasse la solitudine.» Sbalordita da quanto aveva rivelato, Veronica distolse lo sguardo, forzando una risata. «Altro che accusatore dalle unghie affilate. Parlo come un'adolescente.» Mia le prese la mano e intrecciò le dita alle sue. «Non essere imbarazzata. È quello che voglio anch'io. Quello che credevo di avere quando mi sono sposata, ma...» Aveva gli occhi lucidi, ed era evidente che cercava di non piangere. Veronica deglutì a vuoto. Si sentiva attratta da quella donna come non era mai stata attratta da nessun'altra. Strinse le dita attorno alle sue. «È per via di tuo marito, vero? È lui la ragione per cui sei venuta qui. La ragione per cui sei così infelice.» «Sì» sussurrò Mia senza alzare gli occhi. «Come lo hai capito?» «Ho intuito da ciò che hai detto che avevi... dei problemi. Sono qui, se vuoi parlarne.» «Grazie, ma...» Mia scosse la testa. «Credo che l'ultima cosa di cui vuoi sentire parlare siano i miei guai.»
«Non è vero. Siamo amiche, no? Abbastanza da cercare di aiutarci a vicenda.» Quando Mia non alzò ancora gli occhi, Veronica la chiamò sottovoce. «Mia? Non siamo abbastanza amiche?» Per un lungo momento, Mia la guardò con gli occhi lucidi. Poi annuì. «Mio marito mi... mi tradisce. E quando l'ho accusato, si è infuriato e mi ha... colpita. Non è stata la prima volta...» La voce le morì in gola e Veronica sussultò, lottando contro la rabbia che ribolliva dentro di lei, la rabbia che a volte affiorava così forte, così rovente da accecarla. La dominò, con uno sforzo. «Non sei tenuta a sopportare una situazione simile, Mia. Non devi farlo.» «È quello che dice Melanie.» Mia rise, imbarazzata, e si asciugò gli occhi con le dita. «Ma io... io non sono capace di...» Veronica le prese le mani e le strinse forte. «Non si tratta di essere capace. Non lo hai lasciato perché hai paura. Paura di lui. Paura di perderlo. Perché ti ha fatto credere che hai bisogno di lui, che non sei abbastanza forte da cavartela da sola. È quello che fanno gli uomini come tuo marito.» Mia scosse la testa, angosciata. «Non capisci. Non puoi capire. Tu sei una donna intelligente, di successo. Che cosa ho fatto io, da quando mi sono sposata? Oltre a fare spese e uscire a pranzo?» «Smettila, Mia. Subito.» Veronica le strinse di nuovo le mani. «Quello che stai dicendo, è quello che lui vuole che pensi. Gode nel controllarti, nel sapere che ti ha trasformata in un timido topolino di casa, che ha paura della sua ombra. Ma non è così!» «Tu non sai! Come potresti?» «Io ero come te» ribatté Veronica. «Molto tempo fa, ero sposata con lo stesso tipo d'uomo. Gli piaceva minare la mia fede in me stessa e nelle mie capacità. Ero al punto che avevo paura di prendere una decisione senza consultarlo. Gli chiedevo che cosa dovevo mangiare, come vestirmi, come pettinarmi... E più avevo bisogno di lui, più mi sminuiva.» Fece una pausa, perché la voce le tremava. «Gli ho dato tutto, anche il rispetto di me stessa. E lui mi ha tradita con un'altra donna. Ha riso di me quando gliel'ho rimproverato, si è vantato del suo tradimento.» Mia la fissava a occhi spalancati, incredula. «E come hai trovato il coraggio di lasciarlo?» «Non l'ho lasciato. È morto in un incidente.» Veronica guardò le loro
mani unite, notando come quelle di Mia erano bianche e morbide. Deglutì a vuoto e distolse lo sguardo. «Perciò, vedi, non ero forte. È solo ora, con il senno di poi, che capisco che cosa mi stava accadendo. È per questo che so quello che ti sta facendo tuo marito.» Respirò a fondo, poi guardò la sua nuova amica negli occhi. «Tu non hai bisogno di lui, Mia. Lo capirai, te lo assicuro. Perché io ti aiuterò.» Melanie ripassò la lista di possibili vittime. Nella scorsa settimana aveva parlato con trenta familiari. Nessuna di quelle morti era risultata sospetta. Il prossimo era Joshua Reynolds. Bruciato nel suo letto in gennaio. Melanie aveva già contattato i vigili del fuoco. L'autopsia aveva dimostrato che il tasso alcolico nel sangue della vittima era altissimo. A quanto pareva, aveva acceso una sigaretta e poi aveva perso i sensi. Era già capitato altre volte che fumasse a letto e provocasse piccoli incendi. In quell'ultima occasione era stato sfortunato. La sigaretta era caduta in un cestino pieno di cartacce. L'intera casa era andata a fuoco, con lui dentro. Per fortuna, quando era avvenuto l'incidente, la moglie e i due figli erano andati a passare il finesettimana dalla madre di lei, ad Asheville. Melanie si era procurata il nuovo indirizzo e il numero di telefono della famiglia Reynolds, e ora lo compose. Dopo alcuni squilli, una donna rispose. «Buongiorno» disse Melanie allegramente. «La signora Reynolds?» La donna esitò. «Sì» mormorò alla fine, piuttosto fredda. «Chi parla?» Melanie incrociò le dita. Come Bobby le aveva fatto notare, se il capo avesse avuto sentore del fatto che si presentava sotto mentite spoglie, avrebbe preteso il suo distintivo. «Qui è l'ufficio lotterie, signora. Parlo proprio con la signora Rita Reynolds?» «Sì» confermò la donna. «Senta, se vende qualcosa, non sono...» «Sono felice di averla rintracciata» la interruppe Melanie. «Suo marito ha vinto uno dei nostri premi...» «Chi è lei?» «Gliel'ho detto, sono del...» «Chi è realmente? Di nuovo la compagnia di assicurazione?» insistette la donna, alzando la voce. In sottofondo, Melanie sentì delle voci infantili e l'abbaiare di un cane. Dovevano essere i figli che tornavano da scuola. «Gliel'ho già detto, io non ho avuto niente a che fare con la sua morte. An-
che se non posso affermare di esserne addolorata. Buongiorno.» La donna riattaccò. Eccitata, Melanie si affrettò a richiamare. «Sono un agente di polizia, signora Reynolds» dichiarò, quando la donna rispose. «Mi chiamo May, e sto esaminando la possibilità che suo marito sia stato assassinato.» «Ho già parlato con la polizia!» esclamò l'altra. «Ho risposto a un milione di domande. Sono stata perfino sottoposta alla macchina della verità, e sono ancora senza casa perché l'assicurazione non vuole pagare!» «Signora Reynolds...» «Non l'ho ucciso io, chiaro? E ora, mi lasci in pace!» «Aspetti! Per favore, non riattacchi! Non la sto accusando di niente. E se quello che sospetto risulterà vero, l'assicurazione pagherà.» Quando la donna non sbatté giù il telefono, Melanie sospirò di sollievo. «Suo marito... la maltrattava?» «Che razza di domanda... Perché vuole saperlo? Non potete lasciarmi in pace?» «La prego, signora Reynolds, so che dev'essere difficile per lei, ma se potesse rispondere...» Ci fu un lungo momento di silenzio, poi Melanie sentì un sospiro soffocato e capì che la donna stava piangendo. «La sua domanda non è difficile» mormorò, con voce rotta. «Stare con Joshua, quello sì era difficile. Convivere con il suo vizio di bere. Con le sue sfuriate e la sua crudeltà...» Un singhiozzo soffocò le parole. Melanie aspettò un momento, cercando di dominare l'eccitazione. «Signora Reynolds» cominciò, gentilmente. «Suo marito la picchiava?» «Sì» rispose la donna. «Okay? Perché le interessa tanto, ora che è morto? Quando era vivo, invece, non importava a nessuno.» È qui che si sbaglia. Quando era vivo, importava a qualcuno. Abbastanza da commettere un omicidio. Ed ecco il quarto. «Sto indagando sulla possibilità che la morte di suo marito possa essere collegata a quella di diversi altri uomini come lui.» «Collegata? Non capisco.» Le voci dei bambini e del cane divennero più forti. «Mi dispiace, ma non posso dirle di più, per ora. Stia certa, comunque, che, se suo marito è stato ucciso, vedrò che sia fatta giustizia.» La donna rise, aspra.
«Giustizia è stata fatta, agente May. I miei figli ridono, ora. E io posso andare a dormire senza chiedermi se mi sveglierò domattina. Il mondo sta meglio senza di lui, e anch'io.» «Signora Reynolds...» «No. Ringrazio Dio ogni giorno che non ci sia più. E se è stato ucciso, suppongo che non sia Dio che devo ringraziare. Ora i ragazzi sono a casa e devo andare. Buongiorno, agente May.» Per la seconda volta, la donna riattaccò. Melanie rimase immobile, con il ricevitore all'orecchio e le parole della signora Reynolds che le riecheggiavano in testa. Ringrazio Dio ogni giorno... i miei figli ridono, ora... posso andare a dormire senza chiedermi se mi sveglierò domattina. Depose il ricevitore, con la mente in tumulto. Quante volte lei e le sue sorelle avevano pregato Dio di scendere dal cielo e portarsi via il loro padre mentre dormiva? Quante volte le donne di Thomas Weiss, di Samson Gold, di Jim McMillian e di Joshua Reynolds avevano formulato la stessa preghiera? E la loro preghiera era stata esaudita. La loro vita era migliore, adesso. D'impulso, Melanie balzò in piedi e andò al classificatore. Aprì l'ultimo cassetto e tirò fuori la cartella etichettata: Weiss, Thomas. L'uomo che aveva, in un certo senso, dato il via alla sua ricerca. Tornò alla scrivania, cercò nella pratica il numero di telefono e lo compose. L'apparecchio squillò a vuoto una mezza dozzina di volte. Melanie tamburellò con le dita sulla scrivania, impaziente. Ricordava che Donna lavorava di notte al bar del ristorante di Weiss. Doveva essere a casa. Rispondi. Devo parlarti. Rispondi, maledizione. Finalmente, Donna rispose, un po' ansimante. «Ho chiamato in un momento poco opportuno» disse Melanie. «Mi scusi.» «No. Ero fuori a correre, e sono appena tornata. Chi parla?» «Melanie May, della polizia di Whistlestop. Ho chiamato per vedere come stava... Non ci siamo più sentite dopo il funerale di Thomas.» «È molto gentile da parte sua.» Donna rise. «A dire la verità, sto benissimo. Sono tornata a scuola e finalmente realizzerò il mio sogno di diventare veterinario. E vado da uno psicologo per capire quale vite allentata nel mio cervello mi ha indotta a mettermi con un tipo come Thomas, per essere sicura di non ricascarci mai più.» Melanie rise con lei. Aveva provato un'immediata simpatia per Donna
Masters, e ora le piaceva ancora di più. «Sono contenta per lei, Donna.» L'altra abbassò la voce. «Io la vedo in questo modo, Melanie. Dio ha steso una mano dal cielo per aiutarmi. Mi ha offerto un miracolo sotto forma di quelle api.» Le sue parole colsero Melanie in contropiede. Erano così simili a quelle di Rita Reynolds... «Lo crede davvero?» «Con tutto il cuore. Perciò, come potrei non essere profondamente cambiata?» Melanie convenne che ne aveva tutti i motivi. Prima di concludere la conversazione, Donna la ringraziò ancora una volta per ciò che aveva cercato di fare per lei. «So che aveva le mani legate dal sistema» affermò. «Non era colpa sua.» E allora, di chi è la colpa?, si chiese Melanie, ore dopo, per la millesima volta. Lei faceva parte di un sistema, lo stesso che, in teoria, era destinato a proteggere i deboli e far rispettare la legge. A volte, tuttavia, sembrava che quei due scopi entrassero in conflitto, e che salvaguardando l'uno si calpestasse l'altro. Entrò nel posteggio antistante l'asilo di Casey e spense il motore. Nel tempo trascorso da quando aveva parlato con Donna, aveva oscillato fra l'entusiasmo per aver compiuto la sua missione e il dubbio se quello che stava facendo era giusto. Degli uomini erano morti. Ma le donne e i bambini che si erano lasciati dietro stavano meglio. Erano più sani e più felici. Bambini come Casey. Bambini come lei e le sue sorelle. Donne come Mia. Le loro vite erano state rese migliori dalle azioni illegali di un'altra persona. O, come qualcuno di loro riteneva, dalla giustizia divina. Scese dalla macchina. Nel giardino dell'asilo, Casey si stava arrampicando su uno dei giochi con un paio di compagni. Melanie si avvicinò alla cancellata e rimase a guardarlo. Casey la scorse, la salutò con la mano e corse verso di lei. Avrebbe potuto lasciar perdere. E degli uomini avrebbero continuato a morire. E il mondo sarebbe stato un posto più sicuro. O no? La legge salvaguardava l'ordine. Proteggeva lei, e Casey, e i cittadini onesti. Certo, il sistema aveva dei difetti. Ma il mondo ne aveva di più.
Nessuno aveva il diritto di sostituirsi alla legge. Nessuno aveva il diritto di sostituirsi a Dio. Melanie strinse le mani attorno alla cancellata, sorridendo a suo figlio che si avvicinava, finalmente in pace con se stessa. Sapeva quello che doveva fare. CAPITOLO 15 Melanie decise che la cosa migliore sarebbe stata andare a trovare Connor Parks di persona. Si procurò il suo indirizzo tramite gli uffici della Motorizzazione e si armò di un dossier con i dettagli della sua teoria, supportati dai dati che si era procurata fino a quel momento. Sperava che Parks l'avrebbe ascoltata. Nel peggiore dei casi, gli avrebbe lasciato il dossier... che lo volesse o no. Lo trovò a casa, chino sotto il cofano di una vecchia Corvette rossa. Dall'aspetto, si poteva dedurre che l'avesse scovata in qualche granaio, dov'era stata lasciata ad arrugginire. Si era tolto la camicia, e la schiena muscolosa era segnata da una serie di brutte cicatrici. Benché il cielo fosse coperto, la pelle era umida e lucida di sudore. Melanie si concesse di seguire con gli occhi il rivoletto che scivolava lungo la spina dorsale, sparendo sotto la cintura dei jeans aderenti. «Parks» chiamò. Lui non uscì da sotto il cofano. «Dolcezza. Finalmente hai deciso che non puoi vivere senza di me.» Melanie sollevò un sopracciglio. «Nella classica interpretazione dei sogni, la macchina è il simbolo della personalità. Ti vedi come un vecchio rudere che ha bisogno di essere restaurato, Parks?» Connor tese una mano. «Passami la chiave a torsione, per favore.» «Lo farei, se sapessi che cos'è.» «Una cosa dall'aspetto buffo. Lunga, con la testa piccola.» «Stai parlando di uno degli attrezzi nella cassetta, Parks? O di quello che hai nei pantaloni?» La risata quasi lo strozzò, ma ottenne lo scopo. Connor tirò fuori la testa dal cofano. «Sei un bel peperino, eh?» «E tu sei un cowboy irritante.»
Connor sorrise, come se considerasse quelle parole un complimento. «Se non sei qui per il mio fascino, devi volere qualcos'altro.» «Ho bisogno del tuo aiuto per un caso.» «Il caso Andersen?» «Nossignore.» Connor scelse un attrezzo dalla cassetta ai suoi piedi e sparì di nuovo sotto il cofano. «Come sta andando il caso Andersen?» «Non sta andando da nessuna parte. Nessun indizio, da quando la testimone non ha potuto identificare con certezza Jenkins.» Lui sbuffò, disgustato. «Hanno fatto qualcosa con il mio profilo?» «Hanno interrogato delle prostitute, settimane fa. Non è saltato fuori niente.» «Probabilmente le hanno radunate come bestiame, le hanno sbattute in una stanza con una luce in faccia e pretendevano che raccontassero tutto. Idioti.» «Sostanzialmente, è andata proprio così.» Melanie piegò la testa da un lato. «Sarebbe possibile parlarti guardandoti in faccia? Non che la vista, da qui, sia sgradevole, però...» Connor brontolò, anche se lei sospettò che avesse gradito il complimento. «Dovrai aspettare. C'è una caraffa d'acqua fresca in frigorifero. Serviti.» Lei scoccò un'occhiata alla casa. Piccola, rivestita di assi di legno con le persiane verde scuro, aveva un'aria intima, confortevole. Vi entrò da una porta laterale, spinta più dalla curiosità che dalla sete, e si trovò in una cucina allegra, ma spartana. Trovò la caraffa, prese un bicchiere dallo scolapiatti, lo riempì e rimise l'acqua in frigorifero. La casa era linda e completamente priva di ornamenti. Niente foto di famiglia incorniciate, niente fiori sul tavolo né disegni di bambini attaccati al frigorifero. Melanie si avventurò fino alla porta del soggiorno e sbirciò dentro. La stanza era ordinata e spartana quanto la cucina. Con due eccezioni. La prima era una serie di foto su un tavolino, la seconda una grande bacheca appesa alla parete di fronte al divano. Posò il bicchiere e andò a dare un'occhiata più da vicino. La bacheca era piena di ritagli di giornale, appunti che lo stesso Connor doveva avere scribacchiato e foto della scena di un delitto. Melanie lesse qualche data,
scoprendo con sorpresa che alcune risalivano a cinque anni prima. «Non hai potuto trattenerti, eh?» Melanie si voltò di scatto, imbarazzata. Connor era sulla soglia e si stava pulendo le mani con un vecchio strofinaccio. «Era un test?» Lui non rispose e, a disagio sotto il suo sguardo indagatore, Melanie si voltò di nuovo verso la bacheca. «Di che cosa si tratta?» «Un delitto insoluto. Ce n'è una anche nel bagno e una in camera da letto.» «Delitti diversi?» «No, sempre lo stesso.» Sorpresa dalla risposta, Melanie si girò a guardarlo, ma lui distolse gli occhi. «Eri venuta a parlarmi di un caso?» «Sì.» Lei si avvicinò e gli tese il dossier. «Ritengo che ci sia un serial killer che agisce nell'area di Charlotte e Mecklenburg. Il suo obiettivo sono uomini colpevoli di abusi e percosse, che per una ragione o per l'altra sono sfuggiti alla legge.» Mentre Melanie parlava, Connor scorreva il contenuto della cartella. «Ho scoperto la sua esistenza quando ho letto sull'Observer della morte di Jim McMillian. Solo un paio di settimane prima un uomo che avevo fatto arrestare per aver picchiato la sua ragazza era morto improvvisamente. Le circostanze erano sospette e... e mi è sembrata una coincidenza troppo curiosa per ignorarla. Così ho fatto qualche ricerca.» «Lo vedo» mormorò Connor. «È coinvolto anche il CMPD?» «No. Non è coinvolto nessuno.» Lui alzò gli occhi. «Nessuno?» «Solo io.» «Ed è per questo che sei qui? Hai pensato che se riuscivi a convincere Connor Parks, il famoso profiler, a salire sul tuo treno, avresti vinto? Ti saresti conquistata rispetto, collaborazione e via dicendo?» «Qualcosa del genere.» «Non hai saputo? Sono in licenza forzata.» Connor le porse il dossier. «Sono l'ultima persona che può aiutarti, May. Sono un disastro ambulante.» Invece di prendere la cartella, lei si ficcò le mani in tasca. «Non ci credo. Resto convinta che tu sia migliore di chiunque altro. E se tu vedi il nesso, avrò un caso.» «Dolcezza, hai troppa immaginazione.» «Ti riferisci alla mia fiducia nelle tue capacità, o alla mia teoria?» Connor non sorrise.
«Riprenditi il dossier. Non posso aiutarti.» «Tienilo. Sono copie.» Melanie si mosse per tornare in cucina. «So di avere ragione. E troverò qualcuno che la pensi come me.» Connor la seguì fino alla porta. «Credimi, May, c'è una quantità di veri assassini, là fuori. Non c'è bisogno di scavare per trovarli. Ti gettano in faccia i loro capolavori.» «Questo no» ribatté lei. «Questo è furbo. Più di tutti gli altri. È paziente.» Sostenne lo sguardo di Connor. «Questo ritiene di fare il lavoro di Dio.» Il McDonald's all'angolo fra la First Street e Lake Drive, a Whistlestop, che era anche l'unico in città, disponeva di una bellissima zona giochi, il che lo rendeva un locale molto popolare all'ora dei pasti, specie per le famiglie con bambini. Connor occupò l'ultimo posteggio libero, guadagnandosi un colpo di clacson frustrato dalla Ford che lo seguiva, scese dalla macchina ed entrò nel ristorante, dove regnava un pandemonio organizzato. Sembrava che ogni genitore uscito dal lavoro avesse deciso di cenare da McDonald's, quella sera. Connor capiva la logica. Dare da mangiare ai bambini e stancarli nello stesso tempo. Ottimo trucco. E relativamente vantaggioso per il portafogli... se non per i nervi. Anche se tutte le casse erano aperte, le file arrivavano fino alle porte della zona giochi. Connor si accodò a una di queste e sfruttò l'attesa per scrutare i clienti, in cerca di Melanie. Non la vide, benché Taggerty gli avesse assicurato che l'avrebbe trovata là. Dove diamine era? Voleva parlare con lei. Subito. Quella sera. Non importava che avesse lasciato il suo dossier a impolverarsi sul piano di lavoro di cucina per due giorni e mezzo. Non era un tipo paziente. Quando aveva preso una decisione, entrava subito in azione. Semplicissimo. E quella sera aveva deciso di parlare con Melanie. Arrivò alla cassa e ordinò un caffè. Da sopra la spalla, scoccò un'occhiata alla zona giochi. Avrebbe scommesso che Melanie era là, a guardare suo figlio. «Il suo caffè, signore.» Connor sorrise alla cassiera, meccanicamente. «Grazie.» Con la tazza in mano, si avvicinò alla zona giochi. Quando aprì la porta, lo accolse il suono degli strilli eccitati dei bambini che si divertivano. Si
fermò, assalito dai ricordi di Jamey, dolceamari, e ancora penosi dopo tutto il tempo che era passato. Sentì Melanie prima di vederla. Chiamava suo figlio, approvando qualcosa che aveva fatto. Connor si voltò nella direzione della voce. Era seduta a uno dei tavoli che circondavano i giochi, con i resti del pasto del bambino sparpagliati davanti. Connor si fece strada fino a lei, scansando un paio di pargoli ancora traballanti sulle gambette. «May.» Lei alzò gli occhi, e la sorpresa iniziale fu subito sostituita da un'espressione soddisfatta. «Come mi hai trovata?» «Taggerty.» Lei annuì, con un mezzo sorriso. «Gli avevo raccomandato di dirti dove potevi trovarmi, se ti fossi fatto vivo.» «C'è mancato poco che non venissi.» «Ci manca poco è importante solo nelle bombe a mano.» «Spiritosa.» Connor si sedette su uno degli sgabelli multicolori, sentendosi un po' come una montagna in equilibrio su un granello di sabbia. Guardò verso i giochi. «Qual è il tuo?» Lei si voltò a osservare Casey. «Quello là» rispose, indicandoglielo. «Quello biondo con la maglietta blu.» «È un bel bambino.» «Il più bello. Il più intelligente. Il più adorabile.» Melanie sorrise, imbarazzata. «Non sono troppo parziale, vero?» «Sarebbe triste, se non lo fossi.» «Tu hai figli?» Connor esitò. «No.» Melanie inarcò un sopracciglio e lui imprecò fra sé. Benché avesse esitato solo per una frazione di secondo, lei lo aveva notato. Melanie May non si lasciava sfuggire molto. «La mia ex moglie aveva un bambino. Aveva circa l'età di Casey, quando ci sposammo.» «Capisco» mormorò Melanie, e lui sentì che era vero. Che gli leggeva dentro. Si schiarì la gola. «Ho letto il tuo rapporto.»
Melanie si chinò in avanti, avidamente. Connor ricordò quando anche lui era così aperto ed entusiasta. Sembrava passato molto tempo. «E...?» «E credo che tu abbia fatto centro. Abbiamo a che fare con un serial killer.» Lei si portò una mano al petto. «Non posso... Accidenti, avevo ragione.» «Secondo me, sì. Ho tracciato un profilo preliminare del nostro serial killer. Vuoi sentirlo?» «Certo che voglio! Dammi solo un momento per riprendermi. Non riesco ancora a credere di aver avuto ragione.» «Mamma! Guarda!» Entrambi si voltarono. Casey era in piedi sull'orlo del cassone dei palloni, pronto a saltare dentro. Melanie gli fece un segnale con il pollice alzato, e lui si tuffò nel mare di palle colorate. Un momento dopo balzò su, aspettando avidamente la reazione della madre. Naturalmente, lei rispose con il più grande entusiasmo. E, naturalmente, una volta non bastò. Dopo tre tuffi, Casey fu distratto dal gioco di altri due bambini e si unì a loro, dimenticando per il momento Melanie. Lei si rivolse a Connor. «Scusa.» «Non c'è niente di cui scusarti» rispose lui, più brusco di quanto intendesse. «Questi sono i tuoi momenti con tuo figlio. Io li ho disturbati, perciò dovrei essere io a scusarmi. Sei pronta?» Melanie annuì, e lui cominciò: «Prima di tutto, abbiamo a che fare con una donna». «Una donna?» ripeté Melanie, perplessa. «Sembra logico, ma raramente i serial killer sono donne.» «È vero, ma raramente non vuole dire mai. E quando una donna uccide, di solito sceglie mezzi puliti. Come il veleno. O il gas. Dopotutto, siete il gentil sesso.» Lei fece una smorfia a quel tentativo di umorismo, e Connor continuò: «Ritengo che abbia fra i trenta e i quarantacinque anni. È bianca, istruita e benestante. È molto organizzata ed estremamente intelligente. Pianifica i suoi delitti fin nei minimi dettagli». «È una delle ragioni per cui non è mai stata individuata.» «Fino a quando non lo hai fatto tu» la corresse Connor. «Conosce le vittime. È evidente dal modo personalizzato di ucciderle. Quasi certamente ha subito lei stessa degli abusi domestici. Punisce ciascuna vittima anziché punire suo padre, o suo fratello, o chiunque l'abbia maltrattata. Questi non
sono i suoi primi omicidi.» Melanie scosse la testa, non del tutto convinta. «Perché il serial killer non potrebbe essere un uomo? Un uomo che ha visto maltrattare sua madre? Col tempo, il suo senso di impotenza si è trasformato in rabbia, e la rabbia ha avuto bisogno di uno sfogo. L'omicidio.» Gli occhi di Connor si strinsero. Il suo rispetto per Melanie aumentava. Aveva fatto delle ricerche davvero accurate. Tuttavia era sicuro di non sbagliarsi. Forse qualche altro aspetto che aveva attribuito al carattere dell'assassino non era esatto, ma non il sesso. «Senti, se questi omicidi fossero opera di un uomo, sfogherebbe la sua rabbia in modi più aggressivi, sparando, pugnalando, smembrando. Qui, invece, abbiamo un assassino che uccide con tanta discrezione da passare inosservato. Un assassino che studia le debolezze di un uomo per rivolgerle contro di lui. Mi segui?» «Ti seguo.» «Bene. Nella sua vita di tutti i giorni, la nostra donna è il ritratto della sicurezza e della normalità, anche se può darsi che la tensione cominci a trasparire, che la sua maschera cominci a incrinarsi. Conosce la legge e ha qualcosa a che fare con la polizia, qualche rapporto personale. Probabilmente si tiene in contatto con le vittime, visitando la loro tomba o i loro parenti. Credo anche che segua attentamente i giornali e gli altri media, per trovarvi notizie sulle sue vittime. È felice dello spazio che la stampa ha dato alla morte di Jim McMillian. Credo che, in un certo senso, sarà contenta quando questa storia diventerà di dominio pubblico. Sta aspettando che succeda. Dopotutto, che divertimento c'è ad assumersi il ruolo di Dio, se nessuno lo nota?» Ci fu un silenzio, rotto parecchi secondi dopo dal grido di Casey: «Guarda!». Melanie guardò il bambino, e subito dopo l'orologio, come se si fosse resa conto all'improvviso di quanto era tardi. Gli altri genitori stavano radunando la rispettiva prole e uscendo dall'area giochi, non senza le consuete suppliche, proteste e qualche capriccio. «Ancora solo un giro sullo scivolo, Casey. È ora di andare a casa.» Si rivolse a Connor, con aria di scusa. «Mi dispiace, ma domani deve andare all'asilo.» «Be', comunque avevamo finito.» Connor si alzò e lei lo imitò. «Ho fissato un appuntamento con Steve Rice, l'agente speciale che dirige l'ufficio di Charlotte. Ci aspetta domattina alle dieci. Veditela tu con il tuo superio-
re.» Melanie annuì, poi andò a prendere Casey. Connor non aveva alcuna ragione per non andarsene, ma rimase ugualmente. «Casey, questo è il signor Parks» lo presentò Melanie. «Lui e io lavoriamo insieme.» Il bambino lo squadrò. Connor sospettò che, come a sua madre, ben poco gli sfuggisse. «Catturate i cattivi?» Lui sorrise. «Puoi scommetterci. I peggiori.» Casey parve apprezzare la risposta, poiché sorrise. A quel punto, il piccolo si chinò a cercare di allacciarsi le scarpe. Connor guardò Melanie accosciarsi e annodare le stringhe senza aspettare che il bambino glielo chiedesse. Routine, pensò. Calma. Confortante. Ne sentiva la mancanza. In effetti, riconobbe mentre attraversavano il ristorante, sentiva la mancanza di molti aspetti del ruolo di genitore. I giochi, la spontaneità, il calore, il modo in cui la vita poteva passare da un totale caos alla più assoluta quiete, e viceversa, in un batter d'occhio. Jamey aveva fatto molto per lui, ammise con se stesso. Lo aveva aiutato a dimenticare... Suzi, le tristi realtà del suo lavoro. Tutti i bambini lo facevano, immaginò, sbirciando Casey e Melanie con la coda dell'occhio. E poteva essere un'ottima cosa. Melanie fece salire Casey sulla jeep e gli allacciò la cintura di sicurezza, poi si rivolse a Connor. «Ho bisogno di farti una domanda. Quando sono venuta da te, non avevi alcuna intenzione di aiutarmi. Perché ora lo fai?» «Per un paio di ragioni. Primo, hai affermato che avresti trovato qualcuno che ti credesse, e ho pensato che tanto valeva che fossi io. Non avevo niente da perdere a mettermi con una svitata. Inoltre, questa storia poteva finire solo in due modi. O si dimostrava che eri più in gamba di tutti gli altri, o risultavi una visionaria. In un modo o nell'altro, sarebbe stato divertente.» «Grazie per la fiducia.» «Non c'è di che» ribatté lui con un mezzo sorriso. «E l'altra ragione?» Il sorriso svanì. «Quello che hai detto... che questa assassina crede di fare il lavoro di Dio. Ne ho visti altri come lei. E so che non smettono finché qualcuno non
li ferma.» Alle nove e mezzo dell'indomani mattina, Melanie e Connor arrivarono simultaneamente al parcheggio sotterraneo del grattacielo di trenta piani di cui l'FBI occupava l'ottavo, il nono e il decimo. Connor fu il primo a scendere dalla macchina e andò ad aprire la portiera della jeep, sorridendo. «Pronta?» «Vuoi scherzare?» «Allora andiamo. Com'è andata con il tuo capo?» «Oh, sono sopravvissuta... a stento. Era così infuriato che temevo che scoppiasse. Mi ha detto che se mai comprometterò di nuovo il dipartimento lanciandomi nelle mie indagini personali, mi strapperà il distintivo tanto in fretta da farmi girare la testa. Ma per tutto il tempo ha avuto uno scintillio negli occhi... come se segretamente fosse contentissimo che fosse stato uno dei suoi agenti a scoprire questa storia.» Connor ridacchiò, però non fece commenti. Rimasero entrambi in silenzio fino a quando non giunsero al nono piano. «Nervosa?» chiese Connor. «Eccitata. Il tuo capo non morde, vero?» «Solo se provocato.» Connor aprì le doppie porte a vetri su cui era impresso il simbolo bianco e blu dell'FBI, cedendo il passo a Melanie. La zona reception era piuttosto piccola, con telecamere montate discretamente negli angoli e un metal detector attraverso cui si facevano passare i visitatori per individuare eventuali armi nascoste. La receptionist, seduta dietro una lastra di plexiglas, salutò Connor e disse loro di proseguire. Steve Rice li stava aspettando. Connor fece le presentazioni, poi tutti si misero a sedere. «E così, che cosa avete scoperto?» chiese Rice. Connor guardò Melanie. «Racconta tu a Steve come sei arrivata a sospettare che le morti in questione erano opera di un serial killer, e le ricerche che hai compiuto finora.» Melanie spiegò le varie tappe del suo lavoro e consegnò a Rice una cartella contenente le informazioni raccolte. Senza fare commenti, lui cominciò a sfogliare il materiale, con tutta calma. Evidentemente non si rendeva conto che lei stava per morire dall'ansia. Il cuore le batteva così forte che era sorpresa che gli altri due non lo sentissero.
«Il lavoro di ricerca che sono riuscita a fare da sola è stato minimo» concluse. «Il mio scopo era trovare una quarta vittima, per dare maggiore peso alla mia teoria. Ho interrotto le ricerche quando ci sono riuscita, ma chissà quante altre potrebbero essercene? Già così ne abbiamo quattro in meno di un anno. Un numero piuttosto allarmante.» «A questo punto, sono entrato in scena io» intervenne Connor. «L'agente May mi ha esposto la sua teoria. Dapprima ero scettico, però, dopo aver studiato la sua documentazione, ho visto il quadro. Questo serial killer è maledettamente in gamba, Steve. Ho elaborato un profilo.» Consegnò un dattiloscritto a Rice, che cominciò a leggerlo. Dopo un momento, alzò gli occhi. «Credi che sia una donna? Il vero serial killer donna è raro.» «Non inesistente, però. Questa è l'eccezione che conferma la regola.» Rice rifletté. Era evidente che aveva molta fiducia in Connor, ma ne aveva altrettanta nelle statistiche. «È possibile che abbia un complice maschio? Un amante? O un fratello?» Connor scosse la testa. «Questi non sono semplici omicidi. Sono programmati nei minimi particolari, per farli apparire come dei banali incidenti. Nel fare questo, l'assassina lascia una firma precisa. Tutti gli indizi portano a una donna bianca, che opera da sola.» «Non c'è spazio per l'errore» affermò Rice, molto serio. «Sei sicuro al cento per cento che questo serial killer è una donna? Sei certo che i ragazzi dell'Unità di Scienze Comportamentali saranno d'accordo?» Connor non esitò. Conosceva i suoi ex colleghi. «Sì... a entrambe le domande.» Rice guardò Melanie. «Lei è altrettanto certa? Dopotutto, è stata lei a fare tutto il lavoro. Questa è una creatura sua.» La mia creatura. Il mio caso. «Sono con Parks. Al cento per cento.» «Va bene, allora.» Rice chiuse la cartella. «Che cosa vuole dall'FBI?» La domanda sorprese Melanie. 4 «Non la seguo.»
«Come rappresentante del dipartimento di polizia di Whistlestop, sollecita l'intervento dell'FBI?» Lei riusciva a malapena a respirare, e meno che mai a parlare. Non poteva credere che stesse davvero accadendo. «Sì...» riuscì a mormorare. «Ho bisogno della conferma di questi fatti da parte del suo superiore... entro un'ora.» Melanie annuì, e Rice si rivolse a Connor. «E tu? Sei dentro o fuori da questo caso?» «Sarebbe a dire?» «Sarebbe a dire che c'è la questione della tua sospensione. Dentro o fuori, agente Parks?» I due uomini si guardarono negli occhi. Dopo un momento, Connor borbottò un'imprecazione. «Dentro. Sono arrivato più o meno al punto che volevi, no? E se non è abbastanza, tanto peggio per te.» Come se fosse soddisfatto da quella risposta, Rice annuì. «Bene. Dovrai contattare i tuoi vecchi amici di Quantico. Manda quello che hai finora, senti la loro opinione.» «Consideralo già fatto.» «Adesso, la prossima mossa sta a voi. Quale sarà?» Connor guardò Melanie, che annuì. «A mio parere dobbiamo seguire due strade. Cercare altre possibili vittime, e nello stesso tempo indagare su eventuali legami fra loro. È la chiave per scovare l'assassina. Non li trova per strada. Qualcosa deve portarli fino a lei.» «Visto che siamo venuti a sapere delle prime tre vittime attraverso canali ufficiali, avevo pensato che il legame potesse essere un rapporto di polizia o qualche tipo di storia documentata di violenze.» «E...?» «Non quadra. Joshua Reynolds era pulito. Neppure una denuncia.» «Avete esaminato il legame più semplice? La prossimità geografica?» Connor scosse la testa. «Ciascuna vittima viveva in una diversa zona di Charlotte. Ma questo non significa che uno schema del genere non appaia quando scopriremo altre vittime.» «Dovremmo controllare i quartieri in cui sono cresciuti, le scuole che hanno frequentato...» disse Melanie. «Le palestre, i club...» contribuì Rice.
«Non servirebbe, perché il serial killer è una donna» affermò Connor. «Abbiamo bisogno di un posto dove una donna può incontrare un...» Si voltò verso Melanie. «E se uscisse con questi tizi?» «Potrebbe essere» mormorò lei. «Li avvicina, scopre i loro segreti, le loro debolezze, e poi li inchioda. Potrebbe perfino frequentarne diversi contemporaneamente. Questo spiegherebbe la frequenza degli omicidi.» Connor annuì, pensieroso. «Ma ancora non sappiamo dove li scova.» «È vero, però è un'ipotesi che ci offre possibilità di controlli incrociati. Bar. Circoli. Posti dove uomini e donne si incontrano.» «Sembra un buon inizio. Contattate la polizia di Charlotte e Mecklenburg, immediatamente. Avrete bisogno della loro collaborazione.» Rice si alzò. Melanie e Connor lo imitarono. «Bel lavoro, agente May» affermò Rice. «Bellissimo lavoro.» Li accompagnò alla porta. «Mi tenga informato.» «Certamente.» «E... Con?» Lui si voltò. «Avete un nome per questa assassina?» «Sì.» Connor guardò Melanie. «Credo che la chiameremo l'Angelo nero.» CAPITOLO 16 Da quel momento in poi, la vita di Melanie cambiò drasticamente. Tutta un tratto si trovò al centro di uno dei casi più grossi, e certo più controversi, che si fossero mai verificati nella zona di Charlotte. Nelle prime due settimane di indagini ufficiali furono individuate altre quattro possibili vittime, tutte nell'area di Charleston. Era un numero allarmante. Fino all'intuizione di Melanie, l'Angelo nero aveva avuto mano libera, agendo impunemente, senza alcuna pressione da parte della polizia. Melanie riceveva molte lodi per avere scoperto il legame fra gli omicidi. Era stata intervistata più volte e, quando i media volevano un aggiornamento, si rivolgevano a lei. La stampa andava a nozze con l'Angelo nero, lanciandosi in ipotesi sul passato dell'assassina e sul movente degli omicidi. E, naturalmente, ogni abitante di Charlotte aveva una sua teoria. Ovunque Melanie andasse, l'Angelo nero era il principale argomento di conversazione. Alcuni sostenevano che la sua era un'opera di giustizia biblica in un mondo impazzito, in cui simili azioni erano diventate non solo accettabili, ma perfino neces-
sarie. Ma c'erano altri, fra cui Melanie, che ribattevano che togliere la vita a qualcuno, salvo che per legittima difesa, era un crimine. Le ragioni del serial killer non avevano importanza. Nessuno aveva il diritto di sostituirsi alla legge. Comunque, la possibilità di prendere parte a un'indagine di quella portata era una grande soddisfazione per Melanie. Benché lavorasse per lunghe ore, non era mai stanca, e trovava affascinante ogni momento. Aveva scoperto, con una certa sorpresa, che le piaceva lavorare con Connor. Era in gamba. Retto e onesto, ma senza peli sulla lingua. Un cowboy che faceva sempre quello che riteneva giusto, anche se sgradito ai pezzi grossi. Erano qualità che avrebbero dovuto fare di lui un partner indesiderabile, ma non era così. Anzi, lui sottolineava a ogni passo che era Melanie che aveva scoperto l'Angelo nero, Melanie che aveva fatto tutto il lavoro preliminare, e Melanie, quindi, che doveva condurre l'indagine. Lei gliene era grata. Sarebbe stato facile per Connor, con le sue credenziali, prendersi tutto il merito. Ma Connor non era uno che cercava gloria. In effetti, l'ultima cosa che sembrava gradire era l'attenzione. A volte si comportava come se non volesse affatto essere pubblicamente associato al caso. Melanie lo trovava interessante. Un complesso miscuglio di particolari caratteriali che non andavano del tutto d'accordo fra loro. Ma era l'aura di tristezza che lo circondava, il modo in cui il sorriso non arrivava mai del tutto agli occhi, che la incuriosivano di più. Si chiedeva se erano le atrocità di cui era stato testimone nel suo lavoro ad avergli tolto il sorriso, o qualcosa di più vicino al suo cuore. Il telefono sulla sua scrivania squillò. «May.» «Come hai potuto?» sussurrò una voce femminile, soffocata. «Come hai potuto farlo?» Melanie corrugò le sopracciglia. «Qui è l'agente Melanie May, del dipartimento di polizia di Whistlestop. Chi parla, prego?» «So chi sei» disse la donna, a bassa voce. «Pensavo che proprio tu saresti stata dalla nostra parte. Traditrice.» «Se mi dicesse chi...» La comunicazione si interruppe. Melanie premette subito qualche tasto. Quando comparve sul display la scritta sconosciuto, depose il ricevitore. Non aveva riconosciuto la voce, eppure l'aveva trovata vagamente familia-
re... La donna doveva riferirsi al caso dell'Angelo nero. Ma che cosa intendeva dicendo dalla nostra parte? «Guarda chi c'è, Melanie» mormorò Bobby dalla propria scrivania, collocata dietro la sua. Melanie alzò gli occhi e si sentì cadere il cuore. Il suo ex marito stava attraversando il salone, con aria minacciosa. Lei si alzò. Non aveva intenzione di permettergli di torreggiare su di lei, ringhiando come un mastino. «Stan, come mai a Whistlestop?» «Questo caso. Voglio che tu ne esca.» Dietro di lei, Melanie sentì Bobby tossicchiare. «Come?» «Mi hai sentito, Melanie. Voglio che tu esca dal caso dell'Angelo nero.» Lei sostenne il suo sguardo, calma. «Non sei più mio marito, Stan. Non hai alcun diritto di dirmi che cosa devo fare. E inoltre, questo è il mio posto di lavoro. Non mi piace che tu venga qui a fare scenate.» «Come padre di Casey, ho tutto il diritto...» «Niente affatto.» Melanie sollevò il mento. «Se hai qualche preoccupazione per nostro figlio, naturalmente sono disponibile a discuterne. Ma non puoi venire sul mio luogo di lavoro a darmi ordini. È chiaro?» Dalla sua espressione, Melanie capì che lo aveva sorpreso. In realtà, anche lei era sorpresa di se stessa. Dopo un momento, Stan si schiarì la gola, poi disse, in tono più ragionevole: «Il fatto che tu sei coinvolta nel caso dell'Angelo nero turba Casey». «Sciocchezze. Casey sta benissimo.» «Ha degli incubi.» «Incubi?» ripeté Melanie, sollevando le sopracciglia. «Sì è svegliato qualche volta, la notte, ma quando gli ho chiesto...» «Non ha voluto dirtelo.» Stan esitò un istante, poi proseguì: «Ha paura che tu venga uccisa». «Uccisa?» ripeté Melanie, incredula. «Dove ha preso un'idea così assurda? Non ho neppure accennato al fatto che lavoro a qualcosa di fuori dall'ordinario. Perché dovrei? Ha solo quattro anni!» «Pensa alla televisione, Melanie. Ai suoi compagni all'asilo. Ne parlano tutti, e si fa il tuo nome.» Melanie si rese conto all'improvviso che Casey si era chiuso, di recente.
Aveva cominciato a piangere quando lei lo lasciava all'asilo, aggrappandosi al suo collo e supplicandola di non abbandonarlo, cosa che non faceva da due anni. Lei aveva dato la colpa al fatto che non gli dedicava molto tempo, ultimamente, che aveva molti pensieri per la testa. Ragazzi, quanto si era sbagliata. «Non lo sapevo» sussurrò, con la gola stretta. «Non ne avevo idea.» «Ma non hai chiesto, vero?» ribatté Stan. «Ecco perché non volevo che diventassi un agente di polizia.» «Ma non sono in pericolo. È semplicemente un caso di...» «Di una madre che pensa più al lavoro che alla sua famiglia» completò lui. «Io ho a cuore l'interesse di nostro figlio. Puoi affermare la stessa cosa?» Quel pomeriggio, Melanie lasciò il lavoro presto, ansiosa di andare a prendere Casey e rassicurarlo che non c'era assolutamente alcun pericolo che venisse uccisa. Da quando Stan se n'era andato, aveva oscillato fra il sospetto che il suo ex marito stesse esagerando e la consapevolezza che non era così. Come poteva avere ignorato fino a quel punto ciò che provava suo figlio? Che razza di madre era? Quando Casey la vide, lanciò un grido di gioia e le corse incontro. Lei lo prese in braccio, oppressa dai rimorsi. «Sono qui, tigrotto. Sono venuta un po' più presto.» Casey le strinse le gambe attorno alla vita, aggrappandosi come una scimmietta. «Mi sei mancata, mammina.» Melanie lo baciò. «Anche tu, piccolo. Andiamo a casa.» Benché fosse ansiosa di parlare con lui, Melanie decise di aspettare il momento giusto, quando fosse rilassato e contento. Per cena prepararono la pizza in casa, e Casey ebbe il permesso di stendere la pasta in scatola sulla teglia, anche se rimase sottile in alcuni punti e spessa in altri. Mentre la loro creazione cuoceva, fecero un gioco da tavolo, in cui Casey batté Melanie per ben due volte, poi improvvisarono un picnic in sala da pranzo, seduti su una vecchia trapunta stesa sul pavimento. Finita la cena, Casey aiutò a riempire la lavastoviglie, chiacchierando dei suoi amici dell'asilo e dell'insetto gigante che avevano trovato nel cam-
po giochi. Melanie lo lasciò dire, sorridendo fra sé, confortata dal suo vivace monologo. Infine, andarono a sedersi sul divano, e Casey portò i libri con le sue fiabe preferite. Ora era il momento, decise Melanie. «Tesoro» cominciò, «lo sai che la mamma sta lavorando a un caso molto importante?» Lui la guardò con un'espressione che le strinse il cuore. «Sarebbe un sì?» Casey annuì, abbassando gli occhi. Stan aveva ragione. Lei non aveva prestato abbastanza attenzione a suo figlio. Respirò a fondo. «Dove ne hai sentito parlare?» «Alla televisione» mormorò Casey a testa bassa, come se si vergognasse. «Hanno detto il tuo nome.» Melanie lo strinse un po' più vicino, sforzandosi di restare rilassata. «Quando hanno detto il mio nome alla televisione, come ti sei sentito?» Il bambino si strinse nelle spalle. «Okay. Ma poi ne ho parlato con Timmy, e lui ha detto... ha detto...» Alzò gli occhi lucidi di lacrime. Melanie mise da parte i libri e lo prese sulle ginocchia. Lui le nascose il viso sul seno. «Che cosa ti ha detto Timmy, amore? Puoi dirmelo. Non mi arrabbierò, te lo assicuro.» «Ha detto... ha detto che stai dando la caccia a un tizio molto cattivo. Ha detto che potresti...» Casey cominciò a piangere, e Melanie non stentò a capire che cosa Timmy gli aveva detto che poteva capitarle. Provò una sorda rabbia... contro l'amico di Casey, contro i media, ma soprattutto contro se stessa per non essersi accorta di ciò che stava succedendo a suo figlio. «Tesoro» disse a voce bassa, ma decisa, «Timmy ti ha detto che quella persona cattiva potrebbe fare del male alla mamma?» Lui annuì e Melanie lo cullò dolcemente fra le braccia. «Ricordi quando abbiamo parlato di quello che fa un agente di polizia? Di come garantisce la sicurezza della gente, catturando i cattivi?» «Sì» mormorò lui. «È questo che faccio. Garantisco la sicurezza della gente. E catturo i cattivi. Non sono loro a prendere me. Anzi, scappano lontano da me, potendo.»
Lui la studiò in silenzio per un lungo momento, come se cercasse di decidere se crederle oppure no. «Davvero?» «Davvero.» Melanie si tracciò la croce sul cuore, poi sollevò due dita. «Giuro.» Si chinò e gli strofinò il naso con il proprio. «Adesso, devi farmi una promessa. D'ora in avanti, ogni volta che ti verrà un'idea che ti spaventa, devi dirmelo. Perché potrebbe essere un'idea sbagliata, come questa. Puoi promettermelo, Casey?» Lui promise solennemente. Dopo, Melanie gli lesse le sue storie favorite, lo aiutò a indossare il pigiama, lo mise a letto, e in breve tempo poté uscire in punta di piedi dalla sua camera. Quando fu certa che si fosse addormentato, compose il numero del suo ex marito. «Stan, sono Melanie.» Senza dargli il tempo di rispondere, continuò: «Ecco... volevo ringraziarti per oggi. Per avermi avvertita su Casey. Ne abbiamo parlato e... e avevi ragione. Un amichetto, a scuola, gli aveva messo in testa un'idea sbagliata, e lui era spaventato. Ora è tutto a posto, ma volevo... ringraziarti» ripeté. «Ti sono grata per ciò che hai fatto.» Per un momento, lui rimase in silenzio. Melanie sospettò di averlo sbalordito. E capiva perfettamente il perché. Non ricordava neppure l'ultima volta in cui si erano parlati senza animosità, e meno che mai quando lo aveva ringraziato per qualcosa. «Non c'è di che» disse Stan alla fine, un po' roco. Un momento dopo, deposto il ricevitore, Melanie sorrise fra sé. Per la prima volta da molto tempo, si sentiva come se lei e Stan giocassero nella stessa squadra. Ed era bello. Molto bello. Una cortina di fumo ondeggiava al di sopra della pista da ballo affollata. Boyd aggirò le coppie, alcune così strette che, nella luce tenue, era difficile stabilire dove cominciava un corpo e dove finiva l'altro. Passò con lo sguardo da una faccia all'altra, avidamente. Quella mattina si era svegliato irritato. Irrequieto. Niente era cambiato dal giorno prima, eppure quel malumore aveva accompagnato ogni suo passo, ogni pensiero, ogni parola, ogni azione. Erano passate settimane dall'ultimo incontro, da quando si era consentito di cedere alla propria debolezza. Aveva cercato di placare la fame che cresceva dentro di lui, rivivendo l'ultima volta. Chiudendo gli occhi, toccandosi e ricordando.
Aveva pregato che quei ricordi durassero più dei precedenti. Ma ora erano inutili. Respirò a fondo. Aveva la gola stretta dall'angoscia. Raggiunse il perimetro della pista da ballo e cominciò un altro giro, passando con lo sguardo da un viso all'altro, da un paio d'occhi a un altro. Tutti lo lasciarono freddo. Quelle donne erano come l'ultima. Deboli. Prive della forza interiore necessaria per soddisfarlo. La sofferenza era la chiave. La dominazione totale. L'umiliazione. Doveva smettere. Ogni incontro, ogni nuova donna, era come giocare alla roulette russa. La sua fortuna sarebbe finita. Un giorno avrebbe premuto il grilletto e trovato la pallottola. Davanti a lui, la folla si aprì, come il mare davanti a Mosè. E la vide. Stava attraversando la pista da ballo, diretta al bar. Era vestita interamente di nero: stivali dai tacchi a spillo, pantaloni aderenti di pelle e un gilet di pizzo da cui i seni traboccavano. I lunghi capelli erano biondi e stopposi, evidentemente una parrucca, ma incredibilmente sexy. Come se avesse avvertito il suo sguardo, lei si fermò. E si voltò. A quel punto, i loro occhi si incontrarono. La donna aveva le labbra dipinte di un intenso color vino, gli occhi pesantemente truccati di nero. Sorrise. Come se lo conoscesse... se conoscesse le sue necessità, la sua disperazione. Le cose che lo avrebbero reso felice. La musica sfumò. Il sangue gli pulsava nelle orecchie. La donna gli accennò di avvicinarsi. Boyd si fece avanti, con la bocca arida, il cuore in gola. Si fermò davanti a lei. La sconosciuta gli fece cenno di chinarsi, di avvicinarle l'orecchio alle labbra. Lui ubbidì. I loro corpi si sfiorarono. La donna fece scivolare una mano fra di loro, trovò la sua erezione, attraverso il tessuto dei pantaloni. Afferrò la lampo e la fece scorrere. Boyd soffocò un sussulto di piacere. Di stupore. «Ti costringerò a supplicare» sussurrò lei, roca. «Sarà così bello che desidererai di morire.» Mentre il cervello di Boyd assimilava quelle parole, lei gli insinuò la lingua nell'orecchio e strinse la mano attorno al pene, con forza. Lui esplose. Ma lei accentuò la stretta, aumentando il suo piacere con i movimenti della mano. Poi, con una bassa risata, richiuse la lampo, girò sui tacchi e si allontanò. Boyd la seguì con lo sguardo, fantasticando già sul prossimo incontro.
Veronica consultò l'orologio, impaziente che la solita riunione settimanale del team finisse, per poter controllare i messaggi. Mia aveva promesso di telefonare non appena Boyd fosse uscito, quella mattina, ma Veronica non l'aveva sentita, pur avendo indugiato il più a lungo possibile prima di entrare in riunione. Quasi le undici. Senza dubbio Mia aveva chiamato, ormai. Nel mese trascorso dall'inaspettata visita di Mia a casa sua, erano diventate inseparabili. Andavano insieme a fare spese, a pranzo, al cinema. Qualche volta anche a cena o a bere qualcosa. Si telefonavano ogni mattina e ogni sera. Veronica pensava a Mia in continuazione. Si preoccupava per lei, desiderava proteggerla, prendersene cura. Le ore in cui rimanevano separate sembravano interminabili, quelle che passavano insieme sempre troppo brevi. Aveva avuto molte altre amiche, nel corso degli anni, donne a cui era stata affezionata, ma non aveva mai provato nulla di simile a quello che provava per Mia. Mi sto innamorando di Mia Donaldson. Il pensiero le attraversò la mente, togliendole il respiro. No, non era possibile. Lei non era così, non aveva mai provato quel genere di sentimenti per un'altra donna. Fino ad adesso. Fino a quando non ho conosciuto Mia. «Veronica, hai qualcosa da aggiungere?» Lei alzò gli occhi, senza avere la minima idea di quale fosse l'argomento sul tappeto. «No, Rick, niente.» Lui esitò un momento, poi annuì. «Va bene. Allora, se non c'è altro, torniamo al lavoro.» Veronica balzò in piedi, raccogliendo in fretta la sua roba, ma, prima che potesse schizzare alla porta, Rick la raggiunse. «Puoi dedicarmi un momento?» Lei represse l'impulso di guardare di nuovo l'orologio. «Certo. Che cosa c'è?» «È quello che vorrei sapere.» «Non ti seguo.» «Ti è successo qualcosa? Qualcosa che dovrei sapere?» Che cosa poteva rispondere? Credo di essere sul punto di innamorarmi
di un'altra donna, e ho paura? Forzò un sorriso disinvolto. «No, niente, Rick. Perché me lo chiedi?» «Dovrebbe essere ovvio. In poche settimane, ti sei trasformata dal mio avvocato più aggressivo, loquace e deciso, in quello che era seduto al tavolo oggi.» Veronica lo guardò come se non capisse, e lui scosse la testa. «Non hai fatto un solo commento. Non uno.» Lei arrossì. Aveva ragione. Per tutta la riunione non aveva fatto che pensare a Mia. Come un'adolescente, santo cielo! Il suo lavoro era la cosa più importante della sua vita. Non poteva permettersi di sognare a occhi aperti durante le riunioni del team. «Mi dispiace, Rick. È solo che... ho avuto un po' di influenza e... non mi ha lasciato molte energie. Non dormo bene... Insomma non sono io, ultimamente.» Questo è senza dubbio vero. Non sono più io. «Forse sarebbe meglio se consultassi un medico.» Rick sorrise, comprensivo, con l'aria di aver bevuto la sua storia. «Sicuro. Prendi qualche farmaco, e presto starai bene.» Chiacchierarono ancora qualche momento, poi si separarono. Veronica ritirò i messaggi e cominciò a sfogliarli non appena si fu chiusa alle spalle la porta del suo ufficio. Nessuno era di Mia. Perché non aveva chiamato? Gettò i messaggi sulla scrivania e cadde a sedere. Ora era davvero preoccupata. La sera prima, al telefono, Mia era turbata. No, più che turbata, era scossa. Aveva paura. Veronica si massaggiò la tempia. Lo stato d'animo di Mia aveva avuto qualcosa a che fare con Boyd, anche se si era rifiutata di rivelarle che cosa, nonostante le sue insistenze. Avevano concluso bruscamente la conversazione perché Boyd era tornato a casa, ma Veronica si era fatta promettere che le avrebbe telefonato al mattino, non appena lui fosse uscito. Mia, però, non aveva chiamato. Doveva essere successo qualcosa. Con il cuore in gola, Veronica prese il telefono e compose il numero di Mia. Rispose la segreteria, e lei lasciò un messaggio. Riprovò dopo dieci minuti, poi dopo altri dieci, con panico crescente. Ogni genere di scena terrificante le si presentava davanti agli occhi. A quanto Mia le aveva detto, suo marito era capace di tutto. Poteva averla chiusa a chiave da qualche parte, in un ripostiglio o in soffitta. Poteva es-
sere ferita. O peggio... In un ultimo, disperato tentativo di ragionare, Veronica si disse che forse Boyd non era andato in ospedale, quella mattina. Forse era ammalato, o si era preso un giorno libero. Era facile controllare. Telefonò all'ospedale. Il dottor Donaldson, le dissero, era in sala operatoria. Folle di paura, Veronica chiamò Jen, le disse che doveva uscire, agguantò la borsa e corse via. Arrivò da Mia a tempo di record, ignorando i limiti di velocità e i semafori gialli, si fermò nel vialetto e balzò dalla macchina, correndo alla porta. Suonò il campanello, bussò, chiamò. Dopo quella che le parve un'eternità, sentì un movimento all'interno, poi la chiave girò nella serratura. Finalmente, la porta si aprì e comparve Mia. Aveva gli occhi rossi e il viso gonfio, ma era viva. «Mia!» esclamò Veronica, con la testa che le girava per il sollievo. «Grazie al cielo! Avevi promesso di chiamarmi. Ero preoccupata a morte!» Mia si limitò a fissarla, con gli occhi colmi di lacrime. Poi, senza una parola, si voltò e corse in casa. Veronica la seguì con lo sguardo, confusa. Aveva visto giusto, era successo qualcosa. Qualcosa di terribile. Entrò in casa, chiudendosi la porta alle spalle. Mia era in piedi all'estremità opposta dell'ingresso, con le spalle voltate, a testa china. Veronica capì che stava piangendo. Con il cuore stretto, le si avvicinò. «Mia? Che cosa è successo? Stai bene?» Le sfiorò i serici capelli biondi. «Ero così... spaventata. Dopo tutto quello che mi hai detto di Boyd, ho pensato... ho immaginato il peggio.» Incapace di trattenersi, le toccò di nuovo i capelli. Stavolta, Mia si mosse leggermente sotto la carezza, come un gatto. Veronica chiuse gli occhi. «Ho avuto paura. Non farlo più, Mia, ti supplico.» «Volevo chiamarti» mormorò lei. «Non riuscivo a pensare che a te. Ma mi... mi vergognavo tanto. Non potevo parlare con te, neppure per telefono.» «Ti vergognavi?» ripeté Veronica, posandole le mani sulle spalle. «E di che cosa? Non capisco.» «Come potresti? Tu non avresti mai...» Mia si interruppe e scosse la testa, come se fosse incapace di continuare. «Certo che potrei.» Veronica la guardò negli occhi. «Che cosa c'è, Mia?
A me puoi dire qualunque cosa, te lo assicuro.» «Non merito la tua amicizia. Non...» Mia lottò contro le lacrime. «Dopo avergli permesso di... di fare quello che ha fatto ieri sera, non merito...» «Ti ha fatto del male? Dove? Che cosa ha...» «Non voglio parlarne.» «Ti prego, Mia...» «Non voglio parlarne!» ripeté lei, con un singhiozzo. Si divincolò e corse in corridoio. Veronica la seguì. La trovò in camera, seduta sulla sponda del letto disfatto, accasciata. «Mia?» sussurrò dalla soglia. «È stato... orribile.» «Raccontami» disse Veronica a bassa voce. «Ti aiuterò.» Si avvicinò a Mia e si inginocchiò davanti a lei, prendendole le mani. «Come potrei non capire? Le tue pene sono le mie pene. Le tue speranze, i tuoi sogni, le tue delusioni... è tutto mio. Io ti amo, Mia.» Mentre pronunciava quelle parole, fu come se dentro di lei si accendesse una luce, piena di promesse. «Farei qualunque cosa per te. Qualunque cosa. Non lo sai?» Mia alzò gli occhi. Veronica si portò le sue mani alle labbra. «È la verità.» Una lacrima scivolò lungo la guancia di Mia. «Boyd... mi ha costretta a fare sesso con lui» sussurrò, così piano che Veronica dovette tendere l'orecchio per sentire. «Gli ho detto di no, ho lottato, ma lui...» Rabbrividì. «Lui mi ha costretta. Mi ha fatto male.» Veronica chiuse gli occhi, soffocata da una cieca rabbia. Il pensiero di Boyd che violentava Mia, la sua dolce, gentile Mia, era orribile. «Dove?» riuscì a chiedere. «Dove ti...?» Mia si alzò, si slacciò i pantaloni e li fece scivolare lungo i fianchi. Era snella, quasi come un ragazzo. Indossava una semplice mutandina bianca di cotone, semitrasparente. Veronica sentì il sangue pulsarle nelle orecchie. Poi vide i lividi. Il primo, sull'interno della coscia, era grande, violaceo. Gli altri erano più piccoli e rotondi, come impronte di dita. Con mano tremante, Veronica sfiorò il più grande, teneramente, amorosamente. Un suono simile a un sospiro sfuggì dalle labbra di Mia. Veronica la guardò. Aveva gli occhi chiusi, un'espressione rapita. Veronica fece scivolare le dita appena un po' più in su, e poi ancora, fino a sfiorare il tessuto bianco, tiepido. Stavolta, non c'era da sbagliarsi sul sospiro di Mia. Incoraggiata, lei accentuò la carezza, audacemente, esplorando per la prima
volta il corpo di un'altra donna. «Ho paura» sussurrò Mia, cominciando a tremare. «Non... non è possibile... non sta accadendo...» Veronica la tranquillizzò senza parole, solo con il tocco delicato delle dita. Con un piccolo grido, Mia si aggrappò alle sue spalle per sorreggersi. «Non... lasciarmi, Veronica. Ti prego... mai.» «Non ti lascerò, amore. Non potrei.» «Allora non... non fermarti. Sì... così...» Tutt'a un tratto, Mia si irrigidì, e Veronica si rese conto che stava per avere un orgasmo. Fu una consapevolezza così travolgente che, nello stesso momento, anche lei esplose, spontaneamente. Piangendo, Mia si lasciò cadere sul pavimento, e Veronica la tenne stretta, mescolando le proprie lacrime alle sue. Dopo qualche tempo, le lacrime cessarono, ma nessuna delle due si mosse. Veronica aveva paura di lasciare andare Mia, paura di che cosa avrebbe detto, di come l'avrebbe guardata. Era piena di timore, di imbarazzo, ma soprattutto di speranza. Niente, nella sua vita, le era sembrato così giusto come quei pochi minuti con Mia. Se Mia non provava gli stessi sentimenti, temeva che sarebbe morta. Finalmente, trovò il coraggio di guardarla. Nei suoi occhi vide rispecchiata la stessa meraviglia. La stessa speranza, la stessa esitazione. Scoppiò di nuovo a piangere, ma di gioia. Mia le toccò il viso con dita tremanti. «Che cosa farò con Boyd?» chiese. «Ho paura.» «Non devi averne. Non gli permetterò di farti di nuovo del male. Non gli permetterò di toccarti. Noi non lo permetteremo.» «No» convenne Mia. «Non lo permetteremo.» CAPITOLO 17 Melanie entrò frettolosamente nello spogliatoio della palestra. Come aveva previsto, Veronica c'era già, seduta su una panca. Aveva la borsa da ginnastica aperta fra i piedi, però non si era ancora cambiata. Avevano continuato a vedersi ogni venerdì, ma, dopo l'inizio ufficiale delle indagini sull'Angelo nero, a metà luglio, Melanie aveva l'impressione di essere sempre di corsa, di non fare che scusarsi con questo e con quello per il ritardo. «Scusa» disse infatti, posando la borsa sulla panca accanto a Veronica. «Stavo uscendo, quando un cronista del Charlotte Observer ha telefonato
per aggiornamenti. Non ho potuto scansarlo.» Veronica la guardò. «L'Angelo nero. Ma che sorpresa.» Melanie rimase stupita dal suo tono sarcastico. «Prego?» «Ultimamente, non fai che pensare a quel caso. È un'ossessione.» Lei si irrigidì, offesa e ferita. «È un grosso caso, Veronica. Importante. E io sono incaricata delle indagini. Avrei pensato che proprio tu saresti stata la prima a capire.» «Forse io capisco. Però, le altre persone che ti vogliono bene?» Melanie aprì la bocca per rispondere, ma Veronica la fermò. «Sai, Melanie, non puoi rovinare la tua vita per un caso. Credimi, ce ne sarà sempre un altro dietro l'angolo, più grosso, più importante.» Melanie non sapeva che cosa dire. Era stupita e imbarazzata perché Veronica aveva ragione. Ma era anche risentita per la sua predica. Si cambiarono in silenzio. Quando fu pronta, Veronica la guardò quasi con aria di scusa. «Come stanno andando le indagini?» «Siamo a otto probabili vittime.» «Otto? Il tuo Angelo è un uomo molto indaffarato.» «Una donna» rettificò Melanie, automaticamente. «Giusto. Qualche indizio?» Melanie scosse la testa, ficcando la borsa da ginnastica nell'armadietto. «Abbiamo una serie di vittime e nessuna prova concreta, anche a causa della natura dei delitti e del tempo trascorso.» «Capisco. Immagino che ora sia solo questione di aspettare.» «Più o meno» convenne Melanie, per quanto odiasse l'idea di starsene seduta ad attendere un altro omicidio. Ma sangue fresco, come lo chiamavano fra loro, significava nuovi indizi e nuove prove, di cui avevano un disperato bisogno. «Sarà un caso interessante, in tribunale» mormorò Veronica. «Quasi quasi avrei voglia di essere nel team che si occupa di omicidi. Certo, considerando il mio passato di accusatore in casi di violenze e percosse, forse mi sentirei come se fossi passata dall'altra parte della barricata.» Melanie mormorò un assenso, anche se in realtà non la pensava così. Per lei, non contava chi l'Angelo nero aveva ucciso, ma solo che aveva ucciso. Non vedeva sfumature di grigio nelle azioni dell'Angelo nero. Solo bianco e nero, giusto e sbagliato.
Compiuti i soliti esercizi di stretching, si prepararono per il combattimento. Nelle settimane trascorse, avevano imparato a conoscersi e si allenavano al combattimento libero, naturalmente senza mettere nei colpi la terribile forza che la pratica del tae kwon do comportava. Melanie non era ancora riuscita a battere Veronica, ma non aveva perso la speranza di farlo, e quella sembrava la sera giusta. Veronica era sempre fuori tempo, i suoi movimenti non erano precisi e concentrati come al solito. Si scoprì, e Melanie riuscì a portare un colpo alla fronte, poi un calcio rotante al lato della testa. In gara, le sarebbe bastato un solo colpo ancora per vincere. «Sei sicura di stare bene?» chiese. «Mi rendi tutto troppo facile.» «Fa parte del mio piano» ribatté Veronica. «Ora che ti senti sicura e soddisfatta, colpirò per uccidere.» Melanie rise. «Fa' del tuo meglio, avvocato.» A quel punto, Veronica scattò. Melanie bloccò il suo pugno. Ripeterono l'esercizio. Poi, senza alcun preavviso, Veronica assestò un calcio allo sterno di Melanie. Il dolore le esplose nel petto, e lei cadde lunga distesa, lottando per respirare. Aprì gli occhi. Vedeva tutto sfuocato. Veronica, l'istruttore e le altre cinture nere erano chini su di lei. Veronica sorrideva. Non poteva essere. Melanie chiuse gli occhi e, quando li riaprì, la vista le si era schiarita. «Mi dispiace, Mel» mormorò Veronica. «Non so che cosa sia successo.» Lei la fissò, incapace di parlare. Cercò di alzarsi a sedere, ma inutilmente. «Non muoverti» ordinò l'istruttore. «Non parlare. Chiudi gli occhi e respira, adagio e a fondo.» Melanie ubbidì. «Bene» approvò lui. «Così.» A poco a poco, Melanie cominciò a sentirsi meglio, anche se il petto le faceva un male d'inferno. «Credo di potermi mettere a sedere» sussurrò. «Vorrei provare.» Veronica e l'istruttore l'aiutarono. Nonostante il dolore, non provò alcuna fitta acuta che indicasse una costola rotta. Strofinò delicatamente il punto in cui il calcio di Veronica l'aveva colpita. «Che cosa è successo?» chiese l'istruttore, guardando Veronica. Lei impallidì. «Non lo so. Ci stavamo allenando, e...» «Hai perso la concentrazione» completò lui, severo. «Un colpo di quella
forza, diretto al cuore, può uccidere. Lo sai.» Veronica chinò la testa. «Sì, maestro.» «Indosserete le protezioni, d'ora in avanti. Tutte e due.» Le due donne annuirono senza protestare. Veronica e l'istruttore aiutarono Melanie ad alzarsi in piedi. Lei barcollò leggermente, poi si raddrizzò. Veronica l'accompagnò nello spogliatoio e le aprì l'armadietto. «Mi dispiace moltissimo...» Melanie ricordò il suo viso chino su di lei, sorridente. Si portò la mano al petto dolorante. «Davvero?» Veronica arrossì. «Stai insinuando che l'ho fatto apposta?» Buon Dio, lo aveva pensato. Era impazzita? Lei e Veronica erano amiche. Perché Veronica avrebbe dovuto volerle fare del male? Respirò a fondo, arrossendo a sua volta. «Quando ho aperto gli occhi, mi è sembrato che sorridessi.» «Che sorridessi?» ripeté Veronica, offesa. «Grazie tante, Melanie. Credevo che noi due fossimo amiche.» L'ultimo residuo di collera e di sospetto svanì, e Melanie si sentì perfino ridicola. Allora tese la mano. «Scusami. Sono... sono un po' scossa. Se il colpo fosse stato solo un po' più alla mia sinistra, avrebbe potuto fermarmi il cuore. Non intendevo... Mi perdoni?» Veronica sorrise, rigida, e accettò le sue scuse. Ma, guardandola allontanarsi, Melanie si chiese se non avesse rovinato per sempre la loro amicizia. Ad Ashley piaceva fare un giro per Dilworth Square il sabato sera. Le boutique, le più trendy della città, i diversi bistrot e i caffè all'aperto attraevano una clientela elegante e, poiché i negozi rimanevano aperti fino alle dieci, c'era sempre una folla a cui mescolarsi, conversazioni da ascoltare, gente che chiacchierava mentre faceva la fila per pagare un acquisto. Essere sola fra la folla non era così brutto come l'unica alternativa: essere sola, e basta. Ultimamente il silenzio aveva cominciato a diventare oppressivo. Specialmente la notte. Spesso si svegliava a notte fonda, in un bagno di sudore, soffocata dal buio e dal vuoto che sentiva dentro.
Poi, venivano i ricordi. E lei si sentiva perduta. Aveva bisogno delle sue sorelle. Delle loro braccia, del loro conforto, del loro amore incondizionato e della loro comprensione. Voleva che aggiustassero tutto per lei. Ma non potevano. Non capivano. Perché non sapevano. Lei non aveva mai detto nulla. Non sono disponibili per me, ma solo l'una per l'altra. Ashley chiuse gli occhi un momento, negando quel pensiero. Si disse che le sue sorelle le volevano bene, che lei era importante nella loro vita quanto loro lo erano nella sua. Non le aveva viste spesso, di recente, perché erano molto occupate, Melanie con il suo caso, Mia con i suoi problemi coniugali. No, non era così. Qualcosa si era frapposto fra loro. Qualcuno. Veronica Ford. Come evocata dai suoi pensieri, Veronica comparve poco più avanti, uscendo dalla confetteria Godiva. Sorrideva, palesemente di ottimo umore. Portava una delle piccole borse dorate del negozio, facendola dondolare mentre camminava. Non ha un pensiero al mondo. Ashley provò un'ondata d'odio. Nelle ultime settimane, ogni volta che era passata in macchina davanti alla casa di Mia, vi aveva visto l'auto di Veronica. E le poche volte in cui lei e le sue sorelle si erano incontrate, Veronica era stata presente. Come se fosse una di loro. Ma non era una di loro, maledizione. Erano tre. Solo tre, non quattro. Ashley colse alcuni sguardi curiosi e si rese conto che stava borbottando fra sé. Imbarazzata, si portò una mano alla fronte e scoprì che, benché la temperatura fosse mite, stava sudando. Buon Dio, che cosa le stava succedendo? Stava crollando completamente. Scosse la testa. No. Non stava crollando. Era Veronica che metteva le sue sorelle contro di lei. Che cercava di rubargliele. Non era giusto, dopo quello che aveva fatto per proteggerle. Dopo il modo in cui aveva sofferto, e in cui continuava a soffrire. Davanti a lei, Veronica entrò in un altro negozio. Ashley la seguì, fermandosi a guardare la vetrina. Sbirciando attraverso il vetro, la vide passare in rassegna la biancheria esposta, tirando fuori questo e quello... un body, una camicia da notte, un completo di slip e reggiseno, e nello stesso
tempo chiacchierando con la commessa, sorridente. Scelse una semplice sottoveste color champagne e, mentre pagava, Ashley si allontanò dalla vetrina, mescolandosi a un gruppo che stava ammirando il lavoro di uno degli artisti di strada. Quando Veronica uscì, la seguì, tenendosi abbastanza lontano da non insospettirla, ma abbastanza vicino da non perderla di vista. Quando entrava in un negozio, lei si avvicinava per sbirciare dalla vetrina. Veronica si fermò in una profumeria, una libreria e un negozio di scarpe, e ogni volta comprò qualcosa. Spendeva spensieratamente, notò Ashley, come faceva solo chi disponeva di fondi illimitati. Non guardava le targhette dei prezzi, e non esitava quando trovava un articolo che le piaceva. Si limitava a tendere al negoziante la carta di credito. Uscì dall'ultimo negozio e, ancora una volta, Ashley la seguì. Stavolta Veronica imboccò lo stretto viale che abbracciava la piazza, sul retro, e su cui si affacciavano le entrate posteriori dei negozi, utilizzate per lo scarico delle merci. Ashley esitò un momento, poi affrettò il passo per non perderla di vista. Il viale era deserto. Dov'era andata? Lei si inoltrò nel viale. I suoi passi producevano un suono soffocato sulla pavimentazione di mattoni. Il brusio delle conversazioni che proveniva dalla piazza sembrava lontano, quasi spettrale. Rabbrividì. «Cercavi me?» Ashley sussultò e si voltò di scatto. Veronica era a tre metri da lei, con le mani sui fianchi, visibilmente furiosa. Doveva essersi accorta di essere seguita ed essersi nascosta nel vano di una porta per sorprenderla. «Veronica!» esclamò Ashley, fingendosi sorpresa. «Che cosa ci fai qui?» L'altra non si lasciò ingannare. «Perché mi seguivi?» «Seguirti?» ripeté Ashley, rossa per l'imbarazzo. «Perché dovrei perdere tempo a seguirti?» «È quello che vorrei sapere» ribatté Veronica. «Non ti sono molto simpatica, vero?» Ashley incrociò il suo sguardo. «Non mi sei simpatica affatto.» «Ma perché? Che cosa ti ho fatto? Che cosa, a parte cercare di esserti amica?»
«Forse non ti voglio come amica. Forse penso che tu sia una persona dannosa.» Mentre pronunciava quelle parole, Ashley si rese conto che erano vere. Non sapeva perché, ma trovava in Veronica qualcosa di spregevole. Di subdolo. «Io, una persona dannosa?» ripeté Veronica, incredula. «Io?» «È quello che ho detto.» Ashley sollevò il mento. «E lo dimostrerò.» Veronica scosse la testa con aria compassionevole. «Hai seriamente bisogno di aiuto, Ashley.» Raccolse i suoi acquisti nel vano della porta dietro di lei, poi tornò a guardare Ashley. «E spero che tu lo riceva, prima di ferire le persone che ti vogliono bene... più di quanto tu abbia già fatto.» Si incamminò lungo il viale e Ashley la seguì con lo sguardo, con la gola stretta dalle lacrime. Le sue parole l'avevano ferita profondamente. «Che cosa ne sai, tu, delle persone che mi vogliono bene?» gridò, con voce tremante. «Che cosa sai di me?» Veronica non si fermò, né si voltò. Lei la fissò con rabbia impotente. «Voglio che tu esca dalla mia vita! Dalla vita delle mie sorelle! Mi hai sentita, Veronica Ford? Sparisci!» Veronica si fermò, si voltò e posò a terra le borse. La sua espressione era cambiata, si era fatta più dura, più fredda. «È di questo che si tratta, vero? Le tue sorelle. Sei gelosa della nostra amicizia.» Sì, era gelosa, riconobbe Ashley silenziosamente, ma i sentimenti che provava verso Veronica erano più profondi della gelosia. Erano dettati da un istinto che non avrebbe saputo definire, ma di cui si fidava ciecamente. «Torna a Charleston e lasciaci in pace. Non ti voglio qui. Noi non ti vogliamo qui.» Veronica scosse la testa, compassionevole. «Mi dispiace per te. Mi dispiace per Mia e Melanie, che ti vogliono bene.» «Smettila una buona volta di parlare di loro» scattò Ashley. «Si tratta di te.» «No, si tratta di te. Non sopporti che le tue sorelle abbiano simpatia per me. Sei gelosa del tempo che passano con me. Perché non lo ammetti? Forse ti sentiresti meglio.» «Smettila!» Ashley strinse i pugni. «S... sta' zitta!» Le lacrime le offuscarono la vista. «Sono le mie sorelle. Mie! E voglio che tu ne stia lontana.» «Mi dispiace, Ashley, ma non è proprio possibile.»
Veronica raccolse le borse, girò sui tacchi e si allontanò. Ashley la seguì con lo sguardo, riconoscendo che la odiava con ogni fibra del suo essere. Connor fermò la sua auto davanti alla casa di Melanie, ma non spense il motore. Guardò la modesta casetta, notando che sembrava ben tenuta, dipinta di fresco, con l'erba falciata di recente e le aiuole ben curate. Una piccola altalena penzolava dal grosso acero, e una bicicletta con le rotelle spuntava dal garage aperto. All'interno c'era la jeep di Melanie. Connor tamburellò con le dita sul volante, incerto sulla prossima mossa. Restare? O andare via? Guardò la grossa busta sul sedile accanto a lui. La ragione della sua visita. O, piuttosto, la scusa. La verità era che non aveva affatto bisogno di vedere Melanie ora, a casa. Sarebbe bastato contattarla via fax, o per telefono. Ma le indagini sull'Angelo nero non erano la ragione per cui era passato dal quartier generale della polizia di Whistlestop, quella mattina, non erano la ragione per cui ne era uscito frustrato, né quella che lo aveva spinto ad andare a casa di Melanie, dopo aver saputo che non era al lavoro perché Casey era ammalato. No, i sentimenti che lo avevano condotto alla sua porta erano tutto tranne che professionali. Lui e Melanie lavoravano insieme ormai da più di un mese. L'aveva trovata diligente e professionale. Gli piaceva il modo in cui la sua mente lavorava, il modo in cui affrontava un problema con metodo, ma con quel genere di creatività di cui solo i migliori investigatori erano dotati. Era impaziente, ma non lasciava mai che l'impazienza la rendesse trascurata. Aveva un carattere infiammabile, però era gentile, franca, leale, e anche divertente, se si lasciava andare. E troppo maledettamente attraente. Connor respinse quel pensiero, per quanto fosse la verità, e guardò la casa. Sorrise, vedendo la ghirlanda rossa, bianca e blu sulla porta. Non solo la Festa dell'Indipendenza era passata da un pezzo, ma ormai si avvicinava settembre. Si chiese se semplicemente Melanie avesse avuto tanto da fare da perdere la nozione del tempo, o se Casey le avesse chiesto di lasciare la ghirlanda. Il suo sorriso divenne triste, come sempre quando pensava a Melanie May e alla sua vita. Perché, per quanto avesse appreso molte cose su di lei,
Melanie, come persona, rimaneva un mistero. Sapeva che era divorziata, che amava appassionatamente suo figlio e che aveva ambizioni che andavano oltre l'essere un poliziotto di Whistlestop. Ma voleva sapere molto di più di quegli scarni dati di fatto. Ed era molto tempo che non provava nulla di simile nei confronti di una persona. Ragione di più per filartela. Allungò la mano con l'intenzione di inserire la marcia... e invece girò la chiave e spense il motore. Agguantò la busta, scese dalla macchina e si affrettò lungo il vialetto, per non darsi la possibilità di cambiare idea. Prima che potesse suonare, lei apri la porta. Benché fossero le dieci passate, sembrava che avesse appena fatto la doccia. Indossava un paio di vecchi jeans e una maglietta bianca, e aveva i capelli umidi e i piedi nudi. Sembrava più una studentessa che un poliziotto e la madre divorziata di un bambino di quattro anni. «Connor» mormorò, palesemente sorpresa. «Come mai qui?» «Ciao.» Lui esitò, sentendosi più un adolescente impacciato che un uomo di trentotto anni. «Bobby mi ha detto che ti avrei trovata qui. Spero che non sia un problema...» «No, certo. Casey sta dormendo.» Melanie sorrise. «Che cosa succede?» Connor sapeva guardare negli occhi un indiziato e mentire spudoratamente, ma con Melanie gli era impossibile. Chinò leggermente lo sguardo e si schiarì la gola. «Abbiamo ricevuto un paio di fax, stamattina, il primo dalla polizia di Asheville e il secondo da quella di Columbia. Due possibili vittime dell'Angelo nero. Ho pensato di passarteli.» «Benissimo.» Melanie si fece da parte per lasciarlo entrare, ma si mise un dito sulle labbra. «Dobbiamo parlare a bassa voce. Casey ha il sonno leggero.» Gli fece segno di seguirlo e, quando giunsero nella piccola, luminosa cucina, chiuse la porta. «Siediti. Preparo un buon caffè.» «Non è necessario.» Connor si sedette su uno degli alti sgabelli al bancone della colazione, posando la busta davanti a sé. «Non disturbarti per me.» «Nessun disturbo, ti assicuro. Abbiamo passato una nottataccia e stamattina ne ho preso solo una tazza di quello avanzato da ieri. Odio il caffè riscaldato» confidò Melanie con una smorfia. «Allora, grazie.» «Quando Casey era piccolo, camminavo in punta di piedi perché ritene-
vo che così dormisse meglio. Ora so che lo stavo solo abituando ad avere il sonno leggero» spiegò lei. Si strinse nelle spalle. «Mamme del primo figlio... Facciamo del nostro meglio.» Connor seguì i suoi movimenti mentre preparava la caffettiera. «A proposito, come sta? Bobby mi ha detto che è ammalato.» «Un'otite. Ne soffre fin da quando era piccolo. Pensavo che il problema si risolvesse crescendo, invece...» Melanie si chinò sulla caffettiera, aspirando il profumo del caffè fresco. Connor trovò quel movimento sexy, in un modo naturale, spontaneo. La verità era che trovava tutto, in lei, sexy in quello stesso modo. «Allora, che cos'hai per me?» Lui batté le palpebre. «Prego?» «Le possibili vittime.» «Oh... sì.» Connor aprì la busta e tirò fuori i fax. «Entrambe le morti sembrano sospette, ma non è mai stato trovato nulla di concreto per avviare un'indagine per omicidio. Ed entrambi avevano alle spalle una storia di maltrattamenti alla moglie.» Melanie versò due tazze di caffè e ne spinse una verso Connor. «Dimmi qualcosa di più.» «Il primo era un appassionato di motocicletta. È stato spinto fuori da una strada di montagna, è precipitato ed è morto. Nessun testimone.» «Come sanno che è stato spinto?» «Dai danni rilevati sui resti della moto.» «Una mossa rischiosa. In pubblico. Però, sembrerebbe proprio un omicidio.» «Non necessariamente. La strada è stretta. Qualcuno può aver tentato di sorpassare ed essersi trovato nei guai. Pioveva e l'asfalto era sdrucciolevole.» Melanie girò attorno al bancone per dare un'occhiata al rapporto. Si chinò sopra la spalla di Connor e, in quel movimento, gli sfiorò la guancia con i capelli. Sembravano di seta e odoravano di shampoo alla frutta... «E il secondo?» Con uno sforzo, Connor riportò subito l'attenzione sul rapporto. «Questo era un cacciatore. Passava quasi ogni finesettimana al suo accampamento, durante la stagione dei cervi, solo o con amici. È morto in un cosiddetto incidente di caccia. Il fatto è che non è stato un colpo sbagliato o un proiettile vagante a ucciderlo. Gli hanno sparato dritto al petto, da breve distanza. Lo hanno trovato due cacciatori, già morto.»
«Nessun testimone?» «Nessuno. Quel finesettimana era solo.» «Perciò era vulnerabile, proprio come piace al nostro Angelo.» «Proprio così, anche se nessuno dei due incidenti si adatta al metodo tipico dell'Angelo. Entrambi comportavano un intervento più diretto, ed erano più rischiosi, in termini di potenziale scoperta. Inoltre, i due uomini erano resi vulnerabili non tanto dalle loro fragilità, quanto dai loro hobby. Però, erano due violenti. E sono morti in seguito a incidenti inesplicabili.» Melanie rifletté. «Potrebbero essere opera dell'Angelo» mormorò. «Anzi, non ne sarei affatto sorpresa.» «Perché?» le domandò Connor, chinandosi verso di lei. Si accorse immediatamente dell'errore. Il movimento aveva portato la sua bocca a pochi centimetri da quella di Melanie. Quella bocca sexy, invitante... Deglutì a vuoto e si costrinse a guardarla negli occhi. «Pensaci, Connor. A volte, deve correre dei rischi.» Melanie trascinò uno sgabello vicino al suo e si sedette. «Sceglie con cura la vittima. La studia. Scopre le sue abitudini, i suoi gusti. I suoi punti deboli.» Si ravviò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Connor seguì il movimento con lo sguardo, maledicendo la propria debolezza. Senza notare nulla, lei proseguì: «Ma se il prescelto non ha debolezze da sfruttare? Che cosa fa?». «O cambia vittima, o corre il rischio.» «Se decide di correre il rischio, deve trovare un altro modo per arrivare a lui.» Eccitata, Melanie balzò in piedi e andò a una piccola scrivania sistemata in un angolo della cucina, a prendere una cartella. L'aprì sul bancone e tirò fuori alcuni fogli. In cima a ciascuno di essi c'era il nome di un uomo, e sotto il modo e il luogo della morte, e le sue osservazioni personali. Li dispose l'uno accanto all'altro davanti a Connor e vi aggiunse gli ultimi due. «Questi non sono poi così diversi. L'Angelo trova comunque un punto vulnerabile. Lo hanno tutti. Lei lo trova e lo sfrutta.» Alzò gli occhi. «Non cambia vittima. Non può. Ha investito troppo in questi tizi.» «I serial killer lo fanno, se sentono di rischiare troppo» osservò Connor. «Ma lei è diversa» insistette Melanie. «Se abbiamo visto giusto, investe moltissimo, emotivamente, in questi uomini...» «Non in loro» la corresse Connor. «Nelle donne a cui hanno fatto del male.» Quelle parole ebbero l'effetto di una bomba.
Ecco il legame! Le donne. L'Angelo nero non uccideva per raddrizzare qualche torto universale, né per vendetta personale. Lo faceva per aiutare una donna nei guai. «Diavolo.» Connor si alzò. Era tutto così chiaro, adesso, così semplice. «Le donne sono il legame, non gli uomini.» Guardò Melanie. «Fa amicizia con le donne, e così apprende la loro situazione.» «Ma come? Dove le trova?» «Nei posti dove le donne si incontrano. Dal parrucchiere. Al supermercato.» «Aspetta.» Melanie prese carta e penna e buttò giù un appunto. «Gruppi femminili. Riunioni scolastiche.» In breve tempo, fra tutti e due stilarono un elenco di oltre venti possibilità, dalle lavanderie automatiche ai campi giochi, alle palestre. «Dobbiamo interrogare di nuovo le mogli e le compagne delle vittime. Se avremo fortuna, scopriremo che alcune di loro frequentano lo stesso posto, o addirittura gli stessi posti.» Melanie batté le mani e rise. «Uno spiraglio. Connor, è fantastico.» Lui trovò irresistibile la sua risata, la luminosità dei suoi occhi, il modo in cui piegava la testa all'indietro. E glielo disse. «Ho una bella risata? Diamine, grazie. Non me lo aveva mai detto nessuno.» «Avrebbero dovuto. Perché è vero. È una bellissima risata.» Come rendendosi conto all'improvviso che Connor non stava scherzando, Melanie si alzò. Lui la imitò. «Ti ho messa in imbarazzo. Scusa.» «Non essere sciocco.» Il sorriso di Melanie sembrava forzato. «Non hai fatto niente di scorretto. Anzi, hai detto una cosa carina.» «Carina?» Invece di ridere, lei deglutì a vuoto, visibilmente. I loro occhi si incontrarono. Connor fece un passo avanti. «Che cosa diresti se facessi qualcosa di... scorretto?» Lei distolse lo sguardo, ma solo per un attimo. I suoi occhi erano colmi di desiderio. Connor si chiese se leggeva lo stesso desiderio nei suoi. «Dipenderebbe, immagino.» «Davvero?» Lui si fece più vicino, con il cuore che batteva all'impazzata. «Da che cosa?» Melanie sollevò il viso verso di lui, inumidendosi le labbra.
«Da quale specifica cosa scorretta...» Il telefono squillò. Entrambi si voltarono di scatto in quella direzione. Dopo un attimo, Melanie lo afferrò come se fosse un salvagente. Connor si allontanò da lei, frustrato. Respirò a fondo, costringendosi a mettere da parte il pensiero della sua bocca, del suo corpo, di come sarebbe stato baciarla, toccarla. Sarebbe stato un errore. Lui e Melanie dovevano lavorare insieme. L'ultima cosa di cui aveva bisogno, nella sua vita già disastrata, era una complicazione di quel genere. Era meglio così. E allora, perché avresti voglia di uccidere la persona che ha chiamato, chiunque sia? «Un'otite.» Al tono aspro di Melanie, Connor si voltò a guardarla. Gli dava le spalle, diritta, rigida. Era evidente che la telefonata non le faceva piacere. «No, non è ammalato perché va all'asilo. L'otite non è contagiosa.» Melanie sospirò. «Ne abbiamo già parlato altre volte, ricordi?» Il suo ex marito, pensò Connor, fingendo di interessarsi al suo caffè. «Senti, Stan, adesso non ho tempo.» Melanie ascoltò per un momento, poi disse: «È la tua opinione. Chiama la pediatra di Casey e parlane con lei. Io devo andare». Riattaccò e tornò al bancone, scura in viso. «Scusa.» «Non fa niente.» Connor le scoccò un'occhiata. «Problemi con il tuo ex?» «Sempre.» Melanie cercò di ridere, ma senza molto successo. Si schiarì la gola. «Scusa» ripeté. «Ha il potere di innervosirmi.» «C'è qualcosa che posso fare?» «Magari.» Lei sospirò. «Il fatto è che il mio ex rifiuta di ascoltare qualunque opinione che non sia la sua, e al momento la sua opinione è che tutto quello che faccio danneggia Casey. Ha intentato una causa per la custodia. Sarà discussa fra non molto.» «Mi dispiace.» «Anche a me.» Melanie si guardò le mani, poi alzò gli occhi. «Anzi, sono infuriata all'idea che voglia farmi questo... ma soprattutto che voglia farlo a Casey. E solo per punire me.» «Per avere divorziato?» «E anche per avere avuto il fegato di farmi una vita mia. Di fare quello che desideravo.» «Non voleva che entrassi nella polizia?» «Vuoi scherzare? Non lo voleva al punto da brigare perché non fossi ammessa all'Accademia del CMPD.» Melanie rise, ma stavolta il suono fu
aspro, rabbioso. «A volte, quando ci penso, sono così furibonda che potrei...» Come rendendosi conto di quello che stava per dire, e a chi, si interruppe di colpo. «Non riesco a non pensare a che cosa farei se perdessi Casey. Non posso immaginare di vivere senza di lui, giorno dopo giorno.» «Che dice il tuo avvocato?» «Tutte le cose appropriate. Che c'è ogni ragione di ritenere che manterrò la custodia. Ma io continuo a pensare al peggio.» Melanie si avvicinò alla caffettiera. «Un altro goccio?» Connor consultò l'orologio. Doveva andare. Ma quello che voleva e quello che doveva fare erano due cose molto diverse. «Grazie» rispose, tendendole la tazza ancora piena a metà. «Perché lo hai sposato?» le chiese poi. «Per le ragioni sbagliate, ora lo so. Non solo era incredibilmente attraente, ma aveva anche quest'aura di forza... Con lui mi sentivo al sicuro. Protetta.» Melanie riempì la tazza di Connor e gliela porse. «Naturalmente, non impiegai molto a rendermi conto che tutta quella forza era solo arroganza, e un prepotente bisogno di controllo. E anche che non voleva tanto proteggermi, quanto essere il mio padrone. Per questo, però, mi ci volle un po' di più. Ero giovane.» Al sicuro? Protetta? Connor corrugò le sopracciglia. Era un bisogno che non quadrava con la donna sicura di sé, fieramente indipendente che conosceva. «Lo so» ammise Melanie. «Non sono più la stessa donna che ero allora. Avevo avuto un'infanzia difficile. Mia madre morì quando avevo undici anni e mio padre... non valeva molto come genitore. E neppure come uomo. A pensarci ora, era naturale che cercassi la sicurezza.» Sorrise, imbarazzata. «Sembra piuttosto contorto, vero?» «No. Una persona si lega a un'altra per le ragioni più disparate.» Melanie si portò la tazza alle labbra. «Basta parlare di me. E tu? Perché hai sposato la tua ex?» Lui fece una smorfia. «L'ho sposata perché pensavo che lei e suo figlio, Jamey, potessero riportarmi alla vita. Pensavo che potesse amarmi abbastanza per tutti e due.» «Ahi.» «Già, ahi. Non è stato giusto nei suoi confronti e in quelli del bambino.» «Gli volevi bene, vero?» «Troppo, considerando la situazione.» «Succede così, con i bambini.» Melanie cominciò a raccogliere i fogli.
«Allora, vuoi cercare le mogli e le fidanzate?» Anziché rispondere, lui disse a bassa voce: «Melanie?». Lei alzò gli occhi. «A proposito di poco fa, prima che il telefono...» «Non pensarci più.» Melanie fece un gesto noncurante con la mano. «Io l'ho dimenticato.» Non era esattamente la risposta che Connor desiderava. «Davvero?» chiese. «Dimenticato?» «Sicuro.» Melanie rimise i fogli nella cartella, senza guardarlo. «Io no» mormorò Connor. «Non ho dimenticato. Non sono sicuro di poterlo fare.» Le posò la mano sulla guancia. La sua pelle era tiepida e morbida. Passò lievemente il pollice sullo zigomo, e lei si lasciò sfuggire un sospiro soffocato. «Connor, io... È un errore. Voglio dire, siamo...» «Colleghi» borbottò lui. «Lo so. Ci ho pensato almeno cento volte. Lavoriamo insieme a un grosso caso. Un coinvolgimento sentimentale creerebbe una situazione potenzialmente esplosiva.» «E...» «Ed eccomi qui a desiderare di baciarti ugualmente.» Melanie lo guardò, e lui seppe che anche lei lo desiderava. «Connor, io...» Lui avvicinò le labbra alle sue. Erano calde. E quasi intollerabilmente dolci. Le sfiorò appena, poi si tirò indietro, quasi spaventato dall'effetto di quel lieve contatto. Come una bottiglia di buon vino. O un forte gancio sinistro. Imprecò sottovoce. Melanie aveva ragione. Era un errore. Un grosso errore. Aprì la bocca per dirglielo, ma non ne ebbe il tempo. Stavolta, fu lei a prendere l'iniziativa, attirando le labbra di Connor sulle sue. E, a quel punto, lui non fu capace di resistere. «Mamma?» I due si separarono di scatto. Melanie si voltò verso la porta, arrossendo. «Casey!» Il bambino era sulla soglia, con i capelli biondi arruffati e il coniglio stretto al petto. «Mi fa male l'orecchio.» Connor guardò Melanie prendere in braccio suo figlio, guardò Casey
stringerle braccia e gambe attorno al corpo e nasconderle il viso nel collo. Salvati dalla campana, pensò. Due volte in un giorno. Sembrava che qualcuno avesse lanciato loro un messaggio, e stavolta avrebbero fatto meglio a seguirlo. Raccolse la busta che aveva portato con sé, poi guardò Melanie. Lei sembrava imbarazzata. Incerta. «Melanie...» cominciò lui. «Connor...» disse lei contemporaneamente. «Mi dispiace» continuò lui. «Non avrei dovuto...» «Non scusarti. È colpa mia quanto tua.» Lui non poté fare a meno di sorridere. Se era disposta ad accettare metà della colpa, significava che aveva provato un'attrazione pari alla sua. Naturalmente, era tutto passato, adesso. D'ora in avanti, solo lavoro, fra loro. «È stato meglio che Casey... Sarebbe stato complicato se noi... sai...» «Giusto» la interruppe Connor, poi andò alla porta di cucina. «Esco da solo. Tu pensa a Casey.» «Okay. Grazie.» «Comincerò a telefonare alle donne delle vittime e fisserò degli appuntamenti.» «Fammi sapere.» «Sicuro.» Connor si voltò e se ne andò, chiedendosi come sarebbe riuscito a mantenere il patto che avevano appena concluso. CAPITOLO 18 Melanie respirò a fondo e suonò il campanello di Ashley. Le mani le tremavano. Aveva appena ricevuto una telefonata da Veronica. Una persona che aveva dichiarato di essere l'agente Melanie May si era presentata all'ufficio del procuratore distrettuale di Charleston, il giorno prima. Aveva un documento di identificazione e indossava l'uniforme della polizia. Aveva fatto ogni sorta di domande su Veronica: chi erano i suoi amici, se era benvoluta, se aveva strane abitudini. Veronica era furiosa. Era convinta che si fosse trattato di Ashley. Non poteva essere. Se fosse stato vero, Ashley avrebbe violato non solo la privacy di Veronica, ma anche la fiducia di Melanie. Solo una persona che aveva perso il contatto con la realtà avrebbe preso un'iniziativa del genere.
Sulle prime, Melanie non aveva creduto all'accusa di Veronica. Perché Ashley avrebbe dovuto fare una cosa simile? Poi, Veronica le aveva raccontato il suo incontro con Ashley del sabato precedente. Ora, Melanie non era più così sicura dell'innocenza della sorella, ed era decisamente preoccupata per le sue condizioni mentali. Nell'appartamento non si udiva alcun suono. Le tapparelle erano chiuse, la casella della posta fuori dalla porta traboccante. Sembrava un luogo disabitato... o perfino abbandonato. Eppure, Ashley era in casa. Melanie aveva visto la sua macchina nel posteggio del complesso. Suonò di nuovo e attese, poi bussò, sempre più allarmata. Finalmente sentì una specie di fruscio. La serratura scattò e la porta si aprì. Melanie sussultò. Ashley, la vibrante, bellissima Ashley sembrava uno spettro. Era pallida, e le occhiaie erano così scure da sembrare lividi. Indossava un paio di calzoncini e una maglietta, con cui aveva l'aria di aver dormito. «Mio Dio, Ash, che cosa ti è successo?» Lei batté le palpebre, palesemente disorientata. «Mi sono appena svegliata.» Melanie consultò l'orologio. Certo, era sabato mattina, ma erano anche le dieci. «Hai fatto nottata?» chiese. Ashley si fece da parte, permettendole di entrare. «Non riuscivo a dormire, perciò ho preso una pillola. Non so neppure che ora fosse. Tardi, credo.» Melanie corrugò le sopracciglia. Un sonnifero? Quando aveva preso quell'abitudine? «Ti capita spesso di non riuscire a dormire?» Ashley alzò le spalle e sbadigliò. «Ho bisogno di un caffè.» Melanie la seguì, notando che tutte le tapparelle e le tende erano chiuse. L'appartamento sembrava una tomba, buio e soffocante. «È una bellissima giornata» osservò, entrando in cucina. «Che ne dici di aprire un paio di finestre e far entrare un po' d'aria fresca?» «Sicuro. Come vuoi.» Mentre Ashley preparava il caffè, Melanie alzò la tapparella, poi aprì la finestra. «Ecco. Non è meglio?» Sua sorella non rispose e, voltandosi, Melanie la vide appoggiata al pia-
no di lavoro, con lo sguardo fisso nel vuoto. Accanto a lei, notò due tazze di caffè istantaneo. Sollevò le sopracciglia. Ashley era molto esigente in fatto di caffè. «Ash?» Lei la guardò. «Caffè istantaneo? Per favore!» «Lo so. Ma non me la sento di cominciare col macinarlo. Troppo lavoro.» Melanie scosse la testa e le ordinò di sedersi. «Faccio io. Dimmi dove trovare l'occorrente.» Ashley le diede le necessarie indicazioni, e lei preparò non solo il caffè, ma anche del pane tostato e del succo di frutta per la sorella. In pochi minuti, l'aroma del caffè riempì la cucina, e Ashley parve rianimarsi. Melanie le mise davanti la tazza e il pane tostato, poi si sedette di fronte a lei. Ashley bevve un sorso e sospirò. «Cara, buona Melanie. Quella che si prende sempre cura di noi. Che cosa faremmo senza di te?» «Spero che non lo scoprirete mai» ribatté lei. «Ora mangia. Hai l'aria di averne bisogno.» Quando Ashley si limitò a prendere una fetta di pane e a sbriciolarla fra le dita, Melanie la osservò un momento, poi scosse la testa, preoccupata. «Che cosa ti succede, Ashley?» «Niente. Sto benissimo.» «Si vede. Stai magnificamente, anzi. Per questo ricorri ai sonniferi.» «Non esagerare. Ne ho preso uno la notte scorsa.» «Hai problemi al lavoro?» «Il lavoro va benissimo.» «Problemi con gli uomini?» «Fammi il piacere.» «E allora?» «Perché sei così sicura che abbia un problema? Lascia stare, Mel. Sto bene.» «Da' un'occhiata allo specchio, sorella cara. Sembri un cadavere.» Ashley sollevò la tazza in un ironico brindisi. «Diamine, Mel, anch'io ti voglio bene.» Almeno, riaffiorava il suo consueto sarcasmo, pensò Melanie, incoraggiata. «Se non ti volessi bene, non sarei qui.» «Ora che ci penso, perché sei qui? Dopotutto, non ho visto molto le mie devote sorelle, ultimamente.»
«Non posso parlare per Mia, ma fra le indagini sull'Angelo nero, l'ultima otite di Casey e l'imminente causa per la custodia, io sono stata terribilmente indaffarata.» «Io posso parlare per Mia.» «Davvero?» Ashley cominciò a sbriciolare una seconda fetta di pane. «Passa una quantità di tempo con Veronica Ford.» «E questo ti infastidisce?» «Sì.» «Non dovrebbe, Ash. Sono amiche. Le amiche passano del tempo insieme.» «Anche le sorelle.» Melanie represse un sospiro. «Però tu non mi hai telefonato neppure una volta nelle ultime due settimane.» «Sarebbe servito a qualcosa? Dopotutto, sei molto indaffarata.» Stavolta Melanie sospirò, esasperata. «Che cosa vuoi da me? Delle scuse? Vuoi che ti dica che è colpa mia? Bene. È tutta colpa mia.» «Va' al diavolo.» Ashley balzò in piedi e andò alla finestra. «Per l'amor del cielo, Ash! Dimmi che cosa ti succede.» «Scommetto che non pensi neppure che la quantità di tempo che Mia e Veronica passano insieme è innaturale.» «No, non penso che è innaturale. Sono amiche.» «Le amiche trascorrono per caso la notte insieme? Sono passata davanti alla casa di Mia a notte fonda, e c'era la macchina di Veronica. E viceversa» annunciò. Melanie guardò la sorella, più preoccupata che mai. «Ash, quello che è innaturale è spiare tua sorella.» Lei arrossì. «Lo sapevo che ti saresti schierata con lei contro di me. Lo sapevo!» Melanie si alzò. «Schierata con chi? Con Mia? Non stiamo parlando di Mia, ma di te.» «No.» Ashley scosse la testa. «Non bastava che tu e Mia faceste causa comune quando eravamo piccole. Ora la fate con Veronica.» Si portò le mani al viso, e Melanie vide che tremavano. «Dopo il modo in cui vi ho amate. Dopo tutto quello che vi ho dato.»
Era grave come aveva detto Veronica. O anche peggio. «Questa non è una competizione, Ash. Tu sei mia sorella, e ti voglio bene.» Melanie le si avvicinò e le scopri gentilmente il viso, guardandola negli occhi. «Sono preoccupata per te.» «Ed è per questo che sei qui, oggi? Per dimostrarmi quanto mi vuoi bene?» «Sì.» «E per nessun'altra ragione?» Melanie rimase un momento in silenzio. Sapeva quanto la verità avrebbe sconvolto la sorella, ma non voleva mentire. Non mentiva mai. Era una lezione che aveva imparato presto e mai dimenticato. «Veronica mi ha riferito qualcosa che mi ha turbata.» Strinse più forte le mani di Ashley. «Mi ha raccontato che l'hai seguita e che, quando ti ha affrontata, hai detto cose assurde.» «Cose assurde?» ripeté Ashley con voce tremante. «Non ti riferirai al fatto che ho affermato che la vostra amica è una persona dannosa? O a quando le ho detto che vorrei che se ne andasse e non tornasse mai più?» Melanie si sentì cadere il cuore. «Proprio così.» «Non sono assurde. Sono vere.» La voce di Ashley assunse un tono disperato. «È dannosa, solo che tu non lo vedi.» «No. Perché non c'è niente da vedere.» Ashley liberò le mani. «È dannosa, Mel. C'è qualcosa in lei... qualcosa che non va. Devi credermi.» Buon Dio, lo ha fatto davvero. «Ti sei fatta passare per me, Ashley? Sei andata negli uffici della procura distrettuale di Charleston, fingendo di essere un'agente di polizia, a fare domande sulla vita privata e professionale di Veronica?» «Avrei dovuto saperlo» borbottò Ashley. «Avrei dovuto sapere che non eri qui perché ti importa di me. Si tratta di lei, vero?» «Oh, Ash...» Melanie sospirò. «Pensa a che cosa hai fatto. Hai messo in pericolo non solo la reputazione e la carriera di Veronica, ma anche la mia. Pensavi che non lo avrebbe scoperto? Che nessuno l'avrebbe avvertita? Che dopo quello che le hai detto l'altra sera, non avrebbe capito che eri tu? Potrebbe denunciarti. La sola ragione per cui non lo fa è che è nostra amica.» Ashley si coprì di nuovo il viso con le mani. Cominciò a piangere,
sommessamente, dapprima, poi sempre più forte. Melanie la prese fra le braccia e la tenne stretta, accarezzandole i capelli, mormorandole che tutto sarebbe andato bene. Che lei avrebbe sistemato ogni cosa. «Vi amo tanto» bisbigliò Ashley. «Te e Mia. Non avete... non avete idea delle cose che ho... ho fatto per voi.» «Quali cose?» chiese Melanie a voce bassa, tesa. «Dimmi che hai fatto. Dimmi perché sei così infelice. Sono qui per te. Ti aiuterò, Ashley. Te lo prometto.» La sorella si irrigidì e si liberò dalle sue braccia. «Fandonie. Non hai mai aiutato me. Solo Mia.» «Non è vero, Ash. Sei mia sorella, farei qualunque cosa per...» «Fandonie!» ripeté Ashley, cocciuta. «Ho aspettato, ma tu... tu non sei venuta.» «Venuta dove? Non so di che cosa stai parlando, Ashley.» Melanie si sforzò di mantenere la calma. «Se solo mi dicessi perché sei così arrabbiata...» «Non dovrei essere costretta a dirtelo, Melanie. Non dovrei...» Ashley si interruppe e la guardò negli occhi. «Vattene. Vattene da casa mia e lasciami in pace.» «Ash, ti prego.» Melanie le tese la mano, addolorata. «Parliamone. Ti prego. Siamo sorelle.» «Non hai capito? Non ti voglio qui. La tua presenza mi fa stare male.» Non sapendo che altro fare, Melanie se ne andò. Veronica prese Mia fra le braccia, cullandosela contro il seno. Erano sdraiate insieme sul letto di Mia, nude, sudate ed esauste dopo aver fatto l'amore. Erano amanti ormai da un paio di settimane, e Veronica non era mai stata più felice in vita sua. Non aveva mai conosciuto un rapporto così ricco, così rigeneratore. Era pazzamente innamorata di Mia. «Era come un toro infuriato» sussurrò Mia. «Strappava via la mia roba dall'armadio, vuotava i cassetti sul pavimento, faceva volare le scatole delle scarpe. Quando ha finito, la camera da letto era un caos, i miei vestiti stracciati.» «Povera Mia...» mormorò Veronica, tremando di rabbia e odiando al contempo Boyd con ogni fibra del suo essere. «Ero così spaventata. Tanto che mi sono ribellata. Gli ho detto che, se mi toccherà un'altra volta, renderò pubblica la sua vita privata.»
Veronica si sollevò sul gomito e la guardò, preoccupata. «No!» «Sì, l'ho fatto. Lui è impallidito. Tiene alla sua reputazione più che a qualunque altra cosa e per un momento credo... credo che abbia avuto paura.» «Buon Dio, Mia.» «Si è vendicato, anche se me ne sono accorta solo più tardi. Ha svuotato il mio portafogli. Cancellato le mie carte di credito, estinto il conto corrente comune.» La voce di Mia tremava. «Quando gliel'ho rimproverato, ha riso. Ha detto che se volevo qualcosa, anche la benzina per la macchina, avrei dovuto supplicarlo.» Le lacrime la soffocarono. «È stato così umiliante. Sarei voluta morire.» Veronica sussultò. Anche sua madre aveva desiderato morire. Era semplice, troppo semplice. Un colpo alla testa. Una manciata di pillole. Si scostò da Mia, in modo da poterla guardare negli occhi. «Non dire così. Non pensarlo neppure, mai. È lui che dovrebbe essere umiliato. È lui che dovrebbe morire.» «Vorrei che morisse» sussurrò Mia. «Lo odio tanto. Non puoi immaginare quanto.» «Lo so, piccola. Lo odio anch'io.» Veronica le prese il viso fra le mani. «Lascialo. Non pensare al denaro. Ne ho abbastanza per tutte e due. Mi prenderò cura io di te.» «Ma non è giusto. Boyd è ricco, e quello che è suo è mio. O dovrebbe esserlo.» Mia guardò Veronica. «Mi ami davvero? Abbastanza da affidarmi ogni tuo segreto? La tua stessa vita?» Un nodo strinse la gola di Veronica. Deglutì a vuoto, a disagio. Dove voleva andare a parare Mia? «Sì, è così, Mia. Te lo assicuro.» «Io ti amo nello stesso modo. Voglio che tu lo creda.» Mia si alzò a sedere. «Ho un piano. Un modo per fargli scontare il male che mi ha fatto.» Guardò Veronica negli occhi. «So tutto, Veronica. Tutto. L'ho seguito. È andato in un locale chiamato The Velvet Spike.» The Velvet Spike? Veronica impallidì. Cercò di parlare, ma non poté. «La sua reputazione è tutto, per lui» continuò Mia. «Gli piace recitare il ruolo del cittadino modello, che va in chiesa e rispetta la legge. Il chirurgo repubblicano. Per questo mi ha sposata. Ora lo so. Non solo mi adattavo al quadro, ma pensava che non mi sarei mai ribellata. Si sbagliava. Ora so che posso vendicarmi. Ho bisogno del tuo aiuto.»
Veronica la fissò, cercando ancora di assimilare il fatto che Mia aveva seguito Boyd. Buon Dio, come aveva potuto trascurare quella possibilità? «Non... non sarai entrata? Ci sono continue irruzioni della polizia in quel locale.» «Che importa?» chiese Mia. «Sono qui, ora. Non mi è successo niente.» «Sì, ma...» Veronica si sforzò di apparire calma. «Boyd è un violento. Se ti ha vista, se ha riconosciuto la tua macchina...» «No, sono troppo furba per farmi scoprire. Quella mattina avevo portato la mia auto dal meccanico, che me ne ha data una sostitutiva per ventiquattr'ore.» Mia intrecciò le dita a quelle di Veronica. «Ho bisogno del tuo aiuto. Boyd fa qualcosa di morboso, qualcosa che gli creerebbe grave imbarazzo se si risapesse in giro. Qualcosa che gli farebbe perdere il posto. Qualcosa che farebbe di tutto per tenere nascosto.» Quando Veronica rimase zitta, Mia continuò: «Non capisci? Lui si preoccupa della sua reputazione. Possiamo approfittare di questo per ottenere quello che mi deve. È perfetto. Scattiamo delle foto mentre si dedica a quelle perversioni che cerca così disperatamente di nascondere, quali che siano. O giriamo un video. Possiamo assumere un investigatore privato...». Si portò una mano alla bocca. «No, un investigatore privato potrebbe fare il doppio gioco. Inoltre, per pagare, Boyd deve essere sicuro che nessun altro sappia in che cosa è coinvolto.» Guardò Veronica. «Boyd non ti conosce. Potresti seguirlo, scattare le foto, e...» «Mia, basta.» Veronica le posò le dita sulle labbra, gentilmente. «Quello di cui stai parlando si chiama ricatto. È un reato. E io lavoro alla procura distrettuale. Sarei espulsa dall'Ordine degli avvocati, e potremmo finire in prigione. Questi piani falliscono sempre.» «Questo non fallirebbe. Lo so.» «Sì che fallirebbe» replicò Veronica. «Credimi, ne ho visti tanti. E ogni volta il colpevole era convinto di farla franca.» Mia si irrigidì. «Hai detto che mi ami. Hai detto che faresti qualunque cosa per me.» «Certo che ti amo. E farò qualunque cosa per te, ma non questo.» Veronica abbassò la voce. «Dimentica questo piano, Mia. Non pensare a punire Boyd. Avrà il fatto suo, alla fine.» «Sciocchezze.» Mia si alzò e indossò la vestaglia, ma senza chiuderla. «È che non ti fidi abbastanza di me. Non credi in me.» «Questo non è vero.» Anche Veronica scese dal letto e le si avvicinò, addolorata. Non sopportava che Mia fosse arrabbiata con lei. Non soppor-
tava che pensasse che non l'amava. O peggio, che non ricambiasse più il suo amore. La strinse fra le braccia e le nascose il viso fra i capelli. «Non capisci, Mia? Non posso neppure pensare che ti succeda qualcosa di brutto. Non posso correre questo rischio.» «Ma mi è già successo qualcosa di brutto. Continua a succedermi.» Mia le gettò le braccia al collo. «Tu non dovresti fare altro che scattare le foto. Nessuno verrebbe mai a saperlo.» Un nodo strinse lo stomaco di Veronica. Non poteva perdere Mia. Sarebbe morta, senza il suo amore. «Metterò tutto a posto io, Mia. Te lo prometto. Solo, non lasciarmi. Non lasciarmi mai.» «Mai» confermò Mia, sfiorando appena le labbra di Veronica con le proprie. «Come potrei farlo? Tu rendi tutto perfetto.» CAPITOLO 19 «La signora Barton?» Connor mostrò il distintivo. «Connor Parks, FBI. Questa è l'agente Melanie May della polizia di Whistlestop. Grazie per averci ricevuti. Possiamo entrare?» Lei annuì e si fece da parte. «Non so come potrei aiutarvi. Ho detto alla polizia tutto quello che sapevo sulla notte in cui Don morì.» «Sì, ma a volte, col tempo, torna in mente qualcosa che si rivela importante.» La donna li fece accomodare in soggiorno e Melanie notò, sulla mensola del camino, la foto incorniciata di tre bambine. «Per quanto tempo è stata sposata con suo marito?» «Vent'anni. Quelle sono le nostre figlie, Ellie, Sarah e Jayne.» «Sono molto carine.» «Grazie. Sono cresciute, ora.» La donna sorrise e scelse un'altra fotografia. «Questa è stata scattata lo scorso Natale.» «Dev'essere molto orgogliosa di loro.» Connor rimase a osservare mentre Melanie metteva la donna a suo agio. Mentre parlavano, annotò il nome delle figlie, il luogo in cui vivevano, se erano nubili o sposate. «Le sue figlie avevano un buon rapporto con il padre?» si azzardò lui a domandarle a quel punto.
La donna si voltò nella sua direzione. «Non particolarmente.» «Perché?» Lei impallidì. «Sappiamo di Don, signora Barton» si intromise gentilmente Melanie. «Sappiamo che uomo era. Per questo sospettiamo che sia una delle vittime dell'Angelo nero.» Lei annuì e rimise la foto al suo posto. «Allora sapete anche perché le ragazze non avevano un buon rapporto con lui. Per questo Ellie e Sarah sono andate via di casa.» «E quella che vive qui a Charlotte?» «Jayne? È stata la mia salvezza. Lui non è riuscito a mandarla via.» Le posero alcune domande su Jayne, poi la interrogarono sulla sua vita quotidiana, le sue amicizie, i luoghi che frequentava. «Perché volete sapere delle mie amicizie?» La donna guardò dall'uno all'altro, a disagio. «Non penserete...» «Non pensiamo niente, signora Barton» la interruppe Connor. «Cerchiamo semplicemente delle piste da seguire.» Lei si torse le mani. «Non potete smettere? È morto, lasciate perdere.» Connor sollevò le sopracciglia. «Suo marito potrebbe essere stato assassinato. Ci sta suggerendo di lasciare un omicida in circolazione?» La donna fissò Melanie, con gli occhi colmi di lacrime. «Voi non avete conosciuto Don. Non avete vissuto con lui. Ora non... non ho più... paura.» «Signora Barton, capisco quello che prova» disse Melanie. «Conosco per esperienza personale quel tipo d'uomo. Ma uccidere è sempre sbagliato. E se lasciamo che anche una sola persona si sostituisca alle legge, se guardiamo dall'altra parte, che valori avremo da trasmettere ai nostri figli?» Si chinò verso la donna. «Può aiutarci?» Alla fine, la signora Barton diede loro una lista di sue amiche, e dei luoghi che frequentava con una certa regolarità. Avrebbero inserito quei dati nel computer assieme agli altri che avevano già raccolto, e avrebbero verificato se ce n'era qualcuno che coincideva. «Dovremmo parlare con la figlia che vive a Charlotte, giusto per sicurezza» osservò Connor, mentre salivano in macchina. «Forse sì, ma a mio parere è cercare un po' troppo lontano.»
«Non si sa mai dove si può arrivare, cercando lontano» ribatté Connor. Melanie sospirò. «Questa ricerca potrebbe non approdare a nulla. E allora, a che punto saremo?» Connor le scoccò un'occhiata. «L'Angelo non sarebbe andata avanti per tutto questo tempo, se non fosse stata molto prudente. Ma finiremo per prenderla.» «Sei così sicuro...» «Ci sono passato altre volte.» «Ma scommetto che le altre volte avevi vittime fresche, scene del delitto da studiare, prove da analizzare. Ora, quello che abbiamo è un certo numero di morti a cui, quando erano vivi, piaceva picchiare le donne.» «Saresti sorpresa di che cosa non ho, a volte. Sparisce un bambino. Sai che qualcosa è successo, ma non hai né un corpo né la scena di un delitto. Solo una famiglia nella disperazione. Oppure hai un corpo, o magari uno scheletro, e nient'altro. Neppure una teoria.» Connor sorrise, per mitigare la durezza delle parole. «Per questo si chiama lavoro investigativo.» «Perciò, smetti di lamentarti» concluse Melanie. «Ho capito. Ma, in questo dannato caso, tu ti domandi mai...» Si interruppe e scosse la testa. «Non importa.» Il semaforo davanti a loro divenne giallo, e Connor si fermò e la guardò. «Ci siamo dentro insieme. Ho bisogno di sapere tutto quello che pensi.» Lei esitò un attimo, poi disse: «Ti chiedi mai se queste morti non sono collegate? Se, come qualcuno ha suggerito, sono opera della giustizia divina? Forse mi sono sbagliata, Connor». «Non ti sei sbagliata. Non ci siamo sbagliati.» Il semaforo cambiò, e lui ripartì. «Inoltre, non credo in quel concetto di giustizia divina. Non credo che la mano di Dio possa raggiungere un individuo per punirlo singolarmente. Non può funzionare così. C'è troppa ingiustizia, troppo male al mondo.» Quando lei non rispose, le scoccò un'occhiata. «La signora Barton ti ha fatto una forte impressione, vero?» «Mi è sembrata un'ottima persona.» Un modo pulito per evitare la domanda. «Quell'uomo a cui hai accennato, quello con cui hai avuto un'esperienza diretta di abusi, chi era?» «Mio padre» rispose Melanie, con aria quasi di sfida. Connor tornò a guardare la strada. «Vuoi parlarne?»
«Non particolarmente. No.» «Sei sicura?» «Sì, maledizione, sono sicura» scattò lei. «Pensa a guidare, okay?» Connor controllò il retrovisore, poi deviò a destra, attraversando due corsie, e si fermò sul margine della carreggiata, guadagnandosi alcuni rabbiosi colpi di clacson. Spense il motore e si voltò a guardare Melanie. «No. Non è okay.» Lei strinse i pugni in grembo. «Non stuzzicarmi, Parks. Sono un po' irritata.» «Esatto. Ti spiace spiegarmi la ragione?» «In effetti, mi spiace. Perciò, potresti rimettere in moto questo ferrovecchio e ripartire?» «So qual è il problema.» Quando lei sollevò le sopracciglia, Connor sorrise. «È per l'altro giorno. Per quel bacio.» «Non è vero!» scattò Melanie. «Certo che lo è» ribatté lui, sforzandosi di conservare un'espressione impassibile. «E capisco. Probabilmente hai continuato a pensarci, e a chiederti quando mi sarei deciso a baciarti di nuovo.» «Sogni, Parks!» protestò lei, col viso in fiamme. Bene, reagisce nel modo giusto. «Sono sicuro che ti è difficile starmi vicino. Dopotutto, sono un uomo incredibilmente affascinante. E so che quel bacio deve averti fatto tremare la terra sotto i piedi.» Melanie scoppiò a ridere. «Affascinante? Tremare la terra? Spero proprio che tu stia scherzando, perché, in caso contrario, hai bisogno di un buon psichiatra.» Lui fece del suo meglio per apparire distrutto, ma non poté reprimere del tutto un sorriso. «Non c'è bisogno di ridere così forte. Anche gli uomini incredibilmente affascinanti hanno dei sentimenti.» Lei sbuffò, divertita. «Scusa se prima sono stata così brusca. Sì, la signora Barton mi ha fatto una forte impressione. E anche le altre. Tutto quello che hanno detto... l'ho riconosciuto. Perché ci sono passata, Connor.» Lui allungò una mano e la posò sulle sue. Invece di ritirarle, lei strinse le dita attorno alle sue. «Non ho sofferto, quando è morto. Anzi, ne sono stata contenta.» «Che cosa ti ha fatto?»
Connor si pentì della domanda ancora prima di terminarla. E non perché non erano affari suoi, o perché non gliene importasse. In realtà, temeva che gliene importasse anche troppo. Melanie esitò un momento, poi lo guardò negli occhi. Qualcosa gli disse che, parlando del suo passato, stava affrontando, e vincendo, ancora una volta le sue paure. «Ci maltrattava, verbalmente e fisicamente. O, per essere più chiara, ci picchiava e ci umiliava. Era un uomo cattivo. Crudele. Malvagio. Credo che traesse piacere dal tentare di distruggerci. Forse era il solo piacere della sua vita.» Soffocò un sospiro, poi continuò, anche se Connor poteva vedere quanto era penoso per lei. «Se la prendeva di preferenza con la più debole di noi, e cioè Mia.» Strinse i pugni. «Vorrei che se la fosse presa con me, piuttosto. Odiavo quello che faceva a Mia e Ashley. Ogni schiaffo a loro era uno schiaffo a me.» Una lacrima vinse il suo controllo e scivolò lungo la guancia. Connor trovò quell'unica lacrima più commovente di un pianto dirotto. Dovette fare uno sforzo per trattenersi dal prenderla fra le braccia e stringersela sul cuore. «Mi sono sempre sentita... in colpa, perché non ero io la sua vittima preferita.» Connor le strinse le mani. «Non capisci?» chiese, roco. «Lui lo sapeva. Sapeva che il miglior modo di ferirti era fare del male a loro. Sapeva che un attacco diretto non avrebbe spezzato il tuo spirito, ma la loro sofferenza e il tuo rimorso ci sarebbero riusciti.» Lei lo fissò come se capisse solo in quel momento. «Non avevo mai...» La voce le mancò, e per un lungo momento non disse nulla. Quando parlò di nuovo, la sua voce era cambiata. Si era fatta dura, tagliente. «Verso i tredici anni, cominciò a... molestare Mia.» «Buon Dio.» «Io lo misi a posto, però. Una notte si svegliò legato al letto, con un coltello alla gola. Gli dissi che, se avesse toccato di nuovo Mia, lo avrei ucciso. E lo avrei fatto. Ne sono sicura.» Melanie strinse le labbra. «Perciò, come posso condannare l'Angelo nero? Chi sono io per darle la caccia? Come posso predicare la legge e l'ordine davanti a donne come la signora Barton? Io, che avrei potuto uccidere. Che avrei ucciso.» «Come puoi?» la sfidò lui sottovoce. «È facile. Eri soltanto una bambina, spaventata e sola. Tu e le tue sorelle non avevate nessuno a cui rivol-
gervi, nessun posto dove andare. E così, ti facesti avanti per proteggere le persone che amavi. Questo fa di te una ragazzina eroica, non un mostro.» «Davvero? Non ne sono sicura.» Melanie si guardò le mani, riflettendo. «Ho ricevuto una telefonata, in ufficio, a proposito dell'Angelo nero. Era una donna. Mi ha accusata di essere una traditrice. Ha detto che mi conosceva, e mi ha chiesto: "Come hai potuto?". A volte me lo domando anch'io.» Connor si raddrizzò. «Quando è successo?» «Non molto dopo l'inizio delle indagini. Una settimana o due.» «Perché non me lo hai detto?» «Ho pensato che fosse qualche svitata. Si era parlato tanto del caso... e non ha più chiamato. Francamente, non mi sembrava importante.» «Tutto è importante, Melanie. Ogni dettaglio, per quanto insignificante possa apparire.» Connor tamburellò con le dita sul volante. «Ha detto che ti conosceva. Che cosa pensi che intendesse? Che ti conosce personalmente?» «Sul momento, non l'ho pensato. Non ho identificato la voce. Ma ora che me lo chiedi... Era come se conoscesse il mio passato.» «Poteva essere l'Angelo nero?» Melanie si irrigidì. «Non lo so. Tutto è possibile.» Guardò Connor. «Ho sbagliato, vero?» «Non prendertela. Ma, se chiama di nuovo, tienila in linea. Cerca di rintracciare la telefonata.» «Certo.» Rimasero in silenzio. I loro occhi si incontrarono. I secondi passavano, e l'interno del veicolo parve improvvisamente troppo caldo. Piantala, ora, Parks. Prima di commettere qualche stupidaggine. Connor si schiarì la gola e accese il motore. «Be', sono contento che ci siamo spiegati. E che tu non sia più irritata. Vedi che non succeda più.» Lei sorrise e scosse la testa. «Mi fai ridere, Connor Parks.» «Bene.» Lui controllò nello specchietto retrovisore, poi si inserì nel traffico. «Certo, avrei preferito che mi dicessi; Oh, Connor mi ecciti talmente! Ma mi accontenterò di farti ridere.» «Non sei mai serio?» protestò Melanie. «Sono sempre serio.»
«Connor?» «Mmh?» «A proposito di quel bacio...» «Un errore, giusto?» «Giusto.» «Lo pensavo. Ma ti ha fatto tremare la terra sotto i piedi?» «Oh, sì. Un terremoto.» «Meno male. A questo punto, il mio ego maschile è intatto.» Connor si immise sull'interstatale, diretto a ovest. «Che ne diresti di passare un po' di nomi al computer?» La stanza del motel puzzava di fumo di sigaretta. L'odore aveva permeato tutto, anche le pareti. Puzzava anche di qualcos'altro. Un odore sottile, ma acido, che sfidava l'immaginazione. Boyd era disteso sul letto, nudo, legato mani e piedi ai quattro angoli con delle corde. Cercò di muoversi, ma i legami erano troppo stretti, così stretti che sentiva un formicolio alle dita. Ebbe quasi un orgasmo solo pensando alle corde. O alla sua impotenza a muoversi. «Cattivo bambino» mormorò lei, facendogli scorrere sul pene le unghie affilate. «Non puoi avere un orgasmo. Capisci? Se succede, sarai punito.» Per sottolineare le parole, portò la mano ai testicoli, e strinse. Lui gemette e inarcò la schiena. Non sapeva che cosa lo eccitasse di più, se la minaccia della punizione o la dolorosa pressione sulle ghiandole. Dolore. Sottomissione. Essere dominato e punito. Ecco che cosa lo eccitava. La signora vestita di pelle lo sapeva. Teneva in pugno le chiavi del suo personale universo allo stesso modo in cui gli aveva stretto i testicoli un momento prima. Lei controllò i legami, poi gli bendò gli occhi. «Ho delle sorprese per te, stanotte» sussurrò. «Sorprese che ti faranno girare la testa. Che ti faranno sentire debole. E tutto mio.» Lui gemette di nuovo, estatico. Conosceva le regole. Non gli era permesso di parlare mentre erano insieme. Non doveva mai tentare di prendere l'iniziativa. La disobbedienza comportava una punizione rapida e severa. La peggiore era l'immediata cessazione del gioco. Non poteva permetterlo. Non quella sera. Perché quella sera, aveva giurato a se stesso, sarebbe stata l'ultima con
quella donna. A causa della minaccia di Mia. Perché, se continuava così, sarebbe stato scoperto. E, com'era accaduto a Charleston, licenziato con discrezione, per evitare all'ospedale lo scandalo. Era stato lui a inventare la storia di una moglie, e di come la sua morte improvvisa lo aveva spinto a cercare di ricominciare da capo in una nuova città. Quante volte un uomo che ormai si avvicinava alla cinquantina poteva ricominciare da capo? «Ora, la tua prima sorpresa.» Boyd sentì un fruscio che riconobbe, dopo anni in chirurgia. Un paio di guanti in lattice che venivano infilati. Voltò la testa in direzione del suono. Avrebbe voluto chiedere il perché dei guanti, ma si trattenne. Un breve lampo di paura gli contrasse le viscere. La paura lo eccitava. Non riconobbe il suono successivo, almeno fino a quando non sentì uno spesso nastro adesivo incollarsi alla sua bocca. Voleva protestare, ma non poté. Voleva avvertirla che il nastro adesivo poteva lasciare un segno, e che lui non poteva permetterselo. Ora, però, parlare era impossibile. La paura stava diventando disperazione. La realtà della sua totale impotenza gli strinse la gola. Tremava di impazienza. Di eccitazione. «Ricordi il nostro primo incontro?» gli sussurrò lei all'orecchio. «Ricordi che ti dissi che sarebbe stato così bello che avresti desiderato morire? Stanotte avrai la tua occasione, amore.» Faceva parte del gioco, si disse Boyd, lottando contro l'inquietudine. Un modo per accrescere il piacere. «Ho studiato il processo della morte» mormorò lei. «Per te. Perché sei medico, e così ho pensato di doverlo conoscere. Dopotutto, non voglio che resti deluso. Volevo che questa volta... quest'ultima volta, fosse la migliore che tu abbia mai avuto.» Lui ascoltava avidamente le parole, per metà terrorizzato, per metà esaltato. Confuso. Non ricordava. Le aveva detto che quella sarebbe stata la loro ultima notte insieme? Per forza, altrimenti come lo avrebbe saputo? «Credi nel paradiso, Boyd? Nell'inferno? Nel castigo divino? O credi che con la morte sia tutto finito?» Rise, passandogli sul pene la mano guantata di lattice, incombendo su di lui come un uccello da preda. «Queste chiacchiere sulla morte ti eccitano, vero? O è la consapevolezza di es-
sere completamente alla mia mercé?» Ancora una volta, lo portò sull'orlo dell'orgasmo, solo per afferrargli di nuovo i testicoli, all'ultimo momento. Il nastro adesivo soffocò il suo gemito. Lei schioccò la lingua. «Torniamo all'argomento. La tua imminente dipartita.» Gli sfilò il guanciale da sotto la testa. «A quanto ne so, amore, c'è una sequenza di eventi che conduce a quello che si chiama stato terminale. Può variare, a seconda delle cause, ma comporta sempre perdita di conoscenza, cessazione del battito cardiaco e della respirazione, e infine morte cerebrale. Ma tu lo sai.» Si chinò e lui sentì il suo respiro sulla guancia. «Non ti sto annoiando, vero? So che per te è ovvio, ma per me è piuttosto affascinante. Morboso, ma ugualmente affascinante.» La paura esplose dentro di lui. Cominciò a tremare, a lottare contro le corde. Quella fantasia non gli piaceva più. Voleva che lo liberasse. Voleva che lo rassicurasse. Invece, lei gli premette il guanciale sulla faccia, tenendolo fermo, contando ad alta voce. Fino a dieci. A venti. A trenta. Puntini luminosi gli danzavano davanti agli occhi e i polmoni cercavano disperatamente un po' d'aria. Lei tolse il guanciale, e Boyd respirò avidamente, quasi singhiozzando per il sollievo. «La sequenza a cui sono più interessata è la tua, tesoro. Vedi, nella morte per soffocamento, il cuore continua a battere per diversi minuti dopo che la persona perde conoscenza per l'anossia al cervello... la totale mancanza di ossigeno.» Gli mise di nuovo il cuscino sulla faccia, contò fino a cinquanta, poi lo tolse. «La macchina umana è incredibile. Trovo stupefacente il fatto che il cuore continui a battere. Davvero.» Sospirò. «Ma basta con i miei studi. Siamo qui per te. Questa è la tua notte speciale.» Boyd la sentì muoversi, e sussultò, credendo che stesse per mettergli ancora il guanciale sulla faccia. Lei, invece, cambiò solo posizione, come per mettersi più comoda. «Chissà come sarà?» rifletté la donna ad alta voce. «Sentirai tutti i tuoi organi cessare di funzionare? Vedrai la tua morte, come guardando i numeri luminosi sul pannello di un ascensore scendere e scendere, fino a quando non resteranno più altri piani?» Pur terrorizzato, Boyd lottò per non cedere al panico, sapendo che iperventilare non gli avrebbe affatto giovato. Era un gioco, si disse. Una messa
in scena per accrescere il suo piacere. Presto sarebbe finito. E poi, giurò a se stesso, mai più... «Se potessi parlare, quali sarebbero le tue ultime parole? Vorresti chiedere scusa? Invocare il perdono?» La voce della donna si indurì. «O supplicheresti egoisticamente per avere un'altra possibilità?» Si mosse, rapidamente. Servendosi dell'avambraccio, gli premette il guanciale sul viso, con forza, afferrandogli nello stesso tempo il pene. La sensazione era incredibile. In pochi secondi, i polmoni di Boyd cominciarono a bruciare. Eppure era ugualmente sull'orlo dell'orgasmo... Ora lei avrebbe sollevato il guanciale. Fra un attimo... Il suo cervello urlava per la mancanza di ossigeno. Togli il guanciale! Adesso, prima che sia troppo... Allora, Boyd capì la ragione del nastro adesivo. Serviva a impedirgli di gridare per chiedere aiuto. Urlò ugualmente. Ma il suono riverberò soltanto nella sua testa. La telefonata di Connor era giunta proprio mentre Melanie arrivava al quartier generale, di prima mattina. C'era stato un altro omicidio. Doveva presentarsi sul posto immediatamente. Connor si era rifiutato di dirle di più. Le aveva dato l'indirizzo e aveva riattaccato. Ora, Melanie sapeva perché. Sulla soglia della camera del motel, fissava il corpo sul letto, irrigidito nella morte, e provava un senso di déjà vu così forte da disorientarla. Aveva già vissuto quella scena pochi mesi prima. Solo, allora il corpo era quello di una donna. Una vittima che per lei era una sconosciuta. Ora, una parte di lei si rifiutava di credere a ciò che vedeva. Quelle cose non accadevano alle persone che conosceva. Delitti come quello toccavano solo altre famiglie, meno fortunate... Connor le sfiorò il braccio. «Stai bene?» Lei lo guardò e scosse la testa. «Era mio... mio cognato.» «Lo so. L'ho riconosciuto da un paio di foto di famiglia che ho visto a casa tua.» Melanie tornò a guardare la scena, cercando di recuperare il controllo. Respirò adagio, a fondo, fino a quando sentì tornare un po' del suo equili-
brio. Buon Dio, come farò a dirlo a Mia? Connor stava metodicamente esaminando la zona attorno al letto. Melanie tenne lo sguardo fisso su di lui. «Meglio?» «Non sto per svenire, né per vomitare, se è questo che intendi. Non ora, almeno» affermò lei. «Bene.» Entrò Pete Harrison. «May, Parks, ditemi che potete identificare il Principe Azzurro, qui.» «Infatti...» borbottò Melanie, stringendo i denti. «Si chiama Boyd Donaldson, primario di chirurgia al Queen's City Medical Center. Era mio cognato.» «Oh, diavolo.» Pete tirò fuori un piccolo taccuino dal taschino della giacca. «Sapevi che aveva abitudini sessuali particolari?» «No.» «E tua sorella? Anche lei...» «No. Assolutamente no.» «Sai qualcosa sul loro matrimonio?» «Era in crisi. Mia sorella riteneva che lui avesse una relazione.» «Ti ha detto un nome?» «No.» «Ed era turbata per la sua infedeltà?» «Era suo marito. Vedi tu.» Lui sollevò le sopracciglia. «Non c'è bisogno di essere così suscettibile.» «E invece sì» ribatté Melanie. «In questo momento, non solo sto cercando di assimilare il fatto che mio cognato è stato assassinato, ma mi chiedo anche come farò a dirlo a mia sorella. Mettiti un po' nei miei panni.» Lui sospirò. «Mi dispiace, Melanie. Solo un altro paio di domande. Credi che tua sorella conoscesse questi suoi... gusti?» «Dovrai chiederlo a lei.» «Quando le hai parlato per l'ultima volta?» Melanie rifletté. «Circa una settimana o dieci giorni fa.» «Normalmente rimanete così a lungo senza sentirvi?» «No. Di solito, ci sentiamo quasi ogni giorno. Ma sono stata molto im-
pegnata con le indagini sull'Angelo nero.» Ora le sembrava una ben povera scusa, anche se Pete mormorò che la capiva, che c'era passato anche lui. Lei e le sue sorelle erano sempre state inseparabili. Che cosa era successo nello spazio di poche settimane? «Avremo bisogno di parlare con lei. Al più presto.» «Certo.» Melanie guardò Connor. Accosciato vicino al letto, fissava nel vuoto, pensieroso. E lei ormai lo conosceva abbastanza da riconoscere quello sguardo. Stava riflettendo su qualche osservazione, cercando di dare un senso a qualcosa che non quadrava. «Vorrei essere io a informare mia sorella» disse Melanie, rivolta a Pete. «Considerando le circostanze...» «D'accordo.» Lui indicò il suo compagno che, dall'altra parte della stanza, stava raccogliendo gli elementi di prova. «Roger e io verremo con te.» Sentendo il suo nome, Stemmons si avvicinò, rivolgendosi a Connor. «Be', Parks, avevamo bisogno di qualcosa di nuovo su questo caso, e ora lo abbiamo, eccome.» Questo caso, Melanie lo sapeva, era quello dell'omicidio di Joli Andersen, che era ormai a un punto morto. Connor si alzò. «L'apparenza può ingannare. Per ora, non ne parlerei alla stampa o a Cleve Andersen.» L'altro arrossì. «Sai, Parks, ne ho fin qui...» accennò a un punto sopra la testa, «... delle tue elucubrazioni. Nessuna ha fatto progredire le indagini. Questa scena è la replica del delitto Andersen, fino alla bottiglia di champagne.» «Esatto» confermò Connor. «Una replica.» Melanie lo guardò, sorpresa. «Pensi a un'imitazione?» Roger la ignorò e cominciò a contare sulle dita. «Uno, entrambe le vittime sono state legate mani e piedi al letto. Due, entrambe sono state soffocate con un cuscino, e la loro bocca sigillata con il nastro adesivo. Entrambe hanno subito penetrazioni artificiali, dopo la morte.» «È una tua ipotesi.» «Mi pare evidente, ma, fino a quando il medico legale non avrà fatto il suo lavoro, sì, è una mia ipotesi.» «Hai altro?» chiese Connor.
«Puoi scommetterci. Entrambi gli omicidi sono avvenuto in motel da quattro soldi attorno alla mezzanotte. E poi ci sono il nastro adesivo e lo champagne, due particolari che non sono stati comunicati alla stampa.» «E la benda sugli occhi?» chiese Connor. «Non ricordo che Joli Andersen sia stata bendata.» «Il suo rituale si evolve» ribatté l'altro. «Succede. Proprio tu dovresti saperlo.» Un agente in uniforme si avvicinò a Pete. «Ho parlato con l'impiegato del turno di notte. Ha detto che ha dato la camera al dottor Donaldson alle undici e trentacinque. Ha visto una macchina uscire dal posteggio verso l'una, con una donna bionda al volante. Non ha preso la targa, ma ritiene che la macchina fosse una berlina di medie dimensioni, di colore scuro.» Pete si rivolse a Melanie. «Tua sorella è bionda come te?» «Sì» rispose Melanie, irritata per l'insinuazione. «Andiamo a fare due chiacchiere con lei, allora.» CAPITOLO 20 Mia era in casa. Una parte di Melanie aveva desiderato che non ci fosse, in modo da rimandare ancora un po' l'inevitabile. «Melanie?» Il sorriso che aveva illuminato il viso di Mia alla vista della sorella svanì quando, dietro di lei, vide Connor e i due detective. «Che succede?» Melanie le tese una mano. «Mia, cara, possiamo entrare?» Lei scosse la testa, impallidendo. «Non fino a quando non mi avrete detto...» Si portò una mano alla bocca. «Si tratta di... Ashley? Le è...» «Si tratta di Boyd, Mia. È morto.» Mia fissò Melanie, impallidendo ancora di più. «Morto?» ripeté. «Ma come... Non è poss... Non capisco.» «Mia...» Melanie respirò a fondo. «È stato ucciso la notte scorsa.» Mia emise un gemito soffocato e barcollò. Connor si fece avanti e la sorresse. «Sto bene» sussurrò lei. «Io... Entrate.» Li condusse in soggiorno, facendo cenno di sedersi, poi, come se le
gambe non la reggessero più, crollò sul divano. Melanie si sedette accanto a lei. Anche Pete e Roger si misero a sedere. Connor rimase in piedi. «Come?» chiese Mia, guardando Melanie. «Chi...?» Lei coprì le sue mani intrecciate con la propria. «Non sappiamo chi» rispose, scegliendo di glissare sul come, per il momento. «I detective hanno qualche domanda da farti. Te la senti?» Quando Mia annuì, Melanie le presentò Connor e i due investigatori del CMPD. Da quel momento, Pete assunse l'iniziativa. «Signora Donaldson» cominciò, «mi spiace doverla disturbare in un momento simile, ma, in un caso di omicidio, ogni minuto è prezioso.» «Capisco.» Mia si aggrappò alla mano di Melanie. «Come posso aiutarvi?» Pete tirò fuori il taccuino. «Quando ha visto per l'ultima volta suo marito?» «Ieri mattina, prima che andasse al lavoro.» «E dopo, non lo ha più visto?» «No.» Mia si schiarì la gola. «Aveva un impegno di lavoro ieri sera, a Columbia. Mi ha detto che avrebbe passato la notte là.» «Capisco.» «Ci siamo sentiti durante il giorno, però.» «A che ora?» Lei rifletté. «Verso le quattro. Mi ha chiamata per rammentarmi che avrebbe passato la notte fuori.» Pete prese un appunto, poi tornò a guardarla. «Suo marito aveva spesso impegni del genere? Che lo tenevano lontano da casa la notte?» Mia scoccò un'occhiata a Melanie. «Sì.» «Tutta la notte?» «No, non tutta la notte. Solo fino a molto tardi.» «Avrebbe definito felice il suo matrimonio, signora Donaldson?» A quel punto, Melanie si irrigidì leggermente, sapendo che Pete stava mettendo alla prova Mia, cercando di coglierla a mentire. Mia chinò la testa. «No...» sussurrò. «Decisamente non era un matrimonio felice.» Guardò di nuovo Melanie. «Lui... credo che avesse un'amante.» I due detective si scambiarono un'occhiata, come se avessero appreso
qualcosa di importante. Melanie sapeva che era una tattica, un modo per turbare un testimone facendogli credere di aver detto qualcosa di compromettente. Funzionò. Mia si agitò sul divano, con aria colpevole. Melanie represse la protesta che le era salita alle labbra e scoccò un'occhiata a Connor, che si aggirava per la stanza con aria assente, come se non prestasse attenzione alle domande. «Non lo sa per certo?» chiese Pete. «Lui non lo ha mai ammesso, ma io... Una moglie sa, detective.» «Capisco.» Pete si schiarì la gola. «Quando dice che non ha mai ammesso di avere un'amante, significa che lei ha affrontato l'argomento?» «Sì.» «E lui, come ha reagito?» Mia guardò Melanie. Lei annuì leggermente, e Mia continuò: «Si è infuriato e... e mi ha picchiata». Connor, che stava osservando le fotografie incorniciate posate sul piano a mezza coda, si voltò a guardarla da sopra la spalla. I due del CMPD si scambiarono occhiate eloquenti. Melanie si agitò sul divano, a disagio per sua sorella. Umiliata per lei. «L'ha picchiata? Lo faceva spesso?» «No, lui...» Mia cominciò a tremare. «Mio marito è stato assassinato!» esclamò. «Perché mi fate queste domande? Che importanza può avere?» «Secondo noi, sono pertinenti, signora Donaldson.» Pete sorrise, nel tentativo di guadagnarsi la sua fiducia. «Ancora solo qualche domanda, poi avremo finito. Sa per caso chi frequentava suo marito? Ha qualche sospetto?» «No.» «Dov'era lei, la notte scorsa?» «Io?» Mia parve sorpresa. «A casa.» «Sola?» «Sì.» Melanie conosceva la routine. Sua sorella Mia sarebbe stata la principale indiziata, poiché le statistiche dimostravano che la maggioranza degli omicidi era commessa da persone strettamente legate alla vittima: parenti, amici, soci in affari. «Sapeva che suo marito aveva abitudini sessuali particolari?» Mia impallidì. «Scusi, che cosa...»
«Gusti particolari. Sadomaso, manette, cose del genere.» «No.» Lei scosse la testa. «No.» «Voi due non...» Mia parve inorridita. «Dio, no.» «C'è qualcuno che può confermare dov'era stanotte?» «Gliel'ho detto, ero sola.» La voce di Mia si fece isterica. Si rivolse a Melanie. «Tu mi credi, vero?» «Certo che ti credo» affermò la sorella, pensando che, a seconda di quale sarebbe stata la prossima domanda, le avrebbe consigliato di non rispondere se non dopo aver consultato un avvocato. «Rifletti, Mia. Hai parlato con qualcuno al telefono? O qualcuno è passato a trovarti?» «Oh, sì. Ho parlato con un'amica. Veronica Ford. Due volte.» «Ricordi a che ora?» chiese Melanie, precedendo Pete. Lei rifletté un momento. «Mi ha chiamata verso le dieci. Poi di nuovo... non lo so. A mezzanotte e mezzo, più o meno.» «Mezzanotte e mezzo?» si intromise per la prima volta Roger. «Non è un po' strano?» «Strano?» Mia parve confusa. «Veronica sapeva che ero sveglia, perché... perché ero turbata. Era preoccupata per me.» «Perché?» Mia scosse la testa. «Mio marito aveva un'amante... Passava la notte fuori... Ho immaginato... lo sa.» «Che passasse la notte con la sua amante?» Lei annuì. «Ma non ha cercato di controllare?» Mia si abbandonò contro i cuscini, esausta. «No» sussurrò, chiudendo gli occhi. «Non avrebbe fatto alcuna differenza.» Melanie le strinse la mano, rassicurante. «Credo che basti, per ora.» Pete scorse i suoi appunti. «Okay. Vediamo solo se ho scritto tutto. Così, lei ha parlato con la sua amica...» «Veronica Ford, assistente del procuratore distrettuale» chiarì Melanie, sapendo che la qualifica di Veronica avrebbe giovato a Mia. «Prego?»
«Avvocato Veronica Ford, assistente del procuratore distrettuale» ripeté Melanie. «Capisco.» Pete si schiarì la gola. «Ha visto o ha parlato con qualcun altro?» «No...» Mia si interruppe. «Aspetti, sì. Ho visto la mia vicina, la signora Withman. Circa alle dodici e un quarto. Stava chiamando il gatto, quando io sono uscita sulla terrazza a fumare una sigaretta.» Melanie ringraziò in cuor suo il cielo. Fra le telefonate e il gatto della signora Withman, sua sorella aveva un alibi. «Un'ultima domanda, signora Donaldson. Amava suo marito?» «Per l'amor del cielo!» Melanie balzò in piedi. «Che razza di domanda...» «Non fa niente, Mel» mormorò Mia, interrompendola. Guardò Pete dritto negli occhi. «Sì, amavo mio marito. Moltissimo.» Pete chiuse il taccuino e si alzò. Roger lo imitò. «Grazie per il suo aiuto, signora Donaldson. Ci terremo in contatto.» «Aspettate!» esclamò Mia, alzandosi a sua volta. «Come è... Non mi avete detto com'è...» «Morto?» «Sì.» Melanie mise una mano sulla spalla di Mia, per sostenerla. «È stato soffocato, signora Donaldson. I suoi... gusti lo hanno messo in una situazione da cui non è più potuto uscire.» Quando Melanie arrivò a casa, quel giorno, erano le sette passate e si stava facendo buio. Era rimasta con Mia fino al tardo pomeriggio, quando Veronica aveva potuto lasciare l'ufficio. Qualunque esitazione che potesse avere nel lasciare Mia con Veronica, era caduta quando aveva visto l'accoglienza che sua sorella le aveva fatto. Era evidente che trovava conforto nella sua presenza. Dopo aver lasciato Mia, promettendole di chiamarla più tardi, cosa che aveva fatto diverse volte, Melanie era andata direttamente al quartier generale del CMPD per informarsi sui progressi delle indagini. Dopo che Harrison e Stemmons, sorprendentemente disponibili, l'ebbero aggiornata, era tornata a Whistlestop. Al suo capo era bastata una sola occhiata per ordinarle di filare subito a casa e, quando lei aveva cercato di protestare, aveva affermato che non voleva vedere la sua faccia per trentasei ore, punto e basta.
Perfino Stan era stato conciliante. Aveva saputo dell'omicidio di Boyd e le aveva telefonato, offrendosi di andare a prendere Casey all'asilo e tenerlo con sé per quella notte, o per tutta la settimana, se necessario. Temendo che i suoi motivi fossero un po' troppo egoistici, Melanie aveva accettato solo per quella sera, rassicurandolo che stava benissimo. Già, proprio. Era a un pelo dal crollare in pezzi. Un lungo bagno caldo, pensò. Un bicchiere di vino e un panino, e sarebbe stata come nuova in un batter d'occhio... a patto di non chiudere mai più gli occhi, si corresse amaramente. Perché, ogni volta, rivedeva il corpo di Boyd, disteso in una perversa X, di un colore bianco grigiastro nella morte. La verità era che non sarebbe mai più stata come nuova. Pensò a Connor, alle cose che doveva aver visto in anni di lavoro, alle offese alla natura, alle donne, ai bambini, alle famiglie. Un tempo, pensava di essere dura. Ma dopo quel giorno... Come riusciva Connor a sopportare le atrocità che aveva visto? Come poteva dormire la notte? Aveva trovato il modo di chiuderle in uno scomparto del cervello, sigillando il coperchio? Doveva chiedergli di insegnarle il trucco. Come evocato dai suoi pensieri, Connor era là, seduto sui gradini di casa sua, con accanto una scatola da pizza e una bottiglia di vino. Quando Melanie svoltò nel vialetto, si alzò. E sorrise. Un'ondata di puro, dolcissimo piacere la travolse, cancellando per un momento le brutture della giornata. E in quel breve momento, Melanie si rese conto che non era mai stata altrettanto felice di vedere qualcuno. La scoperta la sorprese, ma solo per un attimo. Riconobbe che a un certo punto, nelle settimane trascorse, Connor Parks aveva cessato di essere un collega ed era diventato un amico. Lui si avvicinò alla jeep. «Ciao» disse, aprendole la portiera. «Ho pensato che saresti stata affamata, ma troppo stanca per preparare qualcosa di più di un panino con il burro di arachidi.» Melanie scese dalla jeep e sorrise. «Hai pensato giusto. Tranne che sto morendo di fame e che ho finito il burro di arachidi, perciò sarebbe stato un panino con la marmellata.» Si incamminarono insieme verso casa. «È un bene che sia passato da qui, allora.» «A dire la verità, mi hai salvato la vita.» Mentre lei apriva la porta, Connor raccolse la pizza, Melanie vide che
erano due scatole, non una, e il vino. «Casey è con suo padre?» Melanie accese la luce. «Considerata la giornata, ho pensato che fosse meglio.» «Ho portato una pizza solo al formaggio, in caso ci fosse stato anche lui. So che a volte i bambini hanno gusti difficili.» Melanie sorrise, commossa dalla sua premura. «Per noi, invece, ho portato la più grande pizza farcita con tutto quello che avevano» continuò lui. «Proprio come piace a me.» Melanie prese le scatole e la bottiglia. «Siediti. Preparo in un attimo.» «Assolutamente no.» Connor indicò il divano. «Tu ti siedi, e io cerco tutto quello che occorre.» «Ma...» «Niente ma. È un ordine.» Connor posò la pizza sul tavolino. «Pensavo di mangiare qui. Okay?» «Sicuro. Non dimenticare che ho un figlio di quattro anni.» «Allora, siediti. E smettila di guardarmi male. Me la caverò benissimo.» Lei cedette e si lasciò cadere sul divano. «Non sapevo che voi ragazzi dell'FBI foste così prepotenti.» «Oh, sì.» Connor si fermò sulla porta di cucina e le sorrise. «Seguiamo un apposito corso. Dopotutto, dobbiamo essere prepotenti, per far filare voi sbirri locali.» Melanie gli lanciò un cuscino, ma lui lo scansò, entrando in cucina. Lei si appoggiò all'indietro e chiuse gli occhi. In un attimo, l'immagine di Boyd le colmò la mente, e dovette riaprirli di colpo. Altro che riposare e rilassarsi... Connor comparve sulla soglia. «Hai un cavatappi?» «Nel cassetto sotto il telefono.» Lui sparì di nuovo. Pochi attimi dopo ricomparve con un bicchiere e la bottiglia aperta. Le versò il vino e glielo posò davanti. «Vorrei che mi permettessi di aiutarti» protestò Melanie. «Impossibile.» Connor indicò il vino. «Assaggia, per favore. Se non è buono, avrò la testa del negoziante. Mi ha assicurato che ti sarebbe piaciuto.» Lei assaggiò. «Delizioso.» «Bene. Mi sarebbe dispiaciuto fare del male a quel tizio. Torno subito.»
Infatti, Connor tornò un momento dopo con piatti, tovaglioli, posate e un bicchiere di Coca per sé. Servì a entrambi una fetta di pizza, e Melanie non si fece pregare. Mangiarono per qualche minuto in silenzio. In breve, Melanie cominciò a sentirsi meglio. Finì la sua pizza e si appoggiò allo schienale, con il bicchiere di vino fra le mani. «Grazie» disse. «Ne avevo bisogno più di quanto credessi.» Connor si servì un'altra fetta di pizza. «Lo immaginavo.» «Ci sei passato, eh?» «Troppe volte per contarle.» Ci fu un altro silenzio. Melanie appoggiò la testa all'indietro e sorseggiò il vino, guardando Connor mangiare. Alla fine, lui chiese: «Come sta Mia?». «Come puoi immaginare. Veronica si è offerta di restare con lei, e io sono rimasta fino al suo arrivo. Il medico le ha prescritto un sonnifero, in caso di necessità.» Melanie pescò un pezzo di salsiccia rimasta nel piatto. «Ti sei tenuto in disparte, oggi. Specie a casa di mia sorella.» «Sì.» «Perché?» «È il mio modo di fare. Mi piace assimilare l'ambiente. Ascoltare. Osservare il comportamento delle persone.» Melanie si irrigidì. «Mia non ha nulla a che vedere con l'omicidio di Boyd» dichiarò in tono di sfida. Lui non la contraddisse. «L'omicidio di Boyd non è neppure collegato a quello di Joli. Abbiamo a che fare con due assassini diversi. Su questo non ho dubbi.» «Pensi ancora a un'imitazione?» «E molto abile.» Connor spinse da parte il piatto. «Pensaci, Melanie. Questo tipo di delitto è sempre motivato sessualmente. Perché questo serial killer dovrebbe cambiare all'improvviso il sesso della sua vittima?» Melanie non poté controbattere la sua logica. Era un'idea che aveva avuto anche lei, al motel. «E quanto al nastro adesivo e allo champagne?» «Lo champagne era di una marca diversa. L'assassino di Joli avrebbe scelto la stessa. In questo tipo di omicidi, il rituale è molto preciso.» Connor tacque un momento, poi proseguì: «Qui la scena è stata montata ad arte. L'assassino di Joli era disorganizzato. La stanza era piena di ogni genere di tracce e impronte. Questo, invece, è estremamente organizzato. La
scena del delitto era pulita come una stanza d'ospedale. Scommetto che non troveranno niente». «E la penetrazione del cadavere?» «Una formalità, solo per le apparenze. Scommetto che il medico legale lo confermerà.» Melanie rifletté. Bastava aggiungere la benda sugli occhi, ed ecco che le differenze superavano le somiglianze. «Ma perché copiare l'omicidio di Joli Andersen? E perché mio cognato?» «Sulle prime, neppure io sapevo il perché, né il chi. Non fino a quando siamo stati a casa di tua sorella.» Lei lo fissò, incredula. «Sai chi è stato?» «Pensaci, Mel.» Connor si chinò verso di lei. «Lo sai anche tu.» Lei aprì la bocca per dirgli che non era vero, che le sue capacità di osservazione non arrivavano a tanto. Ma la richiuse senza parlare. La verità la colpì come un fulmine. «Oh, mio Dio...» sussurrò. «Ma certo. L'Angelo nero.» «Centro. Boyd picchiava la moglie. Ed è morto proprio come gli altri... vittima delle sue debolezze.» «Non riesco a credere di non averlo capito subito.» «Non prendertela. Avevi ben altro da pensare, oggi, che a essere un poliziotto.» Melanie tornò ad appoggiasi all'indietro, riflettendo sugli avvenimenti della giornata e sulle informazioni che avevano raccolto fino a quel momento. Si portò una mano alla bocca. «Non pensi che l'assassino potrebbe aver scelto Boyd a causa mia? Il mio nome come uno dei maggiori incaricati delle indagini è stato molto pubblicizzato. Non è strano che abbia colpito un membro della mia famiglia?» «Ci ho pensato, ma non credo. Visto il modo in cui lavora, il tempo che le occorre per entrare in contatto con le vittime, probabilmente l'Angelo aveva già messo gli occhi su Boyd prima che il caso diventasse di dominio pubblico.» Connor si concesse una pausa, poi aggiunse: «Fa' un po' di conti. Prima, ha dovuto sceglierlo come obiettivo, poi individuare la sua particolare debolezza e insinuarsi nella sua vita. Guadagnarsi la sua fiducia. Dopotutto, Boyd era un eminente chirurgo, era abituato a tenere segreta la sua doppia vita, non era disposto a giocare a frusta e manette con chiun-
que. Penso che fosse molto prudente. E anche lei. Lavoriamo a questo caso da sei settimane. L'Angelo ha avuto bisogno di più tempo». Melanie rifletté. «Oh, mio Dio... significa che se abbiamo visto giusto sulle motivazioni dell'Angelo...» «Allora Mia conosce l'assassina.» Lei rabbrividì. «Quelli del CMPD non crederanno a una sola parola di tutto questo.» «Al principio, no. Ma, quando studieranno la scena, le differenze con il caso Andersen diventeranno troppo evidenti per ignorarle. Saranno costretti a salire sulla nostra barca.» Melanie sospirò. «Abbiamo un'altra vittima. Sangue fresco.» «Mi dispiace.» Lei guardò Connor. «Boyd non mi è mai piaciuto. Pensavo che ci fosse qualcosa di... non giusto, in lui. Qualcosa di disonesto. Ma era stata Mia a sceglierlo.» Abbassò gli occhi. Non sembrava giusto parlare di Boyd in quel modo, ora che era stato assassinato. Ma aveva bisogno di confidare a Connor come l'aveva pensata su di lui. «Faceva soffrire troppo mia sorella. Lo odiavo per questo. Ero così infuriata che pensavo che avrei potuto... fargli del male io stessa. Eppure... morire come è morto...» La voce le si spezzò. «È stato orribile, davvero.» Connor la prese fra le braccia. Lei lo strinse alla vita e gli appoggiò la testa sul petto, confortata. Non pianse, anche se una parte di lei desiderava disperatamente farlo. «Vorrei poter fare qualcosa» mormorò lui dopo un po'. «Lo so. Grazie.» Melanie alzò la testa a guardarlo. «Come fai tu?» chiese, a bassa voce. «Come fai a vedere le cose che vedi e a... mantenere la giusta prospettiva?» La gola le si strinse, e se la schiarì. «Come puoi chiudere gli occhi e non vedere tutte le vittime?» «È più facile, col tempo» mormorò Connor. «Diventi più insensibile. E, se hai fortuna, la notte non sogni.» Le passò le dita fra i capelli, ravviandoli delicatamente. Era una sensazione deliziosa. «Ti ammiro» sussurrò. «Quello che fai. Il modo in cui...» Lui la interruppe con una risata aspra. «Non ammirarmi, Melanie. Per la maggior parte del tempo, riesco appena a tenere duro. Per non mettere in imbarazzo l'FBI, per non bere, per non
sprofondare in un pozzo di cinismo e autocommiserazione.» Non era vero. Era un uomo forte. Un uomo onesto. Che aveva sentimenti profondi, troppo profondi, forse. Melanie gli prese il viso fra le mani, scrutando le ombre nei suoi occhi, cercando la comprensione, il contatto fra due persone, la scintilla che lo avrebbe acceso, e forse... solo forse... avrebbe scacciato il freddo. Voleva stare con lui. Voleva fare l'amore con lui. La verità la colmò di un senso di meraviglia. Di incredulità. Di gioia. Era tanto tempo che non desiderava un contatto così intimo, totale, con un altro essere umano... tanto che si era chiesta se lo avrebbe desiderato mai più. Gli fece scivolare le mani sulle spalle, lungo le braccia. Gli prese le mani, intrecciò le dita alle sue e si alzò, tirando in piedi anche lui. Senza domande, spiegazioni o dubbi, lo condusse in camera da letto. Là, Connor esitò. «Sei sicura?» chiese. «Voglio che tu lo sia...» Melanie gli posò le dita sulle labbra. «Sì» sussurrò, «non sono mai stata più sicura di qualcosa in vita mia.» E così, fecero l'amore. Caddero sul letto, stringendosi, baciandosi, senza parlare. Si svestirono a vicenda, aiutandosi contro allacciature ostinate e biancheria tenace, ma senza alcun imbarazzo, senza alcuna incertezza. Fu perfetto. Lui era perfetto. Dopo, rimasero l'uno fra le braccia dell'altro, aspettando che i loro cuori riacquistassero il ritmo normale. «Dovrei andare» mormorò Connor. «No.» Melanie gli si raggomitolò contro. «Resta.» «Sei sicura?» Lei sorrise. «Me lo hai già chiesto una volta, stasera. La risposta non è cambiata.» «Bene.» Connor le nascose il viso nella curva del collo. «Dormi. Io resto di guardia.» «Di guardia?» Lei si voltò leggermente per guardarlo. «Contro che cosa?» «Gli incubi.» L'emozione la soffocò. Non poté parlare, perciò gli appoggiò semplicemente la testa sulla spalla. E, quando chiuse gli occhi, gli incubi rimasero lontano. Melanie aprì gli occhi di colpo. Istantaneamente sveglia, si rese conto di
alcune cose tutte assieme. Era ancora notte, la temperatura era scesa e lei era sola. Si voltò. Il guanciale accanto a lei recava ancora l'impronta della testa di Connor, ma le lenzuola erano fredde. Chiuse gli occhi, ferita. Le aveva detto che sarebbe rimasto, che avrebbe montato la guardia. E, invece, era scivolato via mentre lei dormiva. Era questo che l'aveva svegliata?, si chiese. Il lieve rumore della porta di casa che si chiudeva? O il fatto che era rimasta sola? O qualcos'altro? Qualcosa di oscuro e pauroso? Gli avvenimenti del giorno prima le balzarono alla mente. Il corpo di Boyd, lo sgomento di Mia, la tenerezza di Connor. L'assenza di Ashley. Ashley. Melanie corrugò le sopracciglia. Non si erano più parlate dopo la discussione del sabato precedente. Lei aveva telefonato ogni giorno, lasciando messaggi di scusa sulla segreteria della sorella, ma Ashley non l'aveva richiamata. Il giorno prima, Melanie aveva telefonato un'altra volta e aveva lasciato un messaggio sia a casa, sia sul servizio di segreteria telefonica del cellulare. Ancora una volta, Ashley non aveva richiamato. Ma doveva avere saputo della morte di Boyd. Doveva essere la notizia del giorno, in qualunque punto dello stato Ashley si trovasse per lavoro. Anche tenendo conto di come si era comportata stranamente, di com'era stata arrabbiata e gelosa per l'intrusione di Veronica nella loro vita, avrebbe dovuto telefonare. Dopotutto, il marito di sua sorella era stato assassinato! Era successo qualcosa. Ashley era nei guai. Melanie rotolò sul fianco e si strinse al petto il guanciale di Connor. L'odore di lui le colmò i sensi, anche mentre le balenava davanti agli occhi l'immagine di Boyd, bendato, con la bocca tappata, grottesco nella morte. Lottò contro quell'immagine, cercando di pensare a Mia. Guardò la sveglia sul comodino, chiedendosi se era riuscita a dormire. Aveva avuto l'intenzione di chiamarla prima di andare a letto, ma se n'era dimenticata. Aveva avuto altre cose in mente. Connor. Guardò di nuovo la sveglia, con il cuore stretto, sentendosi vuota e sciocca. Bella sorella, era. Nel momento in cui Mia aveva bisogno di lei, se la spassava con un uomo che non aveva neppure la delicatezza di dirle: Ci vediamo, bambola. Per fortuna, Mia era in buone mani. Veronica aveva promesso di restare
con lei per tutta la notte. Melanie corrugò le sopracciglia, ricordando come le due donne si erano aggrappate l'una all'altra. Un gesto che denotava non solo, e non tanto, sgomento e dolore, ma che lasciava trasparire qualcos'altro, qualcosa di strano e fuori posto. Per l'amor del cielo! Melanie si alzò a sedere e gettò giù dal letto il guanciale di Connor. Immaginava le cose più folli. Prima a proposito di Ashley, e ora di Mia e Veronica. Era stanca e nauseata e si sentiva piuttosto ridicola per come si era comportata con Connor. Maledizione, come avrebbe fatto a guardarlo in faccia? Scese dal letto, agguantò la vecchia vestaglia di ciniglia e se la infilò. Una tazza di camomilla, pensò. E il libro giallo che stava impiegando un'eternità a leggere. Andò a prendere il libro, ma sulla soglia del soggiorno si fermò, sorpresa. Connor era alla finestra, immobile, di spalle. Nel gioco di luci e ombre del chiaro di luna, sembrava più una statua che un uomo in carne e ossa. Lui avvertì il suo sussulto e si voltò. Alla luce della luna, Melanie vide che stava piangendo. Si era offerto di tenere a bada i suoi incubi. E anche lui aveva i suoi da combattere. Il cuore di Melanie si strinse. Connor non aveva voluto che lei lo vedesse così. Lo capì dal modo in cui si irrigidì, cercando visibilmente di dominarsi. «Ti ho svegliata» mormorò. «Mi dispiace.» «No.» Melanie fece il gesto di tendergli la mano, poi la lasciò ricadere. «Credevo che fossi andato via.» «Non me ne sarei mai andato senza salutarti.» Connor si voltò di nuovo verso la finestra, ma poi la guardò da sopra la spalla. «Quella storia che mi hai raccontato su tuo padre e Mia, e su ciò che hai fatto per proteggerla. Non riesco a smettere di pensarci.» Tornò a guardare la notte. Il silenzio si prolungò, insostenibile. «Che c'è, Connor?» chiese Melanie alla fine. «Con le cose che hai visto, la mia storia...» «Si tratta di te, Melanie. Tu faresti qualunque cosa per proteggere la tua famiglia. Mentre io non ho fatto abbastanza.» Ancora una volta, lei fece per tendere la mano, poi rinunciò. Sentiva che non voleva essere toccato. «Avevo una sorella.» L'ombra di un sorriso gli sfiorò le labbra. «Suzi.» La sua voce si addolcì. «Era una cara bambina. Buona. Il tipo che portava
sempre a casa animali randagi o aiutava qualcuno nei pasticci. Avevo dodici anni più di lei. Fui io ad allevarla, dopo che i nostri genitori morirono in un incidente. In molti sensi, ero più suo padre che suo fratello. E poi, lei crebbe. E io volli fare la mia vita.» Ci fu un silenzio, doloroso. «Ero indaffarato a Quantico, fiero di me stesso e del lavoro importante che facevo. Mi telefonò. Era spaventata. Aveva bisogno che andassi a casa.» La sua voce si fece roca. «Le dissi di crescere. E poi, lei morì. Assassinata.» Respirò a fondo. «Se fossi andato a casa... Se non fossi stato così pieno di me...» Lasciò la frase in sospeso e riprese: «Il suo corpo non fu mai ritrovato. Questo peggiora le cose. A volte, fantastico che sia ancora viva. Che quel colpo alla testa... Che abbia avuto un'amnesia e non possa...». «Oh, Connor...» mormorò Melanie, con la gola stretta. Lui distolse gli occhi, lucidi di lacrime. «Aveva una relazione con un uomo sposato. Un uomo violento. L'aveva minacciata. Credo che l'abbia uccisa.» «Ma non lo hai mai trovato?» «No. Ho ricapitolato i fatti, la scena, il profilo, un migliaio di volte, negli ultimi cinque anni. È sempre un vicolo cieco.» L'ombra nei suoi occhi. Le bacheche in casa sua. Il delitto irrisolto. Ma certo. «Mi dispiace.» Connor la guardò, e Melanie lesse nei suoi occhi tutte le torture dell'inferno. «Una parte di me non vuole prendere l'Angelo nero. Una parte di me odia quegli uomini quanto deve odiarli lei. A volte mi chiedo... se non la prenderemo, forse troverà lei l'assassino di Suzi. Prego che lo trovi. Perciò, vedi, Melanie, sto ingannando tutti.» Lei gli tese la mano. «Torna a letto. Ora. Con me.» Connor esitò, poi accettò la mano. Per la seconda volta, lei lo guidò verso il letto. E fecero l'amore, accesi dalla passione e dai segreti che condividevano. Mentre scivolavano nel sonno, Melanie si ripromise silenziosamente di montare la guardia per Connor. Quella notte gli incubi non lo avrebbero raggiunto. Quella notte, era suo. CAPITOLO 21
Il medico legale consegnò il corpo di Boyd per la sepoltura ventiquattr'ore dopo il delitto. Il funerale si svolse il giorno seguente, un giovedì. Con una certa sorpresa di Melanie, anche Stan intervenne alle esequie. Rimase in piedi alla sinistra di Casey, e lei alla destra, ciascuno tenendo una mano del bambino. A un osservatore estraneo, dovevano apparire una famiglia perfetta. Melanie era grata della presenza di Stan. Casey ne aveva bisogno. Gli ultimi giorni erano stati difficili per tutti loro, compreso il bambino. Era rimasto profondamente turbato dalla morte dello zio e dai frammenti di conversazione che gli erano giunti all'orecchio. E Melanie sapeva bene che non gli aveva certo giovato il fatto che lei era stata tesa e impaziente, e che le zie, che di solito lo adoravano, erano fredde e distratte. Aveva reagito comportandosi male, e poi scoppiando in lacrime quando veniva rimproverato. Nessuno di loro affrontava molto bene la situazione, rifletté Melanie. Scoccò un'occhiata alle sorelle, in piedi alla sua destra, assieme a Veronica. Quando finalmente aveva rintracciato Ashley, la mattina dopo il delitto, sua sorella era apparsa quasi isterica, un momento infuriata, un momento dopo distrutta, e dopo ancora spaventata. Mia, dal canto suo, era rimasta innaturalmente passiva, come una sonnambula. Grazie al cielo, c'è Veronica, pensò Melanie, spostando lo sguardo sulla terza donna del gruppetto. Non sapeva come Mia ce l'avrebbe fatta, senza di lei. Veronica non si era mai mossa dal suo fianco, restando con lei anche la notte, aveva preso gli accordi necessari per il funerale, l'aveva accompagnata dall'avvocato di Boyd per la lettura del testamento e a un incontro con il commercialista per accertarsi che avesse lasciato tutti i suoi affari in ordine. Mia era una donna molto ricca, ora. Quanto a lei, Melanie non sapeva come avrebbe fatto senza Connor. Non che lui si fosse fatto avanti e avesse preso le redini della sua vita, come avrebbe fatto Stan. Ma solo sapere che le era accanto le aveva dato forza. Lanciò uno sguardo da sopra la spalla. Connor era un po' in disparte, con un gruppo di colleghi, fra cui Bobby e il capo di Melanie. I loro occhi si incontrarono, e lei provò un confortante senso di calore. Non erano più rimasti soli insieme dalla notte che Connor aveva passato con lei. Non ne avevano avuto né il tempo né l'occasione. Ma lui non era mai stato lontano dai suoi pensieri. Melanie si era tenuta ben stretti i ricor-
di... e i suoi sentimenti sempre più profondi per lui. Il servizio funebre finì. Gli intervenuti cominciarono a sfollare. Alcuni si fermarono a porgere le condoglianze a Mia, altri si incamminarono verso le rispettive macchine, a testa bassa. Stan si rivolse a Melanie. «Possiamo parlare in privato?» Lei esitò. «Non è un buon momento. Mia...» «Ci vorrà solo un minuto.» Melanie sospirò e annuì. «Casey» mormorò, chinandosi sul bambino. «Va' un momento dalla zia Ashley, okay?» Per un attimo, parve che lui stesse per rifiutare, poi sorrise. «Okay, mamma.» Si avvicinò alla zia e le prese la mano. Ashley guardò Melanie e le lanciò un segnale con il pollice alzato, e lei rispose con un muto ringraziamento. Stan guardava Casey con un'espressione inaspettatamente piena di affetto. «È un bambino meraviglioso, vero?» mormorò. Melanie corrugò le sopracciglia. «Lo scopri adesso?» «No... Sì, in un certo senso, sì. Non ho il privilegio di passare con lui tanto tempo quanto te.» Ecco che ci siamo. «Sono state giornate d'inferno, Stan. Non credo...» «Mi dispiace» si affrettò a interromperla lui. «Non intendevo dire... È solo che a volte penso a tutto quello che ho perso e...» Lasciò la frase in sospeso e si schiarì la gola. «L'udienza è la prossima settimana.» «Lo so.» «L'ho iscritto a una scuola materna nel mio quartiere, nel caso che il giudice... decida in mio favore.» Melanie sollevò il mento. «Anch'io. È eccitato, sta facendo progetti con i suoi amici.» «Il mio avvocato dice che il tuo è in gamba. Fra i migliori» osservò Stan, a disagio. «Sembri sorpreso. Chi ti aspettavi che assumessi?» «Non Pamela Barrett, questo è poco ma sicuro. Sono rimasto molto stu-
pito.» «Un'amica mi ha raccomandato Pamela. Devo ringraziare lei.» «Volevo solo che lo sapessi» disse lui. Sembrava imbarazzato, incerto. Possibile che Stan, sempre così sicuro di sé, temesse di perdere la causa? Melanie nascose la sorpresa... e la speranza che stava nascendo dentro di lei. Se Stan era preoccupato, lei aveva davvero la possibilità di vincere. O di fargli cambiare idea. Lui fece per andarsene, ma lei gli toccò il braccio, fermandolo. «Devi proprio farlo?» chiese. «È davvero così importante, per te, punirmi? Ora, dopo tutto questo tempo? Sono una buona madre, e tu lo sai. Un cambiamento spezzerebbe il cuore di Casey.» «Come puoi esserne così sicura?» Stan sostenne il suo sguardo. «E come sai che a spingermi non è semplicemente il fatto che amo mio figlio?» «Stan, per favore, fammi credito di una certa capacità di osservazione. Essere padre non ti ha mai interessato molto.» Lui arrossì e guardò Casey, che stava parlando con la zia. La sua espressione si addolcì. «Non sono il padre che ero quando eravamo sposati.» Riportò lo sguardo su Melanie. «Non sono più l'uomo che ero. Tu non sai... non ci vedi insieme. Facciamo tante cose, giochiamo... Passo del tempo in sua compagnia, Melanie. Non semplicemente con lui.» Melanie guardò l'ex marito, soppesando le sue parole. Casey non piangeva più quando doveva passare il finesettimana con il papà, non si lamentava né faceva il broncio. Non sapeva bene quando fosse avvenuto il cambiamento, ma solo che c'era stato. Aveva pensato che, semplicemente, Casey si fosse abituato a quella routine e l'avesse accettata. Ora si chiedeva se non piangeva più perché era felice di andare da suo padre. Quando lei non fece commenti, Stan continuò: «Amo Casey. Sento la sua mancanza, quando è con te». La sua voce si fece leggermente roca. «Non sto affatto cercando di punirti. Si tratta di me e mio figlio, di voler stare con lui tutto il tempo.» Proprio come lo voglio io. Un nodo si formò nella gola di Melanie. Aveva giudicato male Stan. Era davvero cambiato. E allora era tempo che cambiasse anche lei. Il fatto era che uno di loro avrebbe perso la custodia di Casey. Poteva essere lei quanto lui.
A meno che qualcosa non cambiasse. «Amiamo entrambi Casey» mormorò. «Entrambi vogliamo quello che è meglio per lui. Non potremmo trovare un compromesso? Non potremmo almeno tentare?» Stan la guardò per un momento, esitando. Non era nella sua natura accettare compromessi. Era una delle caratteristiche che aveva fatto di lui un avvocato di grido. Ma qui non si trattava di un cliente, bensì di suo figlio... un figlio che solo da poco si era reso conto di amare. «Cerchiamo di pensare prima di tutto a Casey» propose. «Non litighiamo per lui. Accetterò un compromesso, se lo farai anche tu.» «Va bene» disse Melanie. «Per Casey, lo farò. Vorrei tentare.» Connor attraversò l'atrio centrale del CMPD, diretto agli ascensori, e salì al secondo piano. Come aveva previsto, gli investigatori del CMPD avevano finalmente riconosciuto che gli omicidi di Boyd Donaldson e di Joli Andersen non erano collegati. Tuttavia erano meno disposti ad ammettere che Donaldson fosse stato vittima dell'Angelo nero. Connor li capiva. Se lo avessero fatto, avrebbero dovuto rimettere il caso nelle mani sue e di Melanie, e non erano pronti a farlo. Connor aveva chiamato Melanie tornando da una serie di colloqui nella zona di Myrtle Beach, ma lei stava uscendo. Pete le aveva chiesto di andare al quartier generale, gli aveva spiegato. A quanto pareva, voleva interrogarla circa la morte di suo cognato. Non era preoccupata. Si trattava solo di una formalità, gli aveva assicurato. Lui, comunque, si era fatto promettere che lo avrebbe aspettato in ogni caso. Non era tranquillo quanto Melanie. In mancanza di una pista concreta, Harrison e Stemmons gettavano le reti in direzione di chiunque fosse vicino alla vittima... e chiunque gli volesse male. Uscendo dall'ascensore, andò quasi a scontrarsi con i due investigatori. «Parks, sono contento che tu sia qui» affermò Pete. L'investigatore aveva preso a dargli del tu. «Roger e io stiamo per interrogare una persona sospettata per il caso Donaldson. Vorresti assistere?» Roger sogghignò. «O forse lo hai già saputo? Dopotutto, tu e la tua amichetta di Whistlestop siete diventati molto intimi.» Connor decise che cancellare il sogghigno dalla faccia di Stemmons con
un pugno sarebbe stato molto piacevole, ma si trattenne. L'ultima cosa di cui Melanie aveva bisogno era di pettegolezzi sul loro rapporto. «Già, ho sentito. E mi sembra una stupidaggine. Ma se volete sprecare la giornata...» «Vedremo. Può darsi che tu rimanga sorpreso.» Si fermarono davanti a una delle stanze per gli interrogatori e Pete indicò la porta accanto. «Puoi guardare da lì.» Connor entrò nella stanza e si piazzò davanti al monitor. Melanie era seduta al tavolo, di profilo. Parve irritata quando Pete si scusò per averla fatta aspettare. Connor sorrise. Certo che era irritata. Sapeva che far aspettare l'indiziato faceva parte della procedura ordinaria. Serviva a innervosirlo. Melanie guardò l'orologio. «Ho parecchie cose da fare, oggi. Perciò, se non vi dispiace, vorrei cominciare.» «Sicuro.» Pete si appoggiò allo schienale. «Pensavo di cominciare parlando un po' del tuo rapporto con Boyd Donaldson.» Per diversi minuti, le pose delle domande su quando aveva conosciuto Boyd, su che cosa pensava del suo carattere e così via. Finalmente, lui arrivò al punto cruciale. «Tuo cognato ti piaceva?» Melanie non esitò. «No.» «Non ti è mai piaciuto, vero?» «No, mai.» «Anzi, hai consigliato a tua sorella di non sposarlo, giusto?» «Giusto.» «E perché?» Lei si strinse nelle spalle. «Conosco mia sorella meglio di chiunque altro al mondo. Non lo ritenevo l'uomo giusto per lei. Mi sembrava disonesto. Equivoco. Ora vedo che avevo ragione.» I due investigatori si scambiarono un'occhiata. Melanie non batté ciglio. Connor era fiero della sua calma. «È possibile che fossi gelosa?» intervenne Roger. «Dopotutto, lei aveva sposato un bell'uomo, e anche ricco.» Melanie sorrise. «Assolutamente no.» «Affermi di amare tua sorella. Sarebbe corretto dire che faresti qualun-
que cosa per proteggerla?» Ancora una volta, lei non batté ciglio, e ancora una volta Connor ammirò la sua freddezza. «Nei limiti della legalità, sì.» «Nei limiti della legalità» ripeté Pete. «È così che definiresti puntare un coltello alla gola di vostro padre e minacciare di ucciderlo?» Nel suo primo momento di incertezza, Melanie lanciò un'occhiata alla telecamera. Sapeva bene che lui li stava osservando, pensò Connor. Riteneva che fosse stato lui a parlare a Pete di quell'episodio? «Ero una bambina. Ho fatto la sola cosa che sono riuscita a pensare.» «Per proteggere tua sorella.» Lei si agitò sulla sedia. «Sì.» «Ed era nei limiti della legalità?» Gli occhi di Melanie si strinsero. «Mio padre molestava mia sorella. Avevamo tredici anni. Che cosa volevate che facessi?» «Perciò, pensi che le tue azioni fossero giustificabili?» Lei sollevò il mento. «In quella situazione, sì.» «E che cosa avresti fatto, se avesse continuato a molestare tua sorella? Avresti messo in atto la tua minaccia?» «Ringrazio Dio ogni giorno per non aver dovuto prendere quella decisione.» «Ma, se fossi stata costretta, che decisione avresti preso?» «Mi rifiuto di rispondere a un'ipotesi così astratta» scattò Melanie. «Punto e basta.» «E quanto a tuo cognato?» «Quanto a mio cognato, che cosa?» «Picchiava tua sorella» affermò Roger. «Tu eri furiosa. Avevi paura per lei. Volevi che smettesse.» «E così, lo hai minacciato» si intromise Pete. «Le vecchie abitudini sono dure a morire, a quanto pare.» «È ridicolo.» «Ma tu lo hai minacciato.» Pete aprì la cartella sul tavolo. «Secondo un addetto alla sicurezza dell'ospedale in cui Donaldson lavorava, hai detto, testualmente: Se farai ancora del male a mia sorella, non risponderò delle
mie azioni. Te lo ricordi?» «Erano solo parole.» «Solo parole?» Pete sollevò le sopracciglia. «Tuo cognato era abbastanza spaventato da venire subito a riferircelo. La guardia ti ha presa abbastanza sul serio da fare addirittura rapporto. Ti sembrano solo parole?» «Be', è così. Ero arrabbiata. Ho detto la prima cosa che mi è passata per la testa.» «Ti arrabbi spesso?» «Di tanto in tanto.» «Ti definiresti una testa calda?» Melanie parve improvvisamente stanca, come se tutte quelle domande cominciassero a pesarle. «Una volta, sì» mormorò. «Ma ora non più, no.» Benché Connor fosse certo della sua innocenza, e per quanto Harrison e Stemmons gli fossero personalmente antipatici, non poteva negare che il loro ragionamento aveva una sua logica. Melanie odiava il cognato, lo aveva minacciato. Boyd maltrattava, anche fisicamente, la moglie, e Melanie aveva giurato a se stessa, per il passato e per il presente, di proteggerla. Lui trovava ammirevoli il suo coraggio e la sua lealtà, ma capiva che gli altri potessero considerarli un motivo per sospettarla. «Dov'eri la notte in cui Donaldson fu ucciso?» «A casa.» «Sola?» «No, con mio figlio.» «Fra le undici e l'una dormiva?» «Certo che dormiva. Ha quattro anni.» «Quindi tu saresti potuta uscire senza che lui lo sapesse.» «Non lascerei mai mio figlio a casa da solo. Mai, per nessuna ragione» affermò Melanie, guardando freddamente dall'uno all'altro. I due investigatori facevano del loro meglio per innervosirla, ma, a parte il momento in cui avevano accennato a suo padre, sembrava che lei non si lasciasse minimamente intimidire. Era calma, e rispondeva in modo succinto e deciso. Se non l'avesse conosciuta così bene, Connor avrebbe pensato che quell'interrogatorio non la stesse scalfendo più di tanto. Ma era scossa, ci avrebbe scommesso. Perché si era resa conto che non si trattava affatto di qualche domanda di routine. Quando consultò l'orologio, Connor vide che la mano le tremava leg-
germente. «Signori, se non c'è altro, sono sicura che il capo vorrà vedere di nuovo la mia faccia prima della fine della giornata.» «Certo, Melanie. Ti siamo grati per essere venuta e avere risposto a tutte queste domande.» Pete sorrise, si alzò e andò alla porta, seguito da Roger. «Oh, quasi dimenticavo. Un'ultima domanda. Su tuo padre.» «Avanti.» «Com'è morto?» «Di un attacco cardiaco.» «Niente di insolito, nel suo attacco cardiaco?» Melanie esitò per una frazione di secondo, e impallidì. «Sì. Fu causato da un eccesso di digitalina nel sangue.» Melanie passò il resto della giornata fingendo di non essersi lasciata impressionare dall'interrogatorio di Harrison e Stemmons. Tornata in ufficio, aveva riferito al suo capo, poi si era gettata a capofitto nel lavoro. Alle cinque era andata a prendere Casey e si era dedicata interamente alla routine serale e al suo ruolo di madre, come se non avesse un pensiero al mondo. Niente, però, sarebbe potuto essere più lontano dalla verità. Era profondamente turbata. Si sentiva vulnerabile e ferita. Dall'interrogatorio e dalla reazione di Connor: il completo silenzio. Si era aspettata di vederlo, quando era uscita dal quartier generale del CMPD, dato che si erano messi d'accordo in tal senso, si era aspettata che la cercasse. Si era sbagliata. Alla fine, poco prima di lasciare il lavoro, aveva fatto tacere l'orgoglio e lo aveva chiamato. Le era stato detto che non era disponibile e lei aveva lasciato un messaggio, chiedendogli di richiamarla. Lui non lo aveva fatto. E così, eccola là, davanti alla sua porta, alle otto e mezzo di sera. La signora Saunders, la vedova che abitava alla porta accanto, aveva accettato senza difficoltà di andare a badare a Casey addormentato. Aveva pensato che Melanie fosse stata chiamata in servizio, e lei non l'aveva smentita. Respirò a fondo e suonò il campanello. Connor era in casa. Lo sapeva perché la sua auto era posteggiata nel vialetto e quasi tutte le finestre erano illuminate. Lui aprì la porta. Non parve sorpreso di vederla.
«Ciao, Melanie.» «Possiamo parlare?» Senza rispondere, lui spalancò la porta. Lei entrò e poi lo seguì in cucina. Sul tavolo c'erano un bicchiere di latte e un piatto contenente un panino al tonno consumato a metà. Vicino, aperta, c'era la pagina sportiva del Charlotte Observer. «Ho interrotto la tua cena.» «Non fa niente. Non era un gran che.» Connor le fece cenno di sedersi al tavolo. «Ti spiace se finisco?» «Per niente.» Melanie si sedette, a disagio, sentendosi piuttosto sciocca. «Eri là, oggi?» «Sì.» Lei intrecciò le dita sul tavolo. «Pensavo che tu... Non hai chiamato.» Connor diede un morso al panino e bevve un sorso di latte, prima di rispondere, e Melanie sospettò che stesse prendendo tempo. Rimpianse di avere ignorato l'istinto che le diceva di restarsene a casa. Trovarsi là, così, davanti a lui, era troppo angoscioso. «Avevo bisogno di riflettere» mormorò Connor alla fine. «Per mettere tutto nella giusta prospettiva e capire a che punto mi trovavo.» «Mettere... tutto nella giusta prospettiva?» ripeté Melanie, impallidendo. «Non puoi... non penserai che... che abbia ucciso mio cognato?» Invece di rispondere, Connor la guardò negli occhi. «Perché non mi hai detto com'è morto tuo padre?» Melanie non era una donna che piangeva facilmente, ma in quel momento sentì che, se si fosse lasciata andare, avrebbe singhiozzato come una bambina. «Non me lo hai chiesto.» «Andiamo, Melanie!» Lui respinse il piatto vuoto. «Considerando le somiglianze fra la morte di McMillian e quella di tuo padre, avresti dovuto parlarmene. L'occasione dev'essere capitata una dozzina di volte, almeno. Perché non lo hai fatto?» «Non lo so.» Quando lui fece un gesto di impazienza, Melanie gli tese una mano supplichevole. «È vero. La coincidenza fra le due morti è quella che, al principio, ha attirato la mia attenzione e mi ha indotto a indagare sulla morte di McMillian. Poi, mi sono resa conto che quello che mi disturbava non erano le somiglianze fra la morte di McMillian e quella di mo padre, ma il fatto che due uomini notoriamente violenti fossero morti in
seguito a incidenti bizzarri a breve distanza di tempo. Probabilmente non ho detto nulla di mio padre perché la sua morte non ha avuto niente a che vedere con l'Angelo nero. È storia vecchia.» Lui corrugò le sopracciglia. «Storia vecchia?» «Sì.» Melanie sollevò il mento. «Che cosa stai cercando di dire, Connor? Che mi ritieni colpevole, forse?» «Lo sei?» «No.» Lei si alzò in piedi, indicibilmente ferita. Infuriata. Si avvicinò al lavello, poi si voltò a guardare Connor negli occhi, anche se i suoi bruciavano di lacrime. «No» ripeté. «Dovevo chiedertelo» mormorò lui, alzandosi a sua volta. Le si accostò. «Ti credo.» «Che fortuna.» Melanie fece per andarsene, ma lui le afferrò il gomito, fermandola. La prese fra le braccia e se la strinse al petto. Sotto la guancia di lei, il suo cuore batteva, forte e regolare. Melanie cercò di dirsi che avrebbe dovuto staccarsi da lui, respingere la sua offerta di conforto... invece gli si abbandonò contro. Connor le premette le labbra sui capelli. «Non credo che tu abbia ucciso Boyd Donaldson. Non l'ho mai creduto. Ma dovevo chiedertelo. Perché fa parte del mio lavoro. E perché è così che sono fatto. Devo rivoltare ogni sasso. Lo farò sempre. Puoi sopportarlo?» Lei sollevò il viso per guardarlo. «Sapevo che eri là. Quando non hai telefonato... ho pensato... ho temuto...» Respirò a fondo. «Rivolta pure tutti i sassi che vuoi, Connor Parks, ma non lasciarmi mai più in un'incertezza simile. Questo non posso sopportarlo.» «Mi dispiace.» Lui le prese il viso fra le mani. «Avrei dovuto chiamare. Non sono abituato a essere responsabile dei sentimenti di altre persone.» Si chinò a baciarla, poi si staccò da lei. «Tutto okay?» «Sì.» Melanie sorrise. «Ora che so che mi credi.» Connor le passò il pollice sulle labbra. «Eri così fredda. Sono rimasto davvero colpito.» «Non ho niente da nascondere.» «Non gliel'ho detto io... il fatto di tuo padre e del coltello.» «In effetti, mi sono chiesta se eri stato tu.» «L'ho capito.» Connor la baciò di nuovo. Lei gli allacciò le braccia at-
torno al collo e gli si strinse contro. «Fino a quando?» chiese. «Fino a quando puoi fermarti?» «Un'ora... al massimo.» Lui la sollevò da terra e la portò in camera. Caddero sul letto ridendo. Si sfilarono i jeans... con qualche difficoltà, perché nel frattempo non potevano smettere di toccarsi a vicenda. Finalmente furono l'uno fra le braccia dell'altro, nudi, ansanti. Era meraviglioso il modo in cui Connor la faceva sentire... bellissima, sexy, adorata, amata. Dopo, rimasero per un lungo momento stretti l'uno all'altro, in silenzio. Melanie sospirò, ben sapendo che il tempo passava. «Devo andare.» Connor accentuò la stretta. «Resta.» «Non posso.» Lei gli passò le dita sul petto, godendo della sensazione della sua pelle sotto i polpastrelli. «Ho detto alla signora Saunders che non sarei stata via più di due ore.» Connor la lasciò e rotolò sul fianco per guardarla. Melanie scese dal letto e casualmente posò un piede su un libro che giaceva sul pavimento. Si chinò a raccoglierlo. Guida agli allergeni e alle tossine. Rilesse il titolo, ricordando ciò che Connor le aveva detto sulla morte di sua sorella, di come detestava coloro che maltrattavano e picchiavano le donne, e di come qualche volta desiderava che l'Angelo nero non venisse catturato. Ricordò come aveva insistito che l'Angelo nero era una donna. Non un uomo. «Che cosa c'è di così interessante?» Lei sussultò, sorpresa. Connor sbirciò da sopra la sua spalla e lei gli mostrò il libro. «Un tuo hobby?» «Una piccola ricerca.» Connor le tolse di mano il libro. «Volevo sapere quanto sono accessibili le informazioni necessarie all'Angelo nero. Per darti un'idea, questo l'ho comprato al drugstore all'angolo. Descrive dettagliatamente ciò che avviene durante una grave crisi allergica, in quanto tempo può sopravvenire la morte, ed elenca alcuni degli allergeni più comuni. Compreso il veleno delle api.» Le restituì il libro, con un mezzo sorriso. «Lettura affascinante. Dimostra anche che il nostro Angelo non ha avuto bisogno di andare a scuola per imparare queste nozioni.» Arrossendo, Melanie rise e posò il libro sul comodino. Non riusciva a
credere di aver pensato, anche solo per un momento, che Connor potesse essere un assassino. Infilò i jeans e raccolse la camicetta dal pavimento. «Dovrò chiedertelo in prestito, un giorno. La prossima volta in cui deciderò di avvelenare qualcuno.» «Alla luce degli avvenimenti di oggi, al tuo posto non andrei in giro facendo battute del genere.» Connor era serio. Melanie smise di abbottonarsi la camicetta e lo guardò. «Connor?» «Devo farti una domanda.» Lei annuì e lui continuò: «Hai mai pensato che tuo padre potrebbe essere stato una delle vittime dell'Angelo nero?». Suo padre? Una vittima dell'Angelo? Melanie fissò Connor, con la bocca arida e un ronzio nelle orecchie. Scosse lentamente la testa. Non le era mai neppure passato per la mente. «E se lo è stato» mormorò Connor, «e lo è stato anche Boyd...» Non completò la frase. Non ce n'era bisogno. Melanie aveva capito ciò che intendeva dire. Che ci sarebbero state due vittime dell'Angelo nero nella stessa famiglia. Buon Dio. La sua famiglia. CAPITOLO 22 Benché fossero passate da poco le undici, le strade erano silenziose, il traffico scarso. Melanie guidò verso casa quasi automaticamente, con il pensiero fisso agli avvenimenti della giornata e alle ultime parole di Connor. Suo padre, vittima dell'Angelo nero? Perché non ci aveva pensato prima? Era possibile. Era morto nello stesso modo di Jim McMillian, e anche degli altri, quanto a questo... vittima della propria fragilità. Era un violento, un uomo che non pagava per i suoi abusi. Avrebbe dovuto pensarci prima. Ma non lo aveva fatto. Perché? Per quanto fosse difficile ammetterlo, due vittime dell'Angelo nero nella sua famiglia non potevano essere una coincidenza. E non era pensabile che il serial killer le avesse scelte a caso, a distanza di anni. Questo significava che l'Angelo nero era una persona vicina alla sua famiglia. Che conosceva i loro segreti. Buon Dio. Ashley.
Melanie sussultò a quel pensiero. Sua sorella si adattava alla perfezione al profilo di Connor: l'età, la storia di abusi subiti, i suoi difficili rapporti con gli uomini, il fatto che aveva in famiglia una persona che faceva parte della polizia. Ashley non aveva nascosto che riteneva che le vittime dell'Angelo nero meritavano il loro destino. Ripensandoci, Melanie si rese conto che era proprio da quando lei aveva esposto per la prima volta la sua teoria sull'Angelo nero che Ashley aveva cominciato a comportarsi in modo strano, ad alludere alle cose che aveva fatto per le sorelle. Cose che loro non potevano neppure immaginare. Dicendo le sorelle, aveva inteso Melanie e Mia, o tutte le sue sorelle donne, ovunque fossero? Melanie strinse le labbra. Odiava quei pensieri, ma non poteva impedirseli. Come rappresentante di prodotti farmaceutici, Ashley possedeva tutte le nozioni necessarie sui medicinali, i veleni e le reazioni allergiche. Parlava ogni giorno con dei medici, poteva procurarsi tutte le informazioni di cui aveva bisogno facendo domande apparentemente innocenti qua e là. Rimaneva in viaggio per giorni, a volte per un'intera settimana. Sarebbe stato facile, per lei, scegliere una vittima a Charleston, o a Myrtle Beach o a Columbia. Buon Dio, poteva essere vero? Poteva Ashley essere l'Angelo nero? No. Melanie strinse le dita sul volante. No. Ashley aveva dei problemi, ma non era un'assassina. E lei lo avrebbe provato. Ma come? L'unico modo di dimostrare l'innocenza di Ashley era trovare il vero Angelo nero. Il cercapersone ronzò, facendola sobbalzare. Controllando il display, vide che la chiamata proveniva dal quartier generale. Compose il numero sul cellulare e le rispose la centralinista di notte. «Loretta, sono Melanie. Che succede?» «Ciao, Melanie. Mi spiace disturbarti, ma ho pensato che sarebbe stato meglio.» «Non c'è problema. Dimmi.» «Ho appena ricevuto una chiamata per te. Una donna. Sembrava davvero sconvolta. Spaventata a morte. Non voleva parlare con nessuno, tranne te. Non ha detto neppure il suo nome. Solo che lui l'aveva contattata. Quello di cui le avevi chiesto. Ha detto che tu sapevi chi.» «Che io sapevo chi?» ripeté Melanie, perplessa. «Ha lasciato un numero?» «No. Quando ho insistito, ha riattaccato.»
Melanie frugò nella memoria, riflettendo su ciò che la donna aveva detto. Lui l'aveva contattata. Quello di cui le aveva chiesto. L'assassino di Joli Andersen. Sugar. Ma certo! Dieci minuti dopo, Melanie si fermò all'angolo dove Sugar era stata presa durante la retata. La parte occidentale di Charlotte vantava una percentuale sproporzionata dei crimini che avvenivano in città. Era il posto in cui cercare sesso e droga, e anche quello in cui era più facile subire stupri, rapine o beccarsi una pallottola. Melanie scrutò il marciapiede. Sugar non avrebbe mai portato l'assassino a casa sua, dove c'era suo figlio. E neppure sarebbe stata in mezzo alla strada, a fare da bersaglio. Nel retrovisore, Melanie vide l'auto di Connor svoltare l'angolo alle sue spalle. Dopo aver avvertito la signora Saunders che avrebbe tardato, aveva chiamato subito Connor. Il protocollo avrebbe imposto di chiamare anche Harrison e Stemmons. Ma Sugar era la sua testimone, perciò, al diavolo il protocollo. Connor si fermò dietro di lei, scese dalla macchina e si chinò al suo finestrino. «Hai qualche idea?» chiese. «Sì. Dev'essersi rifugiata in qualche luogo pubblico, pieno di gente, dove si sente al sicuro.» Melanie aprì la portiera e scivolò sull'altro sedile. «Guida tu. Io mi guardo attorno.» Perlustrarono un raggio di dieci isolati dall'angolo di Sugar, controllando ogni posto dove ci fosse gente, bar, ristoranti e un minimarket aperto tutta la notte. Melanie trovò la donna all'ottavo tentativo, in una tavola calda chiamata Da Mike. Era seduta, sola, in un séparé in fondo, con le spalle alla parete e lo sguardo fisso sulla porta. Sembrava terrorizzata. «Ciao, Sugar» disse Melanie, fermandosi accanto al tavolo. «Ho sentito che mi cercavi.» Lei annuì. «Ti ha trovata, stasera, vero? Il tizio di cui ti avevo chiesto.» L'altra annuì di nuovo. Melanie vide che tremava. «Per strada... Sono riuscita a filarmela.» «Come?» «Gli ho detto che... che dovevo andare in bagno. Sono scappata dalla finestra. Mi sono tagliata.» Sugar mostrò la mano attraversata da un brutto taglio.
«Vieni, andiamocene da qui» mormorò Melanie. Pochi momenti dopo erano sulla jeep. Sugar recalcitrò alla vista di Connor, ma Melanie fece del suo meglio per rassicurarla, spiegandole che era stato proprio Connor a tracciare il profilo dell'uomo che stavano cercando, e che avrebbe saputo meglio di chiunque altro se l'uomo che l'aveva avvicinata quella sera era proprio l'assassino. «Che cosa vuoi fare?» concluse. «Aiutarmi, o aspettare che lui ti trovi?» La donna esitò ancora una frazione di secondo, poi salì. Melanie prese posto accanto a lei sul sedile posteriore. «E ora, raccontami che cos'è successo.» «Lei... aveva ragione» cominciò Sugar. «Ho riconosciuto quel tizio appena me ne ha parlato. Ero stata con lui un certo numero di volte. Sulle prime, non era tanto male. Gli piaceva recitare la grande scena della seduzione, sa. Portava del vino, a volte dei cioccolatini...» «Champagne?» chiese Melanie. «Sì, quella roba con le bollicine.» «Continua.» «Non voleva fare sesso, né altre prestazioni... particolari. Era una cosa perfino piacevole. Come prendersi un paio d'ore libere.» «Se non voleva sesso, che cosa voleva?» le domandò lei. «Mi legava, e si limitava a toccarmi. Era piacevole, davvero. E mi parlava.» «E tu, gli parlavi?» «Non molto. Voleva solo che me ne stessi là. Come una bambola. Sì, ecco...» Sugar annuì. «Come se fossi una bambola.» Melanie scoccò un'occhiata a Connor. Lui incontrò il suo sguardo nello specchietto retrovisore, poi riportò l'attenzione sulla strada. «Poi qualcosa è cambiato, vero? Ti sei spaventata.» Sugar rabbrividì. «Ha cominciato a usare... degli oggetti. Sa, per penetrarmi. Oggetti che facevano male. Alcuni facevano davvero molto male. Quando gli ho detto di smettere...» Si interruppe, come se non avesse la forza di continuare. «Che cosa ha fatto?» la sollecitò Melanie. «Aveva quel... nastro adesivo. Me lo ha messo sulla bocca, così non... Ero legata, perciò non potevo fare niente... Ero...» Si interruppe di nuovo, rabbrividendo. Ma il senso era chiaro. Si era trovata impotente. Del tutto indifesa. Melanie mise una mano sulla sua.
«Che cosa hai fatto, allora?» «Sono rimasta immobile. Come piaceva a lui. E quando mi ha fatto male, non ho fiatato. Volevo vivere, agente May. Volevo rivedere il mio bambino.» Purtroppo, come c'era da aspettarsi, Sugar non conosceva il nome dell'uomo. Ma poteva descriverlo, e Melanie la convinse a farlo per un disegnatore della polizia. La portarono al quartier generale della polizia di Whistlestop e, dopo aver informato il suo capo degli ultimi sviluppi, lei si mise in contatto con Harrison e Stemmons. I due detective non furono troppo contenti della situazione. E lo furono ancor meno quando, arrivando, appresero che non solo Sugar aveva già reso la sua testimonianza a Melanie, ma che era coinvolto anche Connor. Comunque, sembrava chiaro che il tizio conosciuto da Sugar e l'assassino di Joli Andersen erano la stessa persona. E una volta che il disegnatore ebbe completato l'identikit, fu chiaro anche che Ted Jenkins non era il loro uomo. Per sicurezza, mostrarono la foto a Sugar, che non lo riconobbe affatto. Dopo che Jenkins e il suo avvocato se ne furono andati, Harrison si rivolse a Connor. «Suggerimenti su come stanarlo?» Connor annuì. «Il nostro uomo sta riprendendo la caccia. Ma ha paura. È tornato al punto in cui, prima, si sentiva sicuro.» «Sugar» completò Melanie. «Ma lei gli è sfuggita. Se non è stupido, immaginerà che lo ha denunciato.» «Sono d'accordo. La mia opinione è che finora non ha agito perché aveva paura. La pubblicità data all'assassinio di Joli, per quanto lo abbia eccitato, lo ha anche spaventato. E ora lo sarà anche di più.» Pete imprecò. «Quel bastardo è capace di lasciare la città.» «Non credo. È un professionista, non un operaio. Non è facile, per lui, mollare tutto. Adesso è il momento giusto per sorvegliare la tomba di Joli.» «Abbiamo già tentato, e non abbiamo ottenuto niente.» «Questo è stato prima. Ora, è in cerca di una preda, è disperato e ha paura. Farà visita a Joli.»
Pete corrugò le sopracciglia. «Come pensi che dovremmo organizzare la sorveglianza?» «Audio, video, infrarossi, agenti in borghese. Tre giorni. Dopo, sarà tardi. Che cosa avete da perdere?» Pete rifletté un momento, poi annuì. «Ci penso io.» Tornò pochi minuti dopo, scuro in viso. «Ho l'autorizzazione. Ma mi hanno avvertito che, se non approdiamo a nulla, mi addebiteranno il costo dell'operazione.» Guardò Melanie. «Tu e Taggerty volete entrarci? Il vostro aiuto ci farebbe comodo.» Venti minuti dopo, Melanie accompagnò Connor alla sua auto, che un agente era andato a recuperare. Tutti gli accordi erano stati presi, e ormai era mezzogiorno. «Dovrei essere stanca, ma non lo sono» osservò lei. Connor sorrise. «Non c'è niente come un'apertura in un caso per mettere in moto l'adrenalina. A volte, dura per giorni.» «È come se conoscessi quel tizio, ora. Come se gli fossi così vicina da potergli quasi mettere le manette.» «Strano, i miei pensieri stanno andando in una direzione leggermente diversa.» «Oh?» Connor sorrise, malizioso. «Qualcosa come tu e io che ci spogliamo a vicenda.» Melanie rise. «Sei incorreggibile, agente Parks.» «Ci provo, agente May.» Connor aprì la portiera della sua auto. «Lo hai mai fatto in un cimitero?» «Proprio no.» Lei sollevò un sopracciglio. «E se tu lo hai fatto, non voglio saperlo.» Il sorriso di Connor svanì. «Sta' attenta, stanotte.» «Certo.» Lui allungò una mano come per toccarla, poi rinunciò. «Non dimenticare mai, neppure per un attimo, che quest'uomo è un assassino. Promettimelo, Melanie.» «Te lo prometto» mormorò lei, pensando alla terrificante avventura di Sugar e ricordando il volto privo di vita di Joli. Rabbrividì. «Ho troppo per cui vivere.»
Connor salì in macchina e si allontanò. Melanie lo seguì con lo sguardo, poi rientrò. E, tutt'a un tratto, le tornò alla mente un altro caso, un altro problema. Ashley. L'Angelo nero. Non aveva più pensato alla sorella e ai propri timori da quando aveva saputo della telefonata di Sugar, la sera prima. Ora, tutto le piombò di nuovo addosso come una valanga. Per quanto lo desiderasse, non poteva condividere i suoi sospetti con Connor, né con nessuno remotamente collegato al caso. Non poteva tradire così sua sorella. Ma poteva parlare con Mia, chiederle di ricordare la reazione di Ashley alla morte del loro padre, vedere che cosa sapeva della vita di Ashley in quegli ultimi tempi. Poi, avrebbe chiamato la stessa Ashley. Provò a telefonare a Mia, ma trovò solo la segreteria. «Mia, sono Melanie» disse. «Ho bisogno di parlarti. Si tratta di Ashley. Temo che...» «Pronto? Mel?» Mia sembrava trafelata. «Scusami, ero fuori.» Respirò a fondo. «Che succede?» «Ho bisogno di parlare con te... a proposito di Ash. Ma non al telefono. Posso venire lì?» «Adesso?» «Sì. È urgente.» Mia rimase un momento in silenzio. «Adesso no. Dammi... un'ora. Va bene, per te?» Un'ora dopo, Melanie era seduta al tavolo di cucina, di fronte alla sorella. «Allora, che cos'è questa storia di Ashley?» chiese Mia, versandosi un bicchiere di succo d'arancia da una caraffa di cristallo. «Hai parlato con lei, dopo il funerale?» Mia scosse la testa. «Ma sono passati solo pochi giorni.» «E prima della morte di Boyd? Le avevi parlato?» «Quasi niente. Perché?» Melanie si alzò. Era troppo nervosa per stare ferma. «Credo che le stia succedendo qualcosa. Qualcosa di brutto.» «E te ne accorgi adesso?» borbottò Mia, sorpresa dal suo tono. «Veronica mi ha parlato della commedia che ha inscenato nell'ufficio del procuratore distrettuale di Charleston. Da non crederci. Farsi passare per te per scoprire qualcosa su Veronica! Veronica ritiene che abbia bisogno dell'aiu-
to di un medico, e io sono costretta a darle ragione, purtroppo.» «È anche peggio di così, Mia. È che... Penso che Ashley sia...» Melanie non poteva indursi a dirlo. Non ancora, neppure a sua sorella. Tentò un'altra via. «Al funerale di papà e... dopo, com'era Ashley? Come ha... reagito alla sua morte? Io non riesco a ricordarlo.» Mia rifletté un momento. «Non lo so. Come noi, credo. Con sollievo. E senso di colpa.» «Senso di colpa?» ripeté Melanie. «Che intendi dire?» «Per essere contente che fosse morto» affermò Mia. «Lo eravamo tutte, diciamolo chiaro.» Era vero. Una parte di lei si era rallegrata quando aveva saputo della morte del padre. Ma questo non faceva di lei un'assassina. E neppure di una delle sue sorelle. «Ma... le sfumature?» insistette. «Non hai trovato niente di strano nel suo comportamento? Non ricordi niente che ti abbia colpita?» «Nel comportamento di Ashley? Per favore, Melanie!» «Parlo sul serio. Inoltre, è solo di recente che Ashley ha cominciato a diventare strana.» La sorella la guardò per un momento con curiosità. «Che cos'è che non mi dici, Melanie? Che cosa sta succedendo?» «Non lo so per certo. Ma ho questo sospetto, e...» «Ciao, Melanie.» Sorpresa, lei si voltò. Veronica era sulla porta di cucina, in tailleur di lino avorio, con una borsa portadocumenti in mano. Sorrideva, anche se un po' rigidamente. Benché avessero fatto pace, il loro rapporto non era più stato lo stesso dopo l'incidente in palestra, e questo dispiaceva molto a Melanie. Veronica si rivolse a Mia. «Torno al lavoro. Chiamami, più tardi, okay?» Melanie guardò dall'una all'altra, perplessa. Che cosa ci faceva là Veronica a mezzogiorno, in una giornata lavorativa? E perché Mia non le aveva detto che c'era? Lei aveva creduto che fossero sole in casa. «Grazie di tutto, Vee.» Melanie scoccò un bacio all'amica. «Sei un tesoro.» «Ciao, Melanie.» «Ciao» mormorò lei, guardando Veronica uscire, con una strana sensazione alla bocca dello stomaco. Un attimo dopo, sentì il rumore della porta del garage che si apriva e il
rombo di un motore. Si voltò verso Mia. «Veronica sta ancora da te?» Mia finì il succo d'arancia e posò il bicchiere. «Finora sì, ma torna a casa sua stasera. È passata a prendere il resto della sua roba. Di sicuro, mi mancherà. Questa storia è stata un vero incubo. Non so che cosa avrei fatto senza di lei.» Melanie provò una punta di rimorso. Un tempo, Mia si sarebbe appoggiata a lei... sua sorella, la sua amica, la sua confidente. Che cosa era successo fra loro? Deglutì il nodo che le stringeva la gola, lottando contro la sensazione che qualcosa di importante fosse cambiato nella sua vita, senza che neppure se ne accorgesse. «Che cosa ci è successo, Mia?» chiese, con un tremito nella voce. «A te, a me e ad Ashley? Eravamo le migliori amiche del mondo.» «Non lo so. Ci siamo allontanate, con il tempo, immagino.» «Ci siamo allontanate? Come puoi dirlo con tanta noncuranza? Tu e Ashley siete sempre state le persone più importanti della mia vita. Credevo che fosse così anche per voi.» Mia sollevò le sopracciglia. «Io? La persona più importante della tua vita? Per favore! Ti piaceva avermi intorno perché facevo sempre quello che volevi.» Lei trasalì, ferita. «Non è vero. Siamo sempre state compagne. Alla pari.» «Giusto» ironizzò Mia. «Tu guidavi, io seguivo. Tu eri forte, io debole.» Si chinò verso Melanie, con un sorriso amaro. «Non hai mai voluto che fossi forte, vero? Ti piaceva essere la sorella capace, sicura di sé. Dopotutto, se tu fossi stata una piccola vittima lamentosa, allora papà se la sarebbe presa con te, non con me.» Melanie rimase a bocca aperta di fronte alle parole della sorella, alla rabbia e all'amarezza che tradivano. Scosse la testa. «Se avessi potuto, avrei preso il tuo posto, quando papà ti tormentava.» Mia si alzò. Melanie vide che tremava. «Può darsi perfino che tu lo creda davvero. È così eroico. Così coraggioso e altruista. E crederlo ti rende molto più facile convivere con il passato, ci scommetto.» Anche Melanie si alzò, profondamente addolorata. «Che cosa sta succedendo?» chiese. «Quando hai cominciato a odiarmi? Quando hai cominciato a pensare...» Si portò una mano alla bocca. «È sta-
ta Veronica, vero? È lei che ti mette contro di me e Ashley. È lei che ti sta... cambiando. Che ti rende... aspra.» «Il problema è sempre qualcun altro, vero, Melanie? Non sei mai tu. Veronica è mia amica. Mi capisce. Vuole che sia felice.» Melanie fece uno sforzo per raddrizzare il suo mondo che vacillava. Prima Ashley. Ora Mia. Che cosa stava succedendo? «Non ho mai desiderato altro che il meglio, per te. Non ho mai voluto altro se non che fossi felice.» «Be', allora il tuo desiderio è realizzato» scattò Mia. «Perché non sono mai stata più felice.» Un'ora dopo aver ricevuto l'ordine, la squadra tecnica del CMPD aveva completato il lavoro. Sugli alberi vicini alla tomba di Joli Andersen erano state montate tre telecamere, complete di trasmettitori audio e video. In un magazzino abbandonato, a diversi chilometri di distanza, Harrison e Stemmons potevano non solo vedere la scena, ma anche controllare la zona con telecamere mobili e zoomare su qualunque individuo che entrasse nel loro raggio d'azione. Invisibili raggi infrarossi avrebbero illuminato la scena di notte, il momento più probabile per la comparsa dell'assassino. Completato il lavoro dei tecnici, erano cominciati gli appostamenti. Agenti in borghese erano piazzati in vari punti del cimitero, comprese le due entrate, ciascuno fornito di microfono e auricolare. Per fortuna, il cimitero si trovava in una zona abbastanza popolata. Persone che facevano jogging, coppie che passeggiavano e automobili ferme non avrebbero suscitato sospetti. Bobby montava la guardia entro le mura del cimitero, mentre Melanie pattugliava l'esterno, fingendo di fare jogging. Dopo due notti di jogging, e nessun risultato, a parte una vescica sul tallone, aveva deciso che Bobby aveva ottenuto l'incarico migliore. In vista dell'entrata ovest, rallentò il passo, fingendo di controllarsi le pulsazioni. Indossava calzoncini, maglietta senza maniche e un marsupio che conteneva l'essenziale: pistola, manette e distintivo. Scrutò l'entrata del cimitero. A parte una donna che portava a spasso due bassotti, la strada era deserta. Nessun; veicolo era arrivato o partito dopo il suo ultimo passaggio, venti minuti prima. «Entrata ovest, tutto a posto» mormorò, frustrata. Connor aveva affermato che, considerate le circostanze, la probabilità che l'assassino si facesse vivo era massima nelle prime due notti di appo-
stamenti. Se il recente fallimento con Sugar non lo spingeva verso la tomba di Joli, niente ci sarebbe riuscito. In verità, Melanie temeva che fosse già passato troppo tempo, che in qualche modo l'assassino fosse sfuggito alla loro sorveglianza. O, peggio, che avesse scelto un'altra vittima. All'improvviso, Harrison parlò. «A tutte le unità. Un uomo, solo, si avvicina alla tomba. Mantenete le posizioni.» Tacque un momento, poi continuò: «Indossa pantaloni e maglietta, scuri. Scarpe da tennis. Capelli scuri. Si tiene a una certa distanza. Qualcosa deve averlo insospettito. Continua a fermarsi e a guardarsi alle spalle». Dal suo tono, Melanie capì che l'adrenalina era entrata in circolo. E anche la sua. Si tese. «Avanti» mormorò il detective, come se potesse parlare all'individuo sospetto. «Sei tutto solo, e lei è proprio lì. Va' da lei... Così... È tutta tua. Sì! È arrivato. Fermi tutti, ragazzi. Se è lui, abbiamo bisogno di registrare il più possibile.» I secondi passarono e Melanie cominciò a sudare. Passò una macchina, illuminandola per un momento con i fari. Da qualche parte, un gatto miagolò, la portiera di un'auto sbatté. Tutt'a un tratto, Harrison imprecò a bassa voce. «Parks aveva ragione. Quel bastardo è in ginocchio davanti alla lapide. Si sta aprendo la lam... Aspetta, zoomiamo. Così. È proprio quello che ci vuole per la giuria. Avanti, bello, così...» Melanie strinse i denti, cercando di concentrarsi sul lavoro che doveva fare, non sull'atto osceno che si stava compiendo a pochi metri di distanza. Una volta che l'assassino avesse finito di rivivere la sua fantasia, la paura lo avrebbe ripreso, e avrebbe cercato di allontanarsi al più presto. Finalmente, giunse l'ordine di Harrison. «A tutte le unità. Si sta muovendo. È diretto all'entrata est. Ripeto, l'entrata est.» Attraverso l'auricolare, Melanie sentì Harrison chiamarla. «May, dove sei?» «Fuori dall'entrata ovest.» «Bene. Taglia attraverso il cimitero per aiutare Bobby.» «Fatto.» Lei si mise a correre, nonostante il dolore al tallone. «Qualcuno lo vede?» chiese Harrison. «Bobby?» «Negativo. Sono all'entrata est. Nessuno in vista.» Harrison imprecò.
«Non mi piace. Perché ci mette tanto?» Davanti a sé, Melanie colse un movimento. Una figura che si muoveva verso l'estremità nord del cimitero. Cambiò direzione, comprendendo ciò che era successo. L'uomo aveva deviato bruscamente, e ora si stava dirigendo verso nord. Poiché da quella parte non c'era un'entrata, probabilmente pensava di scavalcare il muro. «Vedo il sospetto» mormorò. «Non si dirige... ripeto, non si dirige all'entrata est. Credo che voglia scavalcare il muro a nord. Tenete pronta un'unità. Io lo seguo.» Per quanto avesse parlato a bassa voce, l'uomo dovette sentire qualcosa, poiché si voltò e si guardò alle spalle. La vide, e si mise a correre. Melanie lo seguì, estraendo la pistola dal marsupio. «Fermo! Polizia!» «Sto arrivando, Mel!» gridò Bobby. «Niente eroismi!» Harrison fece eco al suo ammonimento, poi aggiunse: «Fermalo senza sparare, May. Ripeto. A meno che non faccia fuoco per primo, non sparare. Lo vogliamo vivo». Con le parole di Harrison che le risuonavano nell'orecchio, Melanie accelerò la corsa, ansimando. L'uomo raggiunse il muro e cominciò ad arrampicarsi, abbastanza agilmente per la sua corporatura. Melanie spiccò un balzo e lo afferrò per la cintura dei pantaloni, tirandolo indietro, ma nello stesso tempo perse la pistola. Lui lasciò la presa, ed entrambi caddero. L'uomo atterrò su di lei, togliendole il respiro. Si rialzò in un batter d'occhio e ritentò la scalata. Dietro di sé, Melanie sentì i tonfi dei passi di Bobby, lo udì gridare che l'aveva vista. Ma non poteva aspettare il suo aiuto. Affrontò di nuovo il sospetto e, ancora una volta, entrambi caddero. Stavolta, fu lui a rimanere stordito, e Melanie balzò in piedi, assumendo automaticamente la posizione di guardia più efficace del tae kwon do. Quando lui cominciò ad alzarsi, gli diede un'occhiata. Per quanto avesse visto l'identikit, non si aspettava che fosse così bello. Bello da togliere il respiro. Per un attimo, esitò, pensando di avere commesso un errore. Quell'uomo non poteva essere un assassino. Non poteva essere colui che aveva legato, imbavagliato e ucciso Joli Andersen. Ma lo era. E aveva tolto il respiro anche a Joli. Letteralmente. Melanie lo colpì con un doppio calcio, il primo alla spalla, l'altro al lato della testa. L'uomo cadde di schianto, a faccia avanti. Lei gli fu sopra in un lampo e lo ammanettò.
A quel punto, scoppiò l'inferno. Bobby arrivò, pistola in pugno. Dall'altra parte del muro giunse l'ululato delle sirene, lo stridio dei freni, lo sbattere delle portiere. Le auto della polizia gettavano fasci intermittenti di luce rossa attraverso i rami appena sopra la sua testa. Melanie recitò all'uomo i suoi diritti e si alzò, barcollando leggermente. La testa le doleva, nel punto in cui l'aveva battuta a terra, il ginocchio sinistro sanguinava e il tallone le faceva un male del diavolo. Bobby la squadrò. «Tutto okay, socia?» «Vuoi scherzare?» Lei sorrise. «Non sono mai stata meglio.» CAPITOLO 23 Il sabato seguente, Casey svegliò Melanie balzando sul suo letto. «Mamma! È ora di alzarsi!» Melanie gemette e rotolò su se stessa. «Guarda i cartoni animati» borbottò, tirandosi il guanciale sulla testa. Già esausta per due notti di appostamenti, aveva dormito ben poco, tormentata dalle preoccupazioni per Ashley e per il deteriorarsi del suo rapporto con Mia. «Svegliami più tardi.» Lui rispose facendo una specie di danza di guerra sul letto. «Lo zoo!» strillò. «Lo zoo!» Melanie gettò il guanciale sul pavimento e fece uno sforzo per mettersi a sedere. «Io ci vivo, in uno zoo» si lamentò. Ma sorrise. «Siamo un po' eccitati, eh?» Ora che era del tutto sveglia, doveva ammettere che anche lei era un po' eccitata. Quel giorno, Connor li avrebbe portati entrambi allo zoo. Benché Casey avesse passato, saltuariamente, un'ora o due in compagnia di Connor, quella era la prima uscita programmata per tutti e tre. Melanie sorrise a suo figlio e gli tese le braccia. «Vieni a darmi un bacio per mettermi in moto.» Lui ubbidì, poi ruzzolò dal letto. «Sbrigati, mamma. Connor arriverà presto.» Due ore e mezzo dopo, preparato il cesto del picnic, fatta la doccia, truccata e pettinata, Melanie accolse Connor alla porta di casa. «Pronti?» chiese lui. «Puoi scommetterci!» rispose Casey, saltellando da un piede all'altro.
«Andiamo, mamma!» Melanie rise. «Pronti. Prendo il cesto.» «Lo prendo io» si offrì Connor. Poi si rivolse a Casey. «La macchina è aperta, giovanotto. C'è una sorpresa per te sul sedile posteriore. Puoi prenderla ora, se vuoi.» Casey corse via. «Una sorpresa?» chiese Melanie. «Un berretto con lo stemma dell'FBI.» Connor si strinse nelle spalle. «Sembrava molto interessato, quando gli parlavo dell'FBI.» «Interessato? Puoi dire al settimo cielo. Non fa che giocare a guardie e ladri!» Melanie scoccò un'occhiata a Connor. «A proposito, hai sentito le ultime sull'indiziato dell'omicidio di Joli Andersen?» Lui scosse la testa. «È risultato che corrisponde perfettamente al tuo profilo. È tirocinante del secondo anno al Queen's City Medical Center, vive ancora con la madre, con la quale, pare, ha un rapporto di odio-amore. Ha una BMW di tre anni fa in perfette condizioni e vive al di sopra dei suoi mezzi. E l'elenco potrebbe continuare.» «Avanti, voi due!» chiamò Casey, spazientito. Si diressero verso la macchina e Connor lanciò un'occhiata a Melanie. «Stai bene?» «Certo. Perché?» «Hai l'aria di aver passato un paio di notti in bianco.» Melanie apri la bocca per dirgli tutto... di Ashley, di Mia. Dei suoi sospetti. Ma la richiuse, riconoscendo che non era il momento. «Sto ancora recuperando dopo gli appostamenti al cimitero» mormorò invece. Connor la guardò di nuovo e lei arrossì, rendendosi conto che le leggeva dentro. Come ci riusciva? Come poteva conoscerla così bene da sapere che cosa provava, e quando gli taceva qualcosa? «Sono qui, se vuoi parlarne.» «Grazie.» Connor mise il cesto nel baule, poi salirono entrambi. Melanie notò che Casey si era tolto il berretto dei Panthers per mettersi quello che gli aveva portato Connor. Vide che anche Connor lo aveva notato, e che ne era compiaciuto. Connor allacciò la cintura di sicurezza, accese il motore e guardò Casey. «Okay. Pronto per una giornata alla grande?»
La giornata fu più che alla grande. Fu perfetta. Casey era pazzo di Connor, ed era evidentemente ricambiato. Melanie non avrebbe mai creduto che un affermato profiler dell'FBI potesse comportarsi così ridicolmente, fino a fingersi un elefante perché Casey potesse cavalcarlo! La giornata finì anche troppo presto, anche se la prolungarono con una cena a base di pizza e Coca. Quando arrivarono a casa, Casey tirò Connor per la mano e supplicò Melanie di permettergli di rimanere alzato il tempo necessario per mostrargli la sua camera e la collezione di soldatini. Melanie capitolò, divertita. «Ma ti avverto, giovanotto, dopo i soldatini, a letto» affermò, aprendo la porta. Mentre Casey mostrava a Connor i suoi tesori, Melanie controllò la posta, poi la segreteria telefonica. La luce lampeggiava e lei premette il pulsante di ascolto. Tutt'a un tratto, la voce di Ashley riempì la stanza. Piangeva, e la voce era roca. «Mel... Mellie, sono io. Devi... devi... Mi dispiace. Mi dispiace tanto... Non puoi immaginare quello che ho fatto per... Non hai mai capito, non mi hai mai aiutata... Ma io ti ho sempre voluto bene ugualmente, Mel. Ho sempre...» La segreteria le tagliò la parola. Secondo l'orologio datario automatico, il messaggio era stato registrato la sera prima. Casey era fuori con il padre, che non aveva potuto vederlo quel sabato per un impegno di lavoro. Lei era andata in palestra. Distratta e preoccupata, aveva dimenticato di controllare la segreteria, al suo ritorno a casa. Riascoltò il messaggio, cercando di trovare un senso nelle parole di Ashley. La sua preoccupazione divenne gelido terrore. Che cosa aveva fatto sua sorella? Prese il telefono e compose il numero di Ashley. Rispose la segreteria e lei lasciò un messaggio, supplicandola di richiamarla. Poi tentò sul cellulare, e lasciò un altro messaggio. «Che succede?» Melanie si voltò di scatto. «Connor! Non ti avevo sentito.» Lui accennò al telefono che stringeva in mano. «È successo qualcosa?» «No.» Melanie depose il ricevitore. Avrebbe dovuto dirgli tutto, ma non ora. «Ha telefonato mia sorella Ashley. Ha qualche... problema personale.»
Fece uno sforzo per sorridere. «Dov'è Casey?» «Sta mettendo insieme un super commando. Mi ha mandato a cercarti.» Lei rise, ma la risata suonò falsa alle sue stesse orecchie. Casey inscenò una battaglia in piena regola, completa di effetti sonori. Dopo un po', però, Melanie chiese un cessate il fuoco, in modo che il generale potesse fare un sonnellino. Casey protestò, ma sbadigliando, e alla fine si mise a letto... a condizione che Connor gli leggesse una storia. Melanie aprì la bocca per trarlo gentilmente d'impaccio, ma Connor accettò prima che lei potesse parlare. Le storie divennero tre. Melanie si mise a sedere, ascoltò e osservò. Era evidente che Connor si divertiva. Ed era altrettanto evidente che Casey aveva trovato un nuovo amico. Era troppo. Troppo presto, troppo bello. Si stava innamorando di Connor. E lui si stava innamorando di suo figlio. Si voltò dall'altra parte, con la gola stretta, ricordando ciò che Connor le aveva detto sulle ragioni del proprio matrimonio, su com'era finito, sul suo amore per il figliastro. E pensò a quel giorno, a come Connor era sembrato rinascere accanto a Casey, come le ombre si erano cancellate dal suo viso, lasciandolo giovane e spensierato. Si sentì come se il cuore le si spezzasse. «Ancora una storia. Per favore.» «Assolutamente no» affermò Melanie, alzandosi e avvicinandosi al letto. Dopo l'inevitabile minuto di proteste, Casey si rassegnò. Melanie lo baciò, gli rincalzò le lenzuola, poi lei e Connor uscirono dalla stanza in punta di piedi, benché il piccolo fosse ormai praticamente già addormentato. «Bevi qualcosa?» chiese lei, entrando in soggiorno. «Un bicchiere di vino o una birra?» «No, grazie.» Connor la prese fra le braccia. «Ho passato una bellissima giornata.» Lei sorrise, poi gli allacciò le braccia attorno al collo. «Anch'io.» «Hai un figlio fantastico.» «Grazie. Lo penso anch'io.» Melanie si sciolse dall'abbraccio di Connor. «Un caffè?» «Certo. Posso aiutarti?»
«No, mettiti comodo.» Lui la raggiunse ugualmente in cucina e si appoggiò al piano di lavoro, seguendo con lo sguardo i suoi gesti. «Quando non si ha la possibilità di frequentare bambini, si dimentica come sanno illuminare una stanza. Come possono trasformare la notte in giorno.» Lei mormorò qualcosa di vago. Parla di noi, lo sollecitò silenziosamente. Parla del caso, dell'FBI, del tempo, per l'amor del cielo. Parla di qualunque cosa, tranne di quanto ti piace stare con mio figlio. «Jamey era così» continuò Connor. «Potevo arrivare a casa con tutto il peso del mondo sulle spalle, e un quarto d'ora dopo non avere una sola preoccupazione in testa. Mi è mancato, più di quanto avrei mai potuto immaginare...» «Basta, okay?» Melanie si voltò a guardarlo. «Smettila, per favore.» Connor corrugò le sopracciglia. «Ho fatto qualcosa di male?» Lei avrebbe voluto gridare: Sì, ti sei innamorato di mio figlio, anziché di me! Invece mormorò, calma: «Dobbiamo... Credo che dobbiamo essere chiari su ciò che sta succedendo qui. Fra noi». Connor attese e lei respirò a fondo. Doveva farlo. Era necessario. Ma la verità era che quello che desiderava era accettare qualunque cosa lui fosse disposto a offrirle. «Casey non è il figliastro che hai perduto, Connor» disse. «Io non sono la tua ex moglie, e noi non siamo il tuo mezzo per tornare alla vita.» Fece una pausa, sperando che lui la interrompesse negando, protestando la propria innocenza. Invece, Connor si limitò a guardarla con espressione indecifrabile. La delusione le bruciò la gola. «Non posso permetterti di servirti di noi, di servirti di Casey, come di un mezzo per sentirti meglio con te stesso. Non funzionerebbe. Lo sai come lo so io. Sappiamo anche che Casey finirebbe per soffrirne.» «Capisco.» Lui si raddrizzò. «Mi stai dando il benservito, vero?» «Non vorrei, Connor. Vorrei che tu restassi. Voglio che facciamo l'amore. Ma quello che voglio non è importante. Casey lo è.» «Mi stai chiedendo un impegno?» «Non si tratta di questo.» Melanie distolse lo sguardo, solo per un momento, però. «Guardami negli occhi, Connor. Guardami negli occhi e dimmi che non stai facendo con noi ciò che hai fatto con la tua ex moglie. Dimmi che sei interessato a me, non ad avere una famiglia. È tutto quello che voglio, Connor.»
Lui rimase in silenzio per un attimo, poi scosse la testa. «Non posso. Mi dispiace.» Un sospiro doloroso sfuggì dalle labbra di Melanie. Andò alla porta posteriore, l'aprì e si voltò a guardarlo. «Credo sia meglio che tu vada.» Lui si avvicinò alla porta, ma non la varcò. Le posò una mano sulla guancia. Lei si accorse con orrore di avere gli occhi colmi di lacrime. Una superò la sua guardia e scivolò sul viso. «Non posso dirlo, perché non lo so» mormorò Connor. «Oggi è stato bello. Bellissimo. Mi ha riportato alla memoria ricordi così... dolci. E negli ultimi anni ho avuto maledettamente pochi giorni come questo. E anche meno ricordi di questo genere.» Le passò i pollici sugli zigomi, asciugandole le lacrime. «Non posso dirlo, Melanie, perché non voglio commettere un errore. Perché non voglio farvi soffrire. Nessuno dei due.» Il telefono squillò. Connor lasciò ricadere la mano e varcò la soglia. Lei tese la mano per trattenerlo, per richiamarlo. La supplica le morì sulle labbra. Lui se n'era già andato. Il telefono squillò di nuovo e Melanie afferrò il ricevitore, certa che si trattasse di sua sorella. «Ashley?» «No, Stan.» «Stan?» Melanie scoccò un'occhiata all'orologio sulla parete, disorientata. «Credevo che fossi fuori città.» Lui la interruppe. «Ne ho abbastanza della tua piccola campagna terroristica, Melanie. Veglio che tu la smetta.» Lei batté le palpebre, confusa. «Smettere che cosa? Stan...» «Piantala, Melanie. So che cosa stai cercando di fare, e non funzionerà. Pensavi davvero di potermi spaventare al punto da farmi rinunciare alla custodia di Casey? Pensavi di poter spaventare Shelley abbastanza da indurla a convincermi?» «Spaventare Shelley?» Il panico strinse la gola di Melanie. «Ti assicuro che non so di che cosa stai parlando. Non ho...» «Non ho creduto a Shelley finché non ti ho vista con i miei occhi. Se torni qui, se ti vedo aggirarti di nuovo qui intorno, chiamo la polizia. Capito?» «Stan, per favore. Avevamo un accordo. Perché metterei in pericolo...»
«Giusto, avevamo un accordo. Ora non lo abbiamo più. Tu lo hai mandato all'aria, Melanie.» Il mattino dopo, fu il campanello della porta a svegliare Melanie. Scese dal letto, attenta a non disturbare Casey che, a un certo punto della notte, si era arrampicato accanto a lei. Il campanello suonò di nuovo e Melanie infilò la vestaglia e corse ad aprire. Con sua sorpresa, si trovò davanti Harrison e Stemmons. In occhiali da sole e completo scuro, sembravano usciti da un telefilm poliziesco di second'ordine. «Pete? Roger?» Melanie batté le palpebre, confusa. «Che cosa ci fate qui?» «Melanie, devi venire al quartier generale. Dobbiamo interrogarti.» «Interrogarmi?» Lei scosse la testa nello sforzo di schiarirsela. «Che ora è?» «Le otto e dieci.» Le otto? Domenica mattina? Melanie guardò dall'uno all'altro. «Avete bisogno di me subito?» «Temo di sì» mormorò Pete. «C'è stato un attentato alla vita del tuo ex marito.» Quella notizia finì di svegliarla. «Stan? Qualcuno ha cercato di ucci...» «Di avvelenarlo. Per fortuna, ha fallito.» «Mamma?» Melanie si voltò di scatto. Casey era sulla soglia, con il suo coniglio stretto al petto e l'aria spaventata. Lei andò a prenderlo in braccio. «Va tutto bene, tesoro. La mamma deve andare al lavoro.» Guardò i due detective. «Entrate. Ci vorrà qualche minuto. Devo vestirmi e chiamare la babysitter.» Fu solo venti minuti dopo, seduta sul sedile posteriore, con Harrison e Stemmons silenziosi davanti a lei, che Melanie si rese conto di ciò che stava accadendo. Volevano interrogarla in relazione all'attentato alla vita di Stan. Le sembrava impossibile. Un errore ridicolo. Uno scherzo di pessimo gusto, giocato da qualcuno che possedeva un senso dell'umorismo perverso. Lo disse ai due detective non appena furono disposti ad ascoltarla. «State abbaiando sotto l'albero sbagliato, se pensate che io c'entri per
qualcosa.» «Il tuo ex marito ha intentato causa per la custodia di vostro figlio» mormorò Pete. «A me sembra un buon movente.» Erano seduti nella stessa stanza in cui si erano trovati pochi giorni prima, allo stesso tavolo nudo, con la telecamera puntata sulla faccia di Melanie. Chi stava osservando lo spettacolo, giudicando ogni sua parola, ogni suo movimento?, si chiese. Connor? Il suo capo? Un rappresentante dell'ufficio del procuratore distrettuale? Quanto era grave la sua situazione? «No.» Si chinò in avanti, desiderando disperatamente che i due le credessero. «Eravamo giunti a un accordo. Volevamo trovare un compromesso, per il bene di Casey.» «Non è quello che ha dichiarato il tuo ex marito» la contraddisse Pete. «Ha affermato che lo hai spiato» intervenne Roger. «Ti ha vista dalla finestra del suo ufficio, nel posteggio dell'edificio. E un suo vicino ti ha vista aggirarti furtivamente intorno a casa sua, una sera. La guardia al cancello del complesso residenziale ti ha fatta entrare.» «Ma non ha senso!» «Che cosa mangia a colazione il tuo ex marito?» Fu Pete a porre la domanda, e lei si voltò a guardarlo, momentaneamente disorientata dal repentino cambio di argomento. «Un misto di cereali che si prepara da solo.» «Quando eravate sposati, come chiamavi quella mistura?» «La chiamavo foglie e sterpi.» Melanie guardò l'orologio, frustrata, pensando a Casey. «Stan è un salutista fanatico. Corre per sette o otto chilometri ogni mattina e segue una dieta con pochi grassi e molte fibre. Lo fa da anni.» «Qualcun altro mangia i suoi cereali?» «Nessun altro ce la farebbe. Credetemi, ci ho provato.» Gli investigatori si scambiarono un'occhiata, poi Pete continuò: «A che ora si alza tuo marito?». «Alle cinque. Per correre. A meno che non abbia cambiato dopo il divorzio.» «Lo descriveresti come un abitudinario, che rispetta gli orari al secondo?» «Sì.» Pete si alzò e girò attorno alla sedia di Melanie, costringendola a torcere il collo per seguirlo.
«Alle cinque di stamattina, come al solito, il tuo ex marito si è alzato, si è vestito e si è preparato una ciotola dei suoi cereali. Gli è sembrato che il miscuglio avesse un aspetto un po' diverso dal solito, ma non ci ha badato. Fino a quando non si è sentito male mentre faceva jogging.» Melanie si portò una mano alla bocca, cominciando a capire qual era la conclusione della storia. «È tornato indietro» proseguì Pete. «Vomitando tre volte lungo la strada e sudando profusamente. Poi si è ricordato dei cereali. È andato a controllare, e ha constatato che contenevano degli ingredienti che non riconosceva. Ironicamente, radici e foglie finemente tritate.» «Oh, mio Dio...» mormorò Melanie, raggelata. «Che cosa...» «Oleandro. Altamente tossico.» «Come sta?» «Ha avuto fortuna. La moglie lo ha portato all'ospedale, dove gli hanno praticato una lavanda gastrica. Altrimenti...» «A quest'ora sarebbe morto» completò Roger. «Hai diversi arbusti di oleandro in giardino, vero?» chiese Pete. Lei si sforzò di controllare la paura. «Come circa il cinquanta per cento degli abitanti di Charlotte. Non è certo una pianta rara.» «Ma il cinquanta per cento degli abitanti di Charlotte non aveva un motivo per volere morto Stan May. Tu sì, invece.» Melanie scosse la testa. «È una follia. Non crederete sul serio che abbia tentato di uccidere il mio ex marito?» «Perché no? Conosci le statistiche, Melanie. Nel cinquantasette per cento dei casi di omicidio, la vittima conosceva il suo assassino. E nel diciassette per cento, si trattava di un parente.» «E che mi dite del fatto che sono un'agente di polizia? Che ho giurato di far rispettare la legge, non di violarla? O del fatto che stiamo parlando del padre di mio figlio? Perché avrei dovuto privarlo di una delle persone più importanti della sua vita?» «Perché non ce lo dici tu?» «Ho bisogno di un avvocato?» «È un tuo diritto, naturalmente.» Melanie rifletté, poi scosse la testa. «Continuiamo. Per ora.» «C'è un fatto che credo troverai interessante» seguitò Pete. «Sapevi che la reazione dell'organismo al veleno dell'oleandro è simile a quella della
digitalina? O che la cura è molto simile?» Lei corrugò le sopracciglia. «Non capisco di che cosa stai parlando.» «Non ti pare una coincidenza curiosa? Dopotutto, tuo padre è morto per una dose eccessiva di digitalina. E anche la prima vittima dell'Angelo nero su cui hai attirato la nostra attenzione.» Il senso e le implicazioni delle parole del detective colpirono Melanie come uno schiaffo in pieno viso. Suo padre. L'Angelo nero. Boyd. E ora, Stan. Ashley. «Melanie?» insistette Pete, chinandosi verso di lei. «Non la trovi una strana coincidenza?» Lei sostenne il suo sguardo. Odiava fare questo, tradire una persona che amava e aveva sempre cercato di proteggere. Ma non aveva scelta. Ashley aveva bisogno di aiuto. Doveva essere fermata. «Sì.» Roger emise un sospiro, come di sollievo, e Pete gli scoccò un'occhiata di avvertimento. «Avanti, Melanie, raccontaci tutto.» Lei respirò a fondo e iniziò: «Ho cominciato da poco a capire, e non ho detto niente a nessuno, neppure a Connor Parks, anche se lavoriamo insieme al caso dell'Angelo nero. Non potevo dire nulla, fino a quando non fossi stata sicura». Si guardò le mani, strettamente intrecciate in grembo, poi alzò di nuovo gli occhi su Pete. «Mia sorella Ashley si comporta stranamente, da qualche tempo. Ero preoccupata, certo, ma non spaventata... fino a questi ultimi giorni.» Con voce tremante, riferì le sue conversazioni con Ashley, le cose che sua sorella aveva detto a proposito dell'Angelo nero e della giustizia, come Ashley aveva alluso a ciò che aveva fatto per le sorelle, fino al messaggio di qualche sera prima. E, da ultimo, espose le conclusioni che era stata costretta a trarre da tutto questo. Quando ebbe finito, Pete si appoggiò allo schienale, incredulo. «Stai accusando tua sorella di essere l'Angelo nero?» Un nodo strinse la gola di Melanie. «Non vorrei farlo. Amo Ashley. Però, se è colpevole, dev'essere fermata.» Roger sbuffò, disgustato. «Stai cercando di scagionarti gettando la colpa su tua sorella? È la cosa più patetica che abbia mai sentito.»
«Dicci la verità!» insistette Pete. «È quello che sto facendo!» Melanie si interruppe per un momento, raccogliendo le idee. «Mia sorella si adatta al profilo perfettamente per età, istruzione, storia familiare e personale. Inoltre, come rappresentante di medicinali, ha accesso a informazioni specialistiche. E ha ampie opportunità di conoscere le donne che ritiene di aiutare. Quadra tutto.» Pete non batté ciglio. «Quadra anche con te, Melanie.» Era vero. Anche lei si adattava al profilo. Perché non ci aveva pensato prima? «Il tuo ex marito ti ha vista. Ti ha riconosciuta. Come lo spieghi?» «Ashley e io ci somigliamo, tanto che spesso ci scambiano l'una per l'altra. Non siamo proprio identiche, ma, nelle circostanze che hai descritto, Stan può averla facilmente presa per me.» «Indossavi l'uniforme.» Lei guardò Pete, sbalordita. «L'uniforme?» «L'uniforme della polizia di Whistlestop. Probabilmente, è per questo che hai convinto la guardia a farti entrare. Vuoi tentare di spiegarci anche questo?» Lei scosse la testa, sempre più confusa. Ashley aveva voluto incastrarla. Ma perché? «Vuoi cambiare la tua storia?» chiese Roger. «Non hai via d'uscita, lo sai come lo sappiamo noi.» Melanie guardò la telecamera. Connor era dietro quel vetro, ora lo sapeva. Era là a giudicare ogni suo gesto, ogni sua parola. Lui che la conosceva così bene, poteva davvero ritenerla colpevole? Poteva pensare che fosse lei l'Angelo nero? Era un pensiero insopportabile. Guardò l'investigatore negli occhi, giurando a se stessa che non avrebbe dato a vedere quanto era scossa, quanto era spaventata. «Siete pronti a incriminarmi per qualche reato?» «Non ancora» ammise Pete. «Allora, me ne vado.» Melanie si alzò. «Se avrete altre domande, dovrete mettervi in contatto con il mio avvocato.» CAPITOLO 24 Connor era in piedi davanti al monitor, a fissare la stanza ormai vuota.
Dietro di lui, Harrison e Stemmons tenevano corte con gli altri presenti: un rappresentante dell'ufficio del procuratore distrettuale, il capo di Melanie e un tenente del CMPD, capo della Omicidi. «Melanie lavora con me ormai da tre anni» stava dicendo il capo Greer. «È un buon agente e un'ottima persona. Ci vorrà ben più di questo per convincermi che è un'assassina.» «Vi ci vorrà assai più che le ipotesi e le prove circostanziali che avete adesso, prima che il mio ufficio si muova» rincarò l'assistente del procuratore distrettuale. «Lo avremo» rispose Pete. «Entro un'ora otterremo un mandato di perquisizione.» «Ha retto bene, durante l'interrogatorio» osservò il tenente del CMPD. «Anzi, Pete, può darsi che tu ti sia spinto troppo oltre. Potrebbe lasciare la città.» «Non andrà da nessuna parte» ribatté Roger. «Suo figlio è qui. E anche le sue sorelle. Inoltre, è convinta di essere tanto in gamba da cavarsela.» Connor si voltò. «E quanto a sua sorella? A me la sua storia è sembrata plausibile.» «Entrambe le sorelle hanno un alibi per la notte dell'omicidio di Donaldson» rispose Pete. «E poi c'è la faccenda dell'uniforme.» Connor sollevò le sopracciglia. «Già, parliamo dell'uniforme. Perché avrebbe dovuto indossare un indumento così riconoscibile, mentre doveva passare inosservata? Non è stupida.» «Non ha torto» disse l'assistente del procuratore. «È sicura del fatto suo. Non crede che la incastreremo. Pensa che l'uniforme le dia accesso a luoghi in cui, in borghese, non potrebbe entrare.» «Come il complesso residenziale del suo ex» intervenne il tenente. «Giusto.» Roger annuì. «Inoltre, nessuno si stupisce di veder circolare un poliziotto. Anzi, il cittadino medio si sente protetto, se vede la polizia.» Connor corrugò la fronte, ammettendo silenziosamente che quell'argomento era valido. «Potrei darvi il nome di una mezza dozzina di negozi di costumi che noleggiano uniformi che sembrano vere. E in quella della polizia di Whistlestop non c'è niente di così caratteristico da renderla immediatamente identificabile.» «Il fatto è che abbiamo un testimone che afferma che Melanie gli faceva la posta» scattò Pete. «Ha minacciato Boyd Donaldson. E non ha uno
straccio di alibi per nessuno dei due delitti.» «Non basta per incriminarla» mormorò l'assistente del procuratore. «Ma credo che sia un inizio convincente.» Connor scosse la testa. «Non mi persuade. Melanie May non è un'assassina.» «Sentito?» saltò su Greer. «Guarda il tuo profilo, Parks. È fatto su misura per lei, compreso il padre violento e la conoscenza dei metodi della polizia.» «Aspetta un momento» disse Connor. «Stai davvero insinuando che Melanie è l'Angelo nero? È lei che ci ha segnalato l'Angelo. Se avesse ucciso tutti quegli uomini, perché lo avrebbe fatto? Non ha senso.» «Ha perfettamente senso» lo contraddisse Pete, gongolante. «Non esiste alcun Angelo nero, Parks. Melanie lo ha inventato come un'elaborata cortina fumogena per coprire l'omicidio sia dell'ex marito, sia del cognato. Pensaci. Melanie vuole liberarsi dell'ex marito, che le causa un sacco di problemi. Vuole aiutare la sorella, il cui marito la picchia. Ha un'idea, fa qualche ricerca, scova qualche altra vittima, forse ne aumenta un po' il numero, per maggiore credibilità. Conosce Thomas Weiss, e in qualche modo viene a sapere della sua allergia. Jim McMillian è malato di cuore, come il suo vecchio. Che differenza fa?, pensa. Non sono altro che dei bastardi che maltrattano le donne, proprio come suo padre. E poi, una volta sistemato tutto, va in cerca di qualcuno che le creda... e a questo punto entri in scena tu, Connor. Sei un profiler, hai lavorato a Quantico, questo è il tuo campo. Se convince te, ce l'ha fatta.» Pete si concesse una pausa. Nella stanza, il silenzio era così totale che si sentivano addirittura gli scatti della lancetta dei secondi dell'orologio a muro. Connor avrebbe voluto demolire la teoria del detective, ma non poteva. Non solo era possibile, era anche ingegnosa. «Ha commesso un solo errore» continuò Pete. «Si è rivolta a te. Tu hai elaborato il suo profilo.» Il capo di Melanie borbottò un'imprecazione. L'assistente del procuratore chiuse la borsa con un colpo secco. «Procuratevi il mandato» disse. «Sta arrivando.» Pete guardò Connor. «Mi dispiace. So che siete diventati amici.» «Non sono ancora convinto.» «Presto sapremo. Se la perquisizione dà qualche risultato, procederemo. In caso contrario, cercheremo altrove. È semplicissimo.»
Melanie giunse a casa, la mente in subbuglio. Sapeva che la polizia si sarebbe mossa in fretta. Avrebbero ottenuto un mandato di perquisizione entro un'ora, e sarebbero arrivati in forze. Scendendo dal taxi, lottò contro le lacrime, temendo che, se avesse cominciato a piangere, non sarebbe più riuscita a smettere. Entrò in casa dalla porta del garage, senza chiamare. Sperava di evitare di vedere Casey fino a quando non si fosse sentita meno scossa, più controllata. L'ultima cosa che voleva era spaventarlo. Trovò la signora Saunders che, in soggiorno, contava ad alta voce. Lei e Casey stavano giocando a nascondino, e lei era sotto. Melanie si sforzò di apparire normale. «Sono a casa.» Alla vicina bastò un'occhiata alla sua faccia. «Che cosa è successo?» «Si vede tanto?» La donna annuì. «È successo... qualcosa di terribile. Può rimanere ancora un po'? Chiamerò mia sorella e le chiederò se può tenere Casey per oggi.» Melanie andò in camera da letto per telefonare a Mia in privato. «Mia, sono io.» «Melanie! Sono contenta che tu abbia chiamato. Mi sento in un modo orribile, pensando all'altro giorno. Le cose che ho detto... Mi dispiace tanto. Non so che mi abbia preso...» Lei la interruppe. Non aveva molto tempo. «È successo qualcosa» le disse. «Qualcosa di brutto. Ho... ho bisogno di te. Casey...» Si interruppe, sforzandosi di non andare completamente in pezzi. «Sono nei guai, Mia. Puoi venire?» «Vengo subito.» Fedele alla sua parola, Mia arrivò in pochi minuti. Melanie cadde nelle braccia della sorella. «Grazie» mormorò. «Se non fossi venuta... Non so che cosa fare, Mia. Qualcuno ha cercato di uccidere Stan, e pensano... pensano che sia stata io!» balbettò, tremando. «Oh, mio Dio...» Mia l'allontanò da sé per guardarla. «Calmati, e dimmi esattamente che cos'è successo.» Melanie raccontò l'essenziale, con voce rotta. «Pensano che abbia ucciso Boyd e abbia tentato di uccidere Stan» concluse. «Credono che sia l'Angelo nero.» «Ma è assurdo!»
«Dillo a loro.» Melanie respirò a fondo, rabbrividendo. «Mi aspetto che arrivino con un mandato di perquisizione fra meno di un'ora. In condizioni normali, sarei felice di poter provare la mia innocenza. Ma se qualcuno sta cercando di incastrarmi... chissà che cosa potrebbero...» La voce le si spezzò, e lei tacque un momento per dominarsi. «Non voglio che Casey sia qui quando... quando accadrà. Puoi tenerlo con te per oggi?» «Ma certo, Mellie. Ti aiuterò in qualunque modo potrò.» «C'è un'altra cosa che ho bisogno che tu faccia, Mia. È importante.» Melanie prese le mani della sorella. «Devi aiutarmi a trovare Ashley. È coinvolta in tutto questo.» «Non capisco» affermò Mia, confusa. «Come può Ashley...» Melanie spiegò le proprie conclusioni il più rapidamente possibile, compreso il fatto che Ashley, oltre ad adattarsi perfettamente al profilo tracciato da Connor, si era fatta passare per lei in almeno due occasioni. «Ma, Mel, io mi sono fatta passare per te un milione di volte e questo non significa...» «Quelle erano ragazzate. A Charleston, lei si è presentata in veste ufficiale. Aveva l'uniforme, un documento falso. Mi ha telefonato l'altra sera. Diceva cose folli. Si scusava e chiedeva il mio perdono per qualcosa che stava per fare, e credo proprio che si riferisse ai cereali avvelenati di Stan.» Mia si portò la mano alla bocca, sbalordita. «Mio Dio. Ashley, l'Angelo nero? Non posso crederci.» «Non vorrei neppure io. Ma non so che altro pensare. Tutto quadra... le sue conoscenze farmacologiche, la rassomiglianza con me, il suo strano comportamento...» «La troverò» mormorò Mia. «Veronica mi aiuterà.» «No.» Melanie le afferrò il braccio. «Non può, Mia. Fa parte della procura distrettuale. Il suo dovere...» Mia scosse la testa. «Conosco Veronica. Ci aiuterà. Mi aiuterà. Siamo...» «Zia Mia!» Mia si voltò e apri le braccia a Casey. «Ehi, tigrotto! Vieni a dare un bacio alla zia!» Lui corse ad abbracciarla. «Sei venuta a giocare con noi?» «Meglio ancora. Andremo a casa mia e passeremo tutta la giornata insieme. Solo tu e io.» Lui fece il broncio.
«Senza la mamma?» Melanie si trattenne a stento dallo scoppiare in lacrime. «Mi dispiace, piccolo. La mamma deve lavorare.» «È una giornata calda, perciò che ne diresti se andassimo in piscina?» si intromise Mia, vedendola sul punto di mettersi a piangere. Casey si illuminò e corse via in cerca di occhiali e pinne. Melanie ringraziò la signora Saunders, che indugiava, incerta, sulla soglia, e l'accompagnò alla porta, poi tornò da Mia. «Preparo una valigetta per Casey.» «Mettici anche qualcosa per la notte... Non si sa mai.» Mia accennò alla cucina. «Ti spiace se prendo una Coca dietetica, prima di andare?» Lei le disse di servirsi e seguì Casey. Insieme prepararono una piccola valigia, aggiungendovi tutti i suoi giocattoli preferiti. Mia li aspettava sulla porta di casa. Melanie si chinò ad abbracciare forte Casey. «Ti voglio bene» sussurrò. «Divertiti e fa' il bravo bambino.» «Sicuro. Anch'io ti voglio bene. Tanto...» Casey allargò le braccine il più possibile. «... Così.» «Sali pure in macchina, tigrotto» disse Mia, vedendo che Melanie era di nuovo sul punto di piangere. Lei lo seguì con lo sguardo, poi guardò la sorella e scoppiò in lacrime, singhiozzando come non aveva più fatto dal giorno del funerale della madre. «Non posso credere che stia succedendo questo.» Mia l'abbracciò, protettiva. «Risolveremo tutto, sorellina. Te lo prometto.» «Fa' in modo che Casey non senta...» «Sta' tranquilla.» «La televisione. Qualcosa potrebbe...» «Lo so. La terrò spenta.» Melanie appoggiò la fronte a quella di Mia, indicibilmente confortata dalla sua presenza. «Dobbiamo trovare Ashley. È coinvolta, Mia. Lo so.» «La troverò, Mel, te lo prometto.» Mia guardò verso la sua auto, dove Casey si stava già allacciando la cintura di sicurezza. «Sono qui, Mel» sussurrò. «La polizia.» Melanie si raddrizzò, asciugandosi in fretta gli occhi. Due autopattuglie e un'anonima Ford si erano fermate davanti alla casa. Dalla Ford scesero
Harrison e Stemmons. «Va'» disse. «Porta via Casey.» Mia la guardò per un momento, poi annuì. «Io credo in te, Melanie. Andrà tutto bene.» Si diresse verso la macchina, facendo un cenno ai detective mentre passava. Melanie salutò Casey con la mano fino a quando l'auto della sorella non scomparve. Solo allora si rivolse a Pete e Roger. «Sapevi che stavamo arrivando» osservò Pete, mettendole in mano il mandato di perquisizione. «Sì.» Lanciò un'occhiata nella direzione presa da Mia, poi guardò i sei uomini radunati vicino alla porta. «Non volevo che mio figlio si trovasse qui.» «Capisco.» Melanie spalancò la porta. «Non troverete niente, ragazzi» affermò, ostentando una sicurezza smentita dal suo viso rigato di lacrime. «Che ne dite di toglierci il pensiero, e poi tornare alla nostra solita vita?» Come Melanie aveva temuto, la polizia trovò moltissimo, e tutte cose che lei non aveva mai visto prima: un rotolo di nastro adesivo simile a quello usato per imbavagliare Boyd fu scovato sotto il sedile della jeep, nella sua libreria c'erano svariati volumi sulle allergie, i veleni e le tecniche di autopsia, e diverse paia di guanti chirurgici comparvero in fondo a un cassetto della scrivania. Assieme al nastro adesivo, fu rinvenuto anche quello che poteva sembrare un pelo pubico, che fu mandato al laboratorio del CMPD per essere analizzato. Secondo l'avvocato che le era stato procurato dal capo Greer, le prove raccolte fino a quel momento erano solo circostanziali, insufficienti per incriminarla. Comunque, l'avvertì, era meglio che si preparasse. Se il DNA del pelo corrispondeva a quello di Boyd, sarebbe stata senza dubbio arrestata. Melanie era stupefatta. E terrorizzata. Non riusciva a credere che stesse accadendo proprio a lei. Nei due giorni seguenti, ovunque andasse era circondata dal sospetto. La gente la evitava. Il capo la sospese dal servizio e, nel giro di poche ore, Stan ottenne la custodia temporanea di Casey, con una sentenza che vietava a Melanie di vedere il bambino e di parlargli. Non poté neppure salutarlo. Quello fu il peggio. Non poteva smettere di pensare a Casey, a che cosa
sapeva, se era spaventato. Era una sofferenza che sarebbe stata insopportabile, se non avesse avuto vicino Mia. La sorella rimase al suo fianco, pagò l'esorbitante anticipo all'avvocato e cercò Ashley, anche se senza successo. Ashley era sparita. Non tornava a casa da qualche tempo, almeno a giudicare dalla cassetta della posta traboccante e dalla mezza dozzina di giornali sparpagliati davanti alla sua porta. Quando era entrata nell'appartamento, Mia aveva trovato la segreteria telefonica piena di messaggi, il frigorifero quasi vuoto e l'intera casa che odorava di chiuso e di abbandono. Allarmata, aveva telefonato al datore di lavoro di Ashley, e aveva appreso che era stata licenziata una settimana prima dell'assassinio di Boyd. Melanie era più convinta che mai che fosse stata Ashley a incastrarla. Doveva trovarla, o sarebbe stata incriminata per l'omicidio di Boyd. Aveva imparato la lezione. Non dubitava del risultato degli esami di laboratorio. Il tempo stringeva. Connor. A parte Mia, era il solo che si curasse di lei abbastanza da tentare di aiutarla. Connor aveva le capacità e le risorse. Se qualcuno poteva trovare Ashley, era lui. Senza fermarsi a considerare l'ora tarda, Melanie prese il nastro contenente il folle messaggio di Ashley dal cassetto in cui lo aveva riposto, agguantò la borsa e le chiavi e corse alla jeep. Aveva bisogno che Connor le credesse. Che credesse in lei. E, ammise salendo in macchina, aveva bisogno di sentirsi stretta fra le sue braccia, di essere rassicurata che tutto andava bene. Mormorando una preghiera, avviò il motore. La sua preghiera non fu esaudita. Lui la guardò con ostilità, rigido, chiuso. Sembrava stanco, preoccupato. Le linee attorno agli occhi e alla bocca sembravano più profonde di prima. «Non dovresti essere qui» le disse. «Non senza il tuo avvocato.» Fece per chiudere la porta, ma lei glielo impedì. «Ti prego, Connor, sono innocente. Devi credermi.» «Quello che credo io non ha importanza. Siamo sui lati opposti di questa barricata.» «Ha importanza!» esclamò Melanie. «Per me, almeno, ha importanza.» Si avvicinò di un passo. «Devi aiutarmi, Connor. Non ho nessun altro a cui rivolgermi.» Lui guardò la sua mano tesa con un'espressione angosciata. «Mi dispiace, Melanie. Ti prego, cerca di capire. Non posso. La polizia
sta montando un caso contro di te. Non c'è niente che io...» «Ho portato il nastro della mia segreteria... quello con la telefonata di Ashley. L'ho conservato. Mi basta che lo ascolti.» «Melanie...» Gli occhi di lei si colmarono di lacrime. «Non riusciamo a trovarla. Mia e io... Tu, però, potresti aiutarci.» Connor non disse nulla. Si limitò a guardarla. Melanie sapeva che stava riflettendo su ciò che gli aveva detto. Giudicando. I secondi passarono. Lei aspettò, con il cuore che le martellava così forte da toglierle quasi il respiro. Alla fine, lui scosse la testa. «Mi dispiace, non posso.» Un grido di disperazione sfuggì a Melanie. Gli afferrò la mano, supplichevole. «Mi hanno portato via Casey! Perché avrei corso il rischio di perderlo? Conosco la legge. Sapevo che Pete e Roger avrebbero ottenuto un mandato di perquisizione. Perché mai avrei lasciato in giro tutte quelle cose che potevano incriminarmi? Ascolta solo questo messaggio, è tutto quello che ti chiedo. Ti prego, Connor... Mi conosci, non sono un'assassina. Sai bene che non lo sono.» Le parole rimasero dolorosamente sospese fra loro. Lui esitò un momento, poi, con un sospiro, si fece da parte, permettendole di entrare. Melanie gli consegnò il nastro e lo seguì in cucina. Connor tolse il nastro dalla propria segreteria e lo sostituì con quello di Melanie. Premette il pulsante di ascolto. Silenzio. Il nastro era stato cancellato. CAPITOLO 25 Melanie guardava l'alba rischiarare l'orizzonte. Era esausta. E disperata. Non poteva liberarsi dalla sensazione che Stan avesse finalmente vinto. Che suo padre, anche dalla tomba, l'avesse battuta. Veniva punita per un delitto in cui non aveva avuto alcuna parte. Connor non le aveva creduto. Lei aveva sentito che avrebbe voluto crederle, che era combattuto. Il nastro cancellato era stato quello che aveva fatto pendere il piatto della bilancia. Dopotutto, che cosa poteva dirgli? Come poteva spiegargli? Chi poteva accusare? La polizia?
E così, aveva girato sui tacchi e se n'era andata. Umiliata. Disperata. La cancellazione del nastro era qualcosa che non riusciva a spiegarsi. Aveva tolto la cassetta dalla segreteria dopo la perquisizione. Forse la signora Saunders lo aveva cancellato inavvertitamente, o forse era stata lei, e non lo ricordava? Era sconvolta, quel maledetto pomeriggio. Si premette le mani sugli occhi. Se fosse stata onesta con Connor fin dal principio, se gli avesse comunicato i suoi sospetti su Ashley, se gli avesse fatto sentire prima il nastro, non si sarebbe trovata in quel pasticcio. Il nastro era stato così convincente! Ora, non aveva nulla. Il telefono squillò. Pregando che fosse Connor, corse a rispondere. «Pronto?» «La signora Melanie May?» Lei si irrigidì. La voce che era indagata in relazione ai delitti dell'Angelo nero era trapelata, e aveva dovuto combattere contro una quantità di telefonate di cronisti insopportabilmente insistenti. «Sì.» «Sono Vicky Hanson, della clinica per malattie mentali Rosemont di Columbia.» Melanie corrugò le sopracciglia, confusa. «Che cosa posso fare per lei?» «Ha una sorella di nome Ashley Lane?» Melanie strinse più forte il ricevitore. «Sì.» «Grazie al cielo!» esclamò la donna. «Sono la psichiatra che ha in cura sua sorella, e...» «Prego?» «La psichiatra che ha in cura sua sorella, qui alla clinica. Lasci che le spieghi. Venerdì notte, sua sorella ha tentato il suicidio. Per fortuna, un automobilista di passaggio sul ponte l'ha vista e si è tuffato per salvarla. La polizia l'ha portata qui.» «Oh, mio Dio...» Melanie crollò su una sedia. Ashley? Suicidio? «Come sta?» «Fisicamente, bene. Emotivamente, sta... lottando.» «Perché ha aspettato tanto a chiamarmi?» «Quando è stata ricoverata, ha dichiarato di non avere parenti prossimi. Ma ieri sera ha cominciato a piangere e a chiedere di lei. Doveva vederla, perché era in pericolo, diceva. Era così agitata che abbiamo dovuto farla
addormentare con i sedativi.» Melanie fece uno sforzo per mettere insieme tutti gli elementi. C'era qualcosa che non quadrava. «Quando ha detto che è stata ricoverata Ashley?» «Quattro giorni fa, durante la notte.» «E non ha più lasciato la clinica?» «Assolutamente no.» Melanie rifletté su quell'informazione, sbalordita. Stan consumava i suoi cereali infallibilmente ogni mattina. Li portava perfino con sé quando era in viaggio. Questo significava che dovevano essere stati avvelenati fra il sabato e la domenica. Ma in quel momento Ashley era ricoverata in una clinica psichiatrica. Ashley non poteva avere tentato di uccidere Stan. Non era stata lei a incastrarla. Chi era stato, allora? «Pronto? Signora May? È ancora lì?» «Sì... sono ancora qui. Che cosa posso fare per mia sorella?» «Come le ho detto, Ashley ha chiesto disperatamente di vederla.» «Vengo subito.» Per molto tempo, dopo che Melanie se n'era andata, Connor era rimasto alla porta, con la mano sulla maniglia e il suo nome sulle labbra. Avrebbe voluto richiamarla. Lo voleva ancora, intensamente, ore dopo. Eppure l'aveva lasciata andare, prestando fede all'accumularsi delle prove contro di lei anziché a ciò che gli diceva l'istinto... che Melanie non poteva avere fatto ciò di cui Harrison e Stemmons l'accusavano. Tutto ciò che gli aveva raccontato sembrava vero, mentre nessuna delle prove quadrava, almeno per lui. Era una donna in gamba e, se fosse stata colpevole, non avrebbe messo in pericolo la propria vita, lasciando in giro degli elementi che potevano incriminarla. Gli assassini commettevano sempre degli errori. Diventavano troppo sicuri, correvano dei rischi. Seppellivano le vittime nel proprio giardino. Conservavano in casa souvenir dei loro delitti. Si vantavano con gli amici. Non Melanie. Non l'intelligente, coraggiosa, onesta Melanie. Si premette le mani sugli occhi, sopraffatto dalla stanchezza, dal dubbio, dalla disperazione. Ricordò l'angoscia nella voce di Melanie quando gli aveva detto che Stan le aveva portato via Casey, risentì il suo grido disperato quando il nastro della segreteria si era rivelato vuoto.
L'ultima volta che una donna aveva invocato il suo aiuto, lui l'aveva ignorata. Aveva lasciato che il ragionamento prevalesse sull'istinto... e lei era morta. Non se lo sarebbe mai perdonato. Lasciò ricadere le mani. Gli assassini si servivano di chiunque e di qualunque cosa per tentare di dimostrare la loro innocenza. Gli psicopatici erano le persone più convincenti del mondo. Lo sapeva per esperienza... troppa esperienza. Ma per quante esperienze potesse ricordare, per quanto si rammentasse i fatti, il peso delle prove contro di lei, Connor continuava a credere che Melanie era innocente. Si era innamorato di lei. Quella verità lo abbagliò. Fece un passo indietro, come se fosse stato colpito fisicamente. Si era impadronita del suo cuore a poco a poco, con la sua integrità, la sua onestà, il suo fuoco. Con la determinazione con cui compiva il suo lavoro, l'amore che nutriva per suo figlio, il modo in cui lo faceva sentire felice di essere vivo. Doveva dirglielo. Doveva dirle che credeva in lei. Andò al telefono, compose il numero e aspettò. La segreteria scattò al quarto squillo. «Melanie, sono io. Se ci sei, rispondi.» Attese diversi secondi, poi imprecò fra i denti. «Chiamami, ti prego. È importante.» Il telefono squillò quasi prima che staccasse la mano dal ricevitore. Lo sollevò di scatto. «Melanie?» «Connor Parks?» Lui si irrigidì, riconoscendo, dal tono, una chiamata ufficiale. «Sì.» «Agente Addison, dell'ufficio di Charleston. Abbiamo trovato i resti di sua sorella.» Veronica balzò a sedere sul letto, con un grido silenzioso sulle labbra. Si guardò attorno con spavento, aspettandosi di vedere i mostri chini su di lei, con gli artigli pronti. Invece, vide la familiare camera da letto di Mia, nella morbida luce del primo mattino. Si portò le mani tremanti al viso, poi al petto, dove il cuore batteva all'impazzata, e respirò a fondo per calmarsi. Faceva spesso quel sogno, ultimamente. Un incubo popolato di cadaveri viventi, con le carni putrefatte, dall'odore nauseante. Nel sogno, suo padre
e suo marito la chiamavano, e anche la donna... E tutti ridevano quando lei fuggiva. Non c'era luogo in cui fuggire. Accanto a lei, Mia si agitò e mormorò il suo nome. Il cuore di Veronica si gonfiò d'amore fin quasi a scoppiare. «Va tutto bene» sussurrò, chinandosi a sfiorarle la tempia con le labbra. «Va tutto bene.» Più silenziosamente che poté, scese dal letto e andò in bagno a cercare il flacone di tranquillanti che il medico le aveva prescritto per aiutarla a rilassarsi, per ridurre l'ansia che minacciava, a volte, di soffocarla. La sua dipendenza da quelle pillole era aumentata, ultimamente. Ormai, dubitava di poterne fare a meno. Ma, anche così, non riusciva a dormire un'intera notte, non aveva appetito, non provava interesse per il lavoro. Aveva perso gli ultimi due casi, e sapeva che la gente aveva cominciato a mormorare. Inghiottì la pillola, aiutandosi con un bicchier d'acqua, poi tornò in camera da letto, fermandosi sulla soglia. Mia dormiva, per metà scoperta, con i capelli biondi sparsi sul guanciale, il viso roseo nel sonno. La scollatura della camicia da notte di raso lasciava intravedere la curva di un seno. Veronica provò un'emozione così forte da toglierle il respiro. Innamorarsi di Mia era stato così facile! Fidarsi di lei era stato decisamente più difficile. Aveva richiesto uno sforzo notevole. E tuttavia, a poco a poco, Veronica le aveva permesso di insinuarsi nel suo cuore e nella sua testa. Mia conosceva tutti i suoi segreti, ormai. E lei conosceva quelli di Mia. Si avvicinò al letto e guardò la sua amante. Avrebbe dato a Mia tutto ciò che possedeva, avrebbe fatto tutto ciò che le avesse chiesto. Qualunque cosa pur di farla felice. Qualunque cosa per assicurarsi che restasse con lei. Qualunque cosa. Poco più di due ore dopo, Melanie entrò nel posteggio della clinica Rosemont. Fermò la macchina, spense il motore e si accertò che il cellulare fosse acceso prima di riporlo nella borsa. Lungo la strada, aveva chiamato Mia e le aveva lasciato un messaggio, riferendole la telefonata della psichiatra. La clinica Rosemont era un luogo tetro, anche se, considerando che era una struttura statale, sarebbe potuta essere molto peggio. Melanie andò al banco delle informazioni e chiese di Vicky Hanson. La dottoressa, una graziosa brunetta, comparve quasi immediatamente, sorrise e le tese la mano.
«Signora May, la somiglianza con sua sorella è notevole. Mi ha spiegato che è una terza gemella, ma non ero sicura...» «Che fosse vero? È una reazione comune.» Melanie le strinse la mano. «La ringrazio di avermi chiamata.» Il sorriso di Vicky svanì. «Sua sorella ha gravi problemi. Spero che lei possa aiutarla.» «Lo spero anch'io. È sveglia?» «Sì.» La dottoressa guidò Melanie verso gli ascensori. «Le ho detto che stava arrivando.» Lei annuì, con la gola stretta dal dolore e dal rimorso. Dolore perché sua sorella si era ridotta a quel punto, rimorso perché lei non aveva saputo aiutarla, e perché, mentre Ashley sprofondava nella disperazione, lei l'aveva sospettata di essere un'assassina. In ascensore, Vicky premette il pulsante del terzo piano. «Ha qualche idea sull'origine dei suoi problemi?» «Sì, ho un'idea. Lei che cosa ha detto?» «Non molto. È estremamente depressa, e avverto in lei una grande ostilità verso gli uomini. Può raccontarmi qualcosa sulla Ashley che conosce?» Melanie rifletté un momento, e un sorriso le sfiorò le labbra. «Mia sorella è davvero in gamba. È una grande osservatrice. Ha un acuto senso dell'umorismo, tinto di una punta di cinismo. Non è mai cattiva, però. Solo... spiritosa, in un suo modo caustico. Ci ha sempre fatte ridere.» La cabina si fermò e le porte si aprirono. Mentre percorrevano il corridoio, Melanie continuò: «Ashley è la più mutevole di noi tre. La più emotiva. Quando qualcosa la turba, esplode. Poi, finisce tutto. Per questo è solo di recente che mi sono resa conto... che ho capito...». «Che aveva dei problemi gravi?» «Sì.» Melanie si fermò e guardò la dottoressa. «Mi sento terribilmente in colpa per non essere stata in grado di aiutarla. Ashley... è una persona davvero speciale.» «Lo so.» La donna indicò una porta a sinistra. «Perché non glielo dice?» «Posso parlare di nuovo con lei, più tardi?» «Sarebbe utile.» Melanie guardò la dottoressa allontanarsi, poi respirò a fondo e socchiuse la porta. «Ashley» mormorò, sbirciando nella stanza. «Sono io.» Sua sorella era in piedi davanti alla finestra, con le spalle voltate. Si teneva eretta, rigida, con le braccia strette attorno al corpo, come per proteggersi. Ma da chi? Da
sua sorella? «Ash» ripeté Melanie, entrando nella stanza. «Sono io, Mel.» Ashley si voltò, e lei trattenne a stento un grido di fronte al suo aspetto devastato. Era magra e pallida, aveva il viso scavato, gli occhi cerchiati. «Oh, Ash, non sapevo...» sussurrò. Gli occhi di Ashley si colmarono di lacrime. «Mi dispiace... mi dispiace... tanto.» Melanie le si avvicinò e la prese fra le braccia. «È a me che dispiace. Non ho capito quanto avevi bisogno di me.» Ashley scoppiò in singhiozzi. Singhiozzi strazianti, che sembravano venire dal più profondo della sua anima. Con il cuore pesante, Melanie la tenne stretta mentre piangeva. La sentiva così fragile, così piccola e vulnerabile, tanto diversa dalla donna indipendente che conosceva così bene. Come poteva aver visto l'inizio di quella devastazione e non avere fatto nulla per impedirla? Quando Ashley si calmò un po', Melanie la condusse verso il letto. Si sedettero insieme come quando erano bambine, a gambe incrociate, l'ima di fronte all'altra, e Melanie prese le mani della sorella. Erano gelate, e le strofinò fra le sue. Non le fece domande, non le chiese spiegazioni. Se Ashley voleva parlare, l'avrebbe ascoltata. Trascorsero diversi minuti, prima che cominciasse, a bassa voce, nel tono di chi rammentava un avvenimento quasi dimenticato del passato: «Ricordi quando papà cominciò a... molestare Mia?». Melanie accentuò la stretta sulle sue mani. Anche dopo tanti anni, faceva male sentire quelle parole. «Ricordo.» «Tu fosti così coraggiosa. Il modo in cui lo minacciasti con il coltello... Ti ho sempre ammirata, Mel. Ma specialmente allora.» Ashley fece una breve pausa. «Dopo, lui venne da me, anche se non rammento bene quando.» La sua voce divenne meno di un sussurro. «Disse che ciò che avevi fatto era contro la legge. Che sarebbe venuta la polizia, per il fatto del coltello. Che ti avrebbero... portata via. Che saremmo rimaste solo io e Mia.» Le cose che aveva fatto per le sue sorelle. Melanie chiuse gli occhi, inorridita. Buon Dio, no. Non questo. Ti prego, non questo. «Disse che se... se avessi detto a te, o a chiunque altro quello che... che mi faceva... lui avrebbe chiamato la polizia. Ti avrebbe fatta portare via.» Ashley strinse più forte le mani di Melanie. «Continuavo ad aspettare che
tu mi salvassi, Mel. Come avevi salvato Mia.» La voce le si spezzò. «Ma non lo hai fatto.» L'origine di tutto. La verità. Aveva deluso e abbandonato sua sorella in un modo che non aveva mai neppure immaginato. «Non sapevo» sussurrò Melanie fra le lacrime. «Se solo avessi saputo... Lo avrei ucciso per salvarti, Ashley. Lo avrei fatto, te lo giuro.» Rimasero strette l'una all'altra a lungo, in silenzio. «Perché?» chiese Melanie, dopo molto tempo. «Perché non me lo hai detto?» «Sulle prime, ero terrorizzata. Credevo a quello che aveva detto. E dopo, quando ho capito... Mi vergognavo troppo. Perché non ero forte come te. Perché non avevo... detto di no.» Furono quelle ultime parole, forse, a farle più male. In quel momento, Melanie odiò suo padre come non aveva mai odiato prima, con una ferocia che la spaventò. Se fosse stato vivo, lo avrebbe ucciso, ora. Avrebbe preso la sua pistola d'ordinanza e gli avrebbe sparato un colpo alla testa. In quel momento, anche lei approvò l'Angelo nero. Sapeva che quel sentimento non sarebbe durato, che la ragione avrebbe trionfato, ma ora, in quell'attimo, fu contenta che quegli uomini fossero morti. Avevano avuto ciò che si meritavano. Tutta un tratto, incredibilmente, Ashley ridacchiò. Melanie la guardò con preoccupazione. «Ci ho pensato io, a lui. Per tutte noi.» Melanie scrutò la sua espressione, con la gola stretta. «L'ho ucciso, Mel. Per noi. Per te, me e Mia.» Melanie la fissò, senza fiatare, paralizzata. «È stato così facile» continuò lei. «Vedi, io sapevo che cosa sarebbe successo se avesse preso una dose eccessiva della sua medicina. E sapevo che non avrebbe suscitato sospetti. Andai a trovarlo e gli misi il farmaco nel cibo.» Sorrise in un modo assurdamente infantile. «È stato facile, Melanie.» Facile. Indolore. E il mondo è stato liberato da un dannato bastardo che molestava le sue stesse bambine. Melanie respirò a fondo. Doveva porre la domanda. Doveva sentire la risposta dalle labbra di Ashley. La guardò negli occhi, anche se fu la cosa più difficile che avesse mai fatto. «Devi dirmelo, Ash. Tu... tu sei l'Angelo nero?» La sorella parve dapprima sorpresa, poi irritata. «No, non sono io. Ma so chi è.»
Connor guardò i resti scheletriti di quella che era stata sua sorella. Un gruppo che seguiva una lezione di immersione subacquea l'aveva scoperta. Li aveva scoperti, si corresse subito dopo. Chi l'aveva uccisa, aveva anche assassinato un uomo, li aveva legati insieme in un telo di plastica, li aveva zavorrati con dei pesi e gettati nella parte più profonda del lago Alexander. Nel macabro fagotto c'era anche l'attizzatoio sparito dalla casa di Suzi. «Non saremmo stati in grado di identificarla così rapidamente, se non fosse stato per l'attizzatoio» spiegò l'agente accanto a Connor. «Ben Miller si ricordava di tua sorella e ha sommato due più due.» Connor non poté parlare. Tutti gli anni di ricerche, di interrogativi, erano finiti. Ora sapeva. «Probabilmente non ha mai neppure saputo che cosa l'ha colpita» continuò il giovane agente. Così gli aveva detto anche il medico legale. Suzi era stata uccisa da un singolo colpo alla nuca, che le aveva fratturato il cranio. Era già morta, quando era stata gettata in acqua. Connor ringraziò il cielo per quel piccolo conforto, spostando lo sguardo dai resti della sorella a quelli del suo compagno. Aveva sempre saputo che stava trascurando qualcosa di importante, nelle indagini sull'omicidio di Suzi. Qualcosa di ovvio. Ora si rendeva conto che era stato accecato dai sentimenti, dall'odio per l'amante della sorella, dalla certezza di sapere che cosa era accaduto. E intanto aveva ignorato uno scenario vecchio quanto il mondo. La moglie tradita che uccideva il marito. E la sua amante. Tutto quadrava, ora. Il cassetto della biancheria, gli indumenti che l'assassino aveva impacchettato, il modo in cui la scena del delitto era stata ripulita. Un'ondata di tristezza e di rimpianto lo travolse. Non poteva più aiutare Suzi, non poteva cambiare il passato. La luce che sua sorella era stata era estinta per sempre. «Questo assassino sapeva il fatto suo.» L'agente indicò i pesi. «Ha calcolato esattamente quello che occorreva per tenerli sommersi.» Connor lo guardò. «Sappiamo già chi è l'uomo?» «Abbiamo avuto i risultati del controllo dei denti giusto un'ora fa. Daniel Ford, un noto dirigente d'azienda della zona. La cosa strana è che risulta morto su quell'aereo che esplose mentre era in volo, diretto a Chicago.» «Lo ricordo.» Gli occhi di Connor si strinsero. Finalmente, dopo tanto tempo, avrebbe ottenuto giustizia per sua sorella. «La compagnia d'assicu-
razione ha pagato?» «Sì, alla moglie. Una certa Veronica Ford.» Connor si sentì drizzare i capelli in testa. «Veronica Ford» ripeté. L'amica di Melanie. L'assistente del procuratore distrettuale. «Non sappiamo ancora molto di lei. È una Markham. Il suo vecchio era una potenza, a Charleston.» «Era?» ripeté Connor. «È morto?» «Sì, qualche anno fa. Era su tutti i giornali. Morto in uno strano...» «Incidente» completò Connor. «Oh, diavolo.» Aprì il cellulare, compose il numero dell'ufficio di Charlotte, lanciando nel contempo ordini al giovane agente. «Ho bisogno del rapporto del medico legale su Markham e di un elicottero. Immediatamente.» Parlò al telefono. «Steve, qui Connor. Sono a Charleston. Ho bisogno di un mandato di arresto per l'assistente del procuratore distrettuale Veronica Ford. Per l'omicidio di Daniel Ford, Suzi Parks e di un numero ancora imprecisato di altre vittime. È l'Angelo nero, Steve. L'abbiamo presa.» La sua voce si fece roca. «L'ho presa.» CAPITOLO 26 Melanie suonò il campanello di Mia, poi bussò alla porta, impaziente. Veronica era l'Angelo nero. Era stata Veronica a cercare di incastrarla. Ashley lo aveva capito, per quanto solo istintivamente, attraverso il suo distorto senso della realtà. Era stata ossessionata da Veronica, un'ossessione nata dalla gelosia per il rapporto della donna con le sue sorelle. Si era convinta che c'era qualcosa che non andava, in lei, che non era quella che sembrava. Per mezzo di trucchi come quello che aveva messo in opera a Charleston, nell'ufficio del procuratore distrettuale, Ashley aveva scoperto che Veronica era stata in rapporti d'amicizia con un paio di donne i cui mariti erano morti all'improvviso, in circostanze insolite. Pedinandola, aveva scoperto anche che aveva la strana abitudine di frequentare luoghi particolari a ore insolite: aree di sosta dei camion sulle autostrade, tavole calde aperte tutta la notte e club particolari. E benché a volte avesse aspettato per ore, tenendo d'occhio la sua macchina, in alcune occasioni Veronica non era ricomparsa. Altre persone erano andate e venute, e Ashley ricordava di averne visto varie volte una in particolare, una bionda dall'aria dura, vestita da capo a
piedi di pelle nera. Ma fino a quando non aveva appreso, da un notiziario, che Melanie era indagata sia per l'omicidio di Boyd sia per i delitti dell'Angelo nero, non aveva sommato tutte quelle informazioni. I pezzi combaciavano perfettamente, riconobbe Melanie. Lei e Veronica avevano la stessa taglia, figure molto simili e lo stesso colore di capelli. Dopo la morte di Boyd, Veronica era rimasta a casa di Mia. Tramite lei, era informata sugli orari della stessa Melanie, aveva accesso alle sue chiavi, di casa e della macchina, e poteva anche essere venuta a sapere delle abitudini alimentari di Stan. E Mia passava spesso in tintoria a prendere la roba di Melanie, comprese le uniformi. E chi meglio di Melanie poteva essere incastrata per l'omicidio di Boyd? Veronica aveva dedotto, correttamente, che poiché gli altri delitti dovevano ancora essere dimostrati, la polizia poteva concludere che l'Angelo nero era una montatura inventata da Melanie per coprire l'assassinio del cognato e dell'ex marito. Melanie aveva il movente e l'occasione, e si adattava al profilo di Connor. Ma vi si adattava anche Veronica: l'età, l'istruzione, la conoscenza della legge e il passato di abusi, per non parlare del suicidio della madre, del modo in cui era cambiata negli ultimi mesi, della sua amicizia con Mia antecedente alla morte di Boyd. Quadrava tutto. Melanie bussò ancora una volta alla porta. Aveva lasciato diversi messaggi alla sorella, durante il tragitto in macchina, ed era certa che fosse tornata a casa, ormai. Mia avrebbe potuto aggiungere altri pezzi al rompicapo, avrebbe potuto confermare cose che lei poteva solo supporre. Mia sbirciò da una delle aperture laterali, quindi aprì la porta. «Mia!» esclamò Melanie, entrando. «Dov'eri?» «A fare jogging. Ho appena ricevuto i tuoi messaggi. In nome del cielo, che cosa...» «Ascolta... so chi mi ha incastrata. Non è stata Ashley. Ho parlato con lei, mi ha aiutata a capire... Mia, so chi è l'Angelo nero.» Mia le afferrò le mani. «Melanie, calmati. Stai dicendo delle pazzie.» «Non sono pazzie. Ho bisogno del tuo aiuto. Dobbiamo...» «Prima, sediamoci.» Mia chiuse la porta a chiave, poi condusse la sorella in soggiorno e si sedette sul divano. Melanie rimase in piedi, troppo agitata per stare ferma. «Okay, Mel, raccontami tutto, dal principio.» «Sì, Melanie» disse Veronica alle sue spalle. «Raccontaci tutto.»
Melanie si voltò lentamente. Veronica era in piedi sulla porta fra la cucina e il soggiorno. Era vestita nello stesso modo di Mia, in calzoncini, scarpe da jogging e maglietta. Entrò nella stanza. «E, per favore, comincia proprio dal principio. Dal punto in cui hai deciso di uccidere tuo marito.» Melanie pensò a Casey, a Connor e a tutto ciò che aveva passato negli ultimi giorni, e provò un'ondata di rabbia. «Era questo che volevi far credere a tutti, vero? Ma ora è finita. So di te. E presto lo sapranno anche tutti gli altri.» «Dovevi fare la scrittrice» affermò Veronica, con un sorriso freddo. «Di romanzi, s'intende.» Andò al tavolino e aprì la scatola decorativa al centro. Quando si voltò, Melanie vide che impugnava una pistola. «Sei un'assassina, Melanie May. Hai ucciso tuo cognato e hai tentato di uccidere il tuo ex marito. La polizia ha le prove.» «Prove che tu hai fabbricato!» «Quanti altri uomini hai ucciso?» chiese Veronica, avvicinandosi. «Quanti bastardi che meritavano di morire? Quanti omuncoli crudeli sfuggiti alle mani della giustizia?» «È per questo che li hai uccisi?» Melanie avrebbe voluto voltarsi a guardare la sorella, ma aveva paura di distogliere gli occhi da Veronica. Pregò che, al momento opportuno, Mia fosse capace di fare ciò che era necessario. «Perché meritavano di morire? Per questo sei diventata l'Angelo nero?» «L'Angelo nero?» ripeté Veronica, sprezzante. «Sei stata tu a darle questo nome. Non è esatto e non le piace. Lei è un angelo di misericordia. Di giustizia.» «Davvero? E quanti uomini sono morti grazie alla sua misericordia? Sei? Dieci? Venti?» «Dovrebbe provare qualche rimorso? Prova a pensarci, Melanie. Il mondo è un posto assai migliore senza quei dodici rifiuti umani. Lo sai, ma hai paura di ammetterlo.» Dodici. Fino a quel momento, c'erano state dodici vittime. «Forse hai ragione. Forse ho paura. Troppa per farmi avanti a offrire il mio aiuto. È questo che lei fa, vero? Aiuta le donne nei guai.» Le labbra di Veronica si incurvarono in un sorrisetto compiaciuto. «Uomini come quelli non cambiano mai, per quanto tu li ami, per quanto ti sforzi di accontentarli. Tu dai, e dai, fino a quando non hai più nient'altro da offrire. E loro continuano a farti del male. A tradirti. Tutto quello che conoscono è la crudeltà.»
«L'Angelo lo sa» contribuì Melanie. «Ma le donne no. Avevano bisogno di una guida.» «Esattamente. Se lei le aiutava, avrebbero capito. Se le aiutava, avrebbero avuto un'altra possibilità. Una nuova vita.» Lei e Connor avevano visto giusto, pensò Melanie. Il legame erano le donne, non gli uomini. «E allora, che cosa ha fatto?» le domandò lei, avanzando impercettibilmente. «È diventata amica delle donne per avvicinare gli uomini? Per scoprire i loro punti deboli?» «Tutti hanno dei punti deboli» convenne Veronica. «Punti in cui sono particolarmente vulnerabili.» Rise fra sé, come ricordando, e scosse la testa. «A volte, non c'è neppure bisogno di trucchi. Basta avere il fegato di farlo. Come per il tuo Thomas Weiss. Lei ha saputo della sua allergia al veleno delle api senza neppure parlargli. Ha appreso tutto quello che aveva bisogno di sapere semplicemente standosene seduta al bar del Blue Bayou a sorseggiare vino e ascoltare.» L'orgoglio nella voce di Veronica era rivoltante, per Melanie. «E lascia che indovini. La prima donna che ha aiutato è stata se stessa.» «Non esistono incidenti, Melanie. Solo visite a sorpresa degli angeli della misericordia. Ma solo per chi è molto fortunata. Lei lo è stata.» Veronica continuò, raccontando dell'infanzia dell'Angelo, del padre freddo e severo, di come aveva sempre cercato di essere all'altezza delle sue aspettative. Parlò di sua madre, spiegò che, disperata per come il marito la trascurava, aveva preso una pistola e si era sparata. «Eppure, l'Angelo desiderava l'amore» mormorò. «Pregava di incontrare l'uomo che l'avrebbe adorata. Finalmente, credette di averlo trovato. Si chiamava Daniel. Era tutto quello che lei aveva sempre sognato, bello, affascinante, di successo. Le fece perdere la testa. Ma in realtà era come tutti gli altri, meschino e crudele. Lei viveva nella paura di prendere anche la più piccola decisione, perché, se sbagliava, sapeva che sarebbe stata punita. Non sapeva mai quando sarebbe esplosa la violenza... mai.» Melanie deglutì a vuoto. Conosceva anche troppo bene la situazione. Azzardò un'occhiata da sopra la spalla a Mia, immobile sul divano. Vide che anche a lei il racconto di Veronica suonava familiare. L'espressione di Veronica si addolcì, facendosi comprensiva. «Ha scelto te, Melanie, perché sentiva un'affinità con la tua situazione. Come il tuo ex marito, il suo la controllava tenendola sotto, impedendole di alzare la testa. Le comprò una pistola, ostensibilmente perché potesse
difendersi quando lui era fuori città. Invece, la usava per stuzzicarla. Per ricordarle il suicidio di sua madre. Quando lo avrebbe fatto, lei? Quando si sarebbe fatta saltare le cervella?» Veronica si interruppe un momento, come per raccogliere le idee. «Lei cominciò a sospettare che avesse un'amante. Lo affrontò.» «Ma lui negò.» «Naturalmente. Lei lo pedinò. Stavolta, quando lo affrontò di nuovo, era preparata. Lo minacciò di dire tutto a suo padre. Per quanto avrebbe tenuto Daniel a lavorare con sé, una volta che avesse saputo? Lui crollò, la supplicò di concedergli un'altra occasione, le assicurò che la relazione era finita. Era un fatto così insolito che lei si concesse di credere che l'amava veramente. Che era cambiato.» «Ma non era cambiato» mormorò Melanie. «Vero?» Veronica strinse le labbra. «Aveva una moglie ricca... ecco che cosa amava. Una moglie che lo aveva reso milionario dalla sera alla mattina.» Guardò la pistola, poi Melanie. «Qualche giorno dopo, lei lo accompagnò all'aeroporto. Aveva un appuntamento a Chicago, sarebbe tornato la sera molto tardi. Come sempre, lei lo accompagnò al cancello, lo baciò, lo guardò salire sull'autobus di servizio assieme agli altri passeggeri di prima classe, poi se ne andò. L'aereo esplose in volo. Non ci furono superstiti.» «Ma suo marito non era a bordo, vero?» chiese Melanie. «Lei non lo seppe... non subito. Non fino a tarda notte, quando lui entrò in casa, vivo e vegeto e senza una grinza sul suo elegante completo italiano. Sulle prime, lei fu pazza di gioia. Poi confusa. Suo marito era vivo. Evidentemente, non sapeva nulla del disastro aereo. Poi, lei capì il perché. Non era mai andato a Chicago. Era stato con la sua amante. L'aveva ingannata. Si era fatto accompagnare fino al cancello, perché non avesse sospetti, perché non corresse a raccontare tutto a suo padre. Quando lei si infuriò, lui rise. La canzonò. Che cosa avrebbe fatto, adesso? Si sarebbe sparata, come sua madre? La incitò a farlo. Andò al comodino, tirò fuori la pistola e la gettò sul letto. Fallo, insistette. Come la tua patetica madre. Falla finita. Sentii la doccia» continuò Veronica, passando inavvertitamente alla prima persona. «Fissai la pistola. Una parte di me voleva farlo. Prenderla, mettermela in bocca e premere il grilletto. Sarebbe stato così facile, così rapido. Non avrei mai più sofferto. La presi. Ma, in quel momento, mi colpì un pensiero. Così chiaro e forte, così liberatorio... Mi colmò di un senso di puro potere. Di determinazione. Presi la pistola. Ma, invece di ri-
volgerla contro me stessa, andai in bagno, tirai la tenda della doccia e gli piantai una pallottola nel petto.» «Mio Dio» mormorò Melanie. Veronica continuò come se non l'avesse neppure sentita. «Era nudo. L'acqua lavò via il sangue. Andai in garage a cercare un telo di plastica. Ce lo arrotolai dentro e legai il tutto con della corda di nylon. Pensavo di attaccarci alcuni dei pesi che Daniel teneva nella piccola palestra che aveva in casa e di gettarlo nel lago.» «Nel lago?» ripeté Melanie. «Avevamo una casa per le vacanze sul lago Alexander, a un paio d'ore di macchina a nord. Come tutte le altre, era chiusa per l'inverno. Non ci sarebbe stato nessuno intorno a vedere quello che facevo.» Veronica rise. «Mi sentivo così bene, così potente. Invincibile. Mi ero finalmente liberata di lui. E nessuno avrebbe saputo.» «Perché lui era già morto nell'incidente aereo. Un delitto perfetto» convenne Mia, con una voce strana, insolitamente acuta. «Tranne che per l'amante» la corresse Melanie. «Ma tu ne conoscevi il nome e l'indirizzo.» «Alla fine, aggiunsi anche lei al fagotto. Trovavo una poetica giustizia nel fatto che sarebbero rimasti insieme per sempre.» «E nessuno lo cercò» mormorò Mia. «Mai.» «Mai.» Veronica sorrise, soddisfatta. «La mia vita cambiò completamente. Finii l'università. E giurai a me stessa che non sarei mai più stata una vittima. Non mi sono mai voltata indietro. Non ho mai dovuto farlo.» Il sorriso sparì. «Fino ad adesso, Melanie. Tutto andava magnificamente, finché non sei comparsa tu. Tu dovevi giocare al superpoliziotto e rovinare tutto. Perché non hai tenuto il naso fuori dai miei affari? Perché non hai lasciato perdere?» «Non incolpare me dei tuoi errori. Sei diventata imprudente. Sono stata io a farti conoscere Thomas Weiss, santo cielo! Credevi che non notassi la stranezza della sua morte? Credevi che non venissi a sapere di quella di Jim McMillian e sommassi due più due?» «Nessun altro lo ha fatto» scattò Veronica, rabbiosa. «Tu sei stata il mio errore, Melanie. Io ti avevo scelta. Da Starbucks ti avevo sentito parlare con le tue sorelle, sapevo dei tuoi problemi con Stan e di quelli di Mia con Boyd. Ho provato un'immediata simpatia per voi. Volevo aiutarvi.» Di fronte all'espressione incredula di Melanie, alzò gli occhi al cielo. «Credi che sia per caso che ci siamo trovate nella stessa palestra? Che siamo di-
ventate amiche così in fretta? Certo che no. Io ti ho scelta. Te e Mia. Per rendere migliore la vostra vita. E ora, guarda che cosa hai fatto.» «È quello che stai facendo ora?» scattò Melanie. «Mi stai aiutando? Rovinando la mia vita? Facendomi accusare di omicidio? Con un'amica come te, Veronica, chi ha bisogno di nemici?» «È tutta colpa tua!» ritorse Veronica, alzando la voce. «Tutto quello che ti è successo...» «Tu sei un'assassina. Una volgare criminale, proprio come quelli che, in teoria, hai dedicato la vita a perseguire.» «No.» Veronica scosse la testa. «Le donne che ho aiutato meritavano di essere felici. Meritavano una vita senza paura. E io gliel'ho data.» «È facile giustificarti in questo modo, vero?» Melanie avanzò di qualche altro millimetro. Se riusciva ad avvicinarsi abbastanza, a cogliere Veronica di sorpresa, forse avrebbe potuto strapparle di mano la pistola. «Ma ciascuno di noi non è forse responsabile di condurre la propria vita?» «Non funziona così. Non per una donna intrappolata in un circolo vizioso di abusi. Non per una donna che...» «A parte Dio, solo una giuria di suoi pari può decidere se un uomo deve vivere o morire.» Melanie fece un passo avanti. Finalmente era a una distanza da cui poteva colpire. «Sciocchezze!» Veronica gesticolò con l'arma, irritata. «Il sistema fallisce. Tutti falliscono!» Melanie fece la sua mossa. Con un calcio, le fece saltare via di mano la pistola, che volò attraverso la stanza. Gridò a Mia di prenderla, mentre lei accompagnava il calcio con una combinazione di due pugni, entrambi andati a segno. Veronica barcollò all'indietro. Con la coda dell'occhio, Melanie vide sua sorella raccogliere l'arma. Quel momento di disattenzione le costò caro. Veronica era di nuovo in piedi, in guardia. Con un urlo così feroce da farla rabbrividire, le sferrò un calcio direttamente al petto. Lei vide le stelle. Veronica avanzò, con un grido di trionfo. Melanie si sforzò di rimettersi in piedi, riuscendo a parare i successivi due colpi. Aveva il petto in fiamme e i suoi muscoli urlavano per lo sforzo. Veronica piazzò un altro calcio, e Melanie perse l'equilibrio, e con esso la capacità di parare adeguatamente l'attacco dell'avversaria. «Non puoi battermi, Melanie» sibilò Veronica. «Non ci sei mai riuscita,
perché sono più brava di te.» Avanzò per il colpo finale. Melanie si gettò da una parte, rotolò su se stessa e fu di nuovo in piedi, in posizione di guardia. La mossa colse Veronica di sorpresa. Approfittando del momento, Melanie attaccò. Portò un calcio direttamente al lato della testa. Veronica cadde. Melanie la bloccò, sollevando il pugno per il colpo finale destinato a stordirla. «Chi è più brava, adesso?» chiese, ansante. «Chi ha vinto?» Veronica sorrise. I suoi denti sanguinavano. «Io non ne sarei tanto sicura.» «Lasciala andare, Mellie.» Alle sue spalle, Melanie sentì l'inconfondibile scatto di una pistola che veniva armata. «Subito.» L'elicottero era diretto a Charlotte. L'ora stimata di arrivo erano le dodici e mezzo. Mai abbastanza presto, a parere di Connor. Lo disse al pilota, poi chiamò via radio il quartier generale del CMPD. Steve Rice aveva accolto la sua richiesta. Si era messo in contatto con il capo Lyons, aveva ottenuto un mandato di cattura per Veronica Ford e due squadre erano state mandate a casa sua e alla procura distrettuale per prelevarla. «Dov'è l'agente May?» chiese Connor. «Ho cercato di contattarla, ma inutilmente.» «Sì è data molto da fare, stamattina. L'abbiamo seguita fino a Rosemont, una località nei pressi di Columbia. È andata in una clinica psichiatrica.» Connor corrugò le sopracciglia. «Sapete il perché?» «Negativo. Non volevamo far saltare la nostra copertura.» «Dov'è adesso?» «Da sua sorella Mia. È là da circa mezz'ora. I nostri tengono d'occhio la casa.» Connor imprecò fra i denti. Sarebbe dovuto essere sollevato, ma non lo era. L'istinto gli diceva che qualcosa non andava. La verità era che non si sarebbe sentito sollevato fino a quando non avesse tenuto Melanie al sicuro fra le sue braccia. «Ho bisogno dell'indirizzo. E delle coordinate dell'eliporto più vicino. Tenetemi pronta una macchina. È possibile?» «Resta in attesa, per favore.» Un momento dopo, la radio crepitò e una voce maschile disse: «Parks, qui Roger Stemmons. Abbiamo la macchina per te. L'agente White sarà ad aspettarti con le chiavi».
«Grazie, Stemmons.» «Buone notizie sul caso Andersen. Abbiamo le impronte digitali e gli esami del gruppo sanguigno. Per il DNA ci vorrà ancora un po' di tempo, ma abbiamo già abbastanza per una condanna. Ho pensato che volessi saperlo.» Connor sorrise. Un punto per i nostri. «Ti siamo tutti grati per il tuo aiuto, Parks» continuò il detective. «Non che tu non sia stato una scocciatura...» «È stato un piacere... in entrambi i casi.» Connor consultò l'orologio. «Fammi un favore, Stemmons. Tieni lì la squadra che sorveglia Melanie fino al mio arrivo. Ho un brutto presentimento.» «Okay. Comunque Melanie può stare tranquilla, ora. Per lei, è tutto finito.» CAPITOLO 27 Melanie lanciò un'occhiata da sopra la spalla. Mia reggeva la pistola con entrambe le mani. La sua espressione era cupa, decisa. Il problema era che l'arma era puntata contro di lei, non contro Veronica. «Mia, che cosa stai...» «Ho detto di lasciarla andare.» Mia accennò con la pistola. «Subito.» Melanie lasciò Veronica, che si alzò in piedi. Le scoccò un'occhiata trionfante, poi raggiunse Mia, zoppicando. «Stai bene?» le chiese Mia, senza distogliere gli occhi dalla sorella. «Benissimo.» Veronica si passò il dorso della mano sulla bocca. «Belle mosse, Melanie. Confesso che non te ne credevo capace.» «Non capisco.» Melanie guardò dall'una all'altra. «Mia... non hai sentito quello che ha detto? È un'assassina. Ha...» «Sei tu che non capisci, sorella cara.» Mia guardò Veronica. «Vieni, piccola. Lascia che Mia ti faccia sentire meglio.» Veronica scivolò dietro di lei, allacciandole le braccia attorno alla vita. Melanie fece un involontario passo indietro, stupefatta. Veronica rise. «Proprio così, agente May. Ci siamo innamorate. Siamo amanti.» Baciò Mia sul collo. «Farei qualunque cosa per lei, e lei farebbe qualunque cosa per me.» Melanie scosse la testa. Non poteva essere. Guardò la sorella. «Pensaci bene, Mia. Veronica è un'assassina. Se prendi le sue parti, sarai sua complice. Non è solo sbagliato, è...»
«Che cosa?» chiese Mia. «Stupido? È questo che volevi dire? La povera, patetica Mia sta commettendo un altro errore?» «No!» Melanie le tese la mano, supplichevole. «Ti prego, rifletti solo un momento sulle conseguenze delle tue azioni. Sei fai questo, non sarai migliore di lei.» «Pensaci bene? Rifletti sulle conseguenze?» ripeté Mia, rabbiosa. «Come se fossi una bambina. O un'idiota!» «Non intendevo questo. È solo che so...» «Sta' zitta! Sono stufa a morte delle tue lezioni. Dei tuoi saggi consigli. Melanie sa che cosa è meglio» motteggiò Mia. «Melanie è così forte e intelligente. Melanie è la sorella buona. Quella che merita di essere amata. Non Mia.» «Non è vero!» protestò lei. «Non ho mai pensato questo, mai!» «Fandonie, Melanie. Lo hai pensato. E lo hanno pensato anche tutti gli altri, perché credevano a te, la signorina Perfetta. È bello essere quella che ha sempre ragione, eh? Non c'era posto per nessun altro, in cima alla scala, vero?» Melanie si portò le mani al petto. Le parole della sorella le facevano più male dei colpi di Veronica. «Non capisco perché sei così... arrabbiata» disse con voce tremante. «Ho cercato di proteggerti. Volevo solo che fossi felice e al sicuro.» «Piantala, Melanie.» Gli occhi di Mia si strinsero. «Sappiamo entrambe la verità. Ti piace essere la sorella forte. L'eroina che irrompe sulla scena a salvare la situazione.» «No.» Lei scosse la testa. «No.» «Non avrei avuto alcun bisogno di essere salvata, se non fosse stato per te. Tu eri la ragione per cui papà se la prendeva con me. Due sono troppe, Melanie. Sono sempre state troppe.» «Ma non siamo due, Mia. Siamo tre. Ashley è sempre stata una di noi.» Mia sbuffò, disgustata. «Lei non fa parte di noi. È venuta dopo, separatamente. È un'estranea. Un errore.» Un'estranea? Un errore? Melanie non credeva alle proprie orecchie. Non poteva essere la sua Mia, quella donna che sputava vetriolo a ogni parola. Pensò alla conversazione con Ashley, al segreto che la sorella le aveva rivelato, e le lacrime le punsero gli occhi. Avrebbe fatto qualche differenza, ora, se Mia avesse saputo ciò che Ashley aveva subito per loro? Probabilmente no, decise. La sorella che aveva creduto di conoscere, la
persona che aveva amato e di cui si era fidata, non esisteva. Mia non si curava di nessuno, a parte se stessa e la sua distorta visione della vita. Era inutile fare appello alla sua ragione, alla sua umanità. Non possedeva né l'una né l'altra. «Ce l'hai sempre avuta con me?» chiese con voce tremante. «Ogni volta che ti ho difesa, ogni volta che mi sono messa fra te e papà, che cosa ho fatto? Rigiravo solo il coltello nella piaga? Sarebbe stato meglio che non facessi nulla?» «Ora ti compatisci» ironizzò Mia. «Ti preferisco così, Mellie. Patetica e umile. Forse avremmo dovuto avere questo confronto anni fa. Certo, è solo oggi che ho potuto mettere assieme tutti i pezzi.» Anni fa. Mettere assieme tutti i pezzi. Melanie cominciò a capire, e la sofferenza si fece ancora più intollerabile. «Tu sapevi» mormorò. «Anche prima di oggi, sapevi di Veronica... che aveva ucciso Boyd... e gli altri?» Si portò una mano alla bocca. «Oh, mio Dio... Stan. Sapevi anche di lui. Sapevi che Veronica... sapevi che voleva incastrarmi per l'omicidio di Boyd.» Per un momento, Mia non disse nulla. Poi rise. Una risata così gelida che Melanie rabbrividì. «Quanto puoi essere cieca e stupida? Non è stata Veronica a incastrarti. Sono stata io. Io ho avvelenato i cereali di Stan. Io ho messo le prove in casa tua e nella tua macchina. Io, Melanie. La patetica, debole Mia.» Melanie si sforzò di intendere le parole della sorella, quello che aveva fatto. Cercò disperatamente di fermare il mondo che le traballava sotto i piedi. «Hai cancellato il nastro con la telefonata di Ashley. Prima della perquisizione, quando sei venuta a prendere Casey.» «Indovinato.» Mia sorrise. «Qualcuno vuole una Coca dietetica?» «E la mia uniforme? L'hai ritirata in tintoria. Nessuno ti ha fatto domande.» «Mi andava come un guanto.» Mia fece un passo avanti e Melanie indietreggiò istintivamente, nauseata. «È stato ridicolmente facile farmi passare per te, proprio come quando eravamo bambine. Mi mancherà, quando non ci sarai più, davvero.» «Non farlo, Mia» supplicò Melanie. «Casey ha bisogno di me. Ha bisogno di sua madre.» «Avrà la sua cara zietta per mitigare la rigidità di suo padre. E per aiutar-
lo a superare il dolore.» Melanie pensò a quella donna malata, squilibrata, che pretendeva di allevare Casey, e un grido di protesta le sfuggì dalle labbra. Mia guardò Veronica. «Chi avrebbe mai pensato che Melanie avrebbe tentato di uccidere anche la propria sorella?» «Già, chi ci avrebbe pensato?» convenne Veronica. «Per fortuna, avevi la pistola per difenderti.» Mia puntò la pistola verso il petto di Melanie. «Ecco, ora non sarò mai più la seconda.» «Aspetta! Non ha senso! Sono disarmata. Come potrei aver tentato di ucciderti?» Fu Veronica a rispondere. «Sapevi che tua sorella aveva una pistola.» «Giusto» approvò Mia. «L'ho comprata per proteggermi da Boyd. Temevo per la mia vita.» «Ne hai parlato a Melanie. Le hai mostrato dove la tenevi nascosta.» «Ma perché avrei tentato di ucciderti?» chiese Melanie. «Non credi che la polizia si insospettirà? E quando si insospettisce, la polizia comincia a ficcare il naso in giro.» Sentì la disperazione nella propria voce e fece uno sforzo per dominarla. «A porre domande.» La stretta di Mia sulla pistola si allentò leggermente. Guardò Veronica, esitando per la prima volta. «Stavolta, non succederà» affermò Veronica. «Tu eri la principale indiziata di un omicidio e di un tentato omicidio. Eri sul punto di essere arrestata.» «Sei venuta qui a chiedere il mio aiuto per poter lasciare il paese» intervenne Mia. «Ma c'era Veronica. Ha cercato di convincerti a costituirti.» «Tu hai perso la testa» continuò Veronica. «Mi hai aggredita... Ho i lividi per dimostrarlo. E so come funziona il sistema. Saranno anche troppo contenti di chiudere il caso e risparmiare il denaro dei contribuenti.» Melanie lottò per dominare il panico. La storia non era male, considerando gli indizi contro di lei. E Veronica aveva ragione. Per semplificare le cose, la polizia probabilmente avrebbe chiuso il caso. «Ashley sa» disse. «Non se ne starà a guardare...» «La povera Ashley è finita in manicomio, perciò chi crederà a lei, piuttosto che a me e a un'assistente del procuratore distrettuale?» Mia scosse la testa. «Nessuno. Inoltre, temo che alla nostra cara sorella potrebbe capitare
un tragico incidente.» «No! Ti prego, Mia, lascia in pace Ashley.» «Giochi ancora all'eroina, vedo.» Mia strinse le labbra. «Piantala, Melanie. Sei noiosa.» Lei lottò contro la disperazione. Non poteva morire adesso. Non poteva morire mentre tutti la credevano una assassina. Specialmente Casey. Buon Dio, specialmente Casey. Le lacrime le colmarono gli occhi. Voleva suo figlio. Voleva stringerlo fra le braccia, vederlo crescere. E voleva dire a Connor che lo amava. Voleva l'occasione di avere l'amore. Una famiglia. Un futuro. Mia prese la mira, con le labbra incurvate in un sorriso glaciale. «Addio, Melanie.» Quando, dopo aver suonato il campanello, non ottenne alcuna risposta, Connor bussò con forza alla porta. «Mia Donaldson!» chiamò. «Connor Parks, FBI. Ho bisogno di parlare con lei a proposito di sua sorella Melanie. È urgente.» Era sul punto di bussare di nuovo, quando la porta si socchiuse. Mostrò il distintivo. «Mia Donaldson?» chiese. «Sì. Desidera?» Mia aprì la porta di qualche altro centimetro e, come gli era accaduto la prima volta che si era trovato a faccia a faccia con la gemella di Melanie, Connor provò un attimo di disorientamento. La donna che sbirciava dallo spiraglio sembrava un'immagine allo specchio di Melanie... ma non del tutto. Era come se il suo viso avesse subito delle sottili distorsioni, anche se lui non avrebbe saputo dire esattamente quali erano le differenze. «Ci siamo conosciuti l'altro giorno. Lavoro con sua sorella. Ho bisogno di parlarle. È urgente.» Vedendo Mia esitare, Connor aggiunse: «So che è qui. C'è la sua macchina nel vialetto». Mise una mano sulla porta, pronto a entrare con la forza, se necessario. «Le dica che si tratta di una questione ufficiale.» Mia scoccò un'occhiata da sopra la spalla, poi tornò a guardare lui. «Certo, entri.» Connor entrò. Lei accennò al soggiorno. «Si accomodi. La chiamo subito.» Lo lasciò, e sparì attraverso un arco. Connor entrò in soggiorno, ma non si mise a sedere. Come l'ultima volta che era stato là, studiò la stanza, l'arredamento, i soprammobili, i particolari costosi. Però, quello che lo interessava di più era-
no le fotografie. Perlopiù, rappresentavano tre ragazze, a varie età, che si somigliavano in modo sconcertante. Eppure, in ciascuna di esse riuscì a distinguere Melanie. Il suo sorriso franco, anche quando era più giovane, era inconfondibile. Il tempo passò. Il silenzio era assoluto, innaturale. Connor consultò l'orologio, notando che erano trascorsi almeno cinque minuti. Decisamente, c'era qualcosa che non andava. La sua mano raggiunse rapida la fondina che aveva sotto la spalla. Com'era abitudine di molti agenti, portava la pistola con la sicura e un colpo già in canna. La estrasse e tolse la sicura. «Benvenuto, agente Parks. Mia le toglierà l'incomodo di quella.» Connor si voltò lentamente. Melanie era sulla soglia della cucina. Dietro di lei, c'era Veronica Ford. La teneva ferma con un braccio attorno alla vita e le puntava alla testa la canna di un piccolo revolver. Mia girò attorno a loro e si avvicinò a Connor. Tese la mano. «La pistola.» Senza esitare, lui gliela consegnò, e a quel punto lei accennò alla cucina. «Dopo di lei.» Connor guardò Melanie. I suoi occhi erano colmi di un rimpianto che gli spezzò il cuore. «Non sapevo che fosse un party» osservò. «Mi sarei vestito in modo adatto.» Mia lo sollecitò con la canna della pistola. «Niente chiacchiere.» Ignorandola, Connor si rivolse a Veronica. «Non crederà davvero di farla franca, eh?» «Al contrario, siamo sicure di farla franca.» «È davvero arrogante, considerando che la polizia sa...» Mia lo colpì alla schiena con la pistola, abbastanza forte da farlo trasalire. «Ti ho detto di tacere.» Veronica indietreggiò, portando con sé Melanie, perché Connor e Mia potessero entrare in cucina. Lui si sentì cadere il cuore quando vide le due sedie collocate in mezzo alla stanza, schiena contro schiena, attaccate l'una all'altra con del nastro adesivo. «Avanti, stallone» ordinò Mia. «Una di quelle sedie è per te.» Connor guardò Melanie. Per quanto palesemente terrorizzata, aveva anche un'espressione di intensa concentrazione. Stava, come lui, cercando disperatamente di trovare un modo per togliersi da quell'impaccio.
Lui si sedette. «Per come la vedo io» cominciò, mentre Mia gli assicurava gambe e braccia alla sedia con il nastro adesivo, «o ci legate per guadagnare un po' di tempo, o avete intenzione di spararci. Sarebbe giusto che ci informaste dei vostri programmi. Dopotutto, ci riguardano.» Nessuna delle due donne rispose. Mia finì di legarlo, poi accennò a Veronica di portare Melanie. Senza scomporsi, Connor tentò un'altra tattica. «Confesso di essere un po' sorpreso. Non avevo idea che lei fosse complice di Veronica, Mia. Tu lo sapevi, Mellie?» chiese, usando di proposito il nomignolo favorito di Mia per la sorella. Melanie scosse la testa. «No» sussurrò. «Non lo sapevo.» «L'altra cosa che mi rende perplesso è chi comanda qui.» Connor cercò di muovere braccia e gambe, saggiando la solidità dei legami. «Mi sembra che sia Mia a dare gli ordini. È così, Veronica? È stata esautorata?» Veronica guardò Mia, come cercando la sua approvazione. Mia scosse leggermente la testa, e lui ridacchiò. «Vedete, è proprio quello che stavo dicendo. Che rapporto c'è fra voi? Andate a letto insieme? C'è qualche discussione su chi sta sopra?» Mia si chinò a guardarlo dritto negli occhi. «Chiudi quella maledetta bocca, o lo farò io. Capito?» Lui la fissò senza battere ciglio. «Capito.» Le due donne uscirono dalla cucina, senza dubbio per discutere un piano d'azione. Il suo arrivo, immaginò Connor, doveva aver sconvolto non poco i loro progetti. «Perché, Connor?» chiese Melanie con voce rotta. «Perché sei venuto?» Perché ti amo. Aprì la bocca per dirlo, ma invece rispose: «La polizia sa di Veronica. Hanno emesso un mandato d'arresto. Hanno inviato degli agenti alla procura distrettuale e a casa sua. Io sono venuto a dirti che era tutto finito». «Grazie a Dio» mormorò Melanie. «Adesso, Casey non... non crescerà credendo che sua madre era un'assassina.» «Non la faranno franca, Melanie. Qualunque cosa accada a noi, su questo puoi contare.» Melanie annuì. «È stata lei a incastrarmi, Connor. Mia sorella. Per tutti questi anni... mi
ha odiata. Tutto quello che ho fatto per lei non ha fatto che accrescere il suo risentimento. Io credevo... le volevo bene...» La voce le si spezzò e Connor lottò contro i legami, maledicendo l'impossibilità di prenderla fra le braccia e confortarla. Se avesse avuto una seconda occasione, giurò a se stesso, non l'avrebbe mai più lasciata andare. «Mi dispiace» mormorò. «Ma non solo per questo. Mi dispiace per ieri sera. Volevo crederti. Dopo che te ne sei andata, ti ho chiamata per dirtelo.» «Non pensarci, Connor. Sembra che sia passata un'intera vita, ormai.» «Non per me. Potremmo non cavarcela. Voglio che tu sappia che credevo alla tua innocenza. Ti ho telefonato per dirti che, insieme, avremmo pensato a qualcosa. Avremmo scoperto chi cercava di incastrarti. Tu non hai risposto. Ti ho lasciato un messaggio.» Non sentirà mai quel messaggio, ora, pensò Connor. A meno che non riesca a trovare un modo per tirarci fuori da questa situazione. Lei si lasciò sfuggire un singhiozzo soffocato, come se avesse appena pensato la stessa cosa. «Grazie, Connor. È molto importante per me.» «Ascolta, Melanie... Non abbiamo molto tempo, e c'è qualcos'altro che devo dirti, prima che sia troppo tardi. Ti amo. Mi sono innamorato di te. E prima che tu me lo chieda, sì, amo anche Casey. Ma non si tratta di lui. Si tratta di te e di me, e di come mi fai sentire. Meravigliosamente, Melanie. Mi fai sentire meravigliosamente.» Un altro suono soffocato le sfuggì, un grido in parte di gioia, in parte di disperazione. «Anch'io ti amo, Connor.» Lui piegò la testa all'indietro, in modo da appoggiarla alla sua... la sola carezza che poteva concedersi. Non lascerò che finisca in questo modo. Non lo permetterò. «Senti, cerchiamo un modo per toglierci da questa situazione e vivere felici e contenti. Che ne dici?» Lei rise. Una risata breve, soffocata. «Se insisti, agente Parks.» «Insisto, agente May.» Dall'altra stanza venne un rumore di passi che si avvicinavano. «Ecco il piano» disse Connor in fretta, a bassa voce. «Prima o poi, qualcuno si ricorderà che Veronica e Mia erano grandi amiche, e noterà che noi non diamo notizie da qualche tempo. Non ho visto auto della polizia, arrivando, ma Stemmons mi ha assicurato che la casa era sorve-
gliata. Più tempo guadagniamo, meglio è. Cerchiamo di innervosirle, di metterle l'una contro l'altra. Comincio io. D'accordo?» Prima che Melanie potesse rispondere, le due donne rientrarono in cucina. Connor non perse tempo. «Stavo giusto informando Melanie degli ultimi sviluppi delle indagini sull'Angelo nero. Volete conoscerli anche voi?» Mia gli indirizzò uno sguardo disinteressato. «Credo che sia un problema superato, no?» «Davvero?» Lui guardò Veronica. Delle due, era decisamente la meno calma. Non ci sarebbe voluto molto a darle una buona scrollata, si disse. «È stato emesso un mandato d'arresto nei suoi confronti, Veronica. È ricercata in tutto lo stato.» «Ah, sì?» «Sicuro. È quello che succede quando si uccide il proprio marito e la sua amante. Certo non avrà pensato di farla franca per sempre.» Veronica impallidì. «Gliene ha parlato Melanie mentre eravamo fuori» affermò. «Spiacente, ma non è così. Ha sparato a suo marito al petto, e ha ucciso la sua amante colpendola alla testa con un attizzatoio. Li ha avvolti in un telo di plastica, li ha zavorrati con dei pesi e li ha gettati nel lago Alexander.» Connor sorrise. «Questa storia le suona familiare?» Veronica aveva l'aria di sentirsi male. La sua presa sulla pistola parve allentarsi. Connor insistette, odiandola per ciò che aveva fatto a sua sorella, godendo del suo crescente disagio. «Naturalmente, come sappiamo, non si è fermata lì. È stato così bello, così soddisfacente liberarsi di suo marito, che dopo ha ucciso suo padre.» Dietro di lui, Melanie sussultò. Evidentemente, quella era un'informazione che le mancava. «Ha dovuto trovare un metodo più sottile, però. Voler punire tutti gli uomini della sua vita è una cosa, farsi cogliere sul fatto è tutta un'altra faccenda. Ha inscenato un incidente in mare.» Connor scosse la testa. «Si è servita della passione di suo padre per la vela contro di lui, vero? Proprio come ha fatto per alcune delle sue altre vittime, sfruttando passioni come la motocicletta o la caccia. È stata incauta, Veronica. Ha stabilito un legame diretto fra lei e i delitti.» Guardò Veronica negli occhi. «Una delle vittime era mia sorella. Suzi Parks. Il nome le dice qualcosa?» Il viso già pallido di Veronica divenne cinereo. Si portò una mano alla bocca. Un'ondata di rabbia e di dolore si abbatté su Connor. Quella donna aveva assassinato sua sorella. A sangue freddo, senza il minimo rimorso. «Proprio co-
sì» continuò. «L'amante di suo marito era mia sorella. E lei l'ha uccisa.» «Andava a letto con suo marito!» scattò Mia. «Meritava quello che le è successo.» Connor strinse i pugni, ma non distolse gli occhi da Veronica. «Non sapeva che il suo amante era sposato e, quando lo scoprì, cercò di lasciarlo. Lui la minacciò. Disse che l'avrebbe uccisa.» Fece una pausa, poi continuò: «Era una sua vittima, proprio come lei, Veronica». La donna mosse le labbra come per parlare, ma non ne uscì alcun suono. Lui insistette. «Credevo che l'intento dell'Angelo nero fosse raddrizzare i torti, fare giustizia. Uccidere una ragazza innocente è quello che lei chiama gius...» «Zitto!» L'ordine venne da Mia. Ancora una volta, Connor la ignorò. Veronica aveva cominciato a tremare così forte che la pistola sobbalzava. «Giustizia?» terminò Connor con disgusto. «E ora intende uccidere me e Melanie? Perché? Perché la sua amante vuole che lo faccia? Perché è così gelosa di sua sorella che ha perso la ragio...» «Ti ho detto di chiudere quella bocca!» Mia strappò la pistola di mano a Veronica e la puntò contro di lui. In quell'istante, Connor si rese conto di essere andato troppo oltre. Trattenne il respiro e mormorò una rapida, silenziosa preghiera per Melanie. Un attimo dopo, la sofferenza gli esplose nella testa. CAPITOLO 28 Melanie represse un grido quando Mia colpì Connor alla testa con il calcio della pistola. Nel momento in cui vide sua sorella vibrare l'arma con forza brutale, si rese conto definitivamente che la Mia che aveva creduto di conoscere non esisteva. Era stata un'illusione, un personaggio recitato con stupefacente veridicità. La vera Mia era fredda, vendicativa e crudele. E mentalmente malata. Melanie lottò per non piangere. Sua sorella non meritava le sue lacrime. Più tardi, forse, ma non ora. Ora, Connor aveva bisogno di lei. Aveva bisogno che tirasse fuori entrambi da quella situazione. Non essere morto, Connor. Dio, ti prego, fa' che non sia morto. Doveva rivedere tutto ciò che aveva creduto su Mia. Ricominciare da capo. Riesaminare gli avvenimenti, le contraddizioni nelle sue storie, le cose che avrebbe dovuto mettere in dubbio, ma non lo aveva fatto perché credeva a sua sorella.
Boyd. Ma certo. Suo cognato aveva goduto nell'essere dominato e punito dalle donne, non viceversa. Quel giorno, in ospedale, Boyd aveva negato di avere picchiato Mia. Aveva detto la verità. Melanie guardò la donna che un tempo aveva chiamato sorella, simulando ammirazione. «Boyd non ti ha mai picchiata, vero? Hai fabbricato l'intera storia.» «Indovinato, sorella cara. Quel patetico pervertito non aveva certo il fegato necessario.» Mia rise. «Boyd non valeva nulla, come uomo, ma guadagnava una quantità di soldi. Non avevo certo intenzione di rinunciare agli agi che mi consentiva solo perché avevo firmato quello stupido accordo prematrimoniale.» Connor emise un gemito e Melanie ringraziò silenziosamente il cielo, poi concentrò i suoi sforzi, sentendo che il tempo stringeva. «Ora capisco» mormorò, azzardando una rapida occhiata a Veronica. A giudicare dalla sua espressione sbalordita, non aveva idea dei veri rapporti fra Mia e il marito. «E così hai elaborato un piano. Una storia di abusi. Qualche lacrima, un paio di lividi che ti sei procurata da sola... Ma, dimmi, che cosa speravi di guadagnare, a parte il divorzio?» Mia sbuffò, palesemente disgustata dall'ottusità di Melanie. «L'accordo prematrimoniale si applicava solo in caso di divorzio. In caso di morte, avrei preso tutto.» Vedendo che Melanie non capiva ancora, scosse la testa. «Non hai immaginazione, mia cara. Rifletti. Tutti sapevano che carattere infiammabile aveva la mia sorellina. Quanto era protettiva. Come avrebbe fatto qualunque cosa per me... perfino puntare un coltello contro il suo stesso padre. Ho deciso di servirmi di tutti questi bei tratti del tuo carattere per liberarmi da quel maritino sempre più ingombrante.» Melanie strinse le labbra. Il tono di Mia, il modo in cui ironizzava sul suo affetto e la sua fiducia le causavano una sofferenza quasi intollerabile. «Sarebbe stato facile» continuò Mia. «Avrei indossato una tua uniforme, gli avrei sparato con la tua pistola d'ordinanza, se ce l'avessi fatta a impadronirmene. O, se no, con la mia.» Accennò al revolver con il calcio di madreperla sul piano di lavoro dietro Veronica. «Che, a proposito, non è registrata. Dopo, mi sarei assicurata che tu fossi vista allontanarti dalla scena. Mi sarei liberata di tutti e due in un solo colpo. Semplice.» Sorrise, compiaciuta della propria astuzia. «Contavo di farlo mentre eri sola in casa con Casey. Non avresti avuto alibi. Nessuno avrebbe dubitato della tua colpevolezza.»
«E poi è comparsa sulla scena Veronica, rendendo le cose ancora più facili» mormorò Melanie. «Esattamente. Che cosa c'era di meglio che avere dalla mia parte un'assistente del procuratore distrettuale? E quando seguii Boyd e scoprii il suo piccolo, sporco segreto, seppi che ce l'avevo fatta. Alla fine, non solo lei ha fatto il lavoro per me, ma ha anche confermato il mio alibi per quella notte.» Mia rise, sempre più compiaciuta. «Non che avessi realmente bisogno d'aiuto. Tu ti eri adeguata perfettamente al mio piano, Melanie, minacciando addirittura Boyd in pubblico. Bel poliziotto. Non hai mai messo in dubbio una parola di quello che ti dicevo.» «Ci sono caduta anch'io» sussurrò Veronica, stringendosi le braccia attorno al corpo. «Mi hai mentito, Mia. Su Boyd... su tutto. Come... come hai potuto?» Mia le lanciò uno sguardo sprezzante. «Sii pratica, Veronica. Questa è la vita.» Veronica emise un grido d'angoscia. «Ero disposta a fare qualunque cosa per te... Qualunque cosa! Ti amavo... e per tutto il tempo...» La voce le si spezzò. «Per tutto il tempo tu mi hai mentito? Ti sei servita di me?» «Eri disposta a fare qualunque cosa per me, come hai continuato a ripetermi fin dal principio. E te ne sono grata. Mi hai reso la vita molto più facile, decisamente. E se questo ti fa sentire meglio, avevo intenzione di tenerti con me ancora per un po'. Sfortunatamente, non è più possibile. Però ci siamo divertite, vero? Purtroppo, è finita.» «Finita...» Veronica fece un passo indietro, con gli occhi colmi di lacrime. «Ma noi... Non capisco.» «No? Eppure è così ovvio! La polizia e l'FBI sanno di te. Ma non di me. E non sapranno mai.» Mia sospirò. «È un vero peccato che tu abbia ucciso Melanie e Connor. Ho cercato di fermarti, di salvarli...» La voce le tremò, mentre provava la parte. «Ma non ci sono riuscita. Anzi, è una fortuna che sia scampata alla carneficina.» Sollevò la pistola e la puntò contro una stupefatta Veronica. «Addio, amore.» Veronica emise uno spaventoso urlo di dolore e di rabbia, poi, in un solo, fluido movimento, vibrò un perfetto calcio volante, che peraltro non raggiunse il suo bersaglio. Nello stesso momento, Mia sparò. La pallottola colpì Veronica, ma non riuscì a fermarla. Mia sparò di nuovo. Veronica barcollò all'indietro, premendosi una mano sul petto. Una chiazza rossa si allargava sulla sua maglietta bianca. Senza un momento di
esitazione, Mia le voltò le spalle e puntò l'arma contro Melanie. Sorrideva. Nell'aria risuonò uno sparo. L'esplosione si mescolò al grido di Melanie e all'ordine, urlato da Connor, di gettarsi a destra. Melanie si sentì cadere. In quel momento, tutta la sua vita le passò davanti agli occhi, i momenti belli, quelli che valeva la pena di portare con sé... la nascita di Casey, il suo primo sorriso, camminare sulla spiaggia con sua madre, ridere con Ashley, fare l'amore con Connor. La sedia piombò a terra. Melanie provò un dolore acuto alla spalla e, una frazione di secondo dopo, batté la testa sul pavimento. Puntini di luce le esplosero davanti agli occhi. Ci volle un momento perché la testa le si schiarisse, perché si rendesse conto che né lei né Connor erano stati colpiti. Torse il collo per guardare. E vide sua sorella. Era distesa sul pavimento in una pozza rossa che si andava allargando. Aveva gli occhi aperti. Vuoti. Guardò Veronica. Si era alzata, aggrappandosi al piano di lavoro, e aveva preso la pistola di Mia. Quando i loro sguardi si incrociarono, Melanie le lesse negli occhi un sincero rimpianto. Rassegnazione. Un'implorazione di perdono. Un piccolo sorriso le incurvò gli angoli delle labbra. Si portò l'arma alla bocca. E premette il grilletto. Il sole abbagliò Melanie quando uscì dal quartier generale del CMPD, ma la luce improvvisa non le dispiacque affatto. Solo poche ore prima aveva pensato di non rivedere mai più il sole, di non godersi mai più il suo tepore. Lei e Connor ce l'avevano fatta. Erano vivi. Come Connor aveva previsto, uno degli investigatori del CMPD era stato informato da Bobby dell'amicizia di Veronica con Mia. Sempre Bobby aveva ancora notato che Melanie e Connor non avevano più dato notizie dopo essere stati visti entrare in casa di Mia. E così, i nostri erano arrivati... e avevano trovato i due legati a quelle maledette sedie, in una pozza di sangue. Scomodi, ma vivi e vegeti. Dopo essere stati visitati dal medico ed essersi ripuliti, avevano reso la loro testimonianza alla polizia. C'erano tutti, il capo Lyons, il capo Greer, Harrison e Stemmons, Steve Rice. Greer aveva lodato Melanie per il lavoro svolto sia sul caso Andersen sia su quello dell'Angelo nero. Rice aveva accennato che poteva forse esserci un posto per lei all'FBI. Per non restare
indietro, il capo del CMPD le aveva fatto la stessa proposta. Era strano. Aveva aspettato così a lungo una simile offerta, e ora tutto quello che provava era un senso di stordimento. Completate le testimonianze, Melanie e Connor erano stati lasciati liberi di andare per i fatti propri. Liberi di pensare al domani. E a tutti i giorni seguenti. Mia. Un sospiro doloroso sfuggì dalle labbra di Melanie e l'orrore delle ultime ore fu sul punto di sopraffarla. Lottò per respirare a fondo, per sforzarsi di lasciarselo alle spalle, di trovare un luogo, nella mente, dove chiuderlo e sigillarlo. Connor la prese fra le braccia, se l'attirò contro il petto. «So quanto fa male, piccola. Lo so.» «Come potrò dimenticare?» chiese lei, con voce rotta. «Non dimenticherai mai. Ma un giorno ti sveglierai e scoprirai che non fa più così male.» Connor le prese il viso fra le mani. «Io sarò con te, quel giorno, Melanie. E tutti gli altri giorni.» «Ti amo, Connor.» Lui sorrise. «Anch'io ti amo.» «Mamma!» Melanie si voltò. Casey era a pochi passi di distanza. Con lui c'era Stan, che lo tratteneva tenendogli una mano sulla spalla. «Casey!» Melanie si inginocchiò, tendendo le braccia. Stan lasciò andare il bambino, e Casey corse da lei, con il più bel sorriso che Melanie avesse mai visto. Se lo strinse al petto, sul cuore. «Mi sei mancato tanto, tesoro» sussurrò. «Tanto.» Lui le ricambiò l'abbraccio, forte forte. Dopo un momento, Melanie allentò la stretta, ma senza lasciarlo. Alzò gli occhi sull'ex marito. Lui le fece un cenno di saluto, girò sui tacchi e si allontanò verso la propria macchina. Melanie lo seguì con lo sguardo, facendo uno sforzo per respingere il pensiero di Mia, e con esso il dolore, il senso di tradimento, di incredulità, di delusione. Avrebbe avuto tutto il tempo di piangere per la sorella che aveva amato con tutto il cuore. Ma non ora. Quel momento era dedicato alla vita. Prendendo in braccio Casey, si rivolse a Connor. «Che ne diresti di andarcene a casa, agente Parks?»
«L'idea mi piace, agente May. Mi piace moltissimo.» FINE