Giampietro Stocco Nero italiano (2003) NOTA: Quest'opera è frutto integrale di fantasia. Ogni riferimento a persone real...
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Giampietro Stocco Nero italiano (2003) NOTA: Quest'opera è frutto integrale di fantasia. Ogni riferimento a persone reali va per tanto considerato non biografico e funzionante all'impostazione dell'intero libro.
1 La notte era fredda e piovosa. Sull'ampio spiazzo situato in cima alla grande scalinata, ai due lati dell'enorme lapide di bronzo, stavano immobili come statue i granatieri di guardia. Tanta marzialità era dovuta non al rispetto per una memoria ormai vecchia più di trenta anni, ma alla luce violentissima che tre potenti batterie di fari installate nei Fori di Cesare e di Augusto e su Palazzo Venezia proiettavano sull'intero monumento. Sulla vecchia Macchina da Scrivere illuminata a giorno non ci si poteva rilassare. Un ufficiale della Milizia aveva il compito specifico di controllare se la Guardia al Sacrario della Patria osservava le rigide regole stabilite dal ministero della Guerra. Ogni mattina veniva steso un rapporto: il solo avere scambiato due chiacchiere davanti al Sepolcro poteva significare la partenza per il Corno d'Africa. La cascata di luce sull'ex monumento al Milite Ignoto non era dovuta solo a motivi patriottici. Da qualche tempo, infatti, il candido marmo veniva regolarmente imbrattato da scritte inneggianti alla democrazia e al socialismo. Per quanto squadre di operai passassero ogni notte munite di idranti, spazzole e vernice bianca, non si riusciva più a cancellare del tutto gli slogan. Né la Milizia riusciva a cogliere sul fatto gli anonimi vandali, in genere studenti che si spostavano velocissimi in vespa. Così si era deciso per l'illuminazione a giorno da tre punti diversi a un costo che, nell'anno 1975, ventiquattro mesi dopo che i paesi islamici avevano deciso di lasciare l'Occidente senza petrolio, l'Italia fascista non poteva permettersi. Così, mentre la luce proiettata sulla tomba del Padre della Patria era visibile a decine di chilometri di distanza come un chiarore diffuso all'orizzonte, tutte le strade di Roma erano rimaste al buio. I raggi dei riflettori colpivano con violenza il bianco marmo del Sacrario del Duce e ne venivano riflessi tutt'intorno, entrando come un
chiarore diffuso in tutti gli edifici vicini. Un chiarore che, pallido come un raggio di luna, disegnava un rettangolo incerto sull'antico pavimento di una sala di Palazzo Venezia; l'unica altra fonte di illuminazione era la luce fioca di un unico lampadario a bassa intensità appeso al soffitto. Rimanevano così in penombra i volti delle persone sedute ai quattro lunghi tavoli addossati alle pareti: ventiquattro uomini e tre donne, dei quali solo un paio in divisa. Spiccava, sulla parete centrale della stanza, un'ampia tribuna sopraelevata rispetto agli altri posti e ricoperta di broccato rosso. Dietro di essa, una robusta sedia rinascimentale dotata di braccioli, sulla quale era abbandonato un vecchio. L'uomo, che un tempo doveva essere stato piacente, aveva ancora i capelli nerissimi tirati indietro sul capo dalla brillantina e portava, un po' stretto sullo stomaco sporgente e sui fianchi larghi, un doppio petto color grigio chiaro. Il suo largo collo era chiuso dal colletto di una camicia di seta bianca e da una cravatta nera ornata da una perla. Sulla parete dietro di lui, a malapena illuminato dal lampadario che rischiarava l'ambiente, campeggiava un enorme ritratto a olio di Benito Mussolini. Mentre aspettava, indolente come al solito, di dare inizio alla riunione del Gran Consiglio, il segretario nazionale del Partito Fascista Galeazzo Ciano scoccò un'occhiata al cipiglio truce del suocero che sembrava ammonirlo dall'alto. Se solo potesse vedere come abbiamo trasformato il regime in trent'anni, pensò tra sé mentre tamburellava con le dita sulla cartellina di cuoio che aveva davanti a sé. Poi, schiarendosi la voce per richiamare l'attenzione, accese un minuscolo lume da tavolo fissato al suo fianco e cominciò a parlare. "Camerate e camerati, mi sforzerò di non annoiarvi" esordì controllando il suo abituale tono stridulo. "Di fronte a me ho i dati forniti dai Ministri degli Esteri e dell'Economia sulle conseguenze della crisi energetica nei rapporti internazionali. Nel mio dossier ho anche un rapporto del ministro dell'Interno. Ma andiamo per ordine". Ciano aprì la cartellina e posò il primo dei due fascicoli davanti a sé. I suoi polsini di platino luccicavano nell'insufficiente luce della sala. "Da due anni ormai non ci arriva più una goccia di petrolio dai Paesi arabi e islamici. L'Italia può fare conto solo sulle esigue riserve libiche, e con la guerra in Somalia e in Etiopia non siamo in grado di distrarre risorse per ricavare ciò di cui abbiamo bisogno. Ho notizia che all'estero le cose non vanno meglio: gli Stati Uniti stanno dando fondo ai giacimenti nazionali, visto che la Persia dello Scià, unico fornitore loro rimasto dopo la rivolta islamica in Arabia Saudita, dopo le
proteste di piazza organizzate dagli sciiti ha ridotto drasticamente le esportazioni di greggio. Gran Bretagna e Francia stanno cercando nuove linee di rifornimento in Africa, ma anche qui le nuove repubbliche teocratiche spuntano una dopo l'altra e non vogliono vendere petrolio agli antichi colonizzatori. Il Reich tedesco non manca di fonti di energia, ma come sapete non ha petrolio. Il presidente Albert Speer mi ha tuttavia personalmente assicurato la fornitura di gas e carbone. Dopo i recenti voltafaccia di Grecia, Spagna e Portogallo, la Germania è ormai l'ultimo amico che abbiamo in Europa. Chi sta bene, ma bene davvero, è l'Unione Sovietica. In nome dell'internazionalismo e dell'aiuto alle nazioni povere, i capi comunisti lisciano il pelo ai mullah musulmani, e ottengono tutto il greggio che vogliono a prezzi stracciati. Ma, come sapete, l'Italia da mezzo secolo non ha più alcuna relazione diplomatica ed economica con l'U.R.S.S.". Ciano si allargò leggermente il colletto della camicia, bevve un sorso d'acqua da un bicchiere di cristallo e passò al secondo rapporto. "Qui, invece, il ministro dell'Interno Casamassima mi informa che non solo a Roma ma anche a Napoli, Palermo, Milano e in molte altre città gli studenti stanno scendendo in piazza a decine di migliaia. Avete sentito bene, decine di migliaia. Spero siate tutti così intelligenti da non tenere conto delle notizie preconfezionate che diffondono quotidiani, radio e televisione. Camerati, qui non è più solo qualche teppista che scrive 'viva il comunismo' sull'Altare della Patria. Dopo cinquantatré anni di regime, sembra che i nostri giovani vogliano mandarci tutti quanti a casa. Grazie al cielo nelle fabbriche le cose vanno un po' meglio: per ora, ma solo per ora, gli operai di Alfa Romeo, Fiat, Italsider, si limitano a minacciare ogni tanto lo sciopero per la settimana di 48 ore e i consigli di fabbrica". Galeazzo Ciano sospirò e riprese a parlare osservandosi distrattamente le mani. "Vedete" disse, "il fatto è che io sono vecchio, ormai ho passato i settant'anni. Quando succedetti al Duce nel 1944, potei toccare con mano che fortuna aveva avuto l'Italia a rimanere neutrale nella guerra più devastante del secolo. Alla fine del conflitto eravamo poveri, sì, ma non a terra come gli altri". Ciano agitò la sua grossa mole sulla sedia, bevve di nuovo e continuò con fatica". "Temo però che avere mantenuto in vita il fascismo ne abbia solo rimandato la fine. Io ho fatto quello che ho potuto: ho abolito per me il titolo di duce, dal 1945 ho cancellato le leggi razziali e tutte le disposizioni antisemitiche varate nel '38, ho aperto le carriere di partito e gli incarichi di governo alle donne, per lo scandalo di alcuni di voi
mi tengo in contatto con alcuni esponenti fuoriusciti della vecchia opposizione. Da qualche anno i giornali possono criticare il regime, sia pure addomesticati della censura. L'Italia si è modernizzata, abbiamo piena occupazione nell'industria e quasi tutti hanno un'auto. Chi vuole può divorziare, e per questo "Osservatore Romano" e Radio Vaticana bollano il fascismo come nemico della famiglia. Il fascismo nemico della famiglia!" ripeté Ciano battendo un pugno massiccio sul tavolo. "Grazie a Dio il Duce non è qui a sentire questa assurdità!". "Ma tutto questo non basta" riprese Ciano detergendosi il sudore dalla fronte con un candido fazzoletto di lino dalle cifre rosse. "Ora che la monarchia è tornata in Spagna anche il Re d'Italia vuole cercare di farsi democratico! Come se non fosse stato proprio suo padre mezzo secolo fa a spianare la strada a Benito Mussolini... Avete visto la settimana scorsa Umberto II affacciarsi dal Quirinale per salutare gli studenti in corteo? Che spettacolo! Le foto hanno fatto il giro del mondo! Il rampollo, si fa per dire, di una delle dinastie più autoritarie d'Europa, un vecchio come me che non si vergogna a inneggiare al comunismo insieme con migliaia di ragazzini! E il principe Vittorio Emanuele che va a Mosca in visita privata!". Ciano si sentiva sempre più stanco, ma voleva arrivare alla fine. "Come vi dicevo, io ho fatto la mia parte perché dal regime di Starace e dei cerchi di fuoco passassimo a una nazione moderna. Il fascismo però non è un elastico che si possa tendere all'infinito. Non possiamo perdere la nostra identità. Non possiamo reintrodurre completamente quel parlamentarismo che è stata la rovina dell'Italia liberale. Non possiamo permetterci un'assoluta libertà di stampa. Non possiamo rinunciare alla polizia segreta né alla Milizia. Ma, d'altra parte, non possiamo neanche tornare al sabato fascista o alle adunate la domenica. Grazie a me, la camicia nera ormai si mette solo il 28 ottobre e non è più neanche obbligatoria. Siamo in mezzo al guado, camerati. A voi il compito di tirarci fuori. Ma attenti a quale sponda sceglierete!". Il segretario nazionale del Partito Fascista si appoggiò sullo schienale della sua massiccia sedia e tacque. Era spossato, il suo cuore batteva come un martello. Bevve un nuovo sorso d'acqua mandando giù insieme due pillole. Nella sala per qualche istante regnò il silenzio. I consiglieri si scambiarono qualche rapida occhiata, per poi tornare a fissare gli appunti che avevano sotto mano. Finalmente prese la parola Maria De Carli, ministro per la Cultura e la Comunicazione. Gli occhi azzurri, un caschetto di capelli neri, vestita di un
austero tailleur beige che le dava un'aria vagamente germanica, la donna si levò in piedi, e dall'alto del suo metro e settantacinque, con uno degli sguardi circolari resi famosi dalla televisione, esaminò uno per uno tutti i propri interlocutori. "Il segretario nazionale ha svolto un'analisi acuta" disse Maria De Carli. "Ma io la considero, con tutto il rispetto, disfattistica". La frase suonò come una frustata. Anche se, con gli anni, i consiglieri si erano abituati a sentire criticare il Capo nei corridoi, l'accusa stavolta era pubblica e diretta. I gerarchi iniziarono a parlare tutti insieme, sfogando la tensione accumulata durante la relazione di Ciano. Gli unici a tacere erano Maria De Carli e il ministro dell'Interno Adolfo Casamassima, un fascista della vecchia guardia che veniva alle riunioni del Gran Consiglio ancora in orbace. Ciano fissava il ministro della Cultura e della Comunicazione senza muovere un muscolo. Gli occhi azzurri freddi come il ghiaccio, Maria De Carli attese che il silenzio tornasse in sala e riprese i suoi ragionamenti. "La rivoluzione fascista è stata una rivoluzione vincente. Da un avversario come Lenin abbiamo imparato che in politica il fine va assoggettato al mezzo. Così abbiamo riformato il regime e siamo sopravvissuti alla fine del Terzo Reich di Hitler. Io ero poco più di una bambina quando la bomba di Stauffenberg seppellì il nazismo insieme con il suo Führer. Piansi di rabbia quando il rinnegato Albert Speer, che a Hitler doveva fama e potenza, formò il governo militare provvisorio che sottoscrisse l'armistizio con le potenze occidentali e l'Unione Sovietica. Oggi il rinnegato è presidente del nuovo Reich tedesco e io una donna matura. Così oggi capisco che la Germania deve a un traditore la sua integrità nazionale. E la Germania, come ha detto il segretario nazionale, rimane il nostro unico amico in Europa. Quindi, sia pure a malincuore, come accetto Speer in Germania, in Italia accetto che il fascismo sia stato democratizzato". Maria De Carli fece una pausa per valutare l'impatto delle sue parole sull'uditorio. Ciano continuava a fissarla attento, Casamassima prendeva appunti. Gli altri consiglieri la guardavano intimoriti. "Tuttavia" riprese Maria De Carli cominciando a muoversi dal suo posto verso quello di Ciano, "credo che il segretario nazionale sia in errore quando dipinge il fascismo come alla fine dei suoi giorni. Il fascismo è dinamicità continua" disse la donna fermandosi di fronte al successore del Duce, "vederlo immobile, o addirittura morente è una prospettiva da vecchi democratici".
L'atmosfera in sala era al culmine della tensione: la stenografa incaricata di riprodurre il verbale della riunione del Gran Consiglio tremava senza ritegno. Non era mai successo che un gerarca attaccasse in questo modo il successore di Mussolini. Ciano appariva invece divertito. "Galeazzo, tu dici che i giovani ci vogliono mandare tutti a casa" disse Maria De Carli usando la forma confidenziale che solo i familiari di Ciano e il vecchio Casamassima si permettevano con il Capo del Fascismo. "Noi però possiamo usare i mezzi della diplomazia e della propaganda per far cambiare loro idea e per evitare che qualche agitatore di professione si faccia forte della loro protesta". Il ministro degli Esteri Giorgio Scola alzò di colpo la testa dai suoi incartamenti. "E in che modo, se è lecito, camerata De Carli?" chiese con aria seccata. "Quanto alla propaganda, che è il mio campo" riprese la donna continuando a fissare Ciano, "esaltando le similitudini originarie tra fascismo e socialismo, il ceppo comune da cui entrambe le ideologie derivano. Quanto alla diplomazia, che è il settore di Scola, aprendo un nuovo corso verso l'Unione Sovietica. La guerra è finita ormai da trent'anni". "A cosa vuoi arrivare, camerata De Carli?" chiese Ciano, improvvisamente brusco. "A un trattato di amicizia con l'Unione Sovietica", rispose tranquilla la donna. Questo ci permetterebbe di far sbollire i nostri studenti filocomunisti, oltre che, ed è la cosa più importante, importare gas e petrolio dalla Siberia e arrivare al greggio degli arabi alleati di Mosca". "È un suicidio! Gli americani, gli inglesi e i francesi ci salteranno alla gola!" urlò il ministro degli Esteri Scola battendo il palmo della mano sul tavolo. "Per non parlare della Germania. È il nostro partner economico principale, sta facendo passi da gigante e sta riarmando. Che diremo a Speer? Che è un altro degli eterni giri di valzer italiani?". "Siamo il primo regime fascista in Europa e l'unico sopravvissuto" interloquì l'esile ministro della Guerra, il generale Alfonso Paoloni. "Nessuno ci aiuterebbe se la Germania ci attaccasse e nessuno verserebbe una lacrima sulla nostra disfatta. Con l'Austria alleata di Berlino, in poche ore avremmo la Reichswehr a Trento e a Venezia. E gli jugoslavi ne approfitterebbero per prendersi Trieste, l'Istria, Lubiana e Zara. Potremmo a malapena conservare l'Albania. No, noi non siamo né militarmente né politicamente in grado di sostenere una mazzata del genere!". "Allora, camerata De Carli!" intervenne Galeazzo Ciano. "Come replichi a queste obiezioni?".
"Dico che se il fascismo deve comunque morire per vigliaccheria, allora è molto meglio rischiare di essere travolti per una scelta coraggiosa. Siamo rimasti neutrali nella Seconda Guerra Mondiale. Ci siamo chiamati fuori dalla Guerra Fredda. Non possiamo continuare a nasconderci. Chiedo che sulla mia proposta, che sottopongo contestualmente come mozione, il segretario nazionale chiami il Gran Consiglio del Fascismo ad esprimere la sua volontà". Le ultime affermazioni del ministro della Cultura e della Comunicazione infiammarono gli animi. Gerarchi e ministri non ci stavano a farsi dare pubblicamente dei codardi. I consiglieri si alzarono in piedi e cominciarono a rumoreggiare. La sala del Gran Consiglio piombò nel caos. "Appoggio la mozione della camerata De Carli", disse improvvisamente una voce roca. Era il ministro dell'Interno Casamassima. Ottantacinquenne, era il gerarca fascista più anziano, l'unico del Consiglio reduce della marcia su Roma. Casamassima era stato stretto collaboratore di Mussolini e aveva favorito in tutti i modi l'ascesa al potere di Ciano nel 1944 dopo la morte improvvisa del Duce. La parola di Casamassima valeva spesso quella di Ciano. Qualche volta, sapeva Maria De Carli, anche più di quella di Ciano. Un mormorio di intonazione tutta particolare passò fra i consiglieri. Ciano aveva sentito quelle stesse frasi spezzate in altri momenti decisivi del passato. Ancora una volta cambia la musica della politica, pensò fra sé. Convocò i segretari per la votazione e rese pubblica la propria astensione. Un gesto puramente formale, come sapevano tutti in sala. Che il Capo del Fascismo avesse accettato di mettere ai voti la mozione De Carli, che il ministro dell'Interno Casamassima la appoggiasse, stava a significare che ci si aspettava un sì. Un caloroso sì. Rapidamente, a scrutinio palese, i gerarchi dell'Italia fascista si pronunciarono tutti, salvo i ministri degli Esteri e della Guerra che si astennero, a favore della mozione. Galeazzo Ciano scrisse rapido alcune righe su un block notes e compose un numero sul telefono che aveva al suo fianco. Subito comparve in sala l'addetto stampa del governo. "Passa questa notizia ai direttori di tutti i quotidiani e fa preparare radio e TV per un mio discorso a reti unificate" disse brusco il segretario nazionale. Il proprio tono, aspro e decisionista, gli sembrò per un momento quello del suocero. Si voltò verso il quadro che incombeva sulle sue spalle grasse: gli occhi spiritati di Mussolini sembravano guardarlo sempre più accigliati.
2 'Entro l'anno svolta nella politica estera italiana - Stasera alla radio e in televisione l'annuncio ufficiale nel discorso a reti unificate del segretario nazionale del Partito Fascista Galeazzo Ciano'. La carta stampata non aveva osato alterare di una virgola il titolo vergato personalmente dal Capo del Fascismo. In un paese in cui cinquant'anni prima proprio un giornalista era arrivato ai vertici assoluti del potere la categoria aveva imparato solo la parte più facile della lezione: servire fedelmente chi comandava senza alcun volo d'ingegno. Ciano aveva timore di sbarazzarsene, ma nell'Italia fascista degli anni '70 la censura sulla stampa era virtualmente inutile. Ci pensavano da soli i direttori dei quotidiani a smorzare quello che andava alleggerito e a enfatizzare ciò che andava esaltato. Tutti sapevano ormai a memoria le veline del ministro Casamassima, con i suoi infiniti da questurino borbonico. La vera preoccupazione dei giornali erano tuttavia le nuove disposizioni aggiuntive sulla censura, emanate nel 1974 con decreto firmato dal ministro Maria De Carli. Non più i familiari ordini di servizio su ciò che andava in apertura, spalla e taglio, basta con i divieti assoluti di toccare un argomento piuttosto che un altro. Ora c'era un ponderoso tomo di quattrocento pagine, che conteneva formule oscure e frasi insolite. Qui bisognava pensare: il decreto si soffermava sull'importanza di 'far sviluppare i valori del fascismo nella stessa coscienza del lettore, tenendo presente se egli o ella sia giovane o vecchio, istruito o ignorante, operaio o impiegato'. Si esortavano i giornalisti a tornare sul campo - cosa che non facevano più da mezzo secolo - per osservare la realtà intorno a loro, per capire la dinamica dei conflitti economici in atto. Si diceva con strana terminologia che 'nella misura in cui gli strati meno agiati tendono a trasformare la loro mancanza di prospettive nell'agitazione sociale e negli scontri di piazza, così la stampa deve indicare quei traguardi di miglioramento interiore e civico che possano combattere l'eversione politica e ricostituire senza incertezze l'unità della Nazione'. Parole oscure, che quasi tutti i redattori al di sotto dei quarant'anni rinunciavano a capire, fidando ancora nelle rassicuranti veline del ministro Casamassima; parole che invece, per i giornalisti più anziani, scimmiottavano senza dubbio la prosa di autori tabù da cinquant'anni: Marx, Lenin, Gramsci: questi i nomi che si scambiavano sottovoce i vecchi del giornalismo italiano, spaventandosi al loro semplice suono. Chiudevano allora con uno schiocco secco il volume che conteneva il
decreto De Carli e si auguravano in cuor loro di non doverlo mai davvero applicare alla lettera. Marco Diletti aveva trentotto anni ed era giornalista televisivo. Da pochi mesi aveva sperimentato la più eccitante rivoluzione della sua vita: la nascita della seconda rete della TV di stato. L'Immagine Italiana, così i geni fascisti della comunicazione avevano ribattezzato nel 1973 la vecchia E.I.A.R. In quella occasione, dopo una roboante campagna propagandistica, era stata riaperta a Montecitorio la vecchia Camera dei Deputati. Sugli scranni polverosi abbandonati quasi mezzo secolo prima, per iniziativa di Galeazzo Ciano, da sempre in contatto con l'opposizione in esilio, insieme con una compatta legione di notabili fedelissimi del regime, aveva fatto capolino uno sparuto drappello di deputati definiti dallo stesso regime 'afascisti'. Il ministro De Carli aveva dichiarato alla stampa che l'Italia era finalmente matura per un'opposizione politica e che presto sarebbero state indette vere e proprie elezioni: simbolo del nuovo, cinque deputati in tutto su un totale di oltre cinquecento. Cinque parlamentari che si distinguevano per il loro sistematico assenteismo. Il ministro della Cultura e della Comunicazione aveva arricchito il piatto con la promessa di una rete radiofonica e una televisiva per la voce dell'Italia 'afascista. All'E.IAR., ora L'Immagine Italiana, non si era perso molto tempo per formare gli organici delle nuove reti: ai giornalisti più tiepidi verso il regime, poiché veri oppositori non ne esistevano, erano stati affiancati fascisti dichiarati, in maniera tale che questi ultimi potessero controllare i primi e dissuaderli da comportamenti troppo stravaganti. In realtà, nel selezionare i redattori del Telegiornale Due, l'Immagine Italiana si affidò soprattutto al criterio dell'anzianità, reclutando per il prodotto nuovo personale fra i 25 e i 40 anni. Tutta gente che nella propria vita non aveva conosciuto altro che lo stato fascista, gente che, fatalmente, non poteva aspettarsi altro modo di vita. Un affare, insomma, per il regime, che con l'illusione della novità intendeva invece dare vita a una creatura giornalistica potenzialmente ancora più affidabile del vecchio e paludato telegiornale del primo canale. Fu così che Marco Diletti si trovò a fare parte della redazione del secondo TG. In una mattina rimasta celebre negli annali della TV di Stato a lui e ad altri sessanta giornalisti fu detto di portare armadio e scrivania personale al piano di sotto della celebre palazzina di via Teulada. Diletti, abituato a obbedire, eseguì senza discutere e si incolonnò insieme agli altri
colleghi, appena un filo di imbarazzo di fronte ai commenti di scherno degli uscieri eritrei e albanesi. Da allora erano passati ormai alcuni mesi, e quella sera Diletti si trovava in redazione, come milioni di altri italiani incollato al video, a guardare e ad ascoltare il discorso alla Nazione di Sua Eccellenza il Segretario Nazionale del Partito Fascista, Guida del Paese, questo il titolo completo di Galeazzo Ciano nelle apparizioni pubbliche più importanti. Il vecchio appariva stanco, ma con gli occhi ancora vivaci, l'uniforme bianca da cerimonia con la fascia blu che gli attraversava il grasso tronco. I capelli nerissimi, luccicanti sotto le luci dei flash, sembravano quasi dipinti sul suo cranio. A Marco il Capo del Fascismo ricordò per un istante il vecchio maresciallo tedesco Hermann Göring, anche se non poteva esserci differenza maggiore fra l'incerto Ciano e il megalomane numero due del nazismo, avvelenato nella fortezza berlinese di Spandau nel 1945 dall'altro fanatico Rudolf Hess. All'Italia fascista, pensò fra sé Marco Diletti, erano mancati per fortuna gli Hess, i Göring e i Rosenberg, per non parlare dei sadici come Himmler. Le riflessioni di Marco si interruppero non appena Ciano iniziò a parlare. Da quando la televisione era arrivata in tutte le case, il capo del fascismo aveva rinunciato ad arringare le folle dal balcone di piazza Venezia. Non che detestasse le forme tribunizie tanto care a suo suocero: semplicemente non reggeva il confronto. Non aveva né i gesti né la mimica facciale necessari, né soprattutto la voce tonante di Benito Mussolini. Per di più, con il passare degli anni, gli italiani erano sempre più disincantati verso i riti tradizionali del regime. Per questo Ciano aveva deciso di spogliare lentamente il fascismo dei suoi orpelli, fatidico balcone compreso. Dal 1945, anno in cui aveva annunciato a trecentomila persone festanti la fine della guerra in Europa, Ciano aveva deciso di affacciarsi al balcone di Palazzo Venezia solo in occasione della tradizionale sfilata del 28 ottobre, anniversario della Rivoluzione fascista. In realtà, a Ciano piaceva molto di più il balcone elettronico, come amava chiamarlo. Appassionato di cinematografia e comunicazione fin da giovane, trovava nella televisione il mezzo ideale per un regime autoritario moderno: diretto, populista, paternalista. E a 72 anni, Galeazzo Ciano appariva sul piccolo schermo proprio come un padre di famiglia, confidenziale e severo nello stesso tempo. Anche la sua brutta voce, che tanto lo crucciava, finiva comunque per conquistare gli ascoltatori, che si convincevano, fra una battuta e un ammiccare malizioso, di stare ad ascoltare un vecchio impertinente, ma saggio.
Quella sera Ciano sedeva dietro la massiccia scrivania che era stata del suocero. Alle sue spalle, né i teschi, né i labari di Mussolini, solo un austero tricolore con lo stemma di casa Savoia. I tempi erano cambiati. Bisognava dare un'immagine rassicurante alle famiglie italiane riunite a tavola per cena. "Italiane e italiani" esordì sorridendo Galeazzo Ciano, guardando fisso nella telecamera davanti a lui, "poco più di mezzo secolo fa Benito Mussolini realizzava il sogno di una generazione: una rivoluzione che fosse nello stesso tempo sociale e nazionale. Un obiettivo difficile, da perseguire ogni giorno con impegno. Con gli anni abbiamo visto come questa meta sia ardua. Il sogno fascista, che fu sogno europeo, si è purtroppo frantumato fin troppe volte e in troppi paesi. Solo l'Italia ha scelto di continuare a coltivare questo sogno, ma oggi le cose sono cambiate. Oggi viviamo tempi nuovi. Tempi di pace, sì, ma anche tempi di contrapposizioni sociali e di crisi economica". Ciano fece una pausa ad effetto e diede nel frattempo uno sguardo alla scaletta del discorso. Quindi riprese. "Un tempo esistevano le nazioni. Oggi esistono i mercati, che riuniscono più nazioni e fanno emergere un antico soggetto che da tempo sembrava dimenticato: gli sfruttati, i poveri, coloro che lavorano. Il fascismo deve recuperare tutti costoro e deve farlo insieme a quelle forze che storicamente hanno operato nel mondo a favore di chi non ha voce. Nessuno può negare che fascismo e socialismo abbiano una radice comune. Oggi, di fronte all'aggressione economica delle democrazie capitaliste, le Nazioni povere hanno deciso di unirsi e negare ai vecchi sfruttatori le proprie materie prime. Come biasimare i paesi islamici? La loro giusta indignazione contro i paesi colonialisti punisce anche l'Italia, e ciò è stato motivo di analisi da parte nostra. L'unica risposta che possiamo darci è che l'Italia deve rivitalizzare la propria rivoluzione legandosi a quelle Nazioni che da sempre hanno rivendicato il loro posto al fianco degli sfruttati. A tale scopo il ministero degli Esteri ha avviato i primi contatti con l'omologo moscovita per arrivare alla stipula di un trattato di amicizia e mutua collaborazione economico-tecnologica con l'Unione Sovietica". Ciano si concesse un sorso d'acqua in diretta. Lo strappo era stato consumato, pensò, ma ora arrivava il difficile. Come avrebbe reagito il paese? Il Capo del Fascismo riprese a parlare e usò gli ultimi cinque minuti del suo discorso per il consueto bilancio politico e per gli auguri di Natale e fine anno. Poi si congedò con il suo tradizionale "Viva l'Italia", che aveva sostituito col tempo il fascista "A noi". L'immagine di Ciano
sfumò nel tricolore con lo scudo di Savoia e l'inno di Mameli segnalò che la trasmissione era terminata. La redazione del telegiornale Due era piombata nel caos più indescrivibile. "È finito il regime!" andava urlando il caporedattore degli Interni. "Ve l'ho detto, l'ho capito quando è morto Franco in Spagna!". Nervosi più che mai, concitati, come in tutti i momenti critici del passato, i giornalisti dell'ex E.I.A.R. iniziarono un giro di telefonate in codice per carpire notizie di prima mano. Gli unici a restare quieti erano il caporedattore centrale, che era un funzionario del ministero della Cultura e della Comunicazione, e il direttore del TG. Entrambi erano stati preinformati della svolta decisa da Ciano e sapevano che il vero fautore dell'apertura all'Unione Sovietica era stato il ministro Maria De Carli, l'astro nascente della politica italiana. Sapevano anche che Maria De Carli contava sull'appoggio del vecchio ministro dell'Interno Casamassima, come nel 1944 aveva fatto Ciano. Chissà che presto l'Italia non potesse avere addirittura il suo primo ministro donna. In ogni caso l'ascesa di Maria De Carli era da seguire con attenzione: il ministro non era il classico fascista in pantofole degli ultimi trent'anni. Era ambiziosa, intelligente, moderna e, si sapeva, anche vendicativa. Marco Diletti approfittò della confusione per uscire inosservato. Non voleva rischiare una telefonata sicuramente controllata dagli specialisti della Milizia. Si diresse perciò verso una cabina pubblica. Entrato che fu, depose il gettone nell'apposita fessura e, non appena il telefono diede il segnale di libero, compose sul disco il numero tre. Una volta compiuto con il dito il breve arco, riaccompagnò violentemente il disco verso la posizione iniziale. Mentre recuperava il gettone, sentì che dal microfono veniva ancora il segnale di linea libera insieme con un ronzio di fondo. Bene. La piccola centralina era stata disattivata e con essa il collegamento con i registratori della Milizia. Prima che a via Tasso avessero avuto segnalazione del guasto sarebbe passata almeno mezz'ora. Lo stratagemma che, da universitario squattrinato, aveva consentito a Marco di scroccare centinaia di chiamate alla Telefonia Nazionale gli permetteva ora di scambiare quattro chiacchiere senza bisogno di alcun codice. Compose il numero e attese. "Parla Silvia, chi è?" rispose all'altro capo una voce giovane e sospettosa. "Marco, tutto a posto. Chiamo da fuori. Sistema del tre". "Ho appena finito di vedere il Gran Trombone, cos'è questa storia dell'accordo con Mosca?". "Se ne parla da qualche tempo, è opera della De Carli. Pensa a quello
che è successo in soli due anni: prima la fine dei colonnelli in Grecia, poi la rivoluzione in Portogallo, infine la morte di Franco e la restaurazione della monarchia in Spagna poche settimane fa. Le camicie nere hanno paura, e così adesso vogliono tingersi di rosso. Come vanno le cose all'Università?". "A Giurisprudenza sapevano che nonno Galeazzo avrebbe annunciato grosse novità, ma questa supera ogni aspettativa". "Tu che pensi?". "Il collettivo di ateneo prenderà contatti con le altre Università. Domattina ci sarà assemblea ed emetteremo un comunicato. Se vuoi sapere la mia, la cosa puzza. Ci vogliono fare uscire allo scoperto per poi farci fuori". "Ci vediamo stasera da te?". "E meglio di no, hanno intensificato i controlli e ci sono dei blocchi stradali. Vieni domattina all'Università. Dopo la notizia di oggi, le spie della Milizia non si meraviglieranno nel vedere un giornalista che va a ficcare il naso fra gli studenti in lotta". 3 Era proprio come aveva detto Silvia. La città universitaria di Roma pullulava letteralmente di agenti in borghese, ma anche di giornalisti. Sulla scalinata di Giurisprudenza, luogo d'appuntamento della contestazione studentesca, sedevano centinaia di ragazzi con i capelli lunghi e ragazze con l'ampia gonna a fiori e gli zoccoli ai piedi. L'inverno aveva concesso una pausa, decidendo di regalare una splendida giornata di sole. Il sit-in improvvisato proseguiva più a destra, verso il Rettorato. I giovani seduti in terra formavano un muro compatto lungo decine di metri. Discussioni animate si svolgevano ovunque, le voci si alzavano, poi scendevano di nuovo. Si accendevano zuffe, prorompevano insulti sanguigni, poi il dibattito riprendeva come niente fosse successo. Marco capì subito che la marea umana all'esterno del Rettorato era la parte degli studenti che non era riuscita a entrare nell'Aula Magna. Mentre si avvicinava Marco fu fermato con discrezione da un miliziano in borghese. Esibì il tesserino professionale e il poliziotto lo fece passare. Il documento fu quindi esaminato da un energumeno con un cespo di capelli crespi in testa e un lurido maglione sformato indosso, apparentemente uno dei componenti del servizio d'ordine studentesco. Questi a sua volta, non senza una smorfia di
disgusto, restituì a Marco le sue credenziali, lasciandolo infine entrare in Aula Magna. Difficile dire quanti fossero, più di mille di sicuro. Il silenzio all'interno era opprimente. Come opprimente era il caldo provocato dalla traspirazione dei tanti corpi pressati l'uno contro l'altro. L'aria era satura del fumo di innumerevoli sigarette. Gli studenti erano stipati ovunque: avevano lasciato solo un'area di rispetto intorno alla lunga cattedra che campeggiava in fondo al grande locale. Marco guardò chi sedeva alla presidenza dell'assemblea e capì. Maria De Carli era venuta a parlare di persona con i contestatori. Che trovata, pensò Marco. Anche se, ne era certo, guardando bene avrebbe potuto scorgere, mimetizzati fra i giovani, decine di uomini scelti della Milizia. Sarebbero certamente intervenuti al minimo accenno di emergenza. Per quel giorno, però, si sarebbero accontentati di una silenziosa comparsata. Maria De Carli sedeva con aria in apparenza dimessa all'estrema destra della cattedra. Al suo fianco, in piedi, Valerio Fortunato, leader del collettivo studentesco romano, fratello di Silvia, stava esponendo la sua relazione. Seduti alla sinistra dell'oratore, Marco riconobbe Giorgio Boria, capo carismatico degli anarchici milanesi, immerso nella lettura di un libro, e infine Settimo Fornari. Fornari insegnava sociologia all'Università ed era considerato il punto di riferimento della sinistra estrema, di quei gruppuscoli che da qualche tempo si diceva scendessero in piazza armati. Da qualche mese, infatti, nelle sempre più frequenti manifestazioni studentesche, cominciava a scapparci il morto. Con maggior frequenza tra i giovani, ma sempre meno raramente anche nelle file della Milizia. Sempre meno rari erano diventati poi i saccheggi nelle armerie, grazie anche al favore dell'oscurità imposta dalla crisi energetica. Tutte queste notizie Marco le apprendeva nei suoi giri di cronaca nera, estorcendole a poliziotti reticenti e a carabinieri spauriti. Uno sforzo inutile: neanche la nuova censura regolata dal decreto De Carli autorizzava a diffondere eventi così disfattistici. "... Stiamo attenti, compagne e compagni" scandiva nel microfono Valerio Fortunato, la voce roca dopo mezz'ora di intervento. "Stiamo bene attenti a tenere a mente i due corni del problema: da una parte noi, il Movimento degli studenti, socialista, antiautoritario e antimperialista; dall'altra loro" e indicò Maria De Carli, "il regime fascista, i nipotini di Hitler. Il nazismo dal volto umano. Guardatevi intorno e riconoscerete i loro questurini. Non fidiamoci, compagni. Ricordate cosa ha fatto il regime
socialfascista di Mosca? In Polonia, Ungheria e in Cecoslovacchia ha schiacciato le libertà, esattamente come Mussolini e Ciano in Italia. E Hitler firmò già nel '39 un accordo con Stalin. Dov'è la novità? E noi dovremmo applaudire? Questa è propaganda, signor ministro della Comunicazione!". Fortunato si sedette, salutato da un'ovazione. Centinaia di pugni si levarono in alto e gli studenti iniziarono a cantare l'Internazionale. Maria De Carli si guardava impassibile le unghie. Settimo Fornari si alzò a sua volta, levò per un istante il pugno chiuso e si schiarì la voce. "Compagne e compagni, un momento di riflessione, vi prego" esordì nel suo tono pedante da cattedratico. "Ricordiamoci chi siamo noi e chi sono loro, dice Valerio, e ha ragione. Ma stiamo attenti a non buttare via l'acqua sporca con tutto il bambino. Per la prima volta in assoluto questo regime si dice disposto a tradurre in pratica un nuovo corso basato su un'analisi scientifica dei fenomeni sociali. Cosa è questo se non marxismo? Dicono di capire che l'Italia è cambiata, ed è vero, l'Italia è cambiata, grazie soprattutto alle azioni di massa, all'illegalità di massa che in questi ultimi mesi gli studenti e le altre forze anticapitalistiche hanno scelto. Non siamo noi che veniamo a patti con il regime, ma il regime che viene a patti con noi. Qui si sta compiendo un atto rivoluzionario. Pensateci. Non sempre la rivoluzione assume le forme più classiche". Una donna bionda minuta in un anonimo vestito grigio entrò dall'ingresso posteriore dell'Aula Magna e prese posto vicino a Fornari. Marco riconobbe un altro gerarca del regime, il ministro dell'Educazione Nazionale Antonia Grimaldi. La donna guardò timorosa Maria De Carli, ne ricevette un'occhiata di fuoco e si sedette. L'assemblea riconobbe il personaggio pubblico e presto il mormorio di disapprovazione degenerò in un boato di dissenso. "Compagni, per favore!" urlò Settimo Fornari al microfono. "Il ministro Grimaldi è venuta su invito del collettivo studentesco per illustrare il decreto di riforma della scuola e dell'Università che proporrà nella prossima riunione del Gran Consiglio!". "Servo dei fascisti!". "Venduto!". "Spia!". Le urla e gli insulti non accennavano a fermarsi. Centinaia di studenti erano ormai in piedi a inveire contro la presidenza dell'assemblea. Maria De Carli continuava a fissare senza espressione un punto immaginario
davanti a sé. I miliziani in borghese si guardavano intorno con preoccupazione. Il volto di Antonia Grimaldi era terreo. "Compagni!" urlò ancora Settimo Fornari. "Il ministro Grimaldi è venuta ad annunciare la cancellazione dei corsi obbligatori di mistica e ideologia fascista e la rimozione dei titolari di cattedra con più di dieci anni di anzianità!". "S... Sì, è vero" disse al microfono con voce incerta Antonia Grimaldi, alzandosi nella sua breve statura. "E non è tutto qui: una commissione di esperti scelta fuori del Partito sta elaborando nuovi testi di storia e filosofia. Per quanto riguarda diritto, codici e regolamenti, al ministero della Giustizia si stanno approntando alcune novità" "... la più consistente delle quali" continuò con voce sonora da tribuno Maria De Carli, che si era a sua volta levata in piedi, "è la fine del coprifuoco serale, il riconoscimento del diritto di sciopero non politico e la libertà di manifestare nei limiti consentiti dal regolamento di pubblica sicurezza precedente a quello vigente, che come sapete risale a prima del 1922. Il governo ha deciso di riportarlo in vigore da subito. Con questa decisione vengono a cadere contestualmente i mandati di cattura che pendevano su molti di voi". Nell'Aula Magna, all'improvviso, tacquero tutti per lo stupore. Marco non credeva alle proprie orecchie. Il regime aveva deciso davvero di autosciogliersi? Si sentì improvvisamente tirare per la giacca. Era Silvia, che gli fece cenno di non parlare. "Questo è solo l'inizio" aveva ripreso a dire Maria De Carli. "Fra qualche mese avrete un quadro più chiaro di come il governo di questo Paese ha deciso di mettere mano alla vita di tutti i giorni. In breve tempo sarete liberi di studiare la storia sotto ogni punto di vista, di accedere ai testi di Marx, Lenin e Gramsci, potrete creare organi rappresentativi stabili nell'Ateneo, avrete docenti più al passo con la modernità. Una cosa sia chiara, però. Il governo considera di essere venuto incontro in misura imponente alle vostre richieste. Ogni nuovo atto di illegalità di massa, come lo chiamate voi, sarà considerato perciò sovversione e le forze di sicurezza reagiranno di conseguenza". "Gratta gratta" disse sottovoce Silvia a Marco, "esce sempre fuori il fascista". "Quanto alla nuova politica estera decisa dal governo" concluse il ministro della Cultura e della Comunicazione, "l'apertura di trattative con l'Unione Sovietica per un trattato bilaterale di amicizia e collaborazione economica è avvenuta segretamente ieri mattina. Per domani si attende la firma dell'accordo fra il ministro degli Esteri Scola e il suo omologo sovietico Gromyko. Fra alcune settimane l'Italia stipulerà
intese analoghe con le repubbliche socialiste di Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Jugoslavia, Romania e Bulgaria. Sarà così chiaro a tutti che socialismo e fascismo perseguono il medesimo obiettivo di liberazione delle masse lavoratrici!" Maria De Carli levò le mani dal piano della lunga cattedra, da dove le teneva poggiate, e cominciò ad animarle, lasciandole muovere per sottolineare i passi più importanti del discorso che si era preparata. I freddi occhi azzurri non guardavano più nel vuoto. Si soffermavano di volta in volta su uno studente diverso, cercando di trasfondersi in ogni anonimo sguardo, poi spaziavano a semicerchio sull'intera assemblea. Il cuore di Maria De Carli prese a battere in fretta. La mente, però, rimaneva lucidissima. "Cosa fu in effetti la marcia su Roma se non il tentativo di un'avanguardia di prendere in mano la sorte di un Paese dimenticato da una classe di politici corrotti e mediocri? Il popolo degli operai, dei contadini, che anni prima, nel sangue delle trincee del Carso, aveva scoperto cosa significava la parola Nazione, affrontava ora la sua battaglia più importante: quella per la dignità nella vita di tutti i giorni. So di parlare di fatti remoti, ma vedete, la storia è sempre quella, sfruttati e sfruttatori. Anche la Germania umiliata dalle democrazie capitalistiche reagì con un movimento di massa formato in gran parte da lavoratori e questo prese il potere nel 1933. Ma fascismo e nazismo, nati entrambi da quello stesso vortice rivoluzionario che in Russia aveva visto affermarsi il bolscevismo, non riuscirono a mantenere le promesse. In Italia, a causa del carattere debole della nostra Nazione; In Germania, a causa dell'abietta degenerazione razzistica che travolse il regime nazista e il suo folle capo". Maria De Carli accompagnava la sua lezione di storia usando le mani come sciabole. Fendeva con gesti violenti l'aria pesante dell'Aula Magna, poi chiudeva i pugni e se li portava al fianco del viso chiudendo gli occhi. Il volto le si era arrossato. In mente aveva ben chiaro il modello del suo discorso: Norimberga, 4 settembre 1934, quell'Adolf Hitler che aveva appena definito un folle, un abietto razzista. Rise dentro di sé a quella bugia detta al momento giusto. "La vigliaccheria, caratteristica del popolo italiano, e il delirio di onnipotenza, peculiarità di quello tedesco" ripeté scandendo bene le parole Maria De Carli. "Ciò ha portato il socialismo più originale nato in Europa a perdersi nell'attacco concentrico condotto dalle democrazie capitaliste e dal sionismo internazionale. E l'inganno fu così bene orchestrato che anche il grande fratello sovietico si gettò contro le ideologie sorelle d'Europa. La
Germania perì, l'Italia sopravvisse solo per vergognarsi. Ma ora...". Maria De Carli riaprì gli occhi, che apparivano lucidi e prossimi alle lacrime. Del rossore intenso di prima, il bel volto, ora colore del gesso, conservava solo due macchie accese sulle gote. Migliaia di occhi erano fissi su di lei, ammaliati dalla sua metamorfosi: sembrava il ritratto di una beata seicentesca in estasi. "Ora..." riprese Maria De Carli, "ora ci è dato modo di riparare ai nostri torti. In trent'anni il fascismo italiano si è lasciato indecorosamente vivacchiare, riformando per sopravvivere. Adesso è tempo di gettare il nostro attacco là dove ci aspettano le sfide di questi anni: guardate alla moralità senza macchia dei paesi islamici: Pakistan, Arabia Saudita, Yemen, Kuwait, Iraq, Siria, Giordania, Egitto, Sudan, Tunisia e Algeria, fin giù all'Africa nera e all'Indonesia. Nazioni fra le più povere e le più ricche del mondo, unite dalla credenza in una sola fede, hanno scelto di combattere il capitalismo e il colonialismo fino alla vittoria finale. Da lì dobbiamo prendere esempio, un ideale puro per ricostruire noi stessi e l'Italia. Torniamo sulla strada, impariamo come vivono gli operai, i lavoratori, costruiamo il futuro insieme con loro e insieme con il Paese nostro fratello, un paese che è stato da sempre la culla degli sfruttati di tutto il mondo, l'Unione Sovietica!". La voce di Maria De Carli echeggiò nel silenzio dell'Aula Magna. La donna aveva parlato senza microfono ed era riuscita a rapire l'interesse di tutti. Si ergeva in tutta la sua figura slanciata, a testa alta e senza alcun timore. Terminato che ebbe di parlare valutò con uno dei suoi sguardi a tutto campo l'effetto che le sue parole avevano avuto sull'uditorio. Proprio come vent'anni prima in quello stesso posto, quando aveva imparato le basi dell'etica fascista e della comunicazione elitaria. Maria De Carli sapeva, ancor prima di aprire bocca, che dalla sua persona emanava un'aura. Nessuno può contrastare chi porta la verità, perché in sé costui cela una frazione di onnipotenza, una promessa che immancabilmente sarà mantenuta nel 'karma' del Geist, nella rinascita dello spirito. Questo aveva appreso Maria De Carli in quei giorni lontani. Le sembrava ancora di ricordare le lezioni di mistica. Come sbagliavano gli studenti a rinunciare a quel distillato di saggezza millenaria! Meglio, molto meglio così. Sarebbe stato più facile per la nuova aristocrazia imporsi sulla massa inerte. Maria De Carli sapeva che gli studenti sarebbero ammutoliti davanti al nemico che li sfidava apertamente. Sapeva che in quel miscuglio ideologico che aveva loro fornito ciascuno poteva indovinare, ragionando con il cuore, i confusi contorni delle proprie aspirazioni. E cos'altro era il fascismo, se
non cuore e azione? Il vecchio leone che aveva trionfato mezzo secolo prima in Europa era tornato a ruggire. Glielo dicevano quegli sguardi giovani incuriositi, intimiditi, molti apertamente interessati all'accattivante prospettiva che il regime, ormai apparentemente spoglio di ogni continuità con la sua tradizione, faceva indovinare. Glielo diceva lo sguardo vacuo di Valerio Fortunato, e glielo dicevano soprattutto gli occhi febbrili di Settimo Fornari. L'anarchico Boria non aveva invece per un solo momento abbandonato la sua lettura. Poco male, sembrava il politico meno importante fra i tre alla presidenza dell'assemblea. Maria De Carli voltò infine le spalle al pubblico e abbandonò l'Aula Magna, seguita dal disorientato ministro dell'Educazione Nazionale Antonia Grimaldi e da una sessantina di guardie del corpo in borghese. I movimenti circospetti dei miliziani ridestarono l'assemblea dallo choc muto in cui le parole di Maria De Carli l'avevano precipitata. Nuove violente discussioni si accesero, si formarono decine di capannelli. "Compagne e compagni", riprese Valerio Fortunato. "Sapete come la penso io. Ma l'intervento del ministro De Carli e le notizie che ci sono state date rappresentano senza dubbio novità clamorose. A questo punto il Movimento deve decidere se concedere al governo una tregua per mettere in pratica quanto promesso. Chi è d'accordo per votare questa proposta?". "Io voterò contro" disse tetro Giorgio Boria, posando il suo libro sul tavolo della presidenza. "Non è la prima volta" riprese con tono piatto l'anarchico milanese alzandosi in piedi, "che il serpente fascista incanta le masse e le sue avanguardie. È già accaduto nel '39. E ancor prima, in Spagna, i libertari pagarono caro il loro anticonformismo, soccombendo proprio per mano comunista. Oggi vedo la stessa attrazione fatale ripetersi ancora una volta. Attenti al ministro De Carli. Voi non siete abituati a questo tipo di dittatura. Qui forse muore il fascismo, ma rischia di rinascere la croce uncinata. Butteremo le camicie nere per indossare quelle brune". Boria si abbandonò sulla sua sedia, e riprese da dove l'aveva interrotta la lettura del suo libro. Quasi nessuno aveva ascoltato il suo intervento. "Compagni" riprese Settimo Fornari, "abbiamo lasciato com'era giusto che il compagno Boria dicesse la sua. Ora per favore decidiamo se mettere ai voti la mozione di Fortunato. Io mi associo!". Centinaia di pugni si alzarono in aria. "E adesso, compagne e compagni, il voto del Movimento romano sull'opportunità di una tregua politico-sociale di tre mesi per consentire al
governo di introdurre le novità annunciate e a noi di giudicarle sui fatti!". Stavolta i pugni alzati furono più di millecinquecento. 4 "Impressionante, non so come altro definirlo". "Io direi spaventoso, mi sono sentita rabbrividire. E sai perché? Perché mi piaceva quello che diceva, e di più ancora quello che avvertivo sotto la superficie delle sue parole. Lo sentivo mio, era come se io stessa avessi da sempre voluto dire quelle stesse cose. Ma a dirle c'era lei, Maria De Carli. E in questo c'è qualcosa di terribilmente sbagliato". L'analisi di Silvia era giusta. Da quel poco di mistica fascista che Marco ricordava - per lui, come per i più, era stata una materia ostica e incomprensibile - gli affioravano di nuovo nella memoria i nomi di Evola e Rosenberg, mischiati confusamente con complicati nomi di ordini cavallereschi medievali, le lugubri insegne delle SS e il profilo aguzzo di Joseph Goebbels. Proprio lui, lo storpio diventato ideologo e ipnotizzatore di massa nella nazione ariana, il fanatico nazista più sanguinario, l'uomo che non aveva esitato a sterminare la propria famiglia a colpi di pistola dopo l'attentato a Hitler, per poi uccidersi un momento prima che la polizia mandata da Albert Speer facesse irruzione negli appartamenti privati del ministero della Propaganda a Berlino. Il ministero della propaganda! Per Marco Diletti fu come se un sipario si fosse strappato di colpo. Gli era venuto già in mente il giorno prima in redazione, mentre Ciano parlava in TV. L'Italia non aveva avuto Göring, Hess, Rosenberg e Himmler, ma aveva trovato il suo Goebbels: il ministro della Cultura e della Comunicazione Maria De Carli. Altro che Ciano il Gran Trombone: era il ministro De Carli il vero pericolo. Fidandosi di lei, gli studenti del Movimento avevano messo la testa in bocca a una tigre. "Andiamo a parlare subito con tuo fratello e con Settimo Fornari" disse Marco a Silvia. Valerio Fortunato e Settimo Fornari si trovavano in una cantina di via dei Sabini, nel vicino quartiere di San Lorenzo. Il locale era frequentato da molti leader studenteschi sui quali pendeva un mandato di cattura. Qui si erano tenute tutte le riunioni del direttivo politico universitario, si erano formate frazioni, erano nati i primi gruppi armati spontanei. Fornari parlava fitto con un gruppetto di studenti. Con una mano si lisciava in
continuazione la riga ai pantaloni di velluto. Con l'altra gesticolava nervosamente, togliendosi ogni tanto gli occhiali con un gesto secco. Fortunato sedeva su uno sgabello, i piedi poggiati su un tavolino, e leggeva attentamente "Lotta di classe", il foglio clandestino ciclostilato dal Movimento. Marco e Silvia si avvicinarono. "Siete sicuri di quanto avete deciso?" chiese Marco. "Insomma, Marco, ha deciso l'assemblea, non hai visto?" rispose secco Fortunato, alzando appena gli occhi dal giornale. "E poi, ammettiamolo, la De Carli ha ragione, non possiamo liquidare interi movimenti di massa solo perché furono gestiti male". "Gestiti 'male', Valerio?" replicò infuriata Silvia. "E le centinaia di migliaia, forse i milioni di ebrei, zingari e oppositori politici uccisi nei lager? I nazisti non si sono fermati neanche sotto i bombardamenti russi!". "Non ricominciamo con questa storia dei lager!" gridò stridulo Settimo Fornari. "Io sono ebreo e nessuno può giudicare meglio di me come è stata strumentalizzata questa storia. Hitler ce l'aveva con gli ebrei, e allora? Anche Stalin, e nessuno lo ha chiamato criminale. E prima e dopo di loro tanti altri hanno perseguitato e, quando hanno potuto, sterminato ebrei, valdesi, protestanti, cattolici, musulmani, neri, cinesi, coreani, giapponesi... Vuoi che allunghi l'elenco? Prima le monarchie assolute, poi le loro eredi, le ideologie totalizzanti, hanno cercato di risolvere i problemi in maniera radicale. Scandalizzarsi fa parte del moralismo occidentale e sionista!". "È una visione un po'personale, la tua...", replicò Marco all'esagitato professore. Non era la prima volta che il giornalista sentiva parlare del genocidio ebraico. A scuola e poi all'Università quella che in Israele chiamavano 'shoah' si perdeva in un paio di pagine di un ponderoso tomo che trattava la rivoluzione fascista in sette capitoli. Ciò nondimeno la storiografia di regime condannava gli 'eccessi' di Hitler, reo, si diceva, di avere fatto fucilare migliaia di oppositori del nazismo quando le armate della Wehrmacht cominciarono a essere ricacciate indietro dai sovietici. Qualche testimone indiretto dei massacri, da Marco intervistato in passato, aveva anche detto, ma a microfoni rigorosamente spenti, che l'Italia fascista aveva fatto liquidare in gran segreto molti avversari politici proprio nei lager nazisti. Un lavoro rapido, efficace e discreto. Questo poteva spiegare il silenzio imbarazzato della storiografia ufficiale. Mai però prima d'ora Marco aveva sentito che le vittime dell'olocausto potessero essere centinaia di migliaia o addirittura milioni. Erano grandezze che gli sfuggivano. "È la visione di un ebreo che non ha gli occhi chiusi dal nazionalismo!"
sbottò Settimo Fornari. "E le camere a gas, allora? È nazionalismo anche questo?" rispose quasi urlando Silvia. "Come puoi liquidare così la tragedia della tua gente?". "E anche se fosse?!" gridò a sua volta stridulo Fornari. "Credi che noi non avremmo fatto lo stesso, se solo ne avessimo avuto la possibilità? Era una guerra di sterminio, noi o loro, ebrei o tedeschi. Una guerra impari, perché solo loro avevano i mezzi per sterminarci. Con coerenza e ostinazione maledettamente germaniche hanno tentato di farlo fino all'ultimo. Ma noi siamo sopravvissuti, loro no. Finito. Basta. E oggi noi siamo di nuovo qui. Ebrei sionisti, che vogliono di nuovo affogare nella melassa della Nazione, della Terra e del Sangue: Blut und Boden, proprio come Hitler. Ma ci sono anche ebrei non sionisti. E costoro, come tutti gli sfruttati di ogni razza e colore, sanno bene che oggi, terminata la follia nazista, il loro compito è di combattere con la stessa ferocia di chi ci voleva cancellare dalla faccia della terra per edificare la nuova società. Questo ci ha insegnato il nazismo, capisci? Essere feroci è giusto, solo quando la belva si scatena contro il nemico di classe!". Lo sguardo di colpo assente, Settimo Fornari tacque. Per alcuni secondi nella cantina regnò il silenzio, e in silenzio Marco studiò lo strano personaggio del professore universitario. "Ma torniamo a noi" riprese il sociologo togliendosi gli occhiali e strofinandosi vigorosamente la radice del naso, "Maria De Carli può fare le analisi che vuole, come io posso avere le mie idee su fascismo e nazismo. Ma io rimango un militante della sinistra rivoluzionaria, antimperialista e terzomondista. Credo perciò nella lotta armata come mezzo di liberazione dai regimi autoritari, questo compreso. Però...". "Però cosa?" chiese Silvia, ancora stordita dall'allucinato monologo di Settimo Fornari. "Però mi rendo conto di due cose: la prima è che il Movimento Studentesco ha svolto il suo compito di avanguardia rivoluzionaria, portando allo scoperto le contraddizioni del regime. La seconda è che ora questo regime vuole trattare. Ma saremo noi a dettare la direzione del cambiamento". "Sei tanto ingenuo da pensare che Galeazzo Ciano, Adolfo Casamassima e soprattutto Maria De Carli saranno così gentili da mettersi da parte dopo avere trasformato su tua indicazione l'Italia in un paese socialista?" chiese Silvia sarcastica. "No, certo. Ma la De Carli è isolata. La realtà del fascismo sono i gerarchi in pantofole. Loro, basterà smuoverli per mandarli in pezzi. La De
Carli non si rende conto che usando il suo sistema, l'intero regime crollerà come un castello di carte. Ecco perché bisogna lasciarla fare". "E se il castello non verrà giù?" domandò Marco. "Verrà giù, verrà giù" sogghignò Fornari. "E anche se dovesse resistere per qualche tempo saranno troppo occupati a riparare i danni provocati dalla De Carli. Ricordate che è una donna, il fascismo è un regime maschilista. Quando il ministro della Cultura e della Comunicazione si illuderà di sedere al posto di Ciano, lui e Casamassima la faranno fuori. E dopo saranno troppo deboli per reggere l'urto delle masse operaie e studentesche". "Io la vedo in modo meno drammatico" disse sorridendo Valerio Fortunato. "Maria De Carli è una persona intelligente: certo, viene da una scuola ideologica deteriore. Ma mi piace il suo modo di considerare i deboli e gli sfruttati. E credo che sia sinceramente desiderosa di riparare ai torti che il fascismo ha nei confronti dei lavoratori. Non l'hai vista oggi? Piangeva quasi, a un certo punto". "Valerio, non crederai a lacrime come quelle!" si scandalizzò Silvia. "In parte devo crederci" ribatté il fratello. "La De Carli è la parte più efficiente di questo regime. Se questo regime crollerà e, Fornari ha ragione, crollerà presto, dovremo usare anche la competenza della De Carli per ricostruire il Paese. E in ogni caso non sono io a decidere. L'assemblea ci ha dato mandato di estendere la discussione ai direttivi studenteschi delle altre città più importanti. Io parto domani per Milano. Fra una settimana ci sarà il voto del Movimento in tutta Italia. Faremo partecipare anche gli operai nelle fabbriche. Ora, se vuoi scusarmi, devo stendere il documento per i compagni milanesi". Valerio Fortunato tornò a poggiare le gambe sul suo sgabellino e cominciò a scrivere di getto la prima di molte cartelle. Settimo Fornari era tornato alle cospirazioni con i suoi allievi. Tutt'intorno era ripreso il frastuono di ciclostile che riproducevano volantini, di voci di giovani intenti a dipingere striscioni, di addetti al servizio d'ordine che facevano la spola con le facoltà occupate trasportando banchi, scrivanie, macchine per scrivere. Era il ritmo dell'Università in lotta, nessuno poteva interromperlo. Marco e Silvia si guardarono, rincuorati. Poi Marco pensò al volto triangolare di Maria De Carli, i gelidi occhi azzurri, i tratti del viso severo stravolti dalla passione oratoria, il tailleur bruno così simile a una divisa. Non poté impedire che un brivido gli passasse lungo la schiena.
5 Roma aveva preso, con discrezione, a rivivere. Le strade continuavano a essere buie e, causa la penuria energetica, ci si spostava prevalentemente in bicicletta. La novità erano i capannelli di gente. Gruppi di sei, sette persone, che a ogni angolo, a ogni incrocio, avevano cominciato a incontrarsi, prima timidamente, poi con sempre maggiore sicurezza, per commentare quanto stava accadendo. Le strade si erano riempite dopo cena, approfittando dell'abolizione del coprifuoco, un incubo che era durato mezzo secolo, ma non si riusciva a perdere l'abitudine di guardarsi rapidamente intorno, aguzzando gli occhi per scorgere se ci fossero in giro le uniformi nere della Milizia. Il regime aveva allentato la presa, ma la paura era una vecchia amica di cui non ci si riusciva a sbarazzare. Tutti sapevano in cuor loro cosa accadeva fra le mura tetre di via Tasso: molte erano state negli anni le sparizioni di studenti e presunti oppositori politici. Il fascismo sapeva alternare con sapienza la carota al bastone. Poi, da vent'anni, imperversava la guerra delle colonie. Era cominciata in Somalia, come una faida tra bande rivali; poi il sanguinoso intervento delle truppe italiane aveva provocato l'unificazione delle tribù sotto l'egida del locale Partito Socialista, appoggiato da Mosca. Dai disordini a Mogadiscio si era passati alla guerriglia vera e propria che, grazie all'appoggio militare sovietico, si era estesa alla vicina Etiopia. Nel 1975 erano centomila i soldati italiani impegnati nel Corno d'Africa. Dal 1955 i morti erano stati più di ventimila. Al ministero della Guerra si calcolava che in seguito al massiccio uso di armi chimiche e napalm, le vittime indigene fossero più di mezzo milione. Forse addirittura un milione. Ogni anno un contingente fresco di diecimila uomini, diviso in dieci scaglioni mensili, lasciava l'Italia per l'Africa Orientale. Di questi, circa settemila erano militari di leva, e il loro numero tendeva a crescere. Molti di loro erano studenti rastrellati nelle città della penisola durante operazioni di polizia. In questo modo il fascismo riusciva a tenere ragionevolmente sgombre le patrie galere. Ma i guai italiani non si limitavano all'Africa. Dopo la fine dei colonnelli nel 1973, la nuova democrazia greca reclamava a gran voce alle Nazioni Unite la restituzione del Dodecaneso. A Lubiana e a Zara operai e studenti filocomunisti di etnia slovena e croata manifestavano regolarmente per l'annessione alla Jugoslavia di Tito. Anche nella piccola isola felice dell'Albania incendi sospetti erano cominciati a divampare negli esclusivi residence per italiani situati sulla
costa. Nonostante l'incubo africano e l'austerità imposta dalla penuria energetica, la fine del coprifuoco e l'apparente latitanza delle forze dell'ordine sembravano avere restituito i colori della tradizione alla grigia Italia fascista. Silvia e Marco camminavano per una Roma fremente di vita. Da San Lorenzo avevano percorso a piedi diversi chilometri e, attraverso piazza Vittorio Emanuele, passando vicino la Stazione Centrale Dino Grandi e dirigendosi verso via Nazionale, si stavano avvicinando al centro. La città era stata addobbata di festoni in vista dell'ormai prossimo Natale, ed eccezionalmente qualche fioco lumino si accendeva e si spegneva qua e là. Molti erano i ristoranti e i locali aperti, si sentiva l'odore delle lampade a petrolio che, un po' per necessità, un po' per moda erano state reintrodotte dappertutto. L'addensarsi di tante facce vicino alle fiammelle, le ombre mutevoli che queste gettavano sui visi davano a tutti gli avventori un'aria da cospirazione. A notte fonda, Silvia e Marco arrivarono all'imbocco di via del Corso. La stretta strada ribolliva letteralmente di gente, un fiume di persone che percorreva l'arteria avanti e indietro, da piazza della Rivoluzione Fascista con il suo obelisco egizio a piazza Venezia, dove alla consueta luce abbagliante proiettata sul Sacrario del Duce si aggiungeva quella sera anche il soffuso chiarore che proveniva dalle finestre dello studio di Ciano. Il Capo era al lavoro. O forse anche lui, più semplicemente, non riusciva a prendere sonno. Sotto il balcone di Mussolini, i due miliziani di guardia al portone di Palazzo Venezia guardavano inespressivi la folla che si era raccolta a gruppetti nella grande piazza. Non sembravano preoccuparsi più di tanto. "Non avevo mai visto Roma così" mormorò Silvia. "Io nemmeno" disse Marco "ma mio padre mi ha raccontato di 'prima', di quando ancora il fascismo non era al potere. Allora, sai, non c'era una piazza della Rivoluzione Fascista, e nemmeno il Foro Mussolini, e in città si viveva, era pieno di negozi, luci, di gente che si incontrava e discuteva di politica. È stato così fin quando il Duce non fece ammazzare Matteotti. Fu allora che cominciò la paura vera, perché il fascismo fece capire che cosa intendeva per regime". "Tuo padre ti ha detto altro?". "No, poi ci sono solo i miei ricordi. Della guerra ne ho pochi. Ero piccolo quando il Duce parlò dal balcone per annunciare la neutralità italiana. Rammento, anche allora, la mancanza di materie prime e generi di lusso. Andavamo, noi bambini, a pescare ranocchie nei fossi in campagna. Poi a casa le mangiavamo fritte".
"Che schifo!" inorridì Silvia. "Allora c'era poco da scegliere. Poi ricordo il 1944: quell'estate in cui in pochi giorni dalla radio apprendemmo dell'attentato a Hitler e dell'infarto che aveva ucciso il Duce. Ricordo i funerali di Mussolini, la bara posata su un affusto di cannone e il corteo lungo via dell'Impero". "viale Benito Mussolini, vuoi dire?". "Allora si chiamava via dell'Impero. Ti stavo dicendo. Quel giorno a Roma faceva un caldo d'inferno, ricordo i tacchi dei sandali che affondavano nell'asfalto. Aspettammo il corteo per ore e ore pigiati nella calca. Ricordo che mia madre mi fece fare pipì contro uno dei fasci littori di cartapesta dorata con cui avevano ornato il marciapiedi...". "Che coraggio, giornalista!" lo prese in giro Silvia. "Beh non c'era altro posto per farla. Insomma, a un certo punto arriva la bara del Duce circondata dal picchetto d'onore della Milizia che si muove al passo dell'oca. E migliaia di persone, che fino a quel momento avevano inveito sottovoce contro il sole, l'afa e il fascismo affamatore, giù a piangere come vitelli sul feretro del Capo scomparso, e via a stendere le mani nel saluto romano!". "Italiani, brava gente" disse Silvia allargando le braccia. "È il mio ricordo più vivo di allora" disse Marco assorto. "Rammenti altro?" chiese Silvia guardandosi le punte dei piedi e regolando il suo passo su quello di Marco. "Poco e niente di dopo. Scuola, campi fascisti, università. Poi è venuto il giornalismo e la vita è cambiata per sempre". Marco fece un gesto vago con la mano, poi si fermò e si accese una sigaretta. "Hai mai portato la camicia nera?". "Certo che sì, e pure il fez, alla Gioventù del Littorio. E ho pure saltato il cerchio di fuoco!". "E lo dici così?". "Perché, che c'è di straordinario? Lo facevano tutti, nessuno si chiedeva il motivo". Silvia sorrise. Si erano incontrati la prima volta mesi prima all'Università, in occasione di un servizio di Marco sulle prime manifestazioni studentesche. Lui non sapeva che pesci pigliare. Il caporedattore gli aveva imbottito la testa di raccomandazioni. Riportare, per carità, un bel servizio, ma tenersi bassi sul numero degli studenti coinvolti, metterla sul folclore giovanile. Soprattutto non parlare, né far parlare di politica. Con queste consegne isteriche, Marco era piombato a Giurisprudenza e ci si trovava come un pesce fuor d'acqua. Poliziotti in
borghese e studenti in lotta guardavano con uguale sospetto lo smilzo giornalista con il microfono in tasca e il suo operatore, uno più in imbarazzo dell'altro. Silvia aveva notato la troupe televisiva ed era subito corsa incontro agli intrusi. "Ci avete ignorato per anni, venite adesso per far registrare le nostre facce sugli archivi di via Tasso?" aveva urlato in faccia a Marco. "Io non ho niente a che fare con via Tasso, cerco solo di fare il mio lavoro!" si era difeso Marco, facendo un passo indietro di fronte all'esile ragazza bionda, che inveiva contro di lui facendo scuotere la capigliatura raccolta in una lunga coda di cavallo. "Lo sai, penna di regime, che se volessimo ti potremmo fare la festa qui, e nessuno interverrebbe? Credi che la Milizia alzerebbe un dito? L'ennesimo atto di teppismo di giovani disadattati. I tuoi colleghi, non lo riporterebbero neanche...". "E tu vuoi allora che si continui a non parlare di voi?". "Tanto ne parleresti male in ogni caso". "Io voglio solo capire. Prometto che non riprendo niente. Spegni la camera, Antonio" aveva detto Marco, colto da un'intuizione felice. "Se vuoi capire, seguimi" aveva detto Silvia sbuffando. "Ma occhio a non riaccendere la telecamera!". Così Marco e il suo operatore avevano seguito la ragazza per un dedalo di corridoi, fino a sbucare in un'ampia sala sotto il Rettorato. "Qui sta il direttivo studentesco clandestino" aveva detto Silvia voltandosi bruscamente verso Marco, "è chiaro che se vai a raccontare in giro come ci sei arrivato o dove siamo, ti facciamo fuori... Adesso seguimi". Un altro corridoio, e Marco si era trovato in una stanza più piccola, con tre tavoli disposti a ferro di cavallo e in mezzo un ciclostile. Silvia si era avvicinata a due uomini, che lo avevano guardato con sospetto. Uno era alto, grosso, con i capelli castani lisci che gli scendevano fino alle spalle. Aveva due occhi neri profondi e ostili. Portava un maglione di lana sformato e un paio di calzoni di tela. L'altro era più basso e più magro, i capelli crespi più sottili sopra il capo, un paio di occhiali tondi poggiati di traverso sul naso. Era più anziano di diversi anni rispetto al suo compagno e vestiva con giacca e pantaloni di velluto. "Valerio Fortunato, coordinatore del collettivo studentesco universitario e mio fratello, e Settimo Fornari, docente di sociologia, rappresentante dei comunisti autonomi". Era cominciata una lunga conversazione, al termine della quale Fortunato e Fornari avevano accettato di essere intervistati purché ripresi
di spalle su uno sfondo neutro. Sulla nuova contestazione studentesca Marco realizzò uno speciale di cinque minuti che, in esclusiva sul secondo telegiornale di stato presentò per la prima volta agli italiani un problema fino ad allora spacciato per teppismo. Chiaro che le raccomandazioni del caporedattore furono del tutto ignorate. Marco aveva fatto vedere la registrazione direttamente al direttore e questi aveva usato uno strano telefono sormontato da un unico tasto. Premuto il bottone, il direttore aveva pregato Marco di uscire dalla stanza, poi, dopo circa dieci minuti, lo aveva richiamato porgendogli il microfono. Dall'altro capo del filo era uscita la voce roca del ministro Maria De Carli. "Così lei è andato in mezzo ai teppisti, caro Diletti, e ora vorrebbe farli vedere in televisione...". "Io, veramente..." Marco si era sentito gelare il sangue. "Stia tranquillo, ho dato la mia autorizzazione. Il suo direttore mi ha fatto visionare l'intervista. È bravo, sa? Non mi sembra che intervistare due leader studenteschi dalle idee un po' confuse possa nuocere. Anche il Segretario Nazionale Ciano è d'accordo. Complimenti, bel servizio, proprio nella filosofia essenziale del nuovo telegiornale". "Volete dire, ministro, che vi è piaciuto?". "Adesso non mi deluda, Diletti, il 'voi' è preistoria del fascismo. Lei non ha bisogno di ingraziarsi nessuno. Ancora felicitazioni e buon lavoro!" Marco aveva deposto meccanicamente il ricevitore. Le orecchie gli ronzavano ancora. "Visto, Diletti?" aveva ammiccato sornione il direttore "E poi non mi dica che in Italia non sta cambiando qualcosa!". Silvia aveva telefonato a Marco subito dopo la messa in onda dello speciale. "Come vedi" aveva esordito la donna, "non ho avuto difficoltà a trovare il tuo numero. Sai, abbiamo amici anche alla Telefonia Nazionale. Questa è una chiamata senza controllo, ma dobbiamo sbrigarci prima che a via Tasso ci individuino. Ho visto il tuo servizio...". "Ho avuto le felicitazioni personali di Maria De Carli...". "Vedi che avevo ragione?" aveva detto Silvia stizzita. "Non è servito a niente, anzi, ora a Palazzo Venezia ci si faranno belli!". "Forse, ma forse no" aveva risposto Marco. "L'importante è farsi vedere, no? Che se ne parli anche male, purché se ne parli in giro". "Questa è politica, non pubblicità!". "Ma funzionano allo stesso modo". "Sarà... Se vuoi, ti porto un po' in giro a vedere cosa facciamo. Ho giusto qualche ora stasera".
Da allora si erano visti quasi ogni giorno. "Ehi, dico" fece Marco all'improvviso "sei rimasta imbambolata?". "Cosa? Ah, no. Pensavo a quando parlasti al telefono con Maria De Carli. Mi sa che hai avuto paura...". "Paura? Scherzi? Stavo per farmela nei pantaloni. Quasi come quel giorno ai funerali di Mussolini". "Ma a te i fascisti fanno sempre questo effetto?". Marco rise e allacciò Silvia alla vita. Insieme tornarono alla Stazione Grandi. Sotto lo sguardo vacuo di tre camicie nere di ronda, la ragazza prese il trenino per Centocelle, dove abitava. Marco, nonostante la stanchezza, si avviò a piedi verso casa. Ripassò per il mercato di piazza Vittorio, che alle quattro del mattino era già gremito di gente. Anche qui, luci fioche, lampadine da trenta candele a illuminare carni, verdura, e altre concitate discussioni politiche. Marco attraversò con gusto la calca e proseguì verso San Giovanni in Laterano, dove si trovava il suo piccolo appartamento. Imboccò un buio portoncino in via Veio, e salì le scale due a due fino al terzo piano. Fece scattare piano la serratura, ma ancora prima di entrare in casa sapeva che avrebbe trovato su madre lì ad aspettarlo, seduta come di consueto al tavolo della cucina. "Ti pare questa l'ora di rientrare?" disse secca l'anziana donna. Doveva essere rimasta sveglia per ore, ed era stata, per usare un eufemismo, molto preoccupata. "Mamma, per l'amor del cielo non ricominciamo. Lo sai che lavoro faccio, no?". "Lo so fin troppo bene. Lo so e non lo so. Dormi fino a tardi, esci come un razzo e poi rientri a notte fonda come un ladro. Che razza di lavoro può spingere a una vita del genere?". Non si era mai ripresa dalla morte di suo padre, si ripeté Marco per l'ennesima volta, andando con il pensiero ai suoi primi tempi di praticante in un piccolo quotidiano. Era stato dieci anni prima. Il vecchio era malato fino da allora, qualcosa allo stomaco, non si sapeva bene. Negli ultimi mesi era stato costretto a letto, e Marco si era abituato alla vista del padre, il colorito sempre più itterico. Una sera, proprio mentre Marco era di chiusura al giornale, la telefonata... "Ascolta, mamma" riprese Marco scacciando il ricordo. "Non faccio più tirocinio in un giornale locale. Sono all'Immagine Italiana. E se qualche volta possiamo concederci il lusso di un viaggio, lo dobbiamo proprio a questo mio lavoro. E...". "...Un lavoro che ti sta esaurendo. Credi che non me ne sia accorta? E da qualche tempo a questa parte hai una strana luce
negli occhi...". "Ho solo sonno, mamma, ti prego!" gemette Marco, entrando nella sua camera da letto. Come suo solito, cominciò a spogliarsi buttando i vestiti tutt'intorno. Tanto, l'indomani, la stanza sarebbe stata rimessa in perfetto ordine. Come sempre. Marco spense la lampada sul comodino quando la debole luce giallastra già sbiadiva nel primo albeggiare. 6 In quello stesso istante si spegnevano le luci anche nella Sala del Mappamondo di Palazzo Venezia. Galeazzo Ciano scostò le pesanti tende di velluto e aprì una delle finestre del suo studio, assaporando l'aria frizzante di fine dicembre e mandando giù un corroborante sorso di scotch. Era fin troppo presto per cominciare a bere, ma oggi valeva la pena di fare uno strappo alla regola. Giù in piazza, nessun segno di disordine. Tanta gente che, come al solito, si accalcava alle fermate degli autobus per andare a lavorare. "Hai visto, Casamassima? È andato tutto bene!". "Bene lo dici tu, Galeazzo" disse il vecchio, alzandosi in piedi dalla massiccia sedia di legno intagliato. Era rimasto seduto lì per tutta la notte, aspettando invano che i romani dessero vita a quella manifestazione antigovernativa di massa che aveva temuto da sempre. La Milizia sarebbe dovuta intervenire con le armi, e se ci fosse stato l'inevitabile massacro, altrettanto inevitabilmente il ministro della Cultura e della Comunicazione Maria De Carli sarebbe stata messa agli arresti. Casamassima aveva scongiurato e insieme pregustato questo momento per una notte intera; il momento non era venuto, e ora il vecchio sentiva tutto il peso dei suoi ottantacinque anni. Si guardò nell'aggraziata specchiera settecentesca che Ciano aveva incongruamente fatto fissare al muro vicino la porta del monumentale studio che era stato di suo suocero: tutto sommato non poteva lamentarsi. Era ancora asciutto e agile e, nonostante la bassa statura, faceva la sua figura in divisa e stivali, una tenuta che non aveva mai voluto abbandonare. Galeazzo, invece... Galeazzo, con i suoi profumi e gli abiti raffinati, le sue donne e la sua passione per l'alta società... Non era adatto a essere il Capo del Fascismo, lo sapeva anche Mussolini. Lo dimostravano le riforme portate avanti in trent'anni, tutta roba buona per la Spagna o la
Grecia, non certo per l'Italia ruggente di Mussolini. Se solo il Duce non avesse ceduto a sua figlia Edda! In questo Maria De Carli aveva ragione: l'Italia fascista era stata rovinata dalla mancanza di coraggio. E dai clan familiari, si sentiva di aggiungere Casamassima. Ora, però, il buon Galeazzo, l'uomo di mondo appassionato di cinema e di musica americana, era invecchiato lì al posto del Duce. La vecchia guardia del Fascismo si stava estinguendo. Chi, un giorno, al posto di Ciano? Adolfo Casamassima non riusciva a pensare che a Maria De Carli. Ma più ci pensava, più montava in collera: una donna al posto del Duce. Inaccettabile! Ma se anche in casa Mussolini sono state sempre le donne a portare i pantaloni, pensò improvvisamente il vecchio, in fondo, perché no? "Adolfo? Ti senti bene?" ripeté preoccupato Ciano. "Sì, sì, tutto bene. Ho visto com'è andata. Però credo sia meglio mantenere la Milizia ai livelli intermedi di allarme per ancora qualche giorno. Ti sei reso conto tu stesso che la gente non se ne è accorta". "Maria è una donna intelligente, non credi?". "Ne sono assolutamente certo" ribatté pronto Casamassima. "Tu l'hai fatta ministro, io l'ho cresciuta fascista, Pavolini l'ha resa ambiziosa. Ma mira troppo in alto per una donna, farà casino...". "Adolfo, le donne sono ormai una realtà di questo paese...". "...L'asso nella manica del regime fascista!". Casamassima completò il concetto in tono stavolta apertamente sarcastico. "Quante volte l'ho sentita questa tua frase a effetto! Se penso a come parlava tuo suocero, c'è da vergognarsi!". "Casamassima!! Stai parlando con il Capo del Fascismo! Non scordartelo!" urlò Ciano, rosso in viso. "No, non preoccuparti, Galeazzo. Non dimentico, io. Sono la memoria storica di questo regime e anche di questo paese. So chi sei tu e da dove vieni. Ricordi? Fui tuo insegnante di mistica fascista. Fui io a premere su Grandi, Pavolini e Bottai affinché dopo la morte del Duce la scelta cadesse su di te. Eravamo obbligati, e tu lo sai. Tu eri ancora il marito di Edda Mussolini. Eri parte della leggenda. Ma non eri per questo il più adatto. Stammi bene a sentire, ora. Io sono solo un vecchio, molto più vecchio di te. Ricorda, il fascismo non è tuo, né dei Mussolini, ma appartiene all'Italia intera. Spianare la strada alle farneticazioni nazionalsocialistiche di Maria De Carli...". "Ma quali farneticazioni nazionalsocialistiche, Adolfo, sei impazzito?" lo interruppe Ciano. "Fammi finire, sono stanco" riprese Casamassima. "Spianare la strada
all'accozzaglia ideologica proposta da Maria De Carli, accordarsi coi sovietici forse è la scelta obbligata di adesso, come nel 1944 lo fosti tu in questa stanza. Non a caso ho appoggiato entrambe queste soluzioni. Ma non è detto che stavolta io abbia deciso per il meglio. Il fascismo rischia di scatenare una guerra al paragone della quale quella da cui tuo suocero ci tenne fuori fu solo uno scherzo. Li avremo tutti contro, capisci? Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e anche Germania. E Mosca ci scaricherà come roba vecchia. E avranno ragione! Guardati, e guardami. Che altro siamo se non roba vecchia? Dovevamo morire anche noi quando morì il generalissimo Franco!" Casamassima era rosso fino alle orecchie, i suoi occhi erano lucidi. Tacque, improvvisamente, e alzò lo sguardo, calmo, sul suo ex pupillo. Ciano, fasciato in un elegante abito fumo di Londra, era appoggiato sulla cornice della finestra. La mascella, che da giovane aveva imparato a portare all'infuori come Mussolini, pendeva inerte in una smorfia di impotenza. Si ricordò del bicchiere di scotch che aveva in mano e lo vuotò di un fiato. "Cos'altro possiamo fare?" chiese atono Ciano a Casamassima, guardando fuori dai vetri. "Niente" rispose Casamassima, "ormai gli ingranaggi della storia sono in movimento. Sta a loro se risparmiarci o ridurci in pezzi. Aspettiamo con dignità. Saluto in te il Duce, Galeazzo". Casamassima si irrigidì nel saluto romano, formulandolo nel modo che aveva il potere di imbestialire Ciano. Un saluto che era nello stesso tempo un confronto e un insulto. Poi girò militarescamente sui tacchi e lasciò lo studio. Galeazzo Ciano fissò per qualche secondo davanti a sé il busto in bronzo di Benito Mussolini che decorava il suo scrittoio. Poi afferrò il suo bicchiere ormai vuoto e lo scagliò contro la scultura, frantumandolo in mille pezzi. 7 In uno scarno telex arrivato all'alba nelle redazioni di telegiornali, giornali radio e quotidiani, il ministero della Cultura e della Comunicazione ordinava di considerare di rigore l'apertura sulla conferenza stampa che il ministro degli Esteri Giorgio Scola avrebbe tenuto a mezzogiorno. Seconda notizia, di spalla, l'impegno del Movimento Studentesco a sospendere ogni agitazione per tre mesi in attesa
di valutare le riforme concesse sul piano dell'istruzione. Abile, Maria De Carli, pensò Vito Maggiani, direttore del Telegiornale Due. Fa passare in televisione la bomba-Movimento Studentesco e contemporaneamente la disinnesca tacendo sulle rivendicazioni politiche dei ragazzi. Maggiani decise che Marco Diletti avrebbe fatto il secondo servizio. Uno sguardo alla piccola scaletta: dopo gli studenti, una scheda sulle nuove disposizioni in materia di giustizia e pubblica sicurezza. Cronaca, mmh... Dal relais erano arrivate le solite cattive notizie: due morti a Zara nell'ennesima dimostrazione di croati filojugoslavi. Turisti in fuga dai grandi alberghi di Rodi e delle isole vicine a causa della nuova ondata di attentati dinamitardi degli irredentisti greci. E, soprattutto, i nuovi e terribili rovesci militari nel Corno d'Africa: almeno duecento militari italiani erano morti nelle ultime due settimane durante azioni di controguerriglia in Somalia ed Etiopia. No, decisamente un quadro impresentabile. Maggiani decise di dedicare una paginetta di maniera al Natale nella madrepatria e nelle colonie e di chiudere con un po' di colore, con il concerto tenuto da Carlos Santana al Parco Lambro di Milano. C'erano stati tafferugli fra studenti e Milizia, ma a chi importava? E poi, era bello chiudere in musica. Sì. Andava bene così. Marco arrivò in redazione come al solito verso metà mattinata. La riunione del direttore con i caporedattori era terminata da qualche minuto, e già alcuni colleghi pestavano sulle macchine da scrivere e scorrevano rotoli di agenzie. Il regime si fidava della sua stampa al punto da consentire la consultazione delle agenzie straniere. I giornalisti commentavano ad alta voce i lanci di Reuters, AP e France Presse, compulsavano le tanto impietose quanto concrete cifre del Vietnam italiano in Africa Orientale, ma non immaginavano nemmeno lontanamente di diffonderle. In anni di guerra nelle colonie, l'Italia fascista aveva imparato a far tornare in silenzio i suoi tanti morti, ma sempre più a fatica riusciva a tenere lontani dalla verità i giornalisti stranieri. Pateticamente l'agenzia nazionale unica di stampa Stefani continuava a dare notizia delle 'coraggiose operazioni di polizia' condotte dai bersaglieri in Dancalia. Telegiornali e giornali radio preferivano liquidare l'argomento fra le brevi dall'estero. La Stefani riscuoteva successo all'Immagine Italiana solo per i circostanziati resoconti sul campionato nazionale di calcio. Dopo avere sospirato sui "poveri ragazzi in Africa", in redazione ci si divideva con molto più calore su Chinaglia, Pulici o Bettega. "Diletti, ti tocca un servizietto sugli studenti" disse a Marco il
caporedattore della Società "Ricicla pure le immagini dei due leader dallo speciale, ma mi raccomando: oggi niente politica, disposizioni superiori. Il direttore vuole un pezzo tutto concentrato sulla riforma universitaria". "E come faccio a spiegarla senza parlare di politica?" replicò Marco, che aveva intuito la fregatura. "Ah, fa' come ti pare. Devo insegnarti io? Che ne so, gioca sulle immagini. Pochi cortei, nessuno striscione, tante aule, ragazzi che studiano, insomma, le solite cose. Dì, ma solo alla fine, che da oggi la mistica fascista è solo materia facoltativa". "Ma così non ci capirà niente nessuno!". "Vuoi discutere, Diletti? Va' da Maggiani. A me non me ne può fregare di meno. Fammi solo sapere in tempo se 'sto pezzo me lo fai. Se no, incarico un altro". "Va be', va be', ci penso io..." si rassegnò Marco. Qualsiasi altro collega avrebbe ridotto l'argomento a una burla. Tanto valeva pensarci personalmente. Marco teneva le sue bobine di pellicola in bell'ordine sulla scrivania. Pizze da quasi trenta centimetri di diametro, che soffrivano l'umidità e i continui passaggi al montaggio. La crisi energetica e l'embargo tecnologico decretato all'Italia dai paesi occidentali rendevano la realizzazione di un servizio televisivo una vera avventura. Spesso le vecchie macchine si impuntavano rifiutando ogni comando. Altre volte, prese da un demone distruttivo, associavano alla funzione 'play' quella di registrazione, e un'immagine rara finiva per scomparire per sempre. In quel caso bisognava andare in archivio, passare il controllo di un sospettosissimo funzionario e farsi dare una delle due copie registrate che si facevano di telegiornali e speciali giornalistici. L'altra copia, Marco lo sapeva, era custodita in uno scaffale riservato al ministero della Cultura e della Comunicazione. Se non altro stavolta non aveva bisogno di bobine vergini e non bisognava fare la solita richiesta in triplice copia alla produzione, sospirò Marco rassegnato. Prese il materiale e andò al montaggio. In una stanzetta buia, assistito da un tecnico in camice bianco che fumava un grosso sigaro toscano, Marco scelse i punti delle varie pellicole da riversare su nastro magnetico. "C'hai le idee chiare oggi, Diletti?" esordì il tecnico col sigaro, una delle colonne della vecchia E.I.A.R., mettendo in moto la gigantesca moviola. "Perché oggi sto in riduzione orario e nun c'ho intenzione de fa' tardi dietro a te...". "Allora" fece Marco ignorando la provocazione, "ho bisogno di ragazzi che studiano in aula, studenti che sfilano senza bandiere, Fortunato
e Fornari che parlano, qualche immagine del ministro dell'Educazione Antonia Grimaldi. Ah, e di Maria De Carli". "Bella donna, la De Carli. Ma tu ce credi che vo' fa' fori er Gran Trombone?". Il tecnico ammiccò verso Marco, lasciando cadere la cenere del sigaro sulla polverosa consolle della moviola. Era un fatto ormai acclarato che molti operai e specializzati che lavoravano a l'Immagine Italiana erano simpatizzanti di sinistra. Questo spiegava la loro ostilità verso i giornalisti, comunemente ritenuti servi del regime. "Beh..." esitò Marco, non sapendo come rispondere. "Tranquillo, tranquillo, Diletti. Lassamo perde la De Carli. Oggi me sento in pace col mondo e nun te voglio fa' rischia'. Cominciamo a monta' 'sto servizio, sennò ce famo notte. Allora, che dici tu nel testo?". Marco cominciò a leggere il suo articolo: 'Non giovani sovversivi, ma responsabili costruttori del proprio futuro, non teppisti ma cittadini in erba, desiderosi di contare di più nel processo della propria istruzione. Così si presentano gli studenti del Movimento, che dopo i mesi delle occupazioni e delle manifestazioni di piazza oggi hanno reso noto il loro impegno a interrompere ogni forma di agitazione per tre mesi. La decisione, contenuta in un documento sottoscritto dai collettivi studenteschi di Roma, Milano, Bologna, Firenze, Napoli, Bari e Palermo, fa seguito all'incontro organizzato ieri mattina all'Università di Roma nell'aula magna del Rettorato. Qui, circa duemila studenti hanno ricevuto notizia dal ministro dell'Educazione Nazionale Antonia Grimaldi della prossima abolizione dei corsi obbligatori di mistica fascista e dell'altrettanto imminente libero accesso ai testi delle altre scuole di pensiero filosofico. Il ministro Grimaldi ha altresì affermato che presto saranno banditi pubblici concorsi per le cattedre universitarie ricoperte da più di dieci anni dallo stesso docente. Il ministro della Cultura e della Comunicazione, Maria De Carli, anch'essa presente all'incontro, ha infine annunciato che, nel quadro delle nuove disposizioni di pubblica sicurezza, sono stati revocati i mandati di arresto che pendevano su alcuni rappresentanti studenteschi. Un'atmosfera di nuova collaborazione, dunque, dalla quale scuola e Università dovrebbero ricevere un nuovo stimolo'. "Un minuto e ventidue, Diletti, adesso copriamo!" fece il tecnico riaccendendosi il sigaro e assestandosi sul suo sgabello. Subito cominciò velocissimo a far scorrere immagini e a tagliare. Dopo soli venti minuti di lavoro, scorsero insieme il risultato. Maggiani ne sarebbe stato deliziato: si
apriva con le facce allegre degli studenti che manifestavano, immagini strette per non farne indovinare il numero. Quindi le facce impenetrabili dei nuclei antisommossa della Milizia, le uniformi nere che ricordavano la polizia francese, gli scudi di plexiglas, i lunghi manganelli che battevano contro le gambe. Il giusto pizzico di tensione. Poi, visto che Marco non aveva potuto filmare in assemblea, le immagini di repertorio del ministro Grimaldi, stacchi a fisso di aule universitarie, laboratori, biblioteche. Quindi le ormai famose riprese da tergo di Valerio Fortunato e Settimo Fornari, con la precauzione di tagliare l'unica sequenza in cui si intravedeva Silvia. Infine una zoomata a effetto su una recente conferenza stampa di Maria De Carli: la telecamera stringeva sempre più sul volto da attrice del ministro, acceso da una raffica di flash, gli occhi azzurri che nel bianco e nero apparivano grigi come il ghiaccio. Perfetto. "A Diletti, te lo dice il sottoscritto: dopo sto lavoro la De Carli te invita a cena! Però poi sta attento a fa' er dovere tuo, sinnò te manna in Somalia!!". Il tecnico cominciò a fischiettare piano 'Faccetta Nera' e poi scoppiò a ridere. Marco, imbarazzato, tornò in redazione. "Hai finito, Diletti? Dài, che devo portare la scaletta completa al direttore!". Ci si avvicinava a mezzogiorno, e il caporedattore centrale stava raccogliendo lanci e camicie. Marco consegnò due brevi dattiloscritti, più la copia del suo testo, e andò a raggiungere gli altri colleghi davanti allo schermo della televisione. Anche se L'Immagine Italiana trasmetteva ancora in bianco e nero, il nuovo telegiornale era dotato di monitor a colori per il circuito chiuso. Uno di questi era stato collocato nella redazione degli Interni, vicino a una più ingombrante TV tradizionale. Marco notò il pallore diffuso sul volto del ministro degli Esteri. Giorgio Scola attendeva impaziente il collegamento a reti unificate per l'annunciata conferenza stampa delle dodici. In pratica si sarebbe trattato di un comunicato: onde evitare scomode domande, come imponeva una prassi ormai consolidata da decenni, non era stata invitata la stampa straniera. Scola continuava a bere acqua da un bicchiere che si trovava davanti al testo del suo discorso. Con un fazzolettino inamidato si detergeva il sudore che continuava a imperlargli la fronte. Il colletto celeste della camicia era ormai zuppo, e la parte bagnata, che la televisione restituiva più scura, dava un'impressione decisamente sgradevole. Un campanello suonò, sul televisore vicino al monitor comparve la sigla delle dirette a reti unificate, il ministro sedette eretto sulla sedia e in quel preciso istante la sua immagine comparve anche in bianco e nero sullo
schermo in milioni di case. "Italiane e italiani" esordì Giorgio Scola, "vi annuncio che stamattina il Segretario agli Esteri dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, Andrej Gromyko, ha accettato la nostra proposta di accordo trentennale di amicizia e collaborazione economicotecnologica. Il trattato sarà firmato fra sette giorni a Mosca. Tuttavia...". Scola fece una pausa alzando gli occhi dal testo e guardando fisso nella telecamera. "Che fa, adesso, parla a braccio?" si meravigliò il capo della redazione politica. "Attenti, qui succede qualcosa!" disse il vaticanista del telegiornale, facendo segno a tutti di fare silenzio. "...Tuttavia" riprese il ministro degli Esteri, "la firma apposta in calce per il nostro Paese non sarà la mia". Un'altra pausa, poi Scola, ormai terreo, riprese a parlare. "Inconciliabili contrasti sulla nuova direzione della politica estera italiana sono emersi in questi ultimi giorni fra l'Eccellenza Ciano, il governo e la mia persona. Ho ritenuto pertanto inevitabile presentare le mie dimissioni allo stesso Segretario Nazionale del Partito, che si è dichiarato d'accordo, conferendo l'interim per gli Esteri al titolare del ministero della Cultura e della Comunicazione, camerata Maria De Carli. Io abbandono il dicastero in questo istante. Viva l'Italia e il Fascismo!". La trasmissione si interruppe all'istante. Dopo un momento di silenzio smarrito, i giornalisti cominciarono a parlare tutti insieme a voce alta. "È un'investitura politica!" esclamò il vicedirettore vicario. "La De Carli siede ormai alla destra di Ciano!" disse il caporedattore degli Esteri. "Macché..." intervenne il capocronista. "Alla destra di Ciano siede Casamassima e Casamassima è il regime in Italia". "Sì, ma per quanto?" interloquì il capo della redazione politica "Casamassima e il suo orbace hanno un piede nella fossa. Il futuro è di Maria De Carli. Direttore!" esclamò rivolgendosi a Maggiani, che aveva fatto capolino dal suo studio. "Propongo una intervista al nuovo ministro degli Esteri ad interim". "Sì, ci stavo giusto pensando" disse il direttore, "e visto che Diletti oggi ha fatto proprio un bel lavoro, chiudendo con quella splendida immagine del nostro politico più lanciato, credo che il compito spetti a lui! Diletti, dimmi, sapevi niente di quello che ha detto Scola?". Marco era rimasto senza parole. "No, lo so, stai tranquillo" riprese soddisfatto il direttore, "però l'intervista devi farla tu. Ricorda che la De Carli ha già manifestato apprezzamento per il modo come lavori. Quindi, gambe in spalla. Adesso
avviso i capi ufficio stampa dei ministeri della Cultura e della Comunicazione e degli Esteri. Tienti pronto". 8 Maria De Carli sedeva a gambe elegantemente accavallate nello studio che per dieci anni era stato di Giorgio Scola. Aveva deciso di non rilasciare l'intervista dietro la grande scrivania di palissandro che era il suo nuovo tavolo di lavoro; preferiva dare un'impressione più rilassata, accomodandosi sull'alta poltrona ottocentesca a braccioli posta a fianco della grande vetrata. In tal modo, la telecamera avrebbe inquadrato in lontananza anche gli eleganti quartieri residenziali di Monte Mario e, sullo sfondo, la tranquillità della campagna. Bisognava dare l'impressione che l'azione del governo procedesse nella massima calma. La donna irradiava soddisfazione e sicurezza di sé. Aveva acconciato i capelli in un'onda più mossa, e reso più profondi i gelidi occhi azzurri. Un leggero colore sulla guance e un filo di rossetto scuro sulle labbra completavano l'opera. Per una volta aveva rinunciato ai suoi austeri tailleur di taglio militare e per l'occasione aveva scelto una giacca color rosa confetto e una gonna della stessa sfumatura, di tre dita più corta rispetto al suo solito. A giudicare dagli sguardi furtivi di operatore e tecnici, pensò Maria De Carli, il risultato doveva essere buono. Si aggiustò il foulard fantasia che aveva annodato intorno al collo, e si lasciò sistemare sul risvolto della giacca, a fianco del piccolo stemma con il fascio littorio, la plic con il microfono. Regalò alla troupe televisiva uno dei suoi sorrisi più smaglianti, unì le punte delle dita e, con un gesto elegante della testa, fece cenno di essere pronta all'intervista. Marco si trovava a disagio. Sapeva che Maria De Carli era affascinante, ma non era preparato a trovarsi a tu per tu con una donna così attraente. E giovane, pensò fra sé. Sul Bollettino Ufficiale dei personaggi del regime, aveva appreso che il ministro era nata nel 1936, appena un anno prima di lui. Stessa generazione, stessa formazione, eppure così diversi. Maria De Carli era una persona a tutto tondo, senza incertezze né ripensamenti. Si sarebbe detto che portasse scritta nei cromosomi l'attitudine al comando. Partì la sigla. Stai per intervistare il futuro capo del governo, si disse Marco, e incominciò. "Ministro De Carli, il suo interim al dicastero degli Esteri ha stupito gli
osservatori politici", come se ce ne fossero, pensò Marco mentre parlava. "In cosa si distingue la politica che lei sta per avviare rispetto a quella del suo predecessore Giorgio Scola?". "In nulla e in molto" rispose Maria De Carli battendo appena le ciglia. "Mi spiego. La mia azione si iscriverà nella politica estera tradizionale dell'Italia fascista, quindi: lotta senza quartiere al banditismo e al terrorismo nelle colonie, consolidamento della presenza italiana nella nostra area geopolitica. Qui arrivano le differenze con il mio predecessore". "Ce le vuole illustrare?". "Il ministro Scola non ha condiviso l'apertura politica all'Unione Sovietica; un'apertura da me proposta, condivisa dal Segretario Nazionale del Partito e dal Gran Consiglio del Fascismo. Scola non si è sentito di sottoscrivere questo atto e ne ha tratto le dovute conseguenze". "Ma perché proprio lei agli Esteri?". "Questo dovrebbe chiederlo al Segretario Nazionale del Partito. Io posso solo dire di avere non da ieri sostenuto la necessità di un fronte compatto dei Paesi che si richiamano ai valori comuni del socialismo, sia di quello scientifico, sia di quello nazionale. È già accaduto un tempo: sta a noi, il primo Paese fascista, riprendere le fila di un discorso tragicamente interrotto più di trent'anni fa". "Ministro De Carli, la sua azione sembra ormai svolgersi a tutto campo: appena due giorni fa lei ha mediato fra Movimento Studentesco e governo per un'apertura anche sul piano del sistema universitario. Ciò prelude a un suo ruolo sempre più centrale all'interno del regime?". "Che brutta parola, 'regime'! Io preferisco il termine 'sistema'. Il fascismo è un sistema, come il socialismo, da adeguare sempre più ai tempi. Immagini l'impasto di una torta. Non è necessario cambiare gli ingredienti per fargli cambiare aspetto. Basterà cambiare la forma in cui lo versiamo prima di metterlo in forno. Le ideologie oggi devono cambiare pelle, perché cambia pelle la società. Un tempo le masse si accendevano al solo parlare di nazione: furono i tempi di Mussolini e del regime totalitario. Oggi siamo tutti più ricchi, ma molti ancora stentano. Dobbiamo aiutare questi strati, le classi povere e i paesi poveri. Essere al loro fianco. Di qui quella che si definisce 'svolta' del sistema fascista in Italia. Un sistema del quale io sono solo una dei tanti servitori". Maria De Carli non aveva alterato un muscolo della propria maschera da attrice cinematografica. Continuava a sedere eretta, sorridente e
rassicurante, le belle gambe appena in mostra nell'inquadratura. "Ministro De Carli, lei sarà la prossima settimana a Mosca per firmare l'annunciato trattato d'amicizia italo-sovietico. Vedrà anche il segretario comunista Breznev?". "Lo vedrò e gli porterò il saluto di Galeazzo Ciano e del governo dell'Italia fascista. Posso annunciare che, dopo la formalizzazione dell'accordo, è prevista una visita ufficiale del Segretario Nazionale del Partito Fascista a Mosca. Quella sarà la sede più adatta per uno scambio di idee, come suol dirsi, al vertice". "Quel giorno ci sarà anche Lei?". "In qualità di ministro degli Esteri, sì". Maria De Carli, senza smettere di sorridere, batté due volte le ciglia a significare che riteneva l'intervista conclusa. Marco fece spegnere luci e telecamera. 9 Silvia aveva passato le ultime due ore a rigirarsi nel letto. Era passata una settimana dalla trasmissione dell'intervista di Marco al ministro De Carli, e la ragazza non era ancora riuscita a farsene una ragione. Come aveva potuto, si chiese per la millesima volta, sfinita dalla rabbia e dall'impotenza. Così la De Carli aveva incantato anche Marco, proprio lui, quello che faceva la pipì sui fasci littori! Ma perché stupirsene, in fondo, pensò Silvia. Quella donna apparteneva a una razza di politici rara in Italia, una razza fredda e calcolatrice, in grado di programmare la propria ascesa con anni di anticipo. Era stata proprio in gamba, bisognava ammetterlo. Si era servita della protesta studentesca come trampolino di lancio, aveva giocato d'azzardo rischiando la sconfessione del Capo, e Ciano l'aveva messa al timone della diplomazia italiana. Silvia aveva ben visto il suo sorriso trionfante la sera prima su tutti i telegiornali: Maria De Carli che si faceva baciare la mano dal vecchio comunista Breznev, Maria De Carli che si sedeva allo stesso tavolo con Andrej Gromyko e firmava il trattato d'amicizia con l'U.R.S.S., Maria De Carli che riceveva una stretta di mano dal capo della diplomazia sovietica. Immagini che stavano facendo il giro del mondo. E quel modo di sfruttare i mezzi di comunicazione! Silvia aveva studiato a fondo Pareto e McLuhan, e capiva che dietro le pose apparentemente ingenue e all'americana di Maria De Carli si celava uno studio accurato della propria immagine. E non solo. Quella donna
sembrava sempre in grado di condurre il filo del discorso dove voleva. Se ne era già accorta in assemblea, dove aveva dato prova di doti oratorie che le avevano fatto accapponare la pelle. Maria De Carli non parlava come Ciano, né come il vecchio Duce. Specie nella mimica, ricordava piuttosto proprio quell'Adolf Hitler che continuava a definire un 'folle'. Credeva veramente in quell'affermazione, o era un'altra parte della messa in scena? Perché Maria De Carli recitava. Per ora in un piccolo ruolo, ma non vi era dubbio che era il rango di protagonista ciò che desiderava. Di protagonista assoluta. E come avrebbe potuto rinunciarvi dopo avere assaporato la fama internazionale, dopo avere calcato i pavimenti del Cremlino? E Marco, Marco... Anche lui aveva la sua parte di colpa. Quel giorno all'Università, quando si erano conosciuti, gli era apparso così desideroso di sapere, di conoscere. Così sincero. L'intervista in televisione le aveva restituito invece l'immagine di uno dei tanti servi del potere, anzi, peggio, di un cerimonioso ciambellano, un comprimario che risplendeva della luce riflessa del Capo. Ma forse era solo la fortissima personalità di Maria De Carli. Silvia non riusciva però a vincere la delusione. Più di tutto l'aveva ferita lo sguardo avvinto di Marco. Lo sguardo di un uomo che crede di avere riconosciuto il grande personaggio. Quando il regime cadrà, dovremo usare anche la competenza di Maria De Carli. Così aveva detto suo fratello Valerio. Erano tutti accecati. Ma quale ricostruzione: dopo la parte di grande statista giocata a Mosca, era ormai chiaro che quella donna mirava a diventare la padrona dell'Italia. Se qualcuno non l'avesse fermata. Silvia scostò le coperte con una mossa violenta e si vestì in fretta. Prima di uscire andò in bagno. Salì in piedi sopra la tavoletta del water e, da un'intercapedine ricavata dietro la vaschetta dello sciacquone tirò fuori un pesante involto di cartone. Lo disfece, tirandone fuori il contenuto: una pistola automatica con due caricatori. L'aveva tenuta nascosta per sette giorni. Infilò l'arma alla cintola e i caricatori nelle tasche dei jeans, poi uscì nel buio del quartiere. Appena fuori dello sgangherato portone del vecchio palazzo l'aspettava un'anonima FIAT 850, a bordo della quale c'erano tre giovani. Silvia montò in fretta nella vettura, che partì sgommando, diretta verso il centro della città. Le strade si susseguivano anonime e oscure. Dopo i primi giorni di euforia dovuti all'abolizione del coprifuoco, i romani erano tornati alle vecchie abitudini e si erano nuovamente rinchiusi in casa. La Milizia aveva ripreso a controllare i documenti e a usare il manganello. Secondo alcune voci, c'era stato anche qualche arresto e a via Tasso si era
ripreso a lavorare. Così di notte Roma, come Milano, Napoli, Palermo e Bologna, era tornata triste e deserta. "È qui" disse una voce giovane. "Dai, scendiamo!". Silvia, riscossa bruscamente dai suoi pensieri, per uscire dall'auto spinse con forza in avanti il sedile anteriore. Il movimento improvviso le fece sfuggire la pistola dalla cintola, e l'arma cadde sull'asfalto con un pesante tonfo metallico. "E brava la sorellina del capo. Ci avranno sentito fin su a Monte Mario!". "Ma va', crepa!", rispose Silvia a Virgilio. Venticinquenne, fuoricorso di Ingegneria, come la ragazza aveva i capelli raccolti in una coda di cavallo. Si trovavano in una piazza dei Parioli, un quadrilatero contornato da palazzi liberty e ornato al centro da una fontana che chioccolava nell'assoluto silenzio delle due di notte. In un attico all'ultimo piano di uno dei quattro edifici gemelli, Silvia lo sapeva, abitava il ministro della Guerra, il generale Alfonso Paoloni. Il vecchio militare aveva circa settanta anni, era vedovo e viveva con un attendente e una donna di servizio. Mesi prima, quando le recenti aperture politiche del regime fascista erano ancora un sogno, Virgilio e Settimo Fornari avevano studiato tutti gli spostamenti di Paoloni. Ne era uscito un bersaglio comodo e facile. Il ministro partiva per recarsi in ufficio regolarmente alle dieci del mattino, scortato da due Alfa Romeo nere della Milizia. Si tratteneva al lavoro tutto il giorno, e, seguendo esattamente lo stesso percorso, tornava a casa intorno alle due di notte seguito da una sola auto. Sempre gli stessi movimenti, con i miliziani annoiati, i fucili mitragliatori a tracolla, a sorvegliare distrattamente le quattro strade di accesso alla piazza. Dopo l'ascesa di Maria De Carli al ministero degli Esteri, il peso politico di Paoloni era andato ulteriormente scendendo. Il generale era già da tempo impopolare per i rovesci subiti dall'esercito in Africa. Nelle ultime due settimane si era insistentemente parlato di una sua imminente destituzione. Come a preludere alla sua fine politica, anche le misure di sicurezza intorno a Paoloni erano sensibilmente diminuite. Ora erano soltanto due motociclisti della Milizia a scortarlo a casa a tarda notte. Non c'era più neanche la solita sorveglianza nel quartiere. Per il Movimento Studentesco la firma del trattato italo-sovietico aveva segnato lo spartiacque fra due periodi. I più continuavano a credere nella svolta democratica del regime fascista. Un gruppo più piccolo aveva invece deciso di saltare il fosso, e si era dato una struttura paramilitare. Ispiratore di costoro, Settimo Fornari che, pur appoggiando la decisione dell'intero Movimento di dare credito per tre mesi alle promesse di Maria De Carli, continuava a partecipare alle
riunioni clandestine. Da mesi, di fatto, le pistole erano comparse in pugno ad alcuni studenti durante le molte manifestazioni di protesta. Ora, però, esisteva una struttura organizzata che aveva inquadrato tutte le frange dello spontaneismo armato. Una struttura talmente segreta da non avere neanche un nome vero e proprio, anche se aderenti e simpatizzanti si riferivano a essa come a "Lotta Socialista". A Silvia non piaceva affatto il sottofondo di fanatismo che avvertiva dietro alle parole di Fornari. Ma, di fronte all'alternativa fra soccombere alla cupa strategia di Maria De Carli e reagire con tutti i mezzi al cambio di pelle del regime, non aveva potuto esitare. Mancavano circa dieci minuti alle due. Un'altra auto, una robusta 1100, entrò nella piazza e si arrestò. Un fremito di allarme scosse i quattro giovani, che se ne stavano in piedi infreddoliti vicino alla fontana. "Tutto a posto. Sono gli altri" disse Virgilio salutando le cinque persone che uscirono dalla vettura. "Siamo in nove. Bene. Quattro si mettano di guardia alle uscite della piazza. Gli altri qui, facciamo un po' di casino. Così quando arriva Paoloni penserà che siamo un gruppo di tiratardi". I cinque giovani eseguirono alla lettera le istruzioni di Virgilio, con un'euforia esagerata dalla paura che tutti, senza ammetterlo, sentivano crescere. A Silvia tremavano le mani. L'aveva provata decine di volte, quella sceneggiata, ma non era affatto sicura che ce l'avrebbe fatta. In quel preciso istante fece il suo ingresso in piazza, proveniente dalla strada orientata a Nord, la coppia di motociclisti della Milizia, seguita dalla Mercedes blu del ministro. I due militari scoccarono un'occhiata sorpresa ai giovani che discorrevano ad alta voce, poi si fermarono a fianco dell'auto. Un altro miliziano, armato di pistola, uscì dalla vettura e aprì la portiera posteriore. La piccola sagoma del generale Paoloni si delineò nell'oscurità. Il vecchio si alzò e fece per uscire a sua volta. Nel frattempo, dai quattro angoli della piazza, i "pali" del commando si erano avvicinati. I cinque nel capannello vicino alla fontana impugnarono le armi. "Adesso!" urlò Virgilio, estraendo un fucile a canne mozze e sparando a bruciapelo sul miliziano con la pistola. Tutto si svolse con rapidità impressionante. I due motociclisti furono falciati da una raffica di mitra. Paoloni rimase in piedi, immobile, a fianco della sua Mercedes. Il suo pallore spiccava nell'oscurità della notte. Virgilio si avvicinò rapidamente al vecchio, ricaricando il fucile. Senza dire una parola esplose una scarica di pallettoni mirando all'addome. Paoloni si afflosciò contro l'auto e scivolò sull'asfalto in una pozza di
sangue. "Attento Virgilio!" gridò uno dei giovani di guardia in piazza. Una figura si muoveva ancora nella Mercedes. Era l'attendente di Paoloni. Si era gettato sui sedili all'inizio della sparatoria e ora si era improvvisamente rizzato con una Beretta in pugno. Si udirono quattro detonazioni in rapida successione e l'uomo fu a sua volta abbattuto. Silvia si ritrovò, improvvisamente cosciente, la P38 ancora fumante impugnata a due mani, le gambe piegate in avanti come le aveva insegnato Virgilio. Capì di essere stata lei a uccidere l'ultimo avversario. Si guardò intorno e vide i quattro cadaveri distesi sull'asfalto. Un sottile rivolo di sangue proveniente dalla sagoma di Paoloni si allungava verso di lei come per agguantarla. "Che fai lì impalata, corri!" sentì qualcuno urlarle contro. Bruscamente, Silvia si gettò dentro la FIAT 850 insieme agli altri. Dall'inizio dell'azione erano passati appena due minuti, e solo ora qualche fioca luce aveva cominciato ad accendersi dietro le finestre. Le due automobili accelerarono fino al massimo dei giri del motore e si dileguarono in direzione Sud. 10 'Brutale assassinio nella notte: il ministro Paoloni ucciso da terroristi'. 'Terrorismo a Roma: ucciso Paoloni'. 'Strage ai Parioli, massacrati Paoloni e la sua scorta'. Il ministro degli Esteri e della Propaganda Maria De Carli diede appena un'occhiata alle prime pagine dei giornali che erano riusciti a ribattere l'apertura. Lei stessa li aveva personalmente autorizzati a uscire con la notizia. Aveva passato una notte insonne, alternandosi al telefono con Ciano, il ministro Casamassima, il capo di Stato Maggiore delle Forze Armate e il comandante della Milizia. Ora stava a testa in giù, appoggiata alle braccia e alla nuca, rilassandosi nella sua quotidiana mezz'ora di yoga e meditazione. Non vi avrebbe rinunciato per niente al mondo. Neanche per la morte di Paoloni. Il povero Alfonso. Proprio lui, un esperto di strategia militare, finire ammazzato in un'imboscata di dilettanti. Le dispiaceva sinceramente, ma in fondo la tragica fine del ministro risolveva tanti problemi. Ora si sarebbe potuto parlare del disastro nel Corno d'Africa e imputarlo totalmente all'incapacità del povero defunto. E, soprattutto, si sarebbe potuto dare un giro di vite sul piano della sicurezza interna, incolpando gli studenti della strage. Maria De Carli sorrise, gettando un'occhiata alla propria figura avvolta
in una aderente tuta blu, riflessa nello specchio lungo due metri che aveva voluto fosse installato nel suo studio. Le restituì l'occhiata una sorridente e atletica donna di quarant'anni. Piegò le gambe, poggiò i piedi sul pavimento e si rialzò con una capriola aggraziata. Iniziò quindi la seduta di tai-chi-chuan, alternando torsioni del tronco a movimenti di lotta appena accennati. In un curioso contrasto con il lento ritmo che il suo corpo seguiva, la mente di Maria De Carli valutava situazioni e scenari a velocità rapidissima. Che fare ora? Prima Casamassima. Era lui la chiave di tutto. Il grande vecchio avrebbe cercato di ristabilire l'ordine a suon di coprifuoco e affollando i locali di via Tasso. Bisognava convincerlo ad agire diversamente. Sì, una retata all'Università ci stava bene. Ma un'azione mirata. Tanto per fare capire ai capi del Movimento che non bisogna scherzare. Ma chi colpire? Ma certo: quell'odioso anarchico che non l'aveva degnata neanche di uno sguardo il giorno del suo trionfo in Aula Magna, sì, come si chiamava? Giorgio Boria. Fare fuori lui e la sua cricca dando loro la colpa dell'attentato: la Milizia poteva fabbricare le prove in quattro e quattr'otto. Soddisfatta, Maria De Carli si fermò, immobile, in posizione eretta. Chinò il capo, giunse le mani e si concesse un minuto di assoluta concentrazione. Subito dopo andò al suo tavolo di lavoro e premette un tasto blu in cima a un telefono senza disco. Sulla cima della torretta del Quirinale il tricolore con al centro lo stemma di casa Savoia si agitava pigro, appesantito dalla pioggia invernale. Al centro del suo studio, ricavato in una sala adornata da quadri settecenteschi, re Umberto II sedeva all'estremità di un lungo tavolo. Con lui, altre sei persone. Tutti seguivano con attenzione il telegiornale: scoperti gli assassini del ministro Paoloni e della sua scorta, aveva appena detto l'annunciatore, mentre alle sue spalle scorrevano le immagini drammatiche dell'arresto da parte dei nuclei speciali della Milizia di Giorgio Boria e di altri dieci militanti anarchici di Roma e Milano. Di spalla, il TG del secondo canale aveva optato a sorpresa per un reportagechoc dalla Somalia, dove per la prima volta si parlava delle gravissime perdite italiane: un esperto militare americano, intervistato in studio, affermò che l'Italia doveva tirarsi fuori da una guerra che non poteva vincere. Con stupore crescente i sette intorno al tavolo appresero che l'interim per il ministero della guerra era stato assunto dallo stesso Ciano e che un primo contingente formato da ventimila uomini sarebbe stato rimpatriato
dal Corno d'Africa a partire dalla metà di gennaio. Maria De Carli, nuovamente intervistata da Marco Diletti, annunciò l'apertura di un tavolo di trattative con la resistenza somala ed etiopica. Quindi comparve il volto rugoso di Casamassima, che con voce piatta e roca confermò il mantenimento delle nuove e più blande disposizioni sulla pubblica sicurezza. Solo a titolo precauzionale, disse, sarebbe stato costituito un nuovo presidio della Milizia a Roma, dentro la Città Universitaria. "Abbiamo arrestato i responsabili diretti di un delitto feroce" disse il vecchio fascista. "Ma non dobbiamo dimenticare chi sono coloro che l'hanno ordinato". "Chi sono, secondo lei?" domandò il giornalista. "Ma è chiaro, quelli che stanno nell'ombra, comunisti, socialisti, quelli che non sono mai voluti tornare nell'alveo della politica civile!" rispose Casamassima fremente di rabbia. "Lei ritiene che gli oppositori fuoriusciti siano dietro questo delitto?" insisté l'intervistatore. "Ne sono sicuro" tagliò corto Casamassima, "come sono sicuro di poter garantire agli italiani che con l'anno nuovo non vedremo più in giro questa teppa", re Umberto, che nel frattempo si era alzato con una certa fatica, si avvicinò alla televisione, spegnendola. Fissò con attenzione ciascuno dei suoi interlocutori. Gente sconosciuta ai più, ma notissima a tutti i casellari giudiziari, uomini quasi vecchi come lui, altri molto più giovani. A cominciare da Antonio Murgita, segretario del Partito Comunista clandestino. Quindi Elio Mezzera e Vittorio Malaspina, gli anziani capi del Partito Liberale, Francesco Guerri, segretario socialista, Paolo Stura e Mariano Salzi, delegati del Partito Popolare. Tutti e sei si sarebbero dovuti trovare all'estero perché inseguiti da mandati di cattura in alcuni casi anteriori al 1935. Quasi tutti, in realtà, mantenevano da anni contatti segreti con Galeazzo Ciano e gli avevano ispirato, fra gli altri gesti distensivi, la riapertura provvisoria della Camera dei Deputati. "Ma non avete ancora capito?" sbottò Francesco Guerri rompendo il silenzio. "Questi qui vogliono strusciarsi alla contestazione studentesca e dare a noi la colpa di tutto! Ecco cosa vuole fare Ciano: la democrazia senza i democratici!". "Lascia stare, Guerri" intervenne Malaspina. "Voi socialisti il fascismo ve lo siete covato in seno eppure non lo avete mai capito. L'ambasciatore italiano a Parigi ci ha garantito che...". "Sì, insomma" disse Stura, "ci hanno fatto sapere che tra poco potremo tornare e riorganizzarci, del resto il Parlamento ha già riaperto con un
gruppo di nostri amici...". "Casamassima, lo sai, Guerri" continuò Salzi, "è un vecchio con l'orbace, e questa è tutta tattica, fronte interno, ti attacco in pubblico e poi ci accordiamo sottobanco...". "Ma sì" disse Mezzera. "In fondo gli hanno fatto fuori un pezzo grosso, è normale che siano arrabbiati. Ma noi dobbiamo stare alla realtà dei fatti...". "La realtà dei fatti" intervenne brusco Antonio Murgita, "è che Guerri per una volta ha ragione. Chiunque abbia sparato a Paoloni ha ucciso con lui anche la possibilità di un negoziato fra noi e i fascisti. Da ieri sera è cambiato tutto. O forse, non è mai cambiato niente". Il segretario comunista si rinchiuse nel suo consueto cipiglio fra il malinconico e il severo, inforcò gli occhiali sul volto magro e prese a scorrere le carte che aveva davanti. La fioca luce elettrica disegnava strane ombre sulle profonde rughe del suo viso. Intorno ai cinquant'anni Murgita era il più giovane partecipante a quella riunione, ma il suo corpo magrissimo e soprattutto la sua faccia mostravano già profondi segni del tempo. "Vi ho chiamati intorno a questo tavolo" esordì pacato Umberto II, "non per assistere a un esempio di dialettica democratica, ma per essere aiutato a capire che cosa sta succedendo. Un contributo l'ho avuto. Credo sia vero che il fascismo usi l'omicidio del ministro Paoloni per screditare l'opposizione storica. Ritengo però che quale rappresentante della Nazione io abbia il dovere di proseguire a mediare tra tutti voi e il governo guidato dal conte Ciano. È l'unica strada affinché questa nostra povera Italia possa uscire dalla dittatura evitando un bagno di sangue. Ma il tempo a disposizione è poco. Bisogna riprendere a lavorare". "Paolo VI ci ha fatto sapere" riprese Mariano Salzi intrecciando le mani, "che Ciano è disponibile nel breve periodo a un nuovo dicastero allargato a cattolici e liberali... Forse anche ai socialisti". "Sua Santità e io ci siamo sentiti in proposito ieri sera" riprese Umberto II. "L'idea sembra essere questa: un governo di fascisti e antifascisti uniti insieme contro il terrorismo". "E chi guiderà questo mostro?" chiese ironico Murgita. "Il conte Ciano ritiene sia giunto il momento di fare un passo indietro e ha fatto il nome di Maria De Carli" rispose asciutto il Re. "Che capolavoro!" sbottò Murgita. "Tutti appassionatamente dentro, oltre fascismo e antifascismo, e alla guida ci mettiamo la figlia di Hitler!". "È l'unica strada, Murgita!" sentenziò Malaspina. "L'unica verso il massacro!" replicò il segretario comunista "L'unica
strada per morire fascisti tutti quanti, noi, i nostri figli e i nostri nipoti, marciando allegramente al passo dell'oca!". "Murgita" intervenne Paolo Stura, "forse dimentichi che l'Italia fascista si è appena accordata con l'Unione Sovietica e che Maria De Carli non fa passare giorno senza tessere le lodi di Mosca. Non ti tranquillizza neanche questo?". "Non mi tranquillizza affatto. E se tu e voialtri aveste dimestichezza con il dibattito politico interno al Partito Comunista Italiano sapreste che già da vent'anni noi critichiamo il modello sovietico di politica estera. Non è il nostro. Come il loro modello di socialismo si discosta in molti punti dal nostro. Ma questo non è il punto. Il punto è che, mercé l'accordo RomaMosca, il segretario Breznev oggi fa uscire l'Unione Sovietica dall'isolamento internazionale in cui il mondo capitalista l'aveva confinata, e Ciano ne approfitta per uscire a sua volta dal proprio isolamento. È solo tatticismo" disse Murgita appoggiandosi stanco sulla sedia. "E il tatticismo, signori, è il più grande nemico della politica. Fa commettere, per miopia, errori irreparabili". "Giuro che, campassi cent'anni, non capirò mai voi comunisti!" sbottò Vittorio Malaspina, mentre gli altri scuotevano le teste. "Fino a pochi mesi fa questo paese era, insieme alla Spagna, la periferia d'Europa. Poi, improvvisamente, il regime che lo governa da oltre mezzo secolo accetta riforme inimmaginabili e sottoscrive un accordo per il quale più d'uno nel tuo P.C.I. solo un anno fa avrebbe fatto carte false. Il futuro capo del governo sembra più dalla vostra parte che dalla propria. E a voi non va bene! Murgita, diccelo tu allora che cosa proponi!". Il segretario comunista tossì. "Il regime è debole, ed è un fatto. Ma oggi che viene attaccato con le armi tende a serrare le file, e questo è un altro fatto. Noi dobbiamo evitare di far passare il momento favorevole, e perciò chiedere che il nuovo governo di transizione non contenga fascisti. Chi ha portato l'Italia alla disfatta militare in un'assurda guerra imperialista e ha favorito la nascita del terrorismo sulle nostre strade non può più candidarsi a guidare il paese". "E chi a Palazzo Chigi, Murgita?" chiese di nuovo Malaspina. "Magari tu, visto che non hai parlato di stracciare il trattato italo-sovietico...". "Al governo va bene una personalità al di sopra delle parti" replicò il segretario comunista, "ma spetta solo al Re incaricarla". Il richiamo di Antonio Murgita allo Statuto era ineccepibile: i politici radunati intorno al tavolo ricordarono di colpo di chi erano ospiti,
chinando il capo con imbarazzo. "Quanta animosità fra tutti voi!" riprese Umberto II, che aveva seguito in silenzio l'intera discussione. "Sembra quasi che non abbiate mai lasciato il Palazzo oltre mezzo secolo fa. Ma questa combattività è evidentemente male indirizzata. Il mio compito è riportare l'Italia alla democrazia. Ma se tolgo il Paese al conte Ciano, che tutto sommato ha garantito la tranquillità per trent'anni, come faccio a darlo a voi, che siete in perpetuo disaccordo su ogni cosa? Altro che terrorismo! Ci ritroveremmo alla guerra civile! Dottor Murgita, dalle sue parole ho dedotto che il Partito Comunista non sarebbe comunque interessato a mettere in discussione la monarchia...". "Sarà il popolo italiano a decidere una volta restaurata la democrazia" rispose senza entusiasmo il capo del P.C.I., "per ora, bisogna uscire dal fascismo con il contributo di tutte le forze disponibili". "Signori" riprese il Re, "ci sono altre obiezioni al quadro prospettato dal vostro collega?". "Ritengo che la proposta di Murgita non sia realistica" disse Vittorio Malaspina. "Neanche io amo Maria De Carli, ma, se è vero che Ciano l'ha indicata come liquidatore del fascismo, non credo si possa evitare di affidarle, almeno all'inizio, questo compito. Sì perciò a un governo di coalizione da lei guidato". "E voi altri, signori, siete d'accordo con questa ultima proposta?" chiese Umberto II. Lentamente tutti, tranne Antonio Murgita, alzarono la mano. "Bene, sentirò Sua Santità e il conte Ciano e procederemo in questa direzione" disse il Re. "La riunione è sciolta". 11 Silvia Fortunato non si era mossa dalla capitale. Al contrario di molti militanti del Movimento Studentesco, e al pari della maggioranza di chi aveva aderito alla lotta armata, la ragazza era rimasta a Roma, nonostante la cappa di piombo che il ministro Casamassima aveva fatto calare sulla città. Centinaia di posti di blocco erano stati disposti a cerchi concentrici intorno a Palazzo Venezia. La cintura più esterna arrivava al Grande Raccordo Anulare, l'anello autostradale che Ciano aveva fatto costruire per le Olimpiadi del 1960. Si contava che trentamila miliziani presidiassero Roma dal giorno successivo all'assassinio del ministro Paoloni. Le uniformi nere e i lunghi manganelli erano ora di nuovo visibili ovunque, e
a loro si erano aggiunti i nidi di mitragliatrici pesanti di cui i posti di blocco principali erano dotati. Per ironia della sorte il coprifuoco non era stato restaurato, ma ciò ai romani poco importava. La sera si affrettavano su autobus e metro per arrivare a casa prima delle fatidiche dieci, orario che per decenni erano stati abituati a rispettare. Il fascismo ferito cercava vendetta, meglio non rischiare una sventagliata di pallottole. Nella penombra del piccolo appartamento di Monteverde, Silvia guardava fuori dalla finestra. L'ultimo autobus stracarico era passato dieci minuti prima. Sul successivo, che stava transitando in quel momento, oltre all'autista, c'era solo il bigliettaio. Strano Capodanno, questo del 1976. In passato, proprio per questa notte il regime aveva sempre chiuso un occhio. Botti e petardi la facevano da padrone, la gente scendeva in strada, scambiava due parole con le pattuglie di miliziani. Allora, le facce scure dietro l'elmetto e la visiera di plexiglas si aprivano a un sorriso e a mezzanotte, insieme alle stelle filanti, partiva anche qualche colpo di pistola per festeggiare il nuovo anno. Già dal giorno dopo, però, insieme con gli spazzini a pulire vie e marciapiedi, tornava la diffidenza di sempre. Ma questa sera non sarebbe andata così. Questa sera la città era loro, dei lugubri poliziotti vestiti di pelle nera. In lontananza, Silvia poteva già sentire il rullare dei cingoli dei blindati che di notte rafforzavano i posti di blocco. Strano modo di nascondersi, si disse. Era chiaro che i fascisti erano i primi a non credere alla montatura costruita a danno di Giorgio Boria e degli anarchici. Così come era ingenuo aspettarsi che la Milizia e le spie di Casamassima avessero rinunciato a cercare i veri responsabili dell'attentato a Paoloni e alla sua scorta. Un brivido improvviso colse Silvia quando si accorse che una pattuglia, al passo di corsa, si stava avvicinando alla palazzina dove lei abitava in clandestinità da quarantott'ore. Alla luce fredda del plenilunio poteva distinguere le nappe nere dei fez oscillare a tempo sulle spalle dei miliziani. Il manipolo sparì presto nel viale retrostante e i suoni cadenzati dei passi si persero nell'assoluto silenzio della notte. Silvia riprese a respirare. Era sparita improvvisamente, senza neanche dare notizia a suo fratello. Meglio, molto meglio così. La regola numero uno della clandestinità è tenere fuori tutti, anche i più stretti familiari. Ma Valerio aveva capito, e questo preoccupava Silvia. Lei non era che un'anonima attivista in mezzo alle migliaia di studenti del Movimento; suo fratello, invece, ne era uno dei capi e, nonostante il venire meno del mandato di cattura, la Milizia certamente continuava a controllarlo. Quanto al lei, era solo questione di tempo, e poi qualcuno si
sarebbe accorto che era sparita. E i fascisti allora avrebbero subito arrestato Valerio, portandolo a via Tasso, e là... Silvia scacciò il pensiero e rifletté sulle parole di Virgilio. "Non hanno niente contro tuo fratello, non capisci?" - le aveva detto il giustiziere di Paoloni. "Non credi che se avessero voluto prenderlo lo avrebbero già fatto? Secondo me, anzi, è già a mille miglia da Roma!". A Silvia non era piaciuto il tono con cui Virgilio aveva liquidato la questione. C'era come un astio nel modo con cui tutti i compagni della lotta armata si riferivano agli studenti del Movimento. Figli di papà, li chiamavano, spesso solo perché molti universitari venivano dalla media borghesia, mentre fra i terroristi a tempo pieno abbondavano i disoccupati e gli operai. Quanto a Valerio, Virgilio, non faceva che alternare gli attacchi politici a quelli personali, mandando Silvia in bestia. E adesso questo strano Capodanno immerso in un silenzio irreale. Silvia pensò a Marco. Non lo aveva più visto, né sentito da oltre una settimana. Nella casa messale a disposizione dai compagni di Lotta Socialista non c'era il telefono, e non era il caso di rischiare la vita per cercare una cabina. Nonostante il risentimento che provava per i suoi ultimi servizi televisivi, a Silvia avrebbe fatto piacere risentire la voce di Marco. Chissà, lui poteva forse avere qualche notizia fresca. Per lei, invece, da giorni, l'unico contatto con il mondo esterno era quella finestra: Virgilio le aveva solo detto dell'arresto di Boria e dei posti di blocco in tutta la città. Silvia accese la televisione a volume bassissimo per non destare sospetti e si sedette a gambe incrociate davanti allo schermo. Davanti a lei, disegnato in contorni incerti a causa della pessima ricezione, il mezzo busto tozzo di Galeazzo Ciano, rigido nella posa solenne del messaggio di fine anno. Forse era solo la vecchia antenna da sostituire, ma Silvia poteva giurare di riuscire a vedere le rughe sul volto di Ciano; quelle rughe che, si diceva, il vanesio capo del fascismo si fosse fatto cancellare in Brasile con strani e costosissimi interventi chirurgici a spese della sanità pubblica italiana. I capelli, come al solito, erano corvini e tirati indietro da un denso strato di brillantina. Ciano indossava la divisa bianca con la fascia azzurra, e l'accostamento non donava alla sua pinguedine. Parlava con il solito tono condiscendente da padre di famiglia. La voce stridula aveva una punta di inusuale solennità, "...il Paese non può dunque cedere, italiane e italiani, all'arroganza di pochi sanguinari malviventi. Alla ragione della forza dobbiamo opporre la forza della ragione. E quindi, vi dico, durezza implacabile contro chi ha portato il sangue sulle nostre strade e stroncato
vite innocenti. Ma sulla strada delle riforme, indietro non si torna. A tale proposito, come segno tangibile della mia fiducia personale nella giustezza del cammino imboccato, posso preannunciare passi ancora più inequivocabili sulla strada del domani. Passi che presto saranno evidenti a voi tutti. Buon anno e viva l'Italia!". L'immagine di Ciano sfumò nel consueto tricolore spiegato al vento e le note acute dell'inno di Mameli fecero spegnere bruscamente a Silvia la televisione. Passi ancora più inequivocabili, aveva detto il Gran Trombone. Ma quali? Nella mente di Silvia comparve per un istante il volto affilato e il caschetto nero di Maria De Carli. Provò un nuovo brivido. Sapeva, senza bisogno di conferme, che le novità accennate da Ciano sarebbero state musica per colei che nessuno più dubitava essere ormai il numero due del regime. O già il numero uno? Silvia guardò l'orologio che portava al polso. Quasi le dieci. Sarebbe stata una lunga notte. Marco Diletti era sdraiato sul letto, tutto solo nel suo piccolo appartamento dietro la basilica di San Giovanni. Subito dopo il discorso di Ciano, il direttore del telegiornale lo aveva congedato facendogli gli auguri e, con una strizzata d'occhi, gli aveva fatto capire che il nuovo anno gli avrebbe portato fortuna. Agli interni mancava giusto un caposervizio, e perciò... Poi gli aveva battuto una mano sulla spalla e lo aveva spedito a casa. Nell'ultimo mese la sua attività era stata incessante: i telespettatori avevano imparato a riconoscere il tono della sua voce e il ciuffo di capelli neri che gli spazzolava la fronte ogni volta che compariva in video. Un professionista lanciato verso il successo, e sarebbe anche stata ora, a quarant'anni suonati. Nonostante la natura soffice del regime imposto da Ciano, Marco aveva pagato a caro prezzo la propria tiepidezza verso il fascismo. Redattore a vita, fino a quando Maria De Carli non aveva lanciato l'idea del secondo telegiornale e, soprattutto, aveva eletto proprio lui a proprio cronista personale. Già, cronista. Gran cerimoniere, sarebbe stato meglio dire. Marco aveva intervistato per tre volte il nuovo ministro degli Esteri e per tre volte Maria De Carli aveva capovolto il senso del dialogo. Solo una volta al montaggio, Marco si rendeva conto che la donna gli aveva lasciato chiedere esattamente cosa voleva sentirsi chiedere, così che l'intervista era filata via liscia come l'olio. A poco valeva irritarsi: il direttore era contento e, cosa ancora più importante, il ministro telefonava sempre per congratularsi, con tono sempre più affabile, rimescolandogli il sangue con la sua voce profonda. Le cose si erano spinte così in là che Marco ormai faceva il suo ingresso in redazione fra i sogghigni di pochi
arditi e gli sguardi gelidi della maggioranza. Un particolare, quest'ultimo, che se non altro gli dava qualche garanzia su un suo prossimo avanzamento di carriera. Marco si strofinò fra due dita la radice del naso e prese un libro sul comodino. Erano le 'Erinnerungen' di Albert Speer, le memorie del presidente del Reich che era stato architetto e ministro degli Armamenti di Hitler fino alla tragica fine del Führer. Una ponderosa edizione in tedesco: l'opera, per gli aspetti critici rispetto al totalitarismo, era rimasta all'indice anche dopo la generosa apertura culturale decisa da Maria De Carli. Non a caso. Genialità, entusiasmi, squilibri, tic del dittatore erano descritti con dovizia di particolari e rivelavano a un tempo il fascino inquietante e l'essenza apparentemente sciocca del nazismo. Dal capo promana un'energia, quasi un umore che pervade tutto e tutti. Un umore spesso stucchevole, ma appiccicoso, resistente, fatto di retorica, bella scenografia e belle parole. Maria De Carli non esitava a servirsi, e con successo, di quell'umore che tanto era servito a Mussolini. Ma, al contrario del Padre della Patria, mancava totalmente di umanità. I suoi occhi, Marco li aveva guardati bene e a lungo, sembravano spesso distanti, quasi vitrei, costantemente fissi sullo stesso traguardo: il potere a ogni costo. Marco richiuse il libro e lo ripose sul comodino. Non si sarebbe meravigliato se le memorie di Albert Speer facessero parte della biblioteca privata di Maria De Carli. Apprendere, dagli errori del maestro, la strada giusta verso un potere assoluto, incondizionato. E lui, Diletti, la stava aiutando. Con la sua debolezza, i suoi compromessi, aveva contribuito a creare gran parte della nuova immagine pubblica del ministro degli Esteri. Una donna di successo. Una donna in carriera, come si diceva negli Stati Uniti. E anche là aveva cominciato a guardare la De Carli, come non accorgersene? I suoi abiti ora erano eleganti, aderenti e dai colori vivaci sempre ben intonati, ben diversi dai tailleur grigiastri o marroncini che infagottavano le altre donne del fascismo. Le unghie sempre accuratamente laccate di rosso. Il trucco appena accennato, ma impeccabile. Una donna moderna, che non aveva paura di niente. La donna che avrebbe portato l'Italia verso un radioso avvenire. Da qualche ora ormai Galeazzo Ciano doveva avere rivolto alla nazione il suo messaggio sibillino sulle imminenti novità nell'assetto del regime. Chissà se il successore del Duce avrebbe dormito, stanotte... C'era da essere sicuri che neanche Maria De Carli, chiusa nel suo appartamento-bunker al ministero degli Esteri, avrebbe passato a letto la prima notte dell'anno nuovo.
Marco gettò uno sguardo alla sveglia: mezzanotte e dieci. Entrare nel 1976 non gli procurava proprio nessuna emozione. 12 Valerio Fortunato e Settimo Fornari sedevano a un vecchio tavolo da disegno nel piccolo salotto di un appartamento al quartiere Casilino. Da quando il ministro Paoloni e la sua scorta erano stati uccisi, i leader non osavano più tenere nell'Università ormai presidiata giorno e notte dalla Milizia le riunioni del Movimento Studentesco. Il vecchio Casamassima aveva certamente ascoltato il consiglio di Maria De Carli, non prendersela, almeno non subito, con gli studenti, e il Movimento aveva potuto continuare la propria attività. Ma nessuno poteva nascondersi l'impressione di trovarsi sotto un assedio, strisciante ma inesorabile. Il fascismo avrebbe senz'altro colpito, ma nessuno riusciva a prevedere quando. Valerio accavallò nervosamente le gambe. Silvia era sparita ormai da giorni, e in lui si faceva largo la certezza sempre più inquietante che la sorella avesse a che fare con la vicenda Paoloni. E quelle occhiate che gli scoccava il terzo partecipante alla riunione, quel ragazzo con la coda di cavallo, come a sfidarlo. Settimo Fornari era invece tranquillo, quasi ilare. Aveva portato con sé un pacco di ritagli di giornale e stava illustrando, ormai da un quarto d'ora, quelli che riteneva potessero essere i prossimi sbocchi politici della situazione. "...Insomma, Valerio, io non capisco francamente tutti questi misteri, tutto questo nervosismo. Sono ormai giorni che la Milizia si è insediata all'Università. Se avessero voluto schiacciarci, chi avrebbe potuto impedirglielo? E Boria, che una volta arrestato se ne esce dicendo che quel guerrafondaio di Paoloni ha meritato la sua fine? Casamassima sarà pure sospettoso, ma ammetterai che l'anarchico milanese è una vittima designata!". "Però neanche tu credi che siano stati Boria e i suoi..." disse Valerio inarcando un sopracciglio. "E anche se non fossero stati loro? A noi non interessa. Anzi, dal punto di vista tattico, potrebbe rivelarsi un vantaggio. Perché i fascisti dovrebbero smentire il proprio operato? Boria in galera ci resta a vita, dammi retta. E il buon rapporto con il Movimento, ricorda, rimane il primo passo compiuto da Maria De Carli verso le riforme...".
"...e verso il potere personale!" aggiunse secco Valerio. "Ascoltami, Valerio" disse Settimo Fornari facendosi improvvisamente serio, "credi onestamente che un governo guidato dalla De Carli duri più di qualche settimana? Sai che il Re si sta dando da fare con il Papa e Ciano per inserire anche i partiti antifascisti storici, gli emigrati, insomma, dentro la coalizione? Quanto dureranno, insieme? Una donnetta tirata su da Alessandro Pavolini, Julius Evola e altri quattro barbogi abituati alla politica degli anni '20? Non vedi l'opportunità, la straordinaria opportunità che ci si para di fronte?". "La rivoluzione, magari? E chi la farebbe, tu e i tuoi studenti?". Fornari si voltò con un gesto furioso verso il giovane con la coda di cavallo. "Virgilio" chiese con tono condiscendente, "puoi spiegare a Valerio cosa succede fra i compagni della lotta armata? Il giovane, che per tutto il tempo della discussione era rimasto in silenzio a fissare Valerio, si ravviò i capelli e cominciò il suo rapporto. "Fra Roma, Torino, Milano, Genova, Bologna, Napoli, Bari, Palermo, disponiamo di otto colonne, il che vuol dire circa quattrocento militanti a tempo pieno. Tra informatori e quelli che Casamassima chiama 'fiancheggiatori', arriviamo a circa dieci volte tanto. Abbiamo armi leggere, più qualche mitragliatrice pesante e dei mortai rubati tempo fa a un deposito militare al Sud...". La risata di Valerio interruppe il giovane, che fissò il suo interlocutore stavolta con aperta ostilità. "Fornari, sei pazzo!" disse Valerio asciugandosi le lacrime dagli occhi. "Vuoi fare la rivoluzione disponendo in ogni città di una cinquantina di scalcagnati armati di fondi di magazzino!". "Fondi di magazzino che sono stati sufficienti per sbarazzarci di Paoloni!" sibilò il giovane con la coda di cavallo. "Virgilio, Cristo!" sbottò Settimo Fornari. "Allora siete stati voi!" urlò Valerio, tirando da una parte il tavolo. Si gettò addosso al terrorista e lo atterrò, cominciando a sbattergli la testa sul pavimento. "Dimmi dov'è Silvia, bastardo!". Virgilio scalciò violentemente il suo aggressore, lo abbatté a sua volta a terra e cominciò a stringerlo alla gola. "Fermi, fermi, ma siete impazziti tutti quanti?" gridò a sua volta Fornari. "Ci sentiranno tutti, farete arrivare la Milizia!". Finalmente i due contendenti si separarono. La coda di cavallo di Virgilio si era disfatta nella lotta, e i capelli ora gli scendevano arruffati
sulle spalle. "Devi dirmi dov'è Silvia" ripeté atono Valerio tamponandosi con un fazzoletto il sangue che gli usciva dal naso. Virgilio si aggiustò di nuovo i capelli e si sedette riprendendo a fissare in silenzio l'antagonista, stavolta con una nota di scherno in più. "Non pensare a tua sorella, adesso!" disse Settimo Fornari. "Se è vero che ha partecipato all'attentato a Paoloni, si sarà nascosta da tempo in un luogo sicuro. E comunque di tutto ha bisogno meno che del tuo isterismo. Virgilio è un bravo compagno e un grande organizzatore". Una nota di orgoglio comparve sulla maschera gelida del giovane, che sembrava non essersi mosso dall'inizio della riunione. "Non voglio fare la rivoluzione con cinquanta scalcagnati, come tu li chiami" riprese secco Fornari. "Ricorda che le università sono una polveriera, e...". "Sì, una polveriera guardata a vista da migliaia di miliziani!" disse Valerio esasperato. "Ma ti rimane ancora un briciolo di senso della realtà? Sarà un massacro, e sarà quello che Casamassima vorrà!". Fornari, le braccia conserte, prese un'aria solenne. "Non ci aspettiamo che vada tutto liscio. Potranno esserci vittime, certo. Ma potrà il nuovo governo De Carli sostenere tutto questo? Io dico di no. Agli interni non metteranno un fascista. E al primo morto sulle strade, liquideranno il regime per sempre. Nel vuoto di potere che seguirà, emergerà chi ha saputo guardare lontano". "Io credo che tutto questo sia una pazzia" disse Valerio mestamente. "Non ti accorgi" chiese a Fornari, "che non parliamo più di politica, ma di tattica militare? E come si fa a fare i generali senza esercito? Io temo invece che se voi attaccherete al cuore questo nuovo governo senza altro progetto che sparare a qualche poliziotto o a qualche ministro, noi ci ritroveremo con gli studenti deportati in Sardegna. Oppure con le esecuzioni sommarie. L'Italia è ancora un regime totalitario, ricordatelo". "Questa riunione" riprese Fornari con il suo tono nasale da docente universitario, "doveva proprio servire a valutare la disponibilità del Movimento a scegliere a breve la strada della lotta armata". Fece una pausa fissando Valerio. "Devo dedurre che non siete d'accordo?". "Non a queste condizioni, non adesso, e soprattutto non con questa gente" rispose Valerio facendo un cenno verso Virgilio. "Maria De Carli ci sfida sul piano politico, è lì che bisogna contrastarla, e finora non mi pare che ci siamo riusciti". "Ancora quella donnetta!" urlò Fornari con voce stridula. "Non fate che parlare di Maria De Carli come se fosse Hitler
reincarnato. C'è ancora un signor Ciano in giro, non ve ne siete accorti? E se questo signore è disposto ad andarsene di sua volontà dopo trentadue anni, per me è già un risultato!". "Un risultato per Maria De Carli, Fornari!" replicò Valerio. "Lei ha in mente un fascismo che noi non abbiamo mai conosciuto. E che è ben peggio di quello di Ciano!". "Basta, Fornari, non capisci che è inutile?". Era la voce piatta del giovane con la coda di cavallo. "Sì, Virgilio, purtroppo, è inutile" disse il professore alzandosi dalla sedia e riprendendo le sue carte. "Vedi, Valerio, volevo mostrarti qualche dato tratto dai giornali. Bene interpretato, fa capire come ormai la rete della lotta armata sia capillare su tutto il territorio. C'è una direzione strategica, che pianifica le campagne. E le colonne nelle principali città sono nuclei efficienti, guidati da persone in gamba e motivate. Basterebbe così poco. Ma tu sei cieco, siete tutti ciechi. Bisognerà aprirvi gli occhi". Settimo Fornari uscì dalla stanza. Il giovane con la coda di cavallo si alzò a sua volta, fissò nuovamente Valerio con disprezzo e seguì il suo compagno. 13 "Signorina, mi chiami il ministro degli Esteri, prego. Le dica di venire qui da me, subito". Il suono metallico dell'interfono non riusciva a camuffare l'irritazione nella stridula voce all'altro capo. La biondina, fasciata nell'uniforme verde della Milizia femminile, si apprestò al compito con dita che tremavano sulla tastiera del telefono. Riferire un messaggio del genere poteva essere pericoloso anche per la segretaria personale di Galeazzo Ciano. Maria De Carli accolse la comunicazione con un moto di stizza. Si permette anche di convocarmi, quel trombone, pensò. Lo chiamano così, gli studenti, e non hanno torto, si disse. Erano le sei del mattino e la donna aveva appena terminato la ginnastica e la seduta di meditazione. Si guardò allo specchio e si confortò subito. Quella strana chiamata non aveva alterato la sua consueta espressione sicura. Eppure, dentro di sé, avvertiva un piccolo nodo di nervosismo. Si sgridò all'istante, aspramente. Lei era uno dei soldati dell'Ideale, invulnerabili alle misere emozione umane. Così era stata educata. Tutte le sue letture, Spengler, Rosenberg, Céline, Jünger. E poi Julius Evola. Quanto potere all'interno di una donna. Altro che la
fattrice stolida e inquartata di Mussolini. Solo la decisione e l'implacabilità di un animo femminile potevano comprendere l'enormità del compito che il ventesimo secolo imponeva. Solo una donna, destinata a portare in sé il segreto della vita, poteva capire fino in fondo quale ipocrisia fosse il concetto occidentale di civiltà: la chiave, lei lo sapeva, stava nelle proprie radici, nell'appartenenza a una cultura millenaria che permettesse alla natura impetuosa dell'Essere superiore di erompere libera ogni qualvolta ce ne fosse stato bisogno. Non lo diceva anche quello scrittore francese così in voga fra i giovani universitari, Albert Camus? Ciascuno di noi porta dentro di sé i propri crimini, le proprie devastazioni, la propria naturale tendenza all'eccesso. Ma Camus scambiava il Leviatano per un mostro e voleva controllarlo con la ragione. La ragione, la gabbia dello spirito! Qui stava l'equivoco fondamentale, la debolezza della sinistra. Mussolini, il duce, il fondatore del fascismo, aveva giocato con un Leviatano di cartone. Con le sue pagliacciate era stato pietosamente inadeguato per tutta la vita: un socialista anarcoide malato di protagonismo, debole di stomaco e di cuore. Solo il Führer incarnava agli occhi di Maria De Carli un esempio di eroismo e dedizione totale, il simbolo di quel 'Geist', di quello spirito primevo dal quale tutto originava. Ma anche lui aveva commesso un errore: fidarsi dei generali, ammettere al suo cospetto traditori come Speer e Stauffenberg. E aveva pagato con la vita. No, il socialismo nazionale si identificava in un uomo completamente nuovo. Un uomo che fosse interamente parte di una comunità di eletti, dalle menti elevate e dai corpi forgiati nella battaglia, affratellati dall'odore del sangue e dalla distruzione. Dove poteva volgersi, oggigiorno un uomo del genere? Alla Russia sovietica? Troppo egualitarismo e troppo militarismo inutili. Al Giappone, forse? No, troppa ottusità e troppo maschilismo medievale. Bisognava tornare indietro, ancor prima della Roma corrotta, indietro all'antica Grecia, la Grecia dei filosofi e dei guerrieri. Quella Grecia che originava da Creta e giù fino alle radici della razza ariana, le perdute civiltà matriarcali della notte dei tempi. Le atlete che piroettavano sopra le corna dei tori. La forza delle amazzoni. La furia delle valchirie. Lì era la risposta. La donna a un tempo simbolo di vita, di morte e di trasformazione. La spietata levatrice della storia. Una donna che sapesse fare giustizia delle mezze misure della civiltà maschilista, servendosi dell'uomo solo per la riproduzione ed elevandosi al di sopra delle misere banalità della carne. Un regime fondato su queste donne sarebbe durato quanto il Reich millenario promesso da Hitler. Maria De Carli pensò per un momento ad Antonia
Grimaldi, il minuscolo e spaurito ministro dell'Educazione Nazionale e soffocò una risatina. Magari, si disse, bisognerà lavorarci un po' su, a questo regime al femminile. Si aggiustò il rosso tailleur di sartoria che aveva scelto per l'incontro con Ciano e, dopo essersi ravviata le onde corvine dei capelli, premette un tasto sulla scrivania dello studio per chiamare l'autista. Ogni preoccupazione si era dissolta. "Il ministro degli Esteri attende in anticamera" disse una voce metallica attraverso l'interfono. "Lo faccia pure entrare, signorina" rispose Galeazzo Ciano all'altro capo. Preceduta da un Moschettiere del Duce in uniforme azzurra che aprì le due porte dell'enorme sala delle riunioni del Gran Consiglio del Fascismo, Maria De Carli si presentò a rapporto. Si avvicinò fino alla massiccia scrivania e rimase in piedi come un qualsiasi sottoposto, aspettando che le venisse rivolta la parola. Per un po' il vecchio e la giovane donna si guardarono senza parlare. "Siediti pure" disse infine Ciano imbarazzato. Maria De Carli si accomodò accavallando elegantemente le gambe, assumendo con naturalezza la posa resa famosa dalla televisione. Affascinante e gelida, aggraziata come un cobra pronto a scagliarsi sulla preda. "Ti ho convocata" riprese Ciano schiarendosi la voce, "perché ho ricevuto un messaggio dal presidente del Reich Albert Speer. Sai che siamo vecchi amici, ed è per questo che lui ha voluto per il momento evitare i canali ufficiali. Ma bando alle chiacchiere, Maria. La Germania è preoccupata per il patto di amicizia che noi abbiamo stretto con l'Unione Sovietica". Ciano prese il dispaccio presidenziale siglato con l'aquila germanica e si sporse verso il suo ministro degli Esteri. "Speer scrive che anche il presidente americano Gerald Ford è contrario in questo momento a un'apertura dei Paesi occidentali verso la Russia, e che la strada intrapresa dall'Italia potrebbe essere pregiudizievole per le nostre relazioni internazionali. A ogni buon conto, Speer ha deciso di richiamare l'ambasciatore tedesco a Berlino per consultazioni". Ciano si riappoggiò allo schienale della sua poltrona e unì fra loro le punte delle dita. Un gesto che, notò Maria De Carli, insieme con la sempre maggiore pinguedine, lo faceva stranamente assomigliare al defunto maresciallo del Terzo Reich Hermann Göring. Un Göring in doppio petto di grisaglia.
"Intendevo chiederti, Maria" riprese Ciano, "che cosa intendi fare al riguardo". "Ford vuole la rielezione e Speer, mi dispiace che tu gli sia amico, per me non è altro che un rinnegato. Io, comunque, non mi preoccuperei. Fra qualche settimana arriverà dalla Russia il combustibile che ci consentirà di illuminare come si deve le nostre città. E il trattato con Mosca ci riporta dopo quarant'anni nel consesso della grande politica europea". "Ma a che prezzo, Maria?" chiese Ciano. "Vuoi davvero una crisi con la Germania? Ricorda che la macchina bellica tedesca è stata risparmiata nell'ultima guerra, e un confronto sarebbe improponibile. Vuoi essere ricordata per questo?". "Tu e io" riprese Maria De Carli sporgendosi a sua volta verso l'anziano successore del Duce "saremo ricordati per avere cambiato la faccia all'Italia. Non capisci, Galeazzo? Abbiamo bisogno di mostrare al mondo che non abbiamo paura di fare le nostre scelte. In fondo, quando tuo suocero decise di rimanere fuori dalla guerra, si trovò al centro di mille polemiche e pressioni, proprio come noi oggi". Presa dalle proprie argomentazioni, Maria De Carli aveva cominciato ad agitarsi, e il suo profumo stordì Ciano. Il vecchio reagì allo strano fascino che emanava il suo ministro, si alzò con fatica, si versò un bicchiere di scotch e andò ad appoggiarsi al davanzale della finestra. "Maria" disse con forza, "ho deciso di diluire nel tempo gli impegni che abbiamo preso con l'Unione Sovietica. Non abbiamo la forza contrattuale per opporci a Germania e Stati Uniti. Almeno non ancora. E poi, grava su di noi l'etichetta di ultimo paese ancora fascista. Se ce la togliamo, forse daremo meno nell'occhio, e allora tu potrai riprendere il filo del tuo discorso. Quindi, ascoltami bene: avrai compreso che sto tirandoti la volata. Tu sei intelligente, decisa e soprattutto giovane. Sei l'unico politico di questo regime che possa riciclarsi senza problemi. Ma a una condizione". Ciano fece una pausa e bevve un sorso dal suo bicchiere. Sul suo volto, illuminato dal sole per un momento, Maria De Carli poté scorgere delle profonde occhiaie. "Da alcuni mesi, ormai" riprese il Capo del fascismo, "sto trattando con Sua Santità Paolo VI e con re Umberto II una fuoriuscita dignitosa da un assetto statale che è durato più di mezzo secolo. È ora di tirare i remi in barca. Io sono stanco, ho bisogno di pace. Al Papa e al Re ho proposto di dimettermi dopo avere realizzato due obiettivi: primo, dare vita a un nuovo governo provvisorio, secondo, indire elezioni politiche democratiche. Il governo provvisorio dovrà essere aperto alle vecchie opposizioni politiche dei fuoriusciti, eccetto i comunisti. A
guidarlo sarai tu. Se saprai giocare bene le tue carte, in poco tempo avrai l'Italia in mano". Maria De Carli rimase a lungo in silenzio. Così il Gran Trombone era riuscito infine a sorprenderla. Il potere nelle sue mani, una sensazione inebriante. Ma dividerlo coi vecchi sepolcri imbiancati della democrazia, popolari, socialisti, liberali! Coi comunisti ci si poteva ancora intendere: aveva sentito parlare di quell'Antonio Murgita, l'ascetico leader che più di dieci anni prima aveva preso il posto del defunto Palmiro Togliatti. Murgita era un uomo tutto d'un pezzo, le avevano riferito, assolutamente contrario a ogni compromesso. Maria De Carli aveva giudicato il ritratto interessante: chiunque viveva solo della propria ideologia la affascinava, rappresentava un potenziale interlocutore. Non certo i vecchi ipocriti d'anteguerra! Si sarebbe dovuto rimettere sul serio in funzione il teatrino del Parlamento, dare luogo a elezioni regolari. Trame di corridoio, scartoffie, schede: non erano queste cose per una come lei. In fondo, però, se i comunisti fossero rimasti fuori, sarebbe stato più semplice prendersi gioco degli altri. Lo stesso Hitler, in fondo, non aveva esitato a servirsi delle regole democratiche per conquistare il potere assoluto. "Accetto la tua proposta, Galeazzo" disse infine Maria De Carli. "Ne sono contento" rispose il vecchio. Gettò lo sguardo sul ritratto del Mussolini corrucciato che campeggiava sulla parete Nord della grande sala. "Spero solo che ne sia valsa la pena" e vuotò d'un fiato il suo bicchiere. Il ministro degli Esteri si alzò, girò sui tacchi e abbandonò la sala del Gran Consiglio. 14 'Torna la democrazia in Italia!'. 'Maria De Carli presidente del consiglio!'. 'Coalizione a quattro, fascisti, liberali, socialisti, popolari!'. La redazione del telegiornale era scossa da scariche di eccitazione e panico. Marco Diletti, tornato al lavoro dopo qualche giorno di vacanza si trovò piombato nell'attualità più convulsa. Erano soprattutto i vertici di testata a temere ciò che sarebbe accaduto. Abituati ad avere paura già quando cadeva la testa di qualche gerarca di mezza tacca, sapevano che un ribaltone di portata storica come quello deciso da Ciano avrebbe rimescolato profondamente gli organigrammi dell'Immagine Italiana. Nuovi direttori, nuovi vice, nuovi capiservizio, nuovi redattori, gente non compromessa con l'ormai passato regime. Per Marco furono subito pacche
sulle spalle. "Eh, Diletti, come stai? Buon anno, ben trovato!" lo apostrofò il direttore. "Sai, ho sentito stamattina il presidente del consiglio incaricato: toglierà la riserva stasera alle otto. Ormai è fatta, si torna alla democrazia!". Vito Maggiani allentò il nodo della cravatta e prese fra due dita il piccolo distintivo del partito che fino a una settimana fa quasi tutti portavano all'occhiello della giacca. "Non sai quanto mi sia pesato! Faccio il giornalista da quarant'anni, me lo sono vissuto tutto, questo maledetto fascismo!". Gettò via la spilla e guardò Marco con affetto. Era accaldato e rosso in volto. "Diletti, io l'ho sempre saputo che tu eri dalla parte giusta, ma anch'io, cosa credi? Sono sempre stato un uomo di sinistra. Non comunista, eh? Socialista, diciamo così. È che io ho senso del dovere, ricoprivo un incarico, potevo abbandonarlo? Mi capisci, no? Ma sì che capisci, adesso, poi, tu sei lanciato, avrai una stanza tutta per te...". Il direttore, parlando sempre più freneticamente, prese Marco sottobraccio e lo portò nel suo studio. Diletti notò il segno bianco sulla parete dove, fino a qualche momento prima era appeso il ritratto ufficiale di Ciano, la mascella in fuori e un buffo fez in testa. Ora era poggiato in un angolo dietro la scrivania. "Diletti, parliamoci chiaro" disse il direttore dopo essersi seduto, gli occhi iniettati di sangue. "Io ho dato tutto a questa azienda, e ancora conto qualcosa. Posso aiutarti a salire molto in alto, ma solo se tu mi aiuti a rimanere in sella. Stasera, dopo l'annuncio dell'accettazione dell'incarico, devi fare alla De Carli una lunga intervista sul ritorno della democrazia. È tutto predisposto, faremo un'edizione straordinaria di mezza serata. Venti minuti in cui il nuovo presidente del consiglio ci spiega la transizione al nuovo! In esclusiva, ovviamente. Fammi questo favore, Diletti, eh? Lo sapevo che potevo contare su di te!". Il direttore si alzò di scatto, ripreso dalla sua inarrestabile logorrea. Si lanciò in redazione, cominciando a urlare verso vice e capiservizio. "Bisogna preparare un telegiornale con le contropalle!" continuava a gridare. "Qui è in gioco il posto di lavoro, lo capite? La sopravvivenza!". La porta dello studio del direttore, guidata da una robusta molla, si richiuse lentamente, estraniando Marco dai suoni di quanto accadeva al di là della grande vetrata che dava sulla redazione. Un formicaio impazzito, su cui era calato lo stivale di un gigante. Marco guardava i colleghi correre senza senso, avanti, indietro. Uno scriveva febbrilmente qualcosa a macchina, poi gettava via il foglio. Un altro scorreva velocemente un rotolo di
agenzie alla ricerca di chissà che cosa. Se vogliono mandare in onda la prima edizione, pensò distrattamente Marco, dovranno riprendersi in fretta. Poi rifletté sul compito affidatogli. Un altro servizio da gran cerimoniere, per salvare la carriera del direttore. E la propria. Maria De Carli aveva cominciato a fare la conta degli amici. Guai a chi si fosse trovato nella lista sbagliata. Marco chiuse gli occhi e, improvvisamente gli si parò davanti una scena di qualche mese prima. Un corteo, migliaia di giovani con i pugni alzati, a gridare slogan contro un cordone compatto di miliziani in tute di pelle nera, i manganelli che battevano ritmicamente contro gli scudi di plexiglas. Improvvisa e selvaggia, la carica dei poliziotti. Bastoni che mulinavano rompendo cartilagini e ossa, persone trascinate sanguinanti nei cellulari. Confusione, panico, poi uno strattone e la voce di Silvia "Qui, presto, con me!!". "Dove vado, cosa faccio!!" aveva urlato Marco bloccandosi sul posto. "Questi ci ammazzano, sbrigati!!". Poi qualcuno lo aveva trascinato via di peso. Si erano rifugiati, ansanti, in un bar. Un plotone di miliziani armati di mitra era sfilato al passo di corsa davanti al locale senza fermarsi. Tutti guardavano con terrore le uniformi nere che si allontanavano. Marco, gli occhi chiusi, si sorreggeva alla balaustra del bancone. Improvvisamente una voce aveva detto: "Due cappuccini con schiuma!". Il giornalista si era voltato e aveva visto Silvia, l'aria più innocente del mondo, il foulard che fino a qualche minuto prima le aveva coperto il volto ora vezzosamente drappeggiato intorno al capo, tendere al barista una banconota da mille lire. L'uomo, macchinalmente, aveva accettato il denaro e aveva preparato le bevande. Il lampo passò. Marco si scosse ritrovandosi nell'ufficio del direttore del telegiornale, rivide la confusione al di là della vetrata dell'acquario. Silvia era una donna in gamba. Ma il pensiero lo abbandonò subito. Occorreva prepararsi per la nuova intervista. Entrò in casa, si sorprese a pensare, proprio come un ladro. Aveva ragione sua madre. Era come se si sentisse in colpa per qualcosa che non sapeva bene cosa fosse. Il disagio crebbe quando vide la donna, intenta a quell'ora, come al solito, a preparargli la cena. "Rincasi presto..." disse la madre di Marco. "Non devi intervistare nessun gerarca, oggi?". "Mamma, per favore, sto solo facendo il mio lavoro!". "Il tuo lavoro. Il tuo lavoro, sì. È il tuo lavoro umiliarti così davanti ai potenti? Maria De Carli non è che una folle donnetta, non lo capisci?". "Mamma, è il politico più lucido della sua generazione, e salirà molto in
alto!". "E tu credi di salire con lei, vero? Ma lei ti butterà giù dalla torre, non appena arrivata in cima!". "Ma questo è ridicolo, io sono stato solo incaricato di intervistarla!" protestò Marco esasperato. "Tu sei solo il suo scendiletto e non te ne accorgi!" sibilò la donna furiosa. "Non è questo che tuo padre voleva che fossi. Ricordi? Lui...". "Lui è morto, mamma, morto e sepolto, lui e il suo posto fisso, lui e la sua scuola! Non mi pare neanche lui abbia brillato per coraggio!". "Ma aveva molta più dignità di te! Tu conti solo le gratifiche, speri in una promozione, e tutto questo perché sei il fantoccio più adatto alle comparsate di quella pazza! Non capisci? Tu le dai dignità di notizia, invece è storia vecchia di trent'anni!". "Non ricominciamo con la nipotina di Hitler, ti prego!" sbuffò Marco. "Ascolta, figliolo" riprese la donna "tu non puoi ricordartelo. Io sì. Quando quel mostro di Hitler venne a Roma solo quell'ingenuo di Mussolini non si accorse di avere a che fare con un demone scatenato. E adesso è la stessa cosa. Maria De Carli è della stessa razza. La sua follia è la stessa, solo più aggiornata. Sa della forza della televisione e la sta usando. Ti sta usando. Facendo leva sulla tua ambizione". "Sarebbe anche ora che facessi carriera, no?" esplose Marco girandosi di scatto verso la madre. "È anche colpa tua se sono qui, redattore ordinario a vita! Tu, papà e il vostro antifascismo da salotto! Quando mi hanno assunto all'Immagine Italiana sapevano tutto di me. E ora che ho la possibilità di entrare nel giro, tu sei contro di me!". "Io sono sempre CON te" rispose enfaticamente l'anziana donna. "Ma se tu non te ne rendi conto, la colpa è mia". Grosse lacrime cominciarono a rigarle il volto. Se le strofinò via e continuò a parlare. "Vedi, tesoro, sono settimane che non sei più tu. Lavori, è vero, di più e forse hai le prime prospettive di carriera dopo tanti anni. Ma questo è il prezzo con cui Maria De Carli vuole comprare la tua abilità, i tuoi sentimenti, alla fine la tua anima. E ci sta riuscendo". "Non puoi dire che le mie interviste siano compiacenti!" si ribellò Marco. "Maria De Carli non ha bisogno di interviste compiacenti. Le basta apparire in video. Ti ipnotizza senza che tu te ne renda conto. Ti fa chiederle ciò che vuoi. E alla fine la tua presenza è inutile. Marco, ti prego, esci da questo gioco!".
"Non posso. Sono arrivato troppo in là per fermarmi..." disse Marco quasi tra sé. "E allora sprofonda, tu e la tua televisione!" sbottò la madre. "Il figlio che conoscevo aveva ancora una dignità. Tu stai perdendola. Buon per te, non ti manca ancora l'appetito...". Marco guardò il piatto di pasta sotto di sé. Lo aveva svuotato senza rendersene conto. In silenzio, si alzò da tavola e andò a sdraiarsi sul letto. 15 Maria De Carli misurava con lunghi passi nervosi l'ampia area dello studio del ministro dell'Interno. Adolfo Casamassima era accasciato su una poltrona di cuoio nero, come nero era il colore dominante in quella stanza. Cimeli fascisti ornavano in quantità la grande libreria e i massicci mobili, dando all'ambiente un'aria lugubre. Una testa in bronzo dorato di Mussolini, in tutto simile a quella che Ciano aveva a Palazzo Venezia, fissava corrucciata l'anziano uomo di governo. Casamassima sentiva il rimprovero emanare da quegli occhi spenti. Il vecchio, come sempre in orbace e stivaloni, si faceva scivolare una mano sul viso, accarezzandosi le rughe e la barba bianca, ancora tagliata corta alla Italo Balbo. Dietro di lui, sogghignava il teschio bianco stampato su un nerissimo gagliardetto bordato d'oro. Ma il vecchio motto "me ne frego", ricamato a lettere rosse sul triangolo di seta non poteva sembrare meno adatto alla situazione. "No!!" urlò improvvisamente Casamassima battendo un nodoso pugno sulla massiccia scrivania. "Non possiamo seppellire così i sogni di tre generazioni! Io non accetterò mai di riconsegnare l'Italia a chi l'ha già messa al sacco!". Maria De Carli continuava a fare su e giù per lo studio senza rispondere al vecchio ministro. "Galeazzo non ha mai capito" riprese Casamassima fissando davanti a sé il testone di Mussolini. "Il fascismo è un modo di essere, di pensare, di sentire. È cuore, è movimento, azione. Non si può chiuderlo come un qualsiasi governo borghese!". "Sapevi dell'accordo con Papa e Re?" chiese improvvisamente Maria De Carli. "No, ma avrei dovuto capire. Galeazzo ha sempre ammirato i poteri costituiti. Così, quando ha capito di non essere capace di guidare un paese, ha deciso di ricorrere a loro per liquidare il fascismo. E per trovarsi un posto nella storia. Per ambizione, capisci? Cieco, sono stato, cieco!! "Siamo stati tutti ciechi..." rispose Maria De Carli guardando fuori
dall'ampia vetrata dello studio. "Perché hai accettato, Maria? Dicendo di sì a questa follia hai dato a Ciano la forza che non aveva. Ora può andare a negoziare la sua fuoriuscita con l'appoggio del suo politico più brillante. E poi la democrazia ci divorerà! Noi non siamo fatti per le regole!". "Adolfo, dobbiamo tenere la testa sulle spalle. In passato ci siamo trovati in disaccordo, ma ora si tratta di sopravvivenza. Non solo della nostra, ma anche di ciò in cui ci riconosciamo. Ascoltami". Maria De Carli si sedette con un unico movimento fluido ed elegante alla scrivania di Casamassima e si protese verso il vecchio ministro, fissandolo negli occhi. Le mani della donna cominciarono ad animarsi. "Tu e io" disse con passione il ministro degli Esteri, "rappresentiamo le due anime: io vado verso il futuro, tu rappresenti la tradizione. Ci completiamo a vicenda, e perciò ora abbiamo bisogno l'una dell'altro". Casamassima non riusciva a togliere lo sguardo da quelle lunghe mani, pallide eppure forti, che a tratti accarezzavano l'aria, a tratti la fendevano violente. "Adolfo" disse Maria De Carli, "io stasera vado da re Umberto a proporre una lista in cui tu rimani all'Interno. Convincerò il Re che in questa fase di transizione nessuno meglio dei fascisti può garantire l'ordine pubblico". "Io, in Parlamento?!" urlò infine Casamassima, liberandosi dell'incantesimo delle mani di Maria De Carli. Il vecchio si alzò in piedi e iniziò a sua volta a misurare lo studio a grandi passi di belva in gabbia. "Io che HO CHIUSO il Parlamento! Io, proprio io, dovrei sedermi buono buono, magari in abiti borghesi, sottobraccio a quel verme di Salzi, quel prete da quattro soldi? O a quel vigliacco di Malaspina? Io dovrei accettare di nuovo la vista della teppa comunista? Io che ho seguito Mussolini nella sua marcia trionfale? Mi uccido, piuttosto!!" Casamassima era color porpora. Si fermò, improvvisamente, appoggiandosi all'enorme sedia seicentesca posta di fronte alla finestra. Ne impugnò lo schienale con le due mani e chinò il capo, chiudendo gli occhi. "Adolfo" disse Maria De Carli avvicinandosi alla piccola sagoma del vecchio e circondandogli le spalle con le braccia, "non abbiamo altra scelta. Se rifiutiamo, ci fanno fuori. Prendono il controllo di polizia e carabinieri e in una settimana ci liquidano. Dobbiamo esserci anche noi. Nei posti chiave. Mi ha telefonato il Re. Mi ha detto che potrò tenere anche il portafoglio degli Esteri. Capisci? Il fascismo deciderà ancora la politica estera e interna dell'Italia. Con te e me!". "Come pensi di controllare gli altri?" chiese improvvisamente Casamassima, voltandosi verso la donna.
"L'unico problema saranno i comunisti: nessuno li vuole nel governo, ma dovranno tornare in Parlamento. E avranno molti consensi, si pensa fra il 10 e il 15 per cento...". "Dunque il Re pensa anche ad elezioni!!" gridò Casamassima. "Sì, ma noi possiamo ancora contare sulla forza della nostra tradizione, e i democratici sono deboli. Alla Propaganda hanno tirato giù delle stime: socialisti, liberali e popolari dovrebbero formare un blocco intorno al 2030 per cento; noi siamo previsti intorno al 35-40". "E se i democratici dovessero allearsi con i bolscevichi?". "Non lo faranno, non è il momento", disse Maria De Carli. "E noi abbiamo in mano tutte le armi per poter garantire il controllo della situazione. Piuttosto, dimmi: la Milizia?". "Sono con noi, anzi, per meglio dire, con te. Tempo fa feci fare un'indagine al ministero. La stragrande maggioranza dei miliziani è vicina a quella sinistra sociale che si identifica con il tuo modo di vedere le cose. E odiano i comunisti". "Polizia e carabinieri?". "Qui c'è qualche problema. I carabinieri sono da sempre vicini alla monarchia, ci sopportano. Ma sono male armati rispetto alla Milizia. E la polizia si riduce a poche centinaia di quadri nelle questure e nei commissariati". "Quindi" disse Maria De Carli cominciando a passeggiare lungo una profonda spaccatura nel pavimento dello studio, "se, poniamo, durante la campagna elettorale dovesse succedere qualcosa di sgradevole...". "...la Milizia" proseguì Casamassima, "sarebbe pronta a occupare tutti i ministeri chiave, l'Università e la sede dell'Immagine Italiana". "E bravo Adolfo!" Maria De Carli si voltò verso Casamassima e rise di cuore, "così eri pronto da tempo al colpo di stato! Perché non l'hai fatto? Eppure temevi la mia ascesa!". "Non l'ho fatto per rispetto al regime. No, non fraintendermi. Non per salvare Ciano, che pure ho visto crescere. Ma perché, nel bene e soprattutto nel male, Galeazzo rappresentava la continuità con il passato". Casamassima tornò alla scrivania e affondò di nuovo nella sua poltrona nera. "Vedi, Maria" riprese con voce roca, "Mussolini sapeva che Ciano non era adatto a succedergli. Ma quando il Duce morì improvvisamente nel 1944 non c'era nessuno, dico, nessuno che potesse prendere il suo posto. Galeazzo era il marito di sua figlia. Con lui a Palazzo Venezia, il nome di Mussolini sarebbe continuato. Così fui io a insistere. E Grandi,
Bottai, perfino Farinacci e Pavolini furono d'accordo. L'alternativa era spaccare il regime. Gli oppositori al confino e i fuoriusciti non aspettavano altro. Maria De Carli, in piedi davanti alla grande sedia seicentesca, ascoltava immobile, le lunghe mani intrecciate in grembo. "La stessa divisione fra schieramenti" disse Casamassima, "l'ho rivista oggi, fra me e te. Potevo far arrestare te, certo, e poi mandare Galeazzo all'estero. Ma poi? Il regime sarebbe crollato definitivamente. Io non ho né la capacità, né la forza di fare lo statista. Sono tempi nuovi, questi, adatti a un giovane. E anche se vedo nelle tue idee un germe rovinoso, credo che sia tu la persona più adatta. Se è destino che il fascismo finisca, che termini allora gloriosamente, e non nelle scartoffie elettorali!!". "È un sì, Adolfo?" chiese Maria De Carli. "Per quanto mi rimane da vivere, sì" rispose il vecchio chiudendo gli occhi. 16 Quella sera, poco prima della 20, una donna di circa quarant'anni vestita di un tailleur celeste con gonna al ginocchio e una immacolata camicetta a sbuffo ornata da un foulard fantasia aspettava nell'anticamera di un grande studio al Palazzo del Quirinale. Maria De Carli attendeva con una certa impazienza di essere ricevuta da Umberto II; i suoi alti tacchi aggredivano con violenza gli antichi pavimenti del palazzo che era stato dei papi. Dall'interno della stanza, la donna sentiva il Re conversare in tutta calma al telefono. Si sforzò di ascoltare. Purtroppo solo alcuni spezzoni di frase superavano la cortina dell'ampia porta settecentesca, e quel che era peggio era sentire che il Savoia era, apparentemente, di buon umore. Quel residuato medievale, pensò Maria De Carli fra sé, quasi rimproverandosi di avere accettato la proposta di guidare quel nuovo governo. Senza accorgersene, aveva appallottolato, stringendola in mano, la lista dei ministri da sottoporre al sovrano insieme con il ritiro della riserva. Infine la grande porta si aprì, i battenti guidati da un commesso in redingote. Il Re era rimasto seduto, sfogliava con apparente attenzione delle carte sulla sua scrivania. Umberto II infine alzò la testa, si tolse gli occhiali e, senza parlare, fece cenno a Maria De Carli di accomodarsi su una sedia davanti a lui. La donna si sedette. Per qualche momento il sovrano e il presidente del consiglio incaricato si studiarono in silenzio,
fissandosi negli occhi. A Maria De Carli non era mai piaciuto lo sguardo freddo e distante di re Umberto. L'espressione del vecchio le appariva enigmatica, gli occhi immobili come quelli di un rettile. Ruppe così il ghiaccio per prima. "Sua maestà conosce bene il motivo della mia visita..." iniziò. "La prego di attenersi al protocollo, dottoressa De Carli" disse Umberto II alzando lentamente una mano. "Lei ha una comunicazione da rivolgere al Re d'Italia, lo faccia nelle forme prescritte". Maria De Carli avvampò in volto, ma durò un solo istante. "Sono venuta da Sua Maestà per comunicare di avere tolto la riserva sull'accettazione dell'incarico quale presidente del Consiglio. Con me ho la lista dei ministri per la Sua approvazione". Con un gesto secco Maria De Carli tese al Re la pallottola di carta con su indicati i nomi. Umberto II alzò un sopracciglio e spiegò sul tavolo il tormentato foglietto. "Bene, bene" disse pensoso. "Stura vicepresidente, Grimaldi alla nuova Pubblica Istruzione, Guerri al lavoro, Malaspina alle Finanze... Eh, eh, Casamassima all'Interno? Non dovevamo rinnovare?". "Casamassima è tutt'ora un punto di riferimento per la Milizia e le forze dell'ordine. Se ci fosse un colpo di mano comunista" disse secca Maria De Carli, "Casamassima saprebbe che fare". Umberto II annuì in silenzio. "Non sarà un mistero per Lei, dottoressa De Carli" disse il sovrano, "che io personalmente non gradisco né la Sua persona, né quello che Lei rappresenta. E che inoltre questo incarico che Le ho concesso espone il paese a possibili ritorsioni. Sono in molti a non amarla all'estero, sa? A cominciare dal presidente tedesco...". "Non ho dubbi su alcunché di quanto Sua Maestà mi dice" disse Maria De Carli fissando i suoi occhi su quelli freddi del Re. Due macchie rosse di collera le spiccavano sulle gote, contrastando con il colorito cereo del viso, incorniciato come al solito da due appuntite onde di capelli neri. "Purtuttavia" riprese il Re con tono sprezzante "il momento esige la Sua presenza. La lista è accettata. Domani firmerò davanti a Lei il decreto di convocazione dei comizi elettorali. Buon lavoro, signora presidente del Consiglio". Umberto II inforcò di nuovo gli occhiali e tornò al suo lavoro. Maria De Carli si alzò infuriata e a grandi passi uscì dallo studio. Una volta fuori, si calmò subito. Al termine del lungo corridoio di anticamera, vi era la sala dove stazionavano i giornalisti di carta stampata, radio e televisione. La donna si fermò un momento per scacciare, concentrandosi,
la tensione provocatale dall'incontro con il Re. Quando sentì il sangue defluirle dalle gote, si incamminò di nuovo, stavolta secondo il suo abituale passo maestoso, verso i microfoni e le telecamere in attesa. Ora era di nuovo nel suo ambiente naturale. Poco più di mezz'ora dopo il nuovo presidente del consiglio sedeva sotto le forti luci di uno studio televisivo, le gambe elegantemente accavallate a scoprire appena mezzo palmo di carne sopra le ginocchia. Maria De Carli aveva trovato il tempo di cambiarsi e ora vestiva il suo tailleur preferito, quello color albicocca, con l'ormai consueto foulard in tinta. Il trucco leggerissimo le era stato sapientemente ritoccato, così che nessun riflesso potesse rovinarle l'inquadratura. Ancora una volta la donna aveva sperimentato le occhiate in tralice di operatori e tecnici, compresa quella insistita dello specializzato che, con mani tremanti, le aveva fissato il piccolo microfono al risvolto della giacca. La trasmissione veniva irradiata a colori in forma sperimentale. Tre le telecamere in studio. Davanti a Maria De Carli, in attesa che si accendesse la luce che annunciava la diretta, Marco Diletti prendeva appunti. La donna valutò in silenzio il giornalista che l'avrebbe intervistata. Un tempo, pensò, non avrebbe mai pensato di ricorrere a un'intervista in diretta. Diletti era una garanzia, era stato lui a creare il suo personaggio, ma nell'uomo c'era una strana nota di nervosismo. Diletti le pareva silenzioso, scostante, si ravviava in continuazione il ciuffo sulla fronte e, cosa che la stupiva di più, continuava a scrivere. Avevano solo venti minuti, cosa diavolo voleva chiederle? Il suono di una leggera sirena e l'accendersi di una lampada rossa scossero Maria De Carli dalle sue riflessioni. Partì la sigla e sul monitor comparve il volto di Marco, che subito esordì professionale. "Buonasera dallo speciale del Telegiornale Due sulla soluzione della crisi politica. In studio con me il nuovo presidente del consiglio, Maria De Carli". L'immagine sul monitor cambiò in un intenso primo piano della donna, che esibiva il suo sorriso più smagliante. "Presidente" cominciò Marco, "lei guida una coalizione di fascisti, liberali, socialisti e popolari, che intende preparare il Paese alle prime elezioni democratiche dal 1924. Si sente una traghettatrice o una liquidatrice?". La donna strinse impercettibilmente gli occhi. Diletti le appariva aggressivo. Riprendendosi subito, si volse con gesto da consumata attrice verso la telecamera. "Capiamoci bene" esordì, "io non liquido proprio nulla. Del
fascismo rappresento la componente più socialmente orientata, e dunque per me non è difficile dare vita a una compagine governativa che abbia a cuore i problemi dei meno abbienti". "Ma per dare vita a questo governo" riprese Marco, "Galeazzo Ciano si è autosospeso dalla sua carica di capo dello stato, e la trattativa è stata condotta da Quirinale e Vaticano. Non vuol dire che il fascismo come lo abbiamo conosciuto per più di cinquant'anni è ormai finito?". Il sorriso di Maria De Carli aveva preso una piega dura. "Delle scelte di Ciano bisognerebbe chiedere a lui. Il nuovo governo che io presiedo è il frutto di uno sforzo di allargamento della società civile a forze che per mezzo secolo se ne sono tenute fuori. Oggi ritengono di poter dividere con noi alcune responsabilità, ed ecco che il fascismo si apre a loro. Tutto qui". "Adolfo Casamassima" disse insinuante Marco, "non più di due settimane fa ha definito gli ex fuoriusciti 'teppa democratica'...". "Ancora una volta" lo interruppe secca Maria De Carli "la invito a chiedere le cose ai diretti interessati. Il ministro Casamassima mantiene il suo portafoglio in questo nuovo governo. Ciò dovrebbe sgomberare il campo dagli equivoci. E poi, un governo si giudica dal suo programma...". "Parliamo dunque di programmi" proseguì Marco imperturbabile davanti alla collera crescente di Maria De Carli. "Sette dicasteri su dieci, interni, esteri, difesa, cultura e comunicazione, poste, educazione nazionale, giustizia e territori d'oltreconfine. I fascisti tengono saldo il timone. Ma con lei agli esteri, Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna e Francia si dicono preoccupati. Cosa pensa di fare per evitare un isolamento internazionale?". Maria De Carli cambiò posizione con uno scatto esasperato. "Io sono arrivata a Palazzo Chigi dopo una trattativa avviata da Galeazzo Ciano, Sua Santità Paolo VI, e dal Re d'Italia. Nessun capo di Stato o di governo ha eccepito sulla mia candidatura". "Intende dire" domandò Marco, "che il suo ruolo è stato subalterno in tutta questa vicenda?". Maria De Carli spalancò gli occhi stupefatta. La sua espressione di disappunto fu talmente evidente che alla messa in onda scoppiò un parapiglia. "Ma è impazzito!" gridò il regista. "Vuole farci licenziare tutti!" fece eco il vicedirettore responsabile della trasmissione. Solo il direttore, Vito Maggiani, bianco come un lenzuolo, le mani che stringevano come morse il braccioli della sedia, si mordeva le labbra, incapace di qualsiasi commento. Ma Maria De Carli era già riuscita a trovare la risposta giusta. "Sarei
assurda, e se mi passa l'espressione, un po' retrò, se volessi mettermi al di sopra del Pontefice, capo della Cristianità, e del Re, simbolo della Nazione. Come le ho detto, il fascismo già mezzo secolo fa portava delle istanze che tutto il popolo condivideva. Che ora anche i partiti che chiamiamo borghesi apprezzino quei valori, non può farci che piacere". Il sorriso della donna era tornato tranquillo, ma gli occhi erano freddi come lame d'acciaio. "Per lei dunque, da fascista" riprese Marco enfatizzando l'ultima parola, "non vuole dire nulla chiudere la parentesi totalitaria?". "Ci sono momenti della storia in cui la libertà non è tra i valori prioritari" disse Maria De Carli unendo le punte delle dita in un gesto che ricordava Ciano. "Così è stato negli anni '20 e '30, quando l'alternativa era tra il fascismo e il caos. Oggigiorno, i tempi sono cambiati, le regole del gioco pure. Quel che conta è che, oggi come ieri, il fascismo difende una sola causa: quella dell'Italia". "Ha già parlato con il presidente tedesco Speer?" chiese Marco. "Non ancora, ma lo farò presto" rispose la donna. "Ho già previsto un progetto di soluzione della vicenda altoatesina". "Speer" insisté Marco, "ha detto più volte che lei è un pericolo per la democrazia in tutta Europa. Cosa gli risponde?". "Che Speer parli di democrazia" disse Maria De Carli a denti stretti, "è un insulto all'intelligenza. Per anni è stato tra i più vicini collaboratori di Hitler, poi ha decorato alla memoria l'autore della strage dove proprio Hitler trovò la morte. Quanto valga l'opinione dell'attuale presidente del Reich può giudicarlo chiunque". "Lei" disse Marco "si riferisce al colonnello von Stauffenberg e all'attentato che costò la vita a Hitler. Molti dicono oggi che quella bomba fu provvidenziale per risparmiare milioni di vite in una guerra che il Führer si ostinava a portare avanti nonostante l'opposizione dei vertici militari...". "Rimane il fatto che Stauffenberg" Maria De Carli omise volutamente il "von" nobiliare "ha avuto una medaglia per avere compiuto un massacro". "Torniamo all'oggi. Quanto a Stati Uniti ed Europa Occidentale, quale sarà la posizione dell'Italia?" chiese Marco. "Ai grandi della terra" disse Maria De Carli, più a suo agio sui temi generali "chiediamo di fare posto al nostro paese. Io ho un compito assai difficile: sanare, dopo mezzo secolo, la spaccatura che si creò con l'ascesa del fascismo. Abbiamo avuto, lei ha ragione, dieci anni di totalitarismo, ma
fu necessario. Solo così Mussolini poté risparmiare l'Italia da un conflitto sanguinoso e da un'invasione certa. Siamo l'ultimo paese del mondo ad avere ancora un'impero coloniale, sia pure travagliato da una lunga guerra che deve finire. Da paese coloniale dobbiamo passare a paese responsabilmente impegnato a insegnare ai suoi possedimenti d'oltreconfine a gestirsi da soli. Ma un paese del genere merita di sedere alla Società delle Nazioni. Non può continuare a starne fuori per motivi pretestuosi". "Secondo l'opinione pubblica internazionale" disse Marco, "non è pretestuoso lasciare fuori dalla Società delle Nazioni un paese che 'stermina sistematicamente un popolo per assoggettarlo'". Marco fece una pausa e riprese. "Le ho letto testualmente l'ultima risoluzione delle Nazioni Unite contro l'operato del nostro governo in Africa. Un governo in cui lei era ministro degli Esteri...". "...e il compianto Paoloni ministro della Guerra" sottolineò Maria De Carli cominciando a gesticolare con misura. "Sì ci sono stati tragici errori nelle colonie. Decine di migliaia di civili periti nella guerra civile, migliaia di soldati italiani. Ma posso dire che il tavolo di trattative è già pronto ad Atene e fra due mesi tutti i nostri militari torneranno a casa, meno un piccolo contingente che sorveglierà il ripristino di un'amministrazione autonoma nel Corno d'Africa". "Presto in Italia ci saranno elezioni generali" disse Marco, "e in molti chiedono che il nuovo assetto amministrativo sia meno accentrato del presente. Lei che risponde?". "Vedo bene" disse Maria De Carli, "un forte esecutivo sul tipo francese, che si accompagni a un adeguato decentramento su scala regionale. Pensiamo a una quindicina di enti territoriali, cui aggiungerne alcuni a statuto speciale: fra queste l'Alto Adige, il Dodecaneso, le province di Lubiana e Zara, l'Albania. Ma sarà il governo nella sua collegialità, e soprattutto il nuovo Parlamento a decidere". "Presidente De Carli" disse Marco ravviandosi il ciuffo, "davanti a me ho un suo scritto del 1968. Allora lei faceva parte del gruppo di studi sulla razza avviato da Alessandro Pavolini...". Maria De Carli fissò sull'interlocutore uno sguardo di attesa quasi ferino. "Questo poi no!!" urlò nello studio il direttore del telegiornale. Ma Marco andò avanti tranquillo. "Nell'articolo, circa cinquanta cartelle, si legge fra l'altro che 'le esecuzioni sommarie di civili ebrei, di nomadi, omosessuali e oppositori
politici compiute fra il 1943 e il 1944 dalle truppe tedesche in Europa Orientale corrispondevano al legittimo progetto di eliminare elementi parassitari della società nazionalsocialista' e che 'altrettanto il regime fascista italiano potrebbe essere costretto a fare in Africa per liberarsi di un analogo peso'. Allora lei aveva trent'anni, non era dunque più una giovane 'testa calda', se mi passa l'espressione. Pensa ancora tutto questo?". "Quell'articolo è un falso!!" gridò Maria De Carli stringendo convulsamente i braccioli della sua poltroncina. "Questo articolo si trova depositato alla Fondazione Julius Evola, faldone 8, cartella 5. La data completa" concluse Marco inesorabile, "è 7 luglio 1968. In esso si suggerisce inoltre l'uso dei gas da parte della Milizia contro le manifestazioni studentesche...". Maria De Carli si alzò di scatto dalla sedia e scagliò il microfono a collarino in un angolo dello studio. Il volto, rosso e acceso, spiccava sul mite colore albicocca del tailleur. "Ritengo inutile partecipare a trasmissioni che fanno del sensazionismo gratuito" disse fissando con odio la telecamera davanti a sé. La diretta si interruppe, proprio mentre Maria De Carli usciva dallo studio incrociando il direttore del telegiornale. "Presidente" implorò l'uomo, due grosse chiazze di sudore che gli macchiavano il doppio petto di grisaglia all'altezza delle ascelle, "non capisco cosa sia successo, Diletti sarà punito, non dubiti...". "Lei, piccolo, insulso ometto!!" tuonò Maria De Carli in preda a una furia incontrollata. "Lei e il suo ridicolo telegiornale! Lei ha chiuso! Può cercarsi un altro editore, ha capito? E così pure i suoi sicari, tutti quanti!!". Nell'uscire furibonda dalla sede del Telegiornale Due, Maria De Carli inciampò in un lembo di moquette e si storse dolorosamente una caviglia. Un tacco delle scarpe le si ruppe. L'intera redazione la vide, scarmigliata e zoppicante, entrare in una berlina nera e imprecare contro l'autista di servizio. La vettura partì sgommando alla volta di Palazzo Chigi. Il giorno dopo, Maria De Carli presenziava una riunione a tre. Seduta su una soffice poltrona, la caviglia destra fasciata a riposare su un puff, il capo del governo consultava attenta delle carte. Il volto era ancora contratto, la bocca serrata in una linea sottile. Davanti a lei, Adolfo Casamassima e il neoministro delle Poste, Attilio Donati, un giovane fascista dell'estrema ala sinistra. "Maria" iniziò Casamassima, "forse non dovevi abboccare alla provocazione...". "Provocazione?" sibilò la donna alzando di scatto lo
sguardo dalle carte. "Lo so anch'io che è stata una provocazione, ma chi poteva aspettarselo? Marco Diletti mi ha seguito per mesi, era il mio cronista più fedele. Ieri si è rivelato una serpe... Cosa hai saputo in proposito, Attilio?" chiese Maria De Carli rivolgendosi all'altro interlocutore. "Ho ricevuto un telex dal direttore dell'Immagine Italiana" disse con orgoglio il ministro delle Poste, in cui mi si comunica l'avvenuta rimozione di direttore e vicedirettore vicario del Telegiornale Due. Per Marco Diletti è stato disposto un periodo di 'congelamento' di qualche mese: rimarrà in redazione, ma senza lavorare e percepirà un terzo dello stipendio. Ah, e, ovviamente, promozione cancellata..." Attilio Donati si riappoggiò sullo schienale della sua poltrona, aspettando un elogio che non venne. "Tutto qui?" ruggì Maria De Carli. "Ma bisognava licenziarli tutti, quei delinquenti, è stato un agguato! Attilio, cominciamo molto, ma molto male!!". Il giovane ministro fascista si fece piccolo piccolo. "Non potevamo fare di più" disse con voce tremante, "siamo sotto elezioni, presidente, non ricorda?". "Maria" intervenne Casamassima, "forse è meglio accontentarsi. Altrimenti sembrerà una vendetta. Non puoi fare la fascista proprio adesso...". "È stata un'imboscata ignobile, Adolfo, non capisci?" scattò la donna. "Se non rispondiamo adesso ci faranno a pezzi. Non capisci che era tutto preordinato, screditarmi proprio mentre mi appresto al compito più difficile? Puzza di complotto bolscevico, dovresti averlo avvertito anche tu!". "Non siamo forse alleati della gloriosa Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche?" chiese con un sorriso sarcastico il ministro dell'Interno. "Se c'è stato un complotto bolscevico allora ne dovrà rispondere il ministro degli Esteri, che guarda caso è anche il presidente del consiglio! A proposito, l'articolo di cui parlava Diletti è autentico, non è vero?". Maria De Carli alzò di nuovo il volto dalle sue carte, fissando attentamente Casamassima. "Attilio" disse la donna al ministro delle Poste senza abbassare lo sguardo dalla smorfia ironica del vecchio, "comunica alla direzione dell'Immagine Italiana il seguente comunicato, da leggere in ogni edizione dei telegiornali e dei giornali radio di oggi: 'Il presidente del consiglio biasima la vergognosa condotta della trasmissione messa in onda ieri sera dal Telegiornale Due. Ciò nonostante
loda la prontezza con la quale i vertici aziendali hanno provveduto, rimuovendo da posti di responsabilità elementi risultati inaffidabili e manovrati da forze politiche ostili al cambiamento in atto nel nostro paese. Il presidente del consiglio invita infine la direzione dell'Immagine Italiana, le sue sezioni e le redazioni giornalistiche tutte a vigilare affinché nello stesso interesse del servizio pubblico radiotelevisivo, e nell'imminenza delle consultazioni elettorali siffatti episodi non abbiano più a ripetersi'. Ti piace, Adolfo?" chiese infine Maria De Carli al ministro Casamassima, abbozzando di nuovo uno dei suoi famosi sorrisi. I denti bianchissimi sembrava cercassero carni tenere da dilaniare. "Non male" rispose Casamassima. "Solo che una volta non avresti avuto bisogno di puntualizzazioni... La forza della democrazia!!" esclamò sarcastico il vecchio fascista infilandosi i pollici nella cintura dei pantaloni. Maria De Carli scosse vigorosamente il capo e riprese, corrucciata, a compulsare i suoi incartamenti. Poi, improvvisamente, alzò il volto verso il vecchio gerarca e gli regalò un inatteso sguardo dolce. "Ma sì, Adolfo" disse. "In fondo hai ragione tu: lasciamo che la democrazia mostri la sua forza". C'era qualcosa di strano, di pauroso in quello sguardo. Casamassima, intimorito, abbassò gli occhi e si fissò la punta degli stivaloni. Le otto di sera. Adolfo Casamassima, dopo essere tornato al ministero dell'Interno dall'inquietante colloquio con Maria De Carli, aveva lavorato tutto il giorno senza fermarsi. Stanco e con gli occhi arrossati si decise infine a spegnere la lampada che teneva sulla scrivania, non prima di avere gettato il consueto sguardo verso il testone di Mussolini. Casamassima, ministro democratico di un governo di coalizione! Il Duce di bronzo seguitava a guardarlo, sempre più corrucciato. Casamassima sospirò e si infilò a fatica nel pesante cappotto militare che ormai gli andava largo di qualche taglia. Era dimagrito, nelle ultime settimane, e si sentiva debole. Si stirò con energia, ripetutamente, un'abitudine che non aveva mai abbandonato dalla giovinezza nei campi militari e che gli aveva consentito di non deformarsi la schiena stando seduto a tavolino per più di trent'anni. Finalmente si decise ad abbandonare il suo studio, e uscì nei corridoi di un palazzo del Viminale curiosamente silenzioso. Il vecchio ministro notò subito l'assenza delle guardie della Milizia, un particolare del tutto insolito, che lo allarmò. Scese le scale deserte tenendo d'istinto la mano destra sulla pistola che portava sempre al fianco, quindi uscì nell'ampio piazzale, anch'esso deserto. Contrariamente al solito, non
c'era ad aspettarlo la vettura nera che lo accompagnava a casa. Il cuore del vecchio fascista cominciò a battere all'impazzata. Poi rallentò la sua marcia: Casamassima vide da lontano il familiare profilo dell'Alfa Romeo che si avvicinava. Quando l'auto si approssimò al marciapiede, il ministro si chinò per salutare il suo autista e montò a bordo. Casamassima chiuse per qualche momento gli occhi, ripensando ai fatti degli ultimi giorni. Una riflessione breve, ma sufficiente a fargli perdere il momento in cui l'autista deviò dal percorso abituale, allontanandosi verso la periferia del Prenestino anziché verso l'abitazione privata di Casamassima ai Parioli. "Luigi, ma dove siamo?" chiese all'improvviso Casamassima, mentre innanzi allo sguardo gli si parava uno sfondo di baracche e sterrati polverosi. L'autista gli ricambiò uno sguardo freddo dallo specchietto retrovisore. Fu allora che Casamassima si accorse dell'auto che li aveva seguiti fin da piazza del Viminale. L'Alfa Romeo ministeriale si fermò al centro di uno spiazzo in terra battuta, e l'autista si accese una sigaretta. "Luigi, andiamo a casa!" gridò Casamassima, mentre dall'altra auto, fermatasi a sua volta, uscivano tre sagome incappucciate. Gli sportelli posteriori dell'Alfa ministeriale furono improvvisamente spalancati. Casamassima fu trascinato per il bavero fuori della vettura. Il vecchio tentò di impugnare la pistola, ma un violentissimo calcio alle costole lo paralizzò. Sentì, annaspando alla ricerca d'aria, che l'arma gli veniva strappata e gettata via. Nella luce proiettata dai fari dell'auto di servizio, Casamassima riuscì a vedere che i suoi sequestratori erano armati di lunghi bastoni. Quando il primo colpo lo raggiunse alla gamba destra, spezzandogliela di netto, capì che si trattava di manganelli della Milizia con l'anima di acciaio. Poi, fu solo dolore, e infine le tenebre. 17 La stanza del consiglio dei ministri a Palazzo Chigi era stata adattata in gran fretta. Da quando, decenni prima, Benito Mussolini l'aveva abbandonata per trasferirsi a Palazzo Venezia marcando così anche esteriormente la rottura con lo Stato liberale, la sala era stata riaperta solo in occasione di qualche conferenza stampa convocata da Galeazzo Ciano. Ora, intorno a un grande e malandato tavolo ovale di legno sedevano i ministri del regio governo: dieci i dicasteri, otto i presenti, con Maria De
Carli a radunare in sé oltre che la carica di presidente del Consiglio, i portafogli di cultura e comunicazione, esteri, difesa e, per ultimo, l'interim dell'Interno. Gli altri convenuti erano, per parte fascista, i ministri delle poste, Attilio Donati, dell'educazione nazionale, Antonia Grimaldi, della giustizia e dei territori d'oltremare, l'altro intransigente Sergio Canti. Per parte democratica erano presenti il socialista Francesco Guerri, ministro del Lavoro, il liberale Vittorio Malaspina, ministro delle Finanze, i popolari Mariano Salzi, ministro del Bilancio, e Paolo Stura, vicepresidente del Consiglio. A parte Stura, che con vistoso imbarazzo sedeva alla destra di Maria De Carli, gli altri democratici si erano raggruppati tutti insieme, e presenziavano a quella curiosa riunione con vistoso disagio: gli ex oppositori del regime di Mussolini si trovavano, sì, in numero pari rispetto ai fascisti, ma si sentivano in netta minoranza. Il loro disagio era accresciuto dal modo in cui Maria De Carli li squadrava: gli occhi della donna si spostavano gelidi e indifferenti dall'uno all'altro dei ministri non fascisti, come se le questioni da affrontarsi in quella stanza non avessero in fondo la minima importanza. Più che a una riunione di governo, sembrava di essere in procinto di assistere a un incontro di boxe in cui uno dei pugili sapeva già di vincere. Il Presidente del Consiglio, finito che ebbe di guardare i propri antagonisti, diede un'ultima scorsa agli incartamenti che aveva portato con sé. Con un leggero, ma inequivocabile sospiro di impazienza, ravviatisi i capelli, si alzò in piedi e incominciò a parlare. "Gentili colleghi, camerati. È inutile che vi dica quanto sia importante in momenti come questi stringere al massimo sulle forme e venire al nocciolo del problema. Per alcuni di voi questo è certo un giorno storico. Si dà tuttavia il caso che una delle sedie che oggi doveva essere occupata è vuota e ciò è per me ragione di tristezza e insieme infinita determinazione. Il nostro primo compito sarà perciò assicurare alla giustizia nel più breve tempo possibile chi ha barbaramente assassinato il ministro Adolfo Casamassima". Maria De Carli aveva parlato a voce bassa, tenendo le punte delle dita appena appoggiate sulla superficie del vecchio tavolo. Con un movimento secco levò la testa e cominciò a spostare lo sguardo dall'uno all'altro dei ministri democratici. "In qualità di ministro dell'Interno ad interim devo informare il Consiglio di avere preso alcune misure precauzionali. Polizia, carabinieri e Milizia sono mobilitati in forze su tutto il territorio nazionale. Agiranno con discrezione, ma, sono sicura ne converrete, la cosa più
importante a questo punto, con le elezioni alle porte, è dare alla popolazione il segno che il governo si muove deciso, senza alcuna delle incertezze che si potrebbero imputare alla pluralità delle forze che lo compongono". "Che tipo di misure sono state prese, presidente?" chiese con la sua voce sonora il ministro del lavoro Francesco Guerri. "Secondo alcune fonti del mio partito ci sarebbero stati episodi di irruzioni in circoli studenteschi e in alcune università. Come ministro del lavoro, le consiglio di evitare di far salire la tensione davanti alle fabbriche. Abbiamo saputo che la Milizia presidia in forze Fiat, Italsider e Alfa di Arese...". "Sappiamo, consigliamo..." intervenne Maria De Carli con un gesto secco della mano pallida. "Caro Guerri, lei e Antonio Murgita dovete ricordare che se ora socialisti e comunisti avranno una seconda possibilità, entrambi lo dovete a noi. Più di mezzo secolo fa la vostra sinistra ha diviso il paese e l'ha portato sull'orlo del baratro. Quando è arrivato il fascismo, voi vi siete sciolti come neve al sole. Oggi tornate alla luce per nostra iniziativa e volete già porre condizioni? Ricordate: finché il popolo sovrano non avrà deciso chi dovrà governarlo, il fascismo rimane il supremo garante dell'ordine in Italia!". Francesco Guerri tacque. Maria De Carli aveva parlato con il piglio dell'uomo forte. E poi, la donna aveva accennato anche ai carabinieri, aveva detto che l'Arma, forza tradizionalmente monarchica, affiancava polizia e Milizia nelle operazioni di rastrellamento. Ciò voleva dire che, tutto sommato il Re non aveva del tutto scaricato il fascismo, che fra rossi e neri, se fosse stato costretto, Umberto II non avrebbe avuto la minima esitazione. Ne doveva parlare con Murgita. Non era un mistero che Guerri era al governo e teneva proprio il dicastero del lavoro con il beneplacito del Partito Comunista. La sinistra si era ritagliata una sua fetta di influenza all'interno del nuovo gabinetto di coalizione, anche se il P.C.I. non aveva voluto, né avrebbe potuto, parteciparvi direttamente. Ma tutta questa animosità contro socialisti e comunisti era un fatto imprevisto in un politico come Maria De Carli, che proprio grazie al suo sinistrismo si era distinta fra i vecchi del regime fascista. Un attacco così violento contro i partiti dei lavoratori era un fatto nuovo e inquietante. "Signor presidente, collega Guerri, andiamo..." disse improvvisamente Paolo Stura, il vicepresidente del Consiglio espresso dai popolari. "Non è questo il momento delle divisioni ha ragione l'eccellenza De Carli quando dice che la cosa più importante è dare ai cittadini un segno di unità. Siamo, come
dire, in amministrazione straordinaria, e occorre fare cose fuori dall'ordinario per arrivare a garantire l'ordine nella vita di tutti i giorni". A nessuno dei presenti, fascisti e democratici, sfuggì che Stura aveva gratificato il presidente del Consiglio del titolo di eccellenza in voga nel ventennio mussoliniano. I popolari erano il partito che più aveva spinto per collaborare con i fascisti, lasciando da parte le antiche divisioni politiche. Stura era inoltre la voce del Vaticano e ascoltato consigliere di papa Montini. Francesco Guerri si convinse sempre di più che Paolo VI e Umberto II, gli artefici del nuovo corso italiano, dovessero essere al corrente del temporaneo irrigidimento dei fascisti di fronte all'evoluzione politica in corso. Il totale silenzio del vecchio liberale Malaspina e, soprattutto, dell'altro popolare, l'apparentemente impersonale Salzi, convinsero Guerri di essere l'unico dei presenti a non essere stato informato di quanto stava accadendo. I fascisti pensavano forse a dare vita a un asse politico con i partiti di centro-destra? O forse l'asse era già nato? Le riflessioni concitate di Guerri furono interrotte dalla voce di Maria De Carli. "Come sapete" riprese il presidente del Consiglio, "il nostro paese è da tempo, malauguratamente, sotto osservazione straniera". La donna stirò le labbra sottili in un sorriso ironico e indirizzò lo sguardo per un lungo attimo fuori dalla grande finestra della sala. Poi riprese a squadrare con insistenza i suoi interlocutori. "Stati Uniti d'America, Inghilterra, Germania, Unione Sovietica, i potenti della terra, si chiedono cosa stia succedendo in Italia. Il presidente americano Ford mi chiede di assicurare un pacifico passaggio alla democrazia. Il primo ministro britannico Wilson si raccomanda contro un'eccessiva tensione fra governo e lavoratori. Il segretario generale del Partito Comunista Sovietico Breznev assicura il pieno sostegno dell'U.R.S.S. all'evoluzione democratica della nostra nazione. E Speer..." Maria De Carli camuffò con un gesto fluido della mano il proprio disprezzo per l'anziano presidente tedesco. "Speer" continuò noncurante il capo del governo, "ci ricorda i tradizionali rapporti di amicizia fra Germania e Italia". Il presidente del Consiglio lasciò cadere sul tavolo i messaggi ufficiali e fissò di nuovo i ministri. "In realtà" riprese la donna, "tutti questi uomini di stato sono preoccupati per un'unica cosa. L'Italia è stata alla periferia del mondo per mezzo secolo. Oggi, qui, la Storia si è rimessa in cammino. Per questo, Guerri" disse Maria De Carli rivolgendosi al ministro del lavoro, "vorrei che anche
le sinistre capissero che questo non è il momento di dannose contrapposizioni fra classi. La cosa più importante è la Nazione, la Nazione che, isolata, si erge contro i potenti della terra per riprendere in mano il proprio destino". Francesco Guerri aveva sentito parole simili tanti anni prima, quando, poco più che adolescente, era dovuto fuggire dall'Italia perché ricercato dalla polizia di Mussolini. Maria De Carli attingeva ora a piene mani dalla retorica fascista. "Certo, non possiamo scordare" riprese la donna, "quanto sia cambiato il mondo, la nostra società, quanto negli ultimi venti anni il fascismo stesso abbia prodotto strati parassitari almeno quanto il regime liberale prima della rivoluzione di Mussolini. Questo ci ha portato a rivedere le nostre posizioni, a scelte difficili, a rotture, e anche alla vostra presenza in questa sala". Maria De Carli si rivolgeva ora solo ai ministri democratici e la sua voce scese di un tono, divenne più conciliante. "Tutti, ma proprio tutti, dobbiamo rifare questa Italia", disse il presidente del Consiglio. "Il fascismo nacque come blocco politico-sociale. Ora niente impedisce a questo blocco di unificare in sé quelle forze che ritennero di rimanervi fuori cinquant'anni fa. Dirò di più e meglio. Se tutti gli schieramenti politici decidessero seriamente di contribuire con noi al rinnovamento del paese, non vi sarebbe più un senso nel mantenere in vita un Partito Fascista come tale". Stavolta furono i ministri fascisti a voltarsi di scatto verso Maria De Carli, guardandola sbalorditi. I più sconvolti sembravano essere Attilio Donati e Sergio Canti, gli oltranzisti dell'ala sinistra. Uno sguardo tagliente lanciato da Maria De Carli verso i suoi fedelissimi bastò tuttavia a fare abbassare loro gli occhi. Fu il vicepresidente del Consiglio Paolo Stura a rompere il silenzio che era caduto sulle ultime parole del presidente del Consiglio. "Bene, dunque" disse quasi gioviale l'esponente del Partito Popolare. "Mi sembra proprio che qui si proceda come si deve. Abbiamo risolto ogni dubbio, non credi, Guerri?". Senza aspettare la risposta del ministro del lavoro, Stura riprese a parlare. "Credo che possiamo essere d'accordo con il presidente del Consiglio sul fatto che la priorità assoluta sia l'ordinato svolgimento dei comizi elettorali e assicurare al più presto alla giustizia gli assassini degli ex ministri Paoloni e Casamassima". "Sono d'accordo con questa proposta" disse secca Maria De Carli. "Lo Stato Maggiore della Difesa è disponibile a garantire un contingente militare di sorveglianza nel periodo elettorale".
"E voialtri, colleghi?" - chiese Stura. Uno dopo l'altro, fascisti e democratici, alzarono le mani in segno di approvazione. Senza rendersene conto, anche Francesco Guerri si trovò con la destra levata in alto. Guardandosi nella specchiera che decorava la parete della sala di fronte, gli sembrò di avere fatto un impeccabile saluto romano. 18 Marco Diletti trovava la situazione molto buffa. Da almeno un mese era stato messo, come si diceva nei giornali, "in frigorifero". Non più uscite in troupe, neanche un servizio in redazione. Sapeva, come sapevano i suoi colleghi, che dopo la sua prodezza televisiva con Maria De Carli, se non era stato licenziato lo doveva soltanto alla buona sorte e alle imminenti elezioni che impedivano al fascismo di usare le maniere forti. Tuttavia, dopo appena due settimane di punizione, lo stipendio di Marco era stato riportato al livello abituale. Come ogni mattina da cinque settimane a quella parte, Diletti era arrivato intorno alle dieci, aveva consultato pigramente la sua mazzetta di giornali, guardato gli altri giornalisti affannarsi e si era goduto l'assoluto far niente. Provava una sensazione strana a rimanere con le mani in mano nella fucina del Telegiornale Due. Una sensazione che era peggiorata da quando erano state rese note le nomine disposte in attesa delle elezioni: trenta colleghi, in gran parte meno anziani di Marco, tutti promossi al grado di caposervizio o alla qualifica di inviato. Dopo quanto era accaduto con Maria De Carli, Marco non poteva certo sperare di essere nel mucchio, ma ugualmente non ritrovarsi nella lista degli eletti lo deprimeva profondamente. Per gli altri giornalisti, l'emarginazione dell'ex astro nascente Marco Diletti, lo scandalo da lui provocato nella diretta televisiva più seguita della storia della televisione erano ormai solo un ricordo. All'Immagine Italiana, azienda che aveva ereditato i modi soffici quanto inesorabili della vecchia E.I.A.R., tutti ormai pensavano solo alle imminenti elezioni e a come trarne vantaggio. Le puntigliose circolari di Maria De Carli, sulle quali compariva ora l'intestazione della Presidenza del Consiglio dei ministri, non facevano che parlare di informazione politica e di pari modalità di accesso dei partiti al mezzo televisivo. La grande novità del momento si chiamava pomposamente La Tribuna
della Nazione. Istituita per iniziativa personale di Maria De Carli, la trasmissione aveva il compito di informare i cittadini su programmi e candidati che i partiti si apprestavano a presentare. Tre le varianti del programma: la prima era una sorta di tavola rotonda durante la quale il politico di turno veniva intervistato da un gruppo di giornalisti. Era la versione meno gradita dal pubblico: i redattori, abituati per decenni a cantare le lodi del regime, erano soliti trasformare le interviste in un salotto che annoiava a morte i telespettatori. La seconda variante, durante i primi giorni di sperimentazione ebbe invece un successo travolgente: cinque politici, uno per ogni schieramento, a confrontare le proprie idee con un moderatore a organizzare il dialogo. Dialoghi che si trasformavano di regola in liti da cortile, con grande scandalo dei candidati fascisti non abituati al contraddittorio. Per loro fortuna, le indicazioni politiche concilianti che venivano da Quirinale e Vaticano smorzarono i toni delle discussioni, e le tribune collegiali, ridotte a spettacoli noiosi in cui nessuno attaccava più nessuno, furono relegate nella fascia di mezza serata. Così, la tribuna che finì per diventare il fiore all'occhiello dell'Immagine Italiana fu quella detta del 'Testa a testa', duello a due moderato da un giornalista. E proprio a una di queste tribune Marco, come quasi ogni giorno dalla data della sua messa "in frigorifero", aveva deciso di dedicare la propria attenzione, per ora solo di spettatore. Il confronto sul video era dei più intriganti: Antonio Murgita, segretario del Partito Comunista Italiano, il simbolo dell'opposizione al regime, davanti al giovane leader fascista Ardito Valori. A moderare il confronto Vito Maggiani, ex direttore del Telegiornale Due, rimosso dall'incarico la sera della fatale intervista di Marco a Maria De Carli. Quasi come sapesse che dietro la telecamera lo stava a guardare anche Diletti, Maggiani, che ora aveva avuto l'incarico di coordinare La Tribuna della Nazione, si rivolgeva ai telespettatori con tono severo. Dagli scatti nervosi con cui muoveva la mano sinistra, Marco capì presto che il suo ex direttore era invece impaurito. La conversazione in studio si stava facendo infatti rovente. "Murgita... Murgita, per favore..." invocava Maggiani cercando di far tacere il segretario comunista. "Ma che per favore!" si accalorava Murgita. "Siamo rimasti in silenzio per cinquant'anni, ora vogliamo parlare chiaro: mi dica, insomma Valori, cosa intende fare il Partito Nazionale Fascista per i lavoratori?". "Lo ripeto per l'ennesima volta" - rispose cupo il neosegretario fascista,
carica che gli era stata affidata pro forma da Maria De Carli dopo le dimissioni di Ciano dalle cariche ufficiali di partito. "Siamo contrari a ogni contrapposizione basata sulla logica marxista, vogliamo andare oltre le classi sociali, unificare padroni e operai nel godimento dei profitti d'impresa...". "Ma come pensate di farlo senza dare maggiore forza ai consigli di fabbrica?" replicò Murgita quasi scandalizzato. "Ce lo dicono anche dall'Unione Sovietica, nostro paese amico" si pavoneggiò Valori sgranando gli occhi e sporgendo il mento in fuori. "Operai e imprenditori devono sedere insieme in un consiglio d'azienda, e ogni azienda deve avere il suo capo, eletto dall'interno, responsabile davanti allo stato e rimuovibile se sbaglia strategia!". "Valori, sei pazzo..." disse cupo Murgita, che aveva deciso di ignorare il riferimento all'U.R.S.S. "Cosa farete se il vostro capoazienda ritenesse di dovere fare licenziamenti? Pensi che gli operai accetterebbero di essere mandati a casa? Credi che il signor Agnelli accetterebbe a sua volta di essere rimosso dal vertice della sua multinazionale su voto dei lavoratori?". Ardito Valori, colpito nel vivo, fremette di rabbia e si allargò il colletto della camicia inamidata. Portava un rassicurante doppio petto rigato che si ispirava allo stile di Ciano ma, a differenza del successore di Mussolini, mancava totalmente di senso d'umorismo. Vito Maggiani se ne accorse e decise di intervenire. "Murgita, aspetti un momento. Il segretario del Partito Nazionale Fascista sta illustrando una nuova e interessante teoria economico-sociale. Vada avanti, Valori". "Nuova, a dire il vero, non è" riprese Ardito Valori guardando con rimprovero entrambi gli interlocutori. "La anticipò a grandi linee il Duce già nel 1919: si chiama so-cia-liz-zazzio-ne". Ardito Valori sillabò il nome come se si trattasse di una ricetta misteriosa e infallibile. Antonio Murgita liquidò l'intera questione con un gesto secco della mano ossuta. "Panzane, Valori!" disse. "Questa è roba che poteva andare bene per la propaganda negli anni trenta, con la classe operaia sotto il tallone di Mussolini: facciamo una bella assemblea di fabbrica, con i signori a decidere e gli operai ad adeguarsi, altrimenti arriva la Milizia o il licenziamento in tronco. Ma oggi, la musica è diversa, non te ne sei accorto? Fatti fare un bel rapporto dai vostri federali di Milano, Torino e Genova. Anzi, senti i capi della Milizia che avete mandato a Mirafiori e ad Arese. Della vostra socializzazione, gli operai non sanno che farsene. Vogliono salari decenti, la settimana di 48 ore e la possibilità di eleggere i
loro rappresentanti in un vero consiglio di fabbrica!". Ardito Valori si girò verso Vito Maggiani con un eloquente sguardo di riprovazione. L'ex direttore del Telegiornale Due tagliò immediatamente corto. "Bene" disse. "È evidente che comunisti e fascisti non possono essere d'accordo sull'evoluzione dei rapporti in fabbrica. Ai telespettatori il giudizio sulla novità delineata dal segretario Valori, che sembra comunque una ricetta originale...". Maggiani scoccò un'occhiata al segretario fascista, si accertò della sua approvazione, riprese fiato e con voce leggermente più acuta passò a un altro punto che riteneva favorisse l'interlocutore fascista. "Ardito Valori, lei è un giovane" disse Maggiani con tono accattivante. "Fa parte di quella che qualcuno già chiama la 'covata-De Carli'...". Maggiani si interruppe bruscamente perché il segretario fascista l'aveva fulminato con una rapida alzata di sopracciglia: Valori doveva, sì, la sua rapida carriera al presidente del consiglio, ma non amava che la cosa gli venisse ricordata. Maggiani si rese conto e in pochi secondi corresse il tiro. Marco non poté fare a meno di ammirare le doti di equilibrista del suo ex direttore. "...Lei, però" riprese Maggiani rivolgendosi a Valori, "ha già percorso molta strada con grande sicurezza, e questo mi stimola a porle un quesito particolare... Ecco, Valori, un giovane come lei quale giudizio ha del decreto del governo che concede il voto alle donne? L'Italia andrà presto alle urne dopo più di mezzo secolo con almeno quindici milioni di elettori in più". Antonio Murgita alzò gli occhi al cielo al tono salottiero di Vito Maggiani. Ardito Valori apprezzò invece il salvagente che il giornalista gli aveva lanciato. "Il fascismo ha sempre privilegiato il rapporto con le donne" esordì il giovane parlando con sicurezza di un argomento che doveva avere già preparato. "Già Mussolini aveva riconosciuto al sesso femminile un ruolo insostituibile come base della Nazione. Certo è che molto è cambiato in cinquanta anni, sarebbe stato ben strano che un paese il cui capo di governo è una donna non concedesse alle donne la possibilità di esprimere il loro voto. Dobbiamo alla camerata presidente Maria De Carli la storica iniziativa che ci mette al passo con tutti i paesi moderni e che garantisce sulla fedeltà del fascismo alla svolta democratica ormai inevitabile in Italia!". "Di', Valori" intervenne Murgita, "è vero che quella che tu chiami 'storica iniziativa' è stata concordata insieme con i popolari?". "Non
capisco di cosa parli..." replicò Valori sbalordito. "Ma sì, dai, lo sai anche tu, l'accordo prevede che nelle parrocchie si faccia, chiamiamola così, una 'blanda propaganda' per la tua lista, mentre nelle associazioni femminili fasciste si sta cominciando a spargere la voce che una bella 'x' sullo scudo crociato in fondo ne vale una sul simbolo del fascio...". "Questo è uno scandalo!" urlò Valori. "Murgita, stai insinuando che ci sia un accordo elettorale segreto! Ti rendi conto della gravità di quanto affermi? Ricorda che i popolari sono alleati vostri, non nostri!". "Ma quali alleati, Valori..." disse cupo il segretario comunista "Sai bene che l'unica lista comune è quella dei socialisti e dei comunisti sotto il simbolo di Giuseppe Garibaldi. Spiega piuttosto perché, dopo anni di anticlericalismo la fazione di Maria De Carli si scopre così devota! Sono settimane che il tuo partito non critica più il Vaticano! Eppure proprio al Papa dovete l'iniziativa che ha spianato la strada a queste elezioni. Elezioni che vi potrebbero cancellare, ricorda!". "Murgita, è la terza volta che devo riprenderla!" intervenne concitato Maggiani agitandosi sulla poltrona. Marco poteva vedere che il suo ex direttore era a corto di argomenti. Il segretario fascista stava soccombendo al piglio polemico dell'avversario, e questo voleva dire punti in meno nella classifica-ombra dei giornalisti più affezionati al regime; una graduatoria che, dopo l'episodio Diletti-De Carli, vedeva Maggiani arrancare agli ultimi posti. "Di' pure ciò che vuoi, Valori" tagliò corto Murgita con il solito gesto della mano. "Rimane comunque il fatto che il voto alle donne in questo momento non è altro che una misura tardiva e opportunistica. Agli elettori, e alle elettrici, il compito di fare giustizia di ogni ambiguità". "Passiamo alla politica estera" disse Maggiani che voleva a tutti i costi cercare di uscire dalle sabbie mobili in cui Murgita lo aveva cacciato. "Il ritiro italiano dall'Africa Orientale è ormai completato per metà. Sul posto" disse l'ex direttore del Telegiornale Due, "rimane solo un piccolo contingente che sorveglierà il passaggio alle amministrazioni autonome di Somalia ed Etiopia. Alla Società delle Nazioni sostengono che occorrerebbe affiancare agli italiani un contingente internazionale per dare prova di imparzialità. Lei, Valori, cosa ne pensa?". "Penso quello che pensa il nostro presidente del consiglio, e cioè che è inutile" disse Ardito Valori, visibilmente sollevato di passare a un altro argomento. "Da decenni l'Italia" riprese Valori "sta dando prova di avere a cuore le sorti delle popolazioni del Corno d'Africa. Perché coinvolgere le altre potenze, e proprio quei paesi che hanno abbandonato il colonialismo
solo l'altro ieri? Per farci dettare legge in casa da inglesi e francesi? O peggio, dagli americani, che per tutelare i propri interessi ricorrono in tutto il mondo all'arma del colpo di stato?". "Caro Valori, per una volta posso darti ragione, specie per quanto riguarda gli americani" prese a dire pacato Antonio Murgita "per il resto credo sia doveroso che gli italiani vadano tutti via non solo da Somalia ed Etiopia, ma anche da Libia, Dodecaneso, Zara, Lubiana e anche dall'Albania. Non è terra nostra. Proprio tu, Valori, che parli tanto di Nazione e potenze colonialiste dovresti capire quando è il momento di dare a un popolo ciò che esso vuole. I proletari dell'Africa Orientale lottano contro le nostre forze armate da più di vent'anni. È una guerra che è costata quasi un milione di vite...". "Propaganda, Murgita, solo propaganda!" interruppe Valori, "sai benissimo che i nostri morti ammontano a poco più di duemila unità...". "Già, duemila meno lo zero in coda che i solerti funzionari del ministero della guerra hanno provveduto a cancellare, il che vuol dire almeno ventimila, e il bilancio peggiora ogni giorno!" insorse il segretario comunista. "La nostra è stata una vera guerra imperialista, condotta senza scrupoli, usando napalm e armi chimiche, ricorrendo a rappresaglie indiscriminate, sterminando vecchi, donne e bambini!! È tempo che i criminali che hanno gestito questa guerra paghino, con un processo internazionale!!". "Murgita, lei non riesce proprio a concepire un dibattito civile..." intervenne Vito Maggiani, ormai alla disperazione. "Valori, la prego, riprenda da dove è stato interrotto". "Allora, dicevo, non ventimila, ma duemila vittime italiane. Arriviamo a trentamila morti solo se contiamo anche i banditi uccisi durante le doverose rappresaglie". Ardito Valori sottolineò il concetto aprendo le braccia e fissando la telecamera in onda davanti a sé. "Un prezzo comunque troppo alto, non è un mistero, ma nessuno, ripeto, nes-su-no" sillabò ancora Valori, che amava evidentemente questa forma di enfasi, "deve permettersi di dire che il Corno d'Africa sia il Vietnam italiano. Quindi, via da lì, ma solo, responsabilmente, dopo avere dato vita ad amministrazioni autonome. Quanto a Dodecaneso, Libia, Albania, Zara e provincia di Lubiana, Murgita, questa è terra italiana. Gli italiani vivono in queste regioni ormai da decenni, in Libia dall'inizio di questo secolo, a Zara dai tempi della Repubblica Veneta. Non possiamo esporli al rischio di azioni terroristiche una volta rimpatriati i contingenti militari. Dobbiamo
invece dare una sempre maggiore autonomia a tutti quei tenitori dove vivono minoranze etnico-linguistiche, decentrando il nostro paese a livello regionale. Per contro, dobbiamo mantenere un forte esecutivo, in grado di far fronte a eventuali spinte secessionistiche. Come vedi, Murgita, il modello di stato fascista non è poi proprio da buttare via...". "Contingenti di vigilanza in Corno d'Africa, contingenti d'ordine nei territori d'oltre confine, polizia, carabinieri, milizia ed esercito in forze congrue per evitare spinte centrifughe..." Antonio Murgita sembrava quasi divertito. "Caro Valori" riprese il segretario comunista, "tu e Maria De Carli volete addirittura superare i dieci milioni di baionette che aveva promesso Mussolini! Buon per il vecchio Duce che decise poi di ripensarci e rimanere fuori dalla guerra. No, Valori, scherzi a parte, tu parli di un paese militarizzato come una repubblica sudamericana. L'Italia ha bisogno d'altro. Di tranquillità, pace e soprattutto democrazia!". Vito Maggiani diede uno sguardo all'orologio e si rese conto che il tempo stava per scadere. Occorreva però chiudere in maniera almeno confortante per il segretario fascista. Decise così di giocare la carta-Ciano. "Ardito Valori, Galeazzo Ciano ha dichiarato più volte che, qualunque sia l'esito delle elezioni, lui ha già deciso di farsi da parte. E la carica di neosegretario nazionale del partito a lei conferita è un primo segno di questa volontà. Come giudica un fascista questo gesto?". "Con malinconia" rispose Valori, "ma anche con la consapevolezza che non si possa fare altro. Il fascismo non ha più bisogno di essere regime per dimostrare che aveva ragione: il lavoro svolto nell'ultimo anno dalla camerata De Carli ha portato anche altre forze ad aderire al blocco sociale originato dal nostro partito, un blocco che continua a cambiare il nostro paese, oggi come cinquanta anni fa. Dunque, il fascismo non muore con le eventuali dimissioni di Ciano. Si trasforma e torna nell'alveo delle forze decisive della Nazione". "Ammesso che ce ne fosse bisogno, ribadisco per chi ci ascolta che il P.C.I. non fa parte del cosiddetto blocco fascista" precisò, ancora una volta ironico, Antonio Murgita. "I comunisti ritengono tuttavia che al momento attuale la cosa più importante sia dare al popolo il modo di esprimersi. Se, poi, come noi pensiamo, queste elezioni seppelliranno il regime sotto una valanga di voti democratici e popolari, questo sarà l'effetto di un suicidio voluto solo dal regime fascista. Per l'Italia sarà comunque un sollievo". L'orologio dello studio segnava impietoso che il tempo era scaduto ormai da due minuti.
"...E noi chiudiamo sulle riflessioni, come dire, pungenti di Antonio Murgita" disse mellifluo Vito Maggiani, "che comunque conviene con il segretario del Partito Nazionale Fascista Ardito Valori sul fatto che queste elezioni, convocate su iniziativa del presidente del Consiglio Maria De Carli, dimostrano almeno la coerente volontà del fascismo di mettersi alla prova. Agli elettori trarne le giuste conclusioni. Buongiorno". L'immagine di Maggiani sparì in dissolvenza nella modernissima sigla della tribuna. Marco Diletti si stirò sulla sedia e guardò l'orologio. Era l'una passata. Furbo, Maggiani, a collocare una tribuna interessante come quella in un orario di scarso ascolto. Difficile pensare a una vittoria elettorale dei democratici in condizioni di informazione politica come quelle. Maria De Carli aveva fatto proprio tutti i conti. O forse no, ancora non aveva pensato proprio a tutto. 19 "Che nessuno si muova, arrendetevi alla Milizia fascista!!". L'esclamazione aveva fatto seguito a un improvviso trambusto e a un frastuono di porta abbattuta. Valerio Fortunato, Settimo Fornari e altri sette militanti del Movimento Studentesco erano stati sorpresi dall'irruzione dei poliziotti in nero in un piccolo cineteatro del quartiere Ardeatino. Almeno cinquanta miliziani armati di mitra si disposero davanti al palcoscenico, circondando i militanti radunati intorno a un tavolo. "Inginocchiatevi tutti, mani sopra la testa, bastardi. Così va bene, comunisti figli di puttana!!" imprecava quello che sembrava essere il capo. "E adesso, faccia a terra, gambe larghe, fate vedere bene le mani! E fermi!!". Valerio e Fornari avevano eseguito gli ordini macchinalmente, memori di altre, simili irruzioni. Ma stavolta c'era una punta di violenza in più, una punta di paura che rendeva ancora più spaventoso l'atteggiamento dei miliziani. "Tu, lì, che credi di fare?" urlò di nuovo la voce di prima. Girando la testa, Valerio si accorse con preoccupazione di un altro particolare insolito: sotto il consueto elmetto con visiera, tutti i miliziani portavano un passamontagna. Il capo dei poliziotti si era diretto di corsa verso uno dei più giovani fra i partecipanti alla riunione. Neanche vent'anni, il ragazzo si era alzato sulle ginocchia e si era rifugiato in un angolo, paralizzato dal terrore. "Io... non c'entro, voglio andare a casa..."
ripeteva il giovane alla sagoma nera che gli si avvicinava. "Sì, a casa, comunista di merda, ti ci mando subito!!". Una detonazione risuonò nel silenzio del cinema. Valerio si girò di nuovo e vide con orrore che ora era seduto immobile, la schiena appoggiata al muro, il volto devastato dal colpo di pistola esplosogli contro a bruciapelo. Poco lontano, Settimo Fornari, la faccia appiattita sulle luride assi di legno del palcoscenico, era in preda a un tremito incontrollabile. "Vi dice bene, figli di troia, che vi dobbiamo portare via vivi nel maggior numero possibile!!" riprese ad alta voce l'assassino. "E adesso in piedi, in fila per due, mani sulla testa, guardate solo davanti a voi, se no ne ammazzo un altro!! Di corsa!!". E di corsa, affiancati a destra e a sinistra da due plotoni di miliziani, Valerio Fortunato, Settimo Fornari e gli altri sei superstiti della riunione uscirono dal cinema per salire su un blindato privo di insegne. Una volta sul mezzo, furono ammanettati con le braccia incrociate dietro il tronco e messi a sedere in modo che ciascuno fosse stretto ai fianchi da due poliziotti. Per tutto il tragitto da via Ardeatina a via Tasso Settimo Fornari fissò il vuoto davanti a sé, le labbra serrate in una linea esangue. "Hanno arrestato tuo fratello". Virgilio comunicò con voce piatta a Silvia la notizia. Solo da pochi giorni la ragazza aveva ripreso a uscire, sapeva che Valerio la cercava, ma per precauzione aveva evitato i luoghi in cui i militanti del Movimento si riunivano. La Milizia, ne era certa, sapeva che lei aveva partecipato all'attentato al ministro Paoloni, e portarsi dietro un commando di fascisti armati a una riunione di leader studenteschi era l'ultima cosa che Silvia voleva fare. Così quanto le aveva detto Virgilio l'aveva gettata nella disperazione: suo fratello poteva trovarsi solo fra i torturatori di via Tasso. Lo avrebbero ucciso, era certa anche di questo. Valerio non sapeva nulla del delitto Paoloni. Quanto all'assassinio di Casamassima, Virgilio le aveva fatto capire che Lotta Socialista non c'entrava nulla. Ma se la Milizia aveva cominciato una guerra privata contro gli studenti, nessuno poteva dirsi più al sicuro. Silvia mise perciò le poche cose che le erano servite durante la clandestinità in un piccolo zaino di tela e abbandonò l'appartamento di Monteverde che era stato suo rifugio. Scese in fretta le tre rampe di scale, accogliendo con gioia la freschezza dell'aria. Fuori, finalmente! Le strade le apparivano tranquille, la gente sembrava indifferente come al solito. L'unica novità erano i grandi manifesti elettorali che
tappezzavano i muri. In netta predominanza le facce dei candidati fascisti. Silvia fu attratta da un enorme ritratto sorridente di Maria De Carli: il presidente del consiglio stava in piedi, eretta e sorridente, una mano poggiata sul suo tavolo di lavoro. In alto a destra una frase tra virgolette, 'Una democrazia ordinata per un'Italia moderna'. Per un momento, i colori squillanti del gigantesco manifesto ricordarono a Silvia i messaggi propagandistici di Mao in Cina. La ragazza si scosse e si guardò di nuovo intorno. Proprio niente di straordinario. Poi notò l'Alfa Romeo scura senza insegne che procedeva a passo d'uomo lungo il marciapiedi opposto al suo. Il veicolo si avvicinava lentamente a un'edicola posta a un incrocio. Davanti al chiosco discutevano tre ragazzi, uno dei quali, Silvia lo riconobbe, era il tipografo che stampava fogli e comunicati del Movimento. Lo aveva visto tante volte all'Università e durante le riunioni clandestine convocate da Valerio e da Fornari. La giovane fece per chiamarlo, quando dall'auto si proiettarono fuori quattro uomini incappucciati. Due spianarono subito le pistole contro il terzetto, gli altri si fecero avanti e afferrarono il tipografo. Dopo una breve colluttazione, lo studente fu infilato brutalmente nella vettura, e i sequestratori ripartirono ad alta velocità verso il centro di Roma. Tutto si era svolto in meno di un minuto. I due interlocutori del tipografo si guardarono intorno e, con passo rapido, si dileguarono. Nessuno in strada si era fermato. Silvia, agghiacciata, decise di rischiare: doveva assolutamente sapere qualcosa di Valerio. Si infilò in un autobus diretto verso l'Università. 20 Maria De Carli leggeva attenta il lungo rapporto informativo. I freddi occhi azzurri si spostavano da una riga all'altra senza saltare alcun particolare. Dopo alcuni minuti che sembrarono lunghi un'eternità, lo sguardo della donna si alzò di scatto dai fogli all'uomo robusto che stava in piedi davanti alla massiccia scrivania. "Bene, Ettore, così mi piace!" esclamò all'improvviso Maria De Carli, facendo sobbalzare il suo interlocutore, che per tutto il tempo era stato a torcersi le grosse mani dietro la schiena. Ettore Varchi era stato insieme con Maria De Carli alle scuole superiori e, in seguito, ai seminari di Julius Evola. La sua scarsa propensione per i libri gli aveva fatto però scegliere quasi subito il campo sportivo: lotta,
karaté, pugilato. In breve tempo le sue doti atletiche erano diventate una leggenda nella Gioventù Italiana del Littorio. Ettore Varchi condivideva con Maria De Carli anche l'impostazione politica nazionalsocialistica. Quando Ciano aveva chiamato la donna a guidare il ministero della Cultura e della Comunicazione, Varchi aveva ricevuto segretamente da lei il compito di addestrare una super-Milizia parallela, formata da elementi sceltissimi. Alcuni di loro avevano fatto la loro unica comparsa pubblica come guardie del corpo, quando Maria De Carli era andata a parlare agli studenti all'Università. Il complimento di Maria De Carli aveva fatto fremere Ettore Varchi di eccitazione. Ai suoi occhi, il presidente del consiglio incarnava il capo perfetto: pura, spietata, implacabile. Certo, sapeva che le necessità del momento imponevano al suo idolo di essere conciliante con la spazzatura democratica, ma era sicuro che presto l'Italia sarebbe stata percorsa da una nuova e più radicale rivoluzione. Una rivoluzione fatta su misura per i duri come lui. E come Maria De Carli. "Fino ad ora te la sei cavata bene" riprese il presidente del consiglio gratificando Ettore Varchi di un sorriso smagliante. Poi, atteggiando il volto a quello di una maestra premurosa che interroga l'alunno del cuore, Maria De Carli chiese: "Qual è il prossimo passo?". Ettore Varchi gonfiò l'ampio torace e iniziò a enumerare le tappe sulle tozze dita della mano destra. "L'essenziale in questa strategia" disse, "è alternare i colpi e dosarli opportunamente. Uccidere Casamassima è stato il primo passo. Come dicevi tu, era necessario un grosso sacrificio per dare alla nostra azione la rincorsa di cui aveva bisogno. Poi abbiamo cominciato a seminare il terrore tra le file degli studenti: non solo irruzioni, come in passato, ma anche veri e propri rapimenti per fare capire che nessuno è al sicuro, che li conosciamo tutti, quei figli di papà... E tutto grazie ai tuoi archivi di nuova concenzione, Maria!". "Come va a via Tasso?" chiese all'improvviso Maria De Carli che, per camuffare l'irritazione che le provocavano i modi confidenziali del bruto, aveva nuovamente abbassato gli occhi sul rapporto. "Alcuni ci hanno lasciato la pelle" rispose sprezzante Ettore Varchi. "È incredibile come quei ragazzini possano parlare di rivoluzione e poi cedere di schianto non appena si comincia a picchiarli sul serio!!". L'omone rise tra sé, con un suono gracchiante che fece alzare un sopracciglio a Maria De Carli. La risata si interruppe subito.
"Voglio una cosa pulita, hai capito Ettore? Fa' che si ritrovi un cadavere, uno solo, e sarai tu a provare l'ebbrezza di un interrogatorio a via Tasso. Mi segui?". "Sì, signora". Ettore Varchi si mise automaticamente sull'attenti e tacque. "Vai avanti, che aspetti?" lo incitò impaziente il presidente del consiglio. "La prossima mossa, Ettore". "La prossima mossa è una battaglia di piazza. Il segreto dei cortei studenteschi è stato finora la copertura involontaria, da parte di alcune migliaia di ragazzi, di un nucleo ristretto di cinquanta-cento guerriglieri urbani preparati che guidavano le azioni tattiche e mettevano in difficoltà la Milizia. Sono bravi, i bastardi, si sono letti a fondo tutti i manuali. Si dividono in squadre, si chiamano, si fanno segnali, agiscono, e poi rientrano nel mucchio". "Sei venuto qui per fare i complimenti ai tuoi avversari? Ti pago, e bene, per combatterli!" esclamò minacciosa Maria De Carli. "Ciò a cui volevo arrivare" riprese intimorito Ettore Varchi, "è che oggi anche noi disponiamo di unità del genere, con la sostanziale differenza che i nostri sono specificamente preparati alla controguerriglia. Immagina, Maria, in una manifestazione, il solito cordone di due-tremila miliziani. Da una strada laterale, hop, all'improvviso, spunta un'unità di un centinaio di berretti verdi, vestiti di abiti borghesi. Mettono in scena una provocazione, si fanno inseguire, e poi si danno a ciò per cui sono specificamente addestrati: la lotta corpo a corpo. Raggiungeremmo due obiettivi: il primo, il più immediato, isolare ed eliminare le squadre di guerriglia urbana. Il secondo, e il più importante, far salire la tensione tra Milizia e studenti al punto che i morti potrebbero essere decine, e tu avresti buon gioco nel rimandare indefinitamente le elezioni!". Mentre parlava, Ettore Varchi aveva preso confidenza, e il suo discorso era terminato in un'esclamazione baldanzosa. "Vuoi sedere tu su questa sedia, Ettore?" chiese Maria De Carli con un sorriso ora gelido. "Devo proprio ricordarti che spetta a me trarre le conclusioni dal tuo rapporto?". "No, signora, scusate, cioè scusi, signora..." bofonchiò confuso Varchi tornando immediatamente al lei prediletto da Maria De Carli. "È solo che, dopo tanto tempo, tanta fatica, finalmente si agisce... I ragazzi sono impazienti...". "Digli, Ettore" riprese affettuosa Maria De Carli, "che ora dipende tutto da loro. Oggi gli studenti manifestano per la democrazia e la pace nel centro di Roma. In realtà vogliono soprattutto protestare contro i rapimenti dei loro leader. Verranno da tutta Italia, la polizia ne stima
cinquanta, sessantamila. Dicono che sarà un corteo pacifico, ma saranno nervosi, e noi dimostreremo che il Movimento è in mano a pochi sanguinari. Mi capisci, Ettore? Ora vai!". "Sì signora!!" Ettore Varchi stese la destra nella rigida versione nazista del saluto romano, fece un dietro-front militare e si avviò verso la porta. "Ettore?" chiamò Maria De Carli, lo sguardo fisso sui suoi incartamenti. "Sì, signora?". "Come si comporta il nostro cavallo di Troia?". "Un libro aperto, signora!!" esclamò Ettore Varchi, che salutò di nuovo romanamente e uscì dallo studio di palazzo Chigi. Il telefono squillò a casa di Marco Diletti. La madre, trascinando i piedi nelle consunte pantofole, come sua abitudine tirò su il ricevitore senza aspettare che lo facesse il figlio. "Sì? Sì, è in casa. Ma chi è?". Marco si tirò su dal letto, corse verso il corridoio e strappò la cornetta dalle mani di sua madre. "Pronto, chi parla?" chiese circospetto. "Questo non la interessa" rispose una voce soffocata, certamente contraffatta da un fazzoletto. "La interesserà invece quello che sto per dirle". "Come ha avuto il mio numero di telefono?". "Andiamo, Diletti!" ridacchiò la voce. "Lei è famoso, anche se ultimamente un po' in disgrazia. E proprio per questo la chiamo. Per porre fine a una emarginazione immeritata. Ascolti bene: oggi pomeriggio, a Roma, succederà qualcosa di grosso, ma molto grosso...". "Di grosso? Che intende dire?". "Gli studenti, no? Lo sa che manifestano per la pace e la democrazia?". A Marco, ancora stranito per la mancanza di lavoro, ci volle qualche istante per ricordare. "Ma sì, il corteo!". "Ecco, vedo che ricorda!" rise ancora la voce. "Bene, allora veda di esserci. Tutto succederà fra via Quattro Novembre e piazza Venezia, verso le diciassette-diciassette e trenta. Sempre che i suoi amici studenti siano puntuali!". "Ehi, un momento" fece Marco. "Cosa dovrebbe succedere?". "Farà caldo, Diletti, un caldo rovente. E le sue azioni di giornalista riprenderanno a salire. Io sono un suo ammiratore, sa?". "Chi diavolo è lei? Mi risponda! Io sono un giornalista dell'Immagine Italiana, il mio telefono è sotto controllo!".
"Questo poi non ha alcuna importanza. Arrivederci, Diletti...". La comunicazione si interruppe, lasciando il posto per un momento a un ronzio di linea isolata. Quasi subito, però, si udì di nuovo il consueto suono di libero. Di sicuro qualche trucchetto delle spie della Telefonia Nazionale, pensò Marco cominciando a vestirsi in fretta. "Chi era?" chiese angosciata la madre di Marco. "E tu, dove stai andando?". "È per lavoro, mamma. Sai, le mie fonti riservate...". "Da un po' di tempo sei così nervoso" insistette la madre. "Non sarà ancora quella Maria De Carli? Non fidarti dei fascisti. Servitene solo per la tua carriera". Marco poteva sentire quasi fisicamente le onde di angoscia emesse da sua madre. Che strano, si disse. Trent'anni prima era stata proprio lei a sfidare la sorte facendogli fare pipì contro un fascio di cartapesta. "Marco, fai attenzione!" ripeté la donna. "Stavolta è pericoloso, lo sento. Ma perché non hai voluto fare il professore, come la buonanima di tuo padre?". "Perché lui ci è morto di noia!" disse Marco chiudendosi dietro la porta. 21 Silvia arrivò a metà mattinata nei pressi della stazione centrale 'Dino Grandi'. Attraverso il finestrino dell'autobus poteva vedere una folla che si muoveva fra la piazza Esedra e l'imbocco di via Cavour. Studenti in corteo, capi dagli slogan, a decine di migliaia. Forse la manifestazione più imponente che avesse mai visto. E Virgilio non le aveva detto niente. Davanti alla testa del corteo, ai lati e, si intravedeva, in coda, un vero esercito di poliziotti in nero. Fatta una rapida stima, Silvia fissò a circa ottomila il numero dei miliziani. I fascisti facevano dunque le cose in grande: di sicuro avevano mobilitato tutte le forze presenti nella capitale, più almeno una divisione da fuori. Stavolta, il familiare manganello pendeva solo alle cinture: i poliziotti impugnavano quasi tutti il mitra. Silvia scorse almeno cinquanta grossi blindati seguire il corteo a passo d'uomo. Nonostante l'assetto di guerra, i miliziani sembravano ancora tranquilli, forse rassicurati dalle micidiali armi che impugnavano. Anche gli studenti sembravano per il momento più aggressivi a parole che a fatti. Silvia prese coraggio, scese dall'autobus e lentamente si avvicinò al lungo serpente del corteo. Nessuno fece mostra di riconoscerla o di volerla ostacolare.
Una volta nel gruppo, Silvia si guardò intorno continuando a camminare. Scorse lo striscione del collettivo femminile universitario, riconobbe alcune amiche e si unì a loro. "Ma che fine avevi fatto?" chiese subito Elvira, una bionda grassa che guidava le donne del Movimento. Come al solito, da un angolo della bocca le pendeva una sigaretta. "Sono stata da alcuni parenti" tagliò corto Silvia. "Hai per caso visto Valerio?". "Sono giorni che non si vede, e neanche Fornari" rispose senza interesse Elvira. "Chissà che cosa tramano quelli là. I soliti maschilisti, convocano le riunioni di zona e non invitano le donne!!". "Vuoi dire che Valerio è a una riunione?" chiese Silvia, innervosita. "Ma sì, che ne so, cioè, così si diceva a Giurisprudenza, si dovevano vedere in gruppo per discutere gli appuntamenti politici di primavera. Io, però, non so altro". Silvia sospirò di esasperazione. La debolezza del Movimento stava tutta in questa sciatteria, nella mancanza di collegamenti, nel darsi da fare di pochi, come suo fratello, e nell'indifferenza dei più, che andavano avanti ormai solo per abitudine. Chissà quanto sarebbe durato ancora: certo, cinquanta, forse sessantamila persone in piazza erano il segno di una grande forza da parte del Movimento, ma già si vedevano le smagliature. Si manifestava per la pace e la democrazia, aveva saputo Silvia dagli organizzatori. Parole d'ordine un po' generiche, le sembrava, in un momento delicato come quello. La confortava solo il fatto che gli studenti sembravano disposti a fare massa contro le misteriose sparizioni che da un paio di settimane si verificavano un po' in tutta Italia: nel corteo si succedevano gli slogan contro gli 'squadroni della morte' e, soprattutto, contro Maria De Carli. Così, sia pure con sentimenti contrastanti, Silvia cominciò a godersi la giornata tiepida. Si rimboccò le maniche del maglione e cominciò a scandire anche lei le parole d'ordine del Movimento. Ogni tanto faceva un salto per controllare testa e coda del corteo. Con gioia si rese conto di non riuscire a vedere che un mare compatto di teste. Mentre saltava, tuttavia, Silvia ebbe l'impressione di cogliere un movimento confuso sul lato sinistro del corteo, poco lontano da dove lei si trovava. Contemporaneamente, poco dopo essere entrato in piazza Venezia, il serpentone si arrestò di colpo. Silvia si spostò in avanti, finché non trovò il muro del palazzo che faceva angolo con via del Corso. Arrivò fino al Bar Brasile, le serrande tutte abbassate. Con meraviglia, Silvia si accorse che la
vicina stazione dei carabinieri era chiusa a sua volta. Due occhi impauriti fecero capolino da una fessura, che si richiuse subito. Silvia salì su una delle poltroncine del bar e guardò verso il palazzo della Provincia, da dove venivano clamori sempre più alti e tumultuosi. Dalla piccola strada che dai Fori imperiali conduceva alle spalle di piazza Venezia, un nutrito gruppo di persone agitava bastoni e tirava oggetti contro il corteo. Silvia seguì la traiettoria di uno dei lanci, e dal fumo capì che si trattava di una bottiglia incendiaria. Poi ne vide un'altra, e altre ancora. Vampate si levarono ai margini del serpentone, seguite da acuti lamenti. Il gruppo degli aggressori si disperse subito dopo, non senza che qualcuno levasse in alto il braccio in un provocatorio saluto romano. Improvvisamente la prospettiva di Silvia cambiò del tutto. La ragazza si ritrovò a terra, travolta da centinaia di persone che, forzato il cordone dei miliziani, cercavano di fuggire verso il corso. Stordita, Silvia si trascinò sotto un tavolo del bar. Davanti a lei si svolgeva la più catastrofica scena di panico collettivo cui avesse mai assistito in una manifestazione. Il corteo si era diviso in tanti gruppi, lasciando il vuoto nello slargo fra piazza Venezia e via Quattro Novembre, dove erano state lanciate le molotov. A terra, insieme con cocci di bottiglia fumanti e sampietrini divelti, almeno una trentina di sagome immobili, un paio delle quali avevano gli abiti in fiamme. Silvia pensò assurdamente di gridare loro di stare attenti: un secondo dopo capì che le torce umane erano ormai cadaveri. Capì anche che molti degli altri corpi erano stati calpestati a morte dai cinquantamila in fuga e che, per evitare la stessa sorte, doveva togliersi dal precario riparo del tavolino. Silvia fece per strisciare fuori dal suo nascondiglio, ma fu ricacciata sotto la piastra di formica da una serie di detonazioni secche in rapida successione. Guardò avanti a sé, verso la via del Plebiscito, e comprese che quanto rimaneva della testa del corteo stava forzando a sua volta il blocco dei miliziani per proseguire verso largo Argentina. I poliziotti in nero, contagiati dal panico, avevano cominciato a sparare. Quindi Silvia udì altre detonazioni, meno acute, come scoppi di petardi. Conosceva quel suono troppo bene per non rabbrividire. Quelle erano le pistole calibro 38 comunemente usate dalle formazioni studentesche armate. Silvia vide che il grosso delle forze di sicurezza, concentrato intorno a quella che era stata la coda del corteo, cominciò a sua volta a fare fuoco in aria per spingere in avanti gli studenti. Silvia aspettò che la fila di blindati la superasse per alzarsi con fatica e cercare riparo nelle stradine intorno al corso. Era
arrivata all'altezza di via dell'Umiltà quando vide, poco lontano, un gruppo di una cinquantina di ragazzi e ragazze, tutti disarmati, fuggire in preda al terrore verso piazza del Collegio Romano, dove aveva sede il primo distretto di polizia. Silvia li seguì con lo sguardo. Come la maggior parte dei manifestanti, vista la giornata primaverile, quasi tutti calzavano sandali o zoccoli. Molti, nella fuga, inciampavano e cadevano. Silvia ebbe appena il tempo di ringraziare la buona sorte per avere scelto leggere scarpe chiuse, quando si accorse che le porte del primo distretto di polizia si erano chiuse davanti agli studenti in cerca di aiuto. Invano alcuni dei fuggiaschi cominciarono a bussare violentemente. Silvia vide alla fine da cosa scappavano i ragazzi: un commando di una decina di incappucciati, vestiti di una tuta mimetica verde-oliva. Il manipolo si fermò a circa venti metri di distanza dal suo obiettivo, disponendosi a semicerchio. Poi risuonò una serie di scariche di mitra che a Silvia pareva non dovesse mai finire. La ragazza rimase a guardare incredula le sagome degli studenti che, una dopo l'altra, si abbattevano a terra. Terminata la mattanza, due degli incappucciati cominciarono a girare fra i corpi. Uno si chinò, afferrando per i lunghi capelli biondi quella che a Silvia sembrava essere una ragazza. L'assassino tirò fuori un lungo coltello da caccia e, con un gesto rapido, tagliò la gola della sua vittima. A Silvia sfuggì un gemito di orrore. Gli incappucciati tirarono su la testa come animali da preda, guardandosi intorno a destra e a sinistra. Poi, forse attratti da un altro obiettivo, abbandonarono la piazza per sparire in direzione del Pantheon. Virgilio non aveva mai visto unità del genere in azione prima di quel momento. Dopo il lancio delle molotov, la stragrande maggioranza dei dimostranti, studenti medi e universitari, era fuggita da piazza Venezia in preda al terrore. Lui e gli altri del servizio d'ordine di Lotta Socialista, insieme con i compagni in armi provenienti da altre città si erano organizzati in dieci squadre da trenta unità ciascuna. Era il massimo delle forze che la lotta armata aveva mai messo in campo per una manifestazione di piazza. Il problema era che da attaccanti, quali in genere le squadre erano, stavolta esse dovevano imbastire una difesa efficace e cercare di impedire che il grosso degli studenti, militarmente impreparati, finissero per cadere vittime dei miliziani. Virgilio abbandonò tuttavia il secondo obiettivo non appena i poliziotti in nero cominciarono a sparare tutti insieme provocando i primi morti nella testa del corteo: non era possibile fare niente per migliaia di persone in
preda al panico. Il giovane con il codino cominciò quindi a dare disposizioni per rendere dura la vita ai miliziani e a quei misteriosi incappucciati che attaccavano da tutte le parti. "Aquila, Lupa, a destra!" gridò Virgilio, dopo avere visto due figure allontanarsi verso via de Funari. L'avanguardia della prima squadra, dieci uomini con in pugno le P38, aveva appena superato l'angolo della vecchia strada del ghetto, quando si udirono alcuni gemiti soffocati. Virgilio arrivò sul posto in tempo per vedere tre compagni giacere a terra con le gole tagliate. Altri due si tamponavano con le mani ferite da taglio al tronco, mentre i superstiti vuotavano il tamburo delle grosse armi contro sagome oscure che si dileguavano nell'ombra. Un tranello, pensò Virgilio, che non poté fare a meno di ammirare la spietata efficienza delle squadre della morte. Si erano appostati, vedeva, dietro un paio di cassonetti della spazzatura appena dopo l'incrocio e li avevano rovesciati contro i compagni in arrivo. Una volta atterrati i loro avversari doveva essere stato un gioco da bambini ucciderli. Abbiamo a che fare con assassini spietati, pensò Virgilio, gente capace a quanto pare di odiare più di noi. Le riflessioni del terrorista furono interrotte bruscamente da un altro attacco. Una mezza dozzina di incappucciati si materializzò dal nulla, apparentemente sbucata da un portone alle spalle di Virgilio. Il commando aprì il fuoco con i mitra, falciando il resto della prima squadra di Lotta Socialista, per poi lanciare una granata nel resto del mucchio. Virgilio, che aveva intuito il movimento dietro di sé, fece appena in tempo a ripararsi con un balzo dietro uno dei cassonetti abbattuti nel primo agguato. A una violenta esplosione fece seguito un silenzio opprimente. Virgilio alzò la testa al di sopra del suo riparo. Davanti a lui, i corpi dilaniati di almeno una ventina di persone. Gli altri compagni erano spariti nelle viuzze adiacenti. Dei misteriosi aggressori, nessuna traccia. Il giovane con il codino si rialzò lentamente e, tenendosi un braccio leggermente escoriato da una scheggia, si allontanò a sua volta, costeggiando i muri. 22 Silvia non sapeva quanto avesse corso. Forse per un quarto d'ora, forse di più. Da quando aveva lasciato dietro di sé il sangue di piazza del Collegio Romano aveva perso ogni nozione del tempo. Confusa, aveva
pensato solo ad allontanarsi il più possibile, ma un paio di volte, senza volerlo, era sbucata di nuovo sulla scena della carneficina. Al terzo giro a vuoto, la ragazza si scosse e si disse che, se avesse continuato a vagare in quello stato, sarebbe stata facile preda degli assassini con il passamontagna. Ce n'erano senz'altro molti in giro, e certo non desideravano lasciarsi dietro dei testimoni. Silvia si sforzò di pensare, e decise di allontanarsi verso Trastevere. Aveva ben visto gli studenti cercare di aprirsi un varco verso largo Argentina e sapeva che gli stretti vicoli al di là del fiume da sempre fornivano un riparo sicuro ai dimostranti. In quella zona della città Silvia conosceva molti amici: forse avrebbe potuto trovare ospitalità. Forse. Si guardò in una vetrina infranta per metà: i capelli scarmigliati, sul volto un taglio di cui non si era accorta, le mani erano ricoperte di escoriazioni. Come se le era procurate? Non ricordava. Da quando aveva visto sgozzare la ragazza dai capelli lunghi non ricordava più niente. All'improvviso, nel silenzio di quel dedalo di stradine abbandonate, Silvia avvertì un fruscio. Si girò di scatto verso la fonte del suono, ma in quel mentre, nella direzione opposta, una lattina di metallo venne gettata a rotolare sul selciato. Silvia si girò di nuovo, e dopo pochi secondi una grossa mano le coprì la bocca, mentre un braccio la tirò brutalmente verso il buio di un vecchio portone. Silvia si dimenò, scalciò, ma non riuscì a liberarsi. Con la coda dell'occhio vide dietro di sé due neri occhi allucinati che la spiavano dall'apertura di un passamontagna. L'uomo continuò a trascinare Silvia all'interno del fabbricato, percorse con la sua preda un piccolo andito e si fermò infine all'interno di un piccolo cortile. L'incappucciato tolse di colpo la mano dalla bocca di Silvia e con l'altro braccio proiettò la ragazza contro un mucchio di calcinacci. L'urto tolse a Silvia tutto il fiato. Per qualche secondo la ragazza annaspò in cerca d'aria, poi finalmente la trovò e proruppe in un urlo lacerante. "Grida, grida pure quanto vuoi" disse con affanno l'incappucciato, "tanto qui non ti sente nessuno. E anche se ti sentissero, nessuno farebbe niente. Non oggi. Non più. Hai visto, no? Ci stiamo occupando di voi. E io adesso mi occuperò di te...". L'uomo posò il mitra e si tolse il cappuccio: quest'ultimo particolare agghiacciò Silvia. Poteva solo voler dire che il suo rapitore si apprestava a ucciderla. Urlò ancora e ancora. L'assassino, irritato, la colpì forte due volte, con il palmo e il rovescio della mano. Silvia ammutolì, stordita, riversa sul pavimento del cortile. Un filo di sangue le scendeva dalle labbra spaccate. Gli occhi velati distinsero a
malapena la sagoma dell'uomo che si accovacciava su di lei. Improvvisamente, una detonazione. 'Mi ha sparato', pensò Silvia, che avvertiva un fluido caldo bagnarle il collo. Poi l'uomo le si accasciò sopra senza più muoversi, e Silvia capì che si trattava del sangue di lui. Aprì gli occhi. Davanti a lei, la pistola ancora fumante in pugno, stava Virgilio. Entrambi esausti e sanguinanti, sostenendosi a vicenda, i due giovani si lasciarono alle spalle il cadavere del miliziano e si allontanarono verso Trastevere. All'altezza di largo Arenula e del ponte che attraversava il fiume dovettero fermarsi: nella zona era in corso una vera e propria battaglia. Un centinaio di giovani, molti dei quali erano armati di pistola e alcuni di mitra probabilmente sottratti a miliziani, avevano messo di traverso alcune auto e sparavano contro un cordone di poliziotti in nero riparato dietro due blindati. Fra i due schieramenti vi era una vasta terra di nessuno, uno spiazzo di asfalto su cui giacevano, immobili, alcuni corpi. Di colpo, lo scenario cambiò. Dai portoni di servizio del ministero della Giustizia uscirono alcuni reparti di incappucciati, che presero alle spalle i dimostranti armati. Furono lanciate un paio di granate ed esplose decine di raffiche di armi automatiche. La barricata difesa dagli studenti si trasformò in una trappola. Alcuni fuggirono verso le strade laterali, e fu la loro salvezza. Altri si lanciarono d'istinto in avanti, verso i blindati della Milizia, e furono falciati senza pietà. Quelli che rimasero dietro la barricata furono finiti a colpi di coltello dalle unità speciali. A sparatoria terminata, Silvia e Virgilio contarono almeno una sessantina di corpi. Nascosti dietro un tabellone elettorale, seguirono le ultime operazioni della Milizia. Uomini in divisa e in borghese parlavano animatamente dentro grosse radioricetrasmittenti, che rimandavano scariche e cicalini di risposta. Altri uomini armati, fra i quali vi erano sia incappucciati sia persone in abiti borghesi, si aggiravano fra i corpi e i detriti sparsi su tutta l'area compresa fra la zona del ministero della Giustizia e il ponte Regina Margherita. Unità dei Vigili del Fuoco, i volti impenetrabili sotto gli elmetti, spegnevano le fiamme che si levavano dalle automobili abbandonate in mezzo alla strada. Reparti della polizia erano intanto confluiti a largo Arenula, e stavano rapidamente sgomberando il piazzale dai corpi. Anche gli agenti, notò Silvia, avevano la stessa smorfia dei Vigili del Fuoco. Paura, forse, impotenza, come negli occhi del carabiniere di piazza Venezia. "È come se eseguissero ordini che non condividono, non vi pare?" chiese una voce alle spalle di Silvia e Virgilio.
I due ragazzi sobbalzarono. Il giovane con il codino si girò impugnando la pistola. La canna dell'arma toccò il ciuffo sulla fronte di Marco Diletti. "E tu da dove sbuchi?" chiese Silvia quasi gridando. "Zitta, scema, vuoi farci prendere?" sibilò Virgilio, che con uno scatto agguantò il giornalista facendolo accucciare vicino a loro. Marco si ritrovò la gola artigliata da una presa di ferro. "Non ti posso sparare, è vero" sussurrò Virgilio, "ma posso strozzarti senza farti dire nemmeno 'ah'... Allora, chi sei e cosa ci fai qui?". "Fermo, Virgilio, non lo riconosci?". "Chi Cristo... Ma sì, sei quello che intervistava la De Carli!!". La morsa intorno al collo di Marco cominciò a farsi intollerabile. Il giornalista si sentì mancare. "Fermati, ti dico, Virgilio!" implorò di nuovo Silvia, sforzandosi di non gridare. "Chi glielo faceva fare a venire qui da solo? Lascia almeno che si spieghi!". Finalmente Marco sentì rilasciare la presa delle dita di acciaio intorno alla gola, e si afflosciò, appoggiandosi al tabellone. "Vi seguo da qualche isolato..." disse con affanno, massaggiandosi il collo "Ho seguito tutta la manifestazione mischiandomi con gli studenti, poi sono scappato come tutti quando hanno lanciato le molotov e le bombe a mano. È un inferno, non avete idea di cosa succede. Ho visto gente incappucciata fucilare decine di ragazzi inermi...". "Li abbiamo visti anche noi..." sussurrò Silvia. Marco prese fiato e ricominciò a parlare. "A un certo punto ho raccolto questa..." e mostrò una ricetrasmittente come quelle che usavano i miliziani. Regolò il volume al minimo e accese l'interruttore. Dalla macchina iniziarono a uscire ronzii mischiati a voci concitate. "...Tango due, quante unità neutralizzate, passo?...". "...Qui Tango due, capo Alfa, ne conto sessanta, cambio... Qui Sparviero sei, ottantatré unità neutralizzate, duecentododici inviate a Base Uno, passo... Parla Delta quattro, venti neutralizzate, ottantadue a Base Uno...". Marco spense la radio. "Capite?" disse tremando. "Le unità neutralizzate sono morti o feriti, quelle inviate a Base Uno sono prigionieri da portare a via Tasso..." Marco ridacchiò isterico. "Va avanti così da due ore. Ho tenuto il conto delle loro maledette unità neutralizzate, ma quando sono arrivato a seicento ho smesso... Vi rendete conto? Forse hanno fatto seicento morti, là fuori, forse ancora di più!! . "Bisogna andarsene da qui" esclamò all'improvviso Virgilio. "Se ci
trovano andiamo ad arricchire la lista... Senti un po', tu" disse rivolgendosi a Marco, "hai capito dove stanno portando i prigionieri? Se sono migliaia come dici non possono concentrarli tutti a via Tasso". "No, infatti" rispose Marco tenendosi le mani sul volto. "Ho contato dieci basi, fra le quali due che chiamano Base Olimpica e Base Flaminia. Secondo me...". "...È ovvio" tagliò corto Virgilio. "Li stanno concentrando nei due stadi... Va peggio di quanto immaginassi. La cosa è sfuggita loro di mano. Non credo vogliano lasciare testimoni...". "Ma come è possibile?" esclamò Silvia soffocando nuovamente un grido. "Fra un mese ci sono le elezioni, come possono permettersi una cosa del genere?". "Quali elezioni?" sibilò Virgilio. "Non ci saranno più elezioni. Non dopo questo. Oggi il massacro, domani per strada ci saranno i carri armati...". "Ha ragione, purtroppo..." intervenne Marco. "In redazione abbiamo i telefoni tutti isolati, e le telescriventi battono righe incomprensibili. Stanno tagliando fuori l'Italia dal mondo civile. Almeno per un po', finché non avranno fatto tutto il lavoro sporco e Maria De Carli non sarà comparsa in video ad annunciare di avere schiacciato un colpo di mano bolscevico...". "Conosci bene il copione, vero, giornalista?" ruggì Virgilio frenando a stento l'ira. "Come lo conoscevi quando leccavi i piedi a chi ha organizzato tutto questo, il tuo presidente Maria De Carli!! E ora, con tutti questi morti sulle spalle, verrai anche a dirci che dovremmo fidarci di te, non è vero? Ma piuttosto io ti sparo qui e faccio venire la Milizia. Tanto è tutto perduto!". Virgilio si alzò in piedi e puntò di nuovo l'arma contro il volto di Marco. "No, Virgilio, no" disse Silvia mettendosi fra i due uomini. "Basta sangue. Ora bisogna andare via. Con la ricetrasmittente sapremo come si spostano i miliziani e le loro maledette unità speciali. Riaccendila, Marco. Forse ce la facciamo ad arrivare a Trastevere. 23 Settimo Fornari sobbalzò sul lettino in ferro su cui tentava invano di addormentarsi da più di tre ore. Ancora un grido, ancora un maledetto grido. Possibile che non lo lasciassero in pace? Eppure aveva detto loro tutto quello che sapeva. Erano giorni, ormai, che si trovava in una camera di sicurezza di via Tasso, illuminata notte e dì da una lampadina ancora più
fioca di quelle comunemente usate a Roma. Poco dopo l'arresto era stato interrogato da uno smilzo funzionario in divisa, che era sembrato soddisfatto del nulla che gli aveva raccontato. Poi, una volta tornato in cella, proprio mentre rideva fra sé della stupidità dei fascisti, erano entrati i due robusti guardiani in maniche di camicia. Indifferenti, eppure sistematici, per venti interminabili minuti i due energumeni lo avevano pestato senza dire una sola parola. Calci e pugni sferrati nelle parti molli del corpo, senza lasciare segni. Il giorno dopo Fornari aveva chiesto di parlare con il funzionario smilzo. Gli aveva raccontato ogni cosa: programmi e strategia del Movimento Studentesco e di Lotta Socialista, nomi e indirizzi dei militanti che conosceva, le sedi principali. Tutto, pur di non provare più quel dolore atroce. Alla fine della deposizione, il funzionario se ne era andato, impenetrabile come il giorno prima, e Fornari era stato trascinato di nuovo nella camera di sicurezza. Là era cominciato il peggio. Le vecchie mura lasciavano passare ogni suono: Fornari udiva urla, gemiti, imprecazioni, preghiere. Dopo del tempo che non riusciva a quantificare - due, tre giorni forse? - gli era parso addirittura che le urla si fossero fatte più acute e frequenti, come se nuovi prigionieri fossero stati condotti a via Tasso. A Fornari sembrava di impazzire. Gli pareva quasi di vederli tutti, i compagni traditi, mentre varcavano increduli la soglia di quel palazzo cupo che era sinonimo di terrore e di morte. La morte, già. Perché non lo avevano ucciso? Ormai non poteva più servirli. Si era venduto per poco: tutto quello che sapeva in cambio di due costole rotte. Ancora un grido. Alto, prolungato. Fornari sapeva di avere conosciuto solo il primo livello della tortura praticata in via Tasso. Dopo il pestaggio in cella veniva quello in sede di interrogatorio, prima senza strumenti, poi con macchinari sempre più elaborati. Da alcuni compagni aveva sentito dire che gli scantinati del vecchio palazzo ospitavano complicate apparecchiature un tempo appartenenti al Tribunale del Santo Uffizio. Si vociferava di antiche ruote, di vergini di Norimberga. Fornari, da buon sociologo, aveva sempre riso di quella che gli suonava come una leggenda metropolitana. Ma ora... Ora, udendo grida che così poco avevano di umano, quasi riusciva a vedere anche loro, gli ingranaggi che straziavano membra, le punte che perforavano tessuti, i denti che frantumavano ossa... Basta, basta, non poteva continuare a sprofondare. Il terrore lo avrebbe
inghiottito per sempre, precipitandolo nella pazzia. Cercò di pensare al libro che stava scrivendo in quei mesi, un'analisi delle contrapposizioni sociali nel capitalismo avanzato. Masse di operai manipolate nel processo produttivo come pedoni su un'immensa scacchiera, una forza cieca che solo l'energia delle avanguardie proletarie armate e delle loro fulminee azioni poteva sottrarre al padronato e trasformare in quella classe cosciente di sé che avrebbe fatto la rivoluzione preconizzata da Marx. Una folla sterminata di donne e di uomini guidati da un'élite di scienziati della società, un esercito invincibile che si gettava... dentro una bocca mostruosa, irta di zanne lorde di sangue! Settimo Fornari si tirò su di scatto a sedere sul letto: si era addormentato senza rendersene conto. Si alzò e cominciò a percorrere avanti e indietro i cinque metri per due della sua cella, tamponandosi le orecchie per non sentire più niente. Di colpo, un'eco metallica di chiavi girate in una grossa serratura, la porta della camera di sicurezza si aprì all'improvviso. "Fornari, vieni fuori". Era uno dei due carcerieri che lo avevano picchiato un'eternità prima. Settimo Fornari si andò ad accovacciare nell'angolo più lontano della cella, cominciando a singhiozzare. "Che piangi, idiota" lo rimproverò l'aguzzino. "Vieni in parlatorio, c'è una visita per te. È un personaggio importante, perciò vedi di sbrigarti!". "Cammina dritto! Faccia a terra! Non guardarti intorno!". Fornari si adeguò macchinalmente ai comandi che gli venivano impartiti. Fissandosi così le punte delle scarpe prive delle stringhe, arrivò senza accorgersene alla sala colloqui. "Fermo ora! Attenti! Guarda davanti a te!". Fornari alzò la testa. Davanti a lui, un brutto tavolo di formica e due rozze sedie. Su una sedeva, le gambe elegantemente accavallate come se fosse accomodata su un divano di raso, il presidente del consiglio Maria De Carli. "Professor Fornari" esordì la donna "non posso dire che sia un piacere rivederla qui...". "Cosa vuole da me?" replicò stanco il sociologo, che si era abbattuto sull'alta sedia. "Chieda piuttosto cosa può fare lei per il suo paese, Fornari..." disse ironica Maria De Carli "Ricorda? Era una delle frasi preferite di John Kennedy, uno dei maitre à penser dei suoi studenti... Ma torniamo a lei, adesso...". Il presidente del consiglio si sporse verso il prigioniero, guardandolo quasi con curiosità. "Lei, Fornari, è un detenuto e non può saperlo ancora, così glielo dico io: oggi pomeriggio a Roma c'è stata una vera e propria battaglia di piazza fra studenti e Milizia. Secondo quanto dicono al Viminale, i morti sarebbero oltre trecento, buona parte
dei quali tra le forze dell'ordine". Settimo Fornari abbassò il capo e se lo prese fra le mani. "E non è tutto" riprese la donna, implacabile. "I suoi studenti, tutti Marx, Kennedy, Gandhi e non violenza, hanno usato bottiglie incendiarie, pistole, armi automatiche e perfino bombe a mano contro la Milizia. E sono stati proprio loro a incominciare lo scontro. Così abbiamo ritenuto di usare la mano pesante. Più di ventimila studenti sono stati fermati e radunati nei due stadi Olimpico e Flaminio". "Non mi ha detto ancora cosa c'entro io con questo..." mormorò Fornari "Mi avete arrestato, se ricordo bene, più di una settimana fa...". "Non faccia torto alla sua intelligenza, e alla mia, Fornari!" esclamò indignata Maria De Carli. "Le sto dicendo che c'è stato l'inferno fino a poco fa nel centro di Roma! Ci sono incendi ovunque e centinaia, capisce, centinaia di vittime! E la responsabilità è sua!!". "Mi spieghi come!". "Come? Ma con il plagio di migliaia di menti, con l'incitamento continuo alla sovversione, con la giustificazione dell'assassinio se solo questo può servire a uno scopo politico!". "Sta parlando di me o di se stessa?". "Sto parlando di LEI, Fornari" si indignò Maria De Carli, "per la buonissima ragione che da quella parte del tavolo c'è lei e non ci sono io. È lei ad essere stato accusato di cospirazione contro lo Stato, associazione per banda armata e concorso negli omicidi dei ministri Antonio Paoloni e Adolfo Casamassima". "Nessuno mi ha contestato nulla, finora" rispose Fornari con voce tremante. "Già, finora", puntualizzò Maria De Carli. "E forse nessuno potrebbe mai contestarle la maggior parte di queste accuse...". "...A patto che?..." interruppe il sociologo. "...A patto che lei stasera compaia in televisione, sconfessi i sovversivi che hanno provocato una strage nel centro di Roma e dichiari sciolto il Movimento politico universitario, assumendo su di sé e su Valerio Fortunato la responsabilità del fatto politico-criminale più grave di tutti i tempi". "E se rifiutassi?". "La lascerei a marcire qui, come merita. Mi creda, nessuno, specie con le misure che stiamo per promulgare, sentirà da domani la sua mancanza. Se volesse collaborare, allora per lei si potrà forse parlare di un processo e di un periodo ragionevole nelle Regie galere... Senza contare che, qualora lei
non desiderasse collaborare, possiamo sempre lasciare mano libera alla Milizia all'Olimpico e al Flaminio: capirà, i miei poliziotti sono un po' arrabbiati con i suoi studenti...". "Ma se dico in televisione quello che mi chiede sarò considerato un criminale!". "E non è vero, forse? Fornari, lei è un politico, e come tale tende spesso a superare questa sottile linea di frontiera. Lei, io, siamo di mestiere giocatori d'azzardo. A volte, rischiando tutto, vinciamo l'intera posta in palio. Altre volte perdiamo ogni cosa. Ed è sempre la forza a decidere, dovrebbe saperlo. Allora, comparirà in televisione, stasera?". Settimo Fornari affondò la testa fra le spalle e annuì lentamente. 24 Galeazzo Ciano finì di bere l'ultimo sorso di scotch rimasto nel bicchiere. Macchinalmente andò a versarsene dell'altro, senza accorgersi che la bottiglia era ormai vuota. Con un gesto brusco del braccio spazzò il suo tavolo di lavoro, mandando vetri e cristalli a frantumarsi sul pavimento. Con difficoltà si alzò e per un momento si sentì venire meno. Si avvicinò alla finestra e la aprì. L'aria fresca dissipò lo stordimento e gli fece rivivere la scena vista poco meno di tre ore prima: il lungo serpentone del corteo studentesco, gli slogan e il cordone della Milizia, poi il gruppo di provocatori che aveva lanciato le bottiglie incendiarie e la strage. La battaglia in piazza Venezia era durata solo qualche minuto, il tempo necessario al Capo del Fascismo per assistere, impotente, alla disastrosa fuga degli studenti e alle prime uccisioni. Paralizzato dallo stupore, Ciano aveva visto la coda del corteo disperdersi e finire sotto il fuoco dei mitra di un commando di incappucciati. Lo stupore si era tramutato in panico quando quegli stessi uomini avevano falciato una dozzina di studenti, e abbattuto a sangue freddo anche le due camicie nere rimaste imbambolate nelle loro garitte sotto il balcone di Palazzo Venezia. Il Capo del Fascismo aveva tentato di mettersi in contatto prima con il presidente del consiglio, poi con il Re, ma le linee telefoniche erano mute. Aveva anche tentato di uscire; i due miliziani di guardia allo studio che era stato del Duce avevano però incrociato minacciosi i fucili, costringendolo a rimanere dov'era. Ciano respirò ancora, profondamente, l'aria della sera, piazza Venezia e via Quattro Novembre erano ormai sgombre di rottami, detriti e corpi. Per
ultimo, un reparto di Vigili del Fuoco aveva perfino lavato la strada. Salvo alcune serrande divelte e qualche portone annerito dal fumo, non si notava più niente di strano. Ciano batté un pugno contro la cornice della finestra. È solo questione di tempo e verranno ad arrestarmi, disse fra sé. La paura, cara vecchia amica. Ciano l'aveva conosciuta da ministro degli Esteri di Mussolini, ai tempi del Patto d'Acciaio con la Germania. Temeva i tedeschi, sapeva che non ci si poteva fidare di loro. Così, disperando per la propria sorte, quando un anno dopo Hitler si accordò con Stalin, aveva scongiurato il Duce di aprire gli occhi. Aveva lottato, Galeazzo Ciano conte di Cortellazzo, si era guadagnato l'odio di Ribbentrop, il gelido ministro degli esteri del Führer, ma era riuscito a comunicare un po' della sua paura anche al suocero. Così, quando Hitler attaccò in meno di un anno Polonia, Francia, Belgio, Paesi Bassi e Norvegia, la diplomazia internazionale attribuì all'influenza del moderato e antitedesco Ciano il fatto che Mussolini decidesse, a sorpresa, per la neutralità. Un grande successo per un politico di neanche quarant'anni; un successo che, paradossalmente, finì per isolare Ciano e accrescere ancora di più la sua paura. Gerarchi moderati, come Grandi e Bottai, lo guardavano con disprezzo, continuando a considerarlo un inetto dotato solo di fortuna. Farinacci, il filonazista, lo odiava con trasporto e lo accusava pubblicamente di tradimento. Perfino il Duce sospettava di lui: stizzito, il fondatore del Fascismo scorreva gli articoli dei giornali stranieri che esaltavano il ruolo politico del genero, e a sua volta temeva che questi, forte della popolarità guadagnatasi nei paesi occidentali, tramasse per sostituirlo al vertice dello Stato. Per tutti i successivi quattro anni di guerra in Europa e neutralità italiana le bocce della politica a Roma erano pertanto rimaste immobili, con tutti i protagonisti ben attenti a evitare ogni passo falso. Era nata così, ricordò Ciano, la stella del ministro Adolfo Casamassima, anima della Milizia e profondo conoscitore degli umori della gente. La sua mediazione fra le correnti del regime era stata inevitabile. Ma la paura di Ciano era divenuta terrore all'indomani dell'improvvisa morte di Mussolini il 25 luglio 1944. In quei giorni tumultuosi Galeazzo viveva sul filo del rasoio, certo che un plotone di miliziani guidato da Farinacci avrebbe fatto irruzione a villa Torlonia per metterlo davanti a un muro e fucilarlo su due piedi. Aveva anche pensato alla fuga, ma sua moglie Edda era voluta rimanere insieme con tutta la famiglia a vegliare a Palazzo Venezia la salma del padre. Quando nel salone del Mappamondo
si presentarono Casamassima, Bottai, Grandi, Pavolini e proprio Farinacci, Ciano si era sentito perduto. Pallido, si era avvicinato ai gerarchi, cercando di interpretare la strana luce nei loro occhi. Era così confuso che dovette farsi ripetere per tre volte da Casamassima la decisione collegiale di fare di lui, il suocero di Mussolini, il successore del Duce. Aveva capito, Ciano, di essere caduto in un'altra e non meno insidiosa trappola: spingerlo in quel momento sul balcone di Palazzo Venezia voleva dire fare di lui un burattino, i cui fili sarebbero stati tirati dalla fazione che di volta in volta sarebbe prevalsa. Grazie a Dio, aveva pensato allora, la corrente favorevole alla guerra a fianco della Germania era rappresentata dai soli Farinacci e Pavolini. Casamassima, il cui ruolo era ormai decisivo, aveva già chiarito che, in un momento come quello, con i tedeschi allo sbando in seguito alla morte di Hitler, i russi all'attacco in Europa Orientale, gli Anglo-americani in Francia e in Marocco, per l'Italia entrare in guerra al fianco di Berlino sarebbe stato un suicidio. Così Galeazzo, con la paura fedele amica al suo fianco, fu Duce. E per paura, non per volontà di riforme, subito dopo l'armistizio chiesto dai tedeschi, cominciò ad ammorbidire il regime. Cos'altro avrebbe potuto fare? Ormai votato per il resto dei suoi giorni all'appoggio del suo subalterno Casamassima, era di fatto solo. Temeva i suoi nemici nel fascismo, ma ancor di più temeva la reazione popolare: sapeva bene che l'opposizione si era risollevata dopo la morte di Hitler e Mussolini, come sapeva che il nuovo Re Umberto II, al contrario di Vittorio Emanuele III, guardava con fastidio agli uomini in camicia nera. E sapeva, infine, che il carismatico papa Pio XII, dopo la scomparsa dell'ex ateo Mussolini, si aspettava segnali precisi da un nuovo Duce che non era mai stato un rivoluzionario. Così Galeazzo aveva capito di avere un unico modo per sopravvivere: avvicinarsi a Quirinale e Vaticano, dare fondo a tutte le sue doti di diplomatico per accreditarsi, sotto sotto, come un liquidatore di lungo periodo per un regime che sopravviveva solo per evitare convulsioni rivoluzionarie e colpi di mano comunisti, ora che l'Unione Sovietica spadroneggiava dall'Artico al Mediterraneo. Un liquidatore soffice e seducente, che amava le donne, il cinema e il buon vino, che in trent'anni aveva finito per trasformare l'Italia dalla casereccia caserma voluta da Mussolini a un paese un po' sonnacchioso: un paese che però, con discrezione, poteva sperimentare dosi minime e innocue di democrazia. Ancorare alla propria figura questa evoluzione, sapeva Ciano, lo avrebbe
messo al di sopra delle parti quel tanto che bastava per scordare un po' di paura. La sua giovane età rispetto a quella dei potenziali rivali lo aveva anche messo col tempo al sicuro da colpi di palazzo: scomparsi Farinacci, Bottai e Grandi, l'unico pericolo veniva a Ciano dal coetaneo Alessandro Pavolini, protettore degli oltranzisti. Ma anche Pavolini, pochi anni prima, era uscito di scena dopo una lunga malattia, lasciando come scomoda eredità solo un gruppo di fanatici, confusamente a metà strada fra Hitler, Mussolini e Mao-Tse-Tung. Il vecchio Julius Evola, poi, da sempre aveva avuto la vocazione del monaco più che del politico. Erano cambiate così le facce in Gran Consiglio, e perfino gli sguardi. Le nuove leve, quasi tutti trentenni o quarantenni cresciuti nell'Italia del dopoguerra, non sapevano fare né potevano permettersi le espressioni sarcastiche o minacciose dei vecchi. Perfino Casamassima sedeva in un angolo, apparentemente senza alcuna velleità di contestazione. Ciano aveva così scoperto il gusto del potere, e sublimava la propria paura - sempre lì sotto, come una belva in agguato - gustando quella ancora più palpabile dei suoi interlocutori. Finché... Finché all'orizzonte non era comparsa Maria De Carli. La conosceva più o meno da quindici anni, quando era ancora stretta collaboratrice di Alessandro Pavolini. Una donna bella e intelligente. Arrogante, ma di valore. Tutta d'un pezzo, ma sarebbe cresciuta. Ciano non poteva lasciarla nelle retrovie. Ma da quando, nel 1970, Maria De Carli era diventata ministro della Cultura e della Comunicazione e membro del Gran Consiglio del Fascismo, Ciano aveva riscoperto il sapore acido della paura. Un interlocutore che osava contestarlo! E che, cosa ancora più grave, con la sua personalità riusciva a tirarsi dietro gli altri gerarchi: Scola, Paoloni, Casamassima. Con Maria in Gran Consiglio Ciano aveva capito che il proprio crepuscolo era cominciato. Occorreva quindi gestirlo sapientemente, preparare una fuoriuscita dignitosa. Un dovere, per un uomo che aveva retto un paese per trentadue lunghi anni, dieci in più dell'ormai divinizzato suocero. Ma ora, proprio ora che il più sembrava fatto, proprio ora che, come nei manuali di politica, Ciano sembrava avere neutralizzato la fronda di Maria De Carli condividendo con lei le chiavi del Palazzo, la storia - e la paura si prendevano la loro rivincita. Ciano, lo sentiva, pagava la facilità con cui era asceso al potere assoluto finendo vittima della sua stessa creatura. E così, prigioniero in quella che
dal 1944 era stata insieme la sua prigione e la sua reggia, attendeva che il nuovo padrone decidesse cosa fare di lui. Come mai in precedenza, Galeazzo sentiva la morte vicino a sé. Sapeva che era stata Maria De Carli a fare uccidere Casamassima, l'ultimo ostacolo fra lei e il potere. E Ciano, il vecchio, il Gran Trombone, l'uomo che voleva tornare alla sua vita privata, sapeva di essere un testimone troppo scomodo per andarsene tranquillo in libertà. Nonostante la temperatura si fosse notevolmente abbassata, Ciano continuava a stare affacciato alla finestra del suo studio, la fronte imperlata dal sudore. Pensò a Edda. Edda, l'aveva perduta tanti anni prima, ai tempi del potere soffice e della corruzione. Allora lo studio di Galeazzo era un vero e proprio boudoir, in cui di continuo, da buon protettore della cultura, riceveva aspiranti scrittrici e registe. Era stato l'errore più grande della sua vita, lasciare andare via Edda. Senza di lei era veramente solo. A chi rivolgersi? Prigioniero nel suo studio, Ciano era impotente. Si staccò dal davanzale e cominciò a guardarsi intorno. Pochi lavori erano stati compiuti in quella stanza da quando Mussolini vi si era accasciato stroncato da un attacco di cuore. Lì si conservava la memoria del regime, dai gagliardetti del '19 alle foto del Duce a torso nudo in mezzo al grano, alle famose nuotate nel mare di Romagna. Sbiadite immagini in bianco e nero, come sbiadito ormai appariva tutto quanto era intorno. Ciano vinse la rassegnazione e si chinò per esaminare le prese del telefono. Ve ne erano otto di tipo nuovo, applicate due anni prima insieme ad altrettanti apparecchi a tastiera. Più in basso, impolverata, una vecchia presa libera. Ciano si rialzò a guardare, tra le foto incorniciate, una in cui il Duce, seduto a quella scrivania, parlava con aria severa al telefono. Una massiccia scatola di bachelite nera dalla cornetta enorme, di quelle che, ricordava Galeazzo, distorcevano le voci degli interlocutori. La vecchia presa doveva appartenere a quel telefono. Ciano tornò a guardarsi intorno, chiedendosi dove potesse essere il vecchio apparecchio e, soprattutto, se la Telefonia Nazionale non avesse già pensato a disattivare quella linea preistorica. Cominciò a rovistare furiosamente in cassetti e armadi, gettando in aria libri, album fotografici, persino una vecchia pistola arrugginita. Niente. Si abbatte esausto sulla sua vecchia poltrona. Era dunque destinato a morire senza potere alzare un dito? Sentì di colpo tutto il peso dei suoi settantadue anni. A un tratto, il vecchio si accorse della cassapanca sotto il davanzale della
finestra: per decenni Galeazzo aveva preso il fresco in quell'angolo, e non se ne era mai avveduto. Levò in alto il piano dell'antico mobile e, sotto uno strato di vecchi giornali trovò il telefono di bachelite nera. Controllò febbrile: la spina corrispondeva alla presa. La collegò e, il cuore ormai al galoppo, sollevò la pesante cornetta e la portò all'orecchio. Da un pozzo profondo trent'anni, soffocato, distorto, ma indiscutibilmente udibile, Ciano sentì il segnale di linea libera. Frenetico, compose sul vecchio disco un vecchio numero di emergenza internazionale a quattro cifre. "Das ist der Reichspräsident" rispose un'altra voce di vecchio all'altro capo del filo. 25 Antonio Murgita si scosse furiosamente dal collo la mano pesante del miliziano. Da quando lo avevano prelevato in gran fretta dal suo appartamento vicino la Stazione 'Dino Grandi' si era accorto di due cose: la prima, che a Roma stava succedendo qualcosa di molto grave, la seconda, che per qualche ragione i fascisti non intendevano torcergli un capello. Le maniere dei poliziotti in nero erano infatti sì, dure, ma nessuno si era permesso né di ammanettarlo, né tantomeno di picchiarlo. Sedeva all'interno di un'Alfa Romeo blu senza insegne, stretto fra due energumeni che, lo capiva, avrebbero dato quanto avevano di più caro per fargli fare la fine di Giacomo Matteotti. Gli ordini, però, dovevano essere diversi. E tassativi. Dopo neanche un paio di chilometri percorsi ad alta velocità, l'auto si fermò con stridore di freni davanti al cupo palazzone di via Tasso. Il segretario comunista fu spinto fuori della vettura e portato dentro in gran fretta. Già una volta, subito dopo la morte di Mussolini, Murgita aveva varcato quella soglia, e la differenza gli balzò lampante sotto gli occhi. Nessun comando, nessuna umiliazione, e soprattutto dei locali ampiamente rinnovati, con ampliamenti effettuati ai piani inferiori. Poteva guardarsi intorno come credeva, e ciò che vide lo sconvolse profondamente. Decine, forse più di un centinaio di giovani radunati in uno scantinato di recente costruzione, un ampio locale che Murgita poté esplorare a lungo con lo sguardo mentre percorreva la piattaforma di metallo che lo conduceva in cella. I giovani che scorgeva nella cruda luce dei neon, chiaramente studenti, dovevano essere parte di un gruppo molto più nutrito, che aspettava laggiù per qualche motivo. Con i ragazzi, i miliziani agivano in maniera molto diversa. Continuando
a camminare, Murgita vide che alcuni poliziotti si accanivano con i manganelli su un gruppo di una decina di persone, i più inginocchiati o proni sul pavimento. Gli altri erano disposti più indietro, inquadrati in fila, rigidi sull'attenti, completamente inzuppati d'acqua. "Fermi, non vi muovete, bastardi, vi ammazziamo tutti!!" continuava a urlare un uomo in tuta militare, il volto coperto da un passamontagna. Altri incappucciati, il mitra sotto braccio, percorrevano le file, controllandole attentamente. "Tu, ti sei mosso!!" urlò uno dei miliziani a volto coperto, trascinando per i capelli fuori dalla formazione un ragazzo che non poteva avere più di diciassette anni. Il giovane fu gettato nel mucchio al centro dello stanzone e cominciò a essere lavorato a manganellate insieme agli altri. La scena sparì improvvisamente dagli occhi di Antonio Murgita, spinto con malagrazia all'interno di una camera di sicurezza. Davanti a sé, nel buio, rannicchiata in un angolo, intravide la sagoma di un uomo robusto dai capelli lunghi. Il segretario comunista, che aveva passato un anno in una cella come quella, si rese conto che la persona di fronte a lui era stata torturata. Gli andò incontro, e si chinò per esaminare le sue condizioni. "Puoi parlare?" sussurrò Murgita. "Ciao, segretario" gemette l'uomo rannicchiato, che aveva riconosciuto l'inconfondibile accento del politico "se hanno preso anche te vuol dire che fanno sul serio...". L'uomo prese a tossire, reggendosi i fianchi con le braccia. "Non va poi così male..." brontolò Murgita con soddisfazione: l'uomo ai suoi piedi aveva qualche costola rotta, ma non sembrava in gravi condizioni. Decise di interrogarlo rapidamente. "Che succede in città? E chi sono questi incappucciati?" - chiese Murgita. "L'inferno, segretario. I fascisti stanno facendo il tiro a segno con gli studenti. Gli incappucciati, non so chi siano. Sono comparsi all'improvviso poco fa con i prigionieri". L'uomo allungò le braccia per massaggiarsi le gambe. Gli sfuggì un gemito. Nella penombra Murgita si accorse che le unghie gli erano state tutte strappate dalle mani. Il segretario comunista tirò fuori il fazzoletto dalla tasca della giacca e deterse il sudore dalla fronte del ragazzo. Si accorse che aveva la febbre alta. "Come ti chiami? Da quanto sei qui?" chiese Murgita. "Valerio Fortunato, segretario. Faccio parte del collettivo studentesco di Giurisprudenza e del direttivo nazionale del Movimento. Mi hanno catturato una settimana fa insieme con altri compagni e si sono subito dedicati intensamente alla mia persona..." Fortunato si interruppe per
emettere un suono a metà fra il riso e un gemito, poi riprese a interrogare Murgita. "Sai qualcosa di Settimo Fornari?". Il capo comunista esitò. Fortunato, Fornari... I compagni della direzione clandestina gli avevano parlato a lungo del Movimento Studentesco e delle opportunità di un controllo maggiore su di esso da parte del partito: per troppi anni la lontananza dall'Italia aveva fatto sì che il ricordo del P.C.I. fosse remoto presso i giovani. Eppure in tanti da qualche anno avevano preso a dirsi marxisti, a protestare pubblicamente contro il fascismo. Erano state le prime manifestazioni spontanee di massa da oltre mezzo secolo, e il partito ancora non era riuscito a farsi vedere in quel fermento, dove le bandiere rosse e le foto di Mao e Che Guevara si mischiavano alle effigi di Gandhi, John e Robert Kennedy e Martin Luther King. Murgita sapeva che qualcosa doveva essere fatto, ma a malincuore aveva dovuto privilegiare le trattative con gli altri partiti politici e con il Re. E del resto, cosa si sarebbe potuto fare? Attendibili informatori avevano raccontato a Murgita che gli studenti in lotta amavano più i rivoluzionari sudamericani che la memoria lontana di Gramsci, Togliatti e di un partito dissolto nel nulla da decenni. E ora il destino metteva davanti al segretario comunista proprio quel Valerio Fortunato che in molti gli avevano detto essere l'anima del Movimento romano. E Settimo Fornari... Sì, Fornari doveva essere l'altro leader, quello oltranzista, vicino alle formazioni armate. "Scontri di piazza, arresti, be', Fortunato" riprese Murgita continuando a pensare velocemente a tutti i possibili scenari, "credo ci siano poche illusioni: c'è in corso un colpo di stato, là fuori. E se hanno preso te, credo che anche Fornari si trovi in questo edificio. C'è un motivo particolare per il quale ti hanno torturato?". "Volevano che confessassi pubblicamente di avere organizzato quanto sta succedendo oggi a Roma, che dicessi di essere stato io ad armare gli studenti e a fare attaccare la guardia della Milizia di Palazzo Venezia. Volevano costringermi a dirlo in televisione..." Fortunato si piegò di nuovo tenendosi i fianchi. "La televisione..." disse pensoso Antonio Murgita "Certo, vogliono trovare i capri espiatori...". "Fornari" riprese con affanno Fortunato, "era nella cella vicino alla mia. Lo hanno prelevato alcune ore fa, forse addirittura ieri sera e da allora non l'ho più né visto, né sentito". Nell'oscurità Antonio Murgita corrugò la fronte. I giovani di oggi conoscevano di sicuro la censura e la repressione, ma non avevano mai
vissuto l'esperienza del carcere politico. Nell'Italia fascista, una volta finiti in prigione, se ne usciva solo per andare al soggiorno obbligato, o per finire in un fosso con un proiettile nel cranio. Oppure per... Murgita formulò appena il pensiero, ma non lo comunicò al giovane seduto ai suoi piedi. In silenzio, il capo comunista si alzò e andò ad appoggiarsi al muro nell'angolo opposto della cella. Sapeva che avrebbe dovuto attendere a lungo. Alla fine, però sarebbero venuti a prendere anche lui. Settimo Fornari si ravviò i radi capelli sulle tempie e si aggiustò le asticelle degli occhiali dietro le orecchie. Indossava il vestito pulito che gli avevano portato da casa e, sia pure sotto la rovente luce dei riflettori che gli pioveva sulla faccia, non poteva fare a meno di godersi la sensazione di pulizia che gli derivava dalla lunga doccia appena terminata. L'unica in sette giorni di fermo di sicurezza. Ma la sensazione di benessere cedette rapidamente il passo alla paura. Si trovava seduto a un tavolino al centro di un ampio salone posto al secondo piano del palazzo di via Tasso. Tutt'intorno, tecnici e operai a manipolare gruppi elettrogeni e cavi. Mancavano pochi secondi al via della diretta, e Fornari sapeva fin troppo bene cosa doveva dire. Davanti a lui, nell'ombra, l'alta silhouette di Maria De Carli. "Tre, due, uno, in onda!" disse una voce da chissà dove. Un annunciatore in completo grigio ed espressione grave comparve su un monitor. "Italiane ed italiani, buona sera" esordì lo speaker "in occasione dei gravissimi episodi avvenuti oggi pomeriggio nel centro di Roma il presidente del consiglio riferirà ora in un messaggio a reti unificate". L'immagine dell'annunciatore sfumò per lasciare il posto al volto affilato di Maria De Carli. La donna era seduta alla sua scrivania e, fatto inconsueto, teneva in mano dei fogli. Il messaggio era una registrazione incisa pochi minuti prima. "Cittadine e cittadini" iniziò il presidente del consiglio. "Forze eversive della sinistra estrema hanno scatenato una sanguinosa guerriglia per le strade della capitale, usando armi da fuoco ed esplosivi. Le forze dell'ordine hanno risposto al fuoco. Secondo il bilancio diramato dal ministero dell'Interno, i morti sarebbero centocinquanta, in gran parte fra uomini della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, e i feriti più di tremila. Seicento facinorosi sono stati arrestati e ora vengono interrogati per risalire ai mandanti di questa orrenda strage. A questo proposito, cittadine e cittadini" disse Maria De Carli alzando gli occhi dal comunicato letto sino a quel momento, "c'è una testimonianza
diretta che desidero proporvi: la testimonianza di uno degli organizzatori del vile agguato di poche ore fa. Arrestato insieme agli altri, ha subito confessato le sue colpe e intende ora riferirne all'intero Paese". Settimo Fornari, che aveva seguito imbambolato il breve discorso di Maria De Carli, fu colto impreparato. Vide improvvisamente sui monitor il proprio volto pallido ed esitò per qualche istante. Deglutì e iniziò a ripetere la lezione imparata poco prima. "Mi chiamo Settimo Fornari, sono docente di sociologia all'Università di Roma. Insieme con altri ho dato vita mesi fa alla formazione clandestina armata chiamata Lotta Socialista, divisa in colonne sparse per tutta Italia. Abbiamo sfruttato la manifestazione studentesca di oggi per riunire le nostre forze in un attacco contro la guardia di Palazzo Venezia. Abbiamo usato fucili automatici, bombe a mano e pistole, armi a suo tempo rubate alla Milizia e ai Carabinieri. Io stesso ho personalmente ucciso a sangue freddo tre agenti. Il nostro scopo era provocare un'insurrezione armata contro il governo presieduto da Maria De Carli. A tale fine ci siamo infiltrati all'interno delle università dando vita a cellule che hanno preso il nome di collettivi studenteschi organizzando quello che è conosciuto come Movimento. Un'entità del tutto artificiale, alla quale con il tempo, grazie alla nostra propaganda, hanno aderito migliaia di giovani. Nelle scorse settimane, con la partecipazione diretta di altri due componenti di Lotta Socialista, Valerio Fortunato e di Giorgio Boria, ho organizzato gli omicidi dei ministri Paoloni e Casamassima. Mi assumo le responsabilità di tutte queste azioni e intendo chiedere perdono alle vittime. Quale segno del mio pentimento ho informato il ministero dell'Interno di tutti i dettagli a mia conoscenza per debellare il fenomeno del terrorismo nel nostro paese. Dichiaro inoltre sciolta l'organizzazione nota con il nome di Movimento Studentesco. Spero che questo gesto possa salvare la mia vita e permettermi di espiare le gravi colpe che ho commesso. Viva l'Italia!". Finito che ebbe di parlare, Fornari sbirciò davanti a sé nell'ombra. La silhouette di Maria De Carli annuiva lentamente in silenzio. Il professore, umiliato, chinò il capo sul tavolo. Lo schermo si oscurò improvvisamente, lasciando nel buio e nel silenzio il minuscolo appartamento trasteverino. "È una menzogna, una schifosa menzogna!!" urlò Silvia sbalordita, infrangendo per prima la cappa di incredulità. "Infami, vermi!!" proruppe Virgilio stringendo i grossi pugni nodosi. "Lo hanno costretto a mentire, è evidente" disse Marco Diletti fissando in
televisione l'espressione terrorizzata di Settimo Fornari. "Meglio farsi ammazzare! Ruggì di nuovo Virgilio. "E tu" riprese il terrorista dalla coda di cavallo rivolgendosi a Silvia "anche tu sei una maledetta spia!! Eri lì a piazza Venezia per controllare tutto! Avevate già deciso di venderci!". Il giovane fece per scagliarsi sulla donna. Silvia impallidì, cominciando a retrocedere. "Adesso basta, giovanotto" fece Marco mettendosi fra Silvia e Virgilio. "Basta con tutto quest'odio. Non ci serve. Dobbiamo capire che cosa fare". Il giornalista si voltò. Nel chiarore elettrico della televisione accesa vide il gruppo di studenti che li aveva accolti in un appartamento dietro Santa Maria in Trastevere. I ragazzi, le braccia incrociate sul petto, guardavano i loro ospiti con occhi sospettosi e privi di speranza. Forse Fornari era stato costretto a parlare e forse no, dicevano a Marco quelle facce. Certo era che le affermazioni del professore sembravano avere sepolto il Movimento studentesco. Un altro capolavoro propagandistico di Maria De Carli. "Ascolta" fece rivolgendosi di nuovo a Virgilio. "C'è più di una ragionevole possibilità che quanto abbiamo visto sia opera del governo. Non possiamo crederci. E poi, non abbiamo visto né Valerio, né Boria. Un regime cerca sempre di giocare tutte le sue carte quando è necessario. E come mai una diretta del genere, in tono così dimesso, senza sfruttare gli studi dell'Immagine Italiana? Secondo me Maria De Carli sta tentando un colpo di mano, ma è ben lontana dall'avere il pieno controllo della situazione". "Può darsi, e allora?" rispose Virgilio "Ormai siamo finiti, morti. Se rimettessimo piede all'Università gli studenti ci farebbero a pezzi. E avrebbero ragione!". "Io voglio sapere dov'è mio fratello!!" urlò all'improvviso Silvia. "Ascolta, Virgilio" riprese Marco. "È tutto vero quello che ha detto Fornari sulla struttura di Lotta Socialista?". "Perché vuoi saperlo? Vuoi vendere anche chi si è salvato?" rispose il terrorista. Marco ignorò la provocazione e, intuendo l'apertura di una breccia, insisté. "Quanto sa Fornari dell'organizzazione? Ha detto cose molto generiche, prima...". "Fornari non sa nulla" disse Virgilio cadendo pesantemente su una poltrona. "Sono io che gli ho raccontato delle colonne a Milano, Genova, Firenze, Napoli, Venezia e Bari. Io sono il coordinatore strategico. Con lui dovevo discutere del passaggio alla guerriglia diffusa. Ma il punto non è questo. Con quello che ha detto, Fornari ci ha diffamato
davanti agli studenti, e senza di loro non avremo mai la forza d'urto necessaria per abbattere il fascismo...". "Ma per abbattere Maria De Carli forse sì" aggiunse Marco. "Quanti siete qui a Roma?". "Venti capizona, ciascuno gestisce una cellula di dieci militanti armati di pistola". "Duecento, dunque... Quanti ne possono arrivare da fuori nel giro di, poniamo, ventiquatt'ore, senza dare troppo nell'occhio?". "Aspetta, aspetta..." fece Virgilio alzandosi dalla poltrona. "Che ti sei messo in testa? Dopo essere stati demoliti in televisione ci vorresti ora mandare al massacro? Li hai visti, gli incappucciati, no? Contro di loro, oggi eravamo in trecento, e fra quelli più preparati. Abbiamo avuto decine di perdite. Per dare una lezione a questi maledetti incappucciati ci vorrebbero almeno un migliaio di militanti bene armati. Dopo il massacro di oggi, chi ha potuto è fuggito. E poi, ormai, Roma è in stato di assedio. La Milizia noterebbe qualsiasi movimento insolito. Sarebbe un suicidio!". "Basterebbero un centinaio di persone per dare l'assalto all'Immagine Italiana e leggere un proclama in televisione" disse Marco fissando Virgilio. "Però dovremmo portare con noi qualcuno in grado di distruggere politicamente Maria De Carli...". "Nessuno ha più visto né sentito il Gran Trombone da giorni..." disse Silvia. "È vero, che stupido" esclamò Marco battendosi il palmo della mano sulla fronte. "Ciano deve essere stato isolato in qualche maniera, sono pronto a scommettere che muore dalla voglia di fare la festa a Maria De Carli". "Volete rapire Ciano?" chiese Virgilio soffocando una risata. "E come pensate di entrare a Palazzo Venezia, magari dal portone principale e il presentat'arm della Milizia?". "Al modo ci pensi tu" disse Marco. "Ti ho visto all'opera contro gli incappucciati". "Alla televisione" e scoccò un'occhiata a Silvia, "ci penso invece io". 26 Quindici enormi C-130 con la croce nera dipinta sulle fiancate stavano facendo scaldare i motori sulla pista bagnata dell'aeroporto di Monaco di Baviera. Tutt'intorno si stavano compiendo le ultime operazioni di carico di uomini e mezzi appartenenti alla XII divisione aviotrasportata della
Reichswehr. Analoghe operazioni si stavano compiendo contemporaneamente negli scali militari di Friburgo, Augsburg e Colonia. Il generale Karl Heubl scrollò il berretto dalla pioggia e consultò l'orologio: l'una del mattino in punto. Aveva ricevuto appena due ore prima la telefonata del presidente Speer: poteva dirsi ben soddisfatto della rapida reazione dei suoi soldati. Solo lui e gli ufficiali dello stato maggiore sapevano dell'obiettivo della missione: liberare Galeazzo Ciano, già capo del fascismo e ora sequestrato a Palazzo Venezia dal nuovo governo filonazista presieduto da Maria De Carli. Albert Speer aveva fatto con disprezzo il nome del capo del governo italiano, affermando che Ciano gli aveva riferito di un colpo di stato in corso, volto a bloccare l'evoluzione politica in corso in Italia e a favorire un avvicinamento crescente di Roma a Mosca. A quasi trentadue anni dall'armistizio con gli Alleati e l'Unione Sovietica, le forze armate germaniche tornavano dunque sul campo. Quasi ventimila uomini, una frazione trascurabile della Reichswehr, ma secondo l'Oberkommando di Berlino sufficiente per compiere una missione di pace in un paese dalla scarsa consistenza militare quale l'Italia. Si trattava in effetti di un'operazione di polizia. Per qualche istante Karl Heubl sentì un brivido passargli lungo la schiena: era appena un ragazzo quando Adolf Hitler, nell'agosto del 1939, parlò di operazione di polizia contro la Polonia. Non mancavano i rischi, rifletté il generale: come avrebbero reagito Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia? E, soprattutto, come si sarebbe comportata l'Unione Sovietica, che da qualche mese aveva cominciato a esportare regolarmente in Italia gas e petrolio? E chi poteva dire con certezza che, oltre all'intesa commerciale, non vi fosse già un patto militare segreto tra Roma e Mosca? I russi desideravano da sempre accedere a un mare caldo. Trovarsi ancora la Germania sulla strada poteva convincere i sovietici a una nuova guerra devastante. Una nota più alta nel rombo dei motori distrasse il generale Heubl dalle sue riflessioni. L'imbarco della XII divisione aviotrasportata era stato completato in soli 25 minuti. In perfetta tabella di marcia. L'alto ufficiale salì a sua volta sul primo C-130. Aveva smesso di piovere e il cielo cominciava a rasserenarsi. I quindici giganti cominciarono a muoversi lentamente sulla pista, poi, uno dietro l'altro, accelerarono verso il corridoio di decollo. Velivoli di grande affidabilità e robustezza, pensò fra sé Heubl, inviando un pensiero di gratitudine ai meccanici americani che li avevano fabbricati. Mentre il suo aereo si staccava dal suolo, il generale
tedesco consultò ancora l'orologio. Da Colonia gli aerei erano partiti venti minuti prima. L'intera formazione, un centinaio di apparecchi fra C-130, ricognitori e Messerschmitt da caccia, avrebbe viaggiato a bassa quota per sfuggire ai sonnacchiosi radar italiani e sarebbe stata in vista dell'obiettivo entro un'ora. 27 La porta della cella in cui erano rinchiusi Fortunato e Murgita si aprì con un frastuono di lunghe chiavi metalliche e un cigolio di cardini arrugginiti. Due incappucciati entrarono nell'angusto locale, ignorando completamente lo studente ferito e prendendo con decisione sotto le ascelle Antonio Murgita. Il segretario comunista si lasciò docilmente trasportare. Ancora una volta avvertiva nelle maniere rudi ma accurate dei carcerieri un'attenzione particolare nei propri confronti. Decisamente, era stato prelevato per uno scopo che i fascisti ritenevano fondamentale. Gli incappucciati fecero percorrere a Murgita un lungo corridoio costellato di camere di sicurezza. Ogni tanto un gemito riusciva a oltrepassare il diaframma delle porte blindate. Murgita si accorse tuttavia che sia il trasporto, sia la ricezione dei prigionieri erano stati ultimati. Dove, qualche ora prima, si sentivano solo urla e disperazione, adesso regnava un silenzio da campo di battaglia. Il segretario comunista rabbrividì al pensiero di cosa poteva essere successo mentre era stato in cella con Fortunato. Finalmente il lungo corridoio sfociò in un ampio salone, dominato da una scrivania e da un salotto in pelle. Murgita ricordava bene quel locale. Vi era stato portato trentasette anni prima: aveva appena diciotto anni, e dall'altra parte della scrivania siedeva la massiccia mole del capo della polizia Arturo Bocchini, fondatore dell'O.V.R.A., l'acronimo mussoliniano che stava a significare 'organizzazione per la vigilanza e la repressione dell'antifascismo'. Bocchini aveva studiato pensosamente il giovane capo della gioventù comunista, e senza fargli domande lo aveva destinato al soggiorno obbligato alle isole Tremiti. Di lì, Murgita era poi fuggito avventurosamente in Grecia e quindi in Jugoslavia, per poi passare in Ungheria e quindi attendere l'arrivo dell'Armata Rossa. I ricordi si affollavano nella testa del capo comunista, mentre, al posto del vecchio e grasso Bocchini, sull'ampia sedia si materializzava la figura
snella e aggraziata di Maria De Carli. Sa usare bene le informazioni riservate, si disse Antonio Murgita, che riprese subito il controllo di sé e fissò con la solita espressione aristocratica e stanca il volto affilato del presidente del consiglio. "Nessuno, oltre a me e a lei, sa di quell'incontro del 1939" esordì Maria De Carli, "a parte, certo, un capo della polizia morto trentasei anni fa e l'oscuro funzionario che ha compilato il dossier... Quanto occorre, secondo lei, a modificare due righe in questo rapporto? Qualche nota a margine, un articolo sui giornali, e sarà chiara a tutti la verità, cioè che lei barattò la sua fuga all'Est in cambio della denuncia di alcuni compagni di partito...". Dapprima Antonio Murgita impallidì, poi il suo volto divenne color mattone. "Siamo dunque al ricatto, l'arma dei vigliacchi o dei disperati" disse calcando l'accento sulle doppie. "A quale categoria appartiene lei, signora presidente del consiglio? Forse a entrambe?". Stavolta fu Maria De Carli ad arrossire violentemente. Ma si riprese subito. "Murgita, Murgita... Il suo partito è forte politicamente, ma lascia ancora a desiderare come organizzazione interna e forza di penetrazione. Lei, la conoscono in pochi. Gli operai, forse, ma da quel settore non abbiamo ancora avuto noie. E gli studenti hanno avuto le loro: sa che Settimo Fornari ha appena confessato di avere strumentalizzato il Movimento per fare terrorismo?". Murgita non batté ciglio. Aveva capito appena entrato in cella e conosciuto Valerio Fortunato che tipo di trattamento il regime aveva riservato all'anello debole della protesta studentesca. "Quindi, Murgita" riprese Maria De Carli, "sarebbe comunque un gioco da ragazzi farla comparire nelle vesti di grande manovratore della cosiddetta lotta armata. A Mosca, lei non è esattamente ben visto: tutte quelle chiacchiere sul socialismo nella libertà... Breznev e i generali russi se la ridono di lei, sa? Come pensa che reagirebbero di fronte a un lancio di agenzia che parla di tentato colpo di mano di estrema sinistra per boicottare l'alleanza fra Unione Sovietica e Italia?". Murgita incassò il colpo: le teorie che da qualche anno, insieme con i partiti comunisti francese e spagnolo, si andavano imbastendo sui rapporti fra socialismo e società democratiche non andavano per la maggiore fra i componenti del Politburo sovietico. Egli stesso, qualche mese prima, aveva avuto una dura discussione con Michail Suslov, l'ideologo del P.C.U.S.: l'altero purista del socialismo reale aveva interrotto i ragionamenti di Murgita con un gesto brusco della mano, e aveva detto che l'U.R.S.S. non accettava lezioni da un
partito che si era fatto spazzare via da Mussolini. "Perciò, Murgita" risuonò la voce roca di Maria De Carli, "il manico del coltello sta tutto dalla parte nostra. Popolari, socialisti, liberali, fascisti, tutte le componenti del nuovo governo ritengono che il Partito Comunista Italiano debba, per bocca del suo capo, prendere pubblicamente le distanze dal terrorismo studentesco e appoggiare senza condizioni la svolta politica in atto, compreso il legame sempre più stretto fra Italia e Unione Sovietica". "In televisione come Fornari, dunque?". "In televisione, sì. Certo, sarà la fine politica sua e del P.C.I., ma quale alternativa le si pone? Rifiutarsi? Può farlo, ma io diffonderci comunque un comunicato con sue dichiarazioni false, senza contare che lei subirebbe la stessa sorte di Valerio Fortunato, se non peggio. I componenti delle squadre speciali della Milizia sono molto curiosi di 'saggiare' la sua resistenza fisica". "Non crederà che mi spaventi per così poco, signora presidente del consiglio...". "No, certo, sono sicura che lei arde dal desiderio del martirio. Ma non servirà a nulla, perché c'è sempre il neo di quel suo incontro con Bocchini... Vede" disse Maria De Carli accavallando una gamba sull'altra, "in fin dei conti lei non è così necessario. Certo, se mi va in video a mettere il suo placet sulla politica del governo, abbiamo un'altra architrave a sorreggere il lavoro degli ultimi mesi. Se non lo fa... Be', le notizie, da che mondo è mondo, si fabbricano in laboratorio e, Matteotti insegna, si possono sempre verificare 'incidenti'. Lei non ha scelta, caro segretario!". Maria De Carli concluse il suo discorso appoggiandosi al massiccio schienale della sedia, puntando i gomiti sui braccioli e unendo le punte delle dita. "Dov'è Ciano?" chiese all'improvviso Antonio Murgita. "Lo ha già fatto uccidere?". "Ciano, il Re, Paolo VI, che importanza ha?" fece Maria De Carli con una smorfia di fastidio. "Ormai tutto marcia nella direzione che abbiamo scelto. L'Italia sarà presto una repubblica, i Savoia hanno fatto il loro tempo, sono solo un centro di cospirazione. E tutto per colpa di un capo debole, qual è stato Galeazzo Ciano, da sempre. Senza Re e senza più un dittatore formale, e con i popolari nel governo, metteremo anche il bavaglio alla Chiesa. Presto ci sarà un referendum sull'abolizione della monarchia e sull'introduzione di un regime presidenziale. Quanto crede che ci vorrà a persuadere gli italiani che il bagno di sangue di ieri è stato
voluto anche da Umberto II?". "Però lei ha ancora bisogno di aiuto, non riesce da sola a far quadrare il cerchio, non è così?" - ribatté Antonio Murgita. "Ha usato Fornari per convincere gli studenti e ora vuole usare me per mettere a tacere le masse popolari. Lei è ancora debole. Altrimenti sarebbe andata all'Immagine Italiana, avrebbe messo in moto i suoi fidati giornalisti... Ma adesso loro hanno capito che lei è in difficoltà e non si azzardano a prendere posizione... Non è vero, signora presidente del consiglio?". Maria De Carli arrossì una seconda volta, le labbra sottili le si stesero in una linea dura e spietata. "Lei può credere ciò che vuole" disse atona a Murgita. "Ricordi però che sono abbastanza forte per fare a pezzi lei e ciò che lei ancora rappresenta. A lei la scelta di finire con dignità oppure di essere gettato nel fango. Se andrà in televisione questo dossier finirà distrutto". Maria De Carli tacque per qualche secondo, tenendo bene in mostra la cartellina verde. Un istante dopo l'intera stanza tremò al boato di un'esplosione. Dopo avere abbandonato l'appartamento di Trastevere in cui avevano assistito con Virgilio e un gruppo di studenti alla confessione fasulla di Settimo Fornari, Marco Diletti e Silvia Fortunato si erano diretti verso la periferia Sud Est della capitale, dove abitava la ragazza. Arrivati a Centocelle avevano sentito un rombo in lontananza e alcune luci che si incrociavano verso il cielo, ma non ci avevano fatto caso: il Podestà di Roma e la sua attivissima giunta comunale tenevano a sorprendere i cittadini con ogni sorta di trovata per evitare che ci si interessasse troppo di politica. Marco e Silvia salirono in casa e si abbandonarono, privi di forze, sul divano. Nel frattempo, il rombo si era trasformato in un continuo martellamento che Marco finì per identificare come contraerea, mentre le luci si erano trasformate in bagliori e la gente cominciava ad affacciarsi alle finestre nei caseggiati popolari. "Ahò, ma che succede?" si sentiva echeggiare nella notte di balcone in balcone. "Ma che, è la guera?". "Guarda lassù, quelli so' aerei!". Silvia e Marco uscirono a loro volta sul piccolo balcone dell'appartamento e alzarono gli occhi al cielo: nelle luci intense dei bengala, sparati dall'aeroporto vicino, videro sfrecciare, poche centinaia di metri sopra le loro teste, la caccia della Luftwaffe. I potenti motori a reazione urlavano facendo esplodere i vetri delle finestre. Il regolare martellamento di poco prima cedette gradualmente il posto a un silenzio
assoluto, rotto solo di tanto in tanto da voci e comandi secchi in lingua straniera che venivano dall'alto. Marco e Silvia alzarono di nuovo gli occhi, e videro centinaia di bianchi paracadute scendere lentamente verso terra. Solo allora Marco notò, nel bagliore rossastro di fiamme che si levavano da Est, la croce nera sulle fiancate degli aerei da carico. "Madonna, so' tedeschi!!" urlò una voce di donna quasi contemporaneamente. "Che succede, Marco?" chiese Silvia completamente disorientata. Nella strada sotto il balcone passò a un tratto a velocità folle un camion della Milizia: Marco fece appena in tempo a scorgere le espressioni terrorizzate delle camicie nere che un enorme blindato, arrivato da chissà dove, si posizionò a dominare l'incrocio poco più lontano. Dietro il massiccio veicolo avanzava, gli inconfondibili tozzi elmetti che scintillavano alla fioca luce dei lampioni, una compagnia di parà tedeschi in mimetica grigioverde. "Vieni, dobbiamo andarcene di qui!" disse Marco prendendo per mano Silvia, e conducendola fuori, giù per le scale, verso il portoncino che dava verso il dedalo di strade compreso fra Prenestino e Appio. Le prime scariche di armi automatiche cominciavano intanto a risuonare in lontananza. Marco costrinse Silvia a correre. "Ma... Siamo in guerra contro la Germania?" chiese Silvia ancora sotto choc. "Non lo so!" gridò Marco. "Corri! Non ci tengo a farmelo spiegare da loro!" e indicò, in fondo al viale, i paracadutisti che si raccoglievano inquadrandosi. "Che facciamo adesso?" chiese Silvia. "All'Università!" rispose Marco, continuando a correre. Il generale Heubl era atterrato da circa mezz'ora all'aeroporto di Ciampino. Due battaglioni della XII divisione aerotrasportata avevano preso terra al principale scalo militare romano, distruggendo gli apparecchi al suolo e sopraffacendo in breve tempo la debole resistenza degli avieri. Altri due battaglioni avevano preso possesso dell'aeroporto internazionale di Fiumicino, dove il traffico continuava sotto la stretta sorveglianza dei militari tedeschi. Perdite trascurabili, vergò rapidamente Heubl su un piccolo taccuino. Il volo radente aveva ingannato come si sperava la difesa aerea italiana, che si era animata invano e solo a invasione in atto. Heubl osservò le ondate successive dei Messerschmitt a reazione che andavano a bombardare le installazioni dell'aeronautica sul litorale laziale e l'edificio del ministero vicino all'Università. Sarebbe stato un breve attacco, ripeté fra sé il generale, necessario a piegare gli italiani il tempo necessario
all'operazione. Si doveva agire in tempi strettissimi: un'ora per farsi largo fino al centro, un rapido attacco con gli elicotteri a Palazzo Venezia, poi via con Ciano verso il quartiere della televisione per l'appello che avrebbe denunciato l'operato criminale del capo del governo. Un'altra nutrita unità avrebbe isolato il Quirinale e costretto il Re a far dimettere Maria De Carli. In sei ore al massimo era previsto il completamento della missione, con il minimo spargimento di sangue, senza farsi coinvolgere in scontri prolungati che avrebbero potuto attivare le clausole di difesa di un'alleanza militare Roma-Mosca data a Berlino ormai per sicura. Solo la rapidità estrema poteva scongiurare una guerra. Heubl sapeva che i sovietici non morivano dalla voglia di intervenire al fianco degli italiani. Un blitz riuscito li avrebbe messi nella comoda posizione di dire no a un partner tutto sommato di second'ordine, mentre Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia avrebbero applaudito all'intervento antifascista. Un'operazione brillante, senza dubbio. La resistenza era stata trascurabile come ci si aspettava, gli italiani erano stati presi dal terrore del vecchio lupo tedesco. Ma gli avieri di Ciampino e Centocelle avevano reagito con tutti i pochi mezzi a disposizione ed era stato necessario annientare ogni resistenza. Le prime stime parlavano di un centinaio di morti. Heubl, però, veterano del 'Blitzkrieg' dai tempi delle campagne di Polonia e Francia, sapeva che il bilancio sarebbe stato più grave. Più che le perdite militari lo rattristavano le molte vittime fra la popolazione civile che l'attacco tedesco avrebbe inevitabilmente procurato in quartieri popolosi come quelli di Roma Sud. Guardò ancora il suo cronometro e si aggiustò sulla testa il berretto con le foglie di quercia. Almeno per il momento, preferiva rispondere alla propria coscienza piuttosto che all'Oberkommando di Berlino, ancora pullulante di vecchi nazisti. Rise fra sé pensando al comunicato ufficiale che il ministero degli esteri tedesco stava diramando proprio in quel momento alle agenzie di stampa internazionali: "Il Reich germanico, con una incisiva e incruenta operazione di polizia internazionale, ha messo fine al criminale regime dittatoriale di Maria De Carli, evitando un'imminente entrata del Regno d'Italia all'interno del Patto di Varsavia. La repubblica tedesca prende posto a fianco delle nazioni antifasciste e democratiche per sostenere in tutto il mondo i valori della libertà...". Antifascista, la Germania! Ma se era stato proprio grazie all'apparato militare prussiano, ai generali aristocratici e ultraconservatori che avevano fatto fuori il parvenu razzista Hitler, che il già convinto nazista Albert
Speer si era potuto rifare una verginità dopo l'attentato fatale di von Stauffenberg! Senza l'appoggio dell'estrema destra militare non ci sarebbe stato nessun Quarto Reich, o, più austeramente come si diceva oggigiorno, nessun Reich Tedesco. La Germania sarebbe stata occupata da Est e da Ovest, smembrata e divisa in due, o addirittura in quattro, come aveva smaniato quell'esagitato di Winston Churchill. Speer l'aveva fatta franca solo grazie ai militari che avevano ucciso Hitler. Solo così aveva potuto negoziare con gli Alleati una pace più che dignitosa, mantenendo pressoché intatto gran parte del potenziale della Wehrmacht, subito ribattezzata Reichswehr. Grazie poi alle forniture americane, ottenute in cambio del contributo attivo alla distruzione dell'antico alleato giapponese, e al rapido adeguarsi all'anticomunismo di marca occidentale, Berlino aveva in breve tempo ricostruito marina e aeronautica, dissanguate dalle battaglie di Norvegia e d'Inghilterra, e posto così le basi per il grande riarmo degli anni '50 e '60. E per le operazioni-lampo come questa. Non rientrava forse l'Italia nell'area geopolitica tedesca? Heubl si guardò intorno, scacciando i complessi di colpa: meglio, decisamente meglio un quarto d'ora di dubbi e depressione che la corte marziale a Berlino. Compagnie e reggimenti si andavano ricomponendo, inquadrandosi rigidamente ai secchi ordini di sottufficiali e ufficiali. Avviandosi fra le macerie degli hangar e i resti degli aerei italiani verso i camion e i blindati appena sbarcati dai C-130, il generale Heubl montò a sua volta su una jeep di fabbricazione americana, mettendosi in moto alla testa della colonna motorizzata che avrebbe marciato in venticinque minuti da Ciampino al centro di Roma. 28 Marco e Silvia arrivarono all'Università quando l'Ateneo era ormai già rigonfio di studenti. Erano circa le quattro del mattino, e ormai i tedeschi erano padroni di Roma. Marco si era tuttavia accorto che i paracadutisti dovevano avere degli ordini ben precisi: nonostante il numero, non agivano tanto da forza di occupazione, quanto come nuclei di commandos, senza rivolgere le armi contro la gente. I romani, dopo un primo momento di panico, avevano cominciato a osservare con più curiosità le operazioni militari, in attesa di sviluppi interessanti. Così Silvia e Marco, dopo avere affrontato di corsa i primi chilometri fra
Centocelle e l'Università, si adattarono al passo, ormai sicuri che i tedeschi non erano venuti per fare del male alla popolazione civile. Ciò nonostante, la città Universitaria era stata prudenzialmente circondata da una compagnia di autoblindo con due carri armati alle entrate principali. Poco più in là si stendevano le rovine fumanti di quello che era stato il ministero dell'Aeronautica. Lo spostamento d'aria provocato dalle bombe e dai motori a reazione dei caccia aveva mandato in frantumi tutte le vetrate degli edifici universitari, comprese quelle dell'Aula Magna. Una scheggia di granata aveva troncato testa e braccia alla statua della Minerva, che ora ricordava più che mai il modello greco al quale si ispirava. Silvia e Marco si infilarono d'istinto nel grande locale, trovando di fronte a sé un muro di studenti. Più giù, dagli invisibili banchi della presidenza, una voce urlò: "Tutti fuori, compagni, assemblea fuori!". La muraglia umana si volse verso le uscite e cominciò a premere per radunarsi nel piazzale. Presto l'intera area fu piena di giovani. Un raduno tanto massiccio quanto silenzioso. Tutti sapevano che appena fuori delle fragili mura dell'Ateneo stavano in attesa migliaia di soldati tedeschi. Una figura massiccia con una grande barba nera salì sul banco che era stato trasportato al centro del piazzale. Marco riconobbe Giorgio Boria, l'anarchico arrestato per l'omicidio del generale Paoloni e poi denunciato in televisione da Settimo Fornari. Un boato di protesta e migliaia di fischi salutarono la sua apparizione. "Compagni, studenti, lasciatemi parlare!" esordì con la sua voce sonora da tribuno. "Quello che avete visto in televisione è la classica mossa tattico-strategica dei regimi totalitarii la deformazione della verità, il suo abuso a scopi politici...". Le proteste salirono di tono, il banco su cui stava in piedi Boria cominciò pericolosamente a oscillare. "Compagni, se fossi un traditore, un servo dei fascisti, perché starei qui, a scegliere tra farmi linciare da voi oppure fucilare dai tedeschi?". La domanda diretta fece esitare per qualche istante la protesta, che però riprese subito dopo. Un gruppo di giovani prese più decisamente d'assalto il banco su cui stava Boria, e per alcuni secondi l'anarchico fu inghiottito nel mucchio. Marco si volse verso l'entrata dell'Ateneo. I tedeschi manovravano i loro fucili automatici con nervosismo. A un tratto le urla e i fischi cessarono, il lungo banco fu rimesso al suo posto, Boria vi risalì sopra scarmigliato, aiutando a issarsi al suo fianco una figura alta e incerta, i lunghi capelli castani che ricadevano sulle spalle. "Oh, Dio, Valerio!!" gridò a voce altissima Silvia.
Anche se si trovavano indietro rispetto agli oratori, Marco si accorse, aguzzando gli occhi, che le mani di Valerio Fortunato erano avvolte da fasce insanguinate, e che il ragazzo faceva fatica a stare in piedi. "Studenti dei collettivi e del Movimento" risuonò faticosa la voce di Valerio "sono fuggito da via Tasso insieme con altri compagni circa un'ora e mezzo fa, quando è cominciata l'invasione tedesca. Carcerieri e miliziani sono spariti alle prime bombe. Ma cosa siano venuti a fare i tedeschi non è la prima cosa a cui pensare. So che voi tutti non potrete mai dimenticare quanto ha detto Settimo Fornari ieri sera in televisione...". L'ultima frase di Valerio sprofondò in un boato di rabbia. Gli studenti ricominciarono a rumoreggiare sempre più forte, soffocando la voce affannosa del giovane. "Vi prego, lasciatemi parlare!" urlò Valerio facendo appello a tutte le sue forze e reggendosi con forza il fianco martoriato. "Sono stato arrestato insieme con Settimo Fornari una settimana fa. Sono stato torturato per giorni affinché dicessi in televisione le stesse cose che ha detto lui. Maria De Carli in persona ha condotto i nostri interrogatori, minacciandoci e ricattandoci. Fornari ha ceduto. Ho saputo che, subito dopo la sua confessione fasulla, è stato portato via e ucciso da uno squadrone della morte. Credo che i tedeschi ci abbiano invaso in relazione a quanto Maria De Carli stava apprestandosi a fare: una stretta alleanza con il blocco dei paesi dell'Est annullando le prossime elezioni e dando la colpa del bagno di sangue in piazza Venezia all'estrema sinistra, forse anche al P.C.I. e al suo segretario Antonio Murgita. La De Carli ha sicuramente agito contro il Re e il Papa, e credo neanche Ciano fosse al corrente di quanto stava per succedere. Avete visto che i tedeschi non stanno agendo contro la popolazione civile. Bene, credo che gli studenti debbano farsi vedere, uscire fuori dall'Università in corteo, arrivare fino in centro e costringere Ciano ad affacciarsi per spiegare cosa sta succedendo. Se lo facciamo, avremo dietro tutta Roma, tutto il paese, e forse potremo anche fermare i tedeschi...". Valerio si piegò su se stesso, attanagliato da una fitta al fianco destro. Il suo acceso discorso aveva però convinto la folla, che cominciò a organizzarsi per muovere verso l'esterno. I tedeschi presero ad armeggiare con i loro fucili mitragliatori. Marco corse dietro a Silvia, che si era precipitata verso il banco degli oratori non appena aveva visto Valerio afflosciarsi. Improvvisamente, i due fratelli si incontrarono. Valerio si divincolò da Boria, che lo sorreggeva, e abbracciò la sorella. "Andiamo, forza, bisogna parlamentare con i tedeschi!" disse con un filo di
voce. "Se ci vedono uscire in corteo, finisce ancora una volta al tiro a segno!". Si mossero così in quattro, verso l'entrata principale dell'Ateneo, i mezzi blindati della Reichswehr che si facevano più enormi e spaventosi a ogni passo. Marco vide che Valerio aveva puntato gli occhi su un'alta figura di ufficiale. L'uomo stava ritto immobile su una jeep americana e portava un berretto decorato con foglie di quercia. Attorno a lui, un muro umano di paracadutisti, che fissavano con stupore il quartetto che avanzava verso di loro. Man mano che si avvicinavano agli archi, Marco distingueva il profilo di un gigantesco carro armato. Il mezzo sostava al centro del piazzale delle Scienze, la lunga canna del pezzo di artiglieria già puntata ad alzo zero verso gli studenti. Karl Heubl aveva guardato a lungo gli studenti in assemblea. I suoi soldati si erano istintivamente innervositi quando i giovani avevano cominciato a gridare e a muoversi verso l'uscita dell'Ateneo, il luogo da dove, secondo precisi ordini, non si sarebbero dovuti spostare. Con secche e perentorie frasi il generale aveva richiamato i suoi, e si era arrampicato sopra la sua jeep per controllare meglio i movimenti della folla. Aveva dovuto ritardare di qualche minuto l'avanzata verso Palazzo Venezia, ma non se la sentiva di tirarsi addosso per trascuratezza il guaio di qualche migliaio di studenti che assaltavano a mani nude l'esercito più armato d'Europa. Quando Heubl vide il quartetto scarmigliato che gli si avvicinava, allibì: un giovane, visibilmente provato da torture fisiche, una ragazza esile, un uomo imponente dalla barba nera e un altro uomo, questo dall'aria intellettuale, sebbene dalla stazzonatura degli abiti fosse evidente che ormai da qualche giorno non si era potuto cambiare. Si trattava di una delegazione, e la prudenza consigliava di stare a sentire. "Lei è il più alto ufficiale in comando?" chiese Marco in inglese a Heubl. "Generale Karl Heubl, XII divisione aviotrasportata delle forze armate del Reich Tedesco" rispose Heubl in italiano corretto. "Bene, lei ci capisce" interloquì Valerio "noi siamo venuti per dire che...". "Un momento, prego" interruppe Heubl. "Voi chi siete e chi rappresentate?". "Gli studenti in lotta contro il governo di Maria De Carli" disse Valerio tutto d'un fiato. "Qual è il motivo del colloquio che avete chiesto?" domandò imperturbabile Heubl. "L'assemblea" replicò Valerio "ha deciso di sfilare in corteo lungo le vie
di Roma per chiedere conto a Galeazzo Ciano del massacro di studenti compiuto tre giorni fa e per avere spiegazioni sulla presenza di un contingente militare tedesco a Roma". "Per motivi di sicurezza nessuno di voi si muoverà da questo Ateneo" rispose secco Heubl. "Quanto alla presenza delle truppe tedesche, siamo qui per un'operazione di polizia internazionale. Non posso dire altro. E ora, se permettete...". Heubl fece per rimettersi seduto nella jeep e ordinare alla colonna di ripartire, quando Valerio alzò la voce. "E no che non permettiamo! Per più di cinquanta anni gli italiani hanno permesso che qualcuno desse loro ordini senza spiegare il perché. Tre giorni fa è stato versato molto sangue e molto altro ne è scorso in queste ultime ore. Abbiamo il dovere di chiederne conto a chi dice di governarci. Noi adesso usciamo di qui in corteo. Se vorrete fermarci con le armi, non sarà un'operazione militare, ma un assassinio di massa". Turbati dalla voce acuta di Valerio, alcuni militari alzarono le armi. Heubl fece loro segno di metterle giù. Gli studenti, si disse rassegnato. Avrebbero avuto il loro corteo. Diede ancora uno sguardo nervoso al cronometro da polso. In quel momento doveva scattare l'operazione "Gallo", la liberazione e il prelievo di Ciano da Palazzo Venezia. Rifletté per qualche istante e impartì alcuni secchi ordini. Marco si accorse che il carro armato che campeggiava in mezzo al piazzale delle Scienze cominciava ad arretrare la propria posizione, girando il cannone all'indietro. Il muro compatto dei parà tedeschi si aprì a sua volta, lasciando spazio agli studenti per poter sfilare in strada. Marco si volse verso Silvia, la baciò rapidamente sulle labbra e cominciò ad allontanarsi. "È rimasto qualcosa da fare" disse salutandola, e si dileguò verso il centro nel primo albeggiare. Silvia cercò di chiamarlo, ma la sua voce si perse nel boato crescente degli slogan che cominciavano ad alzarsi dal corteo. Migliaia di giovani, scortati da altre migliaia di soldati armati fino ai denti, cominciarono a muoversi verso la stazione 'Dino Grandi'. La grande piazza era avvolta dal silenzio. Si avvertiva appena, nell'aria, l'odore del fumo che proveniva da incendi distanti, mentre il bagliore delle fiamme cominciava a impallidire nella luce del giorno. Il gruppo di armati guidato da Virgilio si era appena affacciato dall'incrocio di via Quattro Novembre, nel punto esatto dove poche ore prima era iniziata la strage degli studenti da parte dei nuclei speciali della
Milizia. Man mano che il sole saliva, piazza Venezia si presentava deserta, appena coperta da un velo di nebbia mattutina. Istintivamente, guardarono tutti verso il balcone del massiccio e cupo palazzo rinascimentale, quindi in basso, l'entrata principale. Non vi era alcun miliziano a fare la guardia, e il portone era aperto. Non era una cosa normale. Virgilio si voltò, sempre d'istinto, verso il Sacrario del Duce: anche lì, spiccava la mancanza della tradizionale coppia di soldati, uno a destra, l'altro a sinistra della lapide bronzea. E questa era una cosa decisamente anomala. Virgilio aveva raccolto il suo gruppo nella notte. Avevano parlato a lungo, e a lungo il terrorista aveva dovuto difendere con convinzione un progetto che sembrava pazzesco davanti a facce stravolte dagli eventi del pomeriggio appena trascorso. Si erano messi in moto intorno alle quattro e mezzo, dalla periferia Nord di Roma. Non avevano sentito nulla di anormale, solo qualche bagliore in direzione Sud, ma non si erano preoccupati più di tanto. Qualcosa li aveva insospettiti quando nell'aria, sempre più distinto, avevano sentito l'odore della benzina e il fumo degli incendi. Quindi il silenzio assoluto, e una specie di rombo soffocato. "Sbrighiamoci, dai!" esclamò sottovoce Virgilio. Come commandos, gli armati si divisero in due gruppi, ciascuno per un lato del portone, uno di attacco e l'altro di copertura. Nessuno disturbò il loro rapido attraversamento della piazza, né alcuno si mise fra loro e la scalinata che, una volta oltrepassato il portone, conduceva alla Sala del Mappamondo e allo studio privato di Galeazzo Ciano. Sarà una trappola, si chiese Virgilio, mentre insieme ai suoi uomini attraversava a passo di corsa i lunghi corridoi rivestiti di legno antico. Palazzo Venezia pareva un guscio vuoto, privato di ogni vita. E se Ciano è scappato come gli altri, si domandò ancora il terrorista. Ma non ebbe tempo di chiedersi altro. Non appena il drappello di uomini superò l'ennesimo salone, si trovò di fronte un grande mappamondo e, vicino alla finestra, la sagoma massiccia e inconfondibile dell'ex dittatore. "Vi stavo aspettando", disse Ciano girandosi lentamente. In mano aveva un bicchiere pieno per metà di whisky. L'espressione del suo volto cambiò improvvisamente quando capì di non avere di fronte dei miliziani. "Chi siete?" chiese il vecchio cercando di mettere a fuoco il gruppo di armati che gli si avvicinava. Poi, guardando la coda di cavallo di Virgilio fece un gesto di sollievo. "Ah, siete studenti! Come mai siete arrivati fin quassù?". "Ci devi seguire, Ciano" disse Virgilio cupo.
"Seguire dove?" rispose il vecchio. "Non capite che fra poco sarà tutto finito? Non sentite?" Ciano mise una mano intorno all'orecchio, sporgendosi dalla finestra del salone. Virgilio sentì a sua volta che il rombo di sottofondo udito prima si era trasformato in un battere ritmico che si avvicinava sempre più. Si precipitò a sua volta alla finestra e vide in cielo una decina di puntolini, che si facevano più grandi a ogni istante. Dopo qualche secondo capì che si trattava di elicotteri da combattimento. "Avanti, su svelto, andiamo via da qui!" urlò Virgilio spingendo Ciano verso i suoi uomini. Due giovanotti robusti presero il vecchio sottobraccio e cominciarono a trascinarlo verso l'uscita. "Non serve, vedete, vengono a prendere me..." mormorò Ciano sorridendo. "Chi sono, maledizione?" gridò Virgilio. "Sono tedeschi" rispose Ciano, facendosi docilmente portare via. "Un'intera divisione, ventimila uomini per portare via un solo povero vecchio. Non vi pare divertente?". E rise di cuore. "È andato" fece uno dei terroristi a Virgilio. "Forse non del tutto" rifletté il giovane con la coda di cavallo massaggiandosi il mento. "Ascolta, vecchio, li hai chiamati tu?". "Sì, sì" continuò a ridacchiare Ciano. "Li ho chiamati con il vecchio telefono del suocero. Ve lo ricordate, l'uomo con la mascella prominente...". E scoppiò di nuovo a ridere alla battuta. Virgilio imprecò sottovoce, poi, improvvisamente, fece esplodere un ceffone sulla faccia dell'ex dittatore. Ciano lo guardò attonito per qualche istante, poi cominciò a piangere. "Ho avuto tanta paura" ripeté fra i singhiozzi "ho creduto che venissero ad ammazzarmi... Maria De Carli mi ha fatto chiudere là dentro, lo capite, con i cimeli di Mussolini. Un condannato a morte con i ricordi di un morto. Mi avevano tagliato le comunicazioni, ero piantonato nel mio studio. A un certo punto ho trovato una vecchia presa del telefono e un apparecchio degli anni '30. Funzionava ancora, e così ho chiamato il presidente Speer". Un vigliacco, si ripeté Virgilio con disgusto. Per trentadue anni l'Italia è stata retta da questo relitto umano. Provò l'impulso di ucciderlo sul posto, poi ripensò a quanto dettogli da Marco Diletti. Ciano era l'unica persona in grado di convincere gli italiani a chiudere la parentesi Maria De Carli. Dovevano affrettarsi a portarlo in televisione e fargli raccontare come il
presidente del Consiglio l'aveva sequestrato. Ma era troppo tardi. Il rombo delle pale degli elicotteri era ormai assordante. Virgilio vide gli apparecchi con la croce nera sfiorare i finestroni della sala del Mappamondo, quindi alzarsi al di sopra dei merli del palazzo. Contemporaneamente, si udirono le prime voci e i comandi secchi, il frastuono dei vetri infranti. Virgilio e i suoi fecero per uscire con il loro ostaggio dalla sala, ma si trovarono di fronte un'intera compagnia di paracadutisti. Uno dopo l'altro, i giovani deposero le armi, lasciando che un nerboruto colonnello prendesse in consegna Ciano. Virgilio fu rudemente afferrato per la coda di cavallo, spinto contro un muro e ammanettato. "La De Carli, vecchio, ricordati, bisogna fare fuori la De Carli!" gridò Virgilio, mentre un plotone di soldati scortava Ciano verso gli elicotteri. L'ex dittatore non si girò nemmeno. Fu il colonnello Kurt Hartmann, colui il quale aveva materialmente preso in consegna Ciano, ad accorgersi per primo del lungo corteo che si stava avvicinando a piazza Venezia. L'ufficiale scorse il serpentone scuro proprio mentre stava per issare il vecchio ex capo di stato su uno degli elicotteri da combattimento che volteggiavano sopra il palazzo. Ciò che lo stupì non fu tanto la moltitudine di persone, al suo occhio allenato certo più di cinquantamila, quanto il cordone di sicurezza costituito proprio dalla colonna militare tedesca del generale Heubl, che doveva sovrintendere alla copertura della missione contro possibili attacchi italiani. Perché mai Heubl stava scortando una manifestazione pubblica? Guardò l'orologio: le cinque del mattino. Non c'era altro tempo da perdere. In quel momento risuonò il cicalino della radio da campo. "Hartmann?" gracchiò dall'altoparlante la voce di Heubl. "Interrompete subito l'operazione, passo". "Interrompere, ora?" si meravigliò il colonnello. "Non abbiamo tempo di parlare, Hartmann" tagliò corto il generale all'altro capo. "Ho parlato adesso con il presidente Speer. Mi ha suggerito una modifica di percorso. Ci costerà qualche ora di ritardo e qualche preoccupazione in meno. Passo e chiudo". A meno di duecento metri da Palazzo Venezia, il generale Heubl sorrideva pensando alla smorfia di sorpresa di Kurt Hartmann. Gli pareva quasi di vederlo grattarsi la testa, il vecchio mastino sospeso a mezz'aria con Ciano al guinzaglio. Anche a lui, all'inizio, il suggerimento del giovane Fortunato, così si chiamava, era
apparso pazzesco: far fare un discorso a Ciano dal balcone di Palazzo Venezia per denunciare il fallito colpo di stato di Maria De Carli. L'opinione pubblica italiana si sarebbe ricompattata, aveva detto il giovane, e, contemporaneamente, l'ultimo gerarca del fascismo avrebbe affossato il regime. Occorreva però tempo, aveva soggiunto Fortunato, perché l'ultimo discorso di Ciano doveva essere trasmesso in diretta dalla televisione. Heubl aveva fissato con attenzione il giovane leader studentesco, e senza parlare aveva chiesto al suo marconista di attivare la frequenza radio dell'Oberkommando di Berlino. La risposta di Albert Speer era stata un sì. La soluzione proposta da Fortunato aveva il vantaggio di rimettere nelle mani degli italiani la sorte del loro governo, evitando che l'intervento tedesco sconfinasse nell'azione di guerra. Una soluzione da politico intelligente: Heubl aveva notato che, nonostante l'ora, il freddo e la paura dei tedeschi, i romani erano scesi in piazza a migliaia, ingrossando via via le file degli studenti. Se non si fosse agito con cautela, ora che l'effetto sorpresa era svanito, la XII divisione aviotrasportata avrebbe potuto dover fronteggiare una vera sommossa popolare. E a Heubl non andava affatto di legare per sempre il suo nome a una strage di civili. Così, fra gli sguardi sospettosi di ufficiali subalterni e truppa, Heubl aveva accolto sulla sua jeep Fortunato e la giovane sorella e l'altro leader studentesco, Giorgio Boria: grosso e barbuto sembrava vegliare sugli altri due come un cane da guardia. Non appena il corteo raggiunse Palazzo Venezia Heubl sbigottì. Dalle altre due arterie che sfociavano nella grande piazza, viale Benito Mussolini e via del Teatro di Marcello, due altri serpentoni scuri stavano affluendo verso l'edificio-simbolo del regime morente. Altre migliaia di persone che volevano chiedere conto a Ciano di una notte di guerra. In cima al palazzo di papa Paolo VI, il colonnello Hartmann imprecò sottovoce e diede ordine agli elicotteri di tornare a Pratica di Mare, da dove erano venuti. La piazza ai suoi piedi, intanto, stava assumendo l'aspetto che l'ufficiale ricordava da vecchi documentari visti in Germania. Le adunate oceaniche del vecchio Duce, i gagliardetti, gli applausi. Qui, però, nessuno esultava. I tre cortei si fusero in silenzio, senza scandire alcuno slogan, aspettando. La colonna tedesca, dal canto suo, sfilò lungo il Palazzo gemello delle Assicurazioni, andando a sostare sul lato sud della piazza. "Vogliono la testa del fascismo, e l'avranno..." mormorò una voce di vecchio vicinissimo all'orecchio di Hartmann.
L'ufficiale, che al pari del generale Heubl capiva l'italiano, si voltò di scatto, in tempo per vedere due grosse lacrime scendere sulle guance di Galeazzo Ciano. 29 Antonio Murgita percorse a piedi la notevole distanza che si stendeva fra il centro di detenzione di via Tasso e il Quirinale. Chilometri di strada resi interminabili da una notte che non avrebbe più dimenticato. Roma illuminata a giorno dai bengala, la caccia tedesca all'attacco nel centro del capitale, le strade della città invase da decine di mezzi blindati e da migliaia di soldati. Nessuno sembrava fare caso all'esile ometto vestito di un cappotto liso, che alla fine della sua lunga passeggiata fu fermato da un plotone di corazzieri davanti all'ingresso della residenza di Umberto II. Tutt'intorno, Murgita lo sapeva, si trovava il discreto ma impenetrabile cordone formato da due battaglioni di paracadutisti del Reich. Nessuno avrebbe torto un capello al Re d'Italia, facevano capire i tedeschi, ma nessuno si sarebbe dovuto impicciare di quanto stava accadendo intorno a Palazzo Venezia. Nella sala d'attesa dello studio reale, Murgita trovò una piccola folla: erano i ministri non fascisti del governo De Carli, che avevano abbandonato il presidente del Consiglio al suo destino. Guidava l'esiguo plotone il ministro del lavoro Francesco Guerri, quasi euforico in confronto al cipiglio funereo di Stura, Salzi e degli altri. "Murgita, finalmente!" esclamò Guerri abbracciando il segretario comunista. "Siamo andati via subito dopo di te. La De Carli ti sta facendo cercare, sai? Credo che abbia dato incarico a quegli incappucciati... Ma le cose sono cambiate dalla notte al giorno!" Murgita si sciolse con ferma cortesia dalla presa del ministro socialista, e guardò gli altri. Facce scure, tirate. Certo, si disse, adesso il Re gli presenterà il conto e loro temono di essere arrestati dai tedeschi. Anche Guerri, si accorse, sotto la facciata allegra celava la stessa paura. Si erano fidati della tigre, e ne erano stati divorati. Poi, Murgita ebbe un'altra certezza: pensano che re Umberto voglia darmi l'incarico per un nuovo governo! Come un'eco a questo pensiero, Guerri riprese a parlare a voce alta. "Dovremo cambiare a fondo quest'Italia, sai Murgita? Le forze della sinistra dovranno fare causa comune con gli studenti: sai che hanno fermato i tedeschi senza fargli sparare un colpo? E gli operai, le forze
migliori di questo paese...". "Non ti pare un po' tardi per queste tirate massimalistiche, Guerri?" chiese aspro Murgita, scostandosi dal ministro del lavoro. I volti degli altri componenti il vecchio governo, che già si erano aperti alla speranza, si rabbuiarono istantaneamente. "Non potevamo che appoggiare la De Carli, Antonio..." riprese Guerri con forza. "Ci aveva promesso elezioni e democrazia senza spargimenti di sangue..." "Vi aveva promesso poltrone e ve le aveva date. E voi, avute le poltrone, avete chiuso tutti e due gli occhi sul fatto che il regime continuava, esattamente come prima. Anzi, peggio di prima, passando da una specie di franchismo all'italiana a una dittatura sanguinaria stile America Latina. Siete colpevoli esattamente come Maria De Carli. Anzi, siete peggio di lei. Perché lei ha cercato solo e unicamente il potere. Voi anche il vantaggio personale". "È esattamente quanto è successo, signori" disse una voce acuta. Tutte le teste, compresa quella di Antonio Murgita, si voltarono all'istante verso lo studio reale, sulla soglia del quale era apparso, teso e severo, Umberto II. "Ma, se vi può consolare, le responsabilità non sono solo vostre. Sono anche mie, nostre, di Casa Savoia. Per mezzo secolo la storia di questa dinastia regnante è stata legata a doppio filo con quella del regime fascista. Sbagliò mio padre a dare spazio a Mussolini, ho sbagliato io a tollerare prima Ciano e poi Maria De Carli. Sono stato io a farla presidente del Consiglio, e quindi ricade in primo luogo su di me la responsabilità degli eventi che hanno portato all'attacco germanico della scorsa notte. Pertanto l'ultimo mio gesto di sovrano sarà quello che sto compiendo ora, firmare il decreto straordinario di dimissioni di questo governo. Quindi abdicherò, rimanendo in questo palazzo il tempo necessario affinché un referendum decida delle sorti istituzionali dell'Italia, se monarchia o repubblica". Il Re rimase un momento in silenzio, l'alta e pallida figura di vecchio appena scossa da un leggero tremito. Gli ex ministri avevano abbassato tutti il capo. Solo Antonio Murgita continuò a guardare negli occhi il sovrano, chiedendosi quanto potessero essere costati un'ammissione e un passo del genere a un uomo superbo come lui. Ma Umberto II ricambiò appena lo sguardo del segretario comunista, e rientrò nello studio, chiudendosi dietro la porta. Marco Diletti arrivò alle prime luci dell'alba in via Teulada, dopo essere stato fermato da tre posti di blocco tedeschi. L'edificio in cui avevano sede studi e redazioni dell'"Immagine Italiana" pareva un palazzo di governo assediato, e così in fondo stavano le cose. Un battaglione germanico aveva completamente circondato l'isolato, con una batteria di mortai a dominare
l'area dal sovrastante Monte Mario. Se ci fossero stati problemi, i militari avevano ordini precisi: radere tutto quanto al suolo. I circostanti condomini civili erano stati sgomberati con rapidità ed efficienza germaniche. Saliti a passo di corsa i due piani di scale che portavano alla sua redazione, Marco si precipitò verso il suo stanzone. Si accorse subito che i colleghi presenti erano pochi. Per ordine di Maria De Carli, l'Immagine Italiana non trasmetteva più notiziari radiotelevisivi da quando le unità speciali della Milizia avevano massacrato gli studenti in piazza Venezia. All'interno della redazione, i giornalisti si aggiravano come spettri, senza più neanche il conforto del ticchettio delle telescriventi. Da dodici ore erano stati infatti interrotti contratti di abbonamento alle agenzie di stampa, e i redattori erano senza altre notizie che quelle trasmesse dal tam tam del sentito dire. Per non perdere l'abitudine al lavoro, e soprattutto per non pensare a quanto poteva accadere, nelle ultime ore era stato deciso di fare dei 'numeri zero' del telegiornale. Si andava in onda per finta, insomma, leggendo una serie di notizie brevi che i giornalisti erano riusciti a compilare dandosi da fare in giro. Ma la paura si tagliava con il coltello: anche se non vedevano i tedeschi, i redattori sapevano che stavano lì, ad aspettare solo un ordine per venirli a prendere, o peggio. I pochi testimoni che avevano visto quanto rimaneva del ministero dell'Aeronautica tremavano a ogni minimo suono che venisse dal cielo. Percorrendo i lunghi corridoi, Marco si imbatte infine in un volto che non fece finta di non riconoscerlo. "Diletti, dove ti eri cacciato?" borbottò Antonio Forti con il suo solito tono burbero, quasi come se fuori non stesse succedendo niente. Forti, già capocronista, era stato nominato vicedirettore vicario del Telegiornale Due subito dopo lo scandalo provocato dall'ultima intervista di Marco a Maria De Carli. Sembrava successo una vita prima. "Direttore, ho una proposta da farti..." rispose Marco. "Quale proposta? Tanto fra poco sarà tutto finito. Siamo la televisione fascista, la televisione della De Carli, i tedeschi ci puniranno!". "Ascolta, direttore" riprese Marco bloccando il passo a Forti, "ho parlato con il generale Heubl, il comandante del contingente tedesco. Dobbiamo fare una diretta da piazza Venezia. Ho bisogno di tre telecamere fisse e due mobili, più due colleghi per le interviste". "Come, una diretta?" bofonchiò Forti spargendo in giro la cenere della sigaretta che gli pendeva dalla bocca. "Diletti, se ancora non lo hai capito,
siamo in trappola! Il primo che uscirà di qui finirà in mille pezzi. E tu sei tornato. Sei proprio un pazzo..." Diletti interruppe il vicedirettore prendendolo per un braccio. "Ascoltami, Forti: so che i tedeschi ci vogliono a piazza Venezia. Ciano è stato catturato da un reparto di paracadutisti e lo stanno convincendo a parlare dal balcone. Possiamo essere là in meno di venti minuti!". "Sei sicuro di quello che dici? Noi abbiamo sentito solo i bombardamenti...". "Ti dico di sì: sono stato all'Università. Abbiamo convinto i tedeschi a scortare un corteo che è arrivato fino a piazza Venezia. Dovrebbero esserci ormai più di duecentomila persone laggiù. Se non andiamo, avremo perso un'occasione storica!". "Diletti, fai presto tu a dire andiamo! E che gli racconto io a viale Mazzini? Che ho seguito l'estro di un redattore incauto, tanto scriteriato da fare imbufalire in diretta il presidente del Consiglio? E già che mi ricordo: hai pensato a cosa farà Maria De Carli? Quando i tedeschi andranno via ci sarà ancora lei?". "Forti, non hai fatto caso che la De Carli è sparita dalla circolazione? Sarà nascosta con i suoi assassini incappucciati ad aspettare che la bufera passi. Ma se noi vogliamo impedire che torni in sella, dobbiamo agire adesso, e nel pieno stile della nostra testata: sta accadendo qualcosa di importante, di storico, e noi dobbiamo esserci, non capisci?". Antonio Forti aspirò un'altra boccata dalla sua sigaretta e si grattò energicamente la testa. "Vai, allora!" urlò a Marco Diletti. "Vai, prenditi Zennaro, Agostini e il bicamere. Ma ricorda che voglio un servizio agile, una diretta con le contropalle. E prenditi anche quattro operatori. Se è vero quello che dici abbiamo bisogno del punto di vista del balcone, dei tedeschi, della gente in piazza e di chi guarda il tutto dalle finestre. Facciamo i conti a cose finite!". 30 Maria De Carli era stata colta di sorpresa dalla prima esplosione. Dopo neanche cinque secondi un nuovo, terrificante scoppio aveva fatto implodere i vetri di tutte le finestre e incrinato i muri. Lo spostamento d'aria aveva investito con violenza il presidente del Consiglio, proiettandola a terra. Una fitta nuvola di polvere si era levata, facendo
piombare la sala nelle tenebre. Maria De Carli giacque sul pavimento per qualche istante, comprimendosi il ginocchio che aveva violentemente urtato contro lo spigolo della scrivania. Il dolore acuto la riportò in sé. Era quasi riuscita a farlo cedere! Maria De Carli si ricordò improvvisamente di Antonio Murgita ed emerse, scarmigliata e bianca di polvere, dal provvidenziale riparo che il massiccio tavolo le aveva offerto. Guardandosi vide che dove prima vi era stata la parete esterna dell'edificio di via Tasso, ora si apriva un'enorme squarcio che lasciava entrare la fredda aria del mattino. Il vento spazzò via la nuvola di calce e scoprì, riversi sul pavimento, i cadaveri di due uomini. Frenetica, Maria De Carli rovesciò con un piede i corpi: entrambi portavano le nuove uniformi mimetiche delle unità speciali della Milizia. Calcato sulla testa miracolosamente incolume, uno dei morti portava ancora il basco verde decorato da un fiammante teschio d'argento. Dunque, era riuscito a fuggire! Doveva avere approfittato del caos seguito ai primi scoppi per correre come tutti gli altri verso l'uscita del tetro palazzone. Maledicendo la prontezza di spirito di Antonio Murgita e zoppicando per la contusione che stava facendole gonfiare il ginocchio, Maria De Carli lasciò a passi irregolari ciò che rimaneva della sala degli interrogatori. Mentre scendeva a uno a uno gli scalini che la separavano dal cancello, Maria De Carli sentì il ginocchio venirle meno e, contemporaneamente, una robusta mano sorreggerla senza difficoltà. La donna si voltò di scatto e vide Ettore Varchi. Il capo degli incappucciati aveva il volto colore della terra, o forse era solo la polvere che ricopriva ormai ogni cosa. "Maria, stai bene?" le chiese l'uomo, umile come sempre. "Sì, solo qualche graffio. Ma che succede?". "Sembra incredibile, ma siamo sotto attacco tedesco!". "Sotto attacco... Ma come sono potuti arrivare indisturbati fin qui? Cosa fanno le forze armate?". "I nostri amici ai servizi segreti sono più increduli di te, ma sembra che il comando unificato di esercito, marina e aeronautica sapesse del progetto di attacco e non sia intervenuto in alcun modo". "È un colpo di stato, non capisci?" gridò Maria De Carli. "Dove sono gli altri ministri? Dov'è Ciano?". "Dei componenti il tuo governo, solo Ardito Valori è rimasto alle Poste per rimettere in moto le comunicazioni. Non ho notizia degli altri camerati. I non fascisti sono andati tutti quanti al Quirinale!". "Galeazzo, dimmi di Galeazzo!".
"Ciano, mi hanno detto, sarebbe stato catturato dai tedeschi. È la fine, Maria!". "No, che non è la fine. Su quanti uomini puoi ancora contare?". "Le bombe sono cadute in gran parte lontano da qui. Ho ancora quasi per intero sotto mano l'unità che ha agito contro gli studenti. Saremo circa cinquecento". "Bene. Attrezza una piccola colonna blindata. Andiamo alla radio. I tedeschi hanno appena finito di bombardare, non hanno ancora preso possesso di questa zona. Se ci spostiamo in fretta, riusciremo ad arrivare in via del Babuino. Il tempo necessario per una trasmissione in diretta in cui inviterò le forze armate a difendere la patria in pericolo e mi appellerò all'aiuto fraterno dei paesi del Patto di Varsavia e dell'Unione Sovietica". "Che cosa? Vuoi chiedere aiuto ai comunisti?". "Non abbiamo scelta. Si tratta della nostra sopravvivenza. Dov'è andato Murgita?". "Non l'ho visto scappare, si è dileguato". "Cercalo. Ero quasi riuscita a piegarlo, a ricordargli che anche lui ha dovuto chinare la testa davanti al fascismo. Adesso dobbiamo distruggerlo". Maria De Carli strinse con forza nella mano la consunta cartellina verde che poco prima aveva mostrato al segretario comunista. "Vedi questa?" disse a Ettore Varchi tendendogli il vecchio dossier di Bocchini. "Metti in moto i nostri amici del servizio informazioni di sicurezza. Che trovino altre carte, se occorre le falsifichino, usino inchiostri d'epoca, insomma, facciano di tutto: qui c'è un Murgita informatore della polizia fascista. Inviino poi il dossier alle principali sedi diplomatiche internazionali!". "Non so se faremo in tempo, Maria... I tedeschi corrono come pazzi: hanno preso in mano quasi tutta la città!". "Gli esperti in documenti ufficiali lavorano a un passo da qui, in piazza Dante. Sotto il palazzo dei servizi c'è un bunker, collegato direttamente alle stesse linee che ho io agli Esteri. Se questa cartellina arriva a piazza Dante Antonio Murgita è finito. E se io riesco a pronunciare alla radio il discorso che ho in mente forse riuscirò a convincere i russi a passare la frontiera di Trieste, e..." Ettore Varchi fissò Maria De Carli. Il volto arrossato sotto le striature di calce, la donna pareva avere smarrito il consueto piglio di assoluta determinazione. Gli occhi azzurri sembravano ora di piombo fuso. La donna guardava inespressiva le colonne di fumo che si levavano da diversi punti della città. Il capo, non più levato nella
famosa posa altera, pendeva quasi inerte, il profilo aguzzo di rapace aveva lasciato il posto a un'espressione di donna sola e smarrita. Stanno distruggendo il suo sogno, pensò Ettore Varchi, che assisteva in silenzio alla metamorfosi di Maria De Carli. Quando sulle guance del presidente del consiglio apparvero le prime lacrime, il miliziano stese il braccio in un goffo tentativo di circondarle le spalle. "Toglimi subito le mani di dosso, idiota!" ringhiò Maria De Carli divincolandosi di scatto, il volto in tutto simile a quello di un animale da preda sorpreso in un angolo. Ettore Varchi arretrò di fronte alla furia che aveva scatenato. Ricordò improvvisamente cosa le aveva detto la donna tanti anni prima, quando, poco più che ragazzi, frequentavano i seminari elitari di Julius Evola. Varchi, fin da allora innamorato di Maria De Carli, aveva cercato di attirarla a sé: la giovane si era ritratta con una smorfia di disprezzo mista a paura. "Cosa fai?" gli aveva detto. "Non lo sai che per un eletto, essere toccato da un inferiore significa la contaminazione, la perdita di ogni forza, degli stessi sentimenti?". Una frase che lo aveva sconvolto. Ma ora Maria De Carli torreggiava su Ettore Varchi in tutta la sua altezza, i pugni serrati davanti al viso, gli occhi che fiammeggiavano odio. "Io... volevo solo... " balbettò l'uomo, terrorizzato. "Anche tu, non aspettavi che questo, vero?" ruggì Maria De Carli, ormai fuori controllo. "Voi tutti, fascisti per opportunismo, uomini senza qualità, mediocri, vermi! Aspettavate solo che io fossi con le spalle al muro, incapace di reagire... Poi avreste potuto mettermi sotto i piedi, trattarmi come quelle stupide vacche che avete in casa, mogli, madri, sorelle!!". "Maria, cosa dici?" disse Ettore Varchi con voce tremante mentre, con la coda dell'occhio, si rendeva conto di essere ormai a sua volta con la schiena appoggiata contro quanto rimaneva della facciata del palazzo di via Tasso. "Anche tu, un invertebrato come gli altri" sibilò Maria De Carli, che continuava ad avanzare, aprendo e chiudendo i pugni. "Te la vedo negli occhi la paura, sai? Come prima ho visto il tuo desiderio di patetico maschio italiano. Non sei altro che carne ottusa, tu e la tua ridicola divisa da guerrigliero". Negli occhi di Maria De Carli Ettore Varchi non vedeva ormai che la follia. "Il fascismo è puro spirito, mi capisci?" incalzò la donna. "Il fascismo è brama di azione senza alcun limite morale, è accettazione della sofferenza per distruggere la noia, è lotta per la vittoria invocando la sconfitta, è abbattere senza esitazione chiunque voglia tenerci rinchiusi in
questa gabbia animale!!". Mentre finiva di parlare, Maria De Carli calò con tutte le sue forze la mano destra aperta ad artiglio sul volto di Ettore Varchi. Il miliziano urlò, sentendo le unghie che gli scavavano nella carne. Istintivamente, reagì con un manrovescio, che colpì la donna con la violenza di un maglio. Il presidente del consiglio fu proiettata all'indietro, danzò qualche istante sugli alti tacchi per mantenere l'equilibrio, poi cadde, battendo il capo contro un grosso blocco di cemento e mattoni. Una pozza di sangue si allargò pigra dietro il casco di capelli corvini. Maria De Carli sbarrò gli occhi, il viso colore del gesso, poi rimase immobile a terra. Ettore Varchi rimase a guardare il cadavere per un po', poi raccolse la vecchia cartellina verde che era rimasta schiacciata fra il corpo del presidente del consiglio e il marciapiede. Se la nascose sotto la mimetica grigioverde. Infine, tamponandosi le profonde ferite che gli bruciavano la guancia, si allontanò con passo incerto verso la colonna di automezzi che lo attendeva poco lontano. "Si va via, ciascuno per la sua strada..." mormorò allo sbigottito tenente della milizia che organizzava l'evacuazione. Poi, con gesti secchi e decisi, si strappò gradi e mostrine e gettò il basco con la testa di morto fra le rovine del palazzo di via Tasso. 31 I paracadutisti tedeschi erano pigramente inquadrati all'inizio di viale Benito Mussolini, un lungo e spesso cordone grigio scuro che si perdeva in direzione del Colosseo. Si tenevano in disparte, quasi scansandosi all'afflusso dell'altro grande serpente umano, quello che, dai quartieri popolari del sud di Roma, si era formato per sfociare in piazza Venezia. Senza crederci, Marco Diletti contemplava lo spettacolo. Più di settantamila, forse addirittura centomila persone andavano gremendo il vecchio teatro delle adunate mussoliniane. Ormai si era fatto giorno da un pezzo: erano le otto e mezza del mattino e faceva stranamente caldo. Il pullmino con a bordo la regia del telegiornale era addossato al Sacrario del Duce, nell'unico spazio lasciato libero dalla folla. Dalla sua postazione, nel palazzo delle Assicurazioni, Marco lo poteva vedere biancheggiare in lontananza. Si deterse il sudore dalla fronte e dal collo. Meno di cinque minuti alla diretta. Aguzzò lo sguardo verso la piazza sottostante e quindi di fronte a sé, verso la luce fioca che si intravedeva dietro i vetri della
finestra che dava sul balcone di Palazzo Venezia. Quel balcone dal quale, a minuti, si sarebbe dovuto affacciare Galeazzo Ciano. In cuffia Marco sentì confabulare, eccitati, Giorgio Agostini e Michele Zennaro, i due giovani cronisti che Forti gli aveva assegnato. Zennaro si trovava nella posizione più difficile, schiacciato fra la lunetta di rispetto davanti al portone di Palazzo Venezia e la transenna che era stata messa su mezz'ora prima da un plotone di soldati. Zennaro non aveva mancato di segnalare a Marco questa stranezza: era come se camicie nere e milizia, da sempre padroni assoluti del sancta sanctorum del fascismo, avessero abbandonato la propria casa per sempre. Dalle mostrine dei militari erano stati vistosamente strappati i piccoli fasci littori di latta. Agostini aveva fatto piazzare invece una postazione sopra un camion tedesco, piazzato di traverso nello slargo antistante il Sacrario del Duce. Da lì si poteva vedere l'impressionante confluenza dei due grandi cortei nella marea umana di piazza Venezia. In uno dei cinque piccoli schermi che erano stati approntati nella stanza da lui occupata, Marco vide Agostini tormentarsi l'orecchio in cui era conficcato un grosso auricolare nero. Con l'altra mano, il giovane collega stringeva nervosamente un lungo microfono sormontato da una buffa protezione antivento rossa a forma di pallone. Pochi minuti prima, Agostini gli aveva comunicato due altre notizie importanti: da voci raccolte in piazza, sembrava che una folla ancora più grande si fosse radunata in piazza San Pietro per pregare insieme con il Papa, mentre un altro corteo stava percorrendo via Nazionale, diretto al Quirinale. Marco gettò un'occhiata alle altre due postazioni: Due telecamere con i soli operatori erano piazzate una all'ultimo piano del palazzo che faceva angolo tra via del Plebiscito e via del Corso, l'altra sulla vecchia via dell'Impero, all'altezza della Basilica di Massenzio. Un'ottima copertura, disse fra sé Marco. A un tratto sentì i ronzii nella sua cuffia aumentare di tono, senza tuttavia capire cosa stesse succedendo. Sul monitor davanti a sé vide scorrere la sigla del Telegiornale Due e sentì annunciare l'edizione straordinaria. Marco guardò in piazza, dove la folla appariva percorsa dall'inquietudine. Poi vide che a Palazzo Venezia la finestra del balcone si era aperta. Una figura in abito borghese grigio uscì lentamente alla luce del sole. In quell'istante la faccia di Marco sostituì sui monitor quella del conduttore del telegiornale. La diretta incominciava. Galeazzo Ciano sentiva le gambe piegarsi sotto il considerevole peso della propria mole. Non ha senso, si ripeteva, non ha nessun senso. Eppure, cosciente del nervosismo dei militari tedeschi alle sue spalle e dell'attesa
della gente radunata nella grande piazza, si fece avanti. A terrorizzarlo era soprattutto quella folla lì sotto. Non aveva mai visto uno spettacolo del genere, neanche quel 25 luglio del 1944, quando aveva annunciato la propria successione a Mussolini e la fine della guerra nel resto d'Europa. Allora, lo aveva spinto l'euforia dei suoi quarant'anni, l'incosciente speranza di una vita tranquilla in cui si sarebbe limitato a gestire il potere in maniera soffice, arricchendo ancora di più se stesso, la sua bella moglie, la sua famiglia serena. Improvvisamente, tornarono i volti. Quello affilato e sofferente di Edda. Quello duro e senza amore di mamma Rachele. Ciano si appoggiò tremando alla balaustra del balcone. Solo un brusio dalla marea umana stipata proprio sotto di lui. Aguzzò gli occhi per guardare qualche faccia. I romani ricambiarono lo sguardo senza nessuna emozione. Il successore del Duce si aggrappò alla selva di microfoni che era stata collocata lì per lui. Avrebbe dato la vita per il suo drink del mattino. Ah, se avesse bevuto il suo scotch avrebbe saputo come prendere quella gente. In fondo, i romani gli assomigliavano, amavano divertirsi. Lui li avrebbe distratti con una di quelle battute che, con gli anni, si erano sostituite nell'immaginario collettivo alla retorica di Mussolini. Dopo essere stato un gerarca superficiale e antipatico, Ciano era diventato un dittatore spiritoso e gradevole. Ma ora... Ora si sentiva goffo, svuotato. Percorreva con lo sguardo quelle migliaia di facce dure, alcune ancora macchiate di polvere, tumefatte in seguito alla fuga dai bombardamenti. Da qualche luogo imprecisato in mezzo alla piazza poteva sentire distintamente il pianto di un bambino. Perché portare un ragazzino lì, si chiese imbambolato... Non seppe mai quanto era rimasto in piedi a fissare in silenzio la folla. A un tratto, dietro di sé sentì la voce pesantemente accentata dell'ufficiale germanico che gli si era presentato come il colonnello Kurt Hartmann. "Non c'è più tempo ora! Bisogna che lei parli!" disse concitato il parà. Galeazzo Ciano si drizzò in piedi e aprì i microfoni. "Italiane e italiani" esordì in un silenzio opprimente. "Torno a parlarvi da qui dopo tanti anni per togliermi un peso dalla coscienza...". "Buongiorno da piazza Venezia. Si riapre il balcone, dunque, si riapre con un discorso di Sua Eccellenza Galeazzo Ciano. Un discorso a un tempo improvviso e annunciato, dopo la catastrofe che ha colpito Roma la scorsa notte: un'intera divisione aviotrasportata tedesca ha attaccato senza preavviso alcuni edifici militari e governativi nel centro della città, riducendo in rovine il ministero dell'Aeronautica e i locali di detenzione in
via Tasso...". Marco Diletti sciorinava rapido le sue notizie, cercando di riempire la pausa creata dall'indecisione di Ciano. Si fermò un'istante, mentre la telecamera si soffermava sull'espressione spaurita del vecchio dittatore. "Il successore di Benito Mussolini appare confuso e stanco. Secondo notizie appena giunteci, avrebbe deciso di rivolgersi alla nazione dopo un negoziato condotto con lo stato maggiore germanico. Indiscrezioni riferiscono che reparti scelti della XII divisione aviotrasportata tedesca, questa l'unità che ha sferrato l'attacco a sorpresa su Roma, avrebbero dovuto prelevare Ciano e portarlo al sicuro, mentre il grosso delle truppe doveva catturare il governo, occupare l'Immagine Italiana e arrestare il presidente del Consiglio Maria De Carli. Di quest'ultima" disse Marco ravviandosi il ciuffo e scoccando un'occhiata a Ciano ancora silente sul balcone, "non si hanno ancora notizie. Ancora ignoto il motivo dell'intervento tedesco: si suppone che il presidente del Reich Federale, Albert Speer, non abbia gradito il crescente avvicinamento fra Italia e Unione Sovietica. Per il momento, il Cremlino tace, come pure la Casa Bianca e le maggiori cancellerie europee. I notiziari radiofonici stranieri captati nel nostro paese parlano di operazione di polizia internazionale, rilanciando il comunicato ufficiale diramato da Berlino...". Marco si fermò ancora una volta mentre in cuffia gli giungevano le disposizioni della regia. La scena si era già spostata più volte sulla schiera dei militari germanici e, soprattutto sulle tante e tante facce che componevano il mosaico di piazza Venezia. Marco cercò di immaginare quelli che invece erano rimasti a casa e che proprio ora, in un frenetico passaparola, stavano accendendo la televisione. In quel momento su uno dei suoi monitor comparve il sagrato della Basilica di san Pietro invaso dalla folla. L'immagine si spostò gradualmente sulla Loggia delle Benedizioni, dove un altro vecchio, papa Paolo VI, con voce tremante recitava il rosario insieme a decine di migliaia di fedeli. Bene. Un pullmino era stato mandato anche oltre Tevere. Antonio Forti aveva ben chiara l'importanza dell'evento. Marco riprese a braccio. "E ora, lo vedete sui vostri teleschermi, ci sono giunte le immagini di quanto accade a San Pietro. Appare chiaro che, nel momento della paura e dell'incertezza, tornano in primo piano i simboli, i punti di riferimento tradizionali, cioè la Chiesa cattolica e la monarchia. Mentre, però, al di là del Tevere la folla prega con il pontefice e al Quirinale inneggia al Re, qui l'atmosfera è molto più pesante. È come se Galeazzo Ciano dovesse
rispondere in prima persona di quanto è accaduto la notte scorsa... Ma Ciano sta iniziando a parlare. Ascoltiamolo". "Il peso che devo togliermi" riprese Ciano guardando dritto verso la telecamera davanti a sé, "l'ho portato con pazienza ed egoismo per trentadue anni. Mi è diventato sempre più gravoso negli ultimi mesi, ma dopo gli ultimi tre giorni e soprattutto dopo questa notte sarebbe folle continuare a portarlo...". Ciano si fermò di nuovo. Ancora silenzio. Se continua così, si disse, impazzisco. Riprese a parlare, con la forza della disperazione. "Mesi fa, dopo anni di un onesto vivacchiare del regime che rappresento, e dopo una lunga consultazione con Sua Santità Paolo VI e Sua Maestà Umberto II ho deciso di chiudere la lunga parentesi del partito unico e di indicare in Maria De Carli la persona che avrebbe dovuto guidare un governo di transizione aperto alle vecchie opposizioni politiche...". Non più silenzio, stavolta, da parte della folla, ma un basso mormorio di indignazione al nome di Maria De Carli. "Mi sbagliavo" disse Ciano alzando la voce di un tono. "Maria De Carli aveva in mente un progetto diverso da quanto pensassi: fare dell'Italia una dittatura totalitaria di stampo nazionalsocialista, che a breve avrebbe chiesto di essere ammessa nel club dei regimi nazionalcomunisti del Patto di Varsavia. Maria De Carli" continuò Ciano alzando ancora la voce, "aveva previsto tutto: una falsa apertura democratica e una provocazione di piazza in occasione di una grande manifestazione pacifica per provocare una strage e quindi la sospensione dello Statuto, dei diritti civili e delle prossime elezioni. Questo è stato il retroterra della strage di ieri!". "E tu dov'eri, Ciano?" gridò una voce di uomo dalla piazza, perfettamente udibile nel silenzio generale. "Io sono stato sequestrato nel mio ufficio" rispose al suo invisibile interlocutore il vecchio capo del fascismo. "Telegrafo e telefoni interrotti, linee di emergenza staccate. Poi, grazie a un vecchio apparecchio, sono riuscito a mettermi in contatto con l'esterno. E qui arrivano gli ultimi sviluppi. Ciò per cui niente, da oggi, per me, può più essere come prima...". Un'altra pausa. Ciano adesso doveva spiegare alla folla di avere provocato l'attacco militare tedesco. "Ho sollecitato io stesso l'intervento armato delle forze germaniche, chiedendo aiuto per me al presidente tedesco Albert Speer. Se voi avete
sofferto stanotte lutti e distruzioni, la colpa è interamente mia!". Un boato di furore si levò da piazza Venezia. La folla cominciò a premere sulle transenne. Sui soldati italiani di guardia cominciò a piovere una gragnuola sempre più fitta di oggetti. Quando caddero le prime pietre sradicate dal pavé della piazza e le transenne iniziarono a piegarsi sotto il peso dei dimostranti, Ciano colse verso viale Benito Mussolini la crescente animazione delle truppe tedesche. La situazione poteva precipitare da un momento all'altro. "Dica quello che deve dire, ora!!" gridò il colonnello Hartmann, serrando in una morsa ferrea un braccio del vecchio dittatore. "È... È per questa ragione" riprese a fatica Ciano, la voce acuta e sgraziata che a stento dominava il ruggito dei manifestanti, "che io, Galeazzo Ciano dichiaro conclusa per sempre l'esperienza politica e governativa del fascismo. Il regime è morto e sepolto. Io rinuncio a ogni carica sin qui rivestita e lascio che sia il legittimo capo di questo Stato, Sua Maestà Umberto II, a garantire l'evoluzione democratica del nostro paese. L'Italia torna nelle stesse mani alle quali fu strappata con un colpo di mano quasi cinquantaquattro anni fa". La folla continuò a rumoreggiare per alcuni istanti. Poi il rombo si abbassò di qualche tono fino a smorzarsi in un silenzio ancora più opprimente di quello iniziale. Ciano, appoggiato con entrambe le mani al balcone, teneva gli occhi chiusi. La fronte era imperlata di sudore, mentre un brivido sempre più convulso gli agitava le gambe. Poi partì, timido, il primo applauso. Al primo ne succedette un secondo, poi altri. L'intera piazza Venezia risuonò in pochi istanti di acclamazioni. Ciano capì subito che la folla non inneggiava a lui, ma alla fine di una storia durata troppo tempo e finita nel sangue. Quegli applausi salutavano l'inizio della prossima libertà Ciano guardò in basso. Nella piazza si rideva, ci si abbracciava. Nessuno più faceva caso al vecchio che stava ancora lì fermo sul balcone. A un tratto, il colonnello Hartmann gli si avvicinò sussurrandogli in un orecchio la più bella notizia che potesse immaginare. Ciano si riscosse e si afferrò di nuovo ai microfoni. "Italiane e italiani, vengo ora informato che il presidente del Consiglio Maria De Carli ha perduto la vita nel bombardamento tedesco dei locali di sicurezza di via Tasso!". L'esultanza della folla prese forme da stadio. La gente iniziò a danzare sotto gli sguardi increduli dei paracadutisti tedeschi. Alcuni soldati furono addirittura risucchiati in quella che stava diventando una vera festa
popolare. La radio di Hartmann gracchiò alcune parole che Ciano non capì. Il colonnello, seguito dall'intera compagnia di paracadutisti, prese l'ex dittatore sotto braccio e lo condusse di nuovo verso la torre del palazzo. Un enorme elicottero da combattimento si avvicinò rapido ai merli di Palazzo Venezia. Ciano si lasciò caricare dolcemente a bordo come un fragile pacco. Il suo vecchio padrone, il fascismo, non esisteva più. Ora lo reclamava il nuovo: un altro vecchio come lui, infinitamente più potente di lui. Il suo nome era Albert Speer. "Galeazzo Ciano ha lasciato in questo momento il balcone, che viene chiuso alle sue spalle, stavolta per sempre!" disse concitato Marco Diletti. "Zennaro" riprese Marco chiamando in causa il primo dei suoi colleghi, "tu sei proprio sotto il balcone, cosa puoi dirci?". "Vi dò anzitutto una notizia in anteprima" rispose subito il cronista, imbaldanzito. "Ciano sarà esiliato in Germania. Lo abbiamo saputo da fonti del Vaticano. Poco fa, due alti prelati hanno fatto il loro ingresso in Palazzo Venezia, entrando dal retro. Pare che tra loro ci fosse il cardinale Segretario di Stato. La partenza di Ciano per la Germania insieme con il corpo di spedizione tedesco è stata l'unica condizione chiesta dall'Oberkommando della Reichswehr per ritirare la XII divisione aviotrasportata da Roma". La regia si mosse subito, facendo vedere i paracadutisti che si inquadravano in colonna lungo viale Benito Mussolini per raggiungere blindati e camion, in procinto di ripartire alla volta di Ciampino. Zennaro riprese a parlare "Posso inoltre confermarvi" disse, "la notizia della morte del presidente del Consiglio Maria De Carli. Il cadavere del capo del governo è stato trovato nei pressi del complesso di sicurezza di via Tasso, uno degli edifici presi di mira dai bombardamenti di questa notte. Dai primissimi referti pare che il presidente del Consiglio sia stata raggiunta da una scheggia di granata alla testa". "Una notizia che cambia completamente il quadro politico" - disse Marco. "Agostini, ci sei?" chiese quindi al suo altro collega. "Sì ci sono, Marco, e posso darti un'altra notizia. I tedeschi hanno rilasciato un gruppo paramilitare di estrema sinistra che avrebbe dovuto catturare Ciano all'alba. Gli armati erano riusciti a penetrare a Palazzo Venezia e ad avvicinare la loro vittima. Poi sono stati sorpresi dall'azione dei paracadutisti germanici. Ora sono stati consegnati ai Carabinieri. Qui con me ho un testimone della svolta di questa notte, un capo del Movimento Studentesco, il gruppo politico che pare abbia negoziato lo svolgimento
pacifico di uno dei cortei che sono arrivati qui in piazza. Al mio microfono Valerio Fortunato, che è stato anche detenuto in via Tasso fino all'attacco tedesco". Marco vide il volto gonfio di Valerio. Vicino a lui, in disparte, Silvia e Giorgio Boria. Tutto era dunque andato bene. "Volevo solo dire" iniziò Valerio, che il Movimento Studentesco è stato pubblicamente diffamato. Mi riferisco all'intervento in televisione di Settimo Fornari. Un intervento coartato per diretta iniziativa di Maria De Carli. Posso confermare che l'ex capo del governo è stata presente in ogni singola fase del mio interrogatorio e ne ha condiviso le modalità in ogni singolo particolare. Fornari è stato torturato come me, e dunque non c'è una parola di vero in quanto ha detto". "Lei dunque sostiene che nel complesso di sicurezza di via Tasso veniva praticata la tortura?" chiese Giorgio Agostini fiutando la notizia. Valerio levò le mani piagate davanti alla telecamera. "A me personalmente sono state strappate le unghie e rotte alcune costole. Ci picchiavano con sacchi di iuta pieni di arance. Alcuni prigionieri sono stati soffocati con asciugamani intrisi d'acqua. Dopo il bagno di sangue di ieri, migliaia di studenti sono stati divisi fra via Tasso, Lo Stadio Olimpico e il Flaminio, e affidati, si fa per dire, alle cure delle nuove unità scelte della Milizia, gli incappucciati che hanno sparato nel centro di Roma. Sappiamo che i tedeschi hanno liberato tutte le persone concentrate all'Olimpico e al Flaminio, ma decine, forse centinaia di compagni mancano all'appello. Occorre fare luce sulla loro sorte. A via Tasso, infine" aggiunse Valerio con un sospiro, "è stato portato anche il segretario del Partito Comunista Italiano, Antonio Murgita. Maria De Carli voleva sbarazzarsi anche di lui...". "E Murgita" interruppe frenetico Michele Zennaro, "ci ha raggiunto alla nostra postazione... Ci sono centinaia di persone davanti a me che lo acclamano, sventolando bandiere rosse. Murgita, come sono andate per lei queste ultime ore?". Il segretario del P.C.I. corrugò la fronte fino ad assumere l'aspetto di una vecchia tartaruga, poi si aggiustò nell'orecchio l'auricolare che Zennaro gli aveva porto. Guardò lo sventolio di drappi rossi: i più scalmanati simpatizzanti portavano ancora il distintivo del Partito Fascista. Con una smorfia di fastidio si rivolse quindi alla telecamera. "Il governo liberticida guidato da Maria De Carli è caduto. Vengo dal Quirinale, dove il Re ha posto la sua firma sotto il decreto straordinario di scioglimento dell'esecutivo. Poco importa la sorte fisica dell'ex presidente del Consiglio. Occorre dire anzitutto che cinquant'anni di dittatura hanno
lasciato l'Italia al punto in cui Mussolini la prese nel 1922: esponenti dei vecchi partiti di opposizione non hanno esitato a entrare in un gabinetto comprendente fascisti - e che fascisti! - pur di sedersi nuovamente su una poltrona importante...". Nonostante nessuno potesse vedere il capo comunista, schiacciato com'era contro il portale sotto il balcone del palazzo, le parole di Murgita, amplificate dai microfoni della televisione, suscitarono l'entusiasmo della folla radunata in piazza Venezia. A Marco erano arrivate le ultime stime dei Carabinieri: più di trecentomila persone stipate fra via Quattro Novembre e il Sacrario del Duce. "...C'è però una cosa da dire subito, ora" continuò Antonio Murgita raddoppiando enfaticamente ogni consonante. "Dove siete stati, voi che siete oggi in piazza, negli ultimi trent'anni?". Un mormorio di sorpresa arrivò da trecentomila bocche. "Dov'eravate a guerra finita, quando il regime era vulnerabile? Dov'eravate quando Galeazzo Ciano, per debolezza, concedeva divorzio e libertà civili con il contagocce, mentre all'estero continuavano gli assassinii politici e a via Tasso sparivano, discretamente, decine di oppositori?". Un'area di rispetto cominciò ad allargarsi intorno al segretario comunista. La folla cominciò a indietreggiare da sotto il balcone. I drappi rossi cominciarono a essere riposti. "È facile sventolare una bandiera rossa con il regime fascista ormai sepolto. Chiedetelo a chi di voi, ce ne sono in questa piazza, provò a fare lo stesso appena cinque o dieci anni fa!". "Io ho perso un fratello in via Tasso!" urlò una voce maschile. "Mio figlio è stato prelevato a casa e non è più ritornato!" fece eco una donna. Il silenzio tornò improvviso in piazza. "Maria De Carli" riprese Murgita tenendosi con la mano il fianco malato, "con l'appoggio della fazione militare nazionalista e antisemita ormai egemone nei paesi del Patto di Varsavia, voleva arrivare a una svolta totalitaria in Italia. Avremmo avuto sì, petrolio dalla Romania e gas dalla Siberia, ma ci saremmo ritrovati con gli eserciti più numerosi d'Europa al confine. E la tutela di regimi ormai comunisti solo di nome, ma fascisti di fatto, per ragioni di geopolitica ci avrebbe scatenato contro un intervento internazionale. L'attacco tedesco è stato solo un assaggio. L'Italia, scampata miracolosamente alla Seconda Guerra Mondiale, sarebbe potuta essere il detonatore della terza!". "...Un'intervista" commentava intanto Marco al microfono, "che sta diventando un vero e proprio comizio, il primo dell'Italia postfascista. Per
il valore giornalistico delle affermazioni di Antonio Murgita, ritengo opportuno continuare ad ascoltarlo". "Voi tutti" esclamò il segretario comunista "per paura o opportunismo non avete voluto vedere cosa si preparava per il nostro paese! Siete scesi in piazza a chiedere conto a Ciano solo quando avete cominciato a vedere la distruzione delle vostre case. Ma la stessa distruzione l'avevate vista trent'anni fa nei filmati del cinegiornale, sapevate già cos'era la guerra. Solo ieri pomeriggio la morte programmata a freddo dal governo di questo paese si è abbattuta sui suoi figli più coraggiosi: cinquantamila ragazzi che hanno sfidato il nazismo proprio mentre risorgeva... A via Tasso ho visto centinaia di prigionieri, centinaia di giovani picchiati e brutalizzati. Altre centinaia, forse migliaia, sono morti o dispersi. E dopo tutto questo, voi vorreste solo sventolare una bandiera di diverso colore?". La folla si era ritirata fino al centro di piazza Venezia. Suo malgrado, Antonio Murgita si ritrovò issato su una pedana di legno fatta arrivare da chissà dove. Dalla sua nuova posizione si accorse della smorfia di disagio e vergogna che pervadeva le facce dei più. "Per vent'anni il fascismo di Mussolini è stato il regime dell'entusiasmo!" Murgita si volse verso il Sacrario del Duce, dove spiccava l'assenza dei miliziani di guardia. "Quel monumento" - disse indicando la vecchia 'macchina da scrivere' - "è nato come omaggio a chi combatté per la patria: voi l'avete trasformato in esaltazione di chi vi aveva tolto la libertà. Morto il Duce, per altri trent'anni avete accettato il paternalismo di Ciano, chiudendo gli occhi sui suoi crimini. Ora non potrete più farlo: d'ora in poi non ci sarà più nessuno che deciderà allo stesso modo per voi. Democrazia è responsabilità. Ve lo ha insegnato chi è morto in silenzio in tutti questi anni, proprio come quell'ignoto soldato sfrattato trent'anni fa dall'Altare della Patria. Ve lo hanno mostrato gli studenti falciati a decine per queste strade appena tre giorni fa. Possiate essere degni di sacrifici così nobili". Repentinamente come vi era salito, Murgita scese dalla pedana e si allontanò in solitudine verso il palazzetto di Venezia. In silenzio, come a un segnale convenuto, i trecentomila cominciarono a sfollare la piazza. 32 "...Un discorso da leader, un discorso che, nell'attuale fase di vuoto
istituzionale, potrebbe candidare Antonio Murgita a un ruolo importante nella nuova Italia che esce dal fascismo...". Marco terminò di commentare il comizio in diretta televisiva del segretario comunista rendendosi conto, proprio mentre le pronunciava, che le sue analisi non avevano molto fondamento. Era chiaro che Antonio Murgita sapeva bene quali erano i sentimenti di fondo degli italiani, riassunti così bene da quelle bandiere rosse uscite quasi per magia dal fondo degli armadi, dove erano custodite insieme alle vecchie e ormai consunte camicie nere. Gli italiani, rifletté Marco mentre la regia effettuava una panoramica sulla piazza ancora gremita di gente, avrebbero appoggiato chi li avrebbe nuovamente rassicurati, non certo un uomo che così brutalmente li aveva posti di fronte ai propri limiti. Mentre tecnici e specializzati cominciavano a smontare cavi e collegamenti, uno scalpiccio echeggiò improvviso alle spalle del giornalista. Marco si voltò e vide farglisi incontro Valerio, Silvia e Giorgio Boria. "È finita, allora!" disse Marco allegramente, pentendosi subito di quelle parole. "È appena cominciata, vorrai dire" lo corresse Valerio reggendosi il fianco in una posa che ricordava molto quella di Antonio Murgita. "Comincia adesso per noi, comincia adesso anche per voi. Non pensi, Marco, che la prima cosa di cui ti dovrai occupare è proprio il vostro telegiornale? Quel carrozzone pieno di fascisti in libera uscita che è l'Immagine Italiana? La diretta di oggi ti candida a un ruolo guida, non puoi tirarti indietro!". Ancora la responsabilità, quel tarlo che sembrava caratterizzare tutti quelli che più lucidamente parlavano di socialismo! Marco sospirò esasperato: negli occhi di Valerio c'era la stessa luce che aveva visto poco prima in quelli di Murgita. "Bisognerà contattare tutti i collettivi di ateneo" disse velocemente Valerio, voltandosi verso Giorgio Boria, "redigere un documento comune e organizzare una riunione comune con i comitati di fabbrica: operai e studenti dovranno partecipare attivamente al nuovo momento politico. Dobbiamo farci vedere, magari dare vita a una lista per le elezioni...". Valerio si allontanò, le spalle circondate da una delle grosse braccia di Giorgio Boria "Tutto questo non ti convince, vero?". Marco udì la domanda mentre un'esile mano gli carezzava una guancia. "Il fatto è..." rispose a Silvia "che ne ho viste tante, e così in poco tempo...".
"Non credo che sia così" disse Silvia, la voce che le si faceva più secca. "Hai paura, proprio come quella gente là sotto mentre ascoltava Murgita. Hai paura di cambiare, di dover scegliere. Temi di perdere i vantaggi che potresti acquisire con la tua posizione...". "Ma no, è che solo pochi mesi fa Maria De Carli ci parlava di Unione Sovietica e fronte comune tra socialismo e fascismo, ora il capo dei comunisti fa abbassare le bandiere rosse che festeggiano la fine del regime... Sono disorientato, come tutti". "Murgita non è disorientato. Valerio sta per fare qualcosa di concreto, sta per elaborare la proposta di un nuovo movimento politico. Tu sei disorientato perché vuoi ancora stare in mezzo al guado... Non ti accorgi che il fiume ti si è asciugato sotto i piedi...". "Silvia, io ho quasi quaranta anni. Non riesco ad appassionarmi più per niente. Tutte le certezze che avevo se ne sono andate in pochi giorni. Posso solo continuare a fare il mio mestiere...". "E ieri, quando hai suggerito a Virgilio di rapire Ciano, facevi il tuo mestiere? Quando con noi hai attraversato Roma occupata dai tedeschi facevi il tuo mestiere? Volevi solo intervistare il generale tedesco, quando sei venuto con noi a parlamentare con lui? L'iniziativa della diretta da piazza Venezia è stata tua: con la tua trasmissione è finito il fascismo ed è nato il personaggio pubblico Antonio Murgita!". "Io... Io non posso confondere il mio lavoro con la realtà, non posso manipolarla!". "Lo hai già fatto, non capisci? E con la passione che dici di non avere più. Senza la televisione, e senza di te, tutto questo non sarebbe successo!" Marco guardò Silvia disperato. Durante la diretta aveva solo pensato ai tempi, agli stacchi della regia e a dare ai suoi colleghi lo spazio necessario per commentare quanto stava accadendo. Non aveva per nulla riflettuto sul fatto che quanto stesse facendo, il modo in cui lo faceva, interagisse con gli eventi. Anzi, mentre Murgita terminava di dire il fatto suo ai trecentomila di piazza Venezia, Marco si era distratto, cullando di nuovo l'idea del nuovo ufficio e della nuova qualifica che l'intervista a Maria De Carli avevano portato lontano da lui. Dopo questa trasmissione, si era detto, non potranno negarmi più niente. "Tu lo hai fatto solo per la carriera, non è vero?" chiese a un tratto Silvia, atona. "Io sono un giornalista, Silvia...". "Lo avevo capito dalle tue prime interviste alla De Carli, sai? Ma non
volevo accettarlo. Cristo, come mi sono potuta sbagliare così?" Silvia si nascose il viso tra le mani e scoppiò in singhiozzi. Fuggì via veloce, schivando gli ultimi operai che sgomberavano da cavi e gruppi elettrogeni il salone del Palazzo delle Assicurazioni. Nessuno si voltò a guardarla. Marco rimase per un po' a fissarsi la punta della cravatta. Un paio di ore prima della diretta, mentre si cambiava nel bagno del salone di rappresentanza del palazzo delle Assicurazioni, aveva scelto con cura gli abbinamenti di vestiario, terminando proprio con quella cravatta rossa a piccoli pois bianchi. Un regalo di Silvia. Aveva deciso di mettersela come portafortuna, e per anticipare la giornata che, una volta terminato di lavorare, aveva deciso di trascorrere con la donna. Non poteva dire se l'avesse mai amata. Tutto dentro di lui sembrava essere sprofondato in un oscuro e angusto pozzo di confusione. Una mano lo toccò a un tratto sulla spalla. Convinto che fosse Silvia, Marco si voltò di colpo. Stavolta le avrebbe detto senza esitare tutto quello che sentiva, e... Gli occhi del giornalista incontrarono lo sguardo duro e freddo di un uomo alto, dal collo taurino, il volto sfregiato da quattro lunghi graffi imbrattati di sangue rappreso. Lo sconosciuto portava una tuta mimetica grigioverde. Anche se i gradi e le mostrine erano stati strappati, Marco riconobbe all'istante i colori delle unità speciali della Milizia, e sempre all'istante il pensiero di Silvia lo abbandonò. Quell'uomo forse gli si era fatto sotto per ucciderlo a sangue freddo, come un traditore dell'Italia fascista. Marco impallidì mentre l'uomo, premendosi con un fazzoletto sporco le ferite sulla faccia, infilava l'altra mano sotto la propria uniforme. Con studiata lentezza, un sogghigno che si allargava sempre più sulle labbra, il miliziano tese al giornalista una consunta cartellina verde. "Che c'è, grand'uomo, seppellisci in diretta mezzo secolo di regime e hai paura di quattro carte? Guarda, guarda qui dentro. C'è qualche notiziola sul vostro nuovo padrone!...". Marco prese l'incartamento che lo sconosciuto gli tendeva, macchinalmente cominciò a sfogliarne le pagine. Gli cadde l'occhio sull'intestazione di ciascun protocollo: 'Rapporto informativo steso da Murgita Antonio in data...'. Le schede iniziavano nel 1940, precedute da una disposizione di soggiorno obbligato del 1939. "Ma... cosa vuoi dire?..." chiese Marco alzando gli occhi dal dossier. Davanti a lui, però, non c'era più nessuno. Il miliziano, arrivato da chissà dove, era di nuovo sparito nel nulla. Marco tornò a leggere i vecchi documenti dell'O.V.R.A. Confrontò
alcune date, quasi senza rendersene conto, cominciò a scrivere a penna i primi appunti. Sempre leggendo, scese di corsa lo scalone del Palazzo delle Assicurazioni e si trovò di colpo nella piazza ormai deserta e investita dal sole del mattino. A gran voce chiamò a sé i giovani colleghi Zennaro e Agostini, e cominciò a distribuire loro i rapporti. Dopo un breve consulto, i tre giornalisti montarono su uno dei pulmini bicamere. La vettura si allontanò a tutta velocità verso via Teulada. Poco prima di imboccare il corso, Marco gettò un ultimo sguardo verso il balcone di palazzo Venezia. Sul pennone fissato alla balaustra, agganciata da chissà chi nella confusione di quella mattina, sventolava pigramente alla brezza di marzo un'incongrua bandiera rossa. FINE