RELIGIOSITÀ
POPOLARE
TRA ANTROPOLOGIA E STORIA DELLE RELIGIONI
Relatori scientici: Prof. univ. dr. Dumitru Pop Prof. univ. dr. Aurel Codoban In copertina: The buzdugan (mace) at the parson’s husking bee, Drăguş, 1929, V. M. Archives, in Iosif Berman (a photo-album conceived by Ioana Popescu), “Martor” Supplement. The Museum of the Romanian Peasant Anthropology Review, nr.3, 1998. Grafica della copertina: Horia Cosma
© 2002 Ileana Benga, Bogdan Neagota Tutti diritti d’autore riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale o integrale del testo, con qualsiasi mezzo effettuata, senza l’accordo degli autori.
Università “Babeş-Bolyai” Casa editrice Presa Universitară Clujeană Direttore: Horia Cosma Via Republicii 24 - 3400 Cluj-Napoca, Romania Tel.: +40 64 405352 Fax: +40 64 191906 E-mail:
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ISBN 973-610-073-1
A cura di
Ileana Benga
Bogdan Neagota
RELIGIOSITÀ POPOLARE TRA ANTROPOLOGIA E STORIA DELLE RELIGIONI
Atti del Convegno Accademia di Romania in Roma, 15-17 giugno 2000
Presa Universitară Clujeană Cluj-Napoca, 2002
Marian Papahagi, in memoriam
ELENCO DEGLI AUTORI Ileana Benga Ricercatrice all’Istituto “Archivio Folclorico” dell’Accademia Romena, ClujNapoca Lucia Berdan Ricercatrice al Dipartimento di Folclore, Istituto di Filologia “A. Philippide”, Iaşi Ignazio Emanuele Buttitta Professore al Dipartimento di Antropologia, Polo universitario di Oristano Mihai Alexandru Canciovici Ricercatore all’Istituto di Etnografia e Folclore “C.Brăiloiu” dell’Accademia Romena, Bucarest Silvia Chiţimia Ricercatrice all’Istituto di Etnografia e Folclore “C.Brăiloiu” dell’Accademia Romena, Bucarest Alberto Mario Cirese Professore emerito di Antropologia culturale all’Università “La Sapienza” di Roma Lucia Cireş Ricercatrice al Dipartimento di Folclore, Istituto di Filologia “A. Philippide”, Iaşi Nicoleta Coatu Ricercatrice all’Istituto di Etnografia e Folclore “C.Brăiloiu” dell’Accademia Romena, Bucarest Aurel Codoban Professore al Dipartimento di Filosofia, Università “Babeş-Bolyai”, ClujNapoca Nicolae Constantinescu Professore al Dipartimento di Etnologia, Università di Bucarest Francesco Faeta Professore di Antropologia culturale, Università degli Studi di Messina Paolo Maria Guarrera Ricercatore al Museo delle Arti e delle Tradizioni Popolari, Roma
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Elsa Guggino Professoressa di Antropologia culturale all’Università di Palermo Sabina Ispas Direttrice dell’Istituto di Etnografia e Folclore “C.Brăiloiu” dell’Accademia Romena, Bucarest Laura Jiga Ricercatrice all’Istituto di Etnografia e Folclore “C.Brăiloiu” dell’Accademia Romena, Bucarest Vittorio Lanternari Professore emerito di Etnologia e Storia delle Religioni alle Università di Bari e “La Sapienza” di Roma Roberta Moretti Ricercatrice all’Università degli Studi di Siena Bogdan Neagota Ricercatore al Dipartimento di Filologia Classica, Università “Babeş-Bolyai”, Cluj-Napoca Alexandru Ofrim Ricercatore al Dipartimento di Storia, Università di Bucarest Lucia Ofrim Ricercatrice al Dipartimento di Etnologia, Università di Bucarest Dumitru Pop Professore emerito di Folclore, Università “Babeş-Bolyai”, Cluj-Napoca Sorina Romano Ricercatrice al Museo delle Arti e delle Tradizioni Popolari, Roma Gaetano Scollo Antropologo, Roma Elisabeta Silvestrini Ricercatrice al Museo delle Arti e Tradizioni Popolari, Roma Ion Taloş Professore al Dipartimento di Filologia romanza, Università di Colonia Luisa Valmarin Professoressa di Lingua e Letteratura Romena all’Università “La Sapienza”, Roma
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RINGRAZIAMENTI
Questo volume raccoglie la maggior parte degli atti di un convegno italo-romeno di etnologia e storia delle religioni, organizzato da noi all’Accademia di Romania di Roma (15-17 giugno 2000). A quel tempo eravamo borsisti del governo romeno, nell’ambito del progetto del Prof. Marian Papahagi1 di rifare la Scuola Romena2 all’Accademia Romena di Roma e all’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia. Il nostro intento era di iscriverci a questo progetto generoso, cioè di riavvicinare e di aprire verso un dialogo autentico le scuole italiana e romena di etno-antropologia e storia delle religioni. Il convegno, che ha goduto di una larga partecipazione italiana e romena, mirava a rilanciare e ad ampliare i contatti tra gli specialisti romeni ed italiani di questi campi di attività, tanto più quanto che le ricerche etnologiche e storico-religiose dei due paesi si ignorano, sfortunatamente, reciprocamente. Prima di tutto, vogliamo ringraziare a tutti i partecipanti al nostro convegno per la loro fiducia. È un onore sappere che tanti sforzi siano stati fatti da parte loro per rendere possibile questo incontro, tanto necessario e tanto desiderato non soltanto da noi. Infatti, il primo a far possibile un dialogo fertile tra le nuove generazioni di ricercatori romeni e le direzioni scientifiche moderne del mondo italiano fu il Professore Marian Papahagi, Direttore dell’Accademia di Romania in Roma, che adesso non c’è più. La sua presenza ci manca irrimediabilmente, ma stiamo cercando almeno di seguire le sue idee e le sue brillanti intenzioni per quanto riguarda la Scuola
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Marian Papahagi (1948-1999), uno dei più grandi italianisti romeni, capo del Dipartimento di Lingue e Letterature Romanze dell’Università “Babeş-Bolyai”, Cluj-Napoca e direttore dell’Accademia di Romania di Roma nel periodo 1997-1999. 2 Fondata nel 1922, la Scuola Romena di Roma ha funzionato fino a 1947, quando è stata chiusa dal regime comunista di Romania e il suo edificio, l’Accademia Romena di Roma è stato abbandonato fino a 1967, quando viene riaperto come Biblioteca Romena a Roma. Dopo 1989, l’istituzione cambia ancora una volta il suo statuto, diventando il Centro Culturale Romeno. La Scuola Romena viene ricreata in 1998, grazie agli sforzi del Prof. Marian Papahagi, direttore dell’Accademia di Romania e con l’appoggio del Prof. Ion Bulei, direttore dell’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia, con una prima generazione di borsisti “Vasile Pârvan” (all’Accademia di Romania di Roma) e “Nicolae Iorga” (all’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia), nel periodo 19992000.
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Romena di Roma, con l’intento di imporre l’idea di una benefica conoscenza reciproca delle due zone culturali. I nostri ringraziamenti profondi si rivolgono a tutti quelli che ci hanno aiutato a dar vita a questo incontro: il Dott. Matei Romeo Pitulan, bibliotecario dell’Accademia di Romania in Roma, il Prof. Gh. Mândrescu, vice-direttore dell’Accademia e non ad ultimo posto ai nostri colleghi borsisti presso l’Accademia, particolarmente Irina Băldescu e Irina Achim. In quanto riguarda la pubblicazione del libro degli atti del convegno, ringraziamo i nostri colleghi dal Dipartimento di Lingue e Letterature Romanze, la Dott.ssa Monika Fekete e la studentessa Amalia Mihuţ, per la loro pregevole assistenza linguistica. Siamo molto grati al Prof. Dumitru Pop, per il suo costante sostegno morale, al prof Gheorghe Benga, per il suo aiuto nella pubblicazione di questo volume e al Dott. Horia Cosma, direttore della Casa Editrice “Presa Universitară Clujeană”.
Ileana Benga e Bogdan Neagota
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INDICE Elenco degli autori
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Ringraziamenti
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Bogdan Neagota, Ileana Benga Appunti italo-romeni di etnologia e storia delle religioni
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Alberto Mario Cirese Considerazioni introduttive
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I. PRATICHE FUNERARIE E RAPPRESENTAZIONI ESCATOLOGICHE Elsa Guggino Il pianto funebre in Sicilia
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Luisa Valmarin “Le dogane del cielo”, una psicanodia folclorica
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Alberto Mario Cirese Conclusioni alla fine della prima parte dei lavori
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II. CRISTIANESIMO POPOLARE: MITI E FESTE Vittorio Lanternari Quale risveglio religioso alla soglia del nuovo millennio?
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Dumitru Pop La religiosità popolare nel folclore e nel comportamento dei romeni
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Nicolae Constantinescu The Pagan-Christian Syncretism in the Romanian Traditional Customs’ Poetry 109
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Ignazio Emanuele Buttitta Fiamme di vita. Falò cerimoniali del fuoco in Sardegna e Sicilia
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Sabina Ispas The Symbol of Light in the Romanian Popular Tradition of Christmas
145
Ion Taloş Maria Vergine nell'immaginario popolare romeno
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Mihai Alexandru Canciovici Des symboles chrétiens dans la legende populaire roumaine
167
Laura Jiga The Reward of Paradise. Textualization of Images of Paradise in Romanian Alexander Romance and Folk Legends
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Silvia Chiţimia Les balais du Paradis. Symboles chrétiens dans les chants Roumains de Noël 191 Lucia Berdan Le monastère cosmique. Étude de hiérologie ethnologique
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Sorina Romano Il genere della fiaba nel folclore romeno
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III. IPOSTASI DEL MAGICO Lucia Ofrim, Alexandru Ofrim Apertio Librorum. Books and Magic in a Romanian Village
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Nicoleta Coatu Sur l’hérmeneutique de la magie traditionelle roumaine
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Paolo Maria Guarrera Su alcuni usi tradizionali magico-religiosi di piante nell'Italia Centrale
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Lucia Cireş Éléments magiques et religieuses dans la medicine empirique de Moldavie
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Ileana Benga Rubare il latte: fertilità terrena e minaccia del vivente. Note su un’ indagine etnografica in Zarand, Romania
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Gaetano Scollo Medicina popolare e magia a Gela: la malattia come evento sociale
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IV. PROSPETTIVE TEORICHE Francesco Faeta Un rito tra religione e politica: qualche considerazione teorica e metodologica
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Elisabeta Silvestrini Simulacri “da vestire”. Cultura materiale, antropologia dell’abigliamento, antropologia dell’immagine
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Aurel Codoban Sullo gnosticismo del “cristianesimo popolare” romeno
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Roberta Moretti Ioan P. Culianu, storico delle idee: esempi di metodologia ermeneutica
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Bogdan Neagota Religione popolare e religioni antiche. Prospettive comparativiste
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B. NEAGOTA, I. BENGA ● Appunti italo-romeni di etnologia e storia delle religioni
APPUNTI ITALO-ROMENI DI ETNOLOGIA E STORIA DELLE RELIGIONI Bogdan Neagota, Ileana Benga
Etnologia e storia delle religioni In Italia, l’etnologia e la storia delle religioni hanno avuto un tragitto comune, sviluppandosi insieme nel contesto dello storicismo complesso promosso da Raffaele Pettazzoni, il fondatore di una corrente culturale di un valore importantissimo, che è rimasta purtroppo quasi-sconociuta nella Romania di dopo il 1945. Pettazzoni è stato uno dei pochi storici delle religioni che ha assunto l’intera area di Religionwissenschaft, cioè di uno studio integrale delle religioni1. I suoi discepoli (Uberto Pestalozza, Angelo Brelich, Ernesto De Martino, Vittorio Lanternari, Alessandro Bausani, Ugo Bianchi), hanno continuato il suo metodo complesso, valorizzando la storicità di ogni creazione religiosa. In Romania, gli studi interbellici di Mircea Eliade hanno proposto una prospettiva interdisciplinare per lo studio della religiosità popolare romena, cioè una apertura verso la scienza delle religioni, nel senso della complementarietà di queste discipline2. Si tratta di temi specifici, come la storicità di alcuni fatti (documenti) foclorici, la mitizzazione e la riduzione della storicità all’archetipico, la relazione tra l’etnologia e la speologia3, la critica del dilettantismo metodologico nell’etnologia romena e dello storicismo del XIX-esimo secolo4, dei saggi storico-religiosi su vari motivi (riti e miti di costruzione, leggende di piante miracolose - le erbe al di sotto la
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vedi Mircea Eliade, Nostalgia originilor. Istorie şi semnificaţie în religie, Editura Humanitas, Bucureşti, 1994, pp.53-57 (“Pettazzoni şi allgemeine Religionwissenschaft”). 2 Mircea Eliade, Meşterul Manole. Studii de etnologie şi mitologie (edizione di Magda e Petru Ursache), Editura Junimea, Iaşi, 1992. 3 M.Eliade, Folklorul ca instrument de cunoaştere (1937), nel vol. Meşterul Manole…, pp.172, 177-178. Urme istorice în folklorul balcanic (1939), ibid., p.150. Folklor şi istorie (1938), ibid., p.146. Comentarii la legenda Meşterului Manole (1943), cap. “Folclor şi metafizică”, ibid., pp.62-69. Speologie, istorie, folklor (1939), ibid., p.303. 4 M.Eliade, Arhiva de Folclor (1935), ibid., pp.309-312. Folklorul ca instrument de cunoaştere, ibid., p.174.
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B. NEAGOTA, I. BENGA ● Appunti italo-romeni di etnologia e storia delle religioni
croce, la belladonna, la petra dei serpenti, la demonologia popolare ecc.)5. Poi, nei suoi scritti del dopoguerra, ha continuato le ricerche comparativiste sulla religione popolare6, sottolineando la interdipendenza tra etnologia, antropologia e storia delle religioni, in quanto riguarda le ricerche sulle culture popolare europee e sulle culture arcaiche estraeuropee7. Prospettive comparativiste romanze Il sostrato romanico della cultura popolare romena è stato utilizzato sin dall’inizio dagli intellettuali romeni come prova, tra altri argomenti, nelle loro dimostrazioni identitarie storiciste, che miravano all’integrazione europea del popolo romeno, isolato dalle sue radici latine da una Storia ostile8. Si tratta dei lavori dei cronisti romeni del Rinascimento e degli eruditi del Barocco romeno9 (Miron Costin e Dimitrie Cantemir10), che hanno realizzato per la prima volta la sintesi tra lo sfondo della coscienza autoctona della romanità dei romeni (la discendenza romana affermata in leggende e in tradizioni orali) e l’argomentazione scientifica, livresca, della origine romana del popolo romeno11. Le loro tesi sono state ampliate dagli storicisti dell’Illuminismo romeno di Transilvania (Samuil Micu Clain12, Ion Budai Deleanu13, 5
M.Eliade, Comentarii la legenda Meşterului Manole (1943), ibid., pp.55-144. Ierburile de sub cruce (1939), ibid., pp.221-236. Mătrăguna (1933) e Legenda mătrăgunei (1933), ibid., pp.237-243. Piatra şerpilor. Studiu de folklor comparat, ibid., pp.243-252. Demonologie indiană şi o legendă românească, ibid., pp.253-259. 6 Mircea Eliade, De la Zalmoxis la Genghis-Han. Studii comparative despre religie şi folclorul Daciei şi Europei Orientale, Editura ştiinţifică şi enciclopedică, Bucureşti, 1980. 7 Mircea Eliade, Nostalgia originilor. Istorie şi semnificaţie în religie, Editura Humanitas, 1994, pp.29-65 (cap.II) e 117-124 (Mitul viu şi istoricul religiilor). 8 D’altronde, questa valorificazzione negativa della Storia come “terrore”, “comploto” o “boicottaggio” sarà ripresa anche dagli “antistoricisti” romeni del XX-essimo secolo (L. Blaga, M. Vulcănescu, M. Eliade, C. Noica). 9 Dan Horia Mazilu, Literatura română în epoca Renaşterii, Editura Minerva, Bucureşti, 1984, pp.91-106. Barocul în literatura română din secolul al XVII-lea, Editura Minerva, Bucureşti, 1976. 10 vedi Adrian Fochi, Dimitrie Cantemir, etnograf şi folclorist, in REF, IX, 1964, 1-2. 11 Adolf Ambruster, Romanitatea românilor. Istoria unei idei, Editura Enciclopedică, Bucureşti, 1993 (ed.II revăzută şi adăugită). 12 Micu Clain ha professato uno storicismo di ispirazione vichiana e ha subordinato le descrizioni etnologiche alle sue dimostrazioni identitarie. cf. Ion Muşlea, Samuil Micu Clain şi folclorul, nel volume “Cercetări etnografice şi de folclor”, I, 1971, pp.13-18.
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B. NEAGOTA, I. BENGA ● Appunti italo-romeni di etnologia e storia delle religioni
Gheorghe Şincai, Vasile Popp14), ispirato dalla Controriforma, e portate fino al parossismo dai loro discepoli del XIX-esimo secolo, nel senso che essi hanno sostenuto la filiazione romana diretta della cultura popolare romena e un parallelismo rigido tra i costumi romani e le tradizioni orali romeni: i “latinisti” di Banat15 (Dimitrie Ţichindeal16, Eftimie Murgu17, Damaschin T. Bojâncă18, Simion Mangiuca19) e quelli radunati intorno alla rivista la “Familia”20 (Athanasie Marienescu21, Aron22 e Nicolae Densuşianu23, Grigore Silaşi24, I. Becinega25, Miron Pompiliu, Scipione Bădescu e.a.), i
13 Ovidiu Bârlea, Folclorul în “Ţiganiada” lui I.Budai Deleanu, in “Studii de folclor şi literatură”, Bucureşti, 1967, pp.497-567. 14 Autore di una dissertazione di dottorato in medicina, sostenuta e pubblicata a Vienna nel 1817 (De funeribus plebejis daco-romanorum sive hodiernorum valachorum et quibusdam circa ea abusibus perpetuo respectu habito ad veterum romanorum funera), nella quale il cerchio comparativisto latino-romeno è allargato verso il folklore italiano e le culture popolari slave. cf. I.Muşlea, Viaţa şi opera doctorului Vasile Popp (1789-1842), op.cit., pp.19-64. 15 Ion Taloş, Începuturile interesului pentru folclorul românesc din Banat, in “Studii de istorie literară şi folclor”, Bucureşti, 1964, pp.201-221. 16 Sfaturile a înţeleajerii celei sănătoase, Buda, 1802. 17 Widerlegung der Abhandlung welche unter dem Titel vorkommt: Erweiß, daß die Walachen nicht römischer Abkunft sind, 1830. 18 Anticile romanilor, 2 vol., Buda, 1832, 1833. cf. Leontin Ghergaru, Preocupările etnografice şi folcloristice ale lui Damaschin T. Bojâncă, in “Anuarul Muzeului Etnografic al Transilvaniei pe anii 1959-1961, Cluj, 1963, pp.269-281. 19 Petrecerea mortului, in “Calendarul iulian”, 1882, pp.121-143. 20 Ion Breazu, Folclorul revistelor “Familia” şi “Şezătoarea”, Sibiu, 1945. Gh.Petruşan, Iosif Vulcan şi revista Familia, Uniunea Românilor din Ungaria, Szeged, 1992, pp.169-177. 21 Datinile poporului român, “Familia”, 1866-1874. Descoperiri mari. Seran şi Zoran, Oraviţa, 1872. Cultul păgân şi creştin, t.I, Sărbătorile şi datinile romane vechi, Bucureşti, 1884. Cf. O.Bârlea, Atanasie Marienescu folclorist, in Analele Univ. din Timişoara, I (1963), pp.11-85. 22 Originea doinei, Familia, V, 1869, pp.37-38 (sull’origine romana della doina romena). De unde vine mitul Ileana Cosânzeana, in “Columna lui Traian”, III, 1872, pp.59-60. 23 Scrutări mitologice la români, “Familia”, IV, 1868, pp.127-509 (sulle eredità romane nel folklore romeno). Elementul istoric în poezia populară, Familia, VII, 1871, p.518 (sulla memoria storica della poesia popolare). Dacia preistorică, Carol Göbl, Bucureşti, 1913 (ed.II, 1986) (l’ipotesi dell’origine pelasga della civiltà mediterranea). 24 vedi Dumitru Pop, Grigore Silaşi, folclorist, in “Studia Universitatis Babeş-Bolyai“, Series Philologia, 1964, 1, pp.28-56. 25 Ziorile – datine populare, Familia, XI, 1875, pp.268-270.
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B. NEAGOTA, I. BENGA ● Appunti italo-romeni di etnologia e storia delle religioni
rappresentanti della “scuola di Blaj”26 (Timotei Cipariu27, G.Bariţiu, Nicolae Pauleti, Alexiu Viciu28) e i folkloristi sassoni della scuola mitologica di Transilvania29 (Arthur e Albert Schott30, Johann Karl Schuller31). Allo stesso periodo, in Moldavia e in Valachia si sviluppavano scuole folkloristiche romantiche, raggruppate attorno ad alcune personalità come Vasile Alecsandri32, Alexandru Odobescu33 e Bogdan Petriceicu Haşdeu34, che hanno mutato l’accento da un comparativismo storico e filologico verso un 26
Al.Lupeanu-Melin, Folcloriştii Blajului, in “Comoara Satelor”, III (1924), nr.1, pp.1-5. Virgiliu Florea, Folclorişti ardeleni. Colecţii inedite de folclor, Transilvania Press, ClujNapoca, 1994. 27 Sul motivo poetico, romeno ed italiano, di “frunză verde ” (foglia verde) vedi Timotei Cipariu, Elemente de poetică, Blaj, 1860. cf. I.Muşlea, Timotei Cipariu şi literatura populară, in op.cit., pp.65-105. 28 Alexiu Viciu aveva studiato alcuni dialetti italiani (trasteverino, veneto e siciliano), formandosi alla scuola di G.I.Ascoli (si veda A.Viciu, Limba română poporană şi dialectul sicilian, paralelă, Blaj, 1904). Per quanto riguarda il suo storicismo latinista, vedi gli studi di Viciu sui canti tradizionali natalizi (colinde), pubblicati nel periodo 1914-1937. cf. R.Todoran e I.Taloş, Studiu introductiv al volume Alexiu Viciu, Flori de câmp. Doine, strigături, bocete, balade (a cura di R.Todoran e I.Taloş), Editura Dacia, Cluj-Napoca, 1976, pp.5-49. 29 Bernhard Capesius, Adolf Schullerus şi folcloristica comparată, nel vol. Istoria şi teoria comparatismului în România (a cura di Al.Dima e Ovidiu Papadima), Editura Academiei R.S.România, Bucureşti, 1972, pp.208-211. 30 Walachische Märchen, Stuttgart und Tübingen, 1845. 31 Aus der Walachei. Romänische Gedichte und Sprichwörter, Sibiu, 1852. Romänische Volkslieder, Sibiu, 1859. Über einige merkwürdige Volksagen der Römenen, Sibiu, 1857. Kloster Argisch eine Romänische Volkssage, Sibiu, 1858. Kolinda. Eine Studie über Romänische Weinachtslieder, Sibiu, 1860. 32 Si vedano le note al vol. Poesii populare ale românilor, Bucureşti, 1866 e il saggio Românii şi poezia lor, in “Bucovina”, 1849-1850. Per i rapporti di Alecsandri con la scuola demologica italana, vedi A.M.Cirese, I rapporti italo-rumeni nella filologia demologica, in Il Veltro, 13. (1969), n. 1/2 : 265-272. 33 Odobescu ha proposto un comparativismo mitologico orientato verso l’antichità grecoromana e le culture popolare sud-est europee. vedi Cântice poporane ale Europei răsăritene, în raport cu ţara, istoria şi datinile românilor. Răsunete ale Pindului în Carpaţi, “Revista română”, 1861. 34 Per il quadro generale della “scuola Haşdeu”, vedi Vistian Goia, B.P.Haşdeu şi discipolii săi, Editura Minerva, Bucureşti, 1987. Rodica Florea, Manifestări comparatiste româneşti în a doua jumătate a secolului al XIX-lea, nel vol. Istoria şi teoria comparatismului în România, Bucureşti, 1972, pp.17-70. I.C.Chiţimia, Folclorişti şi folcloristică românescă, Editura Academiei R.S.România, Bucureşti, 1968, pp. 37-72. Ovidiu Papadima, Folclorul în periodicele lui Haşdeu, nel volume “Studii de istorie a literaturii române. De la C.A.Rosetti la G.Călinescu”, Ed. Academiei R.S.România, Bucureşti, 1968, pp.217-334.
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B. NEAGOTA, I. BENGA ● Appunti italo-romeni di etnologia e storia delle religioni
comparativismo centrato sul folklore. Haşdeu è il vero fondatore della etnologia scientifica romena, promuovendo una metodologia complessa, interdisciplinare, linguistico-folklorica e storica simultaneamente e pratticando un comparativismo moderato, aperto agli studi di indoeuropenistica e di folkloristica europea35. I suoi grandi discepoli, Lazăr Şăineanu36 e Moses Gaster37, hanno continuato ed allargato il comparativismo enciclopedico del loro maestro, mentre altri suoi allievi sono rimasti più o meno nel ambito del comparativismo latinizzante (G. Dem Teodorescu38, Gr. G. Tocilescu39, Theodor T. Burada40). 35
vedi gli studi di Haşdeu pubblicati nella sua rivista, “Columna lui Traian”: Originile viniculturei la români e Originile păstoriei la români. Elemente dacice, V, 1874. Bourel, melc şi culbec. Dacii şi latinii într-o scoică, IV, 1883, pp.193-212 (sul gioco con la lumaca). Nu e în toate zilele Paştile. Originea creştinismului la români, III, 1882, pp.633-638 (l’ipotesi della trasmissione delle tradizioni romane di Saturnalia nella festa popolare della Resurrezione). Cucul şi turturica, VII, 1876, pp.40-44 e VIII, 1877, pp.301-303 (studio comparato su questo motivo nelle culture popolari romanze). Bradul şi viişoara. Baladă populară albaneză, VII, 1876, pp.253-256 (comparativismo sud-est europeo sul motivo degli innamorati uniti nella morte). Palpitaţiunile copilei. Notiţă comparativă, VII, 1876, pp.371376 (il motivo del zburător, il demone che tormenta il sonno delle ragazze). Basmul, in Etymologicum Magnum Romaniae, Bucureşti, 1886-1898. cf. Studii de folclor (a cura di N.Bot), Colecţia “Restituiri”, Editura Dacia, 1979. 36 Ielele, Dânsele, Vântoasele, Şoimanele, Frumoasele, Măiestrele, Milostivele, Zânele. Studiu de mitologie comparată, in “Revista pentru istorie, arheologie şi filologie”, VI, 1891, pp.211-457 (saggio comparatistico di demonologia popolare romena). Zilele babei şi legenda Dochiei, in “Convorbiri literare”, XXII, nr.3, 1888. Basmele române în comparaţiune cu legendele antice clasice şi în legătură cu basmele popoarelor învecinate şi ale tuturor popoarelor romanice, Lito-tipografia Carol Göbl, Bucureşti, 1895 (la tipologia monumentale delle fiabe popolari romene). 37 Literatura populară română, Bucureşti, 1883 (la tesi dell’origine scritta della letteratura popolare). Studies and Text in Folklore, Magic, Medieval romance, Hebrew Apocripha and Samaritan Archeology, 3 vol., London, 1925-1928 (vari scritti di mitologia comparata). cf. I.C.Chiţimia, Folclorişti…, pp.273-326. 38 La tesi sullo sfondo arcaico, latino, della cultura popolare romena (vedi Încercări critice asupra unor credinţe, datine şi moravuri ale poporului român, 1874) è emendata dopo il 1875 per un comparativismo aperto alle culture romanze (Cercetări asupra proverbelor române, Bucureşti, 1877). 39 Poezia populară a românilor, Foaia societăţii “Românismul”, I, 1870, pp.111-129, 182202, 255-268, 362-371 (rassomiglianze e identità tra il folklore romeno e la religione romana). 40 Bocetele populare la români, in “Convorbiri literare”, XII, nr.10, 1879, pp.51-79 (la tesi dell’origine latina dei canti funebri romeni). Cercetări asupra danţurilor şi instrumentelor de muzică ale românilor, in “Almanah muzical”, III, 1877, pp.42-104.
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B. NEAGOTA, I. BENGA ● Appunti italo-romeni di etnologia e storia delle religioni
Un luogo a parte è occupato dagli appunti dei viaggiatori italiani nei paesi romeni41 (Marco Bandini42, Lucius, Anton Maria del Chiaro43, Grisellini, l’abate Francisc Pizzigalli, Felice Caronni44, Marco Antonio Canini45) e romeni in Italia (Ion Codru Drăguşanu46) e in Istria (Teodor T. Burada47). Nel XX-esimo secolo, gli studi di etnologia romanza comparata, emancipati totalmente dalla dittatura intelettuale del latinismo, sono stati continuati su base epistemologiche nuovi da Ovid Densuşianu48, Al. Rosetti49, Tache Papahagi50, I.A.Candrea51, Petru Caraman52, Adrian Fochi53,
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vedi Nicolae Iorga, Istoria românilor prin călători, Editura Eminescu, Bucureşti, 1981 (ed.III), pp.231, 311-320, 611-615. 42 sulla descrizione delle pratiche magiche (gli incantatores, riti contro la peste) vedi V.A.Urechia, Codex Bandinus, Analele Academiei Române, Memorii, Secţia istorică, seria 2, tom XVI, 1893-1894, pp.1-335; Bucureşti, 1895). cf. M.Eliade, De la Zalmoxis…, cap.VI (“Şamanism” la români?). 43 per la descrizione delle feste popolari (Natale, Capodanno, Epifania), delle pratiche ceremoniali magico-religiose (Paparude, Căluşarii, Drăgaica, Sânziene, malocchio/iettatura), dei giochi vedi Storia delle moderne rivoluzioni della Valachia, con la descrizione del paese: natura, costumi, riti e religione degli abitanti, Venezia, 1718. cf. M.Eliade, De la Zalmoxis…, cap.VI (“Şamanism” la români?). 44 Caronni in Dacia. Mie osservazioni locali, regionali, antiquarie sui Valachi specialmente e Zingari transilvani, la mirabile analogie della lingua valacca coll’italiana, la nessuna della zingara colle altre consciute, con un rapporto su le miniere più ricche di quel Principato, Milano, 1812. La descrizione della vita dei romeni di Transilvania (analogie con la cultura contadina italiana) e dei costumi (medicina popolare magica, riti funebri), della lingua romena e le similitudini con l’italiano (il dialetto lombardo). 45 Studii asupra originei naţiunii române, 1858. Mitologia românească (volume rimasto in stadio di progetto) 46 vedi Dumitru Pop, Vocea unui cărturar român ardelean de la mijlocul secolului al XIXlea despre cultura populară italiană, in Studi italo-romeni, 3, Presa Universitară Clujeană, 2001, pp.20-24. 47 vedi I.C.Chiţimia, op.cit., pp. 127-141 (Teodor Burada, folclorist şi etnograf). 48 Păstoritul la popoarele romanice. Însemnătatea lui lingvistică şi etnografică, în “Viaţa nouă”, VII, 1912. 49 Colindele religioase la români, Extras din Analele Academiei Române, Seria II, tom XL, Memoriile Secţiunii literare, Bucureşti, 1920. 50 Din folclorul romanic şi cel latin. Studiu comparat, Bucureşti, 1923. Mic dicţionar folkloric. Spicuiri folklorice şi etnografice comparate, Editura Minerva, 1979. 51 Iarba fiarelor. Studii de folclor, Cultura Nationala, Bucuresti, 1928. Folclorul român medical comparat. Privire generală. Medicina magică, Casa Şcoalelor, Bucureşti, 1944 (ed. II, 1999).
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Dumitru Pop54, Ion Taloş. Allo stesso tempo, il comparativismo si è sviluppato anche nella direzione delle culture popolari dell’area sud-est europea (si vedano i lavori di Petru Caraman55, Adrian Fochi56, Ion Taloş57, Rosa Del Conte58 e.a.) e degli studi di indoeuropenistica (Th. Simenschi59, Gheorghe Muşu). Per il periodo postbellico riferiamo quì alcune iniziative comparatistiche italiane di massima importanza, sebbene sporadiche, rivolte al folklore romeno60. Ernesto de Martino si è occupato, nel suo libro classico sui pianti funebri61 anche del folklore funerario romeno (cap.IV), dopo aver 52
La tesi della difusione dei costumi romani tra i Slavi attraverso i Romeni (le tradizioni relative al Natale e al Cappodanno). Si veda Substratul mitologic al sărbătorilor de iarnă la români şi la slavi, Extras din revista “Arhiva”, XXXVIII, Iaşi, 1931. cf. Colindatul la români, slavi şi la alte popoare. Studiu de folclor comparat, Editura Minerva, Bucureşti, 1983. Descolindatul în orientul şi sud-estul Europei. Studiu de folclor comparat, Editura Universităţii “Alexandru Ioan Cuza”, Iaşi, 1997. 53 Femeia lui Putiphar (K2111). Cercetare comparată de folclor şi literatură, Editura Univers, Bucureşti, 1982. 54 La tesi che la proporzione dell’elemento latino della lingua romena ha un equivalente sul piano folklorico. Si veda il saggio La question de l’héritage latin dans le folklore roumain, in “Dacoromania”. Jahrbuch für die Östliche Latinität, 1, Freiburg/München, 1973, pp.263-269 (tr.rom nel vol. Cercetări de folclor românesc, Casa de Editură Sedan, Cluj-Napoca, 1998, pp.39-48). 55 Studii de folclor, 3 vol., Editura Minerva, Bucureşti, 1987. 1988, 1997. Legănatul – ca muncă şi ritual – reflectat în folclorul artistic, mai ales la popoarele din orientul şi sud-estul Europei, in “Studii de etnografie şi folclor”, Editura Junimea, Iaşi, 1997. 56 Coordonate sud-est europene ale baladei populare româneşti, Editura Academiei R.S.România, 1975. Paralele folclorice şi coordonatele culturii carpatice, Editura Minerva, Bucureşti, 1984. Valori ale culturii populare româneşti, 2 vol., Editura Minerva, Bucureşti, 1987-1988. 57 Meşterul Manole. Contribuţie la studiul unei teme de folclor european, Editura Minerva, Bucureşti, 1973. 58 vedi Le due madri della Peregrinatio Virginis rumena nota col nome di ''Căutarea Maicii Domnului'', relazione al I Congresso di Studi balcanici e del Sud-est europeo, Sofia, 26.VIII1.IX.1966. Eminescologa italiana di prestigio, autrice di un libro fondamentale sul poeta romeno Mihai Eminescu (Eminescu o dell'assoluto), Rosa Del Conte ha tenuto alcuni corsi all’Università di Cluj nel IV decennio. 59 Variante străvechi în basmele lui Ispirescu, in “Analele ştiinţifice ale Universităţii Al.I.Cuza”, tom XV, 1969, pp.17-39. 60 vedi Bogdan Neagota, Ileana Benga, Contacte italo-române în etnologie după al doilea război mondial, Studi italo-romeni 3, Presa Universitară Clujeană, Cluj-Napoca, 2001. 61 Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pagano al pianto di Maria, Einaudi, Torino, 1958 (cap.4: I funerali di Lazzaro Boia del villaggio di Clopotiva, Hunedoara).
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svolto delle ricerche nell’Archivio dell’Istituto di Etnografia e Folklore di Bucarest e nel campo etnologico rumeno, insiema Ovidiu Bârlea (1955). I tentativi del Prof. Alberto Mario Cirese di collaborare con gli etnologi romeni (Prof. Mihai Pop, Università di Bucarest; Prof. Dumitru Pop, Università “Babeş-Bolyai” di Cluj-Napoca), nell’ambito di un progetto etnologico italoromeno ampio, si sono spenti nel loro stato iniziale, a causa di ragioni logistici. Il Prof. Cirese proponeva soluzioni concreti per superare il frammentarismo e l’episodico degli studi comparati italo-romeni62, intentando ricerche reciproche dirette, riguardanti la poesia popolare romena, iniziative che vanno essere continuate ed ampliate. Poi, negli anni ‘70, il Prof. Francesco Faeta ha fatto alcuni viaggi in Romania, accompagnato da Marina Malabotti, seguendo ricerche comparate di antropologia visiva: i punti di convergenza tra le rappresentazioni tombali italiane e romene (il cimitero di Săpânţa). La mostra di fotografia antropologica presentata a questo convegno valorizza il materiale raccolto in quel tempo. Più recenti sono le ricerche di antropologia urbana nello spazio romeno, realizzate dalla Missione Etnologica in Romania dell’Università di Perugia (Prof.ssa Cristina Papa, Giovanni Pizza, Filippo Zerrilli) e l’edizione critica bilingua, in romeno e italiano, con introduzione e commento, dei epitaffii in versi del cimitero di Săpânţa (Maramureş)63, realizzata dal Prof. Bruno Mazzoni (Università di Pisa). Sull’esistenza di una scuola romena di storia delle religioni non si può parlare per ora, a causa del isolamento e delle proibizioni ideologiche del periodo 1945-1989, nonostante il contributo dei due rappresentanti notevoli, Mircea Eliade e Ioan Petru Culianu, ambedue collegati alla scuola italiana di storia delle religioni (Raffaele Pettazzoni e Ugo Bianchi). L’apertura epistemologica di Mircea Eliade verso lo storicismo italiano è notevole64: la sua relazione personale con Raffaele Pettazzoni65, la 62 Le relazioni tra l’Italia e la Romania, 1969 e il capitolo Canti romeni e stornelli italiani nel volume Ragioni metriche. Versificazione e tradizioni orali, Sellerio editore, Palermo, 1988, pp.177-180. cf. la tesi dell’origine latina della versificazione popolare romena a I.A.Candrea, Gáldi László e Gheorghe Ciobanu (ap. D.Pop. op.cit.). 63 Le iscrizioni parlanti del cimitero di Săpânţa, a cura di Bruno Mazzoni, Edizioni ETS, Pisa, 1999. 64 La relazione tra Mircea Eliade e lo storicismo italiano è l’oggetto di due tesi di dottorato: Natale Spineto, La conception sur le phénomène religieux chez Mircea Eliade e Raffaele Pettazzoni (Université de Sorbonne, 1999) e Philip Vanhaelemeersch, ‘History’ and
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corrispondenza polemica tra Eliade ed Ernesto De Martino66, l’eccelente ricezione dei libri italiani di storia delle religioni dal parte dello specialista romeno67. Eliade, a dispetto del suo meta-storicismo metodologico, si situava su una posizione vicina a quella dell’ultimo Pettazzoni68, sostenendo la complementarietà tra fenomenologia e storicismo69. Le relazioni tra Ioan Petru Culianu e i rappresentanti della scuola italiana di storia delle religioni sono anche più conosciute: Culianu fu per qualche anno l’assistente e il discepolo di Ugo Bianchi (all’Università Cattolica Del Sacro Cuore, Milano), con il quale ha condiviso la passione per la problematica dei dualismi religiosi70. Ha collaborato anche con altri specialisti italiani in scienze religiose (Gian Paolo Romanato, Mario G. Lombardo, Gustavo Cassadio e.a.). Ha proposto una risposta rivoluzionaria metodologicamente, tanto alla provocazione dello storicismo, quanto a quella delle varie morfologie (fenomenologiche, psicanalitiche). La sua metodologia, anche se incompiuta, a causa di un fine così tragico e inatteso, ha operato un’apertura generale nelle scienze umanistiche, compreso l’etnologia.
‘Historicism’ in the Study of Religion. M.Eliade, G.B.Vico and Italian Historicism (Oxford University, 2002). 65 vedi la loro corrispondenza, pubblicata nel volume L'Histoire des Religions a-t-elle un sens? Correspondance 1926-1959 - Mircea Eliade e Raffaele Pettazzoni, Editions du Cerf, Paris, 1994. 66 vedi Pietro Angelini (ed.), Dall’epistolario di Ernesto de Martino, Istituto Universitario Orientale, Dip. Di Scienze sociali, 3, 1989, 3-4, pp.163-216. cf. Ernesto De Martino, Histoire des Religions et Parapsychologie, 1956. 67 La grande festa (Vittorio Lanternari), Gli eroi greci (Angelo Brelich), Il mondo magico (Ernesto De Martino), Il ponte di San Giacomo (Luigi Lombardi-Satriani). 68 Raffaele Pettazzoni, The Supreme Being: Phenomenological Structure and Historical development, nel volume “The History of Religions. Essays in Methodology” (Edited by Mircea Eliade and Joseph M.Kitagawa), The University of Chicago Press, Chicago & London, 1962, p.66. 69 Mircea Eliade, Nostalgia originilor. Istorie şi semnificaţie în religie, Editura Humanitas, Bucureşti, 1994, pp.64-65 (‘Fenomenologi’ şi ‘istoricişti’) 70 vedi Les gnoses dualistes d’Occident. Histoire et mythe, Plon, Paris, 1990 e The Tree of Gnosis. Gnostic Mythology from Early Christianity to Modern Nihilism, HarperCollins, San Francisco, 1992.
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Etnologia romena, etnologia italiana Tra le due guerre, la scuola romena di etnologia si è sviluppata in varie direzioni, coprendo metodologie e tematiche diverse: la scuola filologica di Ovid Densuşianu (I. A. Candrea, Tache Papahagi, Ion Muşlea71), lo storicismo di Nicolae Iorga, le ermeneutiche filosofiche (Lucian Blaga, Vasile Băncilă) e storico-religiose (Mircea Eliade), la direzione morfologica (D. Caracostea, Artur Gorovei), il comparativismo romeno-slavo (Petru Caraman), la relazione tra l’oralità e la cultura popolare scritta (N. Cartojan, I. C. Cazan, Al. Ciorănescu, Emil Turdeanu, I.C.Chiţimia), l’etnomusicologia (C. Brăiloiu, G. Breazul, Ilarion Cocişiu, Bela Bartók). Un luogo a parte è occupato dalle Scuole Sociologiche di Bucarest72 (D. Gusti, Traian Herseni, Ion I. Ionică, Ernest Bernea, Henri H. Stahl, C. Brăiloiu, M. Vulcănescu) e di Cluj73 (George Em. Marica, I. Aluaş), le corrispondente romene delle scuole antropologiche iniziate da Ernesto de Martino e da Vitorio Lanternari. Dopo 1946, l’etnologia romena ha sopravvissuto al periodo totalitare col prezzo dell’isolamento scientifico (almeno fino a 1962) e del rifugio in un descrittivismo etnografico della cultura materiale, oppure, in quanto riguarda le tradizioni orali, in un metodo strettamente filologico: l’abordare la cultura contadina soltanto come letteratura popolare e la povertà delle prospettive interdisciplinarie a dispetto della tradizione etnologica romena prima del 1940. Poiché l’antropologia culturale e sociale erano nel vecchio regime uno strumento ideologico di promozione di un immagine “paradisiaca” del villaggio romeno trasformato dal comunismo autoctono, e non un metodo di analisi ed interpretazione della situazione reale. Tuttavia, fra questi limiti
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Organizzatore e direttore dell’Archivio di Folklore di Cluj, Accademia Romena (1930) e autore di 14 questionari tematici, mandati in tutte le provincie romene. Il risultato di questa inchiesta etnologica, svolta tra il 1930 e il 1948, consiste in 1244 manoscritti, conservati oggi nel Fondo Muşlea dell’Archivio di Folklore, Accademia Romena, Cluj. 72 Si vedano gli studi teorici dell’Istituto Sociale Romeno, diretto dal Prof.D.Gusti (Traian Herseni, Teoria monografiei sociologice. H.H.Stahl, Tehnica monografiei sociologice. D.Gusti, Sociologia militans, Bucureşti, 1934) e le monografie sociologiche sullo spazio contadino (Drăguş, Fundul Moldovei, Runcu, Cornova, Nereju, Dealu Mohului e.a.). cf. Zoltán Rostás, Monografia ca utopie. Interviuri cu Henri H. Stahl (1985-1987), Paideia, Bucureşti, 2000. 73 George Em.Marica, Studii sociologice (a cura di Gheorghe Cordoş e Traian Rotaru), Centrul de Studii Transilvane & Fundaţia Culturală Română, Cluj-Napoca, 1997.
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metodologici, nei grandi centri universitari (Bucarest74, Cluj75, Timişoara76 e Iaşi77) le tradizioni etnologiche interbelliche sono state ben valorizzate e continuate dalle nuovi generazioni di folkloristi. 74
La scuola di Bucarest dopo 1945 è dominata dalla figura emblematica di Mihai Pop, chi ha centrato la sua attività sul piano metodologico (l’aggiornamento metodologico della folkloristica romena): la metodologia della ricerca sul campo e l’interpretazione del materiale da un punto di vista antropologico. In quanto riguarda la tematica seguita dagli etnologi dell’Istituto di Etnografia e Folklore e dell’Università di Bucarest, citiamo soltanto qualche direzioni: le ricerche sulla narrativa di tradizione orale, sulla storia della folkloristica e i studi sui problemi di metodo (Ovidiu Bârlea), il canto epico-eroico (Alexandru Amzulescu), Mioriţa e l’epica popolare sud-est europea (Adrian Fochi), i canti tradizionali di Natale (Monica Brătulescu), una ricerca di sintesi sul canto epico-eroico e vari studi sull’influenza della letteratura apocrifa scritta sopra la cultura orale (Sabina Ispas), il cristianesimo popolare (Sabina Ispas, Silvia Chiţimia), un lavoro di sintesi sulle relazioni di parentela e vari saggi metodologici (Nicolae Constantinescu), la magia popolare (Nicoleta Coatu), la narrativa orale (Ovidiu Bârlea, Corneliu Bărbulescu, Mihai Alexandru Canciovici, Nora Vasilescu), le feste e la religiosità popolare (Ion Ghinoiu, Germina Comănici), la letteratura apocrifa (Laura Jiga), il sistema delle relazioni di parentela (Nicolae Constantinescu, Corina Iosif), la relazione tra la cultura scritta e la cultura orale (Lucia Ofrim, Alexandru Ofrim), antropologia sociale (Vintilă Mihăilescu). Al Museo del Contadino Romeno/Muzeul Ţăranului Român (rifatto dopo 1989 da Horea Bernea) si sono fatte ricerche di antropologia visiva (Ioana Popescu) e sulla cultura materiale. L’elenco è lontano di essere esauriente. 75 La scuola di Cluj continua la tradizione etnologica della Transilvania del periodo interbellico (Ion Muşlea), valorizzandola su piani metodogici e problematici vari: l’etnografia (Romulus Vuia ed i ricercatori dal Museo Etnografico della Transilvania: Maria Bocşe, Tiberiu Graur, Ioan Toşa ecc.), la poesia popolare (Dumitru Pop), la storia della folkloristica (Dumitru Pop, Ion Cuceu, Virgiliu Florea), i riti e le leggende di costruzione (Ion Taloş), i riti e le feste agrarie (Dumitru Pop, Ion Cuceu, Maria Cuceu, Nicolae Bot, Nora RebreanuSava) e funebre (Nicolae Bot, Ileana Benga), il folklore nuziale (Ion Şeuleanu), l’antropologia della cultura popolare (Ion Şeuleanu, Ion Cuceu), la narrativa popolare romena sui animali (Ion Cuceu, Maria Cuceu), il racconto tradizionale (Ion Cuceu), le narrazioni biografiche/memorate e la magia popolare (Ileana Benga, Bogdan Neagota), la religione popolare (Bogdan Neagota), l’etnobotanica (Valer Butură, Anamaria Petrean), le confraternità iniziatiche dei giovani (Elena Platon), l’etnomusicologia (Lucia Iştoc, Elena Drăgan, Virgil Medan), l’etnocoreologia (Zamfir Dejeu). All’Istituto Archivio di Folklore dell’Accademia Romena, Cluj, c'è anche un dipartimento di etnologia ungherese (Farago József, Almási István, Demény István, Vöó Gabriela, Gazda Klara, Komáromi Tünde) e sassone (Hanny Markel). 76 La scuola di Timişoara è orientata verso l’antropologia della cultura popolare tradizionale e l’antropologia visuale: Vasile Tudor Creţu, Otilia Hedeşan (la narrativa di tradizione orale), Ivan Evseev, Ioan Viorel Boldureanu. 77 I rappresentanti della scuola di Iaşi hanno messo le basi dopo la seconda guerra mondiale l’Archivio di Folklore della Moldavia e Bucovina (cca. 80.000 documenti etnofolklorici), elaborando lavori di sintesi sulla poesia funebre (I. H. Ciubotaru), sui canti tradizionali di
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Attualmente, l’etnologia romena passa attraverso un processo di decentralizzazione regionale della ricerca, per la dinamizzazione dell’attività scientifica nei centri locali (Craiova78, Baia-Mare79, Sibiu80, Zalău81, Arad ecc.) e si diversifica metodologicamente, trovandosi in una fase transitoria tra le ermeneutiche filologiche tradizionali e l’apertura verso altre discipline vicine (antropologia culturale e sociale, antropologia visiva, scienza delle religioni, teologia, sociologia, orientalistica ed esoterismo). C’è una ricerca metodologica febbrile in cui traspare una crisi di identità, che si nota attraverso un doppio fenomeno: la mancanza di un aggiornamento reale tra l’etnologia romena (in metodologia e in problematica) e le diverse correnti dell’Europa Occidentale82 e, nello stesso tempo, l’importazione mimetica, senza discernimento, dei modelli epistemologici dell’antropologia americana, col rischio proprio dell’inadeguazione tra questo tipo di antropologia e la realtà socio-economica e culturale della Romania attuale. In questo ambito, l’esempio italiano è estremamente utile per le modalità tramite le quali gli specialisti italiani del dopoguerra sono riusciti ad adattare in una maniera creatrice i metodi e le teorie specifiche per l’antropologia anglo-sassona alla realtà italiana, integrandole nella tradizione scientifica propria. Così, l’aggiornamento dell’etnologia italiana si è prodotto nell’ambito della sua specificità, sviluppando i suoi caratteri particolari: l’interesso per lo studio delle religioni e dei sistemi simbolici83, l’attenzione particolare accordata alle ricerche nel campo e l’elaborazione di categorie analitiche essenziali per le indagini84, lo storicismo85, lo studio della narrativa Natale (Lucia Cireş), sulla poesia popolare di magia (Lucia Cireş e Lucia Berdan), sulla ballata (Lucia Berdan) e sulle monografie etnologiche regionali (I.H.Ciubotaru, Lucia Cireş). Presso l’Università si è sviluppato anche un altro centro di studi di etnologia: il teatro popolare (Vasile Adăscăliţei), la storia della folkloristica romena (Mircea Fotea), la magia popolare (Valeriu Bălteanu). 78 Nicolae Painea, Mihai Fifor e.a. 79 Ion Chiş Şter, Valerica Steţco, Pamfil Bilţiu e.a. 80 Gheorghe Pavelescu, Ilie Moise, Vasile Avram e.a. 81 Camelia Burghele 82 Le diferenze metodologiche e di problematica tra l’etnologia romena e quella italiana sono dovute anche allo stadio diverso di secolarizzazione delle culture popolari corrispondenti. 83 Raffaele Pettazzoni, Tullio Tentori, Padre Vanicelli, Vittorio Lanternari, Ernesto de Martino. cf. V.Lanternari, L'antropologia religiosa in Italia, Bari, 2000. G.Filoramo, C.Prandi, Le scienze delle religioni, Editrice Morcelliana, Brescia, 1987 (III-a ed.). 84 vedi, in questo senso, le linee metodologiche seguite nelle varie scuole demologiche italiane, fra le quali menzioniamo soltanto due: la scuola di Cagliari (Giulio Angioni, Pietro Clemente, Enrica Delitala, Clara Gallini, Pier Giorgio Solinas, Aurora Milillo), fondata da
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di tradizione orale86 e la prospettiva semiotica87, l’antropologia visiva88, l’antropologia della cultura materiale89, l’antropologia medica e l’etnobotanica90, la tradizione etnologica del Mezzogiorno italiano91, di Sicilia92 e di Sardegna93 e lo studio delle culture estraeuropee (Africa94 e
Albero Mario Cirese e la scuola di Ernesto de Martino (Clara Gallini, Marcello Massenzio e.a.), che hanno avuto un ruolo importantissimo nella rifondazione epistemologica degli studi etnologici. cf. A.M.Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne. Rassegna degli studi sul mondo popolare tradizionale, Palumbo Editore, Palermo, 1997 (ed.I: 1973). C.Gallini (a cura di), Ernesto De Martino. La ricerca e i suoi percorsi, “Ricerca Folklorica”, 13, 1986. 85 vedi V.Lanternari, La Grande Festa. Vita rituale e sistemi di produzione nelle società tradizionali, Edizioni Dedalo, Bari, 1976 (ed.I: 1959). E. de Martino, Naturalismo e storicismo nell’etnologia, Laterza, 1941. Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro (a cura di M.Massenzio), Argo, Lecce, 1995. 86 vedi i grandi cataloghi tipologici della narrativa orale italiana (D.P.Rotunda, Sebastiano Lo Nigro, Gianfranco D'Aronco, Cosimo Del Monte Tammaro; Alberto Mario Cirese e Liliana Serafini) e gli studi di Aurora Milillo, Enrica Delitala, Macrina Marilena Maffei, Daniela Perco, G.Cerina, S.Calabrese e.a. 87 vedi gli studi di Gian Paolo Caprettini e di Cecilia Gatto Trocchi. 88 Lo specchio infedele. Materiali per lo studio della fotografia etnografica in Italia (a cura di F.Faeta e A.Ricci), Roma, 1997. F.Faeta, Strategie dell’occhio. Etnografia, antropologia, media, FrancoAngeli, Milano, 1998. Si veda anche la sezione di antropologia visuale del convegno: la mostra fotografica realizzata da F.Faeta e M.Malabotti (Quaderno rumeno. Appunti da un viaggio del 1972) e i due film documentari di I.E.Buttitta (Il fuoco di San Sebastiano. Feste del fuoco in Sicilia - Dall’Immacolata all’Epifania). 89 vedi gli studi di Glauco Sanga, Elisabeta Silvestrini e Giulio Angioni che propongono metodi ampi di abordare la relazione tra livelli antropologici diversi (sociale, economico, immaginario). 90 Roberto Lionetti, Tullio Seppilli, Paolo Maria Guarrera e.a. 91 Faciamo qui soltanto alcuni esempi: Ernesto de Martino, Vittorio Lanternari, Alberto Mario Cirese, Luigi Lombardi-Satriani, Alfonso di Nola, Francesco Faeta, Paolo Apolito, Clara Gallini, Pietro Clemente, Pier Giorgio Solinas, Cristiano Grottanelli, Macrina Marilena Maffei, Giovanni Pizza e.a. 92 Antonino Buttitta, Elsa Gugino, Ignazio Emanuele Buttitta (Palermo), Francesco Faeta, Berardino Palumbo (Messina), Macrina Marilena Maffei (le isole Eolie). Attualmente, le scuole siciliane di etnologia ed antropologia si sviluppano su livelli metodologici e problematici diversi (lo studio delle tradizioni popolari, antropologia dell’immaginario, antropologia visiva, antropologia sociale e politica). 93 Giulio Angioni, Enrica Delitala (Cagliari), Mario Atzorri, Margherita Satta, Ignazio E. Buttitta (Sassari). 94 C.C.Rossini e V.Grottanelli (Somalia, Etiopia, Gold Coast), B.Bernardi (Rhodesia, Kenya), A.Triulzi (Etiopia), F.Remotti (Zair), T.Spini e G.Antongini (le popolazioni dogon, lobi e fon), V.Lanternari (Ghana).
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B. NEAGOTA, I. BENGA ● Appunti italo-romeni di etnologia e storia delle religioni
America95). La tendenza dominante dell’insegnamento e della ricerca etnologica ed antropologica italiana rimane la decentralizzazione regionale (più di 20 centri)96, segno di una grande ricchezza scientifica ed espressione della profonda diversità delle regioni etnografiche d’Italia. Siamo del parere che la riapertura reciproca delle scuole etnologiche romena ed italiana sarebbe molto utile per tutti, tanto in virtù della parentela stilistica97 tra le culture popolari romanze, quanto in quella della necessità di un dialogo tra le discipline connesse. L’approccio comparatistico, accompagnato da un dibattito sulle metodologie più adeguate ci sembra molto importante. Soltanto una conoscenza autentica, diretta, reciproca delle ricerche scientifiche - resa possibile anche dal contatto personale tra gli specialisti romeni ed italiani - può contribuire alla integrazione della società etnologica romena nel mondo scientifico europeo e alla rinascita di una scuola storico-religiosa romena.
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I.Signorini (Messico), A.Colaianni (Ecuador), G.Mazzoleni (Amazzonia) e.a. G.Cordona, Antropologia italiană, nel “Dicţionar de etnologie şi antropologie” (a cura di P.Bonte e M.Izard), Polirom, Iaşi, 1999, p.352. 97 nel senso in cui parlava il filosofo romeno Lucian Blaga (Trilogia culturii, Fundaţia regală pentru literatură şi artă, Bucureşti, 1944). 96
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ALBERTO MARIO CIRESE ● Considerazioni introduttive
CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE Alberto Mario Cirese
Sono grato a Ileana Benga ed a Bogdan Neagota, giovani borsisti rumeni, per avermi invitato ad aprire il Convegno su “Religiosità popolare tra antropologia e storia delle religioni” organizzato per loro iniziativa dall’Accademia di Romania in Roma. Un tempo ebbi rapporti abbondanti e ricchi di amicizia con il mondo rumeno. Ma gli anni passano e sempre più triste si fa intorno il vuoto, nella memoria che si sfolla, come dice Montale. Ma quella memoria si riaffolla anche. Come in quei vasi che, pieni d’acqua, hanno sul fondo un po’ di sabbia che al piccolo pesce prigioniero dà l’illusione d’essere in mare: fino a che il vaso è fermo, la sabbia è quieta e l’acqua limpida; ma se appena un poco lo urtate, quel vaso, la sabbia sale dal fondo, il limpido s’annebbia e i sentimenti si turbano. L’invito a questo incontro ha scosso il vaso e la sabbia, levandosi, m’ha riportato al 1953, quand’ero giovane borsista a Parigi: il Musée de l’Homme, Constantin Brailoiu, la raccoltina di canti funebri rumeni pubblicata in Francia da Horatiu Borza e la recensione che poi ne feci su La Lapa, la rivista che mio padre fondò e diresse dal 1953 al 1954 e che io continuai nel 1955. Poco tempo dopo, le ricerche sulla storia degli studi italiani di folklore mi fecero scoprire o riscoprire gli scritti che, a cavaliere della metà dell’Ottocento, Carlo Cattaneo, Graziadio Isaia Ascoli, Carlo Tenca, Giovenale Vegezzi Ruscalla dedicarono alla lingua e poi a quei canti popolari romeni cui nel 1855 aveva dato fama europea Vasile Alecsandri. Di questi più antichi contatti tra le due culture feci rassegna in uno scritto del 1969 intitolato I rapporti italo-rumeni nella filologia demologica e pubblicato in un numero della rivista Il Veltro interamente dedicato alla Romania. Ma tre o quattro anni prima mi ero anche imbattuto in una suggestiva similarità italo-rumena: quella tra l’invocazione fior di…degli stornelli italiani e il frunză verde di certi canti romeni. Col titolo Un problème de forme et de contenu à propos de la stylistique de la versification, ne riferii nei Cours d'été e nei Colloques scientifiques dell'Università di Bucarest tenutisi a Sinaia dal 25 luglio al 25 agosto 1966 (ed ho qui dinanzi le pagine ingiallite di quel vecchio fascicolo poligrafato). Che giorni lieti, d’amicizia e di studio, furono quelli, vividi nella memoria, pur dopo quarant’anni! 29
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Quell’edificio già dei Re, la meravigliosa cappella in cui dormimmo (o forse fu nel corpo di guardia, con davanti i cannoni?), i bagni con i servizi di porcellana istoriata in bassorilievi… E i tanti colleghi ospitanti e dialoganti nel reciproco farci amici, cugini di lingua, Cazacu, Lascu, Bîrlea, Coseriu, Iordan, e Dumitru Pop che qui voglio ringraziare per il ricordo che oggi ha voluto farmi pervenire, il dottor Oancea cardiologo … E i vostri meravigliosi straordinari misteriosi monasteri, e a Bucarest l’Istituto di Folclore allora diretto da Mihai Pop e tutti quei cilindri di cera, grandioso lavoro di avanguardia svolto dal vostro grande musicologo; e i ripetuti incontri con Mihai Pop negli anni dei seminari semiologici all’Università di Urbino. Mi è caro anche ricordare che lo scritto di Sinaia, col titolo Canti rumeni e stornelli italiani, ha poi trovato luogo tra gli studi sul “parallelismo di versus transformati” di cui si occupa il mio volume di Ragioni metriche del 1988. Quanto al tema della nostra giornata odierna, anche qui la memoria mi porta indietro, ai tempi in cui in Italia le sole discipline che oggi diciamo antropologiche erano l’Etnologia e la Storia delle tradizioni popolari, mentre la Storia delle religioni, con la sola eccezione dell’opera di Raffaele Pettazzoni e della sua scuola romana, era sostanzialmente studio delle sole religioni classiche. In quegli anni – alla metà del secolo che ora si chiude – il problema della religiosità popolare tradizionale si pose anzitutto nei termini del libro famoso, e bellissimo, di Carlo Levi: Cristo si è fermato a Eboli. Ed Eboli si configurò come confine non solo geografico (Nord e Sud), ma anche economico-sociale (città/campagna, mondo borghese e mondo contadino) e di gerarchia (centro e periferie, religione ufficiale e religione popolare, cultura egemonica e culture subalterne). Era in sostanza il problema della esistenza di culture diverse all’interno della stessa nazione, ed anzi dell’intera Europa; era il problema che allora dissi dei dislivelli interni di cultura. Formatisi come? Una delle vie, e quella di maggiore interesse in materia di religiosità popolare, apparve allora essere quella che fu detta la “politica culturale” della Chiesa, e cioè il complesso degli atteggiamenti teorici e dei comportamenti pratici che le gerarchie ecclesiastiche, divenute dominanti, assunsero ed esercitarono nei confronti delle pratiche e delle concezioni religiose precristiane (paganesimo, idolatria e simili) ormai respinte alle periferie (le campagne e le contadinanze) ma per secoli tenacemente radicate.. In materia, come ho più volte notato, estremamente rappresentative appaiono due diverse operazioni condotte da Papa Gregorio Magno. Inviò Agostino in Inghilterra a convertire gli Angli, e le istruzioni iniziali furono 30
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che distruggesse i templi e gli idoli pagani. Poi però, mentre Agostino era ancora in viaggio, Gregorio cambiò di avviso: i templi non andavano distrutti; Agostino dove solo toglierne gli idoli e sostituirli con la Croce e gli altri simboli cristiani. Così gli idolatri continueranno ad andane nei luoghi di culto cui sono abituati, ma ora, quasi senza avvedersene, vi incontreranno la verità cristiana. E’ quella modalità della politica culturale della Chiesa che potrebbe dirsi assorbimento, ed alla quale dobbiamo, che so, se i solstizi contano ancora tanto nel calendario cerimoniale cristiano, dal San Giovanni al Ciclo dei dodici giorni. Ma Gregorio Magno seppe usare anche la modalità opposta (non per nulla fu un grande). Rivolgendosi infatti ai nobili ed ai possidenti di Sardegna, li invitava ad usare mano ferma contro quanti si ostinassero nell’idolatria: se sono liberi, scriveva, gravateli di tasse, e se sono servi gettateli in prigione. Al duro respingimento, lungo i secoli, furono soggette numerosissime gentilitates: pratiche ed usi d’origine precristiana, condannati e combattuti in decine e decine di Concili e Sinodi come errores e consuetudines non laudabiles, e tuttavia a lungo vitali, con ostinata forza. E’ il caso, tra moltissimi altri, di quella lamentazione funebre cui m’è accaduto di accennare all’inizio e di cui vedo si parlerà in questa prima giornata di lavori. Istituto cerimoniale di remotissima antichità e di larghissima diffusione, fu combattuto anche prima del cristianesimo – dalle leggi di Solone alle Dodici tavole di età romana – ed anche nel mondo islamico. Nettisima poi, e decisa, l’opposizione cristiana, per verticale contrasto di concezioni: la lamentazione è disperazione, mentre per il cristiano la morte porta sì dolore ma realizza anche la speranza. Tetragona di contro fu la resistenza che per quasi duemila anni l’uso ha opposto alle condanne di Concili e Sinodi: le prime che siano note risalgono se non erro al VI secolo, ma ancora nel 1373 Francesco Petrarca protestava vivacemente contro l’usanza a Ferrara, e tra il 1951 e il 1955 Ernesto De Martino registrò lamentazioni funebri in Lucania ed io in Sabina e nel Molise. Ed a guardare più da vicino questo lungo percorso si coglierebbero indicazioni significative sui rispettivi stati di forza tra cristianesimo ufficiale e tradizioni cerimoniali e religiose precristiane perduranti come religiosità popolare (o volgare) al suo interno: dai tempi in cui la chiesa punisce l’uso del pianto con pene pecuniarie si passa ai tempi in cui lo punisce privando il morto dell’estrema unzione. Palese la differenza. Nel primo momento la Chiesa è ancora sostanzialmente esterna, rispetto ai convincimenti profondi ed agisce con una operazione di dominio, ossia di pura forza. Nel secondo momento la Chiesa agisce sulle coscienze e pone il fedele di fronte all’alternativa tra due suoi 31
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valori: se vuoi conservare il valore tradizionale (la lamentazione) perdi il nuovo (il sacramento), e se vuoi il nuovo devi abbandonare il vecchio. La Chiesa ormai è egemone ed alla lunga il sacramento vince. Queste alcune delle modalità e delle dinamiche culturali della religiosità popolare, così come ci veniva offerta e prospettata dal mondo popolare tradizionale di allora e dai quadri di riferimento storico-teorici del tempo (più tardi la pur breve esperienza al santuario messicano di Chalma confermò da un lato quei quadri ma aprì anche altre prospettive di analisi – topografia dei recinti della sacralità – che però qui tralascio). Ma oggi? Le stratificazioni sociali di allora sono dissolte; i rapporti tra centro e periferie mutati; la velocità delle comunicazioni ha quasi cancellato le territorialità di lingue, dialetti, fogge. Che ne è, in questo quadro, della religiosità popolare tradizionale? Per certi versi parrebbero esistere ancora profonde continuità di memoria. L’anno scorso, in una frazioncina dove passo le estati, duecento anime o poco più, la nostra viuzza fu invasa dal fumo dei fuochi d’artificio per il passaggio del Santo che veniva a stare per un anno in una casa tra la piazzetta detta Le Casacce e il largo detto Là da Paco. Ed una donna mi sorrise dicendo: “Oh il bell’odore di una volta!”. Ma il fumo degli spari cerimoniali affascina ancora i giovani? Se no, quelle feste moriranno, o forse vivranno solo come mummie. Mi torna in mente, sabbia mossa dal fondo, un gruppo di pellegrini su due file, visti lungo la strada, in Ungheria presso al confine con la Romania dove poi passammo la notte in auto, costretti da un alluvione. L’immagine si fissò perché di rimbalzo mi portò all’infanzia nel mio paese di nascita, marsicano, e gli uomini e le donne di ritorno dal Divino amore, cantando (stonati, mi pareva, e sbagliavo): “…e le tre pperson’ divine…”, che poi risentii dal documentario cinematografico del 1939 che per la prima volta vidi al Musée de l’Homme, a Parigi, trent’anni dopo gli anni marsicani. Malinconie di giovinezza estinta. La parola spetta invece a chi ancora le è prossimo e più ancora a chi oggi pienamente, lui felice, ne gode.
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Indicazione degli scritti di A. M. Cirese cui si fa riferimento diretto o indiretto nel testo: GENERALI E VARIA: ♦ Cultura egemonica e culture subalterne. Rassegna degli studi sul mondo popolare tradizionale, Palermo, Palumbo, 1973 (XII.a ristampa 2001). ♦ Ragioni metriche. Versificazioni e tradizioni orali, Palermo, Sellerio, 1988 ♦ Dislivelli di cultura e altri discorsi inattuali, Postfazione di P. Clemente e E. Testa. Roma, Meltemi, 1997 ♦ Volume secondo dei Canti popolari del Molise, Nobili, Rieti 1957 SUI RAPPORTI ITALO-RUMENI: ♦ Pianti funebri rumeni, in La Lapa, a. I, n. 2, dic. 1953, p. 10 ♦ Un problème de forme et de contenu à propos de la stylistique de la versification, Note poligrafate per i 'Cours d'été et Colloques scientifiques' dell'Università di Bucarest, Sinaia, 25.7-25.8.1966 ♦ I rapporti italo-rumeni nella filologia demologica, in Il Veltro, 13. (1969), n. 1/2 : 265-272 ♦ Canti rumeni e stornelli italiani, sta in Ragioni metriche cit., pp. 175-180 SULLA LAMENTAZIONE FUNERARIA ♦ Nenie e prefiche nel mondo antico, in Lares, 17. (1951), n. 1/4 : 20-44 ♦ Alcuni canti popolari abruzzesi raccolti in provincia di Rieti, in Rivista abruzzese, 5. (1952), n. 2 : 40-45 ♦ Una costumanza popolare nelle 'Senili' e nella 'Tancia’ in Rassegna di cultura e vita scolastica, 6. (1952), n. 4 : 5-6 ♦ Manzoni, Croce e una nenia di Amatrice, in La Lapa, a. I, n. 1,sett. 1953, pp. 7-10 ♦ Pianti funebri rumeni, in La Lapa, a. I, n. 2, dic. 1953, p. 10 ♦ Un pianto simulato e vero, in La Lapa, a. I, n. 2, dic. 1953, pp. 32-34 ♦ Il pianto funebre nei sinodi diocesani: saggio di una ricerca, Rieti, Edizioni La Lapa, 1953 ♦ Alternative, varianti e nenie, in La Lapa, a. II, n. 4, dic. 1954, pp. 7273 ♦ Intorno al cordoglio rituale degli indigeni australiani, Roma, ottobre 1954, 47 p. [esercitazione dattiloscritta per l'esame di Psicologia della Scuola di perfezionamento in Scienze etnologiche] ♦ Repuòte [Pianti funebri molisani], sta in Volume secondo dei Canti popolari del Molise cit. pp. 99117 ♦ Lamenti funebri [delle colonie albanesi del Molise], sta in Volume secondo dei Canti popolari del Molise cit. pp. 166-169 ♦ Lamenti funebri [delle colonie slave del Molise], sta in Volume secondo dei Canti popolari del Molise cit. pp. 226-233 ♦ O naricaljkama u hrvatskim mjestima pokrajine Molise u Italiji [Il pianto funebre nei paesi serbocroati del Molise], in Rad 33
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Kongresa folklorista Jugoslavije, u Varaždinu 1957 [Atti del Congresso dei folkloristi jugoslavi, Varaždin]. Zagreb, 1959 : 143-151 ♦ Ritmica dei pianti funebri: sette testi molisani, sta in Ragioni metriche cit., pp. 457-468
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I. PRATICHE FUNERARIE E RAPPRESENTAZIONI ESCATOLOGICHE
ELSA GUGGINO ● Il pianto funebre in Sicilia
IL PIANTO FUNEBRE IN SICILIA Elsa Guggino
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>, mi hanno detto malinconicamente molte donne. Eppure, sebbene siano reticenti a “confessarlo” perché <<non si usa più>>, non poche piangono i loro morti alla maniera antica, come sentirono fare alla madre o a una parente prossima. Incominciai a occuparmi con assidua attenzione del tema della morte e dei rituali che la accompagnano intorno al 1994. Negli anni accademici immediatamente successivi tenni due seminari sulle “celebrazioni della morte”1 rivolti agli allievi del secondo anno di Storia delle tradizioni popolari. Insieme leggemmo e comentammo vari saggi. Le ricerche sul terreno presero avvio. Con il tempo, sollecitata forse dalla rilettura delle pagine che De Martino ha dedicato al pianto funebre (vedi infra), concentrai la mia attenzione su questo argomento. La documentazione raccolta riguarda in prevalenza la provincia di Agrigento. Altre province interessate sono quelle di Palermo e di Caltanissetta. Esiguo è il materiale documentario relativo al pianto rituale nel suo contesto d’uso: oggettive difficoltà e soggettive resistenze spesso ne hanno impedito la registrazione. Più agevole è stato dialogare, sia pure su un evento doloroso, con varie donne: quasi sempre di età avanzata, casalinghe che coniugono un passato contadino di indigenza, di sussistenza, ma anche di medio benessere. I termini che insistentemente ricorrono nel loro dire in riferimento al pianto funebre sono ittari li vuci e répitu ( con loro minime varianti locali ). Seguendo l’ottica di chi osserva, ittari li vuci equivarrebbe a un gridare scomposto sotto la pressione del dolore, laddove répitu sarebbe una sorta di lamentosa cantilena, o comunque di frasi pronunciate a ritmo, secondo uno
1
Celebrazioni della morte. Antropologia dei rituali funerari, è il titolo di un libro di R. Huntington e P. Metcalf (il Mulino, Bologna 1985), dedicato ai rituali funebri nel Sud del Madagascar e in Borneo.
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schema tradizionalmente, dunque socialmente, contemplato2. Sono i répiti quelli che gli studiosi hanno pubblicato in gran numero3, nella maggior parte inserendoli, non a torto, in raccolte di poesia popolare. Userò da ora in poi il termine lamentazione funebre per indicare il répitu; mentre parlerò di pianto funebre allorché mi riferirò in genere alle due forme di pianto. In base ai documenti raccolti risulta che si iettanu li vuci non appena constatato il decesso (a farlo è la parente più prossima del defunto); si torna a ittari vuci, ma non esclusivamente, quando la bara viene sigillata e portata fuori casa; si grida e/o si répita durante la veglia funebre in particolare durante u visitu, quando cioè parenti e vicini di casa accorrono intorno alla salma già composta sul letto o dentro la bara; quando questa viene sigillata e portata fuori casa; durante il corteo funebre; al cimitero. Qui non solo quando si procede al seppellimento della salma, ma anche nelle ricorrenze e, in particolare, l’1 e il 2 novembre. Questi i momenti canonici. Si répita talvolta dinanzi all’immagine del proprio caro defunto, in solitudine e dolore. Le due espressioni, ittari vuci e répitu dovrebbero segnalare la percezione di due tipi di pianto funebre, inseriti in momenti diversi e con diverso significato. Non sembra così nella documentazione rilevata.4. Porto un esempio. Una signora quasi novantenne di Ribera (in provincia di Agrigento- ril. 10-9-99) dice: <<[Si piangeva gridando] quando il feretro era in mezzo alla casa [...] era uno sfogo [..] qualcosa che veniva spontaneo dall’animo, proprio di ittaricci vuci, per l’affetto, per l’amore di una mamma, di un fratello, di una sorella>>. Offre un esempio e intona a ritmo cadenzato: <>. Continua poi accennando al resto del contenuto : <<E tu hai fatto questo, e tu, la madre, hai fatto quello>>, ossia frasi che ricordano momenti della vita del defunto. Dice poi: <<Mio marito è morto da otto anni e io, le dico in confidenza, li vuci li ittavu [...] Eh, l’affetto che sale dal cuore, viene da sé piangere e ittari vuci. Mio marito andava a lavorare in campagna...[ Per esemplificare intona in cadenza]: “Te lo dicevo che non 2
Vedremo come tale schema non impedisca espressioni del dolore individualmente connotate. Per converso anche l’apparente “libertà” con cui si iettanu li vuci, rientra nel sistema della langue. 3 Un rendiconto critico sulla documentazione nastrografica e audiovisuale in Italia, integrato con essenziali riferimenti bibliografici, si trova in S. Biagiola, Per uno studio sul lamento funebre in Italia, in EM, Annuario degli Archivi di Etnomusicologia, IV (1996), pp. 7-26 4 Ma si tenga conto che l’esperienza intima e dolorosa della morte non si presta di certo a un discorso oggettualizzante.
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dovevi andare in campagna! / E come eri bello/ [...] Le mie raccomandazioni ora ti tornano davanti! Guarda come mi hai lasciato! Vedi come mi trovo ! ”. Tutto il passato una ripitava >>5. Precisa che si ittavanu vuci anche durante il corteo funebre, fino al cimitero: <>. E poi: << La gente rimproverava se non si piangeva [a voce alta]: “Neanche una lacrima le è spuntata, neanche una vuci ci ittà [...]”: doveva ripitari . Quella parente che entrava doveva ittari vuci >>6 (Si noti qui, oltre all’intercambiabilità di ittari vuci e ripitari, anche la riprovazione nei confronti di chi non lo fa). Nel ‘95 la signora Giuseppina Inga esegue dinanzi alla videocamera e in presenza di tre ricercatori: il nipote Rosario Perricone, Fatima Giallombardo e Sergio Bonanzinga, una lamentazione che ricalca quella della cognata per il proprio marito morto in guerra nel ‘45. Anche qui la lamentazione cantilenata è trapunta da frasi gridate. Nel corso della lamentazione la donna oscilla il busto avanti e indietro, si percuote le gambe, batte con forza i piedi a terra, sventola -non le è stato richiesto- un fazzoletto, in più di un punto la voce vibra per il pianto. Neli, Neli, Neli, lu maritu! A mi lassasti na fìglia di novi misi, lu maritu! A comu ci hâ dari a manciari a tò fìglia, lu maritu! Côn haiu nenti, lu maritu! E a tò fìglia non ci pozzu dari a manciari, lu maritu! A com’è ch’ê fari Neli, lu maritu! A l’addeva chi l’avemu morticedda di fami, lu maritu! Neli, Neli affàccia, lu maritu! E bidi ìu unni sugnu ittata, lu maritu! E l’addeva chi un ci pozzu dari a manciari, lu maritu! Oh chi sbintura chi appi, lu maritu! 5
<< [...] quannu c’era lu mortu mmenz’a casa [...] Era u sfogu, un cosu chi vinia istantaniu di l’animu, propriu di ittaricci vuci, di l’affettu, dell’amore di: o a una mamma o un frati o una sorella [...] ‘‘Figliu, la matri! E comu muristi! E chista morti nun ci vuliva! E lu Signuri nun mi fici sta grazia! E tu, la matri, facisti chistu e tu facisti chiddu”. Me maritu avi ott’anni ch’è mortu: iu li vuci li ittavu, parlannu cu lei [...non comprensibile]. Eh, l’affettu, di lu cori, viene da sé di chianciri e di ittari vuci. Iu, me maritu ia a travagliari ncampagna: “Ti lu diciva ca nun avivi a ghiri ncampagna!/ E chi eri bbeddu/ [...] ca ti viniru tutti nta la facci ora!/ Vidi comu mi lassasti!/ Vidi comu mi trovu!” Tuttu lu passatu una lu ripitava>>. 6 La gente rimproverava si nun si chiancia: ‘Mancu na lacrima ci affaccià, mancu na vuci ci ittà!’ [...] Avia a ripitari [...] chidda parenti chi trasia avia a ghittari vuci“
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Ca mancu canusci a tò fìglia, lu maritu! Neli, Neli, Neli, lu maritu! A com’è ch’ê fari, lu maritu! A comu sta sbintura appi, lu maritu! Nca tutti s’arricamparu e tu nenti, lu maritu! [....] E mancu avisti la furtuna di vìdiri a tò fìglia, lu maritu! Bedda Ninittedda lu papà nni lu vidisti tu, lu papà! Ca mancu avisti la furtuna di vìdiri a tò patri, lu papà! Oh chi sbintura chi appi sta fìglia! [....] Neli, Neli, Neli, lu maritu! Neli, Neli, Neli, lu maritu! Ah, mammuzza mea! Ah, mammuzza mea! Chi sbitura chi appi ìu, lu maritu! Neli, Neli! A com’è ch’ê fari! Dunn’ê pigliari! Neli, Neli dùnami cunortu, Neli! Com’iè fari, Neli! Com’iè fari, Neli! (Neli, Neli, Neli,il marito! / Mi hai lasciato una figlia di novi mesi, il marito! / E come debbo dare da mangiare a tua figlia, il marito! / E non posso sfamarla, il marito! / E la piccola come l’abbiamo morticina di fame, il marito! / Neli, Neli, fatti vedere, il marito! / E vedi dove sono gettata, il marito! / E la piccola a cui non posso dare da mangiare, il marito! / Oh che sventura ho avuto, il marito! / Che neanche conosci tua figlia, il marito! / Neli, Neli, Neli, il marito! / E come debbo fare, il marito! / E come ho avuto questa sventura, il marito! / Che tutti sono ritornati [dalla guerra] e tu no, il marito! / [...] E neanche hai avuto la fortuna di vedere tua figlia, il marito! / Bella Ninittedda, il papà non lo hai visto tu, il papà! / Che neanche hai avuto la fortuna di vedere tuo padre, il papà! / Oh, che sventura ha avuto questa figlia! / [...] Neli, Neli, Neli, il marito! / Neli, Neli, Neli, il marito! / Ah, mammina mia! / Ah, mammina mia! / Che sventura che ho avuto io, il marito!
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/ Neli, Neli! / E come debbo fare! / Da dove devo prendere! / Neli, Neli, dammi conforto, Neli! / Come debbo fare, Neli! / Come debbo fare, Neli! ) 7 Meno formalizzato nella forma sonora e accompagnato da un continuo singhiozzare, in cui ossessivamente è reiterato o gioia mia, lu maritu!, è il pianto di una donna di media età per il coniuge durante il corteo funebre. Anche qui frasi più o meno cantilenate si alternano ad altre gridate: O gioia mia, lu maritu! O gioia mia, lu maritu! Comu mi lassasti sula stavota lu maritu! O gioia mia, lu maritu! Addivisci, maritu, e talia to figliu lu maritu! [incomprensibile] A testa ci facia diri ca a to fligliu un lu facia zitu! [incomprensibile] Gioia mia! Gioia mia! Gioia mia Gioia mia! Gioia mia lu maritu! Comu mi lasssti, lu maritu, ca nni vuliamu beni tutti rui, lu maritu! Gioia mia, gioia mia, lu maritu! O gioia mia, lu maritu! [incomprensibile] Ah, chi mala furtuna chi appi, lu maritu! Ah, chi mala furtuna chi appi, lu maritu! (O gioia mia, il marito! / Come mi hai lasciato sola stavolta, il marito! / Torna in vita, il marito, e guarda tuo figlio il marito! / La testa ti faceva dire che tuo figlio non doveva fidanzarsi ! / Gioia mia! / Come mi hai lasciato il
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Registrazione del 16/121995 edita nel CD Documenti sonori dell’Archivio Etnomusicale Siciliano. Il ciclo della vita (“Suoni e Culture”, n. 1), con libretto allegato di S. Bonanzinga, collaborazione di R. Perricone, ed. CIMS (Centro per le Iniziative Musicali in Sicilia), Palermo 1995.
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marito, che ci volevamo bene noi due, il marito! / Ah, che mala sorte che ho avuto, il marito! )8 Una signora di Raffadali (1-11-99), cinquantenne, ricorda il pianto e il comportamento di una donna in occasione della morte della figlia: <>9. Interviene una donna molto anziana, ricordando la lamentazione di una vedova: << Mamma, come arripitava! Ma gli cantava lodi che bisogna vedere!>> Motiva poi in altro luogo del discorso: <<Si piange s’arripìta come sale dallo stomaco. [ ...] Al cimitero non ne parliamo! Nelle ricorrenze, nella festa di tutti i santi, nella festa dei morti, li vuci si sentivano da quel punto fino a laggiù>>10. Chiede Giuseppe Vella, che mi accompagna ed è anche lui del paese: <>. <>; più oltre: <<arripitari, ittari vuci, o stessu è>>. Nei documenti riportati si legge con evidenza una marcata intercambiabilità tra le varie espressioni che indicano il pianto funebre, tant’è che come esempio di ittari vuci, che dovrebbe indicare l’esacerbato gridare, senza controllo, sotto la piena del dolore, viene intonato un répitu. Sembra inoltre che non vi siano tempi rituali deputati per piangere nell’uno o 8
Registrato il 27/81988 da Antonella Corrado a Sommatino (prov. di Caltanissetta). L’audiocassetta è depositata presso la sede del CIMS. La registrazione è inclusa nel CD Documenti sonori dell’Archivio Etnomusicale Siciliano. Il ciclo della vita , cit. I testi di altre lamentazioni registrate a Sommatino sono nella tesi di laurea di A. Corrado, Sommatino: Pratiche funerarie ed elaborazione del lutto, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli studi di Palermo,.A.1997/98, rel. L. Pizzo Russo. 9 “Quannu cci murì la figlia, arripitava, abballava ca un si putiva téniri; si tirava li capiddi, abballava, chiancia, nzumma tanti cosi! Si la pigliava cu li personi ca cci paria chi cci avianu fattu mali a la figlia...>>. [...] Quannu murì me maritu, mi tinianu ca chi sâti [salti] facia! : ‘Unn’è, unn’è! [...] La gioia di la me vita, u re di la me casa!’ ”. 10 “Mamma, comu arripitava! Ma ci cantava lodi ca bisogna vìdiri! [...] Si chianci, s’arripita comu cci acchiana di lu stomacu [...] a lu cimiteru nun parlamu! Quannu vinianu li iorna, la festa di tutti i santi, la festa di li morti, li vuci si sintianu di ddocu finu a ddà gghiusu!>>.
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nell’altro modo, ad eccezione del momento del costatato decesso, dove il pianto funebre è sempre indicato come ittari vuci. Più volte mi è stato detto che il vicinato aveva appreso di una morte avenuta perché: <> (Le grida che lanciava), o <> E a questo annuncio i vicini accorrevano. (Li vuci erano emesse dalla donna o dalle donne più prossime affettivamente al defunto, che per prime ne avevano constatato la morte). Accadeva anche che una delle donne uscisse per la strada ittannu vuci e richiamando lei stessa le vicine di casa. In quest’occasione non si parla mai di répitu. Stando ai dati della ricerca sembrerebbe che questa modalità di pianto abbia la funzione di annuncio pubblico: della morte avvenuta, della propria disperazione; non si sottrae quindi alla retorica rituale. E allorché ittari vuci si trova frammisto al répitu, come, ad esempio nella lamentazione Neli, Neli, lu maritu? Oppure nel video curato da Emilia De Simoni e Luciano Blasco in cui è ripresa una scena di cordoglio al cimitero di Balvano? (2/11/88)11. Anche in questo documento si alternano, per la durata di circa mezz’ora, frasi cadenzate, cantate e gridate. La donna, seduta su una sedia, mentre lamenta il figlio dondola il corpo avanti e indietro. Anche le altre donne piangono. Quando grida, porta le mani ai capelli (la testa è coperta in larga parte da un fazzoletto) e fa l’atto di volerli strappare, trattenuta dalle altre donne che per tutto il tempo le sono state attorno asciugandole le lacrime. Accomiatandosi infine da queste ultime con baci e abbracci, continua a cantare il lamento. Nel documento di Balvano sembra che il gridare all’interno della lamentazione, come ittari vuci durante il répitu, sia un dolore conclamato a se stessi e teatralmente esibito al pubblico di parenti e amici: un modo di piangere in cui si rifà presente l’urgenza insostenibile del dolore, e la si fa presente agli altri12. 11
Il video è conservato nell’Archivio di antropologia visiva del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni popolari. Ringrazio vivamente Emilia De Simoni per averlo messo a mia disposizione. 12 Coglieva una verità di fatto Luciano, verità che andava ben oltre i suoi accenti irrisori, quando, parlando dei cerimoniali del lutto nel II secolo, del pianto funebre così fra l’altro scriveva: <> (De luctu, 15, cit. in Luciano, Il lutto, a cura di V. Andò, Palumbo, Palermo 1984, p.77).
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Nel ripitàri, oltre al ricordo della disgrazia occorsa, compaiono quelle che, non solo a Raffadali, sono chiamate li lodi: Nelle lodi al defunto si coniugano vari momenti della sua vita con valore commemorativo e si elencano nel contempo le sue virtù, la sua bontà, il sostegno offerto a tutti i familiari13, etc: chiaro omaggio a chi non è più tra i vivi rimasti rimasti desolati e improtetti, incapaci di sostenerne l’assenza; ma anche dialogo con chi è venuto meno ai propri cari che a lui si ricongiungono nello spazio del ricordo. Le ragioni affettive del pianto funebre sono sempre richiamate da chi ne parla, si tratti del ittari vuci o del ripitari: <<Era uno sfogu [...] un moto spontaneo del cuore, proprio di ittaricci vuci...>>; oppure: <<era la pena>>; qualcosa che <<sale dallo stomaco>>. Tutti fanno delle distinzione fra cosa si canta per una madre, per un marito, per una sorella etc., esemplificando con espressioni stereotipe, analoghe o simili (ma non direi omologabili da luogo a luogo). Quando, però, il ricordo è personale, vi sono espressioni legate a quel morto, nella sua storica singolarità; ed è per questo che si può dire: il pianto funebre è dettato da moti spontanei dell’animo14. Di contro, però, il pianto funebre è presentato come una forma obbligata di rispetto non solo per il morto, ma per la comunità a cui ci si deve rivolgere in termini socialmente condivisi e quindi comprensibili. La comunità riprova chi non ha ittatu li vuci quando è morto un congiunto, sia 13
La sofferenza, in regime di povertà, è anche afflizione per il perduto sostegno economico oltre che morale. Quest’ultimo aspetto è ravvisabile in particolare nelle lamentazioni della vedova o di chi piange in suo luogo. Così in Neli Neli, lu maritu!, di Calamonaci: <>). Similmente in molte lamentazioni italiane, europee, extraeuropee. 14 Quel morto è per i congiunti che piangono, colui che sta dinanzi ai loro occhi ormai senza vita; ma può essere anche, per chi piange in loro vece poiché sa piangere (lo vedremo più avanti), uno dei propri cari defunti la cui mancanza acutamente riduole nella situazione luttuosa. Si tenga conto che spesso erano chiamate a piangere, non sempre retribuite in denaro, donne del vicinato, avvertite come prossime alla famiglia colpita dal lutto. Così, per esempio, nella memoria degli anziani, a Castelvetrano dove li chiancenti: (termine diffuso, nelle sue varianti locali, non solo in Sicilia) partecipavano anche al cùnsulu, ossia al pranzo di consolazione (e sostentamento) preparato da vicini di casa e portato ai familiari del morto: <<E manciavanu puru chissi chi avianu chianciutu, chi figuravanu comu personi dolenti di famigghia>> (E mangiavano anche queste che avevano pianto, poiché rappresentavano persone dolenti di famiglia). Dalla ricerca di una studentessa del primo anno di Storia delle tradizioni popolari ( A.A. 1998/99).
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perché così facendo ha dimostrato di non amarlo e rispettarlo, sia perché non ha reso noto l’evento nel linguaggio dovuto. Allo stesso modo riprova chi non sa controllare le espressioni di un esacerbato dolore: <>, (Secondo quello che scappava dalla bocca, la gente riprovava). Fin qui, gli esiti della ricerca. Se ora, a fronte del materiale documentario raccolto in Sicilia, consideriamo la letteratura riguardante il pianto funebre, dovremmo fare una distinzione. Vi è un tipo di letteratura che si presenta, per dirla con Cirese, come <>15 e dove, comunque, esso è descritto in termini talmente simili da pensare che a scrivere sia sempre uno stesso individuo e riguardo a uno stesso luogo o che l’uno si sia modellato sull’altro seguendo peraltro un disegno di maniera16. E dire che non poche volte ricorrono in questi scritti frasi che garantiscono la diretta osservazione dei fatti riferiti. L’accento degli autori cade sempre su <<donne scarmigliate e nerovestite>>17, siano esse le prefiche oppure la madre, la moglie e altre donne della famiglia del defunto; sui gesti autolesivi come strapparsi i capelli, graffiarsi le guance; insistentemente, sugli <>, <> che si levavano dalla casa del defunto. Si tratta indubbiamente di descrizioni di maniera. A ben considerare però, se si eccettua una fastidiosa terminologia, tali descrizioni sembrano veritiere. Gli atti autolesivi, infatti, gli atteggiamenti per cosi dire scomposti, le urla su cui vari autori hanno insistito, sono risultati parte costitutive del pianto funebre. Non pochi hanno annotato peraltro l’alternanza delle urla e degli atti <> con la lamentazione eseguita più <<sommessamente >> e con atteggiamento <> (da parte sia delle prefiche che dei parenti del
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Cirese, Nenie e prefiche nel mondo antico, “Lares”, XVII (1951), 1-4, (pp.20-44), p.20, n.2 16 Si provi, caso limite, a comparare quanto scrive Antonio Bresciani in Dei costumi dell’isola di Sardegna comparati con gli altri antichissimi popoli orientali (Napoli 1850) con quanto scrive A. De La Marmora in Voyage in Sardaigne, ou description statistique, physique et politique de cette île (Parigi 1839), cit. in De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Boringhieri, Torino 1975, pp. 116-117 nel testo e alla n.1 di p. 117. 17 E. Costantini, Riti e usi popolari nel Leccese, in “Il Folklore Italiano”, a.II (1927), fasc. III e IV (pp. 431-441), p. 439.
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defunto)18. Con accenti controllati da un’attenta etnografia ne scrivono Giuseppe Pitrè e Salvatore Salomone Marino19. Cito, per brevità, solo dal primo : <>20. Vi è un secondo tipo di letteratura, prodotta da folkloristi, etnologi e storici delle religioni, studiosi dell’antichità classica, etnomusicologi, in cui la descrizione dell’evento si sottrae allo standard di maniera e dove più consistente è il momento dell’analisi. Provando a leggere quanto mi è stato riferito e quanto ho osservato nel corso della ricerca alla luce delle interpretazioni che del pianto funebre sono state date in questo genere di studi, primo nome d’obbligo è quello di De Martino. Sono pagine, le sue, fin troppo note, ma è utile richiamarle in breve. Mi riferisco a quella parte del suo lavoro che riguarda la <<spedizione>> in Lucania (1952), una zona in cui, come in come molte altre del Meridione d’Italia, le classi contadine versavano in condizioni di estrema povertà e pertanto, secondo un assunto di base dello studioso, di degrado morale. In altre parole De Martino istituisce uno stretto legame di consequenzialià tra miseria materiale e miseria psicologica. Alle espressioni culturali delle classi subalterne osservate egli può agevolmente applicare (sovrapporre) il costrutto teorico riguardante il rapporto crisi della presenza, dunque perdita di sé a se stessi e rispetto al mondo, e reintegrazione culturale operata attraverso il simbolismo mitico-rituale. L’angolo visuale dell’antropologo, vada ricordato, è quello di un <<etnocentrismo critico>>21. 18
“Frenetici”, “sommessamente”, compunto”, sono qualificazioni tratte dalle pagine di Saverio La Sorsa, Prefiche e nenie in Puglia, in “Archivio per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari italianne”, anno 12° (1937), fasc. I-IV, pp.162-174 19 G. Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Pedone Lauriel, Palermo 1889, in 4 voll., vol.II, cap. IV; S.Salomone Marino, Le reputatrici di Sicilia nell’età di mezzo e moderna, Giannone e La Mantia, Palermo 1886. Ma si leggano meglio le osservazioni di A.M. Cirese sull’andamento del repuòte molisano (A.M.Cirese, I canti popolari del Molise, cit., p.99; ora in Id., Ragioni metriche, cit. p. 459. 20 G. Pitrè, Op. cit., p. 216 21 Non è mio intento entrare nell’ampio, esageratamente ampio, direi, dibattito italiano su De Martino. Mi limiterò semplicemente a evidenziare utilità e limiti dell’analisi demartiniana
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Sul modo in cui si configura la crisi di fronte all’evento della morte, De Martino scrive: Fra le donne delle campagne lucane i rischi psichici della crisi raggiungono tale ampiezza e gravità da conferire a ogni evento luttuoso una sinistra potenza di disgregazione e di follia [...] Nella sua forma più radicale la crisi del cordoglio presenta la caratteristica polarità dell’ a s s e n z a e della scarica convulsiva: la presenza perde se stessa degradandosi a pura e semplice energia che defluisce senza significato [...] In una forma meno radicale l’assenza si attenua in uno stato di ebetudine stuporosa, o in luogo della scarica meramente meccanica si ha la terrificante esplosione parossistica, tendenzialmente auto-aggressiva [...] A questo comportamento disordinato e pericoloso possiamo dare la denominazione di planctus irrelativo22. Providenzialmente la tradizione offre, tra i vari <>, la lamentazione funeraria, ossia il <>, che <>23. Per entro questo discorso si attua una destorificazione del singolo evento luttuoso, passando da un modo personale di piangere a un <>24 secondo modi stereotipi. Nel “si piange così”, può ora trovare spazio anche il discorso individuale, anzi la funzione protettiva della lamentazione rituale <>25. Dentro i modi della lamentazione anche l’irruzione del discorso individuale trova la sua disciplina. Stante la stereotipia dei moduli espressivi, che consentono la destorificazione del personale evento luttuoso, la lamentazione funebre può essere ripetuta anche fuori dal contesto rituale del cordoglio, presentandosi <>26. del pianto funebre lucano in rapporto agli esiti delle indagini recentemente condotte in Sicilia. Non potrò nel contempo esimermi dall’esprimere un motivato risentimento nei confronti di certe proposizioni che, pur con le migliori intenzioni di questo mondo, pur con tutti i mea culpa, hanno leso la dignità umana e culturale di chi già pativa la propria subalternità economica, sociale, politica. 22 Morte e pianto rituale, cit., pp. 83-84 23 Ibidem, p. 85. 24 Ibidem, p. 86. 25 Ibidem, p. 101. 26 Ibidem, p. 89.
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Quanto differisce ciò che De Martino ha osservato in Lucania rispetto a quanto ho osservato in Sicilia, o quanto è simile? Ma, soprattutto, la documentazione rilevata consente di usare la chiave di lettura dello studioso? I due momenti del pianto funebre che in siciliano suonano ittari vuci e répitu sono rappresentati nelle pagine di De Martino, ma qui sostituitti da una terminologia propria all’osservatore già per se stessa interpretativa. Tutta l’osservazione demartiniana del <> con le sue cadenze interpuntate da <<esplosioni ametriche>> della voce, cui corrisponde diversa gestualità, resta aderente a quanto io stessa ho osservato. Altrettanto ravvicinabili ai dati della mia ricerca sono le modalità dei movimenti interni alla lamentazione tra formule stereotipe ricorrenti per la morte di un marito, di una figlia, di una madre, etc., e incisi individuali, che riguardano il proprio marito, la propria figlia, la propria madre. In alcun modo è emersa, invece, durante la mia ricerca, la <<sinistra potenza di disgregazione e di follia>> da cui sarebbero minacciate le povere donne contadine, stante la loro labilità psichica. Essa piuttosto cede del tutto il passo all’ordine rituale e alle convenzioni sociali. Potremmo al più parlare di una forma di teatralità, strumento necessario a imprimere forza e immediatezza comunicative al proprio dire e fare. E’ De Martino stesso, peraltro, a ritornare in qualche modo sui suoi passi, ma limitatamente al “lamento euromediterraneo”. Benché rimanga saldo nell’idea che le forme del plancus durante la crisi parossistica siano sempre sprovviste di <>27 sullo stato di ebetudine stuporosa tuttavia dichiara: Allo stato attuale della documentazione folklorica noi non siamo in condizione di poter decidere in che misura la stessa ebetudine stuporosa entra a far parte del rito della lamentazione: in che misura cioè questo momento della crisi del cordoglio è ripreso istituzionalmente e diventa un “mostrare” di essere come folgorati dal dolore, a cui seguiranno - nell’ordine rituale - il “mostrare” di riconoscere improvvisamente la situazione, e l’ulteriore vicenda della lamentazione28. Questo sguardo, a mio avviso più sereno, portato alla lamentazione euromediterranea, non poco dipende, credo, dal fatto che, andando oltre la sua esperienza lucana, con minore peso emotivo urge in De Martino <>, quell’impegno che egli con rammarico vede assente <
Ibidem, p. 122. Ibidem, p.120.
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scritture di etnologi e folkloristi>>29. Ritengo, personalmente, che la connessione che lo studioso ha posto <> in Lucania, non ha reso un buon servizio all’opera di discernimento scientifico30, ed ha nel contempo fatto torto a persone che, per quanti <<scacchi>> abbiano registrato nella loro vita, di certo sono molto meno labili psichicamente di molti di “noi”. Aggiungerei che fra le donne con cui ho dialogato, poche avevano attraversato condizioni di estrema indigenza; eppure avevano pianto i loro morti con le stesse modalità delle contadine lucane. In uno studio abbastanza recente sui rituali funebri nel Meridione d’Italia, Satriani e Meligrana si sono ricollegati all’opera di De Martino, <>31, ma insistendo sulla vitalità della cultura folklorica. Sicché, nel paragrafo significativamente intitolato “Il lamento funebre come ricomposizione del mondo”, tale lamento perde le connotazioni di relitto e si fa istituto vivente, risposta attiva dell’individuo e della collettività al disordine causato dalla morte. Una delle esperienze di ricerca che, proprio per un suo qualche disimpegno da assunti di base “forti”, mi è stata più prossima e utile è quella di Brăiloiu in Romania32. 29
Mondo popolare e magia in Lucania, Basilicata Ed., Roma-Matera 1975, p. 126. Ne sia, caso limite, prova, quanto De Martino annota sulla letteratura popolare: <>. Nessun commento. 31 L. M. Lombardi Satriani e M. Meligrana, Il ponte di san Giacomo. L’ideologia della morte nella società contadina del Sud, Sellerio, Palermo 1989, p. 10 32 C. Brăiloiu, Despre bocetul de la Drăguş (Jud. Făgăraş), in “Arhiva pentru ştiinţa şi reforma socială”, Anul X, n. 1-4, Bucureşti, 1932. Riedito in C. Brăiloiu, Opere. Oeuvres V, a cura di E. Comişel, Editura Muzicală, Bucureşti 1981, pp.117-193. Trad. fr. di Jacques Bouët: Notes sur la plainte funèbre de Drăguş, in Les hommes et la mort. Rituels funéraires à travers le monde, Le Sycomore - Objets et Mondes, vol. 19 (1976), a cura di J. Guiart, pp. 17-26; trad. it. di G. Bertini Carageani (con la consulenza di S. Biagiola e F. Giannattasio): La lamentazione funebre nel villaggio di Drăguş (distretto di Făgăraş, România), in EM (Annuario degli Archivi di Etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia), I (1993), pp. 81-135. 30
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De Martino rimprovera a Brăiloiu, di aver preso in considerazione <> solo <<“per una migliore comprensione” dell’arte del bocet>> e pertanto -scrive- il materiale <<non era stato raccolto per rispondere alle nostre domande>>33. Credo che proprio questo spostamento dello sguardo abbia evitato a Brăiloiu di sovrapporre le proprie interpretazioni (almeno nei limiti in cui ciò è possibile) alle interpretazioni delle sue interlocutrici. Nel loro dire la funzione assolta dal bocet è duplice: <<E’ prima di tutto un atto tradizionale e obbligatorio di buona educazione. Atto tradizionale perché “così facevano gli avi, gli antenati, non solo noi”; atto obbligatorio perché: “Devi cantare...se non canti dicono che sia vergogna. Dicono che non ti dispiace per lui”.>>34. Analoga riprovazione si manifesta nella tradizione siciliana, come si è già osservato, nei confronti di chi non palesa agli altri in termini convenzionalmente stabiliti il proprio dolore. Ma la lamentazione è anche un mezzo <>, aggiunge Brăiloiu commentando quanto gli dicono Rafira Buneriu: (<<Se sei addolorato canti e ti passa>>) e Maria Lutian (<>)35. A queste considerazioni delle due donne rumene possiamo accostare quelle rilevate in Sicilia: “<<E’ uno sfogo, un moto che viene dal cuore>> o <>; dove l’accento è posto sulla spontaneità del pianto funebre, e dunque su un sincero dolore. Ricordiamo, tuttavia, che si sta parlando di bocet o di répitu, ossia di espressioni sonore il cui contenuto e il cui andamento ritmico sono stereotipi. La stereotipia della lamentazione funebre, però, non esclude l’ingresso dei <<moti dell’animo>>; ne controlla semplicemente i modi espressivi, canalizzanoli, e canalizzando dunque il proprio storico irrepetibile dolore entro un orizzonte culturalmente controllato: attraverso questo meccanismo “tecnico” si ottiene lenimento alle lacerazioni del cuore che non impunemente, dunque, troveranno luogo nell’impersonale <<si piange così>>. E colei che lamenta in luogo del più prossimo congiunto del defunto, sia essa una parente o una dei convenuti al cordoglio funebre, o ancora una Nel citare Brăiloiu mi servo della traduzione italiana segnalando in nota le difformità con quella francese, quando significative. Le due traduzioni (ambedue più o meno parziali), si differiscono sostanzialmente in alcuni punti per una maggiore (trad. it. italiana) o minore (trad. it. francese) aderenza letterale all’originale rumeno. 33 Morte e pianto rituale, cit., p. 70 34 C. Brăiloiu, La lamentazione funebre..., cit., p. 83. 35 Ibidem, pp. 83-84.
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lamentatrice di professione, quanto è sincera? Quanto può essere sincera la lamentazione ripetuta a richiesta del ricercatore? Scrive Brăiloiu: <>36. E Rafira Buneriu che è chiamata spesso a cantare bocet, dice: <<...Mi hanno chiamata per fare l’albero rituale (maru) e poi mi ha preso una gran smania e ho detto [cantato] qualcosa >> e ancora <<[Ho cantato] per lenire un po’ il dolore che mi faceva soffrire tanto>>; <<E io mi sono ricordata del mio uomo e poi ho detto anch’io qualcosa: “Perché non mi ha detto di scrivare un bigliettino per portarlo da lui”. Ho detto37 anch’io come un vecchio mulo>>. Partecipando alla lamentazione delle parenti prossime al defunto, o sostituandosi a queste ultime, altre donne ancora dicono di aver fatto questo per dare espressione e trovare lenimento al doloroso ricordo di propri eventi luttuosi38. Analogamente ha osservato in tempi recenti Margaret Alexiou nel suo lavoro sulla lamentazione tradizionale in Grecia39. Un esempio è costituito da quanto le dice una lamentatrice di professione, Sophia Lala di 66 anni: dalla morte del marito e del figlio non ha cantato altro che lamentazioni. Mai si è rifiutata di partecipare, lamentando, ad altri funerali, poiché, così facendo, veniva a piangere anche i propri morti. E’ anzi più drastica: <>40 . La questione se il lamento funebre, con le sue forme stereotipe, veicoli o no un sincero dolore, non è affrontata per se stessa da Brăiloiu, dal momento che sostanzialmente si è limitato a ordinare in un insieme significativo le parole delle sue informatrici e a presentarle insieme a brevi commenti. E’ invece punto non trascurabile nell’ermeneutica demartiniana. Scrive De Martino: L’alternativa ermeneutica artificiosità-sincerità è mal posta. Ciò che appare come pianto senz’anima, convenzionale, automatico, [...] è in realtà
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Ibidem, p. 89. Ibidem, p.90. Nella traduzione francese, “ho detto” (rumeno: “ am zis”] è tradotto, più liberamente, ma secondo senso: <<j’ai chanté>>, <<je me suis mis à chanter>>. 38 Similmente, ma in termini assai stringati, considera De Martino in Morte e pianto rituale, cit., pp. 79-80. 39 M. Alexiou, The ritual lament in Greek tradition, C. U. P., Cambridge 1974. 40 Ibidem, p.41. 37
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destorificazione intenzionale del momento critico della morte, o quanto meno attenuazione della sua storicità. Osservando il comportamento di chi esegue una lamentazione su sua richiesta, prosegue: Rispetto alla forma il lamento è un sistema solidale, tradizionalizzato fin quasi all’automatismo, di ritmi, di immagini, gesti, un sistema che tende a completarsi appena alcuni suoi elementi entrano in azione. Come funzionasse questo “sistema” è scandalosamente suggerito a De Martino da Pavlov: Un fatto così altamente intimo e umano come il patire davanti alla morte retrocede in tal guisa sul piano meramente fisiologico dei riflessi condizionati, e al segnale dei gesti e delle immagini associati alla morte gli occhi piangono, così come le glandole salivali dei cani di Pavlov secernevano saliva ai segnali del cibo41. Ciò che posso dire in relazione a certi meccanismi <<meramente>> fisiologici, è che vedendo piangere la signora Inga, mentre eseguiva su richiesta la lamentazione della cognata per il proprio marito, mi è sembrato che l’abbia fatto nel rimemorare un doloroso evento: non a caso le lacrime sono sgorgate quando è venuta a dire della nipote, rimasta orfana in tenera età e senza possibilità di sostentamento; fatto, questo, che allora l’aveva fatto soffrire oltremodo; e il dolore si riproponeva, come ad ognuno accade, nel richiamare alla memoria la sventura passata. Nel 1953 Anatolia Pandolfi, di Colle di Tora (in comune di Rieti, Molise) fu invitata a reputà: Lo fece, non senza schermirsi, a patto di rimanere sola; fu ammessa nella stanza solo <>. Scrive Alberto Cirese, e vale la pena citare per esteso: Dalla porta socchiusa, mentre essa ripeteva il lamento di una figlia per la madre, che aveva udito qualche mese prima, mi giungevano simulati singhiozzi. Simulati? M’era parso invero, in un primo momento, che fossero addirittura scoppi di risa contenuti. Ed erano invece singhiozzi, e non simulati. Anatolia Pandolfi, riferì poi la collaboratrice, piangeva veramente, 41
Mondo popolare e magia..., cit., p.131; L’Opera a cui lavoro. Apparato critico e documentario alla “Spedizione etnologica” in Lucania (a cura di C. Gallini), Argo, Lecce 1996, pp. 125-26.
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col viso contratto, come per un dolore reale ed attuale, portandosi il fazzoletto alla bocca gonfia, e premendolo o mordendolo, come mille volte abbiamo visto fare, o abbiamo fatto, quado il dolore pare chieda di essere compresso e ricacciato dentro, o voglia scaricarsi in lacerazioni e strappi invece che in grida. Lacrime e singhiozzi erano veri. Che accadeva? Anatolia un momento prima aveva riso del lamento: e non solo perché era lei a “rifarlo” in una situazione astratta e artificiale, senza ragione reale di lutto; ma perché anche sulla bocca stessa di suoi conoscenti in lutto reale quelle grida e quel monotono, ossessionante lagno le erano sembrati ridicoli (assieme ad un’altra informatrice aveva riso ricordando come “fece” questo o quella quando morirono figlio o marito). Ora non più: posta nelle condizioni di ripetere con un minimo di impegno, e senza distrazioni, le esclamazioni con cui nelle reali scene di lutto si esalta e a un tempo si scarica la tensione emozionale, tutti gli elementi, che nelle situazioni di lutto reale precedono, causano, accompagnano il lamento, riemergevano: Anatolia Pandolfi, attraverso lo sforzo del riprodurre e l’ossessione del ripetere, ricreava la realtà soggettiva della scena di morte, personalizzava e attualizzava il dolore. Non riusciva insomma a mantenere come artificiale la scena e precipitava in una crisi di emozioni reali: fino alla vera contrazione del volto, fino alle lagrime vere, fino al fazzoletto veramente premuto e morso [...] La forza emotiva della lamentazione aveva ragione dell’equilibrio razionalmente mantenuto dinanzi alle crisi altrui42. Pianto simulato e vero anche quello della signora Inga di Calamonaci. La situazione di partenza è ancor più lontana, rispetto a quella in cui si era trovata Anatolia Pandolfi, dalla possibilità di immissione in una reale scena di cordoglio. Sergio Bonanzinga e Fatima Giallombardo si erano recati a Calamonaci (AG), in compagnia Rosario Perricone, per documentare la scannatina del porco e il ricco pranzo che ne sarebbe seguito. La nonna di Rosario, insieme ad altri, era intenta alla preparazioni delle carni in gioiosa convivialità, tra battute salaci e un gran ridere. I tre ricercatori non mancarono nel frattempo di rivolgerle delle domande sulle tradizioni del suo paese. In modo non prestabilito venne fuori il discorso sulla lamentazione funebre che già qualche tempo prima la signora aveva accennato su richiesta del nipote (cfr. supra: Neli, Neli, lu maritu!). La signora consentì a ripeterla in un'altra 42
A.M. Cirese, Un pianto simulato e vero, in “La lapa”, anno I, 1953, p. 33; nella ristampa anastatica della rivista (ed. Marinelli, 1991), p. 51.
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stanza dinanzi alla telecamera. Dopo le prime battute, un crescendo di commozione. La donna prese dalla tasca del grembiule un fazzoletto bianco, sventolandolo a tratti: lamentava in cadenza, gridava fuori ritmo tra le lacrime, percuoteva i piedi, accennava a gesti autolesivi, si riabbandonava al cantilenato. Il volto di altre donne convenute dalla cucina si rigò di pianto. Un meccanismo psicologico, dunque, non fisiologico (che le lacrime in sé siano un fatto fisiologico, è altro discorso), viene sollecitato e messo in moto dalla forza evocativa insita nella tecnica del piangere - insisterei su questo punto - e non solo nel contenuto del pianto. Non mi soffermerò su una delle funzioni assolte dalla lamentazione funebre su cui spesso si è, non impropriamente, insistito: mettere al riparo i vivi da possibili risentimenti del morto, dimostrandogli quanto egli era loro caro, quanto lo apprezzavano etc. Ciò perché questa funzione non è emersa “spontaneamente” nel discorso degli informatori, né io li ho sollecitati in questa direzione. Mi consentirebbero di parlarne sia la configurazione dell’universo animico rilevata nel corso delle mie prolungate ricerche sulla magia popolare tradizionale43 sia varie evidenze delle cerimonie funebri. Mi mancano, però, indispensabilmente, le parole di quanti hanno attraversato l’esperienza del pianto rituale. Quanto, piuttosto, le testimonianze raccolte impongono di sottolineare è che il pianto funebre è avvertito come obbligo sociale. Su questo tratto ha insistito la letteratura tanatologica, e alcuni studiosi hanno posto l’accento sulla dimensione comunicativa: non solo rispetto delle regole rituali in base a un generico “la tradizione lo impone”, ma rispetto di tali regole perché la comunità, comprendendo in base ad esse il linguaggio del dolore, possa essere di sostegno alla famiglia del defunto in un momento di grave crisi. Ricordo in proposito alcuni “classici”, da cui altri, più o meno modificando, hanno ripreso. Essenzialmente, dunque, Hertz, Mauss, Granet. Hertz, osservando i rituali funebri indonesiani (Dajak del Borneo)44 aveva asserito che la lamentazione funebre, così come altre espressioni rituali, sono fatti sociali, e che le emozioni, dunque, sono istituzionalmente governate. In
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Si veda, in particolare, E. Guggino, Il mondo è fatto di sillabe. Figure di maghi in Sicilia, Sellerio, Palermo 1993; ma anche Id., Magia in Sicilia, Sellerio, Palermo 1978 e Un pezzo di terra di cielo. La concezione magica della malattia in Sicilia, Sellerio, Palermo 1978. 44 R. Hertz, Sulla rappresentazione collettiva della morte, Savelli, Roma 1978.
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termini non dissimili, ma facendo un passo avanti, scrive Mauss, il cui saggio significativamente si intitola L’espressione obbligatoria dei sentimenti45: Le lacrime, e ogni specie di espressione orale dei sentimenti, non sono fenomeni esclusivamente psicologici o fisiologici, ma fenomeni sociali contraddistinti soprattutto dalla non spontaneità e dal più perfetto obbligo [...] Notiamo che questa convenzionalità e questa regolarità non escludono affatto la sincerità. Come, del resto, nelle nostre usanze funerarie. Tutto ciò è nello stesso tempo sociale, obbligatorio, e tuttavia violento e naturale (cors. mio); ricerca e espressione del dolore vanno insieme (pp. 4 e 6). Infine, concludendo (p.13): Ma tutte queste espressioni collettive, simultanee, con valore morale e con forza obbligatoria dei sentimenti dell’individuo e del gruppo, sono qualcosa di più che semplici manifestazioni: sono segni, espressioni capite, ossia un linguaggio (cors. mio). Questi gridi sono come frasi e parole. Bisogna emetterli, ma se bisogna emetterli è perché li capisca tutto il gruppo. Dunque è più che una manifestazione dei propri sentimenti; è un manifestarli agli altri perché si deve manifestarglieli. Li si manifesta a se stessi esprimendoli agli altri e per conto degli altri. Si tratta essenzialmente di una simbolica. Sulle ragioni di questo dover manifestare ad altri, Granet pone in rilievo l’aspetto comunicativo: La famiglia colpita non riceve assistenza se non nella misura in cui il suo dolore si esprime in un linguaggio corretto e per mezzo di formule esatte, le sole che, subito capite, suscitano immediatamente simpatia [...] Un dolore, ove fosse possibile, che volesse restare assolutamente intimo, o che riuscisse a tradursi in termini liberi e spontanei [...] che, in una parola, non si accordasse subito ai voti del pubblico, non comporterebbe da parte di questo nessuna partecipazione e non recherebbe alcun conforto [...] Per questo i gesti del dolore si sono ordinati in una successione di riti che sono anche un sistema di segni. Essi costituiscono una tecnica e una simbolica; formano un
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In M. Granet-M. Mauss, Il linguaggio dei sentimenti, Adelphi, Milano 1975, pp. 3-13.
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linguaggio pratico che ha le sue necessità di ordine, di correttezza; che ha la sua grammatica, la sua sintassi, la sua filosofia e, direi, anche la sua morale46. Benché Granet parli della Cina classica, dove anche il cerimoniale quotidiano è, come in molti paesi orientali, molto rigido e poco spazio lascia all’inventiva personale, il suo discorso è in gran parte estendibile alla cultura folklorica tradizionale, disposta, come è, ci ricordano Bogatyrêv e Jakobson, sul piano della langue piuttosto che su quello della parole47. Dalla dimensione comunicativa del pianto funebre e di tutto il rituale, dipende la partecipazione collettiva alla sua celebrazione. A questo punto bisogna chiedersi, però, da che cosa profondamente dipenda o con che cosa venga a coincidere la forza della dimensione comunicativa. Che non si tratti della natura stessa del rito? Non solo quello della morte, ma di tutti i riti, con più ragione allorché sono chiamati a rispondere a un sistema di attese individuali e collettive, a interrogativi che riguardano <>48; e l’evento morte è uno dei più grandi, insieme a quello della nascita. Quale è dunque la natura del rito? Essa, sostiene Silvana Miceli, coincide con la sua <>; e da questa forma “forte” il rito trae il suo potere49. I riti <>50. Una corretta esecuzione prevede anche che ogni azione rituale abbia una sua collocazione temporale precisa: cosi, per quanto attiene la mia ricerca, vi sarà un tempo per ittari vuci e un altro per ripitàri. E se il gridare si sposta all’interno della lamentazione, come ho già evidenziato, assume diversa o modificata valenza comunicativa, poiché inserita in altro momento della sequenza rituale. Ma perché il pianto funebre in ambito folklorico si affidava e ancora talvolta si affida al grido o al canto? Potremmo rispondere: è una tradizione dalle radici antiche ed estese, un linguaggio condiviso là dove esso ancora significa. E’ una risposta che soddisfa più il “come” che il “perché”. Vorrei azzardare - chiudendo in circolo e pertanto non escludendo, ma solo 46
M. Granet, Il linguaggio del dolore nel rituale funerario della Cina classica, in Il linguaggio dei sentimenti, cit., pp.15-39. 47 P. Bogatyrêv e R. Jakobson, IL folclore come forma di creazione autonoma, in “Strumenti critici”, I (1967), f. III, p. 22 ss. 48 G. Kligman, Calus. Symbolic Transformation in Romanian Ritual (con una Prefazione di M. Eliade), The University of Chicago Press, Chicago and London 1981, p.XI. 49 Rito: la forma e il potere, in “Uomo e cultura”, n. 10 (1972), pp. 132-158. 50 Ibidim, p.152.
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circoscrivendo le funzioni e le forme del pianto sinora considerate dentro l’ orizzonte della parola - una suggestione che mi proviene da letture sull’oralità, in particolare da Zumthor. In La presenza della voce51 Zumthor scrive che <> (p.30). E’ il modo in cui la voce si atteggia, il modo in cui un répitu è eseguito con le sue stereotipie sonore e verbali a consentire di riconoscerlo; consentendo nel contempo di riconoscersi nelle sue cadenze, frasi, esclamazioni, o nell’aritmico gridare52. Nella sua organizzazione sonora e verbale il répitu si fa <<memoria vivente [...] e energia ordinatrice>> (p.74). Gridano e intonano in cadenza per i loro cari defunti, ancor oggi, <<povere contadine>> e donne di più elevata condizione economica e sociale non immemori dell’antico linguaggio. Così facendo comunicano: proiettano in immagini create dalla parola l’oscuro, informe dolore, gettandolo fuori da sé, conferendogli, nella sua messa in forma, una sorta di “oggettività” e da qui una possibilità di dialogo tra locutore e locuzione, tra la singola locuzione e le tante altre emesse, in analoghe situazioni, da altri locutori. Come “oggettivare” il dolore attraverso la parola, rendendolo conoscibile, se non mediante stereotipi? Come riconoscersi, più in generale, nella fluttuante oralità, se non attraverso il già sentito e ripetuto ogni volta eguale o assai simile a se stesso? E non è sempre eguale a se stessa la parola rituale? Da che altro la sua efficacia comunicativa? Pianto vero, allora, comunque, anche quello “simulato”, in forza della parola gridata o cantata, ambedue dentro un linguaggio comunitariamente condiviso, poiché è tale linguaggio a re-suscitare la memoria.
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P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, il Mulino, Bologna 1984. 52 Sul dato sonoro della lamentazione si è soffermato A. Ricci, osservando a Mesoraca (Calabria) il pianto di una madre durante la veglia funebre: <<Ella doveva rendere presente il suo dolore riepilogando il ricordo del figlio a coloro che arrivavano, il suo pianto era necessario per costruire la rappresentazione acustica della figura del figlio che prendeva corpo dalla grana pietosa della sua voce>> (Ascoltare il mondo. Antropologia dei suoni in un paese del Sud d’Italia, Il Trovatore, Roma 1996, p.173).
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LUISA VALMARIN ● Le “dogane del cielo”, una psicanodia folclorica?
LE “DOGANE DEL CIELO”, UNA PSICANODIA FOLCLORICA? Luisa Valmarin Uno degli aspetti più caratteristici e fortemente individualizzanti del cerimoniale rumeno di sepoltura è rappresentato dal motivo delle “dogane del cielo”, o “vămile văzduhului”. Il Marian nella sua ancor insostituibile monografia Înmormîntarea la Români, Bucureşti 1892, com’è ovvio dedica ampio spazio a questa credenza, legata innanzi tutto al momento della caduta degli angeli ribelli: sentendo che una parte di loro si rivolta contro di Lui, il Creatore li getta nel buio eterno, ma vedendo che sono in troppi a cadere, ordina loro di fermarsi dove si trovano. Così, una parte è rimasta in cielo, una parte è piombata sulla terra ed ha dato origine ai diavoli, una terza è rimasta sospesa per aria. Anche questi sono diavoli, perché non sono potuti tornare in cielo, ma non riescono a condurre al male gli uomini visto che non possono stare sulla terra. Perciò, non molto dopo la loro caduta, si riuniscono e si accordano perché fra terra e terzo cielo siano frapposte delle dogane dove fermare le anime dei morti che viaggiano verso il cielo per scoprire e soppesare le loro cattive azioni e, se il caso, gettare le anime stesse nel fuoco infernale. Decidono anche, i diavoli doganieri, di farsi ognuno, un librone di pagine nere su cui scrivere a lettere bianche i peccati di ciascuno, per mostrarlo poi all’anima in viaggio. Così, in poco tempo il cielo si è riempito di dogane che per questo si chiamano “dogane del cielo” e che prendono nome ciascuna da un peccato (del furto, dell’omicidio, dell’ingordigia, dell’ingiustizia, ecc.). L’ultima e più terribile dogana, costituita da un ponte lungo, grosso come un’unghia e largo come il filo di un rasoio, passa su uno stagno buio e senza fondo, popolato da mostri orrendi: l’anima del peccatore cade e precipita nell’inferno, mentre quella del non peccatore riesce ad andare oltre, entrando così in paradiso. Ogni doganiere, oltre al libro dei peccati, ha una bilancia con la quale pesa gli atti del morto, che però è accompagnato da un angelo guida il quale dispone anche lui di un libro, questo bianco a lettere nere, dove sono annotate le buone azioni: la destinazione finale è ovviamente determinata dal prevalere dell’uno o dell’altro libro. Tuttavia, davanti ad ogni dogana, accusata del peccato rispettivo, l’anima può pagare un pedaggio con una moneta o una ciambella di quelle che ha dato ai poveri mentre era in vita o che sono state date in suo suffragio al momento del funerale. Se l’anima non ha nulla da offrire al doganiere, inevitabilmente precipita nell’inferno. 59
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Perciò, è bene che ciascuno paghi le proprie dogane finché è in vita, dando anche qualcosa in suffragio dei morti. (pp. 448-56). Come si vede, si tratta di un capitolo particolarmente vivace ed articolato del rito di sepoltura, che è tutto intessuto di riferimenti ed allusioni continue alla credenza nelle dogane1. Non solo lo svolgimento del rito è condizionato dalla necessità di aiutare il morto a superare le dogane, ma i canti che sottolineano i diversi momenti ruotano sovente intorno a questo mitologema: basterà ricordare un bocet come Bucură-te mănăstire, con i versi “Vremea ţi-a venit, / ceasul c-a sosit / de călătorit / în negrul pămînt, / la morţi în mormînt. / Nu ştiu drumurile-s rele, / Ori vămile poate-s grele / de pe tine nu te lasă / să mai vii la noi acasă? e soprattutto il canto di accompagnamento del morto, “petrecerea mortului” ( Pas, suflete, pas / du-te făr’ necaz / pîn’ vei trece tu cu dare / cele grele şapte vame)” 2. Lo stesso Marian, però, rileva come alla base di questa visione escatologica si trovi in realtà la vita di S. Basilio il giovane: vissuto nel X secolo e morto probabilmente verso il 950, S. Basilio diventa protagonista di una narrazione agiografica arricchita di elementi destinati a colpire l’immaginazione del lettore/ascoltatore. Infatti, se la tradizione manoscritta accolta dagli Acta Sanctorum, non si allontana dagli elementi canonici che si possono incontrare nella vita di un santo, un cospicuo numero dei testimoni greci - a partire da quelli editi da Veselovski e Vilinski3 - introduce nella narrazione attribuita a Gregorio, discepolo del santo, una parte escatologica con la descrizione del mondo ultraterreno, dell’inferno e delle pene cui i peccatori sono sottoposti, con inserti testuali giudicati sensibilmente più tardivi rispetto alla vita propriamente detta4. Questa narrazione può aprirsi con il racconto di Teodora che descrive a Gregorio il percorso della sua anima attraverso le 21 dogane del cielo. Il testo così arricchito conosce una circolazione immensa oltre che in area rumena, innanzi tutto in quella slavoortodossa. Per quel che riguarda il cerimoniale funebre rumeno, sembrerebbe trattarsi insomma della folclorizzazione di un apocrifo, in realtà considerato canonico dalla chiesa ortodossa . Mi soffermerò in seguito sul filone “letterario” in cui questo racconto escatologico si inserisce. Per ora, ricorderò come alle “dogane del cielo” si connetta la “dottrina delle telonie” (
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afferma che questo giudizio comincia proprio con l’esame delle anime alle diverse dogane o telonie, che esse debbono attraversare per giungere in cielo. In ambito teologico occidentale, dove questa concezione dell’escatologia individuale sembra essere meno estesa6, si respinge tale interpretazione sottolineando come nell’antica patristica le “telonie” in realtà altro non siano che una semplice rappresentazione metaforica del giudizio individuale, il cui senso simbolico sfuggirebbe quindi ai teologi russi7. L’interrogativo con cui ho intitolato questo mio intervento sarebbe perciò risolto, anzi non avrebbe motivo di esistere, se in realtà lo stesso testo agiografico non si ponesse in relazione problematica con un articolato tipo di tradizione che è non tanto folclorica, quanto orale. In realtà, la narrazione apocrifa inserita nel testo agiografico e la connessa credenza folclorica illustrano un tipo di escatologia che si basa, oltre che sull’appena menzionata tradizione patristica delle “dogane del cielo”, anche su due filoni tematici particolarmente complessi e perciò stesso interessanti: la “demonizzazione del cosmo” e l’”ascensione dell’anima” o “Himmelsreise”. In anni recenti Culianu ha affrontato entrambi gli argomenti in reiterati studi di particolare spessore scientifico, facendo il punto sulle interpretazioni critiche che nel tempo sono state date di questi due mitologemi e proponendo soluzioni nuove cui mi sembra ovvio riferirmi nell’ambito di questo mio intervento8. Per quanto riguarda la demonizzazione del cosmo, lo studioso rileva che “fra le prime testimonianze che attestano, il V secolo a. C., la diffusione delle idee concernenti i rapporti anime-astri e quelle che, il I secolo d. C., ci informano del carattere demoniaco attribuito alle sfere astrali, bisogna collocare (fra il IV e il II secolo a. C.) l’apparizione di una rappresentazione intermedia, l’Inferno celeste”9. Sottoponendo a critica le opinioni correntemente accolte in merito all’origine dell’escatologia celeste, cioè della collocazione aerea dell’inferno, Culianu con la sua analisi non solo tiene conto dell’influenza delle dottrine dualistiche orfico-pitagoriche, ma segue anche il formarsi e l’evolversi di un certo numero di concetti ed immagini che convergono ad elaborare un predualismo ebraico. Mi sembra di particolare rilievo quanto Culianu, sulla scia del Daniélou10, dice a questo proposito rilevando da un lato, come l’escatologia orientale e quella greca abbiano influenzato la letteratura apocalittica giudeocristiana e la mistica ebraica del Trono; dall’altro, come numerosi motivi dimostrano l’influsso inverso: “il predualismo giudaico ha lasciato tracce incancellabili in tutte queste speculazioni, fornendo così un contributo essenziale alla formazione del dualismo gnostico”. Pertanto, dice lo studioso, 61
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si può ritenere che il giudaismo abbia elaborato, a partire dal I secolo d. C., delle rappresentazioni predualiste che sovrapponendosi alle dottrine dualiste dell’antico strato greco, “giustificano l’apparizione del dualismo gnostico senza dover ricorrere alla tesi dell’influenza iraniana”11. Muovendo di qui, egli dice, si può spiegare la demonizzazione del cosmo nel clima religioso dei primi secoli dopo Cristo ed addirittura anche le radici del dualismo gnostico. Perciò Culianu trova nell’ambito del complesso di dottrine presenti nel giudaismo tardivo (ed in particolare nella figura degli “angeli dei popoli”) gli elementi in cui individuare l’avvio genetico delle “potenze ostili” del mondo celeste che per evoluzione giungeranno poi a dar vita alla figura degli arconti gnostici. In conclusione, a partire dal I secolo d. C., l’escatologia celeste si generalizza contribuendo a spiegare la demonizzazione del cosmo, fenomeno che diviene dominante a partire da quest’epoca ed è ben rappresentato soprattutto dai sistemi gnostici12. Accanto alla demonizzazione del cosmo e rapportabile alla medesima temperie spirituale, si pone il tema dell’ascensione dell’anima, che Culianu definisce “non un tema o un mitologema, ma un insieme inestricabile di problemi concernenti la storia comparata delle religioni”13 e che investe temi come l’escatologia celeste, l’origine astrale dell’anima, il quadro cosmologico su cui si proietta la psicanodia, ecc. Non meno complessa è la problematica legata sia alla fenomenologia visionaria, sia ( e questo interessa qui) al contenuto della visione ascensionale: “porte del cielo, stazioni, guardiani delle porte, doganieri, passaporti e parole d’ordine, classi di angeli, inferno, classi di demoni e condannati, categorie di dannati e corripondenza fra i delitti e le pene, paradiso, ecc.”14. Perciò, il viaggio dell’anima attraverso le sfere planetarie dapprima in discesa e poi in salita, dalla forma che conosce nella grecità classica evolve sino al modello concorrente del viaggio attraverso le dogane, “i cui spaventosi custodi, dalle forme animali e dai nomi davvero molto strani erano incaricati di controllare il passaporto (cioè il sigillo...), di verificare la parola d’ordine e talvolta il bagaglio morale dell’anima. In questo caso, in cielo si instaurava una sorta di regime militare, mentre si immaginava che l’anima fosse stata istruita nell’arte profonda delle parole d’ordine e che sapesse il nome dei custodi e dei sigilli protettori per riuscire a traversare la vasta zona celeste occupata dalle forze ostili”15. Si delinea così con precisi contorni il tema del viaggio dell’anima che torna in cielo “uno dei tratti comuni più costanti nei sistemi gnostici, altrimenti profondamente divergenti, mentre il suo significato per il 62
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pensiero gnostico è accresciuto dal fatto che rappresenta una credenza che (...) ha anche un’importanza pratica immediata per il credente gnostico, dato che il senso della gnosi è quello di prepararlo per l’avvenimento finale” Così, i testi gnostici come il fondamentale Pistis Sophia “contengono i nomi e le formule segrete destinate ad assicurare il passaggio dell’anima attraverso le porte custodi dagli spaventosi guardiani”16. Si delinea perciò un mitologema delle dogane celesti, del viaggio verso i cieli organizzato secondo uno schema illustrato dall’ermetico Poimandres, ma con la differenza che “nei testi gnostici cristiani questo passaggio di consegne assume tinte più cupe e minacciose. Diversamente dai governatori planetari ermetici, gli arconti sono doganieri esigenti, controllori implacabili. Occorre possedere passaporti speciali per superare i diversi confini planetari”17. Ci troviamo di fronte, dunque, ad un duplice percorso testuale, l’uno all’interno del sistema crisitano ortodosso, l’altro nell’ambito dell’eterodossia dualista. I due percorsi rivestono estremo interesse dottrinario e culturale in senso lato, con possibili tangenze su cui ci si soffermerà subito. Riprendiamo innanzi tutto la lunga e colorita tradizione patristica del mitologema per ricordare come in ambito più propriamente letterario, oltre che teologico, già in Origene compaia per la prima volta la figura del demone come agente del giudizio individuale. A lui segue una nutrita schiera di padri orientali che descrivono con toni sempre più drammatici e foschi il momento in cui l’anima, uscita dal corpo, affronta il viaggio ultramondano. Atanasio, Efrem e soprattutto Cirillo di Alessandria18 danno autentica sostanza letteraria, talora plasticamente corrusca, alla speculazione teologica di Origene, cui “risale la responsabilità di aver introdotto nella teologia patristica della Redenzione l’idea di un riscatto pagato a Satana e di averlo giustificato con un diritto di quest’ultimo sui peccatori”19. Pertanto, è con Origene che si costituisce in modo solido la dottrina dei demoni dell’aria20, dottrina che avrà poi tanto seguito negli scrittori patristici appena ricordata. Il percorso “eterodosso” è presentato dai testi gnostici - e soprattutto quelli di Nag Hammadi - i quali illustrano doviziosamente la figura degli arconti doganieri che nei 7 eoni sono preposti ad interrogare l’anima per scoprire se si sia macchiata della colpa relativa a ciascuno di essi consentendole il transito solo se in possesso del lasciapassare costituito da numeri e parole magiche. Mi limiterò a citare i testi in cui il mitologema è più esplicitamente esposto: il Vangelo secondo Maria, dove nel corso dell’ascensione l’anima 63
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incontra le 7 potenze (tenebre, desiderio, ignoranza, gelosia della morte, regno della carne, folle saggezza carnale, sofia collerica)21 e le due Apocalissi di Giacomo, dove allo gnostico si ricorda come dovrà prima affrontare la moltitudine degli arconti e poi, presso al demiurgo, tre di loro pronti ad afferrare l’anima, mentre siedono come doganieri ad esigere il pedaggio22. In realtà, le “telonie” o “dogane” sono elemento comune, e quindi caratterizzante, della letteratura gnostica. Si può ricordare ancora l’Apocalisse di Paolo dove il doganiere chiede all’apostolo di mostrare il semion prima di avere accesso all’ogdoade, lasciando arguire che si credesse nell’esistenza di una dogana all’ingresso di ogni cielo23. Avendo menzionato quest’ultimo testo gnostico posso introdurre un’ulteriore osservazione che riguarda esattamente la tangenza fra le due diverse tradizioni dottrinali cui ho fatto riferimento. Si è rilevato come lo schema del viaggio al cielo, genere letterario corrente negli apocrifi giudaici, riappaia nei testi di Nag Hammadi, nel cui ambito l’Apocalissi di Paolo è quella che meglio illustra il tema24. D’altro canto, in ambito cristiano ortodosso l’Apocalissi di Paolo è “il primo testo che descrive, durante un itinerario percorso da un vivente, la via delle anime nell’aldilà (...) Le apocalissi cristiane, come i testi ebraici di cui rappresentano la prosecuzione, si occupavano soprattutto dei tempi messianici. L’Apocalisse di Paolo è la prima ad interessarsi dell’escatologia immediata ed individuale”25. Il Carozzi nel suo volume, denso e straordinariamente documentato, dedicato all’Apocalisse di Paolo, rileva ripetutamente come si possa supporre che questo testo abbia voluto rappresentare una risposta all’omonima visione gnostica e che quindi la necessità di rispondere agli gnostici spieghi l’uso di un linguaggio vicino a quello degli ermetici o degli gnostici, cui si rivolgeva, ma compatibile con l’insegnamento cristiano26. Va da sé che questo testo apocalittico, tràdito da una tradizione eccezionalmente ricca in tutta Europa, è uno degli apocrifi di più antica attestazione in area rumena: il testo fortemente corrotto e lacunoso consiste di fatto nella descrizione dell’ascensione al cielo e del ruolo di esattori svolto dai demoni 27. Precisiamo che tutto questo filone escatologico è ben rappresentato nell’antica letteratura rumena. Ed è un capitolo, questo, che meriterebbe attenzione da parte degli studiosi. Dunque, di fatto, la Vita di S. Basilio con la sua interpolazione ultraterrena viene a comporre una costellazione testuale in cui entrano fra le altre anche le opere dei padri che sono stati citati. In manoscritti o in antiche edizioni a stampa, il canone 64
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letterario si è arricchito delle omelie sull’uscita dell’anima dal corpo non solo di Efrem Siro, ma anche di Cirillo di Alessandria28 che, come ho detto sopra, per primo enumera le dogane collegandole ciascuna ad un peccato. Posso riprendere ora il mitologema delle “dogane del cielo”, rilevando come la rappresentazione coincida sostanzialmente nelle due psicanodie (folclorica e gnostica) anche per quel che riguarda il loro numero: è il magico 7 per gli gnostici; un numero estremamente variabile nel folclore rumeno, dove tuttavia le attestazioni più antiche e soprattutto quelle iconografiche documentano (in consonanza con la narrazione agiografica) il numero di 2129. Dunque, il prodotto della moltiplicazione di due numeri magici: il 7 appunto ed il 3. Va introdotta a questo punto una precisazione certo fondamentale a proposito delle due psicanodie. Gli angeli e gli spiriti che nel testo ortodosso ispezionano le anime con il bagaglio delle loro azioni non hanno altro compito che dividere buoni e cattivi. In questo caso, non ci troviamo di fronte al processo di anamnesi che si incontra nell’apocalissi gnostica, dove la psicanodia è un passaggio attraverso i gradi celesti sorvegliati dai doganieri cui bisogna saper rispondere la parola segreta che consente il passaggio verso la conoscenza30. Dunque, una sostanziale, diversa visione escatologica sembra creare un’insuperabile divergenza fra le due ascensioni dell’anima, ortodossa ed eterodossa. Tuttavia, il Carozzi, parlando di confluenza di tradizioni pagane e cristiane nell’Apocalissi di Paolo precisa che tale incontro poggia “su una mentalità comune, le cui espressioni non divergono che in funzione di diverse finalità religiose”31. Del resto, già il Daniélou aveva rilevato come, dal momento che “l’habitat dei cattivi angeli si trova nelle zone inferiori del cielo (...) le anime nella loro risalita verso il cielo, dopo la morte, devono attraversare le sfere demoniache” cercando di sfuggire alla presa dei demoni che tentano di trattenerle. La dottrina va distinta “da quella della traversata delle sfere angeliche da parte dell’anima, che compare nell’Ascensione di Isaia e che gli gnostici interpreteranno come cosmocratori planetari”. Ora però, osserva il Daniélou, le due concezioni possono giustapporsi, come accade per gli gnostici valentiniani32 e certi autori ortodossi. Si incontrano così contemporaneamente i demoni che tentano di contrastare l’ascensione dell’anima e gli angeli guardiani delle porte del cielo che le chiedono la garanzia-sigillo prima di lasciarla entrare33. Tornando alla Vita di S.Basilio Nuovo, ricordo che in precedenza ho sottolineato come gli studiosi abbiano individuato nella sua redazione originale, in greco, due precisi momenti compositivi: il primo, più antico, 65
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consiste nella narrazione puramente agiografica, accolta dagli Acta Sanctorum, ed è da collocare esattamente alla metà del X secolo; il secondo, caratterizzato dall’inserzione escatologica con il racconto di Teodora e la descrizione delle dogane e la visione di Gregorio con l’ultimo giudizio, è successivo, “sensibilmente più tardivo”, dice Da Costa-Louillet, precisando che sono stati inseriti lunghi frammenti epici, forse in epoche diverse, su un fondo primitivo34. Lo spostamento della data di rielaborazione ad un periodo successivo al X secolo ci rimanda in realtà all’epoca in cui nella penisola balcanica appare e fiorisce il bogomilismo. Non entrerò certo nella problematica e nelle polemiche concernenti le connessioni rilevabili o meno fra i vari dualismi che si sono susseguiti a partire da quello iranico o dallo gnosticismo. Privilegiando il dato fenomenologico rispetto allo storicistico, studiosi come Puech35 e Culianu36 hanno argomentato la totale indipendenza di un sistema rispetto ai precedenti. Si può agevolmente osservare, tuttavia, che nella storia dei dualismi un sistema dualistico si afferma laddove in precedenza ne era comunque fiorito un altro. In questo senso, talune concessioni vengono fatte dal Puech. Raffrontando l’ideologia bogomila con le antecedenti e dopo aver puntualizzato che il termine di “manicheismo” usato dagli eresiologi bizantini e medievali equivale semplicemente a “dualismo” senza alcun riferimento alla dottrina di Mani, il Puech ammette che “il bogomilismo in buona parte ha dovuto la sua formazione a fattori pauliciani combinati in dosi ineguali con apporti di apparenza, se non di origine, manichea”37. Gli sembra più ragionevole ipotizzare una comunanza di tratti rilevabili nel bogomilismo e nelle sette degli arcontici e degli audiani. Sviluppatesi in Siria, queste si sono poi estese all’Armenia ed all’area danubiana, dove comunque se ne trovano tracce solo sino alla fine del IV secolo. Le due sette presentano elementi comuni al bogomilismo e fra questi interessa qui innanzi tutto quello costituito dall’uso di utilizzare numerosi apocrifi, come, con particolare rilievo, l’Ascensione di Isaia; ma soprattutto esse tramandano il mito delle origini dell’umanità in modo particolarmente aderente alle leggende bogomiliche. Malgrado ciò, il Puech sottolinea come questi temi siano stati non “inventati”, ma desunti dal folclore o dagli apocrifi e rielaborati e ritrasmessi attraverso il canale privilegiato del manicheismo38. Del resto, già il Cumont osservava che le letture dei manichei comprendevano anche un buon numero di apocrifi cristiani, cosicché è difficile stabilire fino a che punto tali opere siano state rimaneggiate dai novatori che le hanno adottate39.
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Dal riferimento al bogomilismo conseguirebbe che l’affermarsi prepotente di questa dottrina dualistica avrebbe avuto l’effetto di riattivare e riattualizzare il mitologema dell’ascensione gnostica dell’anima, verosimilmente sopravvissuto nell’area sud-est europea sotto forma di tradizione orale40 ed introdotto nella vita del santo così come vi sono stati introdotti riferimenti ad avvenimenti bellici (attacco dei russi contro Bisanzio, invasione ungherese) coevi alla scrittura dell’opera. Se per il motivo di questa particolare ascensione dell’anima è agevole individuare le possibili radici, resta da spiegare un altro aspetto problematico e cioè la folclorizzazione del mitologema. Va detto che mentre enorme diffusione ha conosciuto in tutta l’area ortodossa bizantino-slava il racconto agiografico con la sua interpolazione escatologica che sovente si stacca dal testo per vivere di vita autonoma41, il riflesso folclorico della credenza nelle dogane del cielo è attestata solo in area rumena. Facendo riferimento al fatto che nel folclore europeo si individuano sopravvivenze delle apocalissi e degli apocrifi giudaici, cristiani ed eretici, Eliade sottolinea come un motivo mitologico frequente fra mandei e manichei, ma di verosimile origine sumerica “occupi un ruolo centrale nella mitologia della morte e nel rituale funerario dei Rumeni e di altri popoli dell’Europa orientale. Gli scritti mandei e manichei parlano di dogane situate in ognuno dei sette cieli, e di doganieri che esaminano la ‘mercanzia’ dell’anima (cioè, le sue opere e meriti religiosi) nel corso del suo viaggio celeste: ebbene, nel folklore religioso e nei costumi funerari rumeni, si parla del ‘cammino del morto’ attraverso le sette ‘dogane dell’atmosfera’ (‘vămile vazduhului’)”42. Quanto alla zona balcanica, va ricordato che se nel folclore greco si crede che i neonati non battezzati diventino doganieri, cioè piccoli demoni che tornano a tormentare i vivi 43, in quello bulgaro si crede che certi angeli stiano di guardia alle dogane44 o che per entrare in paradiso l’anima debba passare attraverso 24 porticine, ad ognuna rispondendo delle proprie azioni45. Mi sembra che sia individuabile in entrambi i casi la memoria soggiacente del mitologema, che comunque in quanto tale non parrebbe comparire più esplicitamente nelle credenze legate al cammino verso l’altro mondo. Almeno, questa è la conclusione cui sono arrivata sino a questo momento, anche sulla base di un recentissimo articolo di Francis Conte dedicato propio al “cammino verso l’altro mondo”46. Vengono qui minuziosamente descritte le tappe del cammino verso l’aldilà senza la menzione della credenza nelle dogane celesti. Si pone quindi il problema di capire perché essa si è tanto 67
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lungamente e profondamente radicata nella mitologia ultramondana dei rumeni; per quale ragione il loro orizzonte d’attesa ha recepito un mitologema che gli altri fruitori della zona sud-est europea hanno conservato solo nella tradizione scritta. Su un piano più generale si rileva la presenza comune al folclore bulgaro - di elementi dualistici caratterizzanti le narrazioni cosmogoniche47. Anzi, dice M. Eliade, “è significativo, per esempio, che la cosmogonia biblica sia scomparsa nel folclore europeo. L’unica cosmogonia popolare nota all’Europa sud-orientale è a struttura dualistica, cioè fa agire sia Dio che il diavolo. Nelle tradizioni europee, dove questa cosmogonia non è attestata, non esiste alcun mito cosmogonico”48. In questo senso, mi sembra illuminante proprio la narrazione che fa da cornice alla descrizione delle dogane. Come si è visto in precedenza, esse esistono perché sono state create dagli angeli caduti che sono stati fermati in aria dall’ordine di Dio, prima di precipitare a terra. Ora, questa suddivisione degli angeli di Satana che, scacciati con il loro signore, si arrestano negli abissi, in terra o in aria compare nei medesimi termini nella Leggenda del mare Tiberiade, uno dei testi medio-bulgari che meglio illustrano il dualismo bogomilo49. È possibile spingere questa ricettività fino a giustificare la conservazione a livello orale di un mitologema gnostico50? La sopravvivenza di elementi a grande distanza cronologica non sembra essere un reale ostacolo. Infatti, è sempre Eliade a sottolineare come la persistenza di temi manichei entri verosimilmente fra i componenti del paulicianesimo armeno (VII secolo) e del bogomilismo bulgaro (X sec.)51. D’altra parte, il Runciman osserva che la tradizione eretica dualista si è conservata innanzi tutto perché esisteva una letteratura degli gnostici, i quali usavano scriver libri sulle visioni di personaggi famosi come Enoch, Isaia, Baruch o un apostolo; tale visione veniva collocata nei cieli descritti seguendo la disposizione gnostica. Così accade che i bogomili abbiano adattato e modificato leggende popolari greche di origine gnostica: in tal modo è nata una letteratura di traduzioni in slavone fortemente colorate di eresia, ma non è comunque esatto dire che fosse una letteratura bogomila, visto che la sua fioritura più ricca si realizza in Russia, dove il bogomilismo non è mai arrivato52. Resta però da dimostrare una specifica presenza gnostica in area rumena solo genericamente ipotizzabile quando si parla di dualismi prebogomilici (arcontici o pauliciani che siano) nella zona danubiana. A questo proposito va citato un suggestivo saggio di Zevin Rusu, che una ventina 68
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d’anni fa ha cercato di dare una sua interpretazione a proposito di una delle più enigmatiche opere della bassa grecità danubiana: il cosiddetto glykon di Costanza53. Si tratta di una scultura che rappresenta una strana raffigurazione di serpente chiomato, di cui si sono fornite molte possibili interpretazioni, nessuna delle quali si è imposta come definitivamente chiarificatrice. Rusu, critico letterario ma ottimo studioso anche di tradizioni e simbologie apocrife, mette il glykon in rapporto con gli gnostici ofiti e gli attribuisce quindi una funzione agatodemonica. L’interpretazione, di per sé suggestiva e stimolante, mi sembra diventi anche convincente se si raffronta il glykon (fig. 1) con un amuleto gnostico raffigurante un serpente agatodemonico (fig. 2, da Enciclopedia delle religioni, vol. IV, Firenze 1972, s.v. naasseni). La convergenza delle immagini è evidente, a cominciare dalla strana testa ovina e chiomata: ciò proverebbe una radicata esistenza di ofiti sul suolo rumeno54. Ma ciò giustificherebbe anche la specifica ricettività del folclore rumeno nei confronti di un mitologema gnostico occultato sotto quello ortodosso e conservato a livello di tradizione orale o riconosciuto come elemento di una memoria religiosa collettiva. Il percorso mi sembra così concluso: il mitologema connesso all’”ascensione dell’anima”, pur se di origine antichissima e pur se presente come citazione negli scritti di padri della chiesa orientale come Efrem Siro e Cirillo di Alessandria, si delinea nel tempo con connotazioni specifiche, grazie a cui entra nell’immaginario gnostico, mentre si rifrange poi in chiave cristianizzata nella narrazione agiografico-escatologica incentrata su S. Basilio Nuovo. Di qui, con diffusione spettacolare il mitologema delle dogane di Teodora viene attestato da decine di codici di tutta l’area ortodossa, ma è solo quella rumena che ritrasmette e rielabora anche a livello folclorico la suggestiva credenza nelle dogane del cielo. Così memoria dualistica, tradizione orale e agiografia ortodossa sembrano fondersi senza contraddizione alcuna in una psicanodia straordinariamente vivace ed immaginifica.
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Si vedano il recente volume di I. Andreesco- M. Bacou, Morire all’ombra dei Carpazi, Jaca Book, s. a., soprattutto al capitolo II: “Passaggio delle dogane”, pp. 105-117, ed il contributo di Paul H. Stahl, L’autre monde. Les signes de la reconnaissance in «Buletinul Bibliotecii
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Române din Freiburg», Serie noua, X (1983), pp. 87-106. Per il mitologema del ponte resta ancora valido lo studio di I. Culianu, Pons subtilis. Storia e significato di un simbolo in «Aevum», LIII (1979), 2, pp. 301-12. 2 Flori alese din poezia populară. II, Poezia obiceiurilor tradiţionale. Ediţie îngrijită de Ioan Şerb, Bucureşti 1967 (Biblioteca pentru Toţi, 49 bis), pp. 262, 252. 3 Per i riferimenti bibliografici e la tradizione manoscritta greca, si rimanda a F. Halkin, Bibliotheca Hagiographica Graeca, Bruxelles 19573, pp. 93-4; Auctarium BHG, Bruxelles 1969, p. 43; Novum Auctarium BHG, Bruxelles 1984, p. 45. Per le antiche traduzioni della Vita in rumeno restano ancora insostituibili le pagine che all’argomento sono dedicate da D. Rousso, Studii bizantino-române, Bucureşti 1907, pp. 51 e da N. Cartojan, Cărţile populare în cultura românească. II, Epoca influenţei greceşti, Bucureşti 19742, pp. 202-16. 4 G. Da Costa-Louillet, Saints de Constantinople in «Byzantion», XXIV (1954), pp.492-511. 5 Macaire, Théologie dogmatique orthodoxe, Paris 1860, vol. II, pp. 630-40. 6 J. Rivière, Rôle du démon au jugement particulier chez les pères in «Revue des Sciences Religieuses», IV (1924), pp. 43-64. Si veda anche A. Recheis, Engel Tod und Seelenreise, Roma 1958, pp. 193-96, dove figura il capitolo Die Telonia, con le diverse interpretazioni delle “dogane”. 7 M. Jugie, La doctrine des fins dernières dans l’église gréco-russe in «Échos d’orient», XVII (1914), pp. 17-22. 8 I. Culianu, ‘Démonisation du cosmos’ et dualisme gnostique in «Revue de l’histoire des religions», 1979, 3, pp.3-40; Idem, L’ dans les mystères et hors des mystères in La soteriologia dei culti orientali nell’impero romano, a cura di U. Bianchi - M. J. Vermaseren, Leiden 1982, pp.276-302. 9 I. Culianu, ‘Démonisation du cosmos’, cit., p. 4. 10 Anche il Daniélou, in precedenza, aveva rilevato come la visione del cosmo quale appare nella teologia giudeo-cristiana e nell’apocalittica ebraica che in gran parte ne è alla base presenti importanti concezioni che hanno un parallelismo nel mondo ellenistico. Ciò sembra dovuto al fatto che l’apocalittica giudaica subisce l’influenza dell’ ambiente greco mentre, al contempo, i giudeo-cristiani di Siria e Asia minore sono in contatto con le religioni orientali (Jean Daniélou, Théologie du judéo-christianisme, Tournai 1958, p. 151). 11 I. Culianu, ‘Démonisation du cosmos’, cit., pp. 33-34. 12 Ibidem, p. 3. 13 I. Culianu, L’ dans les mystères, cit., p. 276. 14 Ibidem, p. 287. 15 I. Culianu, Psihanodia, Bucuresti 1997, p. 31. 16 Ibidem, pp. 33-35. 17 G. Filoramo, L’attesa della fine. Storia della gnosi, Roma-Bari 1993, p. 217. 18 Va sottolineato che Cirillo con la sua omelia XIV “sull’uscita dell’anima”, è il primo a fornire una enumerazione delle dogane collegate ciascuna ad un tipo di peccato (cfr. Cyrilli Alexandriae archiepiscopi Epistolae, PG. 77, 1071-90. 19 J. Rivière, Rôle du démon, cit., p. 44. 20 Jean Daniélou, Les démons de l’air dans la ‘Vie d’Antoine’ in «Studia Anselmiana», XXXVIII (1956), p. 139. Precisa inoltre, che la concezione dell’aria come habitat dei demoni è estranea all’Antico Testamento. Non compare nell’apocalittica ebraica pre-
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cristiana, ma solo nel giudaismo rabbinico, mentre è vicina alla concezione greca, particolarmente ellenistica, della presenza nell’aria di daìmones (pp. 136-7). 21 Cfr. L’Évangile selon Marie (BG 1). Texte établi et présenté par Anne Pasquier (Bibliothèque Copte de Nag Hammadi, Section “Textes”, 10), Québec 1983, pp. 39-43. 22 La première apocalypse de Jacques (NH V,3); La seconde apocalypse de Jacques (NH V,4). Texte établi et présenté par A. Veilleux (Bibliothèque Copte de Nag Hammadi, Section “Textes”, 17), Québec 1986, p. 43. 23 Ibidem, p. 86. 24 M. Scopello, Contes apocalyptiques et apocalypse philosophiques dans la bibliothèque de Nag Hammadi in C. Kappler et collaborateurs, Apocalypses et voyages dans l’au-delà, Paris 1987, p. 325. L’a. precisa poi che il testo è stato probabilmente redatto il II secolo da un autore gnostico familiarizzato con la letteratura del giudaismo intertestamentario. Infatti, temi di origine ebraica che si inseriscono nel quadro di un viaggio celeste, nell’Apocalisse di Paolo ricevono una interpretazione gnosticizzata (p. 332). 25 C. Carozzi, Eschatologie et au-delà. Récherches sur l’Apocalypse de Paul, Aix-enProvence 1994, pp. 7, 9. 26 Ibidem, pp. 153-54. 27 N. Cartojan, Cărţile populare în cultura românească. II, Epoca influenţei sud-slave, Bucureşti 19742, pp. 81-92. 28 Per la fortuna di Cirillo in area rumena, si veda D. Rousso, Studii bizantino-române. cit., pp. 13-14. Sull’impressionante presenza delle omelie di Efrem e Cirillo, oltre che di Atanasio, è sufficiente un riscontro sul catalogo dei manoscritti giacenti presso la Biblioteca di Bucarest (cfr. G. Strempel, Catalogul manuscriselor românesti, I-IV, Bucuresti 19781992). 29 N. Cartojan, Cărţile populare în cultura românească. II, cit., pp. 207-9. 30 C. Carozzi, Eschatologie et au-delà, cit., pp. 168-9. 31 Ibidem, p. 91. 32 A. Orbe, Los primeros herejes ante la persecucion. Estudios valentinianos, vol. V, (Analecta Gregoriana, vol. LXXXIII, series Facultatis Theologicae), Romae 1956, pp. 11625. 33 Jean Daniélou, Théologie du judéo-christianisme, cit., p. 150. 34 G. Da Costa-Louillet, Saints de Constantinople, cit., p. 496. 35 H.-C. Puech, Cosmas le prêtre et le bogomilisme in A. Vaillant-H.-C. Puech, Le traité contre le bogomiles de Cosmas le prêtre, Paris 1945. 36 Ioan Couliano, I miti dei dualismi occidentali, dai sistemi gnostici al mondo moderno, Milano 1989. Rilevante ed innovativa è la metodologia seguita da Culianu, il quale imposta la sua analisi secondo i rigorosi criteri dello strutturalismo e la conduce non cercando le “invarianti” ideali, ma applicando alle varianti dei miti gnostici i “fasi di opposizione” così da definirne lo spettro d’azione. 37 H.-C. Puech, Cosmas le prêtre, cit., p. 325. 38 Ibidem, pp. 339-40. 39 F. Cumont, À propos des écritures manichéennes in «Revue de l’histoire des religions», 1920, pp. 10-11. Osserva ancora il Cumont che il manicheismo è durato forse più a lungo di quel che si crede (VI secolo nel mondo latino, IX secolo in oriente) e avanza l’ipotesi che la letteratura manichea sia segretamente sopravvissuta arrivando al medio evo occidentale.
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Dice Eliade che nel sud-est europeo “talune concezioni bogomile sono state trasmesse dagli Apocrifi e sopravvivono ancora oggi nel folklore (...) Seguendo il modello di talune sette gnostiche, i bogomili probabilmente rafforzarono il dualismo, dando risalto alla centralità del Diavolo” (cfr. M. Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. III: Da Maometto all’età delle Riforme, Firenze 1983, p. 203). Quanto alla presenza dei bogomili soprattutto bulgari nei territori rumeni, essa è documentata da Cartojan il quale ricorda come la loro migrazione nei secoli XVI-XVII abbia avuto origine dapprima in seguito ad una rivolta antiturca e poi sotto la pressione dei missionari francescani (N. Cartojan, Cărţile populare, cit., I, pp.39-51 ). Oltre al prolisso e talora fantasioso articolo di A. Balotă, Bogomilismul şi cultura maselor populare din Bulgaria şi Ţările Române in «Romanoslavica», X (1964), pp.19-69, è da ricordare l’interessante descrizione di tombe sicuramente bogomile reperite in area rumena e risalenti addirittura al XII secolo in G. Cantacuzino, Les tombes de bogomiles découvertes en Roumanie et leur rapport avec les communautés hérétiques byzantines et balkaniques in Actes du XIV Congrès International des Études Byzantines, Bucarest, 6-12 septembre 1971, publiés par les soins de M. Berza et E. Stănescu, Bucarest 1975, pp.515-28. 41 Va precisato che questo fenomeno risponde alle leggi generali del genere che in occidente si moltiplica a partire dal XII secolo e che vede la parte escatologica accedere a statuto autonomo. Ai fini del mio discorso, mi sembrano particolarmente pertinenti due osservazioni fatte da Braet: la prima è che un testo come il Viaggio di S. Brandano conosce una tale fortuna ed estensione da divenire rapidamente “parte integrante del folklore europeo”; l’altra, è che indubbiamente l’Apocalisse di Paolo ha contribuito più di ogni altro testo “ad accreditare il tema del viaggio escatologico” (cfr. H. Braet, Les visions de l’invisible (VI-XIII siècle) in C. Kappler, Apocalypses et voyages dans l-au-delà, cit., pp. 409-11). 42 M. Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose. Vol. II: Da Gautama Buddha al trionfo del cristianesimo, Firenze 1980, p. 404. 43 Ch. Stewart, Demons and the Devil. Moral Imagination in modern greek Culture, Princeton, s. a., pp. 196-97. I testi folclorici cui fa riferimento lo studioso si trovano in N. Politis, Paradoseis, I, Athinai 1965, pp. 608-9. 44 D. Marinov, Izbrani proizvedenja. Tom I: Narodna vjara i religiozni narodni obicai, Sofija 1981, pp. 250-51. 45 Etnografija na Balgarija. Tom III: Duhovna kultura, Sofija 1985, p. 34. 46 F. Conte, Le chemin vers ‘l’autre monde’ dans la vision traditionnelle des paysans d’Europe centrale et orientale in «Revue des études slaves», 1997, pp. 281-97. Il volume, monografico, è dedicato a “Vieux-croyants et sectes russes du XVII siècle à nos jours”. 47 Una vasta presentazione di tale corpo leggendario, con gli inevitabili riferimenti alla circolazione della letteratura bogomila in area arumena e con una corposa bibliografia critica, offre di recente Gh. Vlăduţescu, Filosofia legendelor cosmogonice româneşti, Bucureşti 1982. 48 M. Eliade, Storia delle credenze, cit., II, pp. 403-4. 49 J. Ivanov, Livres et légendes bogomiles (aux sources du catharisme), traduit du bulgare par M. Ribeyrol. Préface de R. Nelli, Paris 1976, pp. 272-73. 50 Un parallelo che conforta questa ipotesi mi sembra si possa trovare in area copta. Qui, le tradizioni egizie sul percorso dell’anima nell’aldilà con le prove che la attendono non vengono cancellate con la cristianizzazione. Molte opere letterarie copte continuano ad
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interessarsi della vita oltremondana utilizzando dettagli fantastici in cui sopravvivono memorie delle credenze antiche. A tutto ciò va aggiunta la credenza che l’anima dopo la morte goda di tre giorni di libertà: è attestata nella letteratura avestica e negli ambienti postbiblici e midrashici, ma ne esistono tracce nella letteratura copta apocrifa, mentre è chiaramente professata in un fondamentale testo gnostico quale Pistis Sophia ( cfr. Arn van Lantschoot, Révélations de Macaire et de Marc de Tarmaqa sur le sort de l’âme après la mort in «Le Muséon», LXIII (1950), 3-4, pp. 159-66). 51 M. Eliade, Storia delle credenze, cit., III, p. 394. 52 S. Runciman, Le manichéisme médiéval. L’hérésie dualiste dans le christianisme. Traduction française par S. Pétrement et J. Marty, Paris 1949, pp. 26, 78. 53 Z. Rusu, Der Kult der Schlange von Tomis in «Dacoromania», 6 (1981-82), pp. 133-160. 54 Non dimentichiamo, come abbiamo visto sopra, il rilievo che il Puech ha dato alla setta degli arcontici, la cui presenza è attestata in area danubiana sino alla fine del IV secolo. Ora, dalla testimonianza di Epifanio risulta che si tratta di un sistema affine a quello degli ofiti, con una accentuazione del ruolo negativo degli arconti corrispondenti ai 7 pianeti. Nell’ascensione attraverso i vari cieli l’anima doveve superare gli ostacoli da loro frapposti: probabilmente, questa setta dava particolare risalto all’importanza dei veicoli magicosalvifici attraverso cui gli adepti potevano superare le ostilità degli arconti (cfr. Enciclopedia delle religioni, I, Firenze 1970, s. v. arcontici ).
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LUISA VALMARIN ● Le “dogane del cielo”, una psicanodia folclorica?
ALBERTO MARIO CIRESE ● Conclusioni alla fine della prima parte dei lavori
CONCLUSIONI ALLA FINE DELLA PRIMA PARTE DEI LAVORI Alberto Mario Cirese Oggi siamo stati su un terreno duro, arduo, mortuario, voglio dire la parola violentemente. Mi pare sia giusto che lo si faccia. Personalmente devo dire che trovo spesso un po’ troppo consolatoria la rapidità con cui slittiamo sopra certi temi; credo che la cosa sia invece più dura. La morte è morte: lasciatelo dire a chi, per legge di natura, c’è un po’ più vicino di quanto non siate voi. Ecco, la morte è morte, e come morte va affrontata. Non mi piacciono i discorsi che ho sentito fare anche da un qualche filosofo nostrano con barba che va per la maggiore anche nella politica attuale, che “ tanto ogni giorno si muore un poco.” Altro sono le metafore mortuarie, altro è il morire. Era questa la ragione di un mio dissenso nei confronti di Morte e pianto rituale di Ernesto De Martino, per il quale ci sarebbero delle morti che sono morti in vita che sono peggio della morte-morte. No! La morte è un’altra cosa, e quelle bellissime immagini che abbiamo visto in quel cimitero rumeno, nel documentario presentato dalla professoressa Sabina Ispas, lo dicono con forza: tutta quella gente nel cuore lo porta, il senso della morte. La morte vera è quella che dopo tre giorni è come l’ospite. Quella è la morte. La morte è un cadavere che bisogna seppellire! E’ a partire da questa realtà durissima che, secondo me, poi si possono fare i passi verso un continuare, se ci sarà. Quelle contadine credono nella continuazione. Sicuramente credono nella continuazione, nella maniera più assoluta. Molti di noi non ci credono. O molti di noi non ci sperano, magari avrebbero piacere di crederci. La morte reale richiede non la retorica, richiede la sofferenza effettiva, il senso della morte, della quale possiamo avere paura. A me non è ancora successo d’averne paura. Però sto aspettando per vedere. Mi auguro che non avvenga. Ma se ti prende, amico caro, se ti prende, no, mica che voglio che abbia paura! Io credo che dobbiamo avere il coraggio di parlarne, anche laicamente, con la crudezza necessaria. Ritengo che ci voglia una crescita forte per poterla poi prima di tutto accettare per noi stessi. Le morti di cui parliamo sono le morti degli altri, anche carissimi. Mio padre settantunenne, mia madre novantottenne, e ora Domenico Campanelli, forse il mio amico più caro, che è morto il 4 di febbraio ed io l’ho saputo il 10 di giugno. Però, come le altre, è la morte di un altro, e non la mia. Avevo scritto una poesia
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ALBERTO MARIO CIRESE ● Conclusioni alla fine della prima parte dei lavori
che diceva "siamo tutti morti, Armando, Adriano, Marcello, alcuni già senza respiro nelle oscure tombe, altri ancora qui, ma per poco.” Così della morte di Domenico Campanelli seppi solo per caso: volevo leggergli quelle parole che rimandavano ai tempi giovanili quando ci scrivevamo lettere coi versi di Montale: ”portami il girasole impazzito di luce”, oppure “tu ridi che per sillabe mi scarno”, oppure “paese di ferrame alberature a selva nella polvere del vespro”, erano i versi e la poesia della nostra giovinezza; ed ora Linda mi risponde: ”Memè è morto il 4 febbraio.” Che fai, allora? Aggiungo due versi: "Aspettami, Memè, tra un poco arrivo!” Tocca anche a me! Io credo che l’idea della morte, che è stata sempre la morte degli altri, dovremmo viverla adesso anche come una imminenza personale. E il viverla come una imminenza personale forse fa intendere meglio, più a fondo, come la trattano quelli che ritualmente la stanno trattando perché non è soltanto il dolore singolo, mio, tuo, suo, scriviamo i versi, gettiamo un fiore, facciamo un gesto, no! C’è qualche cosa di rituale, nel senso ch’è qualcosa di culturalmente condiviso, cioè che si agisce secondo una serie di regole, quelle alle quali in qualche modo De Martino si ribellava giudicando quei cerimoniali come in qualche modo ipocriti, perché comandati ad essere. Forse il sentirsi invasi dal senso dell’imminenza della morte può portare a pensare che ci sentiamo meno soli e forse abbiamo meno paura se siamo collegialmente, in qualche modo inquadrati. A me è parso di sentire un senso di consolazione reciproca in tutte queste contadine con le loro fascine di legna e il loro fuoco; il senso del non essere soli, di essere un esercito di persone che si avvia ad aggiungersi all’esercito dei morti. Essere soli, da soli di fronte all’eterno, ma non in solitudine. Voglio dire tutti insieme di fronte all’eterno, che poi magari non c’è. Ma che, allora, però? Se l’eterno non c’è? Dovevo tenerle per me, queste sciocchezze, ma mi hanno invaso fino a tracimare. Ve ne chiedo perdono.
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II. CRISTIANESIMO POPOLARE: MITI E FESTE
VITTORIO LANTERNARI ● Quale risveglio religioso alla soglia del nuovo millennio?
QUALE RISVEGLIO RELIGIOSO ALLA SOGLIA DEL NUOVO MILENNIO ?* Vittorio Lanternari
Trattando con gli organizzatori di questo convegno sulla storia delle religioni mi sono avviato in un certo senso verso l’etnologia religiosa, cioè lo studio delle religioni di tipo primitivo - allora si diceva primitivo, oggi diciamo le religioni tradizionali dei popoli di cultura "inviatissima" - tutto il complesso di circollocuzioni che troviamo sempre più difficoltose a definire. Poi a poco a poco mi sono reso conto che non potevo studiare le culture “altre”, cioè le culture dei popoli primitivi oppure le culture antiche, senza tenere conto del presente di casa nostra. Così come hanno fatto tanti folkloristi rumeni, anche storici delle religioni rumeni, per esempio Mircea Eliade non è che non abbia studiato anche il folklore rumeno, mentre studiava le religioni diversi, le più antiche, ma anche le più primitive. Così è capitato al sottoscritto anche perché lo stesso Pettazzoni che è stato il mio maestro diretto, insieme con gli altri seguaci dopo Pettazzoni, che sono Angelo Brelich, a cui pure sono stato legatissimo e Ernesto de Martino, che pure è stato un mio quasi fratello maggiore. Brelich è stato fratello più "maggiore" ancora e Pettazzoni è stato padre di tutti. Tutti noi abbiamo sentito l’esigenza di unificare gli studi che riguardavano le culture religiose altre dalle nostre, e dalla nostra. Per cui è stato un continuo bilanciarsi fra un piatto e l’altro della bilancia, intrecciarsi di differenti accenni a questo o a quella manifestazione, a questo o a quell’istituzione religiosa, a questo o a quel fenomeno religioso. Ora, su cui mi sono proposto di parlare oggi l’ho intitolato in particolare: “quale risveglio religioso ha la soglia del nuovo millenio?” Il motivo che mi ha spinto di scegliere questa tematica è dovuto al fatto che mi sono interessato appunto, in particolare, parecchio, dopo essermi interessato di nuovi movimenti religiosi in paesi diversi dalla Europa, in paesi del sottosviluppo, cioè del Terzo Mondo: Africa, America Latina, Oceania, ecc. Di questi io mi sono reso conto che era utile lo studio dei movimenti religiosi in via di sviluppo e di rinnovamento di queste culture tradizionali, perché *
Trascrizione della registrazione su nastro che l'autore si duole di non aver potuto rivedere
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VITTORIO LANTERNARI ● Quale risveglio religioso alla soglia del nuovo millennio?
imparai da questi studi che costituiscono un po’ una delle prime fasi, grandi, importanti fasi della mia carriera di studi, cioè i movimenti religiosi dei popoli primitivi, dei popoli in via di sviluppo oggi, che hanno formato un po’ una tappa di inizio dei movimenti di rivolta e di liberazioni dei popoli stessi dell’Africa e degli altri paesi ex-colonizzati. Mi sono reso conto del nesso, del legame profondo che c’è sempre tra religione e quindi sacralità, mondo del sacro, riti, miti, il contesto generico che fa parte della religione in senso lato, e dall’altra parte i significati che assumono queste religioni, questi fenomeni religiosi nella società vista nel suo preciso contesto storico. Per cui i movimenti religiosi che io avevo studiato come attinenti, pertinenti ai popoli tradizionali delle culture primitive, erano tutti o quasi tutti mossi, stimolati, dati come via per esprimere il bisogno di liberarsi dal giogo della colonizzazione. Guardate caso la volontà, il desiderio, il bisogno di uscire da una situazione di sofferenza, determinata dall’occupazione colonizzatrice, delle potenze nazionali d’Europa, soprattutto, che aveva spinto verso nuovi movimenti religiosi queste popolazioni. Con la religione loro esprimevano la speranza, il bisogno di trovare una soluzione di uscita da questa crisi determinata dall’essere un po’ una pedina di certi padroni, che erano i colonizzatori che disponevano delle terre loro, della loro mano d’opera, disponevano di tutti i loro beni in modo tale che loro non potevano non soffrirne. Cioè la religione l’ho vista fino dalla prima volta che ho cominciato a studiarla, come un po’ l’espressione, la maniera di esprimere, la via di espressione, lo strumento di espressione di bisogni generalizzanti di tipo collettivo dei caratteri più diversi: liberazione, liberarsi dalla sofferenza, da qualunque sofferenza, da qualunque oppressione, in quel caso era la sofferenza dovuta all’oppressione. E allora si spera in cose che diventano mitiche, apocalittiche, escatologiche, si spera nel ritorno di un’epoca straordinariamente bella, un Paradiso in terra, in cui però non ci saranno né i bianchi a darci disturbo. Questo è l’esempio per quello che riguarda tutte le profezie degli africani che, venute fuori, alla vigilia dei movimenti di liberazione veri e propri che noi chiamiamo movimenti di liberazione di carattere politico. Questi vengono dopo come figli o nipoti di movimenti invece espressi solo in termini religiosi. Allora dal passato dei miei studi, io mi sono reso conto di una certa cosa che riguarda anche il presente o i tempi moderni quando io mi sono messo a studiare, a guardare che cosa stava succedendo e ora ho cominciato a fare per noi, in Italia, dagli anni ‘50. Io ho cominciato precisamente negli 80
VITTORIO LANTERNARI ● Quale risveglio religioso alla soglia del nuovo millennio?
anni ‘50 a studiare questi problemi e mi sono reso conto che già in Italia cominciava a fermentare qualche cosa che non era consueto in precedenza, cioè si stava muovendo qualche cosa negli anni ‘50, poco tempo, nel primo dopo guerra, dopo lo scossone tremendo che è stato quello della seconda guerra mondiale, l’Italia ha cominciato a muoversi, a fermentare, anzitutto su un piano sociale. Naturalmente il mondo contadino cominciava a entrare in una condizione di crisi, mentre invece il mondo operaio stava venendo alla ribalta e si sparse il marxismo nell’ambito dell’Intelligenza italiana fino ad allora, naturalmente, come espressione di un bisogno di redenzione della società dei poveri, cioè delle classi sociali più umili che erano contadini e operai. Ma vennero alla ribalta soprattutto gli esponenti del mondo operaio dagli anni ‘50 in poi man mano che viceversa, il mondo contadino andava un po’ in declino graduale. Fino agli anni ‘60-’70 che poi sono quello che un nostra giornalista intelligente, Scalfari, ha segnato come “le tappe della scomparsa del mondo contadino.” Ma il mondo contadino dei tempi fino agli anni ‘50 - tra l’altro mi ricordo che il ‘52 fu l’anno della riforma agraria quindi ancor' esisteva un mondo contadino di fatto. Però il mondo contadino negli anni ‘50 comincia a transformarsi in grandissima misura perché molti, moltissimi contadini del Sud, compresa la Sicilia, stavano virando verso il Nord, cioè verso il Piemonte e la Lombardia, e il Veneto; ed era l’epoca della grande migrazione interna, italiana, dal Sud tutti verso il Nord, e naturalmente le campagne rimanevano deserte. E io ricordo che si parlava proprio di abbandono, anche dalla Toscana. Mi ricordo che si parlava della fine delle campagne del Chianti, del vino Chianti che è uno dei vini più prestigiosi d’Italia. E che cosa succederà? Per fortuna venivano alcuni tedeschi a comprarsi le campagne del vino del Chianti. Cioè il mondo contadino ha sofferto una vera e propria grande crisi gradualmente avanzante sempre più fortemente. Mentre invece, dagli anni ‘60-’70 in grandissima misura, c'era lo sviluppo industriale che prendeva piede, fortissimamente in tutta la società e ci proponeva, e ci lanciava i prodotti di consumo, i prodotti che ci costringevano a comprarli, perché non si poteva evitare di comprarsi la radio nuova, di comprarsi quando è arrivata la televisione, la televisione nuova, il frigorifero, la lavatrice, la lavastoviglie e tutti gli altri aggeggi delle tecnologie moderne. Tutto questo ha portato a una serie di riforme, di rivolgimenti nell’ambito della società, di trasformazioni di carattere progressivo in senso tecnico e scientifico, certamente.
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VITTORIO LANTERNARI ● Quale risveglio religioso alla soglia del nuovo millennio?
Però sul piano della intimità del soggetto umano, che cosa stava avvenendo? Allora lo studio di certi fenomeni religiosi che stavano verificandosi proprio in queste annate, che vanno dagli ‘50, al ‘60, al ‘70 ho cominciato ad orientarmi per capire o almeno proporre un’interpretazione del perché stavano avvenendo dei fenomeni che non si erano verificati mai, che io sappia prima, sennon nel Medioevo forse, quando nacquero le eresie. Tanto per dire che si tratta per la prima volta negli anni ‘50, io sentii parlare e poi vidi in atto alcune manifestazioni di gruppi religiosi cristiani, cattolici, dentro il cattolicesimo, dentro il cristianesimo cattolico proprio dell’Italia tradizionale quindi, che però si staccavano dalla Chiesa. Non si staccavano in senso ufficiale, ma in senso programmatico, cioè si riunirono in gruppi, nacquero le cosìddette “comunità di base”. Fu un fiorire da Firenze alla Liguria, a Roma, a tutte le città grandi e i paesi piccoli. Io insegnavo a quell’epoca all’Università di Bari dagli anni ‘59 fino al ‘72, e mi ricordo di aver fatto una visita insieme con una carissima mia allieva, che purtroppo morì troppo presto, Miriam Castiglione, andammo a vedere, a partecipare ad una riunione di un gruppo in un paesino di Conversano, nel Barese, in una località della Puglia, ad assistere ad una riunione di questa comunità nuova, creata da un contadino locale che si chiamava Pappadia, di cognome, che fece anche un libricino intitolato “Conversano” e precisamente la civiltà ufficiale contro una comunità contadina religiosa. Perché la civiltà ufficiale non accettava questa comunità e specialmente non l’accettava la Chiesa Cattolica ufficiale. Queste comunità infatti si fecero trattare con disprezzo dalla Chiesa Cattolica ufficiale. Che cosa predicavano, che cosa dicevano, che non accettavano della Chiesa? Non accettavano i disinteressi, che questa Chiesa aveva fino allora sempre dimostrato nei confronti dei bisogni dei popoli, delle classi sociali più bisognose, più umili, più povere. La Chiesa era stata un po’ la Chiesa dei benestanti, dei ricchi. La complicità che veniva denunciata della Chiesa con le classi sociali più avanzate e più benestanti era uno dei temi generali da loro avvertiti, sempre denunciati, sempre messi in discussione, erano altri elementi che della Chiesa non venivano accettati e che poi hanno continuato a rimanere proprio della Chiesa Cattolica: il regime cosìddetto monarchico, assoluttista del Papa. Lasciamo da parte oggi la discussione su quello che è il tema nuovo dato dalla presenza di un Papa diverso, nuovo che è quello di oggi. Però qualche cosa resta tutt’ora del regime monarchico che già allora sentivo denunciare da parte di questi partecipanti, membri della comunità religiosa di Conversano. Era una festa per quanto riguarda il 82
VITTORIO LANTERNARI ● Quale risveglio religioso alla soglia del nuovo millennio?
sottoscritto sentire questi discorsi apertissimi, pieni di fede. Volevano rinnovare il cristianesimo cattolico, renderlo vivo, pulsante. Cioè a dire che avesse un significato reale per la vita locale dei vari paesani o dei ceti medi o bassi eventualmente. Però tutto questo non poteva essere gradito alla Chiesa ufficiale e infatti io ricordo il caso più vistoso di tutta la serie delle comunità nate a quell’epoca, negli anni ‘50, in Italia. Era quello messo in evidenza da una bellissima rivista di religione chiamata “Testimonianze”, creata da padre Ernesto Balducci, che era un uomo straordinario. Io sono non-religioso eppure ero molto amico di Ernesto Balducci, il quale era prete, naturalmente, e predicava la religione cattolica sotto l’aspetto delle comunità di base. Mi ricordo quando fu messo in evidenza il famoso, vistoso caso di Firenze: c’era la comunità indetta da Enzo Mazzi, Don Mazzi. All'Isolotto, che era un quartiere di operai di Firenze, fu appunto organizzata questa grande "Comunità dell’Isolotto", chiamata così. È un po’ emblematica di quello che poi sono state tante altre comunità che si sono via via create; quella che io ho visitato a Conversano ne era un esempio minore. Erano comunità che lasciavano parlare - a Roma c’era Don Franzoni e c’è tutt’ora che resta così un po’ galleggiante questa figura, però non è più in atto una propria e vera comunita che funzioni adesso, perché a poco a poco sono state decapitate ufficialmente dal Papa di allora, naturalmente, Paolo VI. Dunque, per dire, fu il primo fermento religioso che era caratterizzato: segni di scontento, di denuncia nei confronti della Chiesa per certe manchevolezze dimostrate nella condotta ecclesiastica ufficiale, della politica sociale della Chiesa promossa questa denuncia, da gente che proveniva da ceti proletari d’Italia, urbani o contadini che fossero. Primo esempio di un fermento religioso dall’interno nei confronti della Chiesa e non altro che della Chiesa, però primo esempio che è molto eloquente. Negli anni ‘60 - ‘70 le cose cominciarono ad avere un’altra componente nuova di cui io mi resi conto sentendo parlare, guardando i giovani che cosa stavano facendo, soprattutto tra i giovani. Ricordiamoci che negli ‘60 abbiamo la famosa data del ‘68 che dimostra che già i giovani cominciavano a ribellarsi in modo urbano, ma tuttavia di tipo rivoluzionario, quasi prerivoluzionario, per lo meno nell’ambito delle città e anche a livello di cultura alta, di studiosi, i giovani studiosi che trattavano tematiche di tutt’altro genere da quelle consuete dello studente che legge e lavora sul piano di quello ch’insegnano i docenti. C’era la rivolta anche contro i docenti, contro la cultura come era insegnata, che era sentita come una 83
VITTORIO LANTERNARI ● Quale risveglio religioso alla soglia del nuovo millennio?
sopraffazione, una oppressione così di seguito. Sono forme di esagerazione, di un certo malessere che però gli studenti, cioè le classi giovanili di tipo intellettuale cominciavano a sentire. Molti sono stati quelli che hanno partecipato al ‘68 tra gli studenti. Ma guarda caso, il ‘68 andò all’aria! Come sappiamo molto bene, ad un certo momento ci fu la ritirata. Fu un grido d’alarme molto utile e molto fecondo anche perché pur non avendo sortito efficacia nell’ambito della scuola vera e propria, sul piano dell’insegnamento diretto del tipo insegnamenti, della condotta dei programmi scolastici e cose di questo genere, tuttavia se ne risentì in senso più ampio anche da parte della docenza e delle istituzioni che poi poco a poco furono costrette a tenere conto di quella che era stato chiesto e reclamato dai giovani studenti prima. Per cui a poco a poco si sono “mosse le acque”, però molti studenti hanno fallito il tentativo del ‘68 di smuovere la società italiana, perché quello era in origine l‘obiettivo primario di questa classe giovanile prerivoluzionaria, da cui sono venute fuori quello che si vuole, le brigate russe a un certo punto. Molti di questi giovani, fallito il movimento, io li vidi arrivare iscriversi nell’ambito di strane sette religiose nuove. Alcuni potevano scegliere nuove sette religiose che negli anni ‘60-’70 cominciarono a diffondersi in Italia, anche in città - io andai ad assistere ad alcune di queste a Roma stessa - una era molto importante ed era classica. Però per l’Italia era nuova: il pentecostalismo. Su questo bisognerebbe che un pocchino di parole ne dicessi. Il pentecostalismo è una forma religiosa di tipo assolutamente cristiano. Tant’è vero che si riallaccia alla Pentecoste, all’esperienza avuta dagli apostoli della Pentecoste, che era l’esperienza nella quale gli apostoli entrarono in una condizione psichica particolarmente privilegiata, interiormente vissuta da loro senza parole, o quasi senza parole nella quale condizione psichica loro si sentirono occupati interiormente dallo Spirito Santo. Era la prima volta che nel cattolicesimo, nella Bibbia stessa sta scritto questo come modello quasi "mito delle origini" del pentecostalismo - che gli apostoli ebbero quest’esperienza. Era un’esperienza un po’ ex-legge, poco autorizzata, privilegiata perché consentiva a questi soggetti di vivere un’esperienza straordinaria, un’esperienza che significava il contatto diretto con la divinità. Lo Spirito Santo è una delle forme della divinità. Cioè è un’esperienza che noi chiamiamo, con un termine molto usuale, mistica. Era un fenomeno mistico e il pentecostalismo si riprende a questo fenomeno, a quest’istituzione della Bibbia, degli apostoli occupati, presi, posseduti dallo Spirito Santo. Che segno davano gli apostoli? E che segno vanno cercando i nuovi seguaci del pentecostalismo? Un segno particolare. Arrivano nella crisi mistica che è un 84
VITTORIO LANTERNARI ● Quale risveglio religioso alla soglia del nuovo millennio?
po’ una delle forme che gli psichiatri chiamano “stati alterati di coscienza.” “Stati alterati di coscienza” sono in primis quelli che noi conosciamo molto diffusi nelle società tradizionali, cioè quelli che si chiamavano i popoli primitivi, la trance. Cioè la perdita sempre non totale, ma parziale della coscienza e della razionalità. Questa perdita di coscienza si esprimeva a parole attraverso il parlare lingue, la glossolalia. Questa glossolalia è tutt’ora per i pentecostali seguaci, fedeli di questo credo mistico, la prima meta da raggiungere come segno di essere veramente un pentecostale degno di esserlo. Cioè d’essere a contatto con Dio. Il parlare lingue è un fenomeno straordinario, è stato ampiamente studiato dal punto di vista linguistico, filologico, storico-religioso, e non è facile esprimermi. Io non ho le nozioni specifiche che sono state poi ritrovate dai linguisti ecc. Io ho avuto esperienza però diretta di persone che sono state in crisi davanti a me, di glossolalia. Vi dirò un caso, molto particolare che potrebbe essere chiaramente illustrativo della situazione, del fenomeno. Qui ero in Africa, nel Ghana, a fare una ricerca sulle nuovi religioni del Ghana, moderne ed erano gli anni ‘70. Sapevo che c’erano molti profeti nuovi che stavano indicando le vie per nuove religioni, che facevano un po’ da sincretismo tra la vecchia cultura tradizionale fatta di divinità varie, cioè di politeismo e di riti magici e dall’altra parte un po’ di cristianesimo. Allora i profeti diventavano i nuovi piccoli “Gesù Cristi”, indicando e lanciando un credo nuovo, una religione nuova di tipo neo-mistico, misticheggiante, in cui però si dava adito alle credenze nuove. Per esempio Dio, Dio unico, e gli altri venivano abbandonati. Però certi rituali di Chiesa a cui io ho assistito, abbondantemente numerosissimi, erano rituali di tipo tradizionale. Per esempio in Chiesa, come veniva celebrata l’unità del gruppo religioso che seguiva un certo profeta? Con la danza, danzando e cantando e suonando ed era una festa da parte del sottoscritto a partecipare a questi, per vedere e sentire con quale enfasi, con quale partecipazione questi stavano ad unirsi nel canto. In generale, erano canti di origine americana, dai pentecostali americani. Anche questo era un fenomeno di pentecostalismo, rientrato in Africa, arrivato in Africa. Perché i pentecostali americani erano andati là, avevano diffuso il loro credo che poi era stato ripreso e trasformato, inserito da parte dei profeti singoli in una certa congerie di comportamenti diversi da quelli tradizionali, ma nuovi, innovativi. Il bisogno di arrivare ad una esperienza mistica, questo è un segnale molto importante, che io ritrovo negli anni '60-'70 vivo anche da noi in Italia e da parte di molti giovani che hanno bisogno di entrare in una 85
VITTORIO LANTERNARI ● Quale risveglio religioso alla soglia del nuovo millennio?
situazione mistica. Per coprire, per sanare manchevolezze gravi che suonano all’interno della nostra coscienza sempre più profonda. Qualche cosa che le nuove tecniche non offrivano come soddisfacenti, le nuove ritrovate del consumismo, rimaneva nel fondo della coscienza interiore di classi sociali abbastanza diffuse anche se qui lo devo dire, più urbane, più di tipo intellettualoide che non contadine. Qui le nuove sette religiose tra gli anni '60-'70 fanno capo a un ceto sociale un po’ più avanzato, piccolo borghese, medio-borghese, ma di tipo urbano e di tipo un po' coltivato, colto, semicolto. Molti erano gli studenti. I pentecostali hanno questa caratteristica di lanciare il misticismo, l’esperienza mistica, che poi porta con se anche altri privilegi: la guarigione dalle malattie, e qui è un punto importantissimo. Però, ingeneralizzando sul problema del pentecostalismo e le sue caratteristiche, la mistica e l’esperienza mistica si accompagnano anche alla capacità di guarire dalle malattie. Questo è uno dei motivi che hanno spinto molte persone di ceto medio-borghese ad aderire al pentecostalismo e precisamente io ho sentito parlare delle signore perbene, per così dire, di classe sociale distinta. Quando domandato mi sono permesso di fare delle domande di questo genere: "Ma lei, scusi, come ha saputo che era questa setta religiosa che sta a Roma?", per esempio, che era praticata fino a poco tempo fa, non so se continua, probabilmente sì in una chiesuola che era stata lasciata da parte della Chiesa, vicino al ghetto di Roma, a Portico d'Ottavia precisamente. Si riunivano una volta alla settimana e questa signora mi domandò: "Ma lei, come ha fatto a sapere che c’era questo gruppo?" "Parlando con una mia amica che aveva partecipato a queste riunioni della setta pentecostale, io ho saputo che Lei era guarita da una malattia seria che la colpiva, e allora son venuta qui." "Adesso io sto benissimo, prima mi sentivo male." Il sentirsi male, di qualunque espressione del male, fisico, psichico ecc., e cercare di stare meglio, di sentirsi bene, riacquistare un equilibrio psico-fisico, è uno dei motivi che spingono verso le nuove chiese, le nuove sette religiose. Questo è il caso del pentecostalismo. Per quanto riguarda la completezza dei dati riguardanti la glossolalia, vi dicevo, io ero in Africa e facevo questa ricerca e m’incontro anche lì con il pentecostalismo perché è un genere di pentecostalismo quello indicato e lanciato dai profeti locali. Lì era un giovane professore universitario, giovanissimo che si era licenziato come professore universitario a Oxford, però era ghanese e che io ho incontrato ad Accra, precisamente all'Università di Accra. E gli domando perché l’origine dell’esperienza che uno ha sentito bisogno di procurarsi e l’interesse che l’ha spinto verso questo tipo di 86
VITTORIO LANTERNARI ● Quale risveglio religioso alla soglia del nuovo millennio?
religiosità? E io sapevo che questo era diventato una specie di nuovo leader di una setta religiosa locale di tipo pentecostaloide. E gli domando: “Ma quale è stato il momento preciso in cui Lei ha sentito di cambiare strada?” E allora m’ha fatto un breve racconto. Dice: “Stavo all’aeroporto di Accra per partire per Oxford per i miei corsi, per laurearmi. Io, tempo chiaro, sole splendente, guardo in cielo, ho una visione. Immediatamente ho ricevuto una visione.” Guardate, io stavo qui e Lui stava qua, davanti a me. Accanto a me c’era un mio collega psichiatra che avevo condotto con me per la ricerca perché, io, storico delle religioni, lui, psichiatra. “È bene che noi andiamo insieme”, avevo detto, perché questi sono fenomeni d’interesse collettivo, comune, intrecciato. Lui era capace di dire:”quello è un matto”, oppure lui era capace di dire:”no, quella è una persona che ha una certa particolare crisi.” Questo giovane seduto, a un certo momento, si alza in piedi, alza le braccia al cielo ed entra in una crisi di glossolalia a tamburo battente, altissime grida, ma non grida articolate in sillabe parlate. Lui pronunciava sillabe o mezze parole senza significato plausibile di nessuna lingua, ma gridate con piena convinzione, di dire cose significative. Era entrato in estasi, insomma, gridando queste mezze parole che io registravo ed è stato un successo la mia ricerca perché così ho avuto in mano un documento parlante di che cosa significa essere pentecostale. Dopo 5 minuti di questa crisi, poi si parlava inglese tra di noi, si e rimesso seduto, mogio mogio e ha detto:”I’m sorry.” - “Mi dispiace.” “Sometimes it happens to me.” “Tallora questo mi capita.” Si scusava per questa crisi. Questo è il pentecostale, ma era un uomo alla fine felice al suo modo perché aveva una possibilità interiore di guadagnare delle certezze, perché si sentiva posseduto dallo Spirito. Quale fosse lo Spirito poi, sta ad altri andarlo a studiare, io non ne avevo la capacità. Il concetto dello Spirito Santo cristiano, e lui tradizionalmente aveva sentito sempre parlare di “Spirits” da parte dei seguaci delle religioni tradizionali. Soltanto che gli “Spirits” erano tanti nella tradizione originaria. Invece qui ce n’era uno, uno solo. C’era certo una variazione nuova. Le sette religiose nuove non erano solo il pentecostalismo: hanno cominciato negli anni ‘60-’70 a diffondersi nuove sette religiose a tutto piano. La riscoperta dell’Oriente è venuta fuori. Il pentecostalismo è di matrice cristiana, ma c’è in più inoltre ma in enorme quantità una fioritura immensa di sette religiose nuove che venivano dall’Oriente. Le sette religiose nuove che erano quelle di “Moon”, che sarebbe il nome della Luna e di scientologia, di Raginisch, che ha creato quella che si chiama qui da noi, in Italia gli “arancioni” , "Hare Krishna", che è una setta budista, tutte sono di 87
VITTORIO LANTERNARI ● Quale risveglio religioso alla soglia del nuovo millennio?
origine orientale. La setta del guru Maharishi, che è della "Meditazione trascendentale" ("Transcendental Meditation") - M.T. - breve. Sono decine decine, questi sono dei nomi delle più grandi, quelle che hanno raggiunto una grande potenza, anche in denaro, anche in fatto di proprietà possedute e di organizzazione naturalmente internazionale. Tutti questi sono diventati grandi organismi supernazionali, transnazionali, tanto che io le chiami “le multinazionali della religione.” E con questo appellativo io ci do anche un po’ di discredito su molte di queste almeno, perché le multinazionali noi le conosciamo, ne abbiamo sentito parlare adesso a Seattle. Le multinazionali americani che vogliono oggi trasferire tutta la loro globalizzazione, tutti i loro prodotti a casa di tutti noi, siano europei o siano Terzo Mondo. Ma le multinazionali sono potentati veri e propri di carattere affaristico oltre che religioso. Parliamoci chiaro: "Moon" e moonismo, la "Meditazione trascendentale" sono diventate delle grande potenze che tengono in mano una loro capacità di penetrazione in tutta la società. Per esempio meditazione trascendentale produce a parte i libri, le trasmissioni di tipo pubblicistico, pubblicitario, il proselitismo. Addirittura propone delle tecniche di formazione psichica e psichiatrica dei giovani ecc., che sono dimostrate come scientificamente valide da essere assunte anche per esempio dalla formazione dei piloti d’aereo perché la meditazione trascendentale, attraverso dei congegni di carattere psico-terapeutico e in un grado si presume, si presenta o si dichiara in grado di insegnare a superare tutte le manchevolezze che un organismo psico-fisico umano, che un soggetto umano contiene in se stesso, che lo mette in deficit nei confronti di certi problemi. Ora il pilota d’aereo è sempre un uomo a rischio. E quindi si trova sempre di fronte a dei pericoli gravi, che deve sapere controllare. Ebbene, meditazione trascendentale si vanta di dare, d’insegnare tecniche di controllo di qualunque condizione di svantaggio in cui l’uomo può incorrere. Quindi perché si e arrivati a creare un movimento che si chiama negli Stati Uniti “del potenziale umano”, il movimento di “human potential.” Il movimento che dà credito all’uomo di essere padrone totale di se stesso. A sentire queste cose io vi invito a cercare di capirci meglio nelle cose. Per me sono follie, vero? Perché è la solita storia di una scuola che vuole insegnare ad essere degli dei, non più degli uomini. C’era un vecchio detto nel tempio di Apollo a Delphi che diceva: gnothi se auton “conosci te stesso”, ed era diretto a tutti gli uomini, a ogni uomo. Sappi chi sei! Sei uomo. Lascia stare da parte Dio! Quindi sono un’altra cosa. Non presumere, in altri termini, diceva il detto di Delphi agli uomini. Qui si 88
VITTORIO LANTERNARI ● Quale risveglio religioso alla soglia del nuovo millennio?
presume di essere superiori all’umanità. Ecco, questa è una cosa degenerativa, semplicemente, purtroppo, a cui dà luogo una certa umanità scanzonata che crede troppo nelle proprie possibilità trascendentali. Queste sette religiose sono quello che sono, però hanno accalappiato una quantità enorme di giovani anche dopo ‘68. Questo è il collegamento con quanto dicevo prima, c’era il ‘68 e c'è il posto ‘68. Il posto ‘68 è fatto più di religione nuova che non di volontà di rivoluzione sociale. Se questo è così fino al ‘60-’70, nell’ 80-’90 accadono poi ulteriori nuove cose, perché sono gli anni che sono vicinissimi a noi e per cui si sono verificati fenomeni di nuovo genere, multipli, di carattere tale che toccano un po’ la società, i mezzi di comunicazione, la cultura totale. Nella società sta avvenendo oramai da decenni, non più da 5 anni o da 7 come poteva essere prima, ma da qualche decennio, da due decenni qualche cosa che è il problema delle immigrazioni e degli intrecci etnici o interetnici tale che costringono ogni etnia, ogni nazione a fare i conti con le alterità, come tali però da prenderle in atto come delle identità proprie. Cioè non sono più da tenere come alterità, cioè come dei gruppi destinati a ritornare indietro. Noi sappiamo che dobbiamo abituarci sempre più ad una convivenza interetnica, oramai, no? In Italia, in Europa, e nel mondo già c’è da sempre il fenomeno. Ma da noi, in Europa in particolare, noi siamo un po’ gli ultimi perché chi aveva le nazioni europee che avevano le colonie invece già da molto tempo si sono abituate ad avere molti gruppi etnici tra diversi piani sul piano ecologico, sul piano culturale, e sul piano emozionale anche - tutta la comunità esistente doveva a ripensare a se stessa in termini nuovi. E quindi, non voglio dire che questa significa portare sofferenza, però voglio dire che questa significa portare crisi. Certamente c’è una condizione di precrisi, cioè chi si domanda in che modo possiamo aiutarli o dobbiamo aiutarli, in che modo ci dobbiamo adattare anche nella scuola a ricevere i giovani ragazzi che vengono e che sanno non bene la lingua o non la sanno per niente, che non imparano bene, che mentre molti altri imparano benissimo, si adattano immediatamente, e così di seguito in ogni istituzione ci sarà da tenere conto di questi cambiamenti. Ed è uno dei cambiamenti, dei tanti cambiamenti radicali che hanno sconvolto questi ultimi 15 anni, diciamo, è la realtà socio-culturale del nostro vivere quotidiano. L’altro è le comunicazioni, la comunicazione intercontinentale. Tutto quello che avviene in Thailandia riguarda tutto il mondo oramai. È inutile starsi a dire: “non me ne importa niente” perché ad un certo momento siamo ingaggiati pure noi, siamo stati ingaggiati noi italiani nel Kossovo, siamo stati ingaggiati nella 89
VITTORIO LANTERNARI ● Quale risveglio religioso alla soglia del nuovo millennio?
Bosnia, ma, chi ce l’avrebbe mai detto? Siamo stati ingaggiati forse anche o avremmo dovuto esserlo, per lo meno, ingaggiati nel Ruanda, che sta nel centro Africa. Quando abbiamo visto la guerra degli Utu contro i Tuzzi siamo allibiti del vedere le carneficine che loro facevano. Tanto è vero che poi il Ruanda è diventato come un modello a cui noi abbiamo abbinato la Bosnia, quando è capitato in Bosnia la pulizia etnica dei bosniaci, cioè dei serbi contra i bosniaci, abbiamo detto: “avete visto? Stanno né più né meno che come i ruandesi, gli Utu contro i ruandesi Tuzzi, cioè a dire: noi ci siamo resi conto del confronto che hai voglia dire quelli sono primitivi, noi siamo moderni. Non siamo per niente diversi nel peggio e nel meglio, perché abbiamo tutto da noi: il peggio e il meglio mescolati e anche gli altri, hanno tutto: il peggio e il meglio mescolati. Ecco allora che cosa viene fuori! Da una parte c’è questa terribile intercomunicabilità obbligata oramai, tanto che dobbiamo sentire parlare perfino che noi dobbiamo rinunciare tra poco, forse alle cacciote dei paesi nostrani perché arrivano i formaggi delle MacDonald! Per dire, poi ci riveleremo, naturalmente, a questo, per dire e però, oppure che so io? Dobbiamo rinunciare anche alle arance siciliane, non lo so! O ai fichi d’India di Sicilia. Guardate, è una cosa abominevole, naturalmente, ma l’intercomunicabilità è l’intercomunicazione obbligata o forzosa addirittura, per cui si pretende in modo crudele, d’imporre propri costumi, proprie diete alimentari, propri oggetti, propri prodotti di consumo ecc. a chichessia in tutto il mondo. Ebbè, questo naturalmente è il lato negativo della globalizazzione, è vero? Bisogna naturalmente ripensarci; per fortuna, l’altroieri giusto, c’è stata la riunione a Bologna, che ha costretto molti a prender visione della realtà e a ridimensionare il tutto. Adesso abbiamo scoperto che non possiamo più ammettere che le grandi aziende americane siano allora a dominare l’economia del mondo lasciando, togliendo spazio alle piccole imprese, alle medie piccole imprese locali che vanno rispettate perché poi da quelli nasce il benessere, in fondo, più che non dai grandi poteri economici internazionali, transnazionali. Ora, ecco allora che a questo punto tutte le vecchie sette religiose acquistano maggiore impulso ancora. E oggi ci sono, si stanno diffondendo, attraverso questo malessere che un po’ tocca tutti, il ceto medio in generale, il ceto non-medio, il ceto basso se si può dire così, anche se il problema delle classi sociali è stato un po’ rivoluzionato e ritrasformato del tutto, perché non sappiamo se i giovani che sono figli di famiglia di carattere medio-borghese si trovano di fronte al problema di disoccupazione, se questi sono da 90
VITTORIO LANTERNARI ● Quale risveglio religioso alla soglia del nuovo millennio?
considerare come ceto borghese oppure proletario. E forse più loro che non gli ex-operai, i quali non sono più proletari se hanno un posto assicurato, o fino a che ce l’hanno il posto assicurato. Cioè, voglio dire che è un ribaltamento, un ridimensionamento, un processo di ritrasformazione anche del problema delle classi sociali, naturalmente. Sillo Sulabini mi ha parlato da tempo, da anni di questo problema, da noi, in Italia. Quindi, da tanti fattori come vediamo, io non ne ho nominati altri oltre l’emigrazione, il problema delle comunicazioni, del mercato comune come si usa dire e del fatto che ogni evento di un paese anche marginale può diventare centro di una cointeressenza generalizzata di tutti gli altri paesi del mondo. Anche questi elementi contribuiscono a creare un certo malessere a cui si aggiungono tanti altri fattori concreti e reali che sono i propri della nostra società e civiltà contemporanea. La diffusione enorme della criminalità, piccola e grande, organizzata. È una situazione tale che non siamo più autonomi nel nostro esercizio della giustizia, sono problemi colossali che non si erano verificati mai in una dimensione così catastrofica. La piccola criminalità, la corruzione, il guasto che tocca dal piccolo negoziante alla grande istituzione, perfino alle grandi banche. Abbiamo scoperto che c’è il furto addirittura organizzatissimo, internazionalmente organizzato della mafia, di tutte le mafie. Pensate voi alla mafia cinese, alla mafia russa, tutti i paesi hanno la loro “brava” mafia. Esistono collegamenti avvolte tra di loro. Noi sappiamo già da sempre i collegamenti d’Italia in America. Ma io credevo, ingenuamente, che lì si fermassero i collegamenti. Invece, via via che crescono di numero, crescono anche di interrelazionalità, se si può dire, cioè, i rapporti colettali, colettivi, fra di loro. Tutto questo crea anche il fatto stesso, questo disturba poco, se vogliamo ridimensionare le cosa tra di noi perché sono state 30 – 40 persone ad aspettare mezz’ora inutilmente mandando delle benedizioni a qualche cosa, al dio del traffico, bisognava mandare la bene / maledizione se c’è il dio, bisognava crearlo, questo dio del traffico, per sfoggarsi, per redimersi dalla rabbia. Ma quando questo è giorno per giorno che gli avviene, uno non ne può più! Tutto questo è stress, è malessere. Non si può più vivere in una città di questo genere. Beh, molti vanno via, ma anche per andar via certe volte ci rimettono la vita. Per esempio, nelle strade trafficate, nelle autostrade, abbiamo visto 65 morti al giorno o ogni 2 giorni, ogni week-end, per dire.
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VITTORIO LANTERNARI ● Quale risveglio religioso alla soglia del nuovo millennio?
Insomma, tutto questo crea un malessere, una insicurezza, una frustrazione generalizzata che si può riscattare in una qualche maniera, ognuna chiacchierà di riscattarla a modo proprio, sul piano dell’emotività, sul piano dell’egocentrismo, dell’egoismo, dell’individualismo, ognuno pensa solo a se stesso e cerchiamo di pensare, solo a noi stessi, no? Ognuno deve darsi una regola di questo genere. Se si è giovani, si cambia, si va verso lo sport, ma c’è un’altra componente importante che deve essere nominata qui: la droga. Eccola! Perché c’é la droga? Quando non se ne può più, si cresce a poco a poco, con tante difficoltà, tanti stress, tante frustrazioni anche se non è di questo carattere che si patisce da parte dei giovani, non è così di tutti naturalmente, altri patiscono di altre cose, però il malessere c’è? Freud l’aveva chiamato in una maniera che io ho ripreso e l’ho messo al centro di tutte le mie interpretazioni, dei fatti religiosi di oggi: il disagio della civiltà avanzata, tecnologicamente, scientificamente progredita. La civiltà di quello che una volta si chiamava “il progresso”, che oggi sappiamo che invece va ridimensionato del tutto. Progresso si può dire del senso tecnologico e scientifico, non altro! E io da etnologo me ne ero accorto da tempo che il progresso non si può dire dell’arte, della religione o del pensiero, della filosofia. Si chiama sviluppo, si chiama un processo di transformazione quello, ma non progresso che comporta l’idea di andare verso il perfetto. E dov’è il perfetto? Non esiste il perfetto! Non esiste la perfezione. Esiste lo sviluppo. Esiste il processo di cambiamento, la dinamica, il dinamismo, necessario e guai a chi non vuole potenziare il dinamismo e la dinamica, certamente. Che vuole restare fermo. Però il progresso è abbandonato come idea dei licenziati stessi per fortuna. Anche la medicina va avanti e progredisce scientificamente, ma guardate un po’ se è capace certamente di curare certe malattie, neutre invece è stata capace se Dio vuole di crearne una nuova, bellisima “leips”. E vero? Cioè a dire, ci sono delle malattie nuove che superano qui le vecchie che vengono vinte dai medici. È un giro continuo, dinamico. Allora, da questo stato di cose generalizzato che occupa un po’ tutto il mondo occidentale, ma oramai occupa il mondo intero, perché l’Occidente ha messo le mani su tutto il mondo e ha mandato i suoi benesseri e i suoi malesseri anche in mondi diversi extraoccidentali, che soffrono come il nostro mondo. Di conseguenza, è noto il ricorso alla magia, nuovo da parte della società, della media borghesia. No? Ci sono le chiese elettriche in America o forse voleva dire elettroniche, la televisione, i maghi televisivi che imperversano. 92
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"New Age" è una costelazione di tipo, di sette religiose che in parte, legate a quel movimento della "Meditazione trascendentale" che avevo menzionato prima, che si propone di salvare l’uomo attraverso il fatto, l’esoterica iniziazione che viene indetta per ogni giovane che aderisce, per ogni recluta che vuole iscriversi, per arrivare alla conquista di una tranquillità finale, quella tranquillità che richiama indifferenza. L’indifferenza soprattutto per tutto quello che avviene fuori del mio “self”, il “self” in inglese vuol dire "se stesso", il mio “se stesso”, il mio “io”. Pensare solo al mio io. Nel senso più profondo che vuole essere alterato, uno stato alterato di coscienza, possibilmente arrivare anche qui alla trance, uno dei dati che viene valorato dalla New Age è quello del tentativo di arrivare allo stato di trance. E sia in questo caso, in questa condizione di trance o di conquista del proprio "self", uno arriva alla atarassia totale, cioè non turbamento - parola greca che era propria dell’ epicureismo. Epicuro diceva, bisogna arrivare per ogni persona saggia ad essere indifferente. Non soffrire, ma neanche troppo indulgere all’eccesso di allegria, all’orgiasmo, all’orgia, cioè moderazioni nelle cose, e soprattutto essere, arrivare alla indifferenza. Ora che la "New Age" si permette ad insegnare l’atarassia, non è una scuola molto feconda, perché già lo sapevamo che gli individui oggi oramai seguono un individualismo sfrenato. Io credo che si possa dire che se la famiglia è andata in crisi, largamente in crisi, il sistema di parentela anche, io non so se oggi si possa dire che in città viga ancora fortemente il legame interparentale. Io credo di no. Certamente, c'è il legame di vicinato nell’ambito dei vicini di un certo quartiere, di una certa abitazione, di un certo abitato. In città è assolutamente distrutto il vicinato. Almeno in una città che sia ammodernata non c’è più un legame di vicinato emotivamente vivo, come lo era in origine. Pensate a quello che avviene ancora in certo modo a Napoli, per esempio, è diverso da quello, cioè è un po’ eccezionale se nel quartiere si conoscono tutti. Io vivo in un quartiere, so benissimo che, io non conosco nessuno del quartiere tranne che pochi del condominio e le riunioni del condominio non sono una simpatia. In generale sono litigi più che amicizie. Ora la stessa cosa è per quanto riguarda questi legami di gruppo che una volta erano grandi e molto importanti. La parentela era molto importante. Si riunivano in certe occasioni di feste i parenti. Qui può capitare naturalmente in un matrimonio che si invitano i parenti anche lontani, ma il matrimonio non c’è nè una volta all’anno, ma una nella vita.
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Cioè, voglio dire che tutti questi sistemi di recupero della propria socialità, del proprio senso civico, sono sempre più rari via via che la civiltà avanza. Di conseguenza direi che non occorreva opportuno che la "New Age" addirittura intensificasse questa tendenza all’individualismo sfrenato, come meta suprema di una religione nuova. C’è qualche cosa di positivo invece in alcuni gruppi religiosi umani, di cui io ho preso una nozione precisa, anche con collegamenti personali diretti: in America e in Inghilterra sono nate delle sette femministe interesantissime e impegnate in operazioni di tipo ecologico. Sono sette femministe religiose molte, altre sono laiche, ma sono alcune nettamente religiose che riassumono non più la religione cristiana o una religione ufficialmente conosciuta, il paganesimo antico. Si chiamano forme di neopaganesimo, di tipo neopagano indetto da alcuni “leaders” che raggruppano delle donne insieme e le pongono, si pongono tutte insieme impegnate in una lotta di difesa dell’ambiente contro gli inquinamenti, contro la deforestazione. C’è una bellissima setta religiosa o laico-religiosa, un po’ mista, indiana che è stata indetta da una grande professoressa di fisica che si chiama Bandana Shiva, in India, a difesa della foresta. In India stanno perseguendo l’abbattimentto sistematico delle foreste come si fa per le foreste tropicali dell’Amazonia, in Brasile. E noi sappiamo che cosa sta a significare la deforestazione: sappiamo che è uno dei punti nodali del processo di fine del mondo, in un certo senso che ci porterà alla fine del mondo, se seguita così. Bisogna bloccarlo, bisogna arestarlo: è il processo che porta alla crescita del calore della terra per l’effetto serra, alla respirazione più difficile, allo “smog” continuo, inquinamenti d'ogni sorta ecc., messi tutti assieme sono quello che oggi ci riguardano più da vicino che mai, come processi o tendenze distruttive dell’umanità e dell’ambiente umano. Ora queste donne seguaci dei gruppi fondati da Shiva da questa splendida figura di personaggio carismatico, che poi non è neanche tanto carismatico è una seguace della filosofia di Gandhi, ch'è indice delle riunioni che lei chiama “Satya-graha”, che sarebbero religiose, sacre, riunioni sacre di donne. Quando sanno che per esempio una foresta sta per esser abbattuta perché è stata comprata da un privato oppure anche dal governo indiano però con l’intenzione di farne terra brucciata, distruggere la foresta, allora ogni donna prende un albero, lo abbraccia, lo tiene stretto oppure gli mette intorno un filo, tutto circolare, uno spago ecc., che è sacro e lo difende con il sistema gandhiano della non violenza. Arrivano gli operai con la scure, vengono abbordati questi operai e costretti con la razionalità, con il ragionamento a retrocedere e a rinunziare. 94
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Tutto questo sta riuscendo ad attenere efficacia nel senso più ampio di riguardare il governo e i ministri locali, a impedire la distruzione eccessiva delle foreste locali. Quindi c’è anche un risultato di carattere operativo politico. Certo è un impegno che diventa politico, altro che di carattere sociale, umano ecc.. Questo è movimento quasi religioso perché loro si sentono portatrici di una sacralità che si lega alla vita dell’albero, alla vita degli alberi perché per vecchia tradizione tribale, in India, c’era l’idea appunto che la foresta era la prima fonte della vita, della vita generale dell’uomo, dell’umanità. Questi sono esempi di sette religiose che tuttora vigono, e sono viventi.
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DUMITRU POP ● La religiosità popolare nel folclore e nel comportamento dei Romeni
LA RELIGIOSITÀ POPOLARE NEL FOLKLORE E NEL COMPORTAMENTO DEI ROMENI Dumitru Pop
Il tema proposto per il dibattito è molto generoso, evidentemente, ma ugualmente complesso e delicato. Per un primo approccio, in questo quadro, sarrebbe possibile di picchettare le linee generali di un’indagine ancora più ampiata, di dettagliare i temi e di precisare le adeguate metodologie per la loro elaborazione. In quanto riguarda il nostro intervento, vogliamo schizzare alcuni aspetti propri alla cultura popolare, comportamento contadino incluso. Partiamo dalla verità che la ricerca della religiosità di un certo popolo debb’essere strettamente correlata con il suo specifico antropologico e con la storia delle religioni. Nella relazione fra di loro dobbiamo cercare in primo luogo le forme di manifestazione, il contenuto e la profondità del sentimento religioso. La religiosità di un popolo può essere spiegata, ovviamente, attraverso le eredità lineare dai predecesori ed i contatti con gli altri popoli, nel corso dei secoli, ma la sua conformazione si adatta in funzione dei caratteri generali e particolari di ordine antropologico, che possono chiarire almeno parzialmente il suo conservatorismo, il modo di ricezione e di assimilazione della religione, le forme, il contenuto e proprio la profondità del suo vivere a questo livello spirituale. Per una migliore intesa del fenomeno della religiosità popolare dei romeni bisogna precisare in via preliminare alcune cose. Per primo, dobbiamo ricordare che il popolo romeno è uno di quelli primi popoli europei che abbiano adottato il cristianesimo, proprio nel corso della sua etnogenesi, simultaneamente a questa e come una sua parte integrativa. Vista antropologicamente, la popolazione daco-romana si situava in uno stadio arcaico di sviluppo, tanto nel campo della cultura materiale, spirituale, quanto come mentalità, di fronte ad altri popoli europei, cristianizzati alcuni secoli più tardi (1). La nuova religione cristiana è stata così assimilata da noi, romeni, da un certo ambiente sociale, culturale e religioso, caratteristico per una certa epoca, nella quale è stata sviluppata 97
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nella forma di un sincretismo in cui il magico, il mitico e il religioso tradizionale, “pagano”, diede nascita ad una specifica sintesi, riverberata lungamente nella storia, tanto nella cultura popolare quanto nel cristianesimo adotto (più risentito che nella prima fase); di questo fenomeno parlano diversi autori, tra i quali dobbiamo citare specialmente il nome di Mircea Eliade (2). In fine, nel caso del popolo romeno la cristianizzazione si è fatta al livello popolare e benevolmente, con l’aiuto di missionari scelti dei primi adetti alla nuova religione e non autorevolmente, per volontà di capi coronati e con l’aiuto di una gerarchia ecclesiastica bene organizzata, com’è successo nel caso di molti popoli europei. La nuova religione sarebbe stata adottata dai romeni in forme prossime alle sue fonti primarie, ben’ prima di passare per le interpretazioni dei savanti clerici di più tardi. Realizzato, così, benevolmente, tutto questo processo ha avuto un carattere democratico, che non ha prodotto rotture sociali. Da qui ancora una più ampia libertà nel fenomeno di assimilazione della fede cristiana e, in più, una speciale permissività per le interpretazioni apocrife. Non possiamo ignorare, però, che sul territorio di genesi del popolo romeno sono apparsi da molto tempo edifici di culto, anche conventi, dove si sviluppò una forte vita monacale, altrettanti, dunque, ambienti di istruzione e di educazione religiosa. Raggiunti negli ambienti popolari, le dati della religione cristiana autentica, del periodo iniziale, sono state evidentemente interpretate alla luce della loro cultura e mentalità. Alcuni dei più savanti hanno risentito il bisogno di arricchire le loro conoscenze nei luoghi sacri e nel Bisanzio, per arrivare delle volte anche a Roma, dove si sono affermati come importanti teologi e scienziati del loro tempo (3). Queste precisazioni vengono per meglio inquadrare lo sviluppo, dai romeni, della formula “cristianesimo popolare”, “contadinesco”, noto generalmente sotto la denominazione di “cristianesimo cosmico”. Autori più vecchi, come Aron Densuşianu, parlava di uno “spirito razionale”, della scarsa inclinazione per il misticismo “da parte di molti, che non hanno mai avuto nessuna propensione per il misticismo religioso... e non si sono mai manifestati come bigotti nel campo religioso.” (4). Lo spirito più tollerante e meno dogmatico dell’ortodossismo romeno è proprio affine a questa variante sud-est-europea del cristianesimo. In quanto riguarda lo “spirito razionale”, questo riferisce allo spirito, alla logica tradizionale, precristiana, emersa da un’esperienza multimillenaria. La nuova fede è stata accettata, ma spesso in una visione e una accezione eretica, che ha sopravvissuto per un certo periodo. Così, il Dio della religione cristiana è 98
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stato riconosciuto, ma sentito e trattato nella stessa maniera del sentire e trattare il dio supremo del vecchio mondo. Esso era adorato, implorato, godeva i sacrifici ecc., ma nel caso che non soddisfaceva la preghiera o la richiesta dell’uomo veniva offeso, minacciato e punito anzì (5). I riflessi di quest’attitudine di antiche radici ci appariscono fin’oggi nel quadro del comportamento manifestato delle massi del popolo. Il contadino romeno inginocchiava di fronte a Dio, facendosi il segno della croce; così incominciava e finiva il suo lavoro nel campo, invocando Dio; ma lo faceva guardando verso il sole, il gran dio di origine orientale, celebrato anche da noi, dov’è arrivato piuttosto attraverso l’apporto culturale dei colonisti romani (6). L’idea cristiana dell’onnipresenza di Dio, correlata alla sua onnipotenza, è stata appropriata anch’essa, inducendo l’idea del timore verso il Signore; quest’ultima invece è stata contaminata con un’altra, per i popoli ortodossi, cioè con quella della bontà infinita dell’essere supremo, della sua generosità, come anche con antichissime credenze di essenza pagana, tra le quali una vecchia divinità della natura, e tutto questo ambito ha portato ad un’attitudine differente. Dio è presente ovunque, nei cieli e nelle acque, nel filo d’erba, nei fiori e nelle foglie degli alberi, mentre l’intenso sentimento della natura del contadino romeno di una volta non può essere isolato dalla presenza dell’antichissimo dio di quest’ultima e poi del suo successore cristiano. Mircea Eliade dice che questo tipo di “cristianesimo cosmico” “proietta il mistero cristologico sopra tutta la natura” (7). La preghiera si pronunzia quasi ovunque, non soltanto nella chiesa; si dice nella casa e nel giardino, andando per la via o lavorando nei campi. La natura della religiosità tradizionale del contadino romeno del passato si è rifranta fortemente nella sua creazione folklorica, apparendo, per noi, nelle più variate categorie, Dio essendo di regola molto umanizzato; l’uomo l’ha immaginato con il suo viso e la sua sembianza; lui porta tanto gli attributi positivi quanto quelli negativi degli umani. Esiste, per esempio, tutta una serie di canti di Natale (“colinde”) religiosi apocrifi, di origine livresca e di leggende popolari sulle sue vicende nei tempi del suo peregrinaggio sulla terra, accompagnato soltanto da San Pietro. Lo vediamo avvicinarsi alla “casa del ricco”, chiedendo alloggio e cibo ed essendo umiliato e offeso da questo. Poi li vediamo alla “casa del povero”, cibandosi col poco di quest’ultimo, prestato delle volte dal vicinato. Altre volte, nella stessa compagnia, Dio discende sulla terra per vedere “cosa fanno i signori ed i servi” e poi “i ricchi ed i poveri”. C’è anche un “colind” dove Dio è pastore alle pecore, che pasce sul clivo fiorito (“pe râtul cu 99
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florile”), come ogni pastore fa; il Creatore canta dallo zufolo (“cântă din fluier”...). Ma l’Onnipotente apparisce anche “dormendo col capo su una radice” o “su un convento” “e non si preoccupa del mondo”, e poi il mitico Craciun, il Natale, dorme a sua volta “ubbriaco fradicio”, similmente agli umani; come questi, Dio è capace a sua volta di ira - “l’ira di Dio” (8). Tra le forme di religiosità del popolo romeno, nate probabilmente agli inizi del cristianesimo, sulla base di un’altra religione, anteriore, in cui era anche l’abete implicato, ricordiamo qui il costume della confessione (“spovedanie”) e quelo della communione eucaristica (“împărtăşanie”) all’abete, o con una variante conosciuta come “germogli al posto dei ‘pasti’” (“muguri în loc de paşti”: cibo rituale costituito da pane e vino e consumato durante la Pasqua, prima di ogni altro alimento), costume praticato sporadicamente, dopo le informazioni che abbiamo, nell’ambiente pastorale, fino agli anni ‘30 del XX-simo secolo. Pur isolati nei loro paesi montani, i pastori inginocchiavano al tronco di un abete, cui confessavano i peccati commessi, e poi si comunicavano con i germogli del albero (9). Se abbiamo in vista l’unione così stretta e frequente tra elementi cristiani e quelli provenienti dalla mitologia e dalla religione anteriori, siamo obbligati di ammettere che “attraverso il nostro cristianesimo vanno vagando gli spettri (“strigoi”) del paganesimo” - come dice lo scrittore Nichifor Crainic. In seguito ai fenomeni ricordati da noi soltanto di passaggio, il cristianesimo tradizionale del contadino romeno è diventato più umano, come più umana pare anche la sua attitudine non solo davanti alla divinità, ma anche davanti ai suoi simili, fatto provato intensamente dalla sua cultura tradizionale e dal suo comportamento nella vita sociale. Si impone che il problema della religiosità popolare (10) sia proseguito anche nella pratica religiosa cristiana, nelle forme che questa indossa, nel quadro delle confessioni, delle sette religiose e delle loro varie forme di manifestazione - come anche negli ambienti sociali e professionali, rurali o urbani - nelle modalità di espressione, cominciando con la preghiera intima, individuale e quotidiana oppure occasionata da certi eventi religiosi (le feste del calendario religioso o della vita personale) e terminando con la preghiera collettiva, al interno di alcune manifestazioni tradizionali di ampiezza, come i peregrinaggi nei posti (talvolta lontani) di significato religioso (nei conventi e alle feste patronali delle chiese, alle croci del confine del villaggio), e poi alle vecchie “nedei”, cioè fiere sulle cime delle
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montagne, preghiere comuni, fiere di confine, uscite nei campi per santificare i grani o per allenare la siccità (11). La preghiera individuale, imparata, specialmente nel passato, nelle famiglie, ad una tenera età, è diventata generalmente una specie di rituale cristiano quotidiano (delle volte un’abitudine), compiendo un importante ruolo nel mantenimento dell’individuo nel perimetro della religiosità. Detta spesso quasi meccanicamente, senza meditazione, durante il lavoro, nella casa o nel cortile, ci sono delle volte quando la preghiera è interrotta per un momento, per mettere in ordine lo svolgimento normale delle cose: apostrofare un bambino o un adulto, scacciare un uccello o un animale domestico (quello che può avere anche la forma dell’ingiuriare, cosa che naturalmente non si inquadra nella preghiera ma anzì ad un’espressione pagana, ad una bestemmia. La preghiera individuale, generata specialmente dal sentimento della paura (che, a sua volta, è prodotto da un minacciare la salute ovvero la vita di un membro della famiglia, o di una catastrofe naturale ecc.), ma anche da profonde aspirazioni, diviene l’espressione di una vicenda effettiva e profonda, spesso simile, nel sentimento, ai vecchi incantesimi praticati in momenti di disperazione, ma dominata anzì del sentimento religioso in forme delle più alte. Questa non rappresenta più un rituale, neanche un’abitudine, ma l’incarnare di un forte sentimento manifestato nel testo di una preghiera altrimenti comune, slegata dall’evenimento che l’aveva portato alla luce. Se questi tipi di preghiera hanno compiuto nel corso dei tempi un ruolo modellatore dell’esistenza di molti, la preghiera collettiva, all’occasione di manifestazioni come quelle ricordate, rappresenta la componente essenziale di alcune feste grandiose (le fiere patronali delle chiese, per esempio), dove partecipavano grandi masse di uomini, venuti da luoghi diversi e delle volte lontani, insieme ai segni che portano (croci, stendardi, icone ecc.), i quali, attraverso gli inni ed i canti che interpretano, creano un’impressionante atmosfera di religiosità, che domina tanto i partecipanti attivi quanto quelli che asssistono alla manifestazione. Al di fuori dello spettacolare di queste feste abbiamo la fattura religiosa, che capta, ipnoticamente, quasi, le coscienze. Si impone di precisare che la preghiera individuale, simile a quella solita di domenica e di festa e che ha luogo nella chiesa, si svolge sotto auspici canonici, pur non lasciando di solito luogo ad una invasione di elementi della sfera del cristianesimo popolare. Tuttavia, nel prolungamento di alcune eredità pagane, come, ad esempio, la danza del costume Drăgaica, si sono sviluppati anche elementi laici, tra i quali la danza 101
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popolare (“hora”) e la festa, come ancora i mercati del paese, che sono col tempo arrivati a coprire gli antichi significati rituali di certi costumi; da qui le “fiere delle fanciulle”, come quello tenuto sulla montagna chiamata “La Gallina” (“Găina”). Ma, come già mostrato, gli stessi costumi calendaristici sono all’origine manifestazioni sincretiche complesse, nelle quali il mitico ed il magico convivono col religioso pagano, traducendo, in ultim’analisi, il carattere religioso dei rituali. Queste forme di preghiera collettiva, molto frequenti ai romeni durante i secoli passati, hanno svolto un ruolo del tutto eccezionale nel processo di unificazione della lingua e del folklore, senza che attraverso questa disparisca lo specifico dialettale e zonale, cosa che contribuì alla cristalizzazione della coscienza nazionale, con tutte le conseguenze benefiche apportate nella cultura e nella storia romena. D’altra parte, queste manifestazioni religiose collettive, che hanno spesso una base religiosa oppure mito-magico-precristiana, hanno influenzato, al loro turno, la creazione folklorica, contribuendo allo sviluppo ed al mantenimento di quella forma specifica di religiosità popolare, di cui i ricercatori hanno ancora molte da dire. Finalmente, rischiereremo l’affermazione che la religiosità popolare si manifesta nel caso dei romeni ancora nella loro condotta tradizionale verso i loro simili in bisogno e sofferenza. Combinata con l’antichissimo sentimento di solidarietà comunitaria ed umana, quest’ultima influenzata dalla chiesa, ha causato la nascita di azioni di prestare l’aiuto impressionanti, prolungate fino all’attualità (inondazioni, incendi, terremoti ecc). Sempre qui può essere ricordato anche il comportamento del soldato romeno verso il nemico in tempo di guerra. Si sa che l’esercito romeno non ha avuto diritto alla preda, e che il soldato romeno s’impadroniva - soltanto quando bisognava - solo degli oggetti di stretta necessità (cioè cibo, vestiti, scarpe) per l’essere e per il compimento della missione assegnatagli. Nella concezione dei semplici soldati, specialmente, ignorare questa condotta era sempre sanzionato severamente dalla forza divina, perdendo la vita o ferendo il peccatore. Anche soltanto al livello superiore, l’esercito romeno non solo che non aveva commesso che eccezionalmente crimini, ma aveva organizzato azioni di assistenza per la popolazione civile sofferente delle località conquistate dai nemici (alla fine della prima guerra mondiale a Budapest, e poi nel corso della seconda guerra per la popolazione della ex-Unione Sovietica delle zone conquistate dall’esercito romeno). La lotta terribile non annientava totalmente il sentimento religioso ed umano dell’anima dei 102
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combattenti. Corroborato ad altri aspetti, questo tratto conduce alla conclusione che, fino a poco tempo fa, al di là della mistica cristiana, la morale manifesta più significativamente la religiosità popolare dei romeni. Ma l’espressione della loro religiosità può essere seguita anche su altri piani, se vogliamo conferire alla ricerca dell’antropologia religiosa la dimensione e la profondità dovute. Sullo sfondo di un’antica tradizione si sono perpetuate una moltitudine di narrazioni miracolose, riattualizzate in tempi e spazi diversi, racconti riferenti ad esperienze e, più spesso, a false esperienze di vita, avendo in prima fase un carattere autobiografico (in prima persona), poi con le esperienze di altri (in terza persona). Le “apparizioni “ dei santi, ma in specie quella del Demiurgo, di Gesù o della Vergine Maria si sono perpetuate fino ai giorni nostri, penetrando nel mondo moderno delle citta’ urbane, in specie nei ceti modesti, e alla diffusione di cui contribuirono maggiormente la radio e la TV, come mezzi moderni di comunicazione. Così, il pastore Petrache Lupu da Maglavit (nel sud della regione di Oltenia), cui, secondo la sua propria testimonianza, Dio stesso si era mostrato, tra le due guerre mondiali, e gli aveva affidato alcuni misteri, mantenendo poi il contatto permanente, Petrache era diventato famoso in quel periodo. Sparì poi per alcuni decenni, per riapparire dopo il 1989, e per entrare poi di nuovo nel cono di ombra della memoria colletiva. Le guarigioni fatte da questo pastore illetterato e con gravi difetti di discorso, guarigioni che univano folle di ciechi e di sofferenti di ogni tipo e di quasi tutto il paese, hanno costituito l’oggetto di numerose relazioni, diffuse con celerità e piene di speranza per i poveri. Queste persone, che possono realizzare la connessione tra i terreni e l’essere supremo, hanno continuato ad apparire, sporadicamente, fin’oggi negli stratti modesti della società. Dopo il 1989, un’onda di misticismo religioso e di ingenuità ha talvolta afflitto l’anima devastata di speranze e di dubbi, di bisogni e di futuro delle folle, situazione favorevole alla proliferazione di manifestazioni religiosi, dalla credenza in guarigioni miracolose ed apparizioni miracolose di segni divini, come, per esempio, la croce scoperta e poi riscoperta nel cuore di un albero o di certi legumi (patate, a.e.), alle icone di santi che lagrimano in certi giorni. Le profezie connesse a terremoti, inondazioni ed altre calamità, che portano in loro reminiscenze d’interpretazioni apocrife della Bibbia, si combinano con le più diverse modalità di indovinare il futuro dell’umanità, di comunità o degli individui, tutte queste occupano un luogo 103
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importante nelle conversazioni quotidiane. Le facce ecclesiastiche sono a loro volta cercate per esorcizzare il diavolo, con l’aiuto di preghiere conosciute soltanto da loro, dal corpo di certe persone tormentate, oppure dalle fatture e pesanti bestemmie. Tutti questi fatti, a cui si potevano aggiungere molti altri ancora, inclusi quelli della letteratura popolare apocrifa, e che hanno penetrato spesso nel circuito folklorico, s’iscrivono nel vasto perimetro della narratologia orale, illustrando aspetti e vicende della religiosità popolare, come dimensione della spiritualità romena.
NOTE: 1. Gli Inglesi hanno accettato il cristianesimo nell’ottavo secolo, i Tedeschi nel 800, i Bulgari nel 864, i Polacchi nel 960, i Russi nel 988, gli Ungheresi nel 1000. 2. Mircea Eliade, Aspecte ale mitului (Aspetti del mito), Bucureşti, Casa Editrice Univers, 1978, p.166 e segg. 3. Ioan Coman, Scriitori bisericeşti în epoca străromână (Scrittori ecclesiastici nella epoca pre-romena), Bucureşti, 1979; Ion DumitriuSnagov, Monumenta Romaniae Vaticana, Bucureşti, 1996. 4. “Revista critică literară” (Rivista critica letteraria), 1893, nr.10. 5. Una breve esposizione del problema, vedasi nel nostro volume Obiceiuri agrare în tradiţia populară românească (Costumi agrari nella tradizione popolare romena), Cluj-Napoca, Casa Editrice Dacia, 1989, dove si fanno riferimenti anche ad altre fonti bibliografiche. 6. Molto interessanti sono dal punto di vista della religiosità le feste calendaristiche cristiane a cominciare col Natale, la Pasqua, la Pentecoste per finire con quelle consacrate ai santi o ad avvenimenti biblici. Nella stragrande maggioranza, queste feste si sono sostituite ad altre feste precristiane, “pagane”, che sono state cristianizzate: l’Epifania, la Candelora, l’Annunciazione, San Giorgio, Sant’Elia, la Trasfigurazione, l’Assunzione, l’Adorazione della Croce ecc. e sono celebrate dalla Chiesa Ortodossa Romena, però sotto il loro involucro cristiano si possono ancora identificare 104
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gli elementi essenziali delle feste “pagane”, delle pratiche e dei gesti ritualici, le credenze e i riti arcaici che presentano, tutti, un interesse speciale e non soltanto per conoscere la religiosità del popolo vissuto su queste terre lungo i secoli ed i millenni ma anche per conoscere la mitologia ed il folklore romeno. Si tratta di un sincretismo religioso e allo stesso tempo di un interessante sincretismo folkloristico, nonché di concezioni e manifestazioni ritualiche che stanno alla radice di alcuni antichi costumi romeni, talvolta conservati fino ai nostri giorni. Lo stesso doppio significato hanno anche i costumi del ciclo della vita umana. Sui loro significati, credenze e riti, si sono sovrapposti i nuovi significati, le credenze e i riti cristiani. La religiosità “pagana” e “cristiana” si intrecciano in tutte e due queste categorie di costumi, la divinità o le divinità sono trattate in conformità allo spirito di entrambe. L’invocazione (la preghiera) rappresenta soltanto un’alternativa dell’intervento umano presso la divinità, essa alternando, in caso di necessità, con l’imprecazione e persino con la punizione della divinità; le ulteriori ingiurie del periodo cristiano nonché la profanazione del volto (si tratta della profanazione delle icone, delle statue ecc.) non sono interventi fatti da persone cristiane ma resti di antiche idee e pratiche sopravvissute nell’ambito della vita cristiana. Interpretati tramite il prisma della carica religiosa contenuta, i costumi del ciclo familiale si presentano in modo differente nel folclore romeno, il posto più importante spetta alle usanze funebri. I vecchi canti rituali (Cântecul zorilor (Il canto dell’alba), Cântecul bradului (Il canto dell’abete), Cântecul cel mare (Il grande canto), Cocoşdeiul e.a.), caratteristici specialmente del mezzogiorno transilvano, del Banato e dell’Oltenia, sono pieni della loro carica mitica, ma spesse volte penetrata da elementi cristiani. Ad esempio, in un testo intitolato Zorile de casă (L’alba di casa), raccolto a Runcu, in provincia di Gorj, il gruppo delle donne parla nel nome della morta, la quale chiede perdono, tramite le loro voci a tutte le persone che si erano comportate bene con lei: “Non posso parlare / Per ringraziare / Da me è venuta / Uno di questi giorni / Una cornacchia nera / Per aria vagando / Le ali suonando / E mi ha colpito / Che rimasi muta. / Non posso parlare / Per ringraziare / Lo farà il buon Dio / Che m’ha fatto addormentare / Lo farà il Santo / Che mi ha preso il pensiero...” e più in là si comunica alla vecchia donna che durante la strada incontrerà un albero: “Un albero fiorito / Ch’è il Santo Dio. / Chinati ai suoi piedi / Il lembo a baciargli...” (Kahane, Georgescu, Stănculeanu, Il canto dell’alba e dell’abete, Bucarest, 1988, p.506).
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DUMITRU POP ● La religiosità popolare nel folclore e nel comportamento dei Romeni
Il lamento, interpretato di solito individualmente da persone vicine al defunto (di solito da donne) a cominciare dal momento della morte, fino alla conclusione della cerimonia funebre, e in occasione delle ricorrenze funebri obbligatorie e delle visite al cimitero, ma spesse volte in intimità, il lamento, cioè, al di là del suo carattere rituale rappresenta uno scoppio di dolore per la perdita di un essere familiale amato. E’ in una misura più piccola anche l’espressione della religiosità; è, piuttosto l’espressione della ribellione contro la morte immaginata in una visione propriamente popolare. Il lamento ci appare come una creazione lirica rituale, vicina al canto popolare di dolore e di speranza, al canto della separazione definitiva. Un antico schema melodico e pratico tradizionale è adattato sempre alle nuove situazioni comparse nell’ambito della comunità rurale. In Transilavania il lamento comincia a sparire gradualmente lasciando il posto ad una creazione “semicolta” dovuta una volta ai sacerdoti e poi ai cantori ecclesiastici. In versi semplici, e una melodia lamentevole propria di un’intera zona geografica, “Verşul la morţi” (il Verso ai morti) come viene chiamata questa creazione passa in rassegna la vita del defunto nell’ambito della famiglia e della comunità, insistendo specialmente sul suo ultimo periodo di vita, sulle sofferenze precedenti alla fine, sui tormenti e le difficoltà superati e porta una parola di conforto che valorizza, quasi sempre, il tema biblico della “Vanitas vanitatis” e che è conosciuta col nome di “Fortuna labilis”. Nell’ambito del “verş” la religiosità proviene direttamente dai libri sacri. 7. De la Zalmoxis la Gengis-Han (Da Zalmoxis a Genghis Khan), Bucureşti, Casa Editrice Ştiinţifică şi Enciclopedică, 1980, p. 246. 8. Altri esempi in Dumitru Pop, Cercetări de folclor românesc (Ricerche sul folklore romeno), Cluj-Napoca, Casa Editrice Sedan, 1998, p.65-67. 9. Ibid,. p. 54-55. Apud Traian Herseni, Forme străvechi de cultură populară românească (Forme arcaiche di cultura popolare romena), Casa Editrice Dacia, Cluj-Napoca, 1977, pp. 184-185. 10. Vedi anche Radosav D., Sentimentul religios la români (Il sentimento religioso dai Romeni), Casa Editrice Dacia, Cluj-Napoca, 1997.
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DUMITRU POP ● La religiosità popolare nel folclore e nel comportamento dei Romeni
11. Dumitru Pop, Obiceiuri agrare... (Costumi agrari....), p. 193, dove si indicano anche alcune fonti bibliografiche. Sui pellegrinaggi dei Romeni vedi anche Anca Bologa, Pelerinajul - o formă arhaică de manifestare a religiozităţii (Il pellegrinaggio - una forma arcaica per manifestare la religiosità), in “Anuarul Muzeului Etnografic al Transilvaniei”, Cluj-Napoca, 2000, pp. 269-277.
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NICOLAE CONSTANTINESCU ● The Pagan-Christian Syncretism in the Romanian Traditional Customs' Poetry
THE PAGAN – CHRISTIAN SYNCRETISM IN THE ROMANIAN TRADITIONAL CUSTOMS’ POETRY Nicolae Constantinescu
A stereotype that periodically occurs in characterizing the Romanian people and its culture, when this comes from the Romanians themselves or, more accurately, from a part of their intellectual elite, often expressed in an assertive form, reads that "the Romanian people was born Christian". In more elaborate formulas, this wants to say that, unlike other European peoples, which have been evangelized, christianized, baptized by their leaders (kings) or by missionaries, late in time, receiving thus the faith in Christ long time after they were constituted as peoples/nations (the case of the Russians, Bulgarians, Hungarians), sometimes by force or as a result of a political decision, and also long time after the new religion imposed in its area of origin and spread, through the Saints Parents, from Asia Minor to Rome, the Romanians, the inhabitants of the land between the Danube River, the Black Sea and the Carpathian Mountains have embraced the faith in Jesus of Nazareth immediately after this took shape and meaning, as a new religion, in Jerusalem, in Corint, or in Galatea. In favor of the early christianization of the Romanians, the people who continuated on the soil of the ancient Dacia the autochthonous ThracoDaco-Getae and the Roman colonists brought here, by the Roman officials, after the Trojan wars (101-102, 105-106 A. D.), "ex toto orbe Romano" ('from all Roman world') keeps speaking archaeological, historical, linguistic, ethnographic and folkloristic arguments. Christian objects, symbols, and places of the 2nd and 3rd Century were unearthed in the south-eastern regions of Romania, in Dobrouja and the Lower Danube, but also in the south-western parts of it, at Tibiscum-Jupa and Mahala, in Banat and Caransebeş; the early writings of the Holy Fathers prove that they walked and spread the Holy Word of God on this territory; the Latin origin of the Romanian Christian vocabulary is an indisputable fact (see among many others, ELIADE-CULIANU 1993; MAZILU 1998; ISPAS 1998; CONSTANTINESCU 1999). All these stay under the sign of objectivity and cannot be rejected, unless they are seen with a total dishonesty.
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NICOLAE CONSTANTINESCU ● The Pagan-Christian Syncretism in the Romanian Traditional Customs' Poetry
A little more difficult seems to be, from a formal, logic, point of view, to sustain and explain the massive presence of ancient, pre-Christian elements in the Romanian folk-culture and traditional folklore. One can even ask how was that possible, in spite of the oldness of the Christianism with the Romanians, their spiritual culture has preserved with such a fidelity and in such a large quantity elements pertaining to the pre-Christian, pagan times. How was, thus, possible that, in about two thousand years of Christianism, the primitive fond has so vigorously and fresh preserved? How can be, lastly, explained the Christian-pagan syncretism of the Romanian folklore? There are many and different answers to this, given either by clergymen or by laymen, by philosophers or by anthropologists, by historians of religion or by folklorists etc. (See, for instance, FECIORU 1939; PAPADIMA 1941; ELIADE 1988, 1993; AVRAM 1999). Following their paths, I add here my own notations. When it is about this matter, scholars appeal to the most obvious proofs which are to be found in one of the oldest, in true spirit, genre of the Romanian folklore, i. e. the Christmas or the New Year's carols, or, in other words, the winter-solstice songs. Even the name under which they are known in people's speech (colinde) and those the folklorists attributed them (Christmas, New Year's, winter-solstice songs) clearly speaks of their origins and of this mixture of pre-Christian and Christian strata. Let's first mention that both, the name of the genre (Rom. colinda) and the name of the Christian holiday on which occasion these songs are practiced - Christmas, Rom. Crăciun - belong to the inherited Latin fond of the Romanian language. It is generally agreed that colinda continues the Latin word calenda, -ae, while Crăciun comes from the Latin word creatio, -ionem, 'to create', 'to give birth'. At the same time, the ethnographic data show the existence of an old, preChristian custom, still existing with the Albanians, but not preserved as such by the Romanians, which consists in burning a log, a large piece of wood, all through the night, on Christmas or New Year's Eve, piece of wood the name of which is also Crăciun. There are, however, accounts of the remnants of this old, pre-Christian custom in today Romanian folklore, as, for instance, "the existence, at present, in the area of Sălaj [N-W part of Romania - my note N.C.] of a 'Christmas dance' accompanied by sung couplets (whose ambiguous texts seem to refer to the log burnt on Christmas night)" (see HERŢEA 1999: 32). To this, one might add the linguistic proofs, showing that the old Albanian kercun meaning 'log', 'large piece of wood burnt on
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Christmas night', has been preserved in Aromanian, the south of Danube dialect of Romanian, as crăciuni, with a sense very close to that of the Albanian word, i. e. 'log', 'piece of wood burnt in the night of passing from one year to another'. (see PAPAHAGI 1979: 173-178, 315; BRÂNCUŞ 1983: 137). It is worth to mention that "the Alb. kercu did not develop a religious meaning, as it did in Romanian" where, it seems, "the Christian meaning has developed through the intermediary of a construction like 'the evening/the night of crăciun', similar to the Alb. nata e buzmit, 'the night of the log' (BRÂNCUŞ 1983: 137) As for carols, the Rom. colinda, from Lat. calendae, naming the beginning of a new period of time, of a month, as, for instance, Calendae Januarii, was preserved in Romanian through a Slavic intermediary, as all the neighboring Slavic peoples (Ukrainians, Belorussians, Poles, Bulgarians) know and practice the custom, naming it with a Latin word (see BRĂTULESCU 1981, CARAMAN 1983). The word colinda, unknown in other Romance languages but the Romanian, entered the Slavonic languages as koleda (Bulg.), koljada (Russ.) meaning 'Christmas', koleda (Sb.Cr, Slvk., Pol.) meaning 'Christmas song', 'Christmas ritual bread or pretzels', or, in general, 'Christmas offerings' (Cf. MESNIL-POPOVA 1990). Sending us to even older times (and meanings), some scholars establish a connection of the Rom. colinda not with the Latin calenda, -ae, but with a Greek kalindo or kolindeo, meaning 'rotation', 'return', that sets the Romanian custom of colindat, 'Christmas/New Year good-wishing' in a very close relation with the Sun cult, with the winter-solstice celebration, with the triumph of the light over the dark, of the day over the night, of the life over the death. All these meanings are perfectly compatible with Christ's, the Savior's, birthday. It is much to speculate on the Romanian name of the holiday, Crăciun, i. e. Christmas, in connection with the Sun cult of the early local populations, as it seems to be preserved in the very poems sung on this occasion. The solar symbol appears in a large number of Christmas/New Year's carols, as, for instance, those announcing the holiday and the ritual awakening of the hosts: "Wake up, wake up, you great boyars / Hei ler om da, leroi! For it is not the sleeping time, / But is time for adorning. / … / The yellow Sun has risen / Yellow Sun with three beams..", or in those wishing the landlords a good crop in the coming year. The Sun's three beams touch the essential parts of the master's territory: "The first sunbeam, where is it shining? / Up, on the mountains tops / On the fire-tries lap; / The second
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sunbeam, where is it shining? / Is shining on the fields with green crops; / The third sunbeam, where is it shining? / Is shining on the cross of the house's windows". It is generally agreed that the solar theme of the Romanian carols belongs to the old mythological fond of the New Year's rituals in connection to the agrarian civilizations. But it can be equally related to the winter-solstice pre-Christian celebrations, for it is well known that the Christian celebration of the Christ's birthday on December 25th overlaps an old pagan holiday, "Dies Natalis Solis Invicti", the day of the Sun's victory over the dark. "The Christian church kept the everlasting content of the pagan solemnity: the religious and ritual consecration of a cosmic event, the winter solstice" (LEMARIE 1957: 27 apud CEPRAGA 1995: 26). There is the assumption that "the glorious scene of colinde in which the arriving of the carol-singers is accompanied by the appearance of the Sun preserves […] the memory of a primordial Christianism within which the symbolic identification of Sun and Christ had not got the conclusive form codified by the ecclesiastic culture." Moreover, the Sun of carols, shining next to the carol-singers represents "the simplest and the most coherent level of matching the Christian symbolism with the ritual exigencies of this folklore genre" (IDEM) If here we are in front of a process of Christianization of an old preChristian symbol, another linguistic fact speaks of a Christian, church formula which was attracted and entered the structure of the pre-Christian, 'pagan' carols. It is about the refrain of these songs, a line, or a couple of lines, repeated after each verse or group of verses. The most common and most representative of all these formulas in the Romanian carols is Leruia, Doamne! or Lerui, ler, Doamne! Out of many and sometimes fanciful theories concerning the origin of this line, scholars ultimately agreed that here is nothing but the Hebrew invocation Hallelujah plus the Latin vocative of God, Domine. Passing through all the transformations the Latin sounds underwent in their way to Romanian language, Hallelujah Domine became Leruia Doamne, the Romanian carols' refrain. This is to be found both in the so called 'religious' or Christian carols and in the pre-Christian winter-solstice songs, a clear case of cultural syncretism in Romanian folklore. Next, and last example, of pagan-Christian syncretism in the Romanian customs' poetry regards a type of carols belonging to the oldest stratum of this poetry, preserving like the "warm ashes" of the African dances, the memory of very primitive rituals and beliefs. The type 69.
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Hunters transformed into stags ["nine (seven) hunters, the sons of an old man, are changed into stags, sometimes as a consequence of drinking from the track of a great stag, sometimes because of God's punishment. The old man tries in vain to bring his transformed sons home, but they refuse."] Under this type are registered only 4 (four) variants, two collected by Bela Bartok from Urisiu de Sus, Hunedoara and, respectively, from Idicel-Mureş, one published by the ethnomusicologists Nicola and Mârza, from Zagon, Covasna, and the fourth, from Ruja, Sibiu, of the IEF Archive in Bucharest. It is worth to mention that two of the constitutive motifs of this type have an international circulation, being registered as such in Motif-Index of FolkLiterature under D 110 f f: "Man transformed to wild beast" şi D 555. 1: "Transformation by drinking from animal's track" (Cf. BRĂTULESCU 1981: 216). In carols of type 69, the old man who did not teach his sons anything else but how "in the hills to hunt" finds them later transformed into stags, because "they hunted so much / wherever they found / spoors of a large stag, / followed it so far, / till they lose their way, / until they changed / into nine mountains stags". Simply going hunting, for this was his trade / profession, or looking for his sons, the old father finds them transformed into stags and invites them to come back home. They reject the invitation for, they say, "our antlers / can't go through doorway,/ only through the mountains; / (and) these feet of ours / do not step on ashes, / for they step through leafage; / (and) these lips of ours / do not drink from glasses, / for they drink from wellsprings". (BARTOK 1975: 228-30) One can ask, for sure, how did this text function as a Christmas or even New Year's carol, which was its meaning as a good-wishing song and which was the cultural context that generated it. In fact the only one able to give an answer to all these questions is the text itself, the depository of the cultural information we are looking for, "the living fossile" (Cf. ELIADE 1943) of a remote and speechless past. This 'story' seems to have in its center, at the first level of interpretation, an irreconcilable conflict between a father and his sons, between the male members of the nuclear, elementary family. But the story, the 'fabula' hides, we assume, another reality that could, eventually, be reconstructed, if we join end to end the textual 'potsherds' preserved in the texture of the poem. Such a 'rest', common to all the variants known so far, refers to the father who did not teach his sons another trade (profession) but that he himself performed, hunting: "He did not teach them /
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No other trade / Not field working / Not horse raising / But only hunting". Be it either a simple finding or a reproach expressed by the sons transformed into stags, one can read here a change of attitude of the singers in the process of performing, in time, this song, a change of mentality, on a different cultural background. It is, for the very beginning, set up an opposition between hunting, on one hand, and agriculture, tilling, on the other hand, an opposition that marks a stage in the evolution of the meaning of this carol. It is about those 'glidings of sense' determined by the changes in the performative context included in the cultural context of passing from the hunting society to the pastoral and agricultural society. "Se questo sara' il senso originario della colinda, la sua transmissione nel tempo, il passaggio da una societa di cacciatori a una societa di pastori e di agricultori e l'influenza del cristianismo (underlining mine N.C.), hanno portato una serie di cambiamenti. Cosi' si spiegano diverse particolarita' delle quatro versioni"(BRATU-RENZI 1989: 283). In this context, "the hunting did not represent anymore a prestigious trade. The exclusive practice of hunting was seen as a fundamentally wrong orientation, as a blamable and ill-fated attitude" (BRĂTULESCU 1981: 55) But looking to the even deeper zones of the colinda, searching its 'geologic' strata, one can find an even older level of meaning, an anthropologic one, regarding the obligation of the father to initiate his sons in the secrets of his trade, in the sacred mystery of hunting, in this case, and to lead them on their way of fulfillment as men, husbands, hunters, warriors, and heads/leaders of their group. Some 60 years ago Mihai Pop suggested that, may be, this rare carol "perpetuated to our days a myth (I would rather say a ritual - my note N. C.) of initiation that is still waiting to be revealed" (POP 1976: 61). In fact, as this was already noticed, originally, the text of the carol was a kind of "a parable of obeying the social law", consisting, on one part, in the obligation of the father to initiate his sons in his trade, and, on the other part, in imposing the sons a ritual behavior, that of becoming "beasts" and "rejecting their parents, in order to guarantee the change of the generations in the sense of the traditional society": "Il nostro testo offre una parabola dell'osservanza della legge sociale. E questa que impone ai giovani di 'diventare fiere' e di respingere i genitori, per garantire il ricambio delle generazioni in senso alla societa tradizionale" (BRATU-RENZI 1989: 284). The arguments of the young men-stags' refuse of returning home ("Our little head / Does not wear fur-caps, / Neither our body / Does wear shirt" [var.
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Zagon-Covasna] or "Our antlers / Don't enter the doorway; / Our feet / Don't step on ashes etc." [var. Urişiu-de-Sus, Hunedoara] (both var. in DATCU 1992: 203-206) are lastly reductibile to the basic opposition nature ('antlers', 'leafs', 'well-springs') - culture ('doorway', 'glasses', 'ashes'). They rather represent a darkening, even a distortion of the original meaning, because the hunters transformed into stags totally assume their animal condition, when, in fact, this was a passing one. The young men subject of the initiation rites used to come back, to return to their human condition, but differently, in another way. The simple fact that such a theme was 'attracted' and entered the repertory of Christmas carols would be enough proof of the pagan-Christian syncretism of a part of the Romanian custom poetry. But looking to another theme, closely related to this, one can reconstruct the missing links of a transformative process. It is about the type 68 The hunter and the transformed personage, 68A, 68 B: "The animal (usually a stag) whom the hunter is preparing to shoot, confesses to be a human character (an emperor's son, a little priest) changed into animal as a consequence of the curse uttered by his mother (father)", 68 C: "The animal (a stag, one bird, three birds…) who the hunter is preparing to shoot, confesses to be Saint John (three holidays…). In some cases, the metamorphosis is the consequence of the curse uttered by his mother (father)", 68 D: "To escape the metamorphosis (a consequence of his mother's curse) divine services are performed in the churches. In some cases, the Mother of God with her Son in her arms takes part in these divine services", with tens of variants, more frequently attested in north-western regions of Romania, but in the extra-Carpathian areas too (See BRĂTULESCU 1981: 213-214). These types and sub-types of the Romanian colinda of The hunter and the transformed personage contain some world-wide spread motifs registered in the Motif-Index of FolkLiterature as F 234.1.4, Fairy in form of a stag; E 501.11.1.3 Wild hunt appears on St. John's night; D 525, Transformation through curse (Cf. IDEM: 215). Here is a variant from Maramureş, collected at the beginning of this century: "Stay, brother, / Don't shoot me, / For I'm not who you think I am, / But I'm a son of a little priest / Cursed by my father / To be in the evenings through the woods / Nine years and nine months; / When I fulfill that / I'll get down in the village, / I'll enter the churches, / I'll do the sermon, / I'll ring the yellow bell" ("Ho, fărta', / Nu mă-mpuşca, / Că eu nu-s cine gândeşti, / Că
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sun' prunc de diecel / Blăstămat de tata mneu / Să siu sara pă păduri / Nouă ai şi nouă luni; / Dac-acele plini-le-oi / Gios la sat scoborî-m-oi / În beserici băga-m-oi, / Slujbe sfinte face-mni-oi, / Clopot galbăn trege-mni-oi" (1920, G'esăşti) (PAPAHAGI [1925] 1981: 231-232) One can assume, without risking too much, a genetic relation between the carols belonging to the type 69 and 68 with all its sub-types, the central element of which is the metamorphosis of one (or some) young man (men) into a wild beast, most often a stag. But, while in the type 69 the metamorphosis seems to be (is) irreversible, the sons of the old man refusing to turn back to their human condition, definitely separating of it and making their option for the animal condition, in the type 68 and its sub-types, the metamorphosis is reversible. After the time is completed ("Nine years and nine months / and the same number of weeks"), the young man will return in the village or town, in the human space ("Io acele plini-li-oi, / Jos la sate treje-m-oi"; "Io dac-ale plini-li-oi, / Jos la ţară lăsa-m-oi"; "Dac-acele plini-lioi, / La oraşe traje-m-oi", BILŢIU-POP 1996: 144-145). He will not enter the house, but in the church, a sacred and consecrated space. Some saw in this motif of entering the church ("In the churches I'll enter / Nice divine service I'll make [În biserici băga-m-oi, / Slujbă mândră face-v-oi]"; or "I'll take the keys / Open churches / And pray for myself [Chei în mână lua-oi, / Beserici descuie-oi, / Rugă măndră face-mi-oi]") an act of purification: "the son of the little priest, escaped the curse, purifies himself by holy services and ringing the bell" (BRĂTULESCU 1969: 128; Cf. also BILŢIU 1996: 24: "the beast pardoned by the hunter promises he will purify by divine services, sometimes he is assisted by the Holy Mother"). This motif was considered as a result of a process of agglutination, of overlapping, on an old, pre-Christian, primitive stratum, of a newer, Christian, church level (BRĂTULESCU, Ibidem; cf. şi BILŢIU, Ibidem: "The presence of the metamorphosed character explains the pre-Christian antiquity of the carols with the stag, and also the fact that the Christian elements are late additions that entered, in time, under the influence of the church"). What is even more curious and more difficult (but not impossible) to explain is the fact that very these types, supposed to be newer, more recent, preserve with more fidelity the originar, primary sense of the rite of the initiation of the young boys passing from a biologic and social age to another. The young men transformed into stags don't just deny their animal origin ("But I'm not what you think I am"; "I'm not that it seems to you"), but
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they affirm their human origin ("I'm a young man as you are", "I'm Ion of my mother"), insisting, sometimes, on their social status and profession: "I'm an emperor's son"; "I'm the priest's son", "I'm the head of the sheep herds". In the sub-tipes 68 C and D he is identified with Saint John, "Saint John/God's (i.e. Christ's) Godfather" (Cf. BILŢIU-POP 1996, 142-158) One may assume that the identification of the metamorphosed personage with Saint John represents the newest stratum of the colinda, expressing the fact that the old originar level, related to the old initiatory rites of young men at puberty, entered the oblivion and even disappeared, and carols' function of announcing the Jesus' birthday became dominant. As for the variants in which the metamorphosed personage has a precise identity ('the son of a little priest', 'the head of the heard') one can also assume that these have functioned as professional wishes, the passage through the initiatory stages allowing the young man to practice a certain profession or to occupy certain dignities. In any case, the idea that entering the church had a purificatory role is not sustained. It rather means a consecration of the young man, coming back, in the village, in his new quality of an initiated one, of a born again man, wrapped in the purity mantle. In some variants, he is the one who serves in the church, being thus assimilated to a priest of a certain religion, be it Christian or non-Christian. Many of those who studied this strange carol (Cel uncheş bătrân) have seen, as its possible genetic context the rites of initiation of the young men at puberty, considering, after Mihai Pop, that "the metamorphosis could be a poetic transposition of these ceremonies in which the neophytes identified themselves (by mask, gesture, and behavior) with the totemic animal, sharing, thus, his strength and sacrality" (COMAN 1986 I: 165). Applying here the method of the 'historic reconstruction' or the 'ritualistic method' does not necessarily mean that we expect to find in the poetic text 'the exact memory' of some specific ritual manifestations of certain stages of culture. You cannot pretend the carol to be what it is not and cannot be: "the perfect memory of a ritual much more anterior to its apparition as a genre" (FILIP 1999: 156). But it is the only way to penetrate the intimacy of the text, to determine it to testify of gestures and peoples from very remote times, times without history and without other documents but these, miraculously preserved in the collective memory and orally transmitted up to the second half of the 20th Century.
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Theodor FECIORU 1939, Poporul român şi fenomenul religios, Editura Librăriei Teologice, Bucureşti Vasile V. FILIP 1999, Universul colindei româneşti În perspectiva unor structuri de mentalitate arhaică, Editura saeculum I.O., Bucureşti Iosif HERŢEA 1999, Romanian Carols, The Romanian Cultural Foundation Publishing House, Bucureşti Sabina ISPAS 1998, Comentarii etnologice asupra colindei şi colindatului, În vol. Constantin Brăiloiu - Sabina Ispas, Sub aripa cerului, Editura Enciclopedică, Bucureşti Dan Horia MAZILU, Românii şi creştinismul (de la Începuturi până la sfârşitul secolului al XVIII-lea), in O istorie a românilor. Studii critice. Coordonatori Stephen Fischer-Galaţi, Dinu C. Giurescu, Ioan-Aurel Pop, Fundaţia Culturală Română, Centrul de Studii Transilvane, Cluj-Napoca Ovidiu PAPADIMA [1941] 1995, O viziune românească a lumii, Editura Saeculum I.O., Bucureşti Tache PAPAHAGI 1979, Mic dicţionar folcloric, Editura Minerva, Bucureşti Tache PAPAHAGI [1925] 1981, Graiul şi folklorul Maramureşului, În vol. Grai-Folklor-Etnografie. Ediţie şi prefaţă de Valeriu Rusu, Editura Minerva, Bucureşti Mihai POP 1976, Obiceiuri tradiţionale româneşti, CCES, Bucureşti Al. ROSETTI 1921, Colindele religioase la români, extras din "Analele Academiei Române", seria II, XL, Bucureşti
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IGNAZIO E. BUTTITTA ● Fiamme di vita. Falò cerimoniali in Sardegna e Sicilia
FIAMME DI VITA. FALÒ CERIMONIALI IN SARDEGNA E SICILIA Ignazio E. Buttitta
Argomento di questo breve saggio sono gli usi cerimoniali del fuoco ancora oggi largamente presenti in Sardegna e Sicilia. Tali usi non sono solo osservabili nelle due isole maggiori d’Italia. Un tempo più largamente diffusi in tutta la Penisola italiana, lo restano attualmente in particolare nelle regioni meridionali e nelle aree appenniniche. Vanno inoltre ricordate le numerose attestazioni di falò cerimoniali provenienti da tutta l’area euro-mediterranea: dal Marocco alla Scandinavia, dalla Penisola Iberica a quella Balcanica1. In Italia le cerimonie del fuoco sembrano addensarsi intorno ad alcuni momenti del calendario rituale cristiano quali Natale, Epifania, Sant’Antonio Abate, San Giuseppe, San Giovanni, Assunzione o in prossimità di essi, ma in realtà si dispiegano entro una più ampia cornice cronologica diversamente articolata da regione a regione2. Esse constano in un variegato insieme di pratiche che va dall’accensione di uno o più falò alle processioni di torce, dai salti sulle fiamme ai balli intorno al fuoco, dal rogo di fantocci alla raccolta dei carboni. Se elemento denominatore è la fiamma nelle sue diverse accezioni, comportamenti e credenze cerimoniali sembrano piuttosto dispiegare molteplici significati e assolvere diverse funzioni. La ricerca di un ordine all’interno dell’apparente polisemicità nonché della variamente declinata morfologia delle feste del fuoco italiane sono tra le ragioni che mi hanno sospinto ad intraprendere lo studio delle cerimonie ancora documentabili. Questo lavoro ha avuto inizio con una ampia indagine sul territorio siciliano i cui esiti sono già in buona parte accessibili3. Successivamente il lavoro di ricerca è stato rivolto alla Sardegna a cominciare da un’area territoriale, il Gocèano, sulla quale mancava ancora una documentazione recente e sistematica4. Pur cercando in fase conclusiva di rendere conto del fenomeno più generale dei falò cerimoniali nel loro complesso, mi limiterò in questa sede a esaminare le cerimonie del fuoco dedicate in Sardegna e Sicilia a Sant’Antonio abate. Tra i fuochi cerimoniali sardi essi sono infatti i più diffusi e accompagnati da comportamenti e credenze di notevole interesse. D’altro canto, seppure in misura non paragonabile alla Sardegna, anche in 121
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Sicilia l’accensione di falò in onore di sant’Antonio è pratica variamente attestata. Prenderò avvio da una sintetica illustrazione di una cerimonia sarda che ho potuto direttamente osservare a Bottida, una prima volta nel gennaio 1999 e successivamente nel 2001. Bottida è un piccolo centro della provincia di Sassari che si affaccia sulla valle del Tirso all’interno della regione vulcanica del Gocèano. L’economia dell’area si fonda prevalentemente sullo sfruttamento pastorale e agricolo della fertile pianura valliva. Centri abitati viciniori sono Bono, Burgos, Esporlatu, Illorai anch’essi interessati dall’accensione di falò antoniani. A Bottida il falò, detto localmente su fagarone, viene realizzato nella piazza sottostante una chiesetta dedicata al Santo abate che sorge in un area periferica del paese. Fino a circa dieci anni addietro, riferiscono i fedeli, il falò, tradizionalmente unico, veniva acceso dinanzi la Chiesa Madre, dedicata a Nostra Signora del Rosario, nel cuore del centro abitato5. La catasta, la cui legna è stata accumulata nella decade precedente è alta circa 5 m. e si presenta di forma vagamente conica. All’interno sono sistemati in modo da bruciare in maniera omogenea tronchi di varie essenze silvestri, in massima parte di quercia da sughero. Esternamente la pira è ricoperta da rami freschi di quercia. In cima al cono si osserva una croce, realizzata con due rami, ai quali sono inanellate per tutta la lunghezza, sia verticalmente che orizzontalmente, delle arance. La catasta viene accesa intorno alle ore 15.00 quando le campane della chiesa di Sant’Antonio prendono a suonare annunziando l’approssimarsi della messa. Servendosi di una lancia a gas un operatore, scortato da alcuni membri del comitato organizzatore6, prende a girare intorno alla catasta accendendone più punti alla base. La legna prende rapidamente fuoco spandendo intorno un denso fumo. Una piccola folla, prevalentemente maschile, assiste allo svolgersi di questa operazione. Richiamati dal suono delle campane, frattanto, cominciano ad affluire verso la chiesa i fedeli alcuni dei quali indossano costumi “tradizionali”. Molte sono le donne che recano speciali dolci di forma discoidale. Sono di due tipi detti localmente tiliccas e ardias. Le preparazioni differiscono parzialmente nella composizione della pasta e nelle decorazioni. Si presentano con una base di pasta di pane o pastafrolla ricoperta di “mostarda” (una densa marmellata realizzata con mosto, o fichi, o fichi d’india). Alcuni dolci sono poi ricoperti da un nuovo strato di pasta rivestito di glassa bianca. Altri sono recati dai bambini infissi su un manico di canna e presentano al di 122
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sopra un frutto (mela o arancia). Questi ultimi risultano quasi riproduzioni in scala dell’ardia, un “trofeo” che un membro del comitato, a cavallo, porta infisso sullo stendardo7. Man mano che i fedeli vanno affluendo in chiesa i dolci vengono deposti ai piedi dell’altare e al suo fianco, dove, già collocato sul suo fercolo processionale, si trova il venerato simulacro del Santo abate. Ha inizio la funzione. Nel corso di questa il sacerdote benedice i dolci e invita i fedeli a onorare la memoria del Santo seguendone il pio esempio. Al termine della messa i fedeli, recuperati i dolci benedetti, si affollano innanzi al tempio ordinandosi progressivamente in corteo. Al suono delle campane esce il Santo recato a braccia da quattro giovani. La processione prende il via in direzione della strada provinciale che attraversa l’abitato fungendo da corso principale. La aprono due cavallerizzi uno dei quali reca l’ardia, dopo di questi le fedeli recanti i dolci votivi e i fedeli recanti bottiglie di vino. Segue il simulacro di Sant’Antonio dietro il quale procedono il clero e le autorità municipali. Raggiunta la provinciale e percorsone un tratto il corteo imbocca la via Sant’Antonio che sbocca proprio nella piazza dove già arde il fagarone. La processione si arresta e si apre per far passare il Santo seguito dal clero. Il simulacro viene posto su di un lato della piazza, fronte al fuoco, e quindi il sacerdote, assistito da alcuni chirichetti benedice il falò e i presenti cospargendoli di acqua benedetta, infine si ritira. Fanno ora il loro ingresso sulla piazza i due cavalieri che dopo aver reso omaggio a Sant’Antonio prendono a girare intorno al fuoco percorrendone tre volte la circonferenza in senso orario, e dopo una nuova sosta innanzi al Santo abate, tre volte in senso antiorario. Reso nuovamente omaggio al Santo, facendogli “inchinare” innanzi i cavalli, escono di scena. E’ ora il turno dei fedeli tra i quali coloro che recano i dolci e il vino. Essi si introducono in piazza e prendono a loro volta a girare intorno al falò: tre volte in senso antiorario e tre volte in senso orario. Al termine della loro circumambulazione rituale i fedeli si approssimano al venerato simulacro toccandone o baciandone i piedi. Man mano che i fedeli terminano il loro percorso dispongono i dolci e il vino su dei tavoli precedentemente sistemati ai bordi della piazza. Alcuni si approssimano al fuoco sottraendovi qualche tizzone, o intingendo le mani nelle calde ceneri che si vanno accumulando sui bordi e tracciandosi la fronte con un segno di croce8. Frattanto i dolci ed il vino cominciano ad essere distribuiti ai presenti9, mentre la statua del Santo, scortata dai cavalieri rientrati in scena, viene ricondotta in chiesa. La gente si sofferma lungamente intorno alle fiamme a mangiare e bere allegramente, a discutere, a salutare gli 123
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amici. Al calar delle tenebre sul falò, ormai ridotto in brace viene arrostita una gran quantità di carne maiale che sarà consumata sul posto comunitariamente10. Per restituire senso a questa sequenza di azioni cerimoniali oltre a osservarne la concatenazione sistemica interna e la posizione del rito all’interno del calendario rituale è necessario ricordare in prima istanza, seppur sinteticamente, analoghi comportamenti simbolici osservabili in contesti sardi e le eventuali trasformazioni cui sono andati soggetti nel tempo. In Sardegna i falò, come già segnalato, ricorrono principalmente in occasione delle feste di sant’Antonio abate e, oggi in misura minore in quelle di san Giovanni. In qualche caso anche per san Sebastiano e san Pietro e Paolo. Non casuale la prossimità calendariale tra i falò di sant’Antonio e di san Sebastiano e quelli di San Giovanni e San Pietro. Tra essi esiste, infatti, una forte affinità morfologica ed è probabile che stante la vicinanza di data «si sia avuto o uno slittamento di elementi singoli o la scomparsa di una delle due feste»11, ovvero, come altrimenti attestato, la sovrapposizione dei due iter cerimoniali. Sant’Antonio e san Giovanni già nella loro denominazione popolare rivelano una profonda relazione con il fuoco: il primo è detto Sant’Antoni ’e su fogu (Sant’Antonio del fuoco) o Sant’Anton’e su tithone (Sant’Antonio del tizzone); il secondo, Santu Giuanne ’e lampadas (San Giovanni delle vampe)12. I falò vengono accesi la vigilia dei giorni dedicati ai Santi dal calendario cristiano (tranne nei rari casi in cui la loro accensione è posticipata al giorno successivo): la sera del 16 gennaio quelli per Sant’Antonio e la sera del 23 giugno quelli per san Giovanni. Tra i tratti che marcano la festa di San Giovanni v’è quello di contrarre legami di comparatico tra coppie di giovani non di rado saltando insieme le fiamme stretti per mano13. Così avviene a Luras, paese di circa 2800 abitanti della Gallura. Sono i ragazzi, soprattutto adolescenti, che divisi per gruppi si occupano della gestione del rito che non prevede alcun intervento da parte ecclesiastica. Essi nei giorni immediatamente precedenti si occupano di raccogliere quanto necessario ai falò: frasche, paglia, cartoni, cercando di relizzare il più alto e imponente. I falò vengono accesi nella tarda serata. Quando la fiamma comincia a scemare i giovani vi saltano su a coppie. Tutti coloro che hanno saltato insieme la fiamma da quella notte si considerano “compari”14. I falò di sant’Antonio abate a differenza dei falò di San Giovanni, osserva Enrica Delitala, «sono di norma unici, di grosse proporzioni e presentano una accentuata cerimonialità nella preparazione (questua, 124
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trasporto cerimoniale della legna, forma rigidamente definita, accensione regolata da norme precise)»15. Essi «comportano un’ampia partecipazione della comunità ed hanno un accentuato carattere ufficiale (spesso il fuoco è benedetto ed acceso dal parroco)»16. In realtà a quanto rilevato da Delitala e senza contestarne la validità generale devono essere aggiunte alcune precisazioni: in alcuni centri della Sardegna infatti, e così, proprio in Gocèano almeno a Burgos, Bono, Benetutti, i falò venivano tradizionalmente accesi numerosi nei diversi quartieri del paese17, fermo restando che i materiali utilizzati erano e sono piuttosto che paglie e frasche, rami e tronchi d’albero e che i falò antoniani prevedono sia nella fase preparatoria che esecutiva del rito la partecipazione degli adulti. Le forme dei riti antoniani sono comunque tra loro, a parte qualche variante locale, assai simili. Sin dalle prime ore della vigilia, e non di rado anche nei giorni precedenti, i giovani del paese nonché adulti che ritengono di avere ricevuto una grazia dal Santo si recano a raccogliere la legna necessaria al falò. Si tratta di volta in volta di grossi tronchi di quercia da sughero cavi detti tuvas o di tronchi e rami di quercia da sughero e di rovere, in alcuni casi addizionati ad erbe aromatiche18. Questi materiali vengono variamente disposti in spiazzi e al centro di crocicchi, spesso in prossimità delle chiese, a formare una o più cataste. In alcuni centri, come a Padria in provincia di Nuoro, la raccolta della legna necessaria al falò è curata dai membri di un Comitato. Essa viene questuata di porta in porta per l’abitato. E’ sempre il comitato che si occupa di raccogliere i fondi necessari all’acquisto di pani, dolci, carni, formaggi che verranno consumati contestualmente all’arsione della catasta (fogulone)19. In numerosi casi poi si registra l’uso di porre sulla catasta frutta o animali20. Io stesso ho osservato una croce d’arance in tutto simile a quella di Bottida innalzarsi sul falò di Esporlatu; non diversamente a Orosei sulla cima della catasta ricoperta di rosmarino e lentischio è collocata una croce con delle arance che i bambini cercano di raccogliere appena il falò viene acceso. A Lodè, invece, oggetto della contesa è un porcetto collocato in cima a un alto palo. Il falò è pronto per essere acceso. Nel pomeriggio ha luogo la messa. Al suo termine il sacerdote, esce dalla chiesa, accompagnato processionalmente dai chierichetti e da alcuni fedeli. Giunto nei pressi della catasta la benedice è spesso si incarica di darvi fuoco. Intorno alle fiamme non di rado i fedeli compiono alcuni giri. In alcuni centri della Barbagia, mentre le fiamme del rogo si levano ormai alte, i pastori fanno sfilare una rappresentanza delle proprie greggi intorno al fuoco. Altrove si fanno passare 125
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le greggi sulle braci residue. È il fuoco di Sant’Antonio a garantire gli armenti contro le malattie, a farli crescere sani e prolifici e ad aumentarne la produzione di latte21. Ma sant’Antonio è taumaturgo anche per gli uomini e, soprattutto nel passato, in diversi luoghi al termine della cerimonia si portavano in casa tizzoni semispenti tratti dal falò22. Altri comportamenti significativi da connettere alle proprietà positive ascritte alle fiamme cerimoniali sono appunto quelli di saltare sulle fiamme e le braci ovvero di girarvi o di ballarvi intorno. Va infine osservato che quasi dappertutto dopo l’accensione del fuoco viene contestualmente consumato del cibo. Non di rado dolci preparati dalle donne (che in questo modo prendono anch’esse parte attiva alla cerimonia) e carne di maiale arrosto o bollita con fave e altre verdure. Le modalità esecutive dei riti e le relative credenze non paiono, almeno a prima vista, assai diverse da quanto testimoniato nella letteratura folklorica tra fine Ottocento e prima metà del Novecento. Tra i documenti più interessanti vi sono un’ampia descrizione delle celebrazioni antoniane sarde di Lorenzo Valla e una pagina di Grazia Deledda. In essi si fa, tra l’altro, cenno all’uso di porre sul culmine della catasta dei frutti, di preparare dolci d’occasione, di girare intorno al fuoco insieme al santo e di far andare i cavalli attorno ad esso, di saltare sulle braci e di raccogliere tizzoni a fini terapeutici e protettivi23. Le fasi del rito di Bottida sono dunque non dissimili da quelle di molte altre cerimonie sarde attuali e scomparse. A fronte delle diffuse analogie va rilevato che da luogo a luogo emergono elementi differenziali: il tipo di combustibili, i tempi e i modi della raccolta, la quantità e le dimensioni dei falò, la benedizione o meno da parte del sacerdote, i comportamenti rituali legati al fuoco, la presenza di animali, etc. Eppure da questa multiforme realtà si ricava la sensazione che un intimo sostrato di credenze nelle virtù del fuoco giustifichi e unisca tutti questi riti. Il problema è semmai a quale livello collocare questo sostrato. Non è, a mio avviso, certamente riconducibile a un patrimonio di credenze specificamente sarde per cui la attuale ritualità festiva non farebbe che restituirci ampi tratti della religiosità nuragica come pure vorrebbero alcuni autori24. Molti tratti comuni alle celebrazioni sarde di Sant’Antonio abate si ritrovano, infatti, assai simili, quando non del tutto identici, almeno dal punto di vista fenomenologico, in numerosi riti antoniani del resto d’Italia. Accade a volte che attratti dalla vastità e complessità dei fenomeni localmente osservati, si trascuri di collocare le proprie deduzioni in una più 126
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ampia e doverosa, seppur con le dovute cautele25, prospettiva comparativa. Tra i pericoli di tale orientamento v’è quello di finire con l’enfatizzare come specifici, fatti che appaiono, pur non essendolo, peculiarità locali o regionali riducendo così il necessariamente ampio orizzonte interpretativo. I fatti culturali della Sardegna, così come quelli d’ogni altra regione italiana, rischiano di essere intesi limitatamente, se non fraintesi, quando non inquadrati entro un contesto storico-geografico almeno di rilievo euromediterraneo. Tale osservazione è ancor più radicale quando si tratta di fenomeni pertinenti la cultura tradizionale i cui portati affondano le radici in un passato che, se può sembrare lontano, vede le regioni prospicienti il Mare Nostrum e ad esso limitrofe percorse e abitate da popoli dalle comune origini26. Forse la storia non può dirci molto sulle funzioni assolte dagli attuali riti folklorici, sui loro significati contestuali, ma certamente, e non è poco, può dare ragione della presenza e della forma di certi fatti culturali. È inoltre un limite, comune a una ampia letteratura divulgativa, non solo in Sardegna, assumere i comportamenti rituali osservati solo come tracce di religiosità arcaica ignorando o trascurando il senso ad essi attribuito dai fruitori e le loro implicazioni sociali, le ragioni del farsi odierno del rito e le sue funzioni. Date queste premesse ritengo che la restituzione interpretativa di una singola cerimonia o di più cerimonie territorialmente circoscritte, non possa prescindere dall’esame di un vasto insieme di dati. Per comprendere il senso dei singoli comportamenti e credenze e la loro interna articolazione nella festa di sant’Antonio in Sardegna bisogna almeno tener conto, oltre che delle locali vicende storico-sociali, almeno di tutta la vasta cerimonialità dedicata al Santo abate al di fuori dell’isola e in primo luogo in Sicilia e nella Penisola Italiana. In tutta Italia per sant’Antonio era ed è infatti tradizione ampiamente diffusa quella di celebrare il Santo abate col bruciamento di grandi o piccole cataste di legna, accese, in genere, la sera della vigilia, e accompagnate da musiche, danze, pasti comuni. Altri tratti ricorrente sono quelli di impartire una benedizione collettiva agli animali, in particolare bestie da soma e allevamento, di saltare sulle braci, di raccogliere i carboni.. Sant’Antonio è ovunque ritenuto protettore dal fuoco e dagli incendi, e per associazione di idee dal “fuoco di sant’Antonio”, termine con il quale sono indicate diverse malattie cutanee e, particolarmente, l’erpes zooster27. Rinviando alla letteratura folklorica preesistente per quanto riguarda la descrizione e l’analisi di alcune significative cerimonie italiane28 osserveremo qui di seguito quanto avviene tutt’oggi in Sicilia. 127
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A Calamonaci in provincia di Agrigento la vampa (falò) accesa il 16 gennaio è tradizionalmente realizzata con fascine di ulivo e viti, cui si aggiunge la stoppia raccolta dalla ripulitura delle stalle. Eretta fino a qualche anno fa nel piazzale antistante la Chiesa Madre, lo è oggi in piazza Croce. Della raccolta della legna e della costruzione del falò si occupano oggi prevalentemente ragazzi tra i 10 e i 14 anni con l’aiuto di qualche adulto. In passato si registrava una maggiore partecipazione degli adulti. Dare e recare legna per il falò significava infatti assolvere a una promisioni (voto). In particolare poi la legna veniva offerta da parte di coloro che possedevano maiali affinché il Santo li proteggesse. Alcuni fedeli ricordano non a caso che: «la vampa era un segno di ringraziamento per fare crescere i maiali in buona salute». I ragazzi raccoglievano oltre che il fieno residuo delle stalle, tutto quanto potesse contribuire ad accrescere il volume della catasta. La legna veniva anche rubata. Il falò veniva costruito con particolare attenzione perché bruciasse in maniera omogenea. Quando il fuoco scemava gli uomini, giovani e adulti, raccolti intorno a esso cominciavano a saltarvi sopra. Saltare tra le fiamme era una prova di coraggio e serviva a farsi notare dalle ragazze. Altri più laconicamente osservano che si saltava «in segno di allegria». Oggi sono soprattutto i ragazzi che si divertono lungamente a ripetere questo gesto. I presenti, anziani, intere famiglie, si soffermano lungamente intorno alle fiamme osservando compiaciuti i giovani saltare sulle fiamme. Quando poi restano solo le braci viene arrostita della salsiccia che è consumata sul posto insieme a pane e vino. In passato le braci venivano raccolte dalle donne. In provincia di Siracusa a Cassaro, il santo viene celebrato il 17 gennaio con un falò (a farata) e una corsa di fiaccole per le vie dell’abitato (a ciaccariata). Dinanzi alla chiesa settecentesca di sant’Antonio viene predisposta in serata una catasta di fascine di rami di ulivo e di mandorlo esitati dalla potatura. La messa ha inizio alle 18.30. Il falò viene acceso poco dopo l’inizio della funzione e viene alimentato continuamente con nuove fascine29. Intorno al fuoco si raccoglie pian piano una piccola folla in attesa della fine della funzione. Molti sono i ragazzi, tra i 12 e i 18 anni, che recano una ciaccara, la tradizionale fiaccola di inflorescenze di ampelodesmo fittamente intrecciate. Ciascuno si approssima al fuoco; accende la propria torcia e va a disporsi su due file, ai bordi del Corso Umberto che discende dalla chiesa verso il centro dell’abitato. Sono le 19.30. La messa ha avuto termine. Chi ancora non lo ha fatto accende la sua ciaccara e si dispone lungo i cigli del Corso. Tutto è pronto. Ecco schiudersi le porte della chiesa e in controluce comparire il Santo. È un piccolo simulacro retto da quattro 128
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giovani, preceduto da un quinto con una campanella in mano. Esplode una “bomba” (colpo di mortaio). La campanella comincia a suonare. Esplode una seconda bomba, poi una terza. È ora la campana del tempio che rintocca (e che continuerà a suonare per tutta la durata della processione): è il segno. Accade tutto in un attimo. D’un tratto il Santo e i suoi portatori si precipitano giù dalla scalinata, si fanno sul fuoco e vengono lambiti dalle fiamme. Eccoli ora scendere rapidi tra le due ali di ciaccari infuocate fino a raggiungerne la testa. Un enorme corteo di ragazzi e adulti segue allora di corsa il Santo. La processione si snoda rapida attraverso le vie principali del paese che chiudono esternamente il centro storico quasi si volesse circondare il paese col fuoco. Le grida dei giovani e le acclamazioni al Santo si levano tra un respiro affannato e l’altro e si confondono con il suono ossessivo della campanella che, agitata da un devoto, annunzia il passaggio del fuoco processionale. Alcuni anziani si fanno dinanzi alle proprie case a salutare il Santo al grido Antoniu! e facendosi il segno della croce. Una sosta per riprendere fiato, qualche passo e poi di nuovo, di corsa, in salita. Giunti nei pressi della chiesa, a monte, l’ultimo scatto, di nuovo a lambire le fiamme, mentre esplode una salve di petardi. Tutti gettano allora quanto resta della fiaccola sulla farata per ravvivarla. Ora sant’Antonio si ferma al centro dello spiazzo antistante il tempio per assistere ai giuochi pirotecnici insieme ai suoi fedeli. Infine, sempre di corsa, il Santo rientra in chiesa. Così come in Sardegna in alcuni centri della Sicilia si registra l’uso di reiterare l’accensione dei falò in occasione delle celebrazioni in onore di san Sebastiano (20 gennaio) e, in qualche caso, di san Biagio (3 febbraio). Così a Burgio, antico centro della provincia di Agrigento, dove nelle tre diverse occasioni, con modalità assai simili ma in quartieri diversi del paese, ardono le vamparotti. In tutti i casi della raccolta della legna si occupano prevalentemente i ragazzi. Si tratta, oggi, soprattutto di rami di ulivo, ma anche di cartoni, di vecchi oggetti in legno e di tutto quanto possa contribuire ad accrescere il volume del falò. Differenti erano in passato il tipo e le modalità di reperimento del combustibile. Prevalentemente esso era costituito da fascine di legna d’ulivo e piccoli tronchi e veniva raccolta dai più giovani attraverso questua o ricorrendo al furto. Molti contadini, poi, portavano legna dai propri poderi perché bruciasse in onore dei Santi. Come viene sottolineato da chi ancora si occupa della realizzazione dei falò, in passato essi erano di dimensioni assai più ragguardevoli. Oltre alle modalità esecutive sono oggi cambiati i luoghi di accensione. Fino a pochi anni fa, quando ancora gli spazi antistanti gli edifici sacri non erano pavimentati, i falò venivano, infatti, 129
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accesi regolarmente dinanzi alle rispettive chiese. Quando il fuoco si esauriva, la brace veniva raccolta, generalmente da parte delle donne. Nel caso del falò di sant’Antonio in particolare viene ricordato l’uso di saltare sulle braci: «ccussì, pi tradizione che c’è di picciotti». In merito alla relazione intercorrente fra le celebrazioni di Sant’Antonio e quelle di San Sebastiano particolare interesse riveste la festa patronale di Tortorici nei Nebrodi centrali. I festeggiamenti in onore di San Sebastiano presentano diversi momenti cerimoniali: la sera del sabato e la mattina della domenica che precedono il 13 gennaio si svolgono rispettivamente una fiaccolata di torce di ampelodesmo e una processione di rami d’alloro30; il pomeriggio della domenica successiva ha luogo la commemorazione storica del rinvenimento delle reliquie del Santo e la distribuzione in chiesa di speciali panini devozionali; il 20 gennaio e la domenica successiva si svolgono infine le due solenni processioni della statua del Santo, caratterizzate dalla presenza dei nuri (uomini e donne votatisi al Santo che vestono per l’occasione completamente in bianco e percorrono l’itinerario processionale a piedi scalzi) e da corse e danze della vara (fercolo) al suono della banda musicale. In tutta evidenza, nel centro nebrodeo, il culto di San Sebastiano e quello di Sant’Antonio si sono inestricabilmente sovrapposti. La fiaccolata di Tortorici deve essere messa in relazione infatti con la processione di sant’Antonio abate che si svolge l’indomani contestualmente alla “dafneforia”. In passato, oltretutto, sembra che la processione di sant’Antonio abate fosse indipendente da quella dell’alloro. Quanto accade in occasione della processione delle torce merita comunque di essere più ampiamente descritto. Intorno alle 17.00 i fedeli, tra cui numerosi ragazzi, richiamati dal suono delle campane, cominciano a raccogliersi innanzi alla chiesa di Santa Maria. All’interno dell’edificio sono stati precedentemente raccolti i fasci di bura (ampelodesmo) che verranno distribuiti da alcuni membri del comitato organizzatore subito prima dell’inizio della processione. Man mano che si avvicina l’ora della distribuzione i ragazzi cominciano a far chiasso accalcandosi sulla cancellata che circonda la chiesa e cercando di forzarne l’ingresso custodito da alcuni anziani fedeli. I giovani gridano a più non posso: «ohooooo! ohooooo! a bura! a bura! a bura! a bura!». Finalmente i mazzi di cannucce cominciano ad essere distribuiti. Al centro della piazza viene intanto acceso un piccolo falò dove ciascuno si reca ad accendere il proprio fascio la cui cima viene successivamente attizzata battendola a terra. È tutto un caotico agitarsi di fiaccole. Il tamburo comincia a rullare e si avvia. 130
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Dietro di esso si comincia a disporre disordinatamente la folla. Una lunga teoria di fiaccole si inoltra per le vie dell’abitato percorrendone le strade principali a ritmo sostenuto e sempre accompagnata dall’incessante rullare del tamburo. Di tanto in tanto qualche adulto leva un invocazione al Santo: «E grazi san Bastianu grazi! E pi devuzioni i san Bastianu!». Dopo circa mezz’ora, accolta dal suono della campana, la processione ritorna al punto di partenza, la piazza Duomo. Ciascuno lancia quanto resta della propria torcia sul falò che vi arde al centro. Uno dopo l’altro i muzzuni vanno accumulandosi, formando presto una grande catasta fiammeggiante. Un operatore, armato d’un lungo bastone, aggiusta al meglio i mozziconi cercando di far ardere il fuoco in maniera vivace e omogenea. D’un tratto la folla si dispone circolarmente intorno ad esso ed ecco lanciarsi letteralmente tra le fiamme i più audaci. In prevalenza giovani tra i 20 e i 25 anni d’età. Senza alcuna protezione, neanche sui capelli, scompaiono per un attimo tra le fiamme uscendone indenni tra le grida di approvazione dei presenti e le acclamazioni al Santo. Sono numerosi coloro che sfidano il fuoco tornando a ripetere il rito dei padri. Alcuni saltano più volte, compiendo acrobazie, altri saltano in coppia. La fiamma comincia a scemare. È il turno dei più piccoli. Molti sono i bambini che saltano ripetutamente sul fuoco sotto gli sguardi compiaciuti dei genitori. Il fuoco finalmente si estingue e i bambini ne sparpagliano le braci ardenti con i piedi investendo la folla circostante. Le campane si arrestano. La festa è finita. Riprenderà l’indomani con la processione dell’alloro. Accade anche che i due Santi siano celebrati quasi in competizione. Così in provincia di Messina Santo Stefano Medio celebra Sant’Antonio e il vicino abitato di Santa Margherita San Sebastiano. A Santo Stefano Medio, piccola frazione di Messina alle falde dei Peloritani, la festa di Sant’Antonio abate che un tempo si svolgeva il 16 e il 17, si celebra il penultimo fine settimana di gennaio. Il sabato sera sul letto della torrente che divide in due l’abitato, ai piedi del ponte che collega le due parti del paese, viene acceso un grande falò, u focu i sant’Antoni (in passato il falò veniva innalzato nello spiazzale dinanzi al Tempio entro il quale è custodita la statua del Santo, la chiesa di S. Maria dei Giardini31). Ogni fedele ha contribuito con un ceppo, una fascina di rami. Alcuni hanno acquistato la legna, altri, qualche anziano, sono andati a far legna, su, nel bosco, come si faceva un tempo. Allora infatti richiamate dal suono della brogna (aerofono ricavato da una conchiglia), partivano intere squadre, attrezzate di cordame e asce, per svellere e trasportare a mano i grossi tronchi. 131
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La catasta di legna ha forma perfettamente conica, è alta 5-6 metri ed è costruita secondo il sistema della carbonaia ad opera di alcuni esperti del comitato organizzatore. Alla sua base presenta una bocca attraverso la quale verrà appiccato il fuoco. Sulla cima è innestata una croce che porta una targa con su scritto “W Sant’Antonio”. Dai bracci della croce pende una certa quantità di salsiccia a cui un tempo si aggiungeva anche una mezza testa di maiale. Su questo uso osserva un fedele: «Sant’Antoni è protitturi rî porci. Si va unni i macellai rannu a sausizza chi s’avi abbruciari in onore i sant’Antoni. A menza facci du maiali s’attacca ddà, â tabella “viva sant’Antoni” e si brucia tutto»32. Intorno alle 19.00 ha termine la messa. Il complesso bandistico, raccolto dinanzi al tempio, comincia a eseguire dei brani musicali. Alcuni rintocchi di campana. Si aprono, d’un tratto, le porte; la vara del Santo, preceduta dal sacerdote si fa avanti. La banda intona una marcia. Si appicca intanto il fuoco alla catasta. Le campane suonano e il loro ritmo viene interrotto, a tratti, da secchi colpi di mortaio. Percorso un breve tratto, il fercolo, preceduto dal sacerdote, giunge sul ponte. Le fiamme rosseggiano alte fuoriuscendo dagli interstizi dei grossi tronchi. Il sacerdote le benedice. Il Santo è lì, che osserva il fuoco acceso in suo onore. I fedeli si soffermano a lungo a osservare il falò che arde poi, quando Sant’Antonio fa rientro in chiesa, lentamente si ritirano nelle proprie abitazioni. In passato i tizzoni che restavano allo scemare delle fiamme venivano presi a mani nude e gettati in aria ricadendo sulla folla, in particolare su quanti cercavano di raccoglierli per portarli a casa33. Nel vicino paese di Santa Margherita, che sorge un po’ più a valle, il fuoco si accende per San Sebastiano l’ultima settimana di gennaio. Un comitato si occupa della raccolta dei fondi necessari allo svolgimento della festa, che si articola in due giorni. Il sabato si assiste all’accensione del focu i san Bastianu, la domenica alla processione del Santo per le vie del villaggio. La legna necessaria alla realizzazione del falò viene raccolta dai fedeli a partire dai primi giorni della settimana, mentre la vera e propria costruzione ha inizio il venerdì. Di essa si occupano alcuni componenti il comitato. Il falò, anche quì realizzato con le stesse complesse tecniche costruttive che presiedono la realizzazione del fussuni (carbonaia), presenta un palo centrale (un albero secco sul quale viene legata una bandiera italiana). La costruzione conica misura all’incirca 6 metri di altezza. Intorno alle ore 20.00 si da fuoco alla catasta. Appena accesa esplodono alcuni petardi collocati attorno al falò. Qui, come si osserva in numerosi altri centri, l’esplosione di petardi 132
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scandisce i tempi del rito. Rapidamente la grande pira si ammanta di fiamme, mentre gli organizzatori, allestiscono un grande braciere sul quale si preparano salsicce da vendere ai presenti. Fino a non molti anni fa anche a Santa Margherita era previsto che il Santo uscisse a vedere il “suo” fuoco. Quando le fiamme si estinguevano, le braci erano raccolte entro i bracieri dai fedeli e portate alle proprie case pi divuzioni. Venendo ora a elencare momenti e comportamenti costitutivi della cerimonia di Bottida, presa a esempio delle feste del fuoco sarde, possiamo facilmente osservarne le analogie con quanto accade in alcune feste siciliane e segnatamente in quelle appena illustrate della provincia di Messina. La catasta, unica, viene realizzata con legna di quercia da sughero a cura degli uomini tradizionalmente in prossimità di una chiesa; sulla catasta si erge una croce che reca infisse delle arance; nel corso del rito, precedentemente all’accensione del fuoco, vengono benedetti dei dolci tradizionali preparati per l’occasione dalle donne; alla cerimonia partecipano attivamente dei cavalli; il fuoco viene benedetto dal sacerdote; intorno ad esso i fedeli girano reiteratamente; il Santo viene posto in prossimità del falò; intorno al fuoco si consuma comunitariamente del cibo; tizzoni vengono raccolti per essere custoditi in casa; con essi ci si segna contestualmente sul viso. Non mi pare che si possano rinvenire tra quelli che sono stati individuati come tratti costitutivi, delle evidenti specificità rispetto ad altri contesti tanto sardi quanto siciliani. Il numero dei falò non pare significativo. In ambedue le isole esso varia da luogo a luogo in ragione di vicende locali. La pavimentazione di strade e piazze, la pericolosità del fuoco all’interno del centro abitato, lo sfaldarsi dei legami di vicinato o lo spopolamento di alcuni quartieri, sono tra le ragioni che non di rado hanno generato la progressiva concentrazione dei diversi falò in uno solo. In ogni caso, anche laddove tradizionalmente erano accesi più falò, spesso uno di essi, quello prossimo alla chiesa Madre o a quella dedicata al Santo, si veniva a costituire come il “principale”. È vero piuttosto che la composizione materiale dei falò sardi e siciliani si presenta assai diversa. In Sardegna tronchi e rami di alberi boschivi in Sicilia prevalentemente fascine di ulivo, sarmenti di vite, paglia. Sono però precise ragioni economiche e geografiche e non particolari esigenze rituali a fare la differenza. In Sardegna un economia pastorale e la presenza di vaste aree silvicole, in Sicilia un’economia prevalentemente agraria con campi di grano, uliveti, agrumeti, vigneti. Non a caso, laddove si osserva ancora la prossimità del bosco, come a Santo Stefano e Santa Margherita, ritroviamo in luogo delle fascine, tronchi e rami. Anche la 133
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presenza di elementi vegetali o animali sulla cima della catasta o del palo centrale non è tratto peculiare della Sardegna. La si ritrova in tutta Italia e non solo in occasione di Sant’Antonio. Essa può essere certo interpretata come traccia di un’arcaica offerta sacrificale ma è a un tempo il simbolo della natura che consumata dalle fiamme rinascerà a nuova vita. È anche simbolo della divinità, garante appunto del tempo e dello spazio, che muore e rinasce. La partecipazione del Santo al falò lui dedicato è non a caso elemento ricorrente. Il simulacro del Santo, cioè il Santo stesso34, è spesso presente in prossimità del falò. Quello che poi sorprende è la similarità delle pratiche volte a realizzare una intima comunione con il fuoco: dal contatto con le braci ardenti al salto attraverso la fiamma. Analogamente può dirsi della raccolta delle braci e delle credenze e pratiche ad esse connesse. Lo stesso girare intorno al fuoco (o al tempio, ma è evidente l’identità che nei riti viene istituita tra tempio, santo e falò) è tratto che ricorre al di fuori della Sardegna e ad esso sono riferibili le danze attorno o in prossimità delle fiamme. Secondo l’opinione corrente, a Bottida e in altri centri della Sardegna, questo movimento sarebbe connesso al “legare” e allo “sciogliere” il voto contratto con il Santo. Altri fanno riferimento alla funzione terapeutica del fuoco in specie per i disturbi dell’apparato digerente. E’ comunque evidente la relazione di questo gesto con i rituali di circumambulazione attestati nel passato come oggi in numerosi contesti rituali europei ed extraeuropei35. Sono comunque salti, danze, giri, raccolta dei carboni, tutti comportamenti volti a entrare in contatto con le vampe sacre. Il loro potere benefico, purificatore e fecondatore, consente una catarsi e un rafforzamento delle energie individuali e collettive e permette agli uomini di accostarsi al divino che attraverso la fiamma si manifesta. Quanto osservato per gli uomini vale anche per gli animali. Anche essi, compagni irrinunziabili del lavoro dell’uomo e importante fonte alimentare, necessitano di una periodica catarsi, di un potenziamento delle loro difese contro le malattie sempre in agguato. In ultimo va osservata la consuetudine diffusa un po’ ovunque di consumare comunitariamente del cibo, a volte ritualmente preparato. È il pasto sacro, il sacro banchetto di comunione tra uomini e uomini e tra uomini e dei. Come ha sottolineato Van Gennep «la commensalità, o rito di mangiare e bere insieme […] è chiaramente un rito di aggregazione di unione propriamente materiale, un “sacramento di comunione”. Non a caso la commensalità è reciproca: si verifica allora uno scambio di viveri, il che costituisce un rafforzamento del legame»36. Un rito di comunione che è altrimenti auspicio di benessere. La grande quantità di cibo ritualmente consumato garantisce 134
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infatti nella comune opinione abbondanza per tutto l’anno. L’ostentazione di cibo sottende di fatto ancora oggi nei contesti agropastorali «modalità arcaiche di esorcizzare l’insicurezza e le ristrettezze del vivere quotidiano. Non dimentichiamo infatti che il cibo, in quanto simbolo vitale e rigenerativo, assumeva in antiche società “il valore di una rifondazione simbolica e augurale di un nuovo ciclo” e propiziava una condizione di vita caratterizzata dalla pienezza e dalla abbondanza per tutti»37. I cibi dunque rivestono un valore che va assai al di là della loro funzione di alimenti. Il cibarsi di determinati alimenti in occasione della festa non serve a nutrirsi: Il consumo di speciali cibi rituali aveva anche la funzione di «rendere partecipi se stessi e non solo se stessi ma anche i propri familiari e gli oggetti della propria economia domestica delle forze e delle potenzialità che si attribuivano agli animali mangiati»38. Non è certo un caso che spesso in occasione della festa di Sant’Antonio abate si consumi il maiale che è animale caro al Santo, è, simbolicamente, il Santo stesso. Ma il Santo sono anche, a Bottida come altrove, i dolci benedetti due volte; in chiesa dal Sacerdote e, successivamente, dal loro contatto con la fiamma-dio. Alla luce di quanto osservato può dirsi che molti dei tratti delle feste sarde, per fermarci solo alle feste di Sant’Antonio, ricorrono in un’assai più ampia area geografica. Non può dunque parlarsi di una specificità isolana ma della partecipazione a una comune langue di cui le peculiarità di volta in volta assunte dai singoli riti si pongono come atti di parole. Le motivazioni, le credenze, le pratiche dei fedeli tanto sardi che siciliani non differiscono considerevolmente e non diverse sarebbero le considerazioni allargando il discorso al resto d’Italia. Non voglio certo sostenere, forzando gli stessi dati da me presentati, una assoluta identità tra i diversi riti. Dappertutto comunque la condivisione del fuoco, la sua identificazione con il Santo. Che siano i fedeli a girarvi intorno o il fuoco a girare intorno ad essi, come nelle processioni di Cassaro e Tortrici, l’importante è entrare in contato con esso, con la sua forza sacrale. Così i salti, le danze intorno al fuoco, le segnature con ceneri e tizzoni, sono pratiche volte alla conquista di una catarsi individuale che diviene nella generale condivisione catarsi comunitaria e in ultima analisi cosmica. È chiaro infine come tutte queste celebrazioni rinviino a rituali di rifondazione della natura, del tempo, della società. Esse sono momenti costitutivi di feste di Capodanno, episodio critico dell’orizzonte esistenziale contadino. Capodanno che, nel vissuto delle società arcaiche a economia agropastorale di cui il nostro calendario di festività porta ancora ampia 135
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traccia, non era riconducibile a una data precisa, piuttosto era connesso a un particolare momento di passaggio del ciclo agricolo o stagionale. Il “capodanno” veniva comunque spesso a cadere nel periodo che va dalla seconda metà di dicembre alla prima metà di gennaio. Non a caso però. È questo un periodo in cui si assiste a un radicale mutamento climatico: l’inverno si manifesta in tutta la sua forza e la natura subisce evidenti trasformazioni. Ecco allora celebrate in questi giorni ancor oggi in tutta Europa numerose festività (Santa Lucia, Natale, San Silvestro, Epifania) la cui simbologia è in parte riconducibile, al di là della cornice cristiana, a più arcaiche celebrazioni. Lo stesso può dirsi per Sant’Antonio abate. È altresì vero che la figura del Santo abate, almeno così come costituitasi nell’immaginario folklorico, presenta delle specificità che la connettono più direttamente al fuoco. Suoi attributi, ricorrenti nell’iconografia e nelle leggende che lo vedono sottrarre il fuoco al demonio per donarlo agli uomini39, sono appunto la fiamma e il maiale. Tali attributi, «chiaramente legati a divinità infernali»40 a parere di alcuni autori, mettono in evidenza la natura infera di sant’Antonio. Greimas sottolinea i legami dell’intera razza porcina con i rituali funebri e il culto dei morti e le affinità tra i maiali e diverse divinità ctonie costanti in tutte le mitologie indoeuropee. Troie sono offerte alle divinità ctonie in Grecia e a Roma e anche in Lituania41. A tale proposito va segnalata la consuetudine, diffusa in passato in varie regioni d’Italia, di allevare uno o più maiali a spese dell’intera comunità. Maiali che potevano circolare liberamente per il paese e venivano venduti o macellati il giorno del Santo. In ogni caso la figura del Santo così com’è vissuta a livello popolare (e come la sua, quella di molti altri Santi cristiani), è il frutto di un lungo accumulo mitico che ne ha amplificato i tratti nelle molteplici associazioni possibili con la sostanza ignea. Come ha osservato Di Nola nell’immagine del fuoco attribuito a sant’Antonio si sono cumulati motivi di diversa origine e natura, consentendogli di assumere i tratti di un signore del fuoco che ne domina il potere ambivalente e ambiguo42. Aldilà della fondatezza di queste opinioni in merito all’accumulo mitico realizzatosi intorno alla figura del Santo abate va comunque ribadita l’estensione di numerose pratiche rituali presenti nelle cerimonie a lui dedicate ad altre celebrazioni la cui radice comune risulta evidente. Un mondo antico si è frammentato e rifunzionalizzato nelle feste cristiane. A molti degli arcaici simboli rituali che continuano ad animarle sono stati sottratti gli antichi significati. Non sempre però e forse meno spesso di quanto non si sia comunemente portati a credere. L’apparente disordine dal 136
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quale, a volte, le cerimonie folkloriche paiono afflitte non fa infatti «che accentuare l’autenticità delle componenti, l’incredibile ostinazione di certe immagini a sopravvivere e a sopravviversi»43. A livello più o meno cosciente il senso di certe pratiche così come la loro morfologia permane dunque immutato nei millenni. Così è per molti dei fuochi cerimoniali. Qualsivoglia sia il significato e la funzione primaria che può ascriversi al falò in ciascuno dei diversi contesti, appare infine chiaro che il suo uso rituale è pertinente una visione del mondo propria delle civiltà agropastorali e della loro peculiare modalità di discretizzare lo spazio e il tempo. Abituati per millenni a vivere a stretto contatto con la terra e da essa a trarre sostentamento, gli uomini hanno sempre prestato attenzione alle periodiche trasformazioni della natura, al succedersi delle stagioni, alla ciclica morte e rinascita della vegetazione, al progressivo declinare e risorgere degli astri. Hanno tentato di esercitare su questi fenomeni, avvertiti come dipendenti da potenti entità sovrannaturali, una qualche forma di controllo e si sono adoperati pertanto attraverso complessi riti a garantire i passaggi e le trasformazioni di status della natura. Il fuoco è chiamato a marcare con la sua presenza l’aprirsi di un tempo nuovo sia in relazione al periodo festivo cui prelude sia in relazione al tempo che a questo ciclo cerimoniale farà seguito. Le feste caratterizzate dall’accensione di falò rituali, possono dunque essere intese come riti di passaggio, cerimonie originariamente dirette a rifondare il ciclo dell’anno e con esso la vita stessa della comunità e degli individui. Potrebbe obiettarsi che i sistemi di produzione e la visione del mondo ad essi correlata all’interno della quale questi riti trovavano la loro ragion d’essere sono ormai tramontati. In parte ciò è vero. Se queste cerimonie continuano a perpetuarsi vi sono però ragioni precise. In ambito folklorico sono vive ancor oggi l’esigenza di credere in realtà extra-umane (i santi, i defunti, gli spiriti, etc.) e la convinzione di potervi entrare in contatto in certi luoghi e in certi tempi, e di poter far questo solo seguendo peculiari comportamenti, secondo precise modalità sancite dalla tradizione, cioè di comprovata validità proprio perché antiche (una particolare forma di quella che pur prestandosi a numerosi fraintendimenti può dirsi la “forza della tradizione”). Alla forza iterativa delle strutture formali dei riti, alla radicata tendenza da parte delle società a conservare e tramandare quanto si dimostri di provata efficacia, all’intenso bisogno di sacro nell’inesauribile ricerca di senso alla propria esistenza, si aggiunge poi, oggi più di ieri, la precisa volontà delle singole comunità di riconoscersi e affermarsi attraverso la propria cultura. La 137
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ragione della permanenza di tratti culturali arcaici è quindi anche da ricercare nel desiderio di confermare la propria specificità e con essa il senso stesso del proprio esserci minacciato da rapide quanto traumatiche trasformazioni44. NOTE: 1
Basti ricordare le pagine che all’argomento hanno dedicato Frazer 1973; Mannhardt 1875, 1877; Van Gennep 1947, 1949, 1958; Westermark 1913, 1935. Cfr. anche Alcantud González J. A.- Buxó Rey M. J. 1997. 2 Tra la numerosa bibliografia segnaliamo: Bronzini 1962, 1982; Rossi-De Simone 1977; Clemente 1984; Marano 1997; Tak 1999. 3 Buttitta 1999a e 1999b. 4 I falò cerimoniali della Sardegna sono stati oggetto di vari studi. Ricordiamo qui: Alziator 1963; Delitala 1972-73; Angioni 1972; Satta 1982; Lanternari 1984. 5 Lo spostamento del falò e della funzione dedicati al Santo pare sia da addebbitarsi a ragioni di sicurezza. 6 Il comitato è stato istituito da circa dieci anni. Esso, guidato da un ovriere, rieletto ogni anno in occasione della festa. Egli ha il compito di curare l’organizzazione della cerimonia e di procurare la legna necessaria al falò. In precedenza la festa veniva gestita a turno dalle cinque famiglie (poi divenute tre) più “importanti” del paese. 7 Lo stendardo e l’ardia in passato erano oggetto di una gara equestre che si teneva al termine della sfilata dei cavalieri intorno al falò. Sui rituali dell’ardia cfr. Atzori 1988 e 1990. 8 Mi viene raccontato da alcuni dei presenti che in passato era costume cospargersi di ceneri l’intero volto. 9 I dolci sono confezionati e poi distribuiti ai presenti per assolvere a un voto contratto con il Santo, in particolare in caso di ustioni. 10 Va rilevato che una comunità di Goceanesi (alcuni dei quali provenienti proprio da Bottida), insediatasi a Sassari nella recente borgata periferica di Li Punti, la sera del 16 gennaio da vita, da circa 13 anni, a un rito analogo. Un grande falò, alto 7/8m. e recante all’apice una grande croce di rami, viene acceso alle 19.00; intorno ad esso sfilano alcuni fedeli recanti dolci; a tarda sera si mangia collettivamente una zuppa, la favata, a base di fave, cavolo, patate, cotenna di maiale (tale zuppa si consuma nella stessa occasione in diversi altri centri). 11 Delitala 1972-73: 30. 12 Non a caso il mese di giugno viene tradizionalmente indicato come lampadas. 13 Bresciani 1850: IV 106-109; Moretti 1971: 462; Delitala 1971a: 447; Delitala 1971b: 468; Delitala 1972-73: 30-31; Angioni 1972. 14 Informazioni tratte da una relazione di Eugenio Pischedda, studente di Etnostoria del Corso di Diploma in Beni Culturali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Sassari (A. A. 1998-1999). 15 Delitala 1972-73: 30. 16 Ibidem. 17 In altri centri dell’isola quali Abbasanta, Bosa, Fluminimaggiore, Aidomaggiore, i fuochi sono tradizionalmente plurimi, in genere accesi uno per ogni rione o quartiere del paese.
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Della Maria 1963: 352. Informazioni tratte da una relazione di Stefania Cossu, studentessa di Etnostoria del Corso di Diploma in Beni Culturali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Sassari (A. A. 1998-1999). 20 Satta 1982: 60. Ricorda inoltre la Satta che in antico «sulle cataste venivano anche appesi animali vivi e, in particolare, sorci, rettili, ecc., che erano stati catturati durante la raccolta della legna» (Ibidem). 21 Satta 1982: 62. 22 Il carbone che se ne otteneva veniva conservato e utilizzato contro i dolori del ventre. Le ceneri erano considerate inoltre efficaci contro l’herpes zooster, “il fuoco di Sant’Antonio”. In alcuni luoghi poi i tizzoni venivano aggiunti al fuoco domestico per proteggere la casa da fulmini e incendi. 23 Valla 1894; Deledda 1895. 24 Alziator 1963; Cherchi Paba 1963. 25 Cirese 1997: 154 ss. 26 Grant 1983; Braudel 1987 e 1998 27 Di Nola 1976: 232 ss. 28 A Sorbara di Asola in provincia di Mantova, per Sant’Antonio abate, ogni anno si ripete il rito del bruciamento del burièl, una grande catasta sulla cui cima troneggia “la strega” (vècia), un pupazzo in abiti femminili (Azzoni 1982: 254). In Liguria il 17 gennaio si accendevano nelle piazze dei grandi fuochi intorno ai quali si danzavano alcune danze tradizionali, quali la “riunda” e la “moresca” (Scrivano 1972: 68). In Abruzzo si accendevano, e in qualche caso si accendono ancora, nei crocicchi o sui piazzali delle chiese, i focaracci o focaroni, cataste di legna raccolta dai giovani attraverso questua (Toschi 1969: 31; Di Nola 1988: 146; Marini 1971: 127). In questa regione i fuochi, oltre che per il santo Abate, facevano la loro comparsa in qualche caso per San Sebastiano e san Biagio (Priori 1961). Un rituale interessante è quello di Fara Filiorum Petri, piccolo centro in provincia di Chieti. Qui il 16 gennaio in onore di Sant’Antonio abate, dinanzi alla chiesa intitolata al Santo, bruciano le farchie, fasci di canne alti da cinque a oltre 10 m (Giammarco 1965: 168172; Di Virgilio 1989: 8; Mirizzi 1982: 109; Finamore 1890: 97-98). Pure in Campania la festa di sant’Antonio abate era ed è segnata dall’accensione di falò (Amalfi 1894: 293-295; Algranati 1971: 149; Rossi-De Simone 1977: 61; Lanternari 1988: 153-154). In Puglia, a Novoli, in provincia di Lecce, l’accensione delle fòcura è il momento rituale culminante della festa di Sant’Antonio. Il falò viene costruito in forma di enorme cono, con un ramo d’arancio posto in cima, da cui pendono alcuni frutti e a cui si intrecciano delle spighe di grano; nel mezzo sta l’immagine di Sant’Antonio (Cattabiani 1994: 26; Bronzini 1971: 177; Rivera 1988: 202-203). 29 Chi si cura del reperimento della legna sono oggi i membri del comitato organizzatore. Un tempo la legna veniva raccolta per questua. 30 Sulla processione dell’alloro a Tortorici si veda Buttitta 1992: 55-57. 31 Come denunziato dallo stesso nome dell’edificio, era questo un tempo circondato da aree coltive (prevalentemente agrumeti) e non come oggi da abitazioni che il fuoco potrebbe danneggiare. 19
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“Sant'Antonio è protettore dei porci. Si va dove i macellai danno la salsiccia che si deve bruciare in onore di sant'Antonio. La mezza faccia del maiale si attacca là, al cartello ‘Evviva Sant'Antonio’ e si brucia tutto”. Antonio Caponata (ril. 21/1/95). 33 “Una volta si usava anche, che c’era molta gente capace, che aveva un po’ più le mani dure e prendeva i tizzoni, si tiravano uno addosso all’altro, a falò inoltrato. Famoso è stato l’episodio quando la buonanima oggi di Peppino Brancato, dittu Pippinu Baullu, ci tiraru un muzzuni, chi c’arrivau nti naschi, pi diri nti mussa, o nni labbra come si suol dire; lui poveretto per tradizione disse ‘evviva a sant’Antonio!’: ha sopportato quello che è stato” (Antonio Caponata, ril. 18/1/97). 34 Buttitta 1999d. 35 Per la diffusione di questo comportamento nelle cerimonie del fuoco e sui loro possibili significati cfr. Buttitta 1998: 680 ss. Per la diffusione in ambito indoeuropeo cfr. Sergent 1996: 366-367 36 Van Gennep 1973: 25 37 Giallombardo 1990: 43 38 Propp 1978: 65 39 Ferraro 1893; Valla 1894a e 1894b; Bottiglioni 1922: 62-63; Piccaluga 1963; Maticetov 1968 40 Rossi-De Simone 1977: 61. 41 Greimas 1995: 30-31. Cfr. Piccaluga 1963: 244-245 42 Di Nola 1976: 183 ss. 43 De Santillana 1985: 165. 44 Buttitta 1999c.
BIBLIOGRAFIA: Alcantud González J. A.- Buxó Rey M. J. 1997 (a cura di), El fuego. Mitos, ritos y realidades (Atti del Convegno, Granada 1-3 febbraio 1995), Granada Algranati G. 1971, Caratteri generali, in Lombardi Satriani L. M. (a cura di), Santi streghe e diavoli, Firenze, pp. 147-152 Alziator F. 1963, Tracce di rituali pagani nella tradizione popolare sarda, in “Atti del convegno di studi religiosi sardi (Cagliari 24-26 maggio 1962)”, Padova, pp. 225-234 Amalfi G. 1894, Sequenza di sant’Antonio, in “Rivista delle tradizioni popolari italiane”, marzo, fasc. IV, pp. 293-295 Angioni G. 1972, La ricorrenza di san Giovanni Battista in Sardegna. Risultati di un’inchiesta diretta, in “Rivista di Etnografia”, n. XXVI, Napoli, pp. 1055, 1111, 1159, 1169 Atzori M. 1988, Cavalli e feste.Tradizioni equestri della Sardegna, Sassari Atzori M. 1990, Il Santo cavaliere e l’ardia. La festa di San Costantino a Pozzomaggiore, Sassari Azzoni A. 1982, Folklore Asolano, in Barozzi G. - Beduschi L. - Bertolotti M. (a cura di), Mantova e il suo territorio, Milano, pp. 248-255
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SABINA ISPAS ● The symbol of Light in the Romanian popular tradition of Christmas
THE SYMBOL OF LIGHT IN THE ROMANIAN POPULAR TRADITION OF CHRISTMAS Sabina Ispas
I shall make some remarks on information felt to be significant for the transition from the archaic outlook on „fire as a deity”, familiar to polytheism, to the vision of „fire as a means of communicating with the divinity”, provided by the text of the Old Testament, and to the concept of „god/light” of the New Testament. The latter concept is dramatically represented by the fire lit in the hearth in the Christmas night and by the ritual of light in the Easter night. Light is „a radiation or complex of electromagnetic radiation visible to human sight”, having a twofold aspect, corpuscular and undulatory”. It exerts caloric, chemical, photoelectrical and photoluminescent effects and pressure on a surface which reflects or absorbs it (1). The opposite of darkness, it renders things visible and also expresses the concept of absolute knowledge of all kinds, from the angle of science, metaphors, symbols, revelation etc. In the Romanian language and culture, the term lumină (light) is endowed with a complex of meanings and significations which often relate it to the religious act, to the ritual gesture and to the presence of the sacred in everyday life. Form the Latin luminare, the Roman language created words connected to light producing, brightness, guidance, as well as to education, learning, instructuion. The Latin lumen (meaning „light”) acquired a constellation of sygnifications in Romanian: the totality of things existing in universal reality, the cosmos, lumea; brightness life, but also glory, fame, ornaments, sights, the whole humankind, lumea de apoi, lumea celorlalţi (the next/other world), lumea albă şi lumea neagră (this world and the underworld) a.s.o. The newborn „sees thel light of day” when coming into world. An outstanding person is said to „come to light”. In contrast to Romanian, other Romance languages inherited phrases using the Latin mundus(3). 145
SABINA ISPAS ● The symbol of Light in the Romanian popular tradition of Christmas
The creation of the world in Genesis is said to occur within six days. Light, called day, is created on the first day. It is “the very essence of light”. Only on the fourth day was Sun created, that is the “chariot bearing the light” (St.Athanasius). The “light givers” (the sun, the moon, the stars), as well as the Sea, which stands for life with its everyday turmoil, will disappear, according to the Apocalipse, as God will be their light (1.12). Studies devoted to traditional or archaic cultures paid particular attention especially to “luminaries” (the sun, the moon, the stars). Ethnologists interpreted them as autonomous deities, of great importance, integrated to mythological Indo-European or other systems. For the Romanian traditional culture, these aspects are highly important, to understand the structure of religious thought and its expression in the system of rituals, faith and practices. Light is a fundamental reference point in understanding that culture. Representations of light as a symbol of Godhead are expressed by three types of structures in traditional Romanian culture: the fires (wood piles burnt throughout the year), the votive lights and the candles. I shall not discuss philosophical or alchemical views related to the four elements (water, fire, air and earth), since they come from a segment of the theoretical thought little recorded in oral cultures. I shall use as starting point a text well known by human communities for several thousands of years, well represented in written variants and assimilated by all types of societies, The Old Testament. All light prefigurations identified in the Old Testament associate it to means of communication used by God to impart His will to the humans. In the text of the New Testament, He manifests himself in the substance of no created energy, an event imparted to the human by means of the Transfiguration on Mount Tabor. The traditional Romanian culture preserves all these forms of expression with a signification fundamentally attached to the Christian outlook. From the very beginning, Christians called themselves “sons of light”, Jesus Christ is “the light of the world”, Saint John the Baptist and Forerunner and the apostles are “luminaries” of the people; God is “light” and “lightgiver”. In my opinion, the Romanian traditional culture expresses the Christian outlook, regarding the relations between God-Light - Sun. According to Saint Basil the Great:” after Sun’s creation, the day means that air is lit by the sun, when the sun shines over the hemisphere of the Earth, 146
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and the night means that darkness covers the Earth, when the sun hides. But at that time, day was followed by night, not due to solar motion, but because light, first created in an amount decided by God, was now disseminated, now restricted” (4). The sun, created prior to man, is considered holy in Romanian tradition, not a deity but a creation of God. It is holy because it “imparts light and warmth to the earth, it is not wicked, it treats people equally, gifts are bestowed by him”; the sun and the moon are “God’s eyes which give light to the earth”; the sun “is a holy thing of God”; “if the sun ever disappears, Christ takes its place and shines (5). The votive light (candela) also a bearer of light, is a constant presence in tradition, being especially associated to the rituals of the cycle of family life and to protective practices. The text of the Old Testament shows that God used it to impart His will to the humans. One of the miracles celebrated at Hanukkah is the fact that a menorah burnt for eight days using a single bottle of consecrated oil. (6). The oil burnt in the votive light is the substance of Chrism anointing and of the unction. Its presence in Temple services is recorded in the chapter about the “altar of sacrifice” (7). The votive light and the candles are always present in churches, houses, close to cemetery crosses, at crossroads. They provide protection against natural calamities and devil’s aggression and are lit during great festivals. The candle, called lumânare or lumină (light) is a guide for those who receive the holy sacraments of Baptism, Wedding and Extreme Unction and for the deceased, who departed on their “last journey”. The lit candle watches over the dying man; the toiag or “măsura mortului’ (long wax candle equal to the height of the dead person) burn for the dead person’s forty days after the death to help gradual detaching from this world. Candles accompany the food shared to commemorate the dead. The texts of folk legends tell us that a candle is made up of a bees wax “body”, representing the Holy Virgin, and of the flame which symbolizes Jesus Christ. The momentous events which concentrate the presence of light-bearing elements and focus the systems of popular customs are the great festivals related to Jesus Christ’s life – Christmas and Easter – and to the foundation of the Church, Whitsundey. A crucial moment in perceiving light and fire in Eastern Christianity is the rite of the “holy light” which, according to tradition and contemporary 147
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legends descends on the Holy Sepulcher in Jerusalem on the Saturday of the Resurrection. This light was perceived by witnesses as “a cold light” which “does not burn”, in the first instants of its emergence. This light has been recorded ever since the ninth century and there are ever earlier prefigurations. The presence of light in the Easter Vigil was mentioned by a Christian woman who traveled from the North of Spain or West of France to spent Easter in Jerusalem in A.D. 384 (Peregrinatio Egeria) (8). The presence of the “non-created light” shining on the Holy Sepulcher of Jerusalem has being known by the Romanian faithful and pilgrims for hundreds years. It is heralded by some ritual acts of kindling fires during the seven-week Lent. Fires are first kindled at the beginning of Lent; on Maundy Thursday, when all dead are commemorated, fires are kindled in courtyards and cemeteries; in the Easter night, a fire is kindled in the churchyard. All these are sacrificial fires, channels of communication between God and the humans. The climax is the presence of God-light, during the mentioned ritual of the holy light. The new fire of the Paschal festival emerges from the stone which is Jesus Christ’s sepulcher. In the dead of night, when darkness reigns, the fire that kindles the paschal candle and symbolizes the birth of a new life is the divine presence Itself. I do not agree with the association between Jesus and the Sun, a deity worshipped by non-Christian cults. In my opinion, Jesus is assimilated to “non-created light”. The phrase “sun of justice” refers to the symbol of the “bearer of justice”, who imparts it and not to a solar deity. The ritual practice of kindling fires or wood piles with a view to purifying, getting protection and ensuring fertility, is known in almost all cultures. The fire is viewed as a first-class divinity in many archaic cultures. From the available information, we infer that the study of the relations between fire-light-deity, analyzed from a Christian angle, have been performed at random, in non-specific contexts, by contemporary specialists, concerned with the pre-Christian folklore archeology. In my opinion, fire kindling in Romanian traditional practice is not related to the date of equinoxes, as it is in archaic cultures. I even think that the age-old significance of kindling fires to recall incinerations rites or the worship of the Sun or the Fire has been long forgotten (9). Fires based on burning plants are kindled on a great many Christian feasts: Saint.Andrew’s feast (the night of November 30), Christmas (the night of 24 to 25 December or of 25 December), Saint Basil’s feast (the night of December 31 to January 1), the beginning of February for Gurban (Vineyard Festival), The Forty 148
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Martyrs of Sevastia (on March 9), the Annunciation (on March 25), Saint George’s day (on April 23, when the “living fire” is kindled; the sacrificial fire should be clean, it may be natural-descended from heaven under the form of thunder, or may be produced by rubbing two flintstones), Saint Demeter’s day (October 26). Fires are also kindled during movable feasts (whose date is calculated according to the phases of the moon, in relation to Easter): the beginning of the Lent, Palm Sunday, Maundy Thursday, the Resurrection night, the Easter of the Blajini (second Monday after Easter). The ritual act of kindling fires is related to the celebration of the most important Christian feasts: the Nativity and Resurrection of Jesus Christ, the commemoration of the apostels, holy martyrs and preachers. The first Christian communities were founded in dramatic circumstances and the conversion to the new faith was an act on “enlightening”. The complex of ritual gestures which result in piling wood and kindling the fire is carried out in order to get a communication channel with the transcendent in a moment of climax of the sacred; the fire and the pile are not deities but material means used by the divinity to impart His will to the humans. That “model” was first revealed to those freed from the captivity of Egypt, when the law was given. The direct contact of man and God was stamped on the face of Moses, so that everybody could recognize him as one of the chosen. The cloud and the fire in the Holy Writ are signs of God’s presence close to man, but they are not deities themselves. God made use of winds, tempests or fire to be revealed to people, in the same way in which he uses angels. The ‘Lives of the Saints” mention that light appears in the vicinity of the holy men under the form of fires or fire pillars. The fire is one of the first signs used by God to communicate with the released people and to impart them the laws meant to set order to their lives. Such are the rules of the sacrifice altar. The image of fire as a “communication channel” of man and God is a constant presence in the text of the Old Testament, the same as the existence of the votive light in front of the altar. Fire bears light at night and it is a witness of the communication between creation and creator: ”The fire is a beneficent angel”. The book on Solomon’s Wisdom in chapter 16, records several values of fire as God’s messenger, easily to be identified in traditional ritual practices related to the kindling of fires, their purpose and meaning:
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“The infamous… were beaten with the power of your arm: awesome waters, hail storm and unmerciful rains… the flame of fire finished them…the fire was burning even stronger in the water that all extinguishes…and snow and ice suffered the fire that all extinguishes…and again the same fire left its powers, a feed the rightful ones”. Fire is a protector, a chastiser, a bearer of messages, an instrument of communication. These values are identified in Romanian traditional rituals. Fire-light, under the form of the burning pile, and the smoke rising to heaven, represent communication channels between the transcendent and the community and sacrificial instruments. Gestures preserved since the time of early Christianity are still present today. However, light present during Christmas celebration belong to another sequence of knowing godhead. On Christmas, light is present in the life of every household by the agency of fire – the log kindle in the hearth in the evening of December 24 or in the morning of December 25, called Crăciun, of the candle lit in the evening and burning till dawn, and of the votive light, a permanent light and sacrifice in the traditional house. The traditional text of carols records the ritual gesture by which householders got ready to greet the group of carol-singers, harbingers of the Nativity: ”Get up master of the house/ Kindle a big, big fire/And light a candle/ Set it between icons/ For carol-singers should come/ At mid-night, when the cock crows”. The circumstances when light is lit under the form of candles or fires always involve a vigil. Keeping awake helps humans be always ready to get in touch with the transcendent. The vigil is often preceded by purification acts (fasting, ablution, confession) or by observing some norms relative to the quality of the vegetable matter to be burnt, the way it is collected, where and how it is stored, etc. [10] In the rituals of Christmas celebration, the divine presence manifests itself in Its essence, by imparting Its resplendent “glory” to people by means of light. Light no longer symbolizes the “channel” allowing the contact between man and God, as the Old Testament specified. It is the very symbol of God’s presence, embodied in the newborn, called Jesus. Light is “divine illumination”, “real aspect of godhead”. Divine light has no allegorical and abstract meaning. It is a datum of mystical experience. The “Gnosis”, the knowledge of godhead is experiencing non-created light. Experience itself is light: in lumine tuo videbimus lumen (In your light we shall see light). This light “changes into light the people enlightened by It”.
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In The Third Treaty of the First Triad against Varlaam St.Gregory Palama says: ”The Son of God united not only His godly hypostasus […] with our nature, assuming living body and a rational soul and showing Himself on earth and living among people[…].His body spring the fount of the light of grace, gave outward light to the deserving people who came near Him and light penetrated their soul by means of the sensitive eyes{…} light which truly gives light to the angels and to the humans, the same as to angels, is God Himself, who, being truly an unspoken light, appears as light and changes into light the people with a pure heart. That is why He is also called light […]”. [11] The above texts include an essential element for the understanding of the complexity of the concept of light, deciphered in the dramatic evolution of the Christmas rituals: the identity of the angels. The seventh Ecumenical Synod accepts the incorperealness of angels. Bishop John of Thessaloniki asserted that the rational powers (the angels) are endowed with fine, aeriferous bodies, or fire bodies, in which they appear and which underlie their representation in painting; God also is bodiless and invisible. The presence of the angels as messengers of the divine will to the humans, as mediators between men and the divinity is recorded both at the moment of the Nativity and of the Resurrection. St.Gregory of Nazianzus considers them “reflection of the most perfect light or the second light”. The good angels are still communicative with God, they perform the tasks assigned to them and God never ceases to enlighten them with this divine light. There exists, however, an “illusive light” which is “the evil one, itself, which being darkness, simulates light”. The Christian doctrine concerning the nature and being of the angels represents them as spiritual beings, endowed with will and knowledge higher than that of man. They are not only messengers and fulfillers of the divine will, but they also bring men’s prayers to God mediate prophetical inspirations and act as protectors of every human. Romanian popular narrative texts assert that any human being and even any household has an angel. The angels are “servants of light and God they make up heavenly armies, with chiefs or archstrategists. Two of them are often present in the Romanian popular tradition: Michael, whose name “mikhael”, means “who is like God”; he is charged with bringing the souls of the departed; he is a “fire 151
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sword” bearer, and a fighter against the fallen angel, Satan, (and his band) and Gabriel (whose name means “man of God”), the divine herald of the Annunciation. Iconography some times record the “adumbration” of the Holy Virgin by the Holy Ghost, under the form of fire tongues descending upon her or of sunrays lighting her (12). The Annunciation and the Nativity have been favorite subjects for paintings and iconography for the last hundreds of years. In the first three centuries A.D., the painters of the catacombs were not concerned with representing the Nativity or any other scene described in the Holy Writ. The most numerous frescoes were found in the Priscilla catacomb, “Mary’S”. Two of the frescoes, probably dating from the second century A.D. represent the Annunciation and Christ’s Adoration by the Wise Men of the East [13]. The latter scene was most frequently represented in the fourth century A.D. A mosaic depicting that scene was found in the Nativity Church of Bethlehem (built in the fourth century, that basilica is one of the few that were not destroyed by invasions). Paintings of the scene of the Nativity were influenced by Apocrypha, mostly rooted in Oriental culture [14] Throughout the ages, the characters and setting of that event acquired various features. The exceptional personality of Jesus the child, was gradually highlighted. Jesus is endowed with a special luminosity and obviously becomes the source of light, being surrounded by angels having bodies of light. “Early painters (Ghirlandajo, Filippino Lippi) showed light coming from above, from heaven, the Holy Ghost, the angels and the guiding star later it seems to spring from the very child as sign of His power or divine descent (Corregio)” [15] This focusing on the meaning of light and of its sacred message is found in the well-known practice of kindling the “log” called Craciun in the hearth of every house in the tradition of the European South-East and in medieval Western Europe. The log is a symbol of revival: God preserves the “seed” of a new life in it. Isaiah (11, 1-3, 6, 12-13) foretells the emergence of that offspring from the trunk of Jesus. The spirit of God, wisdom, understanding, knowledge and trust will rest upon it, because from the log thrown on the ground or burnt, a holy spirit will emerge. Early Christianity did not set the iconographic meaning and canons. Dramatic representation was not only informative but also formative.
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The dramatic “montage”, lithurgical plays helped in understanding the message and stimulated intense experiencing the event on an individual and collective level. In the ninth century, in Constantinopole there are records of dramas recounting the Massacre of the Innocents by Herod, the Nativity and the Wise Men’s guidance by the Star. Yet, a few centuries before, every family that received the news of the Nativity from carol-singers symbolically reproduced those moments by ritually kindling the log called Crăciun, by lighting the candle, joining in carols and partaking of the communal meal, the ritual agape. This structures, at first religious, mystical dramas, evolved into the scene of the Nativity. The Roman-Catholic church and its faithful represent it by the Italian presepe, French crèche or German Krippe. The tradition of the Eastern Christianity uses an abstract form, embodying other theological components, such as the role and symbol of the vegetable reign in replacing the bloodful sacrifice for absolution and salvation: the log called Craciun, burning in the hearth is light, Jesus himself. Craciun derives from the Latin creatio and is Jesus’s name, preserved in Romanian and around the territory inhabited by the speakers of the Eastern Latin idiom. The hearth represents the Bethlehem manger, where the body of the newborn is shining. Its divine nature will be revealed later, in the light on Mount Tabor. Notes 1. Mathematical and Technical Vademecum, Bucureşti, 1964, p.646-647. 2. Dicţionar explicativ al limbii române, Ed.a II-a, Bucureşti, 1996. 3. Biblia sau Sfânta Scriptură […], Bucureşti, 1964. 4. Pr. prof. dr. Ene Branişte, Liturgica generală […], Bucureşti, 1985. Sf. Chiril al Ierusalimului, Catehezele.II. Traducere de pr. D. Fecioru, Bucureşti, 1944. Dumitru Stăniloae, Viaţa şi învătătura Sf.Grigore Palama, Bucureşti, 1993. 5. Ion Muşlea, Ov. Bîrlea, Tipologia folclorului din răspunsurile la Chestionarul lui B.P.Haşdeu, Bucureşti, 1970, p.117-137. 6. Larousse Dicţionar de civilizaţie iudaică. Traducere de Şerban Velescu, Bucureşti, 1998. 7. Biblia, ed.cit. 8. Axentios de Foticeea, Lumina sacră de la Ierusalim, Sibiu, 1996. 9. G. Dumezil. Ion Ghinoiu, Vârstele timpului, Bucureşti, 1988. D. Protase, Rituri funerare la daci şi daco-romani, Bucureşti, 1971. 10. Pr. prof. dr.D. Abrudan, prof. dr. E. Corniţescu, Arheologie biblică, Bucureşti, 1999. 153
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ION TALOŞ ● Maria Vergine nell’immaginario popolare romeno
MARIA VERGINE NELL’IMMAGINARIO POPOLARE ROMENO Ion Taloş
La Vergine Maria è senza dubbio la più complessa di tutte le figure della mitologia religiosa rumena. La sua biografia, i suoi sentimenti, i miracoli da lei compiuti, il suo influsso sul destino degli uomini, degli animali, degli insetti e delle piante, con una parola sul cosmo, tutto ciò viene descritto in numerosi testi tramandati oralmente. La sua nascita fu il risultato di una conceptio magica e ciò accadde così: secondo il patto di Adamo con il diavolo tutte le anime degli uomini appartenevano al diavolo dopo la morte. Poiché Dio voleva mutare questa situazione, mandò un angelo da Adamo nell’Inferno affinché costui cercasse di sapere dal diavolo come il patto potesse essere annullato. ”Ciò sarà possibile solo allora” - disse il diavolo - “quando una vergine rimarrà incinta dal dolore o una fanciulla metterà al mondo un bambino attraverso la testa”. Così Dio incoraggiò il settantasettenne Gioacchino a sposare una bambina di solo sette anni di nome Anna. La coppia non ebbe figli ed Anna fu così triste che rimase incinta dal dolore. Secondo altre versioni Anna e Gioacchino erano una vecchia coppia senza bambini, il cui pane consacrato veniva messo in chiesa sempre sotto l’altare perché sull’altare c’era posto solo per le offerte delle coppie con figli. Per sfuggire a questo disonore se ne andarono nel deserto dove pregarono Dio in modo così fervido che, nonostante la loro età avanzata, diventarono fertili. Secondo un’altra tradizione Anna baciò una foglia di pero e nel fare ciò rimase incinta. Anna mise al mondo Maria. Già da bambina Maria fu consacrata alla chiesa e crebbe come figlia di un mercante o di un imperatore in una torre lontano dal mondo e solo in compagnia di una vecchia serva o in un convento. Tuttavia rimase incinta, secondo alcune fonti, dopo aver gustato il profumo di un limone o di un fiore o dopo aver baciato un’icona trovata in una fontana o dopo che l’angelo Gabriele le ebbe annunciato il concepimento. La natura della sua gravidanza venne verificata nel seguente modo: vennero radunati tutti i saggi e tutti gli uomini più importanti del Paese e ognuno di loro ricevette un pezzo di legno secco in bocca. Colui, nella cui bocca il pezzo di legno sarebbe diventato 155
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verde, sarebbe stato il responsabile della paternità. Ma solo nella bocca di un uomo anziano il pezzo di legno diventò verde, cosa che dimostrò che Maria era immacolata. Suo padre non era ancora contento, la mise su una slitta tirata da due cavalli non domati e li fece correre. Così arrivò nella fattoria di un pastore di nome Crăciun (dal lat. creatio, -onis) dove ricevette dalla padrona un alloggio nella stalla. Crăciun era un uomo ricco, senza cuore che picchiava e mutilava sia sua moglie che le sue tre figlie. Quella sera non era a casa, ma con il suo gregge. Crăciuneasa percepì i dolori del parto di Maria e la fece partorire. In alcuni testi la nascita ebbe luogo con meraviglia della levatrice attraverso il capo. La stalla era così illuminata che Crăciun poté vedere ciò dalla montagna. Egli pensò che sue figlie, che egli riteneva stupide, avessero incendiato la casa e la fattoria e si affrettò a tornare a casa. Lì si accorse che sua moglie, nonostante il fatto che egli le avesse impedito di esercitare il lavoro di levatrice, aveva aiutato una donna sconosciuta a partorire. Preso dall’ira tagliò le mani a sua moglie. Per il fatto che la Santa Madre vi soffiò sopra o che Crăciuneasa toccò con le sue mani monche le fasce di Cristo o che le tenne nell’acqua del primo bagno di Cristo ricevette delle mani ancora più belle. Qualche volta viene perfino raccontato che ricevette delle mani d’oro. Anche alle mutilate figlie di Crăciun tornò utile la nascita nella stalla: la più grande ricevette come la madre delle mani d’oro, alla seconda fu guarita la gamba più corta e alla più piccola gli occhi malati. La mattina presto Crăciun mandò i suoi servi nella stalla per dare da mangiare agli animali. La luce accecante, i canti degli angeli, il ronzio delle api e l’incenso impedirono ai servi l’ingresso nella stalla. Arrabbiato vi andò Crăciun stesso e vide il miracolo con i propri occhi. Egli si convertì, raccontò a tutti i Giudei del miracolo e fece rimanere Gesù e Maria come ospiti d’onore a casa sua durante i giorni di festa. Alla nascita erano stati presenti anche il passero e la rana. Il passero annunciò subito dopo la nascita che il bambino viveva – esso fu con ciò benedetto e destinato a vivere più a lungo di una quercia – la rana annunciò la nascita di Cristo in tutte le direzioni del cielo e fu così benedetta e destinata a diventare l’annunciatrice della pioggia. Al bambino fu data la caccia dai soldati di Erode. Maria riuscì a nascondere il bambino di volta in volta sotto pacifiche pecore, maiali, mucche che di conseguenza furono benedetti. Ma non riuscì a nascondere Gesù sotto i cavalli e questi furono maledetti. O lei lo nascose con successo sotto la coda del mulo, del bue e della pecora, cercò di nasconderlo, ma senza successo sotto la coda di una capra, poiché essa lo tenne sollevato. Sulla via 156
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verso l’Egitto trasformò il bambino in fichi, in riso, in chicchi di pepe affinché non fosse ucciso. Durante la fuga incontrò un seminatore cattivo ed uno buono. A causa del suo modo di rivolgersi derisorio il primo raccolse delle pietre, mentre il secondo già il giorno dopo la semina poté raccogliere il suo frumento. L’episodio della crocifissione, la ricerca di Cristo da parte della madre di Dio sono molto movimentati. Già da bambino Gesù aveva avuto il presentimento che sarebbe stato crocifisso ed egli vide come cresceva il legno dal quale sarebbe stata fatta la sua croce. Mentre Gesù fu crocifisso, Maria lo aspettava, non immaginando niente, in una chiesa di legno costruita da lui stesso. Giovanni il Battista le disse che Gesù era stato crocifisso alla porta di Pilato. Ella si slegò e si strappò i capelli, si graffiò il viso, si colpì il petto, prese dei calzari di ferro e un bastone da viaggio di ferro e si mise sulla via verso la porta di Pilato. Questo viaggio è pieno di fatti singolari. Maria incontrò il maschio dell’allodola che zoppicava perché durante la crocifissione aveva intimato ai Giudei di non crocifiggere Gesù ed essi gli avevano lanciato contro delle pietre e lo avevano colpito alla zampa. Poi Maria incontrò un carpentiere che orgogliosamente raccontò di aver realizzato una croce piu grande che la che gli fu ordinata. Egli fu maledetto e destinato a guadagnare un po’ di soldi solo dopo un lungo, difficile lavoro. Poi incontrò un fabbro che fiero riferì di aver rubato molto ferro affinché i chiodi fossero fatti più piccoli, la madre di Dio lo benedisse e lo destinò a guadagnare per poco lavoro molti soldi, infine incontrò una rana che cercò di consolare Maria dicendole: ”Se tu piangi già così tanto per la perdita di un figlio, come devo lamentarmi io per la morte di undici (o otto) dei miei dodici (o nove) figli ? Tutti e undici o otto mi furono schiacciati da una ruota, ma io ti offro il mio ultimo figlio rimasto in vita come consolazione”. Alla vista della rana ridicola sorrise Maria e benedisse tutte le rane: i loro corpi non dovranno imputridirsi, ma seccare e tutti gli uomini dovranno bere l’acqua nella quale vivono le rane. La madre di Dio dovette inoltre attraversare tre fiumi e pregò ogni volta un tipo di albero di piegare un ramo affinché lei potesse camminarci sopra come su un ponte. Il faggio rosso disse di no alla richiesta e fu così maledetto e costretto nella perdita di ogni ramo a sanguinare a provare i dolori che provano gli uomini. Altri tipi di alberi accolsero la richiesta e furono benedetti: l’olivo sarebbe stato santo e dai suoi frutti sarebbe stato spremuto l’olio per la lampada della preghiera; il tiglio sarebbe stato una
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volta all’anno in chiesa e i suoi fiori avrebbero decorato le icone; dal noce sarebbero state fatte le icone. Maria incontro più avanti il granchio che raccontò di aver rubato il chiodo più grande che era stato forgiato per la crocifissione di Cristo, andando indietro, affinché i Giudei non se ne accorgessero. Fu ricompensato per ciò con il poter andare sia indietro che avanti. Nella sua disperazione voleva Maria ammazzarsi precipitandosi, affogandosi e dandosi fuoco, ma ogni tentativo fallì: le cime delle montagne, dalle quali voleva buttarsi giù, si sciolsero, l’acqua del mare la fece rimanere in superficie e il fuoco fu spento dal basilico. Le rondini riferirono a Maria la notizia che suo figlio dopo tre giorni sarebbe resuscitato: Esse furono benedette come i più puri degli uccelli e destinate a portare fortuna a colui sotto la tettoia del quale avrebbero costruito un nido; colui che avrebbe distrutto il nido delle rondini sarebbe stato maledetto. Maria raggiunse la porta di Pilato, trovò suo figlio crocifisso ancora in vita e gli domandò perché si era fatto crocifiggere. Il figlio di Dio rispose che aveva voluto raggiungere che fra gli uomini e gli animali i figli amassero i genitori e i genitori amassero i figli, cosa che in seguito anche accadde. Oltre a ciò voleva anche raggiungere che i nuovi nati fossero battezzati e che le coppie di fidanzati fossero unite in matrimonio e che i morti, invece, ricevessero un ufficio funebre. Attraverso la crocifissione spuntarono importanti piante e frutti: il corpo di Cristo diventò una vite, il suo sangue vino, il suo viso e la sua barba frumento il suo sudore rose etc. Secondo altri racconti Maria raggiunse il sepolcro di suo figlio nel momento in cui i guardiani ricevettero il loro rancio. Alla preghiera di Maria di poter vedere suo figlio, dissero i custodi: “Vedrai tuo figlio solo quando non solo il pesce dalla nostra zuppa ritornerà in vita, ma anche l’agnello arrosto e il pollo cotto, quando il nostro vino rosso ritornerà ad essere uva nel vigneto e il nostro pane ridiventerà un campo di grano”. E in quello stesso momento si verificò la ritrasformazione: il pesce cominciò a nuotare nella zuppa, l’arrosto diventò un agnello vivo e il gallo stette sul bordo della scodella, agitando le ali e cantò per la Resurrezione di Cristo, mentre il vino ritornò ad essere uva e il pane un campo di grano. I guardiani gettarono pietre contro Maria che le raccolse e le restituì alla figlia dei Giudei sotto forma di uova di Pasqua. Tutto ciò che faceva la madre di Dio era creativo: un anello da lei perduto diventò la raganella, la sua cintura il arcobaleno, le scarpe lasciate sul 158
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campo dei fiori, le sue lacrime le rosse formiche, pere o mele d’oro, la sua saliva bachi da seta, il suo fazzoletto per la testa il gatto che divorò i topi sull’arca di Noè. I buoni saranno da lei benedetti, i cattivi maledetti: il cavallo si sarebbe saziato solo una volta all’anno cioè il giorno dell’Ascensione di Cristo anche se solo per un’ora sola, perché aveva reso difficile il parto di Cristo, al bue al contrario sarebbe bastato poco cibo, perché lo aveva semplificato; il pioppo avrebbe tremato per sempre e avrebbe perso il suo fogliame, perché durante la nascita di Cristo non era rimasto in silenzio, mentre il tranquillo tasso al contrario fu benedetto e destinato ad essere sempre verde; le mucche del vecchio avaro divennero una specie di ligeidi (lat. Lygaeus equestris L., rumeno Vaca Domnului); una donna che imitò in modo derisorio il pianto del figlio di Cristo fu trasformata in grillo, un giovane uomo che importunava sempre le donne fu trasformato in felce. Nella biografia della madre di Dio ricorrono anche alcuni eventi più rari. Secondo alcuni documenti dovrebbe aver avuto anche un fratello di nome Trifone. Costui era uno di quelli che non voleva credere ad un concepimento puro. Dopo che egli si espresse in modo irrispettoso su Maria, quest’ultima raccontò alla madre che Trifone si sarebbe tagliato il naso mentre lavorava nella vigna. La madre cercò immediatamente il figlio, il cui naso però era a posto e gli riferì che cosa Maria aveva detto su di lui. Trifone rispose: “Come avrei dovuto tagliarmi il naso?” ed egli mostrò con il coltello come avrebbe dovuto fare ciò. In quel momento si tagliò il naso. Su consiglio di Maria la madre poté curargli il naso, cosa che portò alla conversione di Trifone. Una volta un ragno preparò una corda molto spessa per impiccare Maria e il topo fece una fossa per seppellirla, perché non erano stati benedetti da lei. Entrambi furono maledetti e condannati ad essere impuri e ad essere uccisi dagli uomini. Con il ragno ella fece anche una gara: chi di loro avesse saputo filare il filo più sottile e tessere il lino più fine avrebbe vinto. Il ragno vinse la gara nel filare – varianti sono conosciute fra gli Aromuni – la madre di Dio vinse la gara nel tessere. Il ragno fu maledetto e condannato a non essere ad alcuna persona utile con il suo lavoro e agli uomini che lo uccidevano vennero rimessi sette peccati. Un imperatore leggendario di nome Pic percosse Maria, ma fu gettato dal dio del sole in una fontana e fu trasformato in una zanzara. L’arcangelo Gabriele le comunicò una volta, mentre Maria pregava presso la tomba di Gesù, che era giunta la sua ora. Gli apostoli vennero da tutte le parti della terra a renderle l’ultimo omaggio. Ella spirò serenamente, 159
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in pace e senza dolori e la sua anima fu da suo figlio presa. Mentre gli apostoli deliberavano su dove avrebbero dovuto seppellire il corpo della santissima (nel sepolcro del Signore a Gerusalemme o a Nazareth dove era stato annunciato il concepimento) si avvicinò una grossa fila di alberi. Ognuno gettò foglie, fiori e frutti sulla bara, poi presero la bara e la portarono seguita dagli apostoli sul Monte degli Ulivi. Da lì la portarono per mezzo di un ponte invisibile in cielo dove gli apostoli non poterono più seguirla. Da allora vengono benedetti i frutti nel giorno della morte di Maria e con esso comincia il periodo della grande tristezza, cioè l’inverno. Altri documenti vedono Maria Vergine seppellita nell’orto di Getsemani. Sulla via verso il sepolcro i Giudei dovrebbero aver tentato di rovesciare la bara, ma quelli che riferirono ciò diventarono muti, quelli che videro ciò diventarono ciechi e quelli che toccarono la bara rimasero di stucco. Tommaso che arrivò in ritardo dall’India, veleggiando su una nuvola, aprì il sepolcro per renderle l’ultimo omaggio, ma lo trovò vuoto. Anche dopo la sua morte la madre di Dio rimase la più efficace interceditrice degli uomini presso Dio. La sua intercessione e le sue lacrime fecero in modo che la fine della terra venisse sempre rimandata da Dio. Ella visitò una volta l’Inferno e vide in quale condizione si trovavano lì le anime degli uomini. Con le sue lacrime ottenne che i morti dell’Inferno fossero accolti in Paradiso nel periodo compreso tra la Resurrezione di Cristo e Pentecoste, un periodo nel quale le porte del Paradiso rimangono aperte. Dall’altro lato la madre di Dio intreccia una grande rete con l’aiuto della quale ella, alla fine del mondo, potrà pescare ancora tre volte le anime dall’Inferno e salvarle. Ella salva ogni anno il nostro pianeta dal pericolo di affondare nell’acqua in questo modo: la terra si appoggia ad una colonna alla quale il diavolo tutto l’anno mette dei chiodi e verso la fine dell’anno è molto vicino a distruggere la colonna. Allora la madre di Dio lo minaccia con un ramo di nocciolo, egli cessa di mettere i chiodi e guarda la madre di Dio: in quello stesso momento ella versa il ferro fuso nel buco fatto dal diavolo, la colonna è di nuovo a posto e la terra viene salvata per l’anno seguente. La sua icona appare là dove una chiesa deve essere costruita. Ma qualche volta Maria abbandona l’icona per andare in aiuto, con il corpo e con l’anima, di un bravo giovane, dandogli un pane che non finisce mai. O soccorre una fanciulla che è caduta in una caverna profonda. Secondo una tradizione degli Armeni che vivono in Romania la vicenda si sarebbe svolta in questo modo: in un braccio Maria teneva il suo figlio Cristo e nell’altro 160
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doveva sostenere se stessa. Per poter aiutare la ragazza, le crebbe una terza mano e con questa viene rappresentata in alcune icone. Maria salva gli uomini dall’annegamento, li protegge dal fuoco e da tutti i pericoli. Cura gli uomini e gli animali, dà soccorso contro le streghe cattive, protegge i viaggiatori, aiuta le donne durante il parto e uccide un drago che rapì delle fanciulle. Viene evocata non solo nelle preghiere, ma anche in uno dei generi più arcaici della letteratura popolare, rifiutato dalla chiesa, i scongiuri. Gli uomini sanno che cosa le piace e che cosa non le piace e si rivolgono a lei di conseguenza. A lei piace per esempio se si spazza la stanza dopo aver lavorato con il telaio, mentre non le piace se gli uomini si siedono sul tavolo, se camminano indietro o se bagnano i chicchi di grano prima della semina con acqua calcarea. In conclusione possiamo sostenere che il ruolo religioso di Maria nella mitologia è più grande del ruolo di Dio o di Gesù. Con Maria comincia un nuovo periodo. Prima che ella partorisse Cristo, Avestiţa (chiamata anche l’ala di Satana) causò un grande male alle donne incinte e agli appena nati, ma dopo non più. La crocifissione di suo figlio portò l’amore nella vita delle famiglie e ordinò la vita degli uomini secondo nuovi criteri. Maria ebbe un’azione significativa sul destino degli uomini e del cosmo, che ella, secondo il principio di aiutare i buoni e punire i cattivi, migliorò e arricchì. Raffinò il mondo, creando nuovi tipi di animali e di piante e donando loro proprietà curanti. La Vergine decise che cosa fosse il peccato e cosa la virtù, che cosa potesse essere ucciso e che cosa non lo potesse. Le sue azioni e i suoi miracoli, la sua sofferenza e il suo grande impegno per gli uomini sono d’esempio e propongono un modello di comportamento che gli uomini dovrebbero seguire. La figura della Santa Maria continua sotto alcuni aspetti il mito della divinità femminile della fertilità e della liberazione, di nome Diana Regina, conosciuta sin da tempi antichissimi. Qualche volta si mostra anche come Terra Mater. Molte delle immagini, dei motivi, dei simboli qui menzionati hanno origine dal grande serbatoio della tradizione popolare profana. Motivi come la “conceptio magica”, l’isolamento di Maria in una torre, la nascita attraverso la testa, il pezzo di legno secco diventato verde, le mani tagliate, come i calzari indossati sono nella narrativa popolare europea molto comuni. La nascita attraverso la testa non sembra alla mentalità popolare assurda, infatti questa è la risposta del popolo alla purezza della madre di Dio. Il figlio di Dio nascosto sotto la coda degli animali o la trasformazioni di questi in 161
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fichi, riso o chicchi di pepe non è da considerarsi come qualcosa di sacrilego, perché si tratta di un motivo che nei racconti popolari è molto frequente. I gesti di dolore della Vergine Maria (ricordo: si sciolse i capelli, si graffiò il viso, si colpì al petto) sono ancora rintracciabili nelle zone arcaiche e sono conosciute anche nell’epos medievale, in particolare nella Chanson de Roland. Come si può vedere dunque il motivo biblico della Vergine Maria fu arricchito con motivi della tradizione popolare. Il fatto che la madre di Dio fosse una popolana ha permesso che gli uomini semplici capissero meglio questa figura e l’amassero di più. Tradotto dall tedesco di Nicoletta Santeusanio Università di Colonia
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ION TALOŞ ● Maria Vergine nell’immaginario popolare romeno
Ştefănescu, Dobre: Basmul lui Dumnezeu. In: Şezătoarea 25, 1929, p. 75-79 Taloş, Ion : Fecioara Maria. Model creştin şi imaginaţie populară. In: Limbă şi Literatură 1998, vol. III-IV, p. 88-95 Timotin, Andrei: Tradiţia epică sud-est europeană. In: Archaeus 3, 1999, fasc. 5, p.77 Trofin, N.: Povestea lui Hristos. In: Şezătoarea 6, 1901, p. 161-164 Volintiru, I.: Povestea lui Dumnezeu. In: Şezătoarea 25, 1929, p. 81-83
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MIHAI ALEXANDRU CANCIOVICI ● Des symboles chrétiens dans la légende populaire roumaine
DES SIMBOLES CHRÉTIENS DANS LA LÉGENDE POPULAIRE ROUMAINE Mihai Alexandru Canciovici
Dans cette communication on propose d’analyser quelques symboles chrétiens de la légende populaire roumaine, soulignant chaque fois, leurs connotations profondément religieuses dans la conscience populaire L’homme à la mentalité archaïque vit et organise sa vie dans un permanent besoin et aspiration pour le sacre. La dimension sacrée confère à l’individu un certain équilibre intérieur et notamment la force de supporter plus facilement les épreuves de son destin. Même de sa naissance le peuple roumain a existé grâce à une forte communion avec le sacré et ses représentations. Une certaine morale chrétienne lui a ordonné sa vie dans son espace communitaire. La majorité des productions de spiritualité populaire, c’est à dire les traditions et les coutumes importantes de sa vie ont été marquées d’une empreinte religieuse, l’approchant davantage à Dieu. Comme disait M.Eliade : “Pour les apologistes chrétiens, les symboles étaient chargés des messages ; ils montraient le sacré à l’aide de rythmes cosmiques. La révélation acquise par la croyance n’annulait pas les significations prechrétiens des symboles, mais leurs donnait une nouvelle valeur. Pour les chrétiens cela effaçait sans doute les autres ; c’était la seule qui mettait en valeur le symbole, le menant à une révélation.”1 La légende populaire, étant la catégorie narrative la plus proche au mythe et au surnaturel, est chargée de symboles et de représentation d’une mythologie chrétienne. Ceux-ci par leurs actions rétablissent davantage un équilibre cosmique, détruit par action des forces maléfiques. Dans la légende populaire roumaine le plus souvent l’antinomie DieuDiable représente le principe qui conduit toute la constitution d’ordre cosmique et de la dialectique de l’évolution universelle. L’homme parcourt un vrai trajet initiatique, étant confronté en permanence avec la révélation divine. Il est un contact avec le sacré qui lui détermine les nombreuses manifestations de la vie spirituelle. De nombreux
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exemples d’une liaison avec le sacré par tels symboles d’influence chrétienne sont offerts dans les légendes roumaines. Comme on remarque dans les études des spécialités, dans la légende les phénomènes naturels, les objets, les faits sont analysés par rapport à la “science”populaire. Par conséquent, l’imagination et la capacité de l’homme archaïque d’associer les diverses analogies ont déterminé un mode différent d’interpréter l’univers. Sur le plan du mythe, les faits sont transposés et sont expliqués à un niveau poétique. Plusieurs fois le créateur populaire part de la réalité qui l’entoure et qu’il s’explique pour lui-même dans un plan fabuleux. Mais parfois, le parcours peut être inverse, c’est à dire de la légende, du mythe, on peut accéder à la compréhension de la réalité. Le mythe influençait essentiellement l’existence d’un endroit ou d’un fait historique. Par exemple, dans les légendes florales de nombreuses métamorphoses se produisent par le passage d’un règne a l’autre. Cela suppose la modification des etrês, tout en gardant leurs traits dominants. Ensuite ces traits se transfèrent sur le plan poétique dans la transfiguration métaphorique de la plante respective. D’habitude les métamorphoses de la légende sont déterminées et crées par Dieu ou par d’autres représentations de la mythologie chrétienne, comme par exemple : La Sainte Vierge, Saint Pierre, Sainte Vendredi, Sainte Dimanche ou celles d’une mythologie populaire laïque : méchantes fées, la Mère du Soleil, les sorcières, les fées. Elles punissent un hybris accompli par un être humain du a diverses causes : des crimes injustifiables, des passions érotiques indomptables, un orgueil sans marge. De cette manière les forces divines rétablissent un équilibre cosmique et moral, par la création des plantes, qui ont existés au début sous forme d’êtres humains. Dans la légende on signale parfois aussi des métamorphoses ayant comme but la récompense. Par exemple : pour récompenser la croyance d’une fillette qui cueillait des fleurs dans le forét pour les porter à l’église, Dieu a jeté quelques étoiles sur la terre, quand elle dormait. Ainsi apparaît la fleure des Pâques2. L’ethnobotanique roumaine garde une dénomination chrétienne pour les fleurs suivantes : le sang de Dieu, la fleure des Pâques. Dans le processus de la création des légendes populaires florales à la longue, des couches de culture et de civilisation différentes se sont superposées. Elles correspondent aux niveaux de mentalité spéciales. Sur un premier plan on déchiffre une couche païenne par laquelle le processus de transgression d’un règne a l’autre était possible. Dans cette pensée archaïque 168
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l’idée animiste constituait un fait incontestable. On a superposé le christianisme sur cette couche de culture, ce qui a déterminé des modifications dans la conception du créateur. En même temps, quelques représentations ont été assumées et adaptées. Du point de vue de la mythologie populaire Dieu peut accomplir des faits miraculeux. Par conséquent, les métamorphoses ont le rôle de régler un code moral déséquilibré par le pêcher. Dans la transposition des quelques figures historiques sur le plan du mythe le créateur populaire a souligné particulièrement la liaison entre quelques personnages historiques et Dieu. Etienne le Grand, surnommé par le peuple “Le Saint”, est un exemple éloquent. Dans la conscience populaire le voïvode roumain était doué d’une qualité tout à fait spéciale, a savoir l’accès au sacré dû à sa croyance sincère en Dieu. Dans un portrait légendaire le voïvode apparaît comme un esprit religieux qui a compris réaliser l’unité de son peuple par la croyance. Apres ses victoires militaires il a bâti de nombreuses églises et monastères. Etienne le Grand, qui avait la capacité de communiquer avec le sacré, est entré en contact avec les saints, patrons militaires [Saint Procopie et Saint Dimitrie] par la force de sa prière. Ainsi les miracles sont nés. Ceux-la contribuaient par leurs interventions à la victoire du Pont Haut, face à une nombreuse armée. Par un miracle divin il gagne la bataille. Le créateur populaire souligne, une fois de plus, la force de la croyance du roi. Celui-ci ordonne aux soldats de jeûner quatre jours pour remercier Dieu. Dans une autre variante de la légende, on raconte que le voïvode, après une bataille perdue avec les tatars, en Bessarabie, à Tighina, va prier dans une église. Là, il a la révélation de Saint Georges qui lui apparaît son icône à la main. Etienne part au combat contre les tatars portant l’icône de Saint Georges, son protecteur, en tête de son armée et il gagne. Apres la victoire, il envoie l’icône au monastère Zograf, de Saint Mont3. Plein de sacralité, le voïvode Etienne peut lui-même faire des miracles. Conformément à la tradition, il accompagne un homme pauvre sur son dernier chemin. Personne ne prenait part à cet enterrement. Etienne achète des cierges et des gimblettes et les met dans un panier d’or. À l’instant, beaucoup des gens se rassemblent. À la tombe, le voïvode souffle une fois sur le mort et celui-ci bouge la main droite, la deuxième fois il bouge la main gauche. Quand le roi souffle pour la troisième fois, par miracle le mort ouvre 169
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les yeux. Tout assemblée est émue par cette merveille. Cette narration fait penser à la résurrection de Lazarus dans la parabole biblique4 . Le peuple garde la croyance qu’Etienne avait la capacité d’être visionnaire, de prédire l’avenir de la Moldavie. Pour souligner davantage la personnalité du voïvode, le créateur populaire donne une qualité magique à tous les objets portes par celui-ci. Son sabre devient le symbole de la lutte pou la justice et l’indépendance. Les légendes sur la mort et la résurrection d’Etienne le Grand sont d’une très grande richesse poétique et métaphorique. Pour le fixer dans l’immortalité le peuple croit que l’esprit du voïvode, après sa mort, revient sur la terre pour le secourir. Dans une vision métaphorique de la transfiguration du voïvode roumain il apparaît comme une colombe, qui s’élance vers le haut du ciel. Le pigeon c’est le symbole chrétien du Saint Esprit. Par ailleurs, le créateur populaire imagine Etienne le Grand comme un ange, petit et courageux, qui protège et enseigne les moldaves. Le symbole de l’ange y appartient aux croyances chrétiennes considérant les âmes des hommes d’élite capables de faire des merveilles et de bons faits. Apres sa mort, Etienne est transfère dans le mythe, comme un saint. Les légendes sur la résurrection du voïvode roumain reposent sur la croyance dans pouvoir de son esprit, aussi sur son immortalité. Dans l’une des variantes on imagine la résurrection d’Etienne le Grand, dont l’âme descend sur la terre la nuit des Pâques pour accomplir le jugement des ses descendants. L’image de sa résurrection est associée ici à un temps sacré : la nuit de Pâques, fête chrétienne très importante. La catégorie des légendes religieuses n’est pas très riche. Elle contient seulement 6oo types qui se referent aux figures bibliques, à des saints et a leurs fêtes. Dans l’ouvrage de Mme Tony Brill “Le catalogue typologique de la légende populaire roumaine”[types l3.925 – 14.144], ouvrage malheuresement non-publie, au manuscrit dans l’Archive de l’Institut d’Ethnographie et du Folklore, on offre aux spécialistes les références bibliographiques neccesaires à l’étude de ces textes. Les figures les plus importantes appartiennent au texte biblique enrichi par la fantaisie populaire. Cela a donné en temps de nombreuses augmentations folkloriques qui peuvent apparaître comme des déformations. Les plus importantes représentations religieuses refaisant le trajet biblique 170
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dans une vision originale et poétique sont : Dieu, La Sainte Vierge, Jésus et quelques saints comme : Saint Pierre, Saint Georges et Saint Ilie. Chez les roumains, le mythe de la Sainte Vierge est très fort, étant représente par de nombreuses productions populaires, d’une diversité de genres et d’espèces. La Vierge cumule les qualités maternelles de dévouement et d’amour pour Jésus et pour tous les êtres du monde. Comme si bien disait Mme Sabina Ispas dans une étude ample et documentée intitulée : “Marie – la Mère de Dieu, la mère de l’entière humanité au sens ontologique”: “La Sainte Vierge dans le texte folklorique et dans la tradition orale est nommée la Mère de Dieu. En cette hypostase, elle devient la protectrice des étrangers, des pauvres, des souffrants. Tous ces états ont été connus dans la vie terrestre, en sa qualité de Mère de Dieu”5 Elle représente des symboles, les uns pris des textes chrétiens les autres de l’imagination populaire qui lui a donné un nimbe légendaire spécial. Sa naissance est du domaine du fabuleux légendaire. Plusieurs légendes de Bucovine mentionnent que sa mère Anne a été enceinte après qu’elle ait embrassé une feuille de poirier tombée sur son livre de prières. De même, la Sainte Vierge aurait mis au monde Jésus après avoir embrasse une icône d’une fontaine ou elle aurait senti l’odeur d’une fleur q’un jeune homme lui avait offert ou un citron que fils de Noël lui avait donné. Le mystère sacré de la naissance de Jésus constitue le thème de nombreuses légendes religieuses qui refont le scénario biblique dans un esprit original. Ces légendes expliquent, en même temps, l’origine de la dénomination pour Noël, personnage mythologique très intéressant, imagine comme hots de la maison ou a été reçu la Vierge avant la naissance du Saint Enfant. Au début, Noël est lui-même imagine comme un homme maussade et méchant qui a coupé les mains de sa femme, comme punition parce qu’elle avait accouché la Vierge Marie. Il souffre une imprévisible transformation quand il assiste à la merveille faite par la Sainte Vierge, qui a redonné les mains à sa femme. Il est le premier qui s’incline devant l’enfant Jésus en compagnie des bergers, priant d’être pardonner par la Sainte Vierge. Noël sera converti par le baptême à la naissance du Rédempteur. Dans l’étude déjà mentionnée, Mme Sabina Ispas liait ce motif narratif à un symbole chrétien très important : “Cette légende ‘des mains coupées’, dans laquelle nous reconnaissons une variante du motif A.Th.7o6 attestée dans le conte bleu6 utilise un symbole chrétien fréquent”7.
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Dans le sens de ce qu’on a mentionné ci dessus, elle offre de nombreuses hypostases symboliques de la main : la main de la belle-mère de Pierre guérie par Jésus ; avec la main Jésus bénit les enfants ; Jésus s’enlève au ciel avec les mains soulevées, etc. Un moment narratif important des légendes de ce type est lié à la recherche de Jésus et à la douleur de la Sainte Vierge lors du crucifiement de son fils. Le créateur populaire donne a Marie une image d’une tristesse maternelle accablante, elle devient “La Mère de la douleur”. Ces textes cumulent de nombreux symboles, contenus dans les explications métaphoriques donnes aux êtres qui ont participé à l’épisode du crucifiement de Jésus. Selon la légende, les abeilles sont nées des larmes de la Vierge, le cochevis boiteux reçoit la bénédiction de Marie à coté de la grenouille, parce qu’ils lui ont annoncé le crucifiement de son fils. La grenouille encourage la Sainte Vierge pour faire face à cette épreuve, lui parlant de ses bébés tués par une charrette. Par conséquent la grenouille est bénie : après sa mort elle ne s’altérera pas, elle deviendra sèche et l’eau ou elle vivait restera claire et bonne à boire. Les deux ouvriers qualifiés qui ont préparé les objets de torture pour Jésus sont traités différemment. La Sainte Vierge maudit le menuisier qui a bâti une croix plus lourde, mais le forgeron qui a diminué les gros clous de la croix a été beni par elle. L’arc-en-ciel naquit de la ceinture portée par la Sainte Vierge, au moment ou elle s’est montrée au Saint Thomas, lors de son enlèvement. Par sa bonté et sa generosité la Sainte Vierge apparet même dans le conte bleu ou dans l’incantation. Elle intervient aux moments culminants de la narration pour aider les heroines ou les braves dans leurs épreuves. Elle est aussi une bonne présence dans l’incantation thérapeutique, étant invoquée au final du texte magique comme une force suprême guérissante. La vie légendaire de Jésus dans la tradition populaire contient quelques instants importants dès sa naissance jusqu’à sa mort et sa résurrection. Jésus accomplit des miracles même dès son enfance, comme par exemple : quand il sauve la main de son copain. Plus tard, il guérit un aveugle, en passant sur ses yeux le doigt mouillé dans la poussière.
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Son calvaire des son arrestation et jusqu’à le crucifiement est suggestif imaginé dans la légende de ce genre. L’œuf est un archétype symbolique, une image de la regeneration et de la permanence de la vie. Chez les roumains et dans le sud-ouest de l’Europe il y a la coutume de teindre les œufs à l’occasion de Pâques. C’est un rite hérité dès premiers chrétiens qui s’offraient des œufs rouges, s’embrassaient en disant ”Christ est ressuscité”. Dans la légende, les œufs serraient teints en rouge par le sang de Jésus qui aurait coulé sur eux. Dans d’autres textes on dit que les juifs n’ont pas cru à la résurrection de Jésus avant que les œufs se colorient en rouge. La merveille s’est accomplie. Dans une autre variante, l’apôtre Simon a rencontré Jésus qui portait sa croix. Il l’a aidé de porter la croix et quand il est retourné à son travail, il a commencé à manger et a trouvé des œufs rouges dans son panier. Les plus importants saints de la tradition populaire sont Saint Pierre, Saint Georges et Saint Ilie. Saint Pierre [sa fête 29 juin] est naturellement influencé par toutes les traditions et contes latines du christianisme. Chez les roumains il commande les loups et parfois les autres bêtes de la forêt. Les loups sont ses chiens. Ils les nourrit et les hommes, à l’occasion de sa fête, prient Saint Pierre de les protéger contre les loups. Ov.Bîrlea donne la suivante supposition : “Cette prérogative de Saint Pierre est placée avant le christianisme, étant le continuateur d’une divinité païenne autochtone, probablement traco-dacique”8. D’après la tradition chrétienne Saint Pierre est aussi le portier du paradis. Il est imaginé par le peuple comme le protecteur des enfants, il les porte dans ses bras et les protége. Dans de nombreux contes, à l’intention moralisatrice, parfois avec une saveur comique, Saint Pierre voyage avec Dieu sur la terre. Il apparaît comme un vieillard qui n’écoute pas les bons conseilles de Dieu et souffre toujours des punitions. La tradition populaire humanise Saint Pierre, lui accordant des qualités humaines. Il s’habille et se comporte comme un vrai paysan roumain. Conformément à la tradition, Saint Georges [sa fête 23 avril] tue le dragon qui possédait la fontaine d’une ville, et qui mangeait une fille par jour ; par ailleurs Saint Georges sauve un chrétien condamné à être avalé par
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le monstre. L’empereur de ce royaume l’écoute et ne persécute plus les chrétiens. Dans ses narrations on fait une contamination entre cet épisode et le motif narratif du conte bleu [Type 3oo]. Il est possible que le phénomène se produise dans la circulation orale des narrations. C’ est ainsi que ce phénomène détermine l’intégration de la narration populaire roumaine dans un circuit universel. Saint Ilie [sa fête 2o juillet] est le patron des pluies, des tempêtes, des foudres et des coups de tonnerre. Il symbolise les forces dechainees de la nature. Les spécialistes considèrent qu’il est le continuateur d’un dieu d’uranium comme Hélios et Jupiter, ainsi que Vulcain. A cause du Diable qui l’a menti, Ilie a tué ses parents, dans sa vie terrestre. Celui-la a fait une très dure pénitence pour son crime et Dieu l’a pardonné. Finalement il a été sanctifié par Dieu qui lui a offert le coup de tonnerre et des foudres pour foudroyer les diables. L’image poétique légendaire représente Saint Ilie dans une charrette tirée des chevaux. Dieu ou la Sainte Vierge l’ont puni de perdre sa main droite, parce qu’il foudroyait très fort. Dans d’autres légendes il est soit boiteux, soit aveugle ou manchot pour ne pas provoquer des tempêtes infernales. Il ne connaît pas sa fête et demande toujours à Dieu quand il est fêté et Dieu le ment pour éviter aussi une Apocalypse. A la fin de notre étude nous pouvons conclure que toute la légende roumaine contient des symboles chrétiens enrichis par les connotations de la mentalité populaire. Le créateur sent profondément le sacré et fait une lecture originale sur les textes bibliques, accordant une valeur spéciale aux figures de la mythologie chrétienne.
1
M. Eliade, Le sacré et le profane, Les Editions Humanitas, Bucarest, 1995, pag. 119. La fleur des Pâques, V.Buricea, I.Voiculescu, Stanciu Stoian, La fortune des enfants, Les Editions de la Revue l’ Idée, Bucarest, 1918, pag. 134. 3 Etienne le Grand et le Saint Georges, S.Teodorescu-Kirileanu, Etienne le Grand et Saint, Les Editions Typographie de Monastère Neamţu, 1924, pag. 138-139. 2
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MIHAI ALEXANDRU CANCIOVICI ● Des symboles chrétiens dans la légende populaire roumaine
4
Un miracle d’Etienne le Grand et Saint, op.cit., pag. 85. Sabina Ispas, Marie – La Mère de Dieu, la mère de toute humanité au sens ontologique, dans “Annuaire de l’Institut d’Ethnographie et du Folklore”, Série nouvelle, Tome 5, 1994, pag. 99-115. 6 Antti Aarne, Stith Thompson, The Types of the Folk-Tale. A classification and bibliography, Helsinki, 1928 [FFC. Nr.74] 7 S. Ispas, op.cit., pag. 105. 8 Ov. Bîrlea, Le Folklore roumain I, Les Editions Minerva, Bucarest, pag. 126. 5
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LAURA JIGA ● The Reward of Paradise. Textualization of Images of Paradise in Romanian Alexander Romance and Folk Legends
THE REWARD OF PARADISE. TEXTUALIZATION OF IMAGES OF PARADISE IN ROMANIAN ALEXANDER ROMANCE AND FOLK LEGENDS Laura Jiga
Because not all of us are familiarized with Romanian folklore, I decided to tell you a few legends attested into Romanian culture, which are in connection with the problem I’ll bring in your attention. I.
II. III.
The first humanlike beings God created at the beginnings were the giants. But they became evil and God destroyed them. After those, it was we, the humans, which appeared. When we’ll go away at our turn, some small beings will come to populate the Earth. They will be holly, blessed and without body needs and pains. They will eat holly spirit. They are already alive, somewhere far away, on the other side of a water, spending all their time praying. Because God keeps “our” world alive thanks to their prayers, we have the duty to celebrate their Easter. The name of this people is “Blajini” or “Rohmani”. Long time ago Alexander the Macedonian visited them and had discussion with their king, Evant/Ivante . Some features of Blajini: - They are saints. - They are white - They are naked - They are covered with long hair - They are the deceased - They are small - They live on an island, far away, towards East, in an ever green garden - They live for a very long time I want to add that all these features never simultaneously characterize them in the same legend. This paper comes as a consequence of two other papers.
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LAURA JIGA ● The Reward of Paradise. Textualization of Images of Paradise in Romanian Alexander Romance and Folk Legends
In one of them I searched how a written text is adapted to the oral context and to the mental frames of the receivers, the features the text needs in order to be available for re-signification. In the particular case of one episode in the Alexander Romance (Alexander’s visit in Makaron and his dialog with Evant, the king of Gymnosophist) I learned about the machineries involved actively into the processes of translation from written to oral literature; how the Gymnosophist entered the folklore, getting the name “Blajini” (the Mild ones) or Rohmani and how the wise inhabitants of Makaron, within the romance, became the saints and/or the monks within Romanian popular legends and beliefs. The other one approached the terminological issue of the relation of partial synonymy of the terms Blajini, Rohmani, Nagomudrii. The terminological step was useful for strengthening the conclusion that, within the Romanian traditional mentality (at a certain moments, at least), items as “happiness”, “holiness”, and “ignorance” are in the same paradigm. I consider Christian ideologies as responsible for this situation and for the integration of the items above into a vision concerning a post-existence as well. This time I’ll focus on the place(s) where the Blajini are located, in relation with the Paradise(s). As material for my searching I used sacred texts, (Biblical), popular romances - Alexander Romance and, on the other hand, folk legends. I named my paper “textualization of heaven like images…” considering legends as being narrative texts for visual images and for the systems of ideas and beliefs on which the legends are based. The process of creation these legends is a textualization. I start with Alexander Romance. I’ll take into account the text of Alexander Romance included in Romanian Codex Neagoeanus. I approach it as a unit, without neglecting that it is only a link in the chain of translations and variants of the novel, all over Europe and all over Near and Middle East, during more than 1500 years of circulation. The above-mentioned text is the first (known) Romanian translation (in the 17-Th century) and the majority subsequent versions attested into the Romanian cultural area are based on it. A Slavonic version dated in the XV-Th century has been attested into the Romanian area.
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LAURA JIGA ● The Reward of Paradise. Textualization of Images of Paradise in Romanian Alexander Romance and Folk Legends
On the conqueror’s way towards East and to the end of the world, Alexander the Great reached a point where, in front of his eyes was a green island, surrounded by water, and a high tree and people (…) were there1. Asking, Alexander learned that the Eden is here, the one that you call Makaron.2 The answer induces the idea of a similarity between two notions, which belong to two different cultures (“we” vs.” you”) but which designate one and the same reality. On one side stays the Happy Ones’ island (Makaron), created within the Hellenic thought, taken over, and re-molded by Christianity, and the Garden of Eden, on the other side. Let’s see how looks the Eden-Makaron, according to Romanian Alexander Romance description in the 17-th century. And it was a high ait and they climbed a lot until they reached huge trees and sweet fruits and fresh and cold springs under the trees and there were beautiful birds among the branches and they sang beautiful; some of the birds were white, others were red, others were purple, green, molly.3 I underlined the elements loci commune thanks to which the island of Gymnosophists could be understandable as a paradise. But Alexander Romance places the explicit Heaven not in Makaron, but 10 days of sail further, towards East. Describing it, king Evant asserts the insular feature of the heaven and underlines the wall, made from red copper and covered by fire; fire cherubs and seraph guard it days and nights.4 What happened when the conqueror reaches near the Heaven? Alexander looked up to the Heaven and saw it 7 miles higher the Earth; and it was high: higher than all the mountains. And he saw the Heaven’s gates, burning; and a high tree, taller than all other trees, the trees of heaven. And he went closer and 2 archangels stand in front of Alexander, saying: < Hold on, Alexander (…)>. Alexander asked: < O, Lord, but how and where shall I go out back to the laic people?> The archangels answered: < There are 4 rivers, which flow out the Heaven, Tigris, Euphrates, Faison, and Ghion; follow Faison and you’ll go out.5 It’s no use to say that the essential features both of Makaron and of the Heaven in Alexander Book are common with the Book of Genesis 1
Nicolae Cartojan, Alexandria in cultura romaneasca. Noui contributii, Bucuresti, 1922 Idem 3 idem 4 idem 5 idem 2
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LAURA JIGA ● The Reward of Paradise. Textualization of Images of Paradise in Romanian Alexander Romance and Folk Legends
description of the Garden of Eden. Comparing them, we may conclude that even if the Gymnosophists don’t inhabit the proper Heaven, the space where they are located – the Makaron – may be placed into the frames of Paradise. Their living place has a special feature to which its paradisiacal character might have been founded. In the time when Lord created the sky and the earth, He created Adam, our ancestor. And he lived the Heaven, together with Eve. And they committed the sin in front of God and He chased them out from the Heaven. Then they first came here. 6 Hence, this is an initial space, a space “in between”, which as well separate and link the world that surrounds God and the laic world. Descending directly from Seth (the text asserts it further), the mild (read it etymologically as “happy”) Gymnosophists are the beneficiaries of a mythic ascendance, which offers them the privilege to inhabit the space placed in the proximity of the celestial Heaven. They also have the advantages of a long life spent in entirely happiness: And we just stay here, and we have not to plough, not to sow, not to reap; but we feed ourselves with these fruits and drink sweet water. And we live a long life.7 Alexander Romance associates the theme of the garden – orchard with those of the Golden Age and the Island of the Happy Ones. This may be a consequence of the process described by J. Delumeau: with the help of Christianity, “these themes enriched each other, conducing to the consolidation of the paradisiacal imagery and to the description of the terrestrial paradise as an ideal landscape and a locus amoenus”.8 On this point of discussion, I appreciate that, thanks to its qualities, the Island of Makaron might be identify with (a) terrestrial paradise. For the time being, I postpone to discuss the consequences of this fact, since we have to see first how the Romanian popular legends imagine the place where the Blajini/Rohmani live. Firstly: the typical Romanian folk image of the Heaven consists on trees, ever green grass, and laid tables with all sort of food, satiation only with smells, cold and clear rivers9 or it is a ever green garden, with birds, 7
Idem. p.88 Jean Delumeau, Gradina desfatarilor. O istorie a paradisului, Bucuresti, Ed Humanitas, 1997, traducere din franceza de Horatiu Pepine, p.13 9 Adrian Fochi, Datini si eresuri populare culese la sfarsitul secolului XIX. Din raspunsurile la chestionarele lui Nic. Densusianu, Bucuresti, Ed. Minerva, 1976, p. 245 8
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laid table, burning candles, elevate foods, full glasses10. These elements, together with the motifs of the tree and the spring in the middle of the garden build the figure of Paradise (more or less explicitly named) in the folk genres of ritual Christmas songs, ritual funeral songs and fairy tales. The motifs of the bookish Heaven have impress the “cultural imagination’ to the extend of becoming not only designations for Heaven or Paradise but also truly stereotypes for the beautiful place. The locations of the Heaven vary: far away, to Jerusalem, higher with three stanjens from the earth, on the right side11. The concordances between the written Alexander Romance and the popular pictures of the Heaven are pretty sure a consequence of similar generative veins, being they bookish or not. Among them, the Biblical and liturgical texts are not less important. The water the Dead has to cross to the world behind is called, within Romanian popular system of beliefs, either the Saturday River or The River of the Dead. It surrounds the Earth “as a dragoon” and gathers all the water in it. Such a representation of the world is ancient. We can recognize it in the Book of Genesis, as well. During the times, combining the real geography with the imaginary one, cartographers tried to find the place for the terrestrial paradise. Usually, they settled it on the other side of, or in the water that surrounds the earth. Supposing that, even if, initially, The River of the Deaths and the Saturday River had been distinctly, through their shared qualities of being unique, big and with the common function of bordering the “known” by the “unknown”, finally they became confoundable. Hence, the place “over” might designate even a paradise, even a post-existential place, even both. Regarding the “Blajini” and/or the “Rohmani” the oral legends often place them “in this world, at the end of the earth, where it is an isolated place…”12 or in a space delimited by our world through a symbolic border: the same Saturday River (Apa Sambetei). For the second situation they might be identified with the dead. If the Blajini live “…in Tarigrad (Constantinople), [where] a big whirlpool swallows the water and turn out
10
Idem Idem 12 Elena Niculita Voronca, Datinile si superstitiile poporului roman adunate si asezate in ordine mitologica de…, Cernauti, 1903, vol.I p. 350 11
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near a holly mountain”13 or “No woman may cross over the Saturday River, only man. On the other side there live the most holly monks and those who leave our monasteries, go to settle there. By Saturday River are the Blajini”14, the Athos community assimilates the community of Blajini. This process could be a result of a linkage between holiness and post-existence. Actually, the answers that qualify the Blajini as saints/monks are as frequently as those where they are appreciated as being the dead ones. Putting in a order the data we have till now, we find out the following: the space lived by the Blajini (in the folk legends) is settled within the register of the “far away”, it is closed by a water-border, it is figured as a mountain and/or as an island (these mean isolated) and/or as myrific garden that is un-accessible to profanes thanks to its walls (nobody, except Alexander the Macedon, reached it). On the base of our discussion, I appreciate the space in question as a variant of the (terrestrial) Christian paradise. Hence, a paradise is assigned both to the Blajini of Romanian popular legends and to the Gymnosophists of Alexander Romance. I suggest keeping in mind this conclusion. The idea of successive stages of humankind evolution has been vehiculated within many cultural tradition; the channels through it might have entered Romanian culture are multiple and almost invisible. Anyhow, as a criterion of selection the historical stages of earth inhabitants was the dimension; this means a quantitative criterion. Such as somewhere else, within the actual territory of Romania have been attested legends that assume the succession giants-men-dwarfs. According to axiologic criteria of different cultural historical context, the dimensional criterion has been joined by a new quality. For example: “big” + “stupid” etc. Both the antique and Christian thought put at the beginning and at the end of the world the stage of an entirely happiness. A “golden” stage opens and finishes the world. Romanian folk legends often integrate the existence of the Blajini into the scheme above, at its turn correlated with an eschatological vision. “After the earth and the sky will be burnt by St Elias blood, God shall bring again the Blajini, pious and loved by God, (…). They inhabited the world before the giants and they will also come after us”.15 Both criteria for delimitating the humankind ages are involved: dimensional (quantitative) criterion and of religiosity 13
A. Fochi, op. cit., p.81 Voronca, op. cit., p.1001 15 Voronca, op. cit., vol I., p. 87 14
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(qualitative). Very important is the fact that the last stage is that of holiness. This idea was amply speculated, thought, and developed by Christian’s ideology. “When the world is over, the people that will come will fly as the birds and they will not eat, will have no pain like we do, but they will live thanks to holly spirit” 16, tells the popular legends. I don’t know whether from the beginning the Blajini have been appreciated as being those who follow the people or whether they got this position via their essential quality, the holiness, by a syllogistically mechanism. Since 1- the Blajini are the beneficiaries of a paradise (garden, mountain, island + holiness and happiness) and since 2- this situation will become obvious at the end of the world, I consider opportune to bring in our discussion an other variant of the paradise: the Celestial Jerusalem. Romanian legends don’t assert explicitly a relation between Blajini and the Celestial Jerusalem, but I’ll try to purpose it to you. I’ll use, again, three sorts of texts: Alexander Romance, the John’s Apocalypse, and the popular legends. Here is Alexander Romance description of Makaron: King Evant set under a high and beautiful tree. Ant the tree had all sort of fruits in it. And beautiful birds with golden feathers were singing wonderful songs. And he was sitting in a golden armchair and a golden crown was on his head and he was naked. And there was a spring at his feet.17. The water of this spring has the capacity/gift to offer eternal young life to those that drink it. And here is the John’s Apocalypse description of the New Jerusalem Citadel: And he showed me a river of eternal life18, clear like the crystal, which sprung under the throne of God and of the Lamb. In the middle of the square of the citadel and on the two shores of the river there was the tree of life, yielding 12 sorts of fruits (…)19 We can recognize the common elements easily. The interior space of the Celestial Jerusalem Citadel owes many of its formal details to the Book of Genesis. But influences of other texts or even of 16
Idem. p. 1295 Alexandria, in N. Cartojan, op. cit., p.87 18 I want to remember the spring under the throne of Evant. He gave water to drink to Alexander, in order to become eternal. 19 John’s Apocalypse 17
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oral and/or apocryphal traditions during the first centuries of Christianity may be not excluded. Let’s not forget that John’s Apocalypse got the canonic agreement just in the 3-Th century a. C. The exteriors of the two spaces have a common element with a major importance: the wall. Having the double function of protection and isolation, the wall turn them into in-accessible spaces for profanes. The similitude between paradises work not only at the formal level. They share, at least, the common function as being “target” spaces (the syntagma “The Land of Pledge” is available for any of them). The wish for spending the post-existential life into a place where the happiness is assured and guarded was not invented by Christianity. Within different cultural and ideological contexts the axiologic and behavior criteria for allowing mortals to enter into a happy world behind, have been invested with new significations. The paradigm of happiness has also been changed. But the base scheme remained the same: a life in accordance with religious canon the believer belongs to, assures him the chance of a fulfilled future life, spend in a con-sacred space. Who inhabits this space? To whom is it reserved, as a reward? During the first years of Christianity, the communities of faithful people created, even properly speaking, a special fighter hero whose victories have been manifested on the arena of the new religion: the martyrs. The ‘direct” relation with Jesus offered them the qualities of sacrality; their synonymy with the saints was, initially, at least, generally. There is no doubt that they assumed all the conditions that the Christian dogma obliged the believers to respect. The eschatological Paradise, the New Jerusalem has bees reserved to them, as a superior reward, as the Greeks Elisee planes had been offered to fighter heroes. John’s Apocalypse assert: These ones, which are dressed in white clothes, who are they? And where did they come from? (…) And he answered to me: These come from the strongest pain (L.J.b) This is why they stay in front of the throne of God, and they serve Him days and nights, in His Temple. (…) They will never be hungry, nor the sun will burn them, nor other kind of fire”20. The white dresses of the characters in the fragment above are a detail that I’ll develop bellow. The motifs of post-mortem reward, correlated with the elements of paradise, both in associated to martyrs are obviously. In the written texts of 20
John’s Apocalypse, 7;10-16
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the great theologues of IV-Th and V-Th centuries a. C. (Atanasie, Didin Epiphanies, Gregory of Nyssa, John the Chrisostom), whose ideas had a great impact on the Christian thought, idea as the following have been asserted: “the sky become accessible only on the Dawn Day, but the saints which preceded us, the mild ones, the righteous ones are already resting in the highest place of the paradise”21. From the nowadays perspective the syntagma “those who preceded us” looks ambiguously, since it may related to an initial (golden) age of humankind and, in the same degree it may be read as “those who preceded us, we inhabitants of the IV Th and Th centuries. This distinction is not meaningless. In case of the second interpretation, I think it could be related to the first Christians, during the persecutions period. So, the question of the saints’ worship enters our attention. Ph. Arriès wrote that the saints’ worship developed during the early Middle Age had “different effects on the funeral rituals and (…) influenced the attitude towards the deceased”.22 Written texts and even folk oral legends and customs (which came up to us) are susceptible to have preserved traces from the religious effervescence during the early Christianity.23They are confused, disappear and appear again. My aim is not to create, on the base of the data I have at my disposal, an algorithm for decode these traces, neither to integrate all information, often contradictory, into a single coherent order. I just want to find and to propose to you veridical frames of religious thinking, imaginary representations etc., which interacted with the folkloric thought. In the facing case, I wonder on possible relations between the paleo-Christian saint’s worship, on one side and Alexander Romance and Romanian oral legends and customs related with Blajini, on the other side. We remember the novel was written in the III rd century a. C, possible in the Hellenic Egypt. From the beginning, the text could have been used for religious propaganda and “training”. An episode such as the visit of Alexander in Makaron offered (and opened) fertile circumstances for allusions to the happy post-existence of those who belong to the Christian community. During its circulation, also through a Christian milieu, but whose
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Delumeau, op. Cit., p 31 Ph. Arriès, Omul in fata mortii, Bucuresti, Ed. Minerva, 1996, trad. si note de Andrei Niculescu, vol I, p.101 23 see Constantin Brailoiu, Sabina Ispas, Sub aripa cerului , Bucuresti, Ed. Enciclopedica, 1998 22
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priorities changed than those of the first centuries, the book suffered new and diverse transformations and interpretations. Concerning the Blajini, in case the legends have been borrowed from Alexander Romance, they cannot be earlier than XVII century (when the first known Romanian translation have been made and entered the circuit). Two facts grow the complexity of our problem. 1. Within the oral legends any unitary image of Blajini cannot be outlined. Their features often differ; compare, for example “they are white” with “they are naked” or “They are covered with hair”. This means a high degree of independence in treating the subject by the folklore bearers and also may means it is very old. An other aspect appears when their features do not concord with the description of Gymnosophists, inhabitants of Makaron Island. Popular imagination is able and (more or less) free to develop new image starting from a point. But, if characterization as “they are naked” or “they are wise” can be originated in the novel, others, such as “they are white” cannot (at least, at a first sight). 2. If we agree with the bookish origin of the legends, how the custom “The Easter of Blajini” can be explained? According to what reasons a legendary people “borrowed” from a book 3. become honored through a celebration? Actually, the Blajini are the only ones in this position. We may claim their mythical quality. But the other mythical people involved at its turn in the scale of humankind evolution, the Giants, are not nominated with any celebration in the popular Romanian calendar. (They also are mentioned in Alexander Romance and in the Bible, too). At this point, I may advance two supposition: - the post-Pascal celebration in honor of Blajini/Rohmani and implicitly the beliefs that found the feast could have exist earlier than the period of circulation of the romance. Further, folklore took from the romance those elements, which were in concordance with a previous reality, overlapping it. This one could be the starting point for the legends’ creation. - the prestige of writing within oral societies surrounded with a aura of sacred the written texts. Pretty sure this possible status of Alexander’s Romance have influenced the attitude regarding the true of the narrated facts. In these conditions, a story about a blessed people living a space in the God’s neighborhood could have been a source of a celebration.
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The Latin term (in Vulgata) for the paradise, as a “cooling garden bright and serene”24 (expression used during the religious service for decease, before the official squisma) was “refrigerium”. In the mean time it designated the “commemorative feast consumed by the first Christians directly on the graves of the martyrs and the offering given to them. (…) This act of devotion, inspired by pagan rituals, has been forbid/interdicted by Saint Ambrozie and replaced by the Eucharistic service. It was preserved in the Christianity of Byzantine origin and sporadically it is still preserved in French folklore”25 It looks to me as having been preserved in Romanian folklore, too. Let’s see how the custom unfold in Dobrodgea and South of Moldavia: The Easter of Blajini/Rohmani, is usually celebrated on the Monday after St.Toma’s Sunday; this means a week after Easter. The whole and large family gathers in the cemetery round the family’s graves. After a funeral religious service, when all the names of dead are mentioned, the priest bless the food people has brought with. Afterwards, a part of the food is offered as alms and all members of the family eat directly on the graves the food that remained. As ritual funeral aliments, there are boiled wheat, bread, salt, and wine. Nowadays, the custom can be found in Romanian area of Black Sea coast and in Moldavia, but it also has been mentioned, last century, in the north part of Transylvania. Similar elements with those included in the funeral rituals for celebrating the first Christian martyrs are obvious. Could the inhabitants of Black Sea Coast know this worship? Despite the spatial ex-centricity from the focus of the Christian effervescence on the first centuries, inhabitants of the Danube mounds and the Black Sea coast had directly or indirectly contacts with the religious center. One example, connected with our issue, a proof for the assertion above is the tomb discovered at Niculitel, north part of Dobrodgea, about 30 years ago, where four martyrs, who lived in the IV Th century, have been buried. The Blajini shared features with the saints/eremites/communities of monks described by written texts with oral circulation. There is no time to develop the model according to which the images of the saints are drawn within Romanian folk and written culture. Anyway, they can be placed in an 24 25
Aries, op. Cit., p 40 idem, p.40
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imaginary paradigm of the European saints. But, despite even the interviewees often assert the holly feature of Blajini, of course they are not aware about any connection between their feast and the saints’ worship of the first centuries. In their “interpretation” they celebrate either the deceased (in the North part of Dobrodgea the Easter of Blajini is also known under the name the Easter of Dead), or those so religious people who live across the water. In my opinions there first was a saints’ martyrs worship, which characterized especially the persecutions period. During the times, under the pressure of new contexts, the initial forms, meanings, aims and background have been diluted and finally disappeared from the consciousness of people. Those who are celebrated are no more the deceased martyrs but the deceased of the large family and of the whole community. But the ritual practices throughout the worship had been materialized have been preserved, under new significance and finality. How this fact could be explained? At this point, I wonder on possible mould frames (especially of everyday or ritual conduct, lesser of doctrine) that worked in the Mediterranean area in constructing and celebrating the real and ideal saints, “official” and heretic martyrs, as well (Rejected by the Church, the heretics have often been persecuted, meaning favorable circumstances for turning them into martyrs in the eyes of the heretics group they belonged to). At least one of these two: ritual and of religious daily behavior schemas might be originated in the Christian practice of the catechumens immersion. I can suggest five points for arguing this hypothesis. 1. The catechumens' preliminary period of immersion implied isolation, abstinence, praying and training into the new religious ideology. That is nothing special, since this practices usually work as ritual conditions within initiation rituals. ● But the Blajini are also described living as an isolated community, in abstinence and praying. So are the gymnosophists, too. 2. The catechumens were baptized as a group, a community, not as individuals. 3. The ritual time for baptizing was linked with the Pascal feast of Jesus Christ’s resurrection. ● Regarding the Blajini, it’s of no use to stress when the Easter of Blajini is unfold.
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4. Immediately after baptizing, as a symbolic sign for their first step of integration in the community of Christians, the catechumens were dressed with white clothes. Symbol of purity and sacrality within diverse cultures, white was overtaken by Christianity as the color of Jesus’ light, which is whiter and brighter than the light of the sun. Even nowadays, the sacred service of Easter and of baptizes, too asserts “all of you, those who were baptized, were dressed with Jesus Christ ”! I noticed, at a moment, the white vestments worn by the inhabitants of the New Jerusalem Citadel, as well as the folk legends where the Blajini are described as the “white ones”. But white also has a funeral value. (The funeral ritual Romanian language names the deceased on his/her way to the world behind, as “the white wanderer”. Here the word “white” may also have a magic function: calling the deceased “white”, his future status, as one of the whites living the celestial world, is claimed.). Related with Blajini, the bivalent value of the white color - both color of Jesus and funeral color – might have facilitated the funeral worship of martyrs to turn into a deceased worship of the large family. 5. Until the Christianity has been legalized (the IV Th century) any new baptized was a virtual (future) martyr. The prestige of the martyrs within the Christian groups had had to be very high! This may be one of the explanations respecting the perpetuation of ritual schemas of baptizing and also of martyrs’ celebrations under new forms, stories, and images. I want to add that the immersion assured the immortality within the celestial world and, after the Dawn Day, within the Citadel of the New Jerusalem, of the baptized ones. Hence, the feasts of the Easter of Blajini looks susceptible to be indirectly linked by the catechumens baptize thanks to common Christian mould frames. The presence of these schemas in Dobrodgea and the South of Moldavia can be explained by understanding this area as an integrated part in the cultural Mediterranean basin.
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SILVIA CHIŢIMIA ● Les balais du Paradis. Symboles chrétiens dans les chants Roumains de Noël
LES BALAIS DU PARADIS. SYMBOLES CHRÉTIENS DANS LES CHANTS ROUMAINS DE NOËL Silvia Chiţimia
Le problème des rapports entre la littérature populaire roumaine et la tradition chrétienne représente un champ vaste des recherches d’ordre historique, liguistique, folklorique et théologique d’une profondeur considérable. En ce qui concerne le jugement de ces rapports, il faut tenir compte d’un fait essentiel: l’ethnogénèse roumaine va de paire avec le processus de christianisation de la population autochtone. Autrement dit, la naissance du peuple roumain se poursuit en même temps que sa christianisation [1]. Grace à ce contexte ethno-religieux et historique, le folklore roumain – dans ses chants, légendes, contes et croyances – conserve une grande richesse des thèmes, symboles, scénarios et allégories venant du christianisme. Un héritage religieux ancestral est fourni par le grand corpus de chants rituels, appelés colinde (Chants de Noël). Leurs textes et coutumes cérémonielles ont été vues comme un chapitre important de l’histoire du christianisme dans l’espace carpatho-danubiano-pontique [2]. Colinde est le pluriel de colindă, nom féminin dérivé du latin calendae (premier jour du mois quand s’annonçaient les nones et les ides; donc les pricipaux repères du mois) qui a donné en roumain le mot calendar (calendrier). Le verbe a colinda designe tant l’action de chanter un corpus de textes rituels à l’occasion de Noel, de la Nouvelle Année et de Saint Jean, que l’action de se rendre d’un lieu à un autre. Les chants rituels de colinde représentent un corpus qui n’est point du tout unitaire. Leurs textes comprennent plusieurs sources: diverses épisodes des Evangilles canoniques et apocriphes, les textes des prières lithurgiques englobant nombreux passages de l’Ancien Testament, diverses apocalipses apocriphes, légendes chrétiennes et récits hagiographiques [3]. Le détaillement de toutes ces racines, influences et assimilations pose de grandes problèmes aux chercheurs. 191
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Du point de vue historique, les diverses couches chrétiennes des colinde peuvent grosso modo être rangées en trois périodes: 1. L’influence d’un christianisme primitif, d’essence apostholique, fortement impregné par le judéo-christianisme; 2. La grande influence bysantine; 3. La période slavone et moderne; Les folkloristes distinguent habituelement deux cathégories de colinde: religieuses et laiques, classification qui pose encore de grands inconvénients notamment en ce qui concerne leur interprétation symbolique. M. Eliade sugerre pour la classification des colinde une terminologie plus rigoureuse de type ”chrétiennes” et ”prechrétiennes” [4]. Selon notre opinion, la pluspart de colindes s’apuisent sur un fond religieux d’essence chrétienne. On trouve dans ces chants de nombreuses allegories, motifs et references qui temoignent d’un message qui vient parfois de rites les plus anciens de l’Eglises chrétienne. Des symboles derivés du christianisme des premiers siecles en Orient – la croix, le poisson, le dauphin, la vigne et l’arbre de la vie, le navire de l’Eglise ou le Dieu comme pâtre etc. – fournissent la matière poetique d’une grande partie des colinde. D’ailleurs, le symbole est le langage privilegié de la religion par lequel on accède à une verité existentielle plus globale que celle qu’atteint le concept. Le symbole permet d’exprimer de manière voilée une realité sacré. Il est plus apte à rendre compte d’une experience ineffable et c’est ça la raison qui explique la massive utilisation des symboles et allégories par la Bible et par les Pères de l’Eglise pour révéler et commenter les dogmes chrétiens. Un trait characteristique de l’univers religieux révéle par les colinde est ce que M. Eliade appelait un “christianisme cosmique”, c’est-à-dire la conception d’un cosmos racheté par la mort et la résurrection du Sauveur et sanctifié par les pas de Dieu, de Jésus, de la Vierge et des saints [5]. M.Eliade fait à ce propos une remarque fondamentale: “c’est uniquement dans les populations rurales de l’Europe du Sud-Est, que l’incarnation du Christ, sa mort et sa résurrection étaient interpretées comme redemptrices non seulement de l’homme mais aussi de la Nature”. On peut parler aussi, à propos de colinde, d’un “christianisme populaire” dans lequel Dieu descend sur terre et visite les maisons des humains. Aussi, Jesus, la Vierge Marie, Saint Jean, Saint Pierre etc. ressemblent dans leurs gestes, paroles et
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vêtements, aux paysans roumains. D’ailleurs, ce même aspect du “christianisme populaire” impose souvent une lecture “sous le texte”, à cause d’une superposition du lexique rural, familier, au lexique allégorique et symbolique du langage chrétien. Tout cela suscite parfois des confusions et de grandes pertes de la signification religieuse du texte de colinde. En plus, on trouve souvent dans ces chants rituels de nombreux mots étranges et apparement incomprehensibles. C’est le cas, par exemple, du balais mentionés dans les colinde type no 176 A, faisant partie du corpus des chants du Noel, classifiés comme bybliques et apocriphes [6]. Leur schéma narratif est: pour appaiser le petit enfant qui pleure, la Vierge Marie lui offre deux pommes, les clefs du Paradis ou le balai du Paradis. Ce type de colinde a un grand nombre de variantes présentes dans presque toutes les regions de Roumanie (Transylvanie, Maramureş, Moldavie, Valachie). Citons une variante de Transylvanie: Sur les bordes du Danube (…) Gise une pièrre renversée Auprès d’elle agenouillée Se tient la Sainte Vierge Avec un enfant dans ses bras. L’enfant pleurniche La Marie Sainte l’apaise - Tais-toi, fils, ne pleure pas Car la mère te donnera Un balai d’argent Pour balayer de ténèbres Le ciel saint des lourdes boues” [7] La présence peu commune d`un “balai en argent” nous etonne. On se demande comment un tel objet d’une apparence profane évidente, arrive dans un corpus de chants ayant une stricte et reconnue signification sacrée? Le même sujet de l’enfant qui pleurniche dans les bras de la Vierge, lorsque sa mère lui fait des promissions est décrit dans le cadre sacré d’un monastère où chantent neuf prêtres et neuf diacres. La Vierge écoute la divine lithurgie [8]. Une autre variante nous parle de la Vierge tenant son fils mort dans ses bras et en s'appuyant sur la croix. Son fils mort (sic!) lui dit: “Le balai du Paradis Si on balaie avec elle
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Ton fils se levera!” [9] Si nous analysons maintenant les balais décrits par colinde, quelques observations s’imposent: 1. Les balais ont toutes les characteristiques d’un objet précieux, voire sacré. Les colinde nous parlent d’un “balai en or” [10, 11, 12], d’un “balai en argent” [13, 14] ou d’un “balai du Paradis” [15]. 2. Le paysage ou apparaissent ces balais est sacralisé par la présence de la Vierge Marie tenant dans ses bras son enfant . La Vierge est assise “auprès d’une croix en bois, d`une croix en pierre, d’une croix du pommier à douces pommes” [16], “auprès d’une pierre renversée “ [17] où elle est “agenouillée auprès d’une pierre” [18]. En effet, le paysage ou sont décrits les balais nous renvoie aux images du christianisme: la croix comme arbre de vie, le Paradis, Marie avec l’Enfant. Le motif de Marie avec l’Enfant se prête à bien d’interpretations en matière d’iconographie chrétienne. Dans les colinde que nous discutons, pour apaiser l’Enfant, Marie lui propose, sauf les clefs du Paradis, deux pommes ou ses seins. Notons d’abord l’isomorphisme plastique entre les deux pommes et les deux seins. L’image qui nous interesse c’est celle de la Mère allaitant l’Enfant Jesus. Elle a une profonde signification religieuse, car cette figuration servait à visualiser la realité de l’Incarnation. Cette iconographie est très ancienne remontant a l’Antiquité (au VI-ème siecle) [19]. Dans un autre groupe de colinde appartenant au type no. 33, Naşterea din piatră (La naissance d’une pierre), la Vierge Marie sert de sujet pour une représentation populaire du dogme de la Résurrection. Une serie ancienne d’images de la Résurrection décrit: le Christ revenu à la vie, quittant sa tombe en brisant la pierre qui fermait la voûte sépulcrale [20]. Dans les colinde type no: 33 la Vierge est agenouillée (auprès d’une pierre) pour enfanter un fils d’une pierre: “Assise en genoux, une mère Pour donner naissance à un fils d’une pierre. Fils d’une pierre est nait, Dans la main lui ont posé un balai”… [21] Dans une variante des colinde de Transylvanie citee plus haut, la Vierge avec le petit enfant qui pleurniche est agenouillée auprès d une pierre renversée suggère l’ouverture de la tombe du Christ: A celle pierre renversée, /……/ La Mère est angenouillée /…. / Le fils pleurniche /…/ La Mère lui dit : / Tais-toi, fils…/ Car la Mère te donnera les clefs du Paradis /… »
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Parlant de ces colinde, D.O.Cepraga remarque fort bien que le motif de la naissance d’une pierre prend son origine des Evangiles, car il illustre la pierre qui fermait la voûte sépulcrale de la tombe du Christ. Par conséquent, l’image de la pierre brisée ne représente pas une vraie naissance, mais une renaissance en conformité au sens profond de la Résurrection de Jésus. [22] 3. Le sens ou la signification symbolique des balais du Paradis En examinant le motif de la naissance d’une pierre, un detail nous attire l’attention. Renfermé dans la pierre, l’enfant dit à sa mere qu’il ne s’envolera pas de la pierre, si sa mère n’achètera pas un balai en or avec qui elle devra balayer la terre et le ciel: “Et dedans la pierre, le fils a pris la parole: (..) D’ici je ne m’envolerai pas / Si tu, mère, ne t’en vas pas au marché… / Pour marchander un balai en or (…) / Et tu, mère, ne balaieras aux pieds du ciel / Et la face de la terre”.[23] Dès que sa mère accomplit cette demande, le fils s’envole en haut, dans le ciel, parmi les anges, à côté droit du Père. On voit ici une belle description populaire de l’Ascension du Christ. Mais quelle est la raison de la necessité du balai? Evidement elle n’est pas un element accesoire, une sorte d’ornement inutile. Au contraire, elle semble être fondamentale pour que “l’envol du fils dans le ciel” s’accomplisse. Tout le contexte nous suggère une allégorie d’un rituel sacré concernant la Résurrection, l’ascension et la session à la droite du Père, du Jésus. C’est à dire la celebration liturgique du sacrifice, de la mort et de la Résurrection du Christ. Car même dans l’anaphore de Saint Basile on lit: “Il nous a laissé ce mémorial de Sa Passion. C’est pourquoi nous aussi, Seigneur, nous souvenant de Sa Passion, de Sa Résurrection des morts, de Son Ascension dans les cieux, de Sa session a Ta droite, Père. [24] La Divine Liturgie avec son rituel central de la Messe est essentiellement le sacrifice du Christ.[25] Mais l’immolation et la mort ne sont pas le tout du sacrifice. La mort du Christ n’est que le prélude a Sa résurrection, a Sa naissance dans les cieux à la droite du Père. Le “lieu” consacré du mimodrame de la Messe ou de l’Eucharistie pour les Eglises orientales est l’autel, qui n’est pas seulement une table du banquet eucharistique mais, aussi, la pierre du sacrifice. Comme précise Jean Hani, l’autel au sens stricte “ est une pierre naturelle” .[26] Saint Cyrille d’Alexandrie enseigne que l’autel de pierre don’t parle l’Exode (20,24) est le Christ. Pour Saint Ambroise il est “l’image du corps du Christ”.[27]
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Tous ses sens symboliques de l’autel nous éclaircissent le motif de la naissance d’une pierre. Autant pierre tombale [28], que lieu de la résurrection et l’image du corps du Christ [29], l’autel est le centre de tout rituel liturgique. Dans plusieurs liturgies orientales, les rites de l’autel utilisent les ripidia, une sorte d’evantails qui sont agités ou balayés au-dessus des offrandes. [30] Il s’agit en effet d’une sorte d’eventails liturgiques. Le mot ripidia (lat. flabellum, it. ventaglio liturgico, flabello) vient du grec ριπίς, qui se traduit par évantail [31] . Objet des rituels liturgiques, tipiques pour les Eglises de l’Orient, les ripidia se présentent comme des évantails circulaires faits en bois ou métal travaillés en filigrane (fig. 1). Dans les Eglises primitives les ripidia étaient faites de feuilles ou de plumes [32]. On parle de ripidia faites du plumage de paon dans la liturgie de Saint Jacob. Deux Diacons, assis de deux cotés de l’autel sont censés d’agiter ou balayer les ripidia pour empecher la salissure des offrandes deposées sur l’autel. [33] Retenons les deux actions rituelles auxquelles participent les ripidia: balayer l’air, balayer la saleté, la salissure au-dessus de l’autel. C’est la même action profane de nettoyage avec de balais, decrite par les colinde. Notons d’ailleurs que la liturgie de Saint Jacob, constituée à Jerusalem, a été l’une de plus repandue de toutes les anciennes liturgies. Chez les Roumains, chrétiens de l’époque daco-romaine, dans l’Eglise était en pratique l’ancienne liturgie apostolique de Saint Jacob, de rite syrien dans sa variante latine. [34] Mais revenons aux ripidia. Leur aspect général d’évantails aux manches longues peut être rapproché de l’image d’un balai (fig. 2). A l’appui de cette constatation s’ajoute le fait que nombreuses ripidia sont faites en or ou en argent rappelant les balais décrits par les colinde. Souvent, sur ripidia sont peintes ou ciselées des seraphins, anges aux trois paires des plumes qui font partie de la hiérarchie céleste[35]. On porte les ripidia pendant la Grande Entrée et on les agite au-dessus des offrandes deposées sur l’autel. Elles symbolisent les puissances célestes qui ont assistés Jésus pendant la nuit de sa mort [36]. Tout le sanctuaire, dit Jean Chrysostome, et l’espace autour de l’autel sont remplis par des puissances célestes pour honorer Celui qui est présent sur l’autel [37]. On comprend maintenant le sens de la demande des “balais du Paradis”, faite par le fils à Marie, dans les colinde.
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Rappelons nous que le fils qui demande le balai est quelques fois enfermé dans une pierre. Or, la pierre représente l`ancien symbole, le symbole type, pourra-t-on dire, de l`autel. Espace sacralisé par la croix (symbolisée par le grand crucifixe dressé sur l`autel) la pierre de la table de l’autel marque aussi le tombeau du Christ et le lieu de Sa Résurrection [38]. La pierre ou est enfermé le fils de Marie, décrite par les chants roumains de Noel, suggère fort bien tout ce symbolisme. Elle peut être vue aussi comme la marque d`un espace paradisiaque, car la croix qui s`élève ici est faite d`un arbre du Paradis. Le thème de la croix faite d`un bois de l`arbre du Paradis se trouve dans deux légendes populaires de Transylvanie.[39] Il s agit de la légende sur Adam et Eve (d`origine bogomilique), et la légende du bois de la croix. Il est fort bien à croire que l`image du pommier sur qui est appuyée Marie dans les colinde que nous discutons (qui ont une riche attestation en Transylvanie) représente en effet, la croix faite d`un bois de l`arbre du Paradis. Le symbolisme paradisiaque de l`autel (ou de la pierre qui marque l`espace de l`autel ou se dresse le crucifixe) peut être discuté aussi d`une perspective liturgique. Selon la conception de l`Eglise apostolique d`Orient, pendant la liturgie Eucharistique le Christ est vraiment, réelement et substantiallement présent (cf. Concile de Trento, sess. 3, can. 1.)[40]. Sa présence transmut le monde dans son état originaire, paradisiaque. Les anciennes liturgies, dans leurs prescriptions pour les rites accomplis à l’autel, mentionnent les ripidia. Ces types d’indications apparaissent par exemple, dans “Le Commentaire Liturgique” de Theodore, évêque d`Andida, petite province d`Asie Mineure. Ecrits vers 1200, ces commentaires en quarante chapitres ont été trouvées dans trois codexus de la bibliotheque du Vatican: codex no.430, no 632 et no. 856. Dans le chapitre XVIII on pet lire: “La déposition des Offrandes sur la Sainte Table d`autel nous rappelle l`enterrement et la Résurrection du Christ. Le chapitre XXIII nous dit: “Les diacons protègent doucement les Saintes Offrandes avec les ripidia. Cette action symbolise les Puissances célestes qui ont assisté Jésus pendant la nuit de Sa condamnation [41]. Au bout de ces observations on peut affirmer que les balais du Paradis décrits par les colinde sont une metaphore populaire des ripidia de l`autel.
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En tant qu`objets rituels les ripidia participent à l`accomplissement de la liturgie ou, à la fin, Dieu faisant rayonner Sa Gloire, illumine le ciel et la terre. Nous déchiffrons ainsi le vrai sens symbolique de l’afirmation apparament banale, faite dans les colinde, que les balais sont nécessaires pour nettoyer “le ciel saint de ténèbres et la terre de saleté et de lourdes ordures”. Vue de la perspective symbolique du christianisme, le balai se recharge de toute son ancienne signification religieuse. En tant que ripidia, elle participe à la Divine Liturgie, purifiant et illuminant le monde. Une note importante doit être faite à la fin. Dans les liturgies actuelles, les ripidia ne s’utilisent plus comme objets religieuses. Elles ont resté dans les grands musée de l’art chretien oriental ou dans les collections des monastères ou des Eglises. Les plus anciennes ripidia roumaines proviennent du prince régnant de la Moldavie, Etienne le Grand [42] ( fig.1 ). Deux de ces ripidia, donnations d’Etienne le Grand pour le monastère Zografu, se trouvent maintenant à Patmos. En Valachie, les plus anciennes exemplaires en argent filigrane sont fabriqués en Transylvanie et datent du XVII-ème siècle. Dans l’iconographie chrétienne de Roumanie, de belles représentations du “balai du Paradis” c’est à dire des ripidia apparaissent dans les fresques des monastères. Sous ce aspect patrimonial, le pronaos du monastère Cozia, datant du XIVème siècle est une veritable “Salletresor”[43]. On trouve ici des anciennes images deux objets à l’apparence de balai qui sont les ripidia ( fig.2 ): A la fin de notre analyse du symbolisme des balais-ripidia, il convient de faire quelques observations: Tous ces éléments de l’univers chrétien des colinde – comme est le cas de ces balais ripide – sont parfois camouflés sous une apparence profane, plus ou moins évidente, plus ou moins fragmentée et dégradée par la perte du sens religieux originaire. La juste compréhension de ce fond chrétien, d’où puisent nombreuses créations folkloriques, impose ainsi un considerable travail pluridisciplinaire. Celui-ci doit être capable d’integrer et évaluer les donée du folklore, du point de vue de la théologie, le dogme et la pensée symbolique du christianisme. Dans ses notes sur l’histoire des religions et cultures populaires, M. Eliade remarquait l’absence d’une investigation herméneutique des textes
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oraux mythico-religieux, comparable à la lecture critique d’oeuvres écrites[44] Il attirait aussi l’attention sur la possibilité d’utiliser des matériaux folkloriques en tant que documents religieux authentiques [45] . De ce point de vue, les chants roumains de Noel s’avérent des importants documents folkloriques concernant la tradition chrétienne. Nous y trouvons, dans une manière parfois occultée ou metaphorisée, un tas d’informations précieuses sur certains aspects rituels d’anciennes liturgies Orientales [46]. Ceci dit, les colinde type no. 33 et no. 176 A; parlant du symbole des balais du Paradis, peuvent etre considerées parmi les plus originaux documents sur l’art et les rituels chrétiens. Auprès des fresques des monastères et des objets utilisés dans la célébration des services divins, gardés dans les musées, les textes des colinde apportent leur témoignage populaire sur la richesse et l’ancienneté de la tradition chrétienne en Roumanie.
NOTES
1. Ion Ionescu, Începuturile creştinismului românesc daco-roman, Ed. Universităţii Bucureşti, 1998, p.5 2. Dan Octavian Cepraga, Graiurile Domnului, colinda creştină tradiţională, Ed. Clusium, Cluj-Napoca, 1995, 3. Monica Bratulescu, Colinda românească, Editura Minerva, Bucureşti, 1981, pp.57-74. Dan Octavian Cepraga, op. cit., pp. 18-87 4. Mircea Eliade, Briser le toit de la maison, Editions Gallimard, Paris, 1986, p.184. 5. Mircea Eliade, De la Zalmoxis la Genghis-Han, Ed. Ştiinţifică şi Enciclopedică, Bucureşti, pp 245-246. 6. Monica Brătulescu, op. cit. p.293 7. Alexiu Viciu, Colinde din Ardeal, Academia Română, 1914, p. 50
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8. ibidem, p. 49 9. ibidem, p. 70 10. Bela Bartok, Melodien der Rumänischen Colinde, Editio Musica, Budapest, 1978, p. 289 11. Sabin Drăgoi, 303 colinde cu text şi melodie, Ed. Scrisul Românesc, Craiova, 1931, p. 164 12. Tudor Pamfile, Sărbătorile la români. Crăciunul, Ed Saeculum I.O., Bucureşti, 1997, p. 310 13. Alexiu Viciu, op. cit., p.50 14. Bela Bártok, op. cit., p.247 15. Alexiu Viciu, op. cit., p. 70 16. ibidem, p. 70 17. ibidem, p. 50 18. ibidem, p. 63 19. André Grabar, Les voies de la creation en iconographie chrétienne, Ed Flammarion, Paris, 1994, p.271 20. ibidem, p. 212 21. Alexiu Viciu, op. cit., p. 63 22. Dan Octavian Cepraga, op. cit., p. 87 23. Bela Bártok, op. cit., p. 289 ( le colinde no. 96a, Bihor) 24. Jean Hani, La Divine Liturgie, Editions de la Maisnie, 1981, pp. 51-52 25. ibidem, p. 15 26. Ibidem, p. 86 27. Ibidem, p. 120 28. I.D. Ştefănescu, Iconografia artei bizantine şi a picturii feudale româneşti, Ed. Meridiane, Bucureşti, 1973, p. 62 29. Jean Hani, op. cit., p.120 30. ibidem, p.137 31. Vasile Drăguţ, Dicţionar enciclopedic de artă medievală românească, Ed. Ştiinţifică şi Enciclopedică, Bucureşti, p. 259 32. Ene Branişte, Liturgica generală, Ed. Institutului Biblic şi de Misiune al Bisericii Ortodoxe Române, Bucureşti, 1993, p. 599 33. I.D. Ştefănescu, op. cit., p. 201 34. Ene Branişte, op. cit., p. 600 35. Ion Ionescu, op. cit., p. 79 36. Vasile Drăguţ, op. cit., p. 272
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37. Theodor de Andida, Comentariul liturgic, trad. de Pr. Prof. N. Petrescu, “Biserica Ortodoxă Română“, nr. 3-4, 1971, p. 313 38. Jean Hani, op. cit., p. 137. 39. Silvia Chiţimia, Sensuri misterice ale mesei altar, “Sfârşit de mileniu”, nr 7-8, 1993, pp. 28-29 40. Crestomaţie de literatură română ( coord. I.C.Chiţimia , Stela Toma), Ed. Dacia, Cluj-Napoca, 1984, pp. 190, 209 41. Jean Hani, op. cit., p. 35 42. Theodor de Andida, op. cit., pp. 300, 310-313 43. Claudiu Paradis, Comori ale spiritualităţii româneşti la Putna, Ed. Mitropoliei Moldovei şi Sucevei, Iaşi,1988, pp. 517-521 44. Sfânta Mănăstire Cozia, Ed. Monitorul Oficial, Bucureşti, 1994 45. Mircea Eliade, Briser le toit de la maison, Ed. Gallimard, Paris, 1986, p. 200 46. ibidem, p. 169
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Fig. 1 La plus ancienne ripidia roumaine (1497, Monastère de Putna) appartenant au prince régnant de Moldavie, Etienne le Grand (1457-1504)
Fig. 2 Seraphin tennant deux ripidia. Fresque du pronaos, XIV-ème siècle. Monastère de Cozia ( 1388), fondé par Mircea l’Ancien (1386-1418).
LUCIA BERDAN ● Le monastère cosmique. Étude de hiérologie ethnologique
LE MONASTÈRE COSMIQUE. ÉTUDE DE HIÉROLOGIE ETHNOLOGIQUE Lucia Berdan
L'étude des rites d'initiation comme rites de passage nous a ouvert une large perspective dans l'analyse des motives (des topoi mythiques) qui se plient sur des structures mythiques archétypales, perpétuées jusqu'aujourd'hui dans des espèces archaïques de folklore, comme les incantations, les contes de fées, les chants de Noël, les ballades. Mircea Eliade, le réputé historien des religions, a savemment appliqué cette analyse dans l'étude des formes religieuses qui se construisent au-dessus des structures archaïques déjà existentes dans l'ontologie primitive (voir les ouvrages Le mythe de l'éternel retour et La nostalgie des origines). L'historien des religions et l'ethnologue Mircea Eliade, avant de transposer les motives mythiques essentiels en créations littéraires inconfondables, postulait que, pour vraiment comprendre un mythe et pour essayer de le déchiffrer, le chercheur doit se proposer d'arriver, suivant le parcours des démarches herménéutiques, de la herménéutique textuelle, modestement exégétique, à celle ontologique, ou bien à la herménéutique totale, celle créatrice d'idées. Il reste ainsi, comme le disait métaphoriquement Heinrich Zimmer, "un dilétant entre les symboles". L'entière analyse textuelle, de laquelle on part dans la présente démarche, se fait au niveau des symboles initiatiques, pour essayer de déchiffrer les cadres initiatiques enchiffrés dans le topos analysé. Le topos mythique qu'on essaye de décripter ici, le monastère cosmique (le monastère d'encens ou l'église blanche) fait référence à un centre initiatique suprême, situé au-dessus des neuf (ou sept) cieux, dans lequel servent des personnages mythiques ou divines. Il se trouve, ainsi, dans un autre monde, celui de l'imortalité, de la vie sans mort et même le héros qui a parcouru toutes les marches de l'initiation n'y peut arriver qu'à l'aide d'un guide psychopompe (habituellement, un oiseau sacré). A la frontière de ce territoire interdit, le messagère, guide psychopompe, nous arrête, on n'est pas admis dedans, et le héros initié ne reste dans ce monde qu'un temps limité afin d'accomplir une mission, après quoi il revient dans le monde des mortels. L'entière analyse textuelle va être menée ici au niveau des symboles initiatiques, car le symbole, disait Mircea Eliade, est celui qui aide l'homme à accesser 205
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l'universel; en comprennant le symbole on arrive à vivre l'universel. Le symbol est, dans le cas du mythe, le fil d'Ariadne qui permet l'ouverture vers un univers essentiel. Depuis toujours les humains se sont servis des symboles pour exprimer des secrètes et profondes révélations liées aux phénomènes de la vie et de la mort, à la structure dinamique du cosmos et de l'univers dans lequel chacun mène sa vie, et alors ils ont transmis tous ces enseignements pendant des générations, à travers des mythes, des rites, des contes, des légendes, des croyances. Les anciens grecs nomaient le symbole (< symbolon - signe) un moyen pour maîtriser les mystères, un signe de reconnaissance d'une autorité. Nous allons commencer l'analyse avec un conte très connu, Le conte du cochon, écrit par Ion Creangă, écrivain qui a été un grand initié (cela ce reconnaît de ses contes). L'auteur de Humuleşti ne nous a fourni que apparemment des contes à la portée de tout le monde. En fait, elles enchiffrent des mystères que les grands initiés se sont forcés à déchiffrer (voir Vasile Lovinescu, Creangă şi creanga de aur (Creangă et le rameau d'or), Bucureşti, Ed. Cartea Românească, 1989). Très intéressant dans ce conte, dès le début, est le fait que la héroïne est celle qui doit parcourir les marches d'une initiation prolongée, en suite de la violation d'un interdit: elle n'était pas permise de dévoiler à personne le secret de son mari, celui transformé en cochon, justement parce qu'il était le messagère d'un monde supérieur, celui où il y avait le monastère d'encens. Le fait que la héroïne est soumise à une dure initiation afin de refaire le statut d'initié supérieur de son mari n'est pas singulier dans nos contes, ni dans ceux universels. C'est la raison pour laquelle les marches de l'initiation de la héroïne sont celles bien connues pour le héros principal de chaque conte de fées: le voyage initiatique de trois ans dans des terres dessertes, où on émousse même les chaussures en fer, et grâce auquel on peut accéder au pays des saints: Sainte Mercredi, Sainte Vendredi et Sainte Dimanche. Ce pays n'est pas mundain: "l'oiseau bleu n'y arrive point, l'homme mortel non plus"! ("nici pasăre măiastră nu vine pe aici, necum om pământean"). Les trois saintes soeurs, assimilées aux trois Fées de la Destinée (Ursitoare) sont les patronnes de tout être vivant: Sainte Mercredi sur toutes les bêtes, comme Sainte Vendredi, en temps que Sainte Dimanche, en tant que leur supérieure, est la patronne de toutes les êtres vivants: ceux des eaux, ceux de la terre et ceux volants. Chacune des saintes, après avoir donné à la héroïne fatiguée "un croissant de pain consacrée et un petit verre de vin" (symboles des aliments rituels essentiels, qui permettent la communication avec le sacré), lui donne en cadeau un objet magique, signe, en même temps, du destin: la quenouille d'or qui file seule, le 206
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dévidoir qui dévide seul et la poule aux poulets d'or, symbole de l'imortalité et de la fertilité (car la héroïne est enceinte et ne peut pas accoucher que à la suite de la touche du cercle de fer qu'elle porte autour de sa taille, par le petit doigt de la main du héros initié). On en déduit, bien-sžr, qu'il ne s'agit pas ici d'un enfant quelconque, mais d'un fruit spirituel, qui ne naît qu'après trois années d'initiation dans des pays non-terrestres et cela même au centre suprême qu'est le monastère d'encens (métaphore du monastère cosmique). Une fois l'initiation de la héroïne et de son pair solaire Le Beau Prince (FătFrumos) achevée, ils retournent dans le monde des mortels, le prince étant destiné à être un héros civilisateur du monde terrain. Dans le conte de Creangă on ne trouve pas, comme dans le cas des autres espèces archaïques, une très détaillée description du monastère d'encens. On n'en apprend que le fait qu'on y arrive à travers une cave, symbole initiatique de la mort et de la ressurection dans une autre condition, celle d'initié. Dans d'autres contes, le monastère d'encens (l'église blanche) est située au sommet d'une montagne haute et droite en verre, ou en pierre façonée, ce qui décrit symboliquement la transparence des cieux. Cette montagne n'est pas accessible qu'au initié aidé par le guide psychopompe en vol vers le monde supérieur. C'est en fait un voyage initiatique dans un autre monde, le dernier, reservé aux héros moitié divins et à ceux destinés à devenir des héros civilisateurs du monde terrestre. Le mont, lui-même symbole ascensionnel et de verticalité, fait le passage de l'ascension à l'élévation. Il est en même temps l'axe de l'univers, mais un archétype aussi de la méditation cosmologique. Les autels s'érigeaient, d'habitude, au sommet d'une montagne sacrée, comme l'était le mont blanc des celtes ou le Kogaionon dace. Son ascension est d'une nature spirituelle évidente, l'élévation étant l'accomplissement de la connaissance de soi-même, qui conduit à la conscience de Dieu. A l'origine du christianisme, les montagnes avaient symbolisé les centres d'initiation, et le monastère, comme centre suprême de cet accomplissement de la connaissance, a été comparé avec un Gérusalèmme céleste (voir René Guenon, Regele lumii (Le roi du monde), Bucureşti, Ed. Rosmarin, 1994). La couleur blanche - en roumain alb (mot dérivé du latin albus et apparenté, d'après R.Guenon, au mot hébreu laban) de l'église blanche représente l'autorité suprême (voir René Guenon, L'ésotérisme de Dante). Le symbolisme de l'encens est lié à la représentation symbolique du monastère comme centre d'initiation suprême, car cette essence (une résine) sainte assouplit la communication avec la divinité à travers la prière vers les cieux. D'après plusieurs croyances, l'encens est la résine du ciel, c'est pour cela qu'il est utilisé dans nombreux 207
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rituels. Vasile Lovinescu dans son livre Interpretarea ezoterică a unor basme şi balade populare (L'interprétation ésotérique des contes de fées et des ballades), Bucureşti, Ed. Cartea Românească, 1993, en commentant des contes enregistrés par Vasile Popa de Fălticeni, y inclut aussi le motif du monastère blanc. Dans les contes cités, celui ci se trouve sur la montagne sacrée, au voisinage de l'arbre du monde, de la source de la guérison et de la cruche de la joie, quelque part dans les montagnes du Pays d'en Haut. Le conte commenté est considéré par V. Lovinescu comme un pélérinnage hyperboréen vers le Pays d'en Haut. Le monastère blanc se trouve dans les cieux où on trouve aussi les racines de l'Arbre inversé du Monde. Pour neuf ans le héros traverse des terres dessertes afin de la trouver: "après beaucoup de fatigue il est arrivé à ce monastère, beau comme ses yeux n'avaient jamais vu, les tours levés dans les nuages"... (V.Lovinescu, op.cit., p.117: "după multă osteneală a ajuns la acea mânăstire, frumoasă cum nu mai vazuseră ochii lui, cu turnurile ridicate în nouri..."). Il est le gardien de la Tradition et du pouvoir mundain. Dans le voisinage, dans une cave, vît un ermite oublié par le temps, qui descend touts les neuf ans au monastère pour initier le héros prédestiné à apprendre les secrets du connaître. Pour trois fois des neuf ans le héros est envoyé se promener dans le monde "les pieds nus et déguenillé", pour ouvrir ses yeux, afin de pouvoir reconnaître à l'arrivée L'Arbre du Monde auprès du monastère blanc. Initié maintenant, le héros peut monter dans L'Arbre du Monde pour s'approcher à la divinité, mais il n'a pas le droit de la regarder, il ne peut que lui entendre la voix, après quoi il est tourné vers la terre, étant rempli de grâce éucharistique. Demandé par les gens du monastère blanc, le héros repond: "Le monastère blanc! Oui, on dit qu'il y aurait un monastère qui aurait été appelé blanc. Mais celui-ci était il y a longtemps. Quelques mille ans, avant le déluge" (op.cit.: "Mânăstirea albă! Apăi se zice că ar fi fost o mânăstire ce s-ar fi chemat albă. Dar asta a fost demult tare. Cu vreo mie de ani în urmă, înainte de potop"). Ainsi, le vieux ermite, vieux comme le temps, que le héros avait rencontré au monastère blanc, était le vieux du temps Noe, le patriarque du déluge. D'après V. Lovinescu, une civilisation qui a au centre le monastère blanc, comme centre initiatique suprême, appartient à la Tradition Primordielle. Elle a ensommé aussi les traditions chrétiennes ultérieures, produisant une osmose, ainsi que Emil Cioran pouvait affirmer que "si quelqu'un doit quelque chose au peuple roumain pour toute sa création spirituelle, celui est Dieu" ("dacă cineva îi este dator poporului român pentru întreaga sa creaţie spirituală, acela este Dumnezeu"). 208
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Le motif du monastère d'encens (l'église blanche) apparaît explicitement dans les chants de Noël aussi. D'après la tipologie du chant de Noël roumain, faite par Monica Brătulescu (Colinda românească (Le chant de Noël roumain), 1981) le motif est présent en trois types: 177. La Mère de Dieu avec l'enfant dans les bras et la messe dans le monastère, 178. La messe dans le monastère et 179. Le monastère et le navire. Entre eux, le motif le plus rélévant comme structure archétypale est 178. La messe dans le monastère. Dans son analyse, Monica Brătulescu croit que "l'image bizarre pour notre paysage, du monastère aux autels là-bas sur la mer, reçoit un sens à travers sa relation avec le modèle byzantin" et envoit à l'étude en français, de 1935, par Nicolae Iorga, Bizanţ după Bizanţ (Byzance après Byzance). Mais, comme l'observait Mircea Eliade dans les ouvrages déjà cités: "on pourrait affirmer que, en général, lea influences venues de l'extérieur ne créent pas un complexe religieux, mais plutôt s'ajoutent aux structures déjà existentes". De ces structures part aussi Vasile V. Filip dans son ouvrage Universul colindei româneşti (L'univers du chant de Noël roumain) 1999, dans la perspective des structures de mentalité archaïque. L'auteur nous avertit que le polymorphisme de ce motif "est vraiment décourageant" (op.cit., p.124). C'est pour cela qu'il axe l'analyse sur le modèle mythique du monastère dans le chant de Noël roumain, "modèle paradigmatique de chaque Temple". Ce modèle paradigmatique est le Cosmos, dans son acception mythique de "structure cosmotique de l'Univers." C'est pour cela que le monastère cosmique des chants de Noël, des contes, des ballades, se trouve dans un autre monde, celui de l'imortalité, de la vie sans mort. On trouve l'image du monastère cosmique dans les vieux chants de Noël, dans sa proche projection dans les contes, à travers son emplacement sur la montagne sacrée d'au-delà des neuf cieux: "Après la colline la plus grande / Velerim et Veler Seigneur / Le Saint Soleil s'est levé / Mais ce n'était pas le Saint Soleil / Mais c'était un monastère / Aux murs d'encens / A la porte de citron / Mais qui y est assis? / Voilà Père la Veille et Père Noël / Et puis Père Adam le bon"... ("După dealul cel mai mare / Velerim şi Veler Doamne / Răsărit-a Sfântul Soare / Sfântul Soare nu era / Ci era o mănăstire / Cu pereţii de tămâie / Şi uşa de alămâie / Dar într-însa cine şade? / Moş Ajun şi Moş Crăciun / Şi cu Moş Adam cel bun..."). La comparaison avec le Saint Soleil est faite dans le sens spirituel de la luminosité de la connaissance suprême. On associe, dans la symbolistique de la lumière, à la lumière d'essence divine, le blanc, la couleur de l'autorité suprême, de la purification et de la pureté de l'esprit. Dans un chant de Noël recueilli par Constantin Brăiloiu dans la région de 209
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Hunedoara on trouve le symbole du monastère blanc aux neuf autels (-les neuf cieux) qui communique avec le paradis: "Là-haut, plus en haut / Là-haut vers le soleil levant / Aille, pour le Dieu Seigneur / Il y a écrite une très grande chose / Il y a un monastère blanc / Il n'est ni petit, ni grand / Il n'a que neuf autels / A l'autel vers le soleil levant / Aux portes vers le soleil couchant / Qui est-ce qui chante la sainte messe? / Voilà, ce sont neuf prétres vieux / Et quand la messe commençait / Le Paradis s'ouvrait." ("Colo-n susu, mai în susus / Colo sus la răsărit / Ai, Domnului Doamne / Scrisă-i tare lucru mare / Este-o dalbă mânăstire / Nici nu-i mică, nici nu-i mare / Numai cu nouă altare / Altaru spre răsărit / Cu uşile spre apus / Slujba-i sfântă cine-o cântă? / Cântă nouă popi batrâni / Când slujba se începea / Raiu se deschidea"). Une image particulière du monastère cosmique dans les chants de Noël est celle du monastère et de la mer (le navire) en relation avec le cosmos. Dans un chant de Noël inclus dans la collection Literatură şi obiceiuri din Corbii Muscelului, 1929 (Littérature et coutumes de la région des Corbeaux de Muscel) par C.Rădulescu-Codin apparaît ce topos mythique: "Il est fortement écrit / Une grande chose / Il est écrit d'un blanc monastère / A l'autel là-bas sur la mer / Les tours en haut vers les étoiles / Aux murs en marbrelles / Aux colonnes en diamant / Aux portes en encens..." (p.67: "Scrisu-i tare / Lucru mare / Scrisă-i dalbă mânăstire / Cu altaru jos pe mare / Turnurile sus la stele / Cu ziduri de mărmurele / Cu stâlpii de diamant / Cu uşile de tămâie..."). Dans l'analyse de ce motif, V.Kernbach dans son ouvrage Universul mitic al românilor (L'univers mythique des Roumains), 1994, p.62 renvoit à Pausanias avec la description de l'Ile Blanche (Leuké) aux bouches de l'Istre, dans le Pontus Euxinus, et aussi à Gheorghe I. Brătianu, qui a identifié cette île blanche, issue comme un rocher de la mer, la mythique Leuké ou Achilleis, avec une île réelle, l'Ile des Serpents de la Mer Noire. La légende nous dit que la déesse Thetis a apporté ici la dépouille de son fils conçu avec un mortel, Achilleus, mort à Troie. C'est l'île mythique mentionnée aussi par N. Densuşianu dans son ouvrage Dacia preistorică (La Dacie préhistorique), où l'on suggère l'existence, pour une époque très lointaine, d'un temple en marbre blanche dans l'île Leuké. Certes, l'image du monastère blanc du rocher d'outre-mer est gardée dans des anciens chants de Noël roumains, comme le sont ceux recueillis par B.Bartok: "Au fond de la mer blanche / Petite compagne et notre seigneur / Il y a un grand monastère / Il est grand, mais pas trop grand / Seulement du ciel à terre / Il est gros, mais pas trop gros / Seul qu'il comprend le monde entier..." ("Pe prundu mării dalbe / Lilioară şi-a nost domn / Este-o mânăstire mare / Nici de mare, nu-i prea mare / Făr' 210
LUCIA BERDAN ● Le monastère cosmique. Étude de hiérologie ethnologique
din cer până-n pământ / Nici de lată nu-i prea lată / Făr' cuprinde lumea toată..."). En symbolisant les dimensions du monde entier, ce monastère cosmique est en soi-même le symbole de la liaison sacrée entre ciel et terre. Aux symbolismes déjà mentionnés ici, on doit ajouter ceux du navire, de l'église comme pierre fondamentale et de la pierre précieuse ("aux colonnes de diamant"), étant tous des connotations sacrées, très claires dans la herménéutique. Ce sont tous des symbolismes ecclésiastiques très anciens, qui se retrouvent dans la tradition hébraïque du Vieux Testament. De la symbolistique du navire, comme de celle du lapis (de la pierre) dans les chants de Noël, parle Silvia Chiţimia et ces études ont étés inclus dans l'ouvrage en cours d'apparition Un model liturgic al colindei (Un modèle lithurgique du chant de Noël). Ce qui est intéressant, de notre point de vue, c'est le rapprochement entre le motif du monastère cosmique et la pierre fondamentale (lapis ex coelis - la pierre du ciel) dont on construit l'autel de l'église primordiale, en fait le principe de l'entière église chrétienne imaginée comme un "Temple saint en Dieu" (Epître de Paul 2, 21). C'est en même temps un exemple de la modalité dont la herménéutique mythique a été reprise par celle ecclésiastique, ou, comme bien l'observait Mircea Eliade, que les nouveaux symbolismes se sont construits sur des structures déjà existentes. Dans le monastère cosmique des chants de Noël, situé, d'après un image emblématique "Là-haut et plus en haut" (colline, montagne, rocher de la mer) servent des personnages pré-chrétiens de la catégorie des ancêtres archétypales: Père la Veille, Père Noël, Père Adam, come symboles du temps éternel, mais aussi des saints comme Saint Jean (Sântion), le prêtre archétypale (voir Vasile V. Filip, op.cit.) entouré par neuf prêtres vieux: "Làhaut et plus en haut / Où tous les saints sont allés / Il y a un blanc monastère / Aux murs d'encens / Aux portes de citron / Aux soeuils en marbres.../ A l'autel voilà Jean le Saint / Avec neuf prêtres vieux / Qui font la prière de semaines" ("Colo-n sus şi mai în sus / Unde sfinţii toţi s-au dus / Este-o dalbă mănăstire / Cu pereţii de tămâie / Uşile de alămâie / Pe la praguri tot de marmuri... / La altar e Ion cel Sfânt / Cu vreo nouă popi bătrâni / Rugă-ş fac de săptămâni"; chant recuielli en Transylvanie par N. Densuşianu). Le motif du monastère blanc apparaît aussi dans une très ancienne ballade populaire roumaine, Soarele şi luna (Le soleil et la lune), dans l'épisode où la fille (la Lune) demande au Soleil (le frère qui la demande en mariage) de lui faire "Un pont d'argent sur la terre / Et au bout du pont / Tu vas me faire une petite église / Ni plus petite / Ni plus grande / Seulement qu'avec neuf autels" ("Pod de-argint peste pământ / Şî la captu' podului / Sî faci o bisericuţî / Nici mai 211
LUCIA BERDAN ● Le monastère cosmique. Étude de hiérologie ethnologique
micî / Nici mai mari / Numai cu nouî altari"; enregistrement par Lucia Berdan en 1976 à Ţibucani, Neamţ). Dans des collections de ballades, le motif apparaît combiné avec l'image du monastère sur la mer: "Tu vas faire un pont de cire / Au milieu de la mer / Une église en cire / Et les prêtres en cire aussi" ("Sî faci pod de ceară / Pe mijloc de mare / Biserica de ceară / Şi popii tot de ceară"; N. Păsculescu, Literatură populară românească (Littérature populaire roumaine), Bucureşti, Socec, 1910, p.189). Le motif fait partie de la catégorie de ceux nommés dans les contes et les ballades les épreuves de l'impossible. Mais le mari Soleil, "Fort comme il était / Il battait ses paumes / Il faisait le pont / Et au bout du pont / Visage de monastère / Audacieux rempart / Pour le mariage" ("Puternic ce era / Din palme bătea / Podul mi-l făcea / La capul podului / Chip de mănăstire / Falnică zidire / Pentru cununie"; collection citée). Nous allons conclure, vues les preuves discutées, provenantes de la culture traditionnelle, que le centre suprême représenté par le topos mythique analysé: le monastère cosmique (le monastère d'encens ou l'église blanche), s'applique à une sacralité antérieure, pré-chrétienne, attribut de la Tradition Primordielle universelle. La vérité absolue que montre l'initiation dans le monastère d'encens (l'église blanche) est au-dessus du temps. C'est une vérité sur-humaine, qui se rapproche à la sphère du divin, du mystérieux, de l'inaccessible. La maintenance, dans notre culture traditionnelle, d'un pareil topos mythique dans des créations archaïques, qui nous sont parvenues jusque dans la culture moderne, est encore une preuve de profondité d'une telle culture. C'est pour cela qu'on est convaincu que l'analyse de ces topoi mythique, d'autres perspectives aussi que de ceux strictement textuelles, peut bien relever des autres facettes de la tradition inscrite dans cet éternel réservoir de spiritualité.
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SORINA ROMANO ● Il genere della fiaba nel folklore romeno
IL GENERE DELLA FIABA NEL FOLKLORE ROMENO Sorina Romano
Questa specie folklorica è chiamata “poveste” che significa favola o racconto, in diverse regioni della Romania come nella Transilvania, Moldavia ed anche in alcune parti della Muntenia. In quest’ultima regione, però, il nome più diffuso è quello di fiaba. I primi raccoglitori della Muntenia, Filimon e Ispirescu, hanno introdotto nella letteratura il termine di “basm” (fiaba); termine poi fissato e delimitato da B.P.Hasdeu. Per la diffusione delle collezioni di letteratura popolare, il termine “favola”. La parola “basm” è di origine slava; essa appare nella vecchia letteratura popolare romena nella forma “basna” o “basn”, il cui significato sottintende una narrazione non veridica, inventata, in opposizione quindi ad un racconto tratto dal vero. Per alcuni scrittori come Cantemir, il termine “basm” racchiude anche la categoria “poveste”. La forma “basn” è attestata verso la metà del secolo scorso; dopo di che viene definitivamente soppiantata dal termine “basm”. Con il termine ”basm” (fiaba) s’intende quella narrazione, correntemente la fiaba di magia, nella quale accanto all’uomo, appaiono protagonisti soprannaturali, insieme ad altri esseri e oggetti; ma la specie è di più largo respiro, come è attestato nel catalogo Aarne-Thompson. Esso comprende quattro sottospecie che denotano in un certo qual modo il carattere unitario della specie: fiaba di magia, fiaba-leggenda, fiaba novellistica e fiaba dello stupido diavolo. La denominazione di fiaba di magia è la traduzione del termine corrispondente della classificazione AarneThompson e anch’esso può essere convenzionale. Essa narra dei fatti miracolosi e irreali in opposizione ai racconti verosimili. La fiaba-leggenda dovrebbe comprendere la fiaba a carattere misto, come indica la stessa definizione. Se teoricamente la suddivisione può sembrare chiara, includendo Aarne-Thompson fiabe dove appare Dio con altri santi, in realtà la situazione rimane abbastanza confusa. Alcune fiabe attestate da AarneThompson fra quelle fantastiche, potrebbero essere incluse nel repertorio di quelle a carattere leggendario. D’altro canto alcune fiabe leggendarie hanno un carattere composizionale simile alle fiabe fantastiche, soltanto perché vi compaiono 213
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Dio ed alcuni santi. Nell’Europa occidentale l’elemento cristiano, sovrapponendosi a quello pagano, ha dato vita ad alcune varianti (tedesche o italiane) in cui la figura del vampiro è stata sostituita da quella del ladro, nel momento in cui la credenza del vampiro è scomparsa presso quelle popolazioni, mentre nell’Europa orientale essa è ancora viva. Le fiabe relative alla figura del diavolo stupido mostrano lo stesso processo di sostituzione: cioè i dragoni vengono sostituiti dai diavoli. Nel repertorio romeno, possiamo incontrare varianti di questa sottospecie in cui ricorrono dragoni; nello stesso tempo possiamo incontrare anche varianti dove i dragoni sono stati sostituiti dai diavoli. Come si può vedere, ciò è determinato dal bisogno di dare un supporto di verosimiglianza alle narrazioni, dimostrando che fare i narratori popolari con una mentalità arcaica, la fiaba è una narrazione verosimile. Il fatto che gli avversari soprannaturali sono vinti per mezzo dell’astuzia, avvicina questa sottospecie all’aneddoto, costituendo perciò il ponte di passaggio tra la fiaba e la novella. Riteniamo quindi che sarebbe più pertinente indicare col nome di fiaba i tipi compresi nel catalogo Aarne-Thompson fra 1000 e 1199. In altre parole, la determinazione di una specie può essere diversa da paese a paese, perché entrano nelle narrazioni gli elementi culturali e tradizionali di quel popolo e le sue credenze che lo differenziano dagli altri, malgrado la mentalità arcaica abbia un fondo comune. Alcune novelle sono state trattate nel repertorio romeno come fiabe fantastiche. Nel repertorio romeno sono state registrate finora seicento fiabe, di cui un centinaio appartengono al repertorio di fiabe novellistiche. Il repertorio favolistico ha la stessa estensione di quello ucrainiano, ma è molto più ricco di quello dell’Europa orientale, anche se la valutazione è certamente provvisoria; dobbiamo considerare che nelle collezioni di fiabe non sono stati attestati tutti i tipi esistenti e narrati sul territorio rumeno. Il catalogo internazionale compilato da Aarne-Thompson considera solo alcune collezioni nazionali e quasi la metà della totalità dei tipi romeni non figura in esso. Questo fatto potrebbe far credere che i tipi assenti sarebbero creazioni specifiche romene, ma le considerazioni fatte sulla mancanza delle raccolte del repertorio nazionale ci invitano alla prudenza nelle nostre valutazioni. Tuttavia anche se le ricerche sistematiche dovessero dimostrare che un certo tipo di favola esiste soltanto in Romania, non si può concludere da ciò che esso è una creazione propriamente romena. La fiaba in questione potrebbe benissimo essere stata prelevata dal patrimonio folkloristico di un altro 214
SORINA ROMANO ● Il genere della fiaba nel folklore romeno
popolo che, nel frattempo, potrebbe averla persa in epoca anteriore alla raccolta folklorica. Il catalogo Aarne-Thompson registra alcuni tipi che sembrano unicamente romeni, senza però che su di essi sia stato effettuato un controllo severo, essendo stati trascritti per esteso dal catalogo di Schullerus che ha dato un riassunto estremamente succinto di queste narrazioni. Baba Dochia appare come fiaba esistente solo presso i Romeni mentre Saineau alla fine del secolo scorso, segnalò alcune varianti presso i popoli del sud-est europeo. Soltanto nuove, minuziose e sistematiche ricerche possono delimitare le fiabe conosciute da un solo popolo senza però poter dedurre da ciò che queste fiabe siano creazioni di quel popolo. Il repertorio favolistico di un popolo è notevolmente ricco, considerando la possibilità che il narratore ha di combinare un insieme di episodi e di dare alla fiaba così una forma nuova.
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III. IPOSTASI DEL MAGICO
LUCIA OFRIM, ALEXANDRU OFRIM ● Apertio librorum. Books and Magic in a Romanian Village
APERTIO LIBRORUM. BOOKS AND MAGIC IN A ROMANIAN VILLAGE Lucia Ofrim, Alexandru Ofrim
A Zen paradox says that: “The world is the way we perceive it because we perceive it that way.” Man is not fully aware of the way he sees the world. We rememer that Dorothy on her way to the land of the Wizard of Oz crosses the Emerald Town where absolutely everything is green. All this time she is forced to wear a pair of glasses with green lens. We can easily realize that the fame of that town was entirely due to the green filter. World sems to be always perceived by means of cultural filters. The “glasses” used by people belonging to traditional societies are particular, because the two lens used in the same time differ one from the other. The global effect is a synthesis between the magic and the religious filter. In the traditional mentality , the prayer mingles with sorcery and charm, the religious belief with superstition . For instance, if a terrible tempest occurs, the peasant would pray, would make the sign of the cross and light a candle (carefully kept from the Easter) on the threshhold of his house but, in the same time, he thrusts a knife in the yard in order to keep the danger away. In the traditional Romanian village there is a whole universe of beliefs among which many forms of the normative religion are modified, reinterpreted. But in spite of this, the man of the traditional society will never lose his respect for the sacred, for the truth of normative religion. In the traditional mentality religion and magic are complementary means of solving the various accidents of everyday life. Between these two domains there occurred multifarious facts which are difficult to be included either in the magic or in the religion. This is the touch stone of any research in the domain of popular religion, being difficult to delimitate the facts, to draw the line between religious and magic aspects. In the proximity of religion there evolved a whole category of facts included in the sphere of magic acts. These facts appear to be complementary to the religious habitudes as the Romanian interwar sociologist and
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ethnograph Ernest Bernea put it: “In the Romanian village there is a category of religious facts which doesn’t belong to the coherent system of beliefs and acts included in the official religion. Nevertheless, they are the live expression of the same attitudes of worship and deep respect for the sacred, like the ones which find their expression in the normative form of religion. So we can speak of a popular religious life even richer than the official one”.1 Religion and the church are regarded as depositary of supernatural powers which could be any time invoked by the believers in order to obtain some help, practical solutions, and also represent the hope for overcoming the hardships of everyday life. A whole universe of beliefs and magic oriented acts emerged from the religious rituals, holy objects and even priests as mediators between man and the sacred. This was possible by modifying the relation towards the sacred, adding to the prayer or even substituting it with an attitude of control over the supernatural forces which are summoned . The priests, the psalm readers, the monks had an important role in these practices. The countryside man of the church shared the same mentality with most of the ordinary people, as they often had the same background. They could not possibly ignore the active force of the traditional culture, the attitudes the behaviours, the customs, the beliefs which were part of their education, too. The village churchmen have always been close to their congregation, shared the same world view. The divinatory practices come along with many other traditional magic acts: observing the animal behaviour, reading the supposed signes revealed in drems, predeterminist rites. Apart from these, there are often consulted the let’s call them”specialists” in telling the future. Man’s eternal wish to foresee the events of life has led to a great variety of predeterminist beliefs. Trying to enter this mental sphere we may see that the oral tradition blends with written culture. In this respect Jack Goody remarks that in traditional societies, the writing is integrated into the divinatory practices. Frecquently writing becomes the most appreciated divinatory technique because it makes possible a new practice of the secret.2 Sarting with the 17th century all over the Romanian territories a large variety of divinatory texts are translated and spread around. They are texts concerning astrology and future telling. The oldest text which has been kept is a manuscript dating from 1621 named Rojdanicul. This one would tell the 1 2
Civilizaţia românească sătească. Ipoteze şi precizări, Bucureşti, 1944, p. 61. The Domestication of the Savage Mind, Cambridge University Press , 1977, p.30.
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future by the month in which the man was born. Another book called Zodiacul ( The Zodiac) would tell the future after the twelve signs. The text called Trepetnicul makes connections between future events and the involuntary movements of muscles: cramps, winkles and so on. There are also used books about dream reading. All these texts made use of a codified language which could not be easily understood. They needed some specialists to decode them, to make the necessary connections with everyday life, to integrate them into the cultural models functioning in the Romanian village. The last century priest and folklorist Simion Florea Marian remarked that on the New Year’s Eve the people who wanted to foresee their destiny (“scrisa”) which was supposed to be written somewhere in the Book of Life went to the astrologers (zodieri) in order to find out from them what was written for them in the Book of Fate (Cartea sorţii)3. So this is an intance when we may identify the integration of the texts of prediction into the traditional mentality. The moment chosen for reading a sign is New Year’s Eve, a time when they believed they could give the shape they wanted to the future or, at least, they could tell the future by means of domestic divinatory practices They used to call these experts in predicting future by using a book “zodieri” (astrologers) or “cătători”(searchers) or “păscălari”. They are the ones to whom the future and the unknown, the answers to everyday dilemmas are revealed in the book . In the Romanian press from the end of the 19th century there are numerous reports which give us an idea about the profile of such individuals. As a matter of fact in the years that followed the revolution of 1989 the press presents articles about persons who have the gift of prediction using a book. In fact, the popular astrologers (zodieri, cătători) were studied in the frame of the monographic school from Bucarest, initiated by the interwar sociologist Dimitrie Gusti. In one of the field researches, Petre V. Stefanuca identified a popular astrologar (zodier), named Moş Ion Cocul Zodierul, who was sixty years old.4 This one brought Rojdanicul in his youth from a monk. Since then so many times had he read from this book that he had got to know it by heart. It was enough to be told the day and the year of somebody’s birth and he would open the book and start telling the whole past and the future 3
Sărbătorile la români, Bucureşti, Editura Fundaţiei Culturale Române, 1994, vol.1, p.50. Ion Cocul Zodierul şi vraciul din Iurceni in “Sociologie Românească”, 1936, nr.11, p.110146. 4
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and all the important events of that person’s life without being actually necessary to read what was written there, because he knew it by heart. He even tried to verify if the real events which occured to people from his village matched with the ones written in his book. So he copies from the Town Hall archives the birth dates of many villagers and, for several years, observed if their destiny coincided with what their correspondent signs said. He arrived at the conclusion that “what is written in the Zodiac will always happen.” The prestige of such a character was due to his ability to adapt the zodiac data to the everyday life. The connection he made between the ordinary events and the cosmic order revealed by the book offered patterns of behaviour, systems of reference, keys of evaluation. As the scheme of the zodiac is composed of a limited number of signs, the astrologer is obliged to reduce the variety of concrete situations to few standard predictions. Had he limited only to his book, the astrologer would have had no success at all. He knows that besides the zodiac he has to make use of an entire oral tradition. Here are some examples in which the researcher, taking part in the astrologer’s “sessions”, reproduces the dialogue with with his clients: “From the day of Saint Peter till the day of Saint Mary you are not to wear a black hat, it is written here in your sign that you will go blind”. To another villager he says: ”You are not allowed to ride a white horse should its mane be split in two, but if its mane is on one part, you should ride slowly because you are in danger.” It is obvious that such prescriptions were not to be found in the zodiac. They belonged to the oral tradition, or were a fruit of his own imagination. Using the zodiac frame, the astrologer could fill it with elements from the oral tradition. Another client comes to then astrologer to find out why he has no luck in his enterprises. The astrologer tells him that the book says that his house is not properly built. He should not live in a South oriented house. Jean Cuisenier remarks that in traditional mentality the house has not only practical functions, but it is also inscribed a cosmic order.5 The house had to be built on a clean spot facing East in order to be protected against malefic forces. The authority of the advice given by Ion Cocul Zodierul was so great that the villager listened to him and pulled down his house and built another one, in another place, in accordance with the prescription from the book. The 5
Jean Cuisenier, La maison roustique: inscription dans l’ordre cosmique, in “Ethnos”, Muzeul Satului, 1992, nr.1,p.16-23.
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belief in rebuilding one’s house in another place in order to improve one’s destiny was wide spread in Romania.6 The fame of Mos Cocul Zodierul went far beyond the limits of his village. On a single day the researcher Petre V. Stefanuca counted over one hundred persons who came to find out what was written for them in the zodiac. This made him wonder if there was any village doctor who would overcome him in the number of patients per day… We have presented these examples in order to understand that contemporary attitudes which contrast with modern rationality derive from roots back in the past. The process of modernization came overtly against the traditional culture. Today we can no longer speak about the traditional Romanian village, which has undergone profound changes during the communist years, as forced cooperativization, movements to and fro between village and town. In spite of all the changes aspects of traditional culture survived, remaining part of what the history of mentalities call “immobile history”. Behaviours belonging to the traditional syncretic mentality, which permited magic and religion to interfere, survived in some corners of everyday life, unaffected by the spirit of modernity. The recent field research we have carried out in Maramures in September 1999 and May 2000 confirmed our hypothesis that this phenomenon still exists on a pretty large scale. Even today a trust that some persons are able to foretell the future still has its definite place in the collective mentality. The peasants from Maramures continue to share some of the same anxieties as two or three centuries before. Whenever a person is confronted with an implacable event (disease, misfortune, bad luck, a.s.o.) and has already unsuccessfully tried all the conventional means (for instance, seeing a large number of doctors), will be tempted to look for answers through these alternative means of investigation or exorcism of the unknown and the malefic sources. The investigated village was Salistea de Sus, on the valley of the Iza river. Here we have identified a person who opens the book as a divinatory means. He is the former Psalm reader from the village church; his name is Chis Simion and he is sixty-nine years old. At his door people queue; many of them come from other villages and from towns, even from Bucharest. Sometimes they have to fix their appointments by phone. He is believed to 6
Ion Taloş, Riturile de construcţie la români, in “Folclor Literar”, Timişoara, 1968, vol.2, p.228.
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have the gift of prediction. This gift is conditioned by the presence of a holy book. The most frecquently used books are the Psalm Book and Pravila (the book of religious laws). There are used only old books, usually printed in slavic characters, unintelligible to clients (sometimes unintelligible even to fortune tellers themselves). As we shall see, the book may sometimes be just an exterior detail, an element of scenery to impress the client. Data collected on the field mention also the use of Talmud. Making use of books in other characters than the Latine ones is a strategy, it is a way to enlarge the prestige of the divinatory act, by their exotic book, and the aura of mistery to be deciphered . The looked for information is not to be found at hand, therefore the act by which it is reached for has to make use of another type of knowledge which supposes an initiation. Pretending that he is the only one who can read that book he offers a supplementary guarantee in front of his clients that he is the one who has access to that truth otherwise hidden to them. The exotic book is supposed to have a mysterious connection with that level of reality in which there are the solutions to the dilemmas and problems of life. In the case we studied, the book used is written in Gothic characters. In spite of our insisting on taking a closer look at the book, he only allowed us to take a picture of it from a resonable distance. All we could notice was that the book was not Orthodox, but Catholic. He says that the book is older than three generations. He inherited it and the technique to use it from father to son. The book was brought into the family by his grandfather Chis Darie Simion who had left for a monastry in Bucovina when he was eight years old. Up to 1918 Bucovina was part of the Austro-Hungarian Empire, fact which explains the presence of a Catholic book. His grandfather returned home when he was 22 and became Psalm reader in the village church. At the same time he started to use the book for divinatory purposes. He died in 1925 and his son, Chis Grigore, inhereted both the book and the qualities to practice this type of divination. So, our subject inhereted in his turn the book from his father. He has an impressive list of examples which confirm the prestige acquired by his predecessors, prestige which he has tried to transfer over himself. His own son, 42 years old, unmarried, will probably follow in his steps. We took part at some sessions of opening the book. The client is always asked to make the sign of cross on the closed book, touching the cross from the cover. Then the clien opens himself the book at random. Then the
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fortune teller puts on his glasses and pretends to read the paragraph from the page where the book opens . What follows is a transcription of such a prediction: “ Under this sign, called sun, the third part, there will be born a female child who will be of medium size and born on a fast day. For this, the book says, we thoroughly scrutinize, as a child, the book says, you won’t be of weak health. And as a grown up you will be respected and will have a good job. The book says, scrutinizing, that you will get married after 23 with a stranger, the book says, but in this regard, the book says, if you don’t have offspring during the first three years of marriage, the book says, you will probably never have any, you understand me? But the book says don’t lose your hope and faith in God because with Him everything is possible. The book says to keep black fast for seven Fridays and read the Virgin’s prayers seven times and the priest will read for you Saint Vasile’s Curses for seven times. The book says God will be merciefull and through prayers and fast, the book says, you will have offspring. You have to read also the Psalms 50, 75 every morning. The book says when you are 43 you will be very sick but the book says you will be cured by human doctors because the book says your life will be longer than 78 years. If only God kept the world alive up to then!” It is obvious that he only pretends to be reading. Apart from his improbable ability to read the Gothic characters, the issues in his predictions do not match with the contains of a religious book. From the example above we can see that what he says is a kind of puzzle made up of phrases from the Zodiac, supposed real events from the client’s life, anticipated major events to come, spiritual remedies, solutions. He invariably recommends the fast and the prayers. We can say that this fortune teller acts like a bricoleur, in the sense Levi Stauss assigned to the term.7 He uses odds and ends in order to build up a solution, so the client would leave his house illuminated. Most of his clients are persons who believe that they are subject to some malefic actions and they want to find out the source of their affliction. For the cure to succeed, it is esential to identify the person who by means of magic has transmited the disease or the misfortune. The illness, the delay in getting married or the lack of offspring, the adultery, the vices, the lack of success in business, all of these are supposed to be caused by some malefic actions. By opening the book the fortune teller confirms the magic source of these accidents of life. The most important remedy recommended is the appeal to a 7
Gândirea sălbatică. Totemismul azi, Bucureşti, Editura Ştiinţifică, 1970, p. 163.
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priest or a monk to read a special pray, the Curses of Saint Vasile, for unbinding the charms. Other clients want him to open the book to find out the outcome of law suits or to identify the thieves or to find lost objects. They also look into the book for solutions supposed to secure the children’s success in exams at school. We noticed that the fortune teller is a mediator who makes connections between the magic cause of illness or affliction and the religious remedy. He is never the one who cures directly, he invariably recommends a priest or a monk to that purpose. We were also interested in the attitude of the churchmen towards this practice. From what we discussed with the priests from the village and with a monk from a nearby monastery, they showed ambivalent attitudes. Both priests and monks reject with religious arguments this practice, “opening the book”, which they consider to be against dogma. Nevertheless the priests can not avoid the pressure of the believers and do read the prayers they are asked for. The monks have a more radical attitude. When they find out that the people come to them sent by some fortune-tellers, their answer is: “If you called for his help, than is to him you should go to cure you!” Moreover there occurs a conflict of self-importance. A monk told us: ”Why should I listen towhat the fortune-teller said?” Now the fortune-teller has no dissensions with the local authorities. Before 1989, during the communist regime, which banned this practice, as a form of mysticism, the activity of the fortune-tellers in the Chis family took place clandestinely. The book was several times confiscated by the local policemen. But as they themselves were part of the local community, they shared the same collective mentality. Accordingly, after having taken the book away from the fortune-teller, any misfortune their family members encountered was thought to be an effect of the misterious powers of that book, or due to the curses of the fortune-teller. Out of fear they returned both the book and the fine, yet not personally, in order to protect their public image. As for the villagers’attitude, it varies from total distrust and suspicion to absolute trust in the power of the book and of the fortune teller. The dominant attitude is of tolerance even if some condamn this practice as a sin. We can not present here the numerous cases of confirmation or infirmation of his predictions and the stories of success or failure of his
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remedies. Some of the remedies are of the magic type. We give here a single example of a very sick child to whom doctors had given no chance to survive, miraculously cured after he was administrated the remedy which was shown for him in the book: he ate the buttonbelly of two new born black twin oxen. We have noticed that the majority of the clients do not come from his village. Although they acknowledged his authority, the villagers prefer to look for their solutions at fortune tellers from other places. The fortune teller in his turn often refuses to open the book for the people from his village. His clients come from all social millieux. For instance, the very moment we came to his door, there was just leaving a professor from the University of Baia Mare who had come to find a favourable solution to his dilemmas. Some clients do not want to be seen in the position of client of a fortune teller and avoid to come personally to him. The fortune teller has a solution to these situations. He may open the book over a “sign”: an object belonging to that person (be it a handkerchief, or a comb, etc.). The predictions are tape recorded and through the help of a go-between arrive at the clients from the “high society” who are interested to protect their public image. Preferentially, the fortune teller accepts to hold the session even on the phone. An extreme case is that of a client from Sighetu Marmatiei. The repeated confirmation of the fortune teller’s predictions led to a sort of addiction: he can no longer take a step without asking for advice from the fortune teller. The fortune teller told us that this person asked him to open the book for more than five hundred times. This procedure of randomly opening a sacred book (apertio librorum) is a very old practice, wide spread almost all over the world. Even if the prediction anticipates an unfavourable situation, once confirmed, the person can cope easily with the hardship because he has the explanation of it: ”That was the way it was written for me.” The divination by opening the book has the role to make life intelligible, to exorcise the unknown and the fear, to make sense of the unpredictable accidents of life. In this procedure, two divergent attitudes mingle: while divination is part of magic, its support is represented by a religious book. During our research, we also were interested in the attitudes towards the sacred books. The priests and the monks sustain that they are the only ones allowed to use them in order to obtain practical effects. A monk told us
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that some books belonging to the Orthodox cult (Molitvelnicul, Liturgherul) are “loaded guns in laymen’s hands”. He gave examples in order to illustrate how dangerous it might be their reading by ordinary people in improper rituals (at midnight, in a ritual nakedness): they were instantly punished by getting blind or paralized. In order to underline the force of the sacred books, the monks tell that even for the priests, it might be dangerous to read the Curses of Saint Vasile . In the case of one priest in the village, it proved to be dangerous even the reading of a book containing charms. He pretends he has read the book as a result of a misunderstanding, as the book contained not only charms, but also psalms and prayers. From the moment he read the book, he has been feeling malefically aggressed and he has kept fighting against sorcery and all magic acts ever since. He had only one great dilemma: how could he burn a book whose pages had pagan charms on one side and Cristian prayers and psalms on the other side. In his dilemma, lies also the dilemma of a researcher who can never draw the line between magic and religion.
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NICOLETA COATU ● Sur l’herméneutique de la magie traditionelle roumaine
SUR L’HERMÉNEUTIQUE DE LA MAGIE TRADITIONELLE ROUMAINE Nicoleta Coatu
La mentalité magique – un ensemble intellectif, affectif, volitif – a consérvé en permanence, au parcours de l’histoire culturelle de l’humanite, la croyance et l’éspoir de l’homme universel qui s’est toujours efforcé de faire triompher sa cause et d’imposer sa dominantion spirituelle. Généralement, la magie est un guide, une arme essentielle, un Weltanschaung, une realité culturelle adiacente de l’existence pragmatique, spécifique humaine. C’est la dimension ontologique des phénomènes magiques qui condensent l’experience totale de l’homme: sociale, psychique, métaphysique, et attestent l’integration de l’être humain dans un ordre terrestre et cosmique. La dimension gnoseologique de la magie reflet la nécessité de la connaissance anticipée et d’élimination du hasard et des échecs, par des mecanismes prémonitoires. Les coordonnées psychiques des structures magiques impliquent un très important rôle cathartique, projetant l’état humain d’armonie et d’équilibre interieur. Dans une perspective axiologique, l’ensemble ethnoculturel magique s’impose comme un système des valeurs. En conformité avec les lois spécifiques de la tradition, les groups traditionnels conservent et actualisent leurs valeurs, paradigmes, modèles seulement en conformité avec leurs exigences fonctionnelles. Les valeurs magiques mettent en évidence des comportements socioculturels codifiés, perpétués par la force de la tradition, comme une réponse aux impératives des groups. L’herméneutique du phénomène ethnoculturel de la magie dans une perspective ethnologique moderne implique un effort scientifique qui est possible seulement par une synthèse interdisciplinaire, par la corrélation des aspects ethnologiques, sémiotiques, sociologiques, psychologiques, même parapsychologiques, ontologiques, esthétiques. Le système ethnoculturels des croyances et des représentations ma giques est très complexe et varié, mais les limites de cette communication imposent, naturellement, une restriction théorique. Par conséquent, notre communication concerne seulement le comportement magique érotique– prénuptial. 229
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Le parcours ontique: la naissance, le mariage et la mort indique un ordre marqué culturellement par des ensembles cérémonieux spécifiques. Situé entre les deux pôles : l’entrée dans la vie et la sortie de l’existence terrestre, le mariage signifie la transformation du statut social, le passage de l’état prénuptial à la formation du couple conjugal, assurant la continuation et la consolidation de la structure familiale.L’intervalle prénuptial, transitoire, qui est marqué par des modifications biologiques et psychologiques, solicite un comportement socioculturel codifié, des pratiques magiques – érotiques préventives et prémonitoires, pour l’assurance d’un mariage très reussi. La frustration érotique, les échecs de la fille dans sa vie intime, justifiés habituellement par l’absence des qualités physiques (spécialement l’absence de sa beauté), expliquent les pratiques magiques compensatoires, dans le but d’embellissement et du mariage de la fille. La magie érotique repond aussi à la volonté et au désir de prévoir les évènements, la vie dans l’avenir, d’anticiper la connaisance du mari prédestiné. Les invocations d’apporter l’amour et d’apporter l’epoux prédestiné (c’est-à-dire en roumain: descântece de aducere a dragostei şi de aducere a ursitului) relèvent une conduite révéndicative et une chance d’intégration sociale. Pour la mentalité magique traditionnelle, les structures magiques ont un rôle médiateur, représentant une force centripète, un facteur d’équilibre et de compensation des tendances disociatives, négatives. L’herméneutique des structures magiques implique - en notre conception – l’étude du syncrétisme des codes, l’interaction des languages: verbal - poétiques (c’est-à-dire les invocations poétiques) – gestuel – mimique – objectuel rituel, insistant sur les aspects fonctionnels et sémantiques. Entre les textes magiques et les actes rituels il y a une relation de complémentarité. Par la coopération des languages culturellessymboliques, la force des textes magiques est amplifiée par le pouvoir des actes et des objects rituels, dans une logique subordonnée à la causalité magique. L’interprétation théorique du phénomène magique traditionnel suppose la relation du syncrétisme des languages et la structure de communication et de rôle, impliquant quelques aspects essentiels : - la transmission et la récéption des messages magiques entre les deux pôles communicatifs: d’une part, le praticien (le locuteur) et d’une autre part, le solliciteur (l’interlocuteur) qui est aussi le récépteur et le bénéficiaire de l’efficience des pratiques magiques;
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une intention communicative et une fonctionalité spécifique, parce que la pratique prénuptiale représente une forme de magie volontaire, intentionnelle; - une circonstance particulière comme un contexte concret, référentiel. La mentalité du group, consolidée par les lois, les principes de la magie, est le facteur détérminant qui assure la communication magique et la viabilité du phénomène. La fonction socioculturelle de la magie traditionnelle se manifeste par une stabilité de la relation entre les deux rôles polarisés: le praticien comme émetteur et le solliciteur comme récépteur. Les variations individuelles (psychiques) des comportements des rôles se rapportent esentiellement aux modèles généraux traditionnels qui s’imposent comme des constantes virtuelles dans la mémoire culturelle de l’individu et du group, étant actualisés, concretisés, par des variantes, dans toutes les circonstances spécifiques. On peut constater deux situations fondamentalles dans la communication magique prénuptiale: - la situation de la performance spécialisée, qui implique le rôle d’un praticien connu et reconnu pour ses qualités magiques, dans une communication transitive; - et la situation de l’autoperformance qui atteste le cumule des rôles, c’est-à-dire : le solliciteur est aussi le récépteur et le bénéficiaire, dans une communication réflexive, quand l’individu dirige les forces magiques activées vers lui même. Il faut remarquer la prédominance de la féminité, expliquée – à notre avis – par la disponibilité afective, la récéptivité spéciale de la femme, en générale, pour les phénomènes spirituels. La primordialité de la feminité est liée de son rôle vitale - génétique, de son destin d’assurer la continuation de l’éspèce humaine. La psychologie féminine avec sa dominante affective très prononcée, reflète un intérêt augmenté pour les phénomènes oniriques, pour les prévisions magiques des rêves. Par conséquence, la structure communicative est dominée par l’emblème de la féminité à double hypostase : la vierge et la vieille, qui signifient une condition impérieuse de l’efficacité magique régénérateure – la pureté (de l’état virginal et de la vieillesse). La tradition magique conserve certaines préscriptions et interdictions qui protègent cet impératif: par exemple, la vieille qui fait l’incantation doit 231
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être pure a) par sa privation sexuelle; b) par l’échange des vieux habits avec une nouvelle chemise; c) par l’abstinence alimentaire, d’essence réligieuse – chrétienne. Descendant sur la verticale culturelle vers les significations des représentations archaïques, la vieille symbolise l’ancêtre mythique en direction de la feminité, ayant les caractéristiques de la Mère – Déesse de la nature et du terre générateur et fertilisateur. Les représentations de la vieille, dans la mythologie traditionnelle qui reflète le calendrier culturel, comme – par exemple – Les Vieilles ( “Babele” en roumain ) celebrées au printemps (au commencement du mars) relèvent l’ascendence du principe feminin dans la vie naturelle, sociale et dans la psychologie individuelle. La rétorique des languages magiques: des textes, des actes et des objects rituels, est soutenue par la rétorique de la performance: les éléments d’expresivité de la parole (l’intonation, les modulations de la voix, le rithme) et les éléments d’expression corporelle et mimique, qui suggerent la capacité de persuation, de sugestibilité. Dans l’autre situation, la fille apprend les textes magiques et les éléments pratiques rituels qui sont appliqués après sa propre volonté. L’existence communautaire est un processus de formation et d’intégration sociale et culturelle, d’assimilation des modèles du group, spécialement les stratégies et les téchniques magiques codifiées. La personne qui pratique la magie (le praticien specialisé ou, au contraire, le praticien amateur) connaît et respecte les modèles, les règles, les tabous et les préscriptions nomées. La pression du système culturel est très forte, mais la force des modèles n’exclut pas complétement la liberté individuelle, l’expression de la réthorique personelle. La manifestation des rôles délimite des coordonnées spatielles et temporelles spécifiques, qui possedent - comme les autres composants de l’ensemble - une dimension prophane, physique, et une dimension sacre, metaphysique aussi. Chaque pratique rituelle produit une transfiguration de l’espace, qui devient un lieu qualitatif, sacralisé et singularisé. Entre les variables spatielles consacrées par les pratiques magiques, la maison a la valeur symbolique d’un centre qui permet la régénération spirituelle humaine. Pour la mentalité traditionnelle la maison est un lieu ambivalent: une realité materielle, prophane par sa déstination aux activités réellesconcrètes, mais aussi une realité psychologique et sacralisée, par les actions spirituelles rituelles. Les structures magiques mettent en évidence la relation symbolique : la femme – la maison – le centre.
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La phénoménologie de la magie impose aussi l’étude des coordonnées temporelles disociées et nuancées par la diversification des perspectives: - il y a un temps rituel, de la communication magique en oralité; le code temporel indique les jours fastes et, au contraire, les jours nefastes pour la pratique, les préscription et les tabous relevant les variations zonales ou individuelles; - d’autre part, le mécanisme général du rédréssement humain par l’analogie magique des rythmes cosmiques implique la relation avec certains prototypes et reclame un temps archétipale; - il y a aussi un temps du text poétique, avec des variables qui donnent une configuration particulière au discours magique. On doit faire quelques considérations concernant la magie pour la connaissance anticipée onirique du partenaire prédestiné, et pour sa stimulation érotique à l‘egard de la fille qui veut se marier. L’intention de stimuler le partenaire par des moyens magiques impliquent des tendances, des attitudes et des sentiments contradictoires. La tension intérieure des textes poétiques magiques atteste l’ambivalence affective, la coéxistence de deux forces spirituelles: la force du dévouement érotique et la force de la contrainte et de l’agressivité par rapport au partenaire. Cette sympatie furieuse (dans la terminologie de Gaston Bachelard) représente une synthèse des contrastes, une emblème spécifique du conflit humain intérieur. La coéxistence de l’amour et de la haine a des racines psychiques très profondes. Faisant un sondage très subtile, les études psychanalistes déterminent dans la convergence: l’amour – l’hostilité, l’équivalence des pulsions humaines originaires: l’affectivité et la déstruction. Dans le contexte de la magie prémaritale, l’agressivité refletée dans les textes poétiques magiques est essentièlement justifiée par le sentiment de la frustration, par l’absence de l’affection érotique désirée. La personne qui ne peut pas se marier ou qui attend depuis longtemps son mariage vit un sentiment du mal, d’incertitude, d’insucces, un état intérrieur conflictuel. L’action offensive sur le partenaire, par les textes magiques, a une source intime, dans une tendence de défence personnelle, de conservation individuelle. Les réfléxes de la défence sont activées par une volonté qui attaque, justifiant ainsi l’intentionalité magique. L’agressivité exprimée par les languages, poétique et pratique-rituel, n’indique pas un amour négatif, mais une affectivité ambivalente et une force dominatrice, une volonté offensive, 233
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très nécéssaires à obtenir une victoire sur la personne désirée. C’est l’ex pression du dynamisme affectif de l’homme qui veut s’affirmer et lutter pour son déstin, pour son équilibre. C’est l’expression d’une rêverie constructive, la rêverie du pouvoir et d’ éspoir, au but de domination du partenaire – un adversaire qu il faut être convaincu et vaincu. Les textes poétiques magiques, avec des accents violents à l’adresse du partenaire prédestiné, exercent la volonté de la personne qui attend les effets de la magie. La féminité est elle même ambivalente, une unité conflictuelle du bien et du mal. Dans la mentalité traditionnelle syncrétisée à la mentalité réligieuse, la femme unit, dans son éssence, le mal et la promesse de la délivrance. Les images textuelles qui expriment l’hostilité, l’agressivité de la personne frustrée sur le partenaire désiré ont aussi des conotations rituelles. Les rites de passage et d’initiation impliquent certaines formes d’agressivité rituelle, commes les réclusions (dans le forêt), les flagéllations et d’autres. Les textes poétiques magiques contiennent certaines allusions à l’état de réclusion rituelle du partenaire. Les images textuelles suggèrent l’éloignement et l’isolation rituelle du partenaire, projetant son prochain passage, son mariage. La flagellation – un très important act rituel a des conotations sexuelles et purificatoires. Spécialement, la flagellation par le fouettement rituel est: a) un rit de purification; b) un moyen de transmission d’énergie et de force de l’object rituel à la personne flagelée; c) un rit de communion; d) un rit d’agrégation. Le projet magique érotique applique cette pluralité conotative rituelle à l’intention d’échanger le statut du partenaire prédestiné. Le fouettement et les autres actes de flagellation transposés dans le contenu des textes magiques symbolisent une mort rituelle en vue d’une renaissance équivalente à la transformation de l’etat du partenaire. Les forces adjuvantes invoquées pour l’assurance du succès, d’effica cité magique, doivent préjudicier le partenaire prédestiné et puis l’apporter à la fille, pour le mariage prochain. Trouvez – le, Frappez-le, fouettez- le Et l’apportez chez moi, Pour notre amour, pour notre mariage! (1)
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L’herméneuthique du projet culturel magique impose un jeu des perspectives par rapport aux deux instances communicatives: la fille qui désire at attend son partenaire, et le partenaire apporté chez elle par des moyens magiques. D’un part, de point de vue de la fille qui veut connaitre son mari prédestiné, les pratiques magiques ont un sens catarctique et bénéfique. D’autre part, de la perspective du partenaire, l’effet d’éforcement et de domination expliquent certaines éstimations négatives sur ces pratiques magiques prémaritales. Les mentalités traditionelles oscillent entre ces deux poles, mais il parait que la fonctionnalité positive est accentuée, étant l’aspect essentiel de la réalisation de l’armonie et de l’equilibre. Le role et la primordialité de la féminité imposent la prédominance des significations affirmatives de la tradition magique érotique. Les synthèses symboliques- traditionnelles mettent en évidence un syncrétisme culturel très complexe, qui relève l’interaction de la magie – des éléments mythiques – et des idées et représentations réligieuses. Consideré dans une perspective antropologique, l’homme qui produit la culture s’affirme comme une partie du système universel, armonisée et integrée dans les rythmes cosmiques. Pour la mentalité traditionelle qui affirme la cohésion humaine-cosmique, le processus évolutif de la lune a des conséquences positives sur l’évolution humaine. La communication avec les astres : le soleil, la lune et les étoiles – des symboles de la beauté et de l’ armonie cosmique – se réalise par des contacts magiques, verbals et visuels, comme par exemple : La fille regarde une etoile très brillante ou la lune, et dit sa incantation pour obtenir la beauté desirée.(2) Les images des astres évoquent des analogies magiques necessaires pour un transfer d’ énergie et de qualités: la beauté, la luminosité, l’ armonie, à la fille frustrèe, pour sa réussite érotique. Certaines variantes mettent en évidence le mécanisme magique d’assimilation qualitative par rapport au modèle sacre, archétypal du soleil. Le texte poétique este soutenu par la force des actes rituels, dans la manifestation syncretique des languages symboliques magiques. Après le déjeuner des Pâques, la fille qui veux se marier, sort de la maison, fait trois pas de seuil, ouvre un peu sa chemise et puis ferme la, invocand le Soleil. Regardand vers le Soleil, elle dit: Saint Soleil, 235
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Saint Segneur, Je ne lève le vent De la terre, Mais ton cercle Dans ma tête, Tes rayons Dans mes cils; Deux rayons Dans mes sourcils Et deux rayons Sur ma face. Je veux paraître Au jeunes hommes Comme un cerisier fleuri Clôturé avec des diamant.(3) La relation entre le texte -- l’image préchrétienne du Saint Soleil -- la représentation du Jésus - Christ, la lumière magique, et les éléments de la pratique rituelle - cérémoniale, à l’occasion des Pâques, relève le syncretisme du monde. L’embellissement de la fille par lumière signifie l’union avec le modèle sacre exemplaire au niveau spirituel, dans un context (Les Pâques) qui facilite la renaissance par rapport au archetype. Affirmant le principe que la méditation sur une matière détérmine une imagination ouverte, Gaston Bachelard a remarqué que chaque élément: le feu, l’ air, la terre et l’eau provoque un type de rêverie qui controle, particulièrement, les croyances, les passions, les nécéssités spirituelles et les aspirations humaines. Anthropomorphisé dans certains contextes mythologiques, le feu s’impose comme une divinité ou comme un atribut d’une divinité, faisant l’objet des différentes synthèses culturelles – symboliques, dans les systèmes cosmogoniques. L’un parmi les éléments principaux des mythologies universelles considéré comme une cause et un moteur de la vie, un facteur purificateur, mais aussi destructeur, le feu est souvent vénéré dans les formes varieés : le feu solaire, le feu atmosphérique (la foudre) et particulièrement, le feu intérieur associé à l amour. Les structures magiques-érotiques conservent des réminiscences mythiques du feu invoqué comme un agent médiateur qui doit provoquer, par sa force, l énérgie érotique desirée.
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Dans l’interdépendance des textes poétiques magiques et des actes rituels, on peut remarquer la présence du feu dans un syncrètisme spécifique mythique et magique: le feu - représentation mythique et le feu rituel. Des stratégies poétiques mettent en valeur en permanence une correspondence magique entre l’ amour et l’énergie pirique. L’équivalence symbolique: le feu – l amour, soutenue par la causalité magique, dans les textes poétiques rituels, se transforme dans une relation métaphorique, dans les contextes liriques nonrituels. Dans la connaissance anticipée du destin, du mari prédestiné, avant le mariage, l’implication de l’eau (dans une grande diversité des formes d éxpression poétique en relation avec des pratiques rituelles) s’explique par sa fonctionnalité complèxe, spécialement par sa fonction de purification. L’experience mytho-magique liée aux images de l’ eau, du feu, du soleil, de la lune et des étoiles, projéte un idéal de beauté, de pureté et de vitalité érotique. Les énergies cosmiques et terrestres sont invoquées par la fille frustrée qui veut obtenir, par des moyens magiques, son embélissement et l’ amour de son homme prédestiné. Le modèles mythiques préchretiens et, ultérieurement, les modèles réligieux-chrétiens expriment la nostalgie de l’homme à ce placer dans une condition exceptionnelle, médiée par des techniques et des stratégies magiques. La magie avec ses lois spécifiques devient un moyen qui permet une analogie qulitative par la référence aux modèles archétypals exemplaires. Certaines variantes poétiques-magiques font une allusion évidente à la génése biblique et à la naissance du Christe, suggerant l’intention de la transformation magique, la régéneration humaine par rapport aux modèles sacres exemplaires. La primordialité spirituelle de la féminité relationnée aux structures magiques prémaritales se refléte aussi dans l’invocation de la maternité de la Saint Vièrge. Les textes magiques imaginent une hypostase idéale, hyperbolisée, pour la personne frustrée, par cette référence à la féminité archétypale. Dans la concéption rénovatrice des textes magiques, l invocation de la Saint Vièrge signifie l’identification avec le prototype de la chasteté maternelle et l’aspiration humaine à la perfection du modèle. Les variantes magiques d embéllissement de la fille laide présentent une image superlative, l’ image de la Saint Vièrge, suggerant une correspon dance magique, une affinité désirée entre le modèle archétypale chretien exemplaire et l’image de la fille qui doit être transformée par le mécanisme d 237
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‘analogie magique. Le rapport au prototype religieux chretien de la chasteté maternelle sacre exprime le désire et le besoin spirituel humain de tandresse et de protection. Les formules de conjuration de la force sacre, mythique ou religieuse, sont soutenues par l’éspoir à obtenir les qualités désirées: la beauté, le charme, la capacité d’attraction érotique, le prestige dans le group appartenent. Les méssages poétiques ont souvent une structure oblative, impliquant une relation d’ échange: don – contredon. Dans la magie érotique prémonitoire de connaissance anticipée du destin, l’homme prédestiné correspond à un don solicité par l’invocation aux forces astralles mythiques ou aux pouvoirs réligieux. Réciproquement, la fille qui sollicite ce don offre une contredon comme marque de gratitude: Si tu mon prétendant m’envoyeras, Je te donnerai une croix.(4) Dans les autres variantes l’embellisssemnt de la fille est réalisée par des emblémes cosmiques corporels, qui correspond au don de la Saint Vièrge: La Vièrge m’a fait un don : Elle m’a mis la lune au dos, Le soleil sur ma poitrine Et deux étoiles Sur mes épaules.(5) Cet embellissement astrale relève le cicuit d’énergie et la relation intime : la féminité – la macroréalité cosmique, dans une conception intégratoire, spécifique à la mentalité magique et réligieuse. La mentalité magique a un prestige archaïque dans l’ histoire de la spiritualité humaine, mais au-delà des variations et des mutations historiques, elle reste comme une constante, une permenence de l’esprit humain. L’édifice culturel magique à finalité érotique prémaritale s’est conservé jusqu à présent, avec des changements liés à lévolution naturelle du phénomene, parce que la mentalité magique peut vivre dans l’esprit humain même dans les conditions de temps plus pragmatiques. 238
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Notes 1. Text mg. no. 3240 I c, Archive de I.E.F. “C.Brăiloiu”, Bucarest. 2. Text mg. no. 5176 IIs, Archive de I.E.F. “C.Brăiloiu”, Bucarest. 3. Idem. 4. Text mg. no.4673 II l, Archive de I.E.F. “C.Brăiloiu”, Bucarest. 5. Idem. Bibliographie séléctive L’Anthropologie actuelle. Des perspectives, Ed. Prospect Anthropos, Bucharest, 1997. Augé Marc, Symbole, function, histoire. Les interrogations de l’anthropologie, L’Esprit Critique, Hachette Littérature, 1979. Bachelard, Gaston, Psychanalise du feu, Gallimard, Paris, 1938. Bachelard, Gaston, L’eau et les rêves, Corti, Paris, 1942. Benoist, L., Signes, symboles et mythes, Ed.Humanitas, Bucharest, 1995. Chevalier, J., Gheerbrandt, A, Le dictionnaire des symboles, vol. I,II, III, Ed.”Artemis”, Bucharest, 1994, 1995. Creţu Vasile, L’ethos folklorique – un système ouvert, Ed.Facla,Timişoara, 1980. Coatu, Nicoleta, Structures magiques traditionnelles, Ed.All, Bucharest, 1998 Durand, Gilbert, Les structures anthropologiques de l’imaginaire, Bordas (Paris – Bruxelles-Montréal), 1969. Evseev, Ivan, Le dictionnaire des symboles et archetypes culturels, Ed.”Amarcord”, Timişoara, 1994. Godelier, M., L’enigme du don, La Decouverte, Paris, 1992 . Golopenţia Sanda, Desire machines, Ed. de la Fondation Culturelle Roumaine, Bucharest, 1998. Iacob, A., Anthropologie du language, Ed. Pierre Mardega, Liege-Bruxelles, 1990 Ionescu – Ruxăndoiu, Liliana, La conversation – structures et stratégies, Ed.All, Bucharest, 1995. Jung, C.G., L’âme et la vie, Paris, 1963. 239
PAOLO MARIA GUARRERA ● Su alcuni usi tradizionali magico-religiosi di piante nell’Italia Centrale
SU ALCUNI USI TRADIZIONALI MAGICO-RELIGIOSI DI PIANTE NELL’ITALIA CENTRALE Paolo Maria Guarrera
Nell’iniziare questa relazione desidero premettere che sono un etnobotanico, non propriamente un antropologo, anche se in lunghi anni di ricerca sul campo e frequentando i colleghi ho appreso alcune metodologie delle scienze demo-etno-antropologiche: il mio approccio sarà dunque forse diverso da quello degli altri relatori di questo Convegno. Da oltre venti anni lavoro nel campo delle tradizioni popolari legate al mondo vegetale, in un settore di confine tra la botanica e le scienze demo-etno-antropologiche. Ho rilevato, in questi anni, usi che testimoniano spesso un intreccio fra religiosità popolare e magia, o fra medicina e magia. Tali usi sono oggi in via di scomparsa, residuo di un mondo arcaico completamente soppiantato in questi anni dall’avanzare a cosiddetta “civiltà tecnologica”. In questa relazione sottolineerò lo stretto rapporto fra gli elementi sopra detti, effettuando una breve casistica di tali usanze, toccando alcuni aspetti probabilmente già noti alle tradizioni popolari, e mettendone in luce altri meno noti. Mi soffermerò, oltre che su pratiche magico-religiose, anche e soprattutto su usi prettamente rituali. Infine, nella parte finale della relazione, illustrerò alcuni fenomeni naturali legati a vicende religiose o a particolari figure di Santi, venerati per tradizione in alcuni paesi. Da secoli, nelle tradizioni popolari italiane, alcune piante sono associate al nome dei Santi o della Madre di Gesù, con svariate motivazioni. Ad es., sono chiamate “erbe di Santa Apollonia” in Italia Centrale, “erbe di Santa Polonie” in Friuli, alcune piante erbacee velenose della famiglia delle Solanacee dai fiori gialli: il giusquiamo bianco (Joscyamus albus) e il giusquiamo nero (Joscyamus niger), che contengono l’alcaloide analgesico ioscina (o iosciamina). Preparando dei suffumigi con le foglie bruciate dell’una o dell’altra pianta, e indirizzandone i fumi con un imbuto su un dente cariato, si calma il dolore di denti (il nome dialettale deriva dal fatto che S. Apollonia è la protettrice dei malati di denti).E’ interessante notare che tale uso, oggi scomparso, era già noto agli antichi Egizi, come documentato
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nel papiro di Ebers. Lo stesso nome di “erba polonia” è dato in Friuli pure alla celidonia (Chelidonium majus), il cui lattice, spalmato sui denti cariati, li avrebbe fatti cadere (è uso anche abruzzese) (Penzig, 1924). "L’erba di Santa Maria” (Tanacetum parthenium) è una pianta coltivata negli orti , che nelle tradizioni popolari è stata legata al parto, e quindi alla figura protettrice di Maria, che ha dato alla luce Gesù. Nel Lazio, nelle Marche e in Abruzzo, si usava farla odorare alle donne incinte, farla mangiare dopo il parto o porla nelle stanze delle partorienti. In Sabina si poneva anche nel cosiddetto “acquaro di S. Giovanni” di cui si parlerà poco avanti. E’ in realtà una pianta emmenagoga, cioè utile a favorire le mestruazioni e a mitigare quelle dolorose (Guarrera, 1981; 1994). Alla figura di Maria è anche legato il cosiddetto “cardo mariano” (Silybum marianum), una pianta spinosa molto comune ai bordi delle strade, dai frutti molto importanti in medicina per la cura del fegato (Anzalone, 1986). Le foglie sono orlate di bianco, e questo colore è interpretato da una leggenda, dal forte richiamo materno, come il latte della Madonna caduto mentre allattava Gesù bambino (Cattabiani, 1996). Per il suo colore ceruleo un fiore, un non-ti-scordar-di-me (Myosotis palustris) è chiamato in Canton Ticino “occhi della Madonna”, mentre su tutte le Alpi una stupenda orchidea (Cypripedium calceolus) è stata chiamata “scarpetta della Madonna”. Al contrario una pianta rossa e velenosa, infestante delle messi, come l’Adonis aestivalis, è stata chiamata, sempre nel Canton Ticino, “occhi del diavol”, e a quest’ultima figura sono state accostate molte piante velenose della famiglia Solanacee come ad es. lo stramonio (Datura stramonium) (Penzig, 1924). La rosa, uno dei fiori più belli, già cantata nel Cantico dei Cantici dell’Antico Testamento, è fra le piante con maggiore valenza simbolica per il cristianesimo: le spine presenti, inoltre, per cui si dice “non c’è rosa senza spina”, simboleggiano le prove e le tribolazioni che occorre superare per accedere al regno di Dio. Molte sante (santa Rita, santa Dorotea, ecc.) sono legate alla rosa. Per quanto riguarda la simbologia del fiore, pensiamo al “rosario”, devozione nata nel Medioevo, e al mese cosiddetto mariano, in cui le rose sono offerte a Maria. Ebbene, per i romani le rose erano legate ad Adone e ad Afrodite, in base a un simbolismo della rigenerazione. I “Rosalia” dei Romani erano feste in cui si deponevano rose sulle tombe. Nel
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mese di maggio invece si offrivano rose ai mani dei defunti. Forse la tradizione mariana ha sostituito tali usanze (Brosse, 1991; Cattabiani, 1996). Un’usanza più colta, ma comune ancora nell’800, come ricordato dal Moroni nel suo “Dizionario di erudizione ecclesiastica”, era invece quella di far cadere nelle chiese dall’alto, il giorno di Pentecoste, dei petali di rose, che ricordavano le fiammelle dello Spirito Santo, per cui la Pentecoste era anche detta “Pasqua rosata” (Moroni, 1844). Un gettito di petali di rose è stato effettuato quest’anno, a Pentecoste, proprio pochi giorni fa, nel Pantheon. Petali di rose e di geranio sono fatti cadere dai balconi, ancora oggi, in feste patronali del Lazio meridionale. In Carnia è chiamata “rosa di S. Pieri” l’arnica (Arnica montana), un vistoso fiore comune sulle Alpi, assai adoperato tradizionalmente in caso di contusioni (Penzig, 1924). Il nome di S. Pietro è collegato probabilmente all’epoca della fioritura che cade in corrispondenza della festa del santo apostolo, verso la fine di giugno. Altre piante importanti nella ritualità popolare sono la mentuccia e la menta. Sulla mentuccia (Calamintha nepeta) esiste il proverbio abruzzese e ciociaro che dice: “Chi vede la mentuccia e non l’adore (cioè non la odora) non vede la Madonna quando muore” (Guarrera, 1994). Questo perché è una delle erbe più profumate e quindi godeva di una particolare reputazione come erba benedetta. Al proposito presso Torrice e Arnara, in Ciociaria, zona confinante con l’Abruzzo, era usanza un tempo raccogliere la mentuccia il Sabato Santo e farne una frittata che, dopo la benedizione del sacerdote, era chiamata “frittata santa” o “frittata della Madonna”. Questo perché si credeva che la mentuccia fosse stata la prima cosa che la Madonna avesse mangiato “dopo il digiuno” alla resurrezione di Cristo. A S. Gregorio da Sassola, ancora nel Lazio, la sera della vigilia dell’Assunzione, si trasportava in processione un quadro, montato su una macchina lignea. Durante il percorso i fedeli, oltre a pregare, usavano intrecciare steli di mentuccia fiorita a forma di coroncine, dette “cartonelle”, che poi erano appese alla macchina lignea, emanando il caratteristico aroma (Guarrera, 1994). La mentuccia è abbastanza simile alla menta, che dal punto di vista botanico appartiene tuttavia ad un altro genere, al genere Mentha. Ad Anzio e a Roma esisteva un risvolto magico di tale valenza rituale: la menta non si doveva regalare né trapiantare, per non far allontanare la fortuna (Guarrera, 1994).
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Alla figura di S. Giovanni Battista sono legate parecchie erbe dette “erbe di S. Giovanni.”, come l’iperico (Hypericum perforatum), anche chiamato “scacciadiavoli” o “fugademoni”, la verbena (Verbena officinalis), la lavanda (Lavandula officinalis) e altre (De Gubernatis, 1878). Tali erbe fioriscono intorno al 24 di giugno, festa di S. Giovanni Battista, sovrapposta dalla Chiesa Cattolica alle antichissime festività del solstizio estivo, di cui sopravvivono nelle nostre campagne ancora alcune reminescenze, nonché nel Palio di Siena il 2 luglio, dove la verbena è invocata dai contradaioli (Luciana Mariotti, in verbis). E’ usanza in Italia Centrale e altrove lavarsi, la vigilia o la notte di S. Giovanni, come preventivo contro il malocchio, con un’acqua in cui sono state messe a bagno erbe o piante profumate, quali la lavanda, la ginestra, la rosa, la salvia, foglie di pesco o altre (Guarrera, 1981; 1994). In particolare l’iperico, “erba di S. Giovanni” per eccellenza, è una pianta con fiori gialli-dorati come il sole che in tale periodo di fioritura è allo zenith, ma posta a bagno in olio di oliva per 15 giorni, lo colora in rosso, un colore dalla forte valenza magico-religiosa. E siccome quest’olio è usato contro le scottature, la pianta è anche detta “scacciadiavoli”. Con l’erba è stato recentemente ricavato un farmaco antidepressivo, il che fa riflettere perché spesso nelle credenze popolari i disturbi mentali sono collegati agli influssi maligni. Tra le piante con valenza magica vi è la ruta. Il classico amuleto dell’Italia meridionale era la “cimaruta”. In passato nel Teramano si usava contro il malocchio, somministrandone alla donna incinta da 3 a 9 “cime”(De Simoni e Guarrera, 1994). Infatti la pianta cacciava anche i vermi, visti come personificazione del male (come l’aglio, anch’esso rientrante in rituali magici o della notte di S. Giovanni). La ruta a forti dosi è velenosa e abortiva, ma in piccole dosi era usata come una sorta di vaccino vegetale contro l’aborto e i malefici. Della pianta sono anche note in medicina le proprietà capillaro-protettive (Anzalone, 1986). Anche il noce è piana considerata in molti rituali magici, ad es. per il calendimaggio o la notte di S. Giovanni. I frutti per fare il liquore “nocino” si devono ad es. raccogliere il giorno della festa di S. Giovanni Battista, il 24 giugno. Ancora contro il malocchio, in passato, ad es. ad Anzio, erano realizzati degli “scacciaguai” con iperico, mirto e spighe di grano (Guarrera, 1994). Della valenza magica dell’iperico abbiamo già detto. Il mirto è ritenuta pianta beneaugurante e funeraria insieme, in base a diversi usi
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dell’epoca romana (Cattabiani, 1996). Le spighe di grano hanno una valenza religioso-sacramentale ma vi è anche da considerare, per quanto riguarda le reste, cioè le parti provviste di punte della spiga, la “magia delle punte”, e per i chicchi la “magia della conta”. Chicchi di grano e mais erano anche riposti nei “brevi”, sacchettini posti al collo dei neonati o bambini sempre per difenderli dai malefici (Guarrera, 1987; 1994). Nelle Marche Centrali si usava, alla fine degli anni ’70, contro il malocchio, appendere in un locale (es. granaio) un mazzo di piante con punte o speroni (per la “magia delle punte”): erano la “speronella” (Consolida regalis), l’erba detta “fanciullacce” (Nigella damoscena) e le erbe della Madonna (Ajuga chamaepytis e Stachys annua) (Guarrera, 1981). Queste ultime due corrispondevano a delle “erbe di S. Giovanni” perché si ponevano a bagno la notte di S. Giovanni per l’uso rituale già descritto, però tale uso si ripeteva anche la notte dell’Assunzione, da cui probabilmente l’origine del nome. Da notare che al genere Stachys appartiene anche la famosa “betonica” (Stachys offcinalis), nota pianta dalle valenze magiche nel Medioevo. Erano ritenuti utili in Abruzzo contro i malefici anche i peperoncini (Capsicum annuum provar. acuminatum), chiamati “diavolicchi” per la forma simile a un cornetto (in cui ritorna la “magia delle punte”), per il colore rosso, dalla forte valenza magico-religiosa e per il sapore pungente. Sempre per la “magia delle punte” il rovo (Rubus fruticosus) e il pruno selvatico (Prunus spinosa), nel Reatino, avrebbero allontanato i pidocchi dai pollai. Analogamente nella Valle dell’Aniene, la notte di Natale, considerata “magica” perché corrispondente alle antichissime festività del solstizio invernale, si proteggevano dalle streghe le stalle, in cui erano bovini ed equini, con immagini di Santi e cardi di montagna, detti localmente “cardozzi” o “cardi di S. Anna” (Carlina acaulis) (Tacchia, 1996) .Molte altre piante erano considerate magiche, per la cosiddetta “magia della conta”, come il melograno, che a Roma si appendeva sulla porta di casa nella notte di S. Giovanni. Per far separare una coppia, per invidia o per gelosia, nel versante orientale del Gran Sasso pescarese, magari e fattucchiere raccoglievano i tuberi radicali a forma di dita di orchidee come Dactylorhiza maculata o Gymnadenia conopsea. Tali tuberi, in numero di due per pianta, erano divergenti fra loro nella parte basale e terminavano con appendici a forma di
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dita. I due tuberi erano separati al fine di mettere discordia nella coppia. Se invece erano riuniti, si favoriva la riconciliazione (Guarrera, 1987; Tammaro, 1984). La forma di questi tuberi è antropomorfa, un po’ come la radice della mandragora o del ginseng. Inoltre il termine “orchidea” deriva proprio da “orchis” che significa “testicolo”, per la forma tondeggiante dei tuberi radicali di molte specie. Alcuni usi magico-terapeutici avvenivano per analogia: mi è stato narrato in Val Comino nel 1986, da un’anziana contadina, che per far passare l’itterizia la persona affetta, che aveva la pelle di colore giallastro, andava ad urinare, in base a un’usanza ampiamente praticata, sopra una pianta di verbasco (“tasse barbasse”), dai caratteristici fiori gialli. Più la pianta si seccava e più la pelle della persona, sempre meno gialla, avrebbe riacquistato il suo normale colorito (Guarrera, 1995). Altri usi tradizionali sono legati alla raccolta di piante in luoghi considerati sacri, ove i pellegrini staccano un ramo o un pezzo di pianta per devozione o per ricordo, e tale pratica è detta “dendroforìa”. Questo avviene ad es. a Vallepietra, sui Monti Simbruini vicino a Subiaco, dove è diffuso il culto popolare alla SS. Trinità. Viene colto il lino delle fate piumoso (Stipa dasyvaginata), che già di per sé è una pianta suggestiva perché argentea e per questo accostata alle fate (Guarrera, 1994). Alcune pianticelle sono state usate, nelle tradizioni del Centro-Italia, per colorare le uova di Pasqua: ad es., nelle Marche (province di Macerata e Ascoli Piceno), il cosiddetto “pignolo” o “pignocco”, una liliacea dai fiori azzurrini (Muscari neglectum), che posto a bollire con le uova di Pasqua, conferisce loro una colorazione blu-violetta (Guarrera, 1990a). (a Gualdo Tadino una specie simile, il Muscari racemosum, è detta “manine del Signore”, mentre un altro Muscari è usato pure nella Valle dell’Aniene per tingere le uova) (Tacchia, 1996). Altre piante usate fino a pochi anni fa in tale tradizione pasquale: l’ortica (foglie) per tingere in verde e il velo della cipolla per il giallo, sempre in decotto con le uova di Pasqua. A Pescocostanzo, in Abruzzo, si usavano ancora lo zafferano per il giallo, il guscio delle noci per il color rame, le radici di liquirizia per il violetto, per il verde le foglie di olivo o di un Fraxinus (Tammaro, 1984). Per allestire altarini lungo le vie campestri, sui Monti Lucretili nel Lazio, erano adoperati come ghirlanda i fiori color giallo-oro a grappolo del maggiociondolo (Cytisus laburnum), insieme a ciclamini e margherite. Il maggiociondolo era chiamato sulla Majella “erba maja”, perché adoperato da
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tempo immemore nelle feste primaverili e del calendimaggio. Nell’area citata, fino ai primi anni del ‘900, per dichiarare il proprio amore a una ragazza, i montanari ne appendevano un ramo fiorito alla porta della sua casa. Se il ramo era portato in casa dalla ragazza, voleva dire che l’amore era corrisposto, e quindi poteva avvenire il fidanzamento, seguito dalle nozze, dette per l’appunto “majùme” (Tammaro, 1984). Un altro settore di interesse del rapporto fra tradizioni popolari, religiosità e mondo vegetale, è quello degli alberi secolari che la tradizione ha collegato con alcune figure di Santi, con la loro presenza e il loro passaggio in determinati territori. La figura di S. Francesco, importante santo italiano e patrono della natura, è legata ad alcune querce (della specie Quercus ilex): per fare solo alcuni esempi cito il cosiddetto “leccio di S. Francesco” a Morlupo (località a pochi km da Roma), che qui sarebbe stato piantato dal santo, e un enorme leccio di un paese del M. Amiata, in Toscana. Un’altra specie associata a S. Francesco è il faggio (Fagus sylvatica): a Rivodutri, in provincia di Rieti, esiste un imponente faggio chiamato “capanno di S. Francesco”, usato probabilmente come riparo dalla pioggia. Il capostipite degli aranci presenti nei giardini dell’Aventino a Roma si dice che sia stato piantato da S. Domenico. Questo associare un albero secolare con una figura di rilievo che ha “lasciato il segno” nella sua epoca non avviene solo in campo religioso, ma anche in altri campi. Ne sono esempio le cosiddette “querce di Pierluigi da Palestrina” (Quercus pubescens), enormi alberi plurisecolari alla cui ombra sembra – si tramanda a Palestrina – che l’illustre compositore si dilettasse, nelle afose giornate estive. Tali querce crescono sopra Palestrina, in un bosco che da tempo immemore non fu mai “sdegnato da taglio”, come si legge in un antico manoscritto, perché posto nell’area di un antico acquedotto di epoca romana che riforniva di acqua la cittadina fino a non molti anni fa (Guarrera, 1990b). Un settore del rapporto uomo/natura/ritualità ancora vivo oggi – in cui si può analizzare il modo con cui il sentimento religioso dell’uomo si avvale della natura per esprimere la propria devozione e fare mediante essa da tramite con il divino – è quello riguardante le cosiddette “infiorate”. Sono, queste, nastri o tappeti di fiori che si snodano per le vie dei paesi in occasione di feste religiose, prima di tutto quella del Corpus Domini, e sono creazioni
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effimere della durata di poche ore: infatti saranno percorse da una processione religiosa che disferà queste creazioni – ringraziamento dell’uomo e della natura al mistero trascendente di Dio -. Le infiorate nascono probabilmente in Vaticano nel periodo del barocco, forse per opera dell’artista Gian Lorenzo Bernini, come si legge da un trattato del ‘600 “Flora, ovvero coltura dei fiori”(Ferrari, 1638) e si diffondono successivamente un poco ovunque. La tradizione più famosa è quella dell’infiorata di Genzano, che inizia a partire dalla fine del ‘700.Non è da trascurare, al pari di Genzano, un’infiorata più piccola ma molto ben documentata, come quella di Gerano, sempre in provincia di Roma. Per quest’ultima si hanno notizie fin dalla metà del ‘700, e pure abbondante documentazione fotografica. Nei vari paesi le infiorate (studiate ad es. alla metà degli anni ’80 dal sottoscritto e dalla dott.ssa Iori, per una mostra fotografica e documentaria realizzata nel 1986) possono essere a regime strettamente familiare o anche semispontanee, quando vi sia l’organizzazione di un Comitato che coordina gli interventi. Sono spesso delle manifestazioni di fede popolare. Talvolta esse si trasformano in veri e propri concorsi artistici, come nel caso di Poggio Moiano, in provincia di Rieti, e di Spello in Umbria, e allora possono perdere alcuni connotati tradizionali per acquistarne degli altri. Alcuni dei partecipanti alle infiorate e ad altre manifestazioni floreali le vivono oggi con spirito laico, tuttavia tali iniziative hanno il pregio di esprimere e diffondere sentimenti importanti – correlati con quelli autenticamente religiosi – come la solidarietà umana, l’aiuto ai più deboli e la lotta in favore della pace (Guarrera, 1984; Museo Nazionale Arti e Tradizioni Popolari di Roma, 1986). Un’infiorata del tutto straordinaria è stata quella tenutasi quest’anno a Roma, in Piazza del Popolo, domenica 25 giugno, in occasione dell’anno giubilare, con la partecipazione di molti paesi d’Italia e, per quanto riguarda l’estero, delle delegazioni di Parigi, Tokio, Mosca, La Orotava e Sitges in Spagna. Accanto alle infiorate, abbiamo altre feste del maggio, come ad es. la Barabbata di Marta, nei pressi di Bolsena, festa ampiamente studiata, e la festa dei cosiddetti “pugnaloni” di Acquapendente. Nell’Antico Testamento leggiamo di Aronne e del suo bastone di mandorlo che fiorì miracolosamente. Questo evento lo troviamo in un racconto relativo all’origine dell’evento della festa della Madonna del Fiore ad Acquapendente in
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provincia di Viterbo, la festa dei cosiddetti “pugnaloni”. I “pugnaloni” erano originariamente dei pungoli, dei bastoni ornati di fiori che i cosiddetti bifolchi usavano nel paese citato per spronare i buoi nei lavori campestri. Questi pungoli erano portati in processione nella suddetta festa per commemorare l’improvvisa fioritura di un ciliegio avvenuta fuori stagione, che fu per gli acquesiani il segnale per la cacciata di Federico Barbarossa da Acquapendente. Si potrebbe pensare che questa festa si ricolleghi alle “feste della primavera”, quelle cioè che celebrano il risveglio della natura, come avviene ad Agosta vicino Subiaco (in provincia di Roma), festa in cui si portano in processione dei bastoni infiorati di ginestre e rose (ginestre che a Marta sono chiamate “il maggio” oppure “fiuri mai”). Ad Acquapendente i “pugnaloni”, modificandosi nel tempo, si sono trasformati in veri propri quadri vegetali di m 3,50 x 2,50, preparati per la terza domenica di maggio da gruppi giovanili in rivalità tra di loro con foglie e fiori incollati su tavole di legno (Museo Nazionale Arti e Tradizioni Popolari di Roma, 1986). Come potrà notare un botanico, sia il mandorlo che il ciliegio sono alberi da frutto della famiglia Rosacee, dalla fioritura precoce. Nella fase finale di questa relazione terminerò la panoramica lasciando un punto interrogativo negli ascoltatori, perché riferirò di analoghe fioriture anticipate, di fenomeni particolari del mondo della natura, legate a eventi religiosi, a figure di santi, che rappresentano un vero mistero anche per la scienza botanica. A Gualdo Tadino (PG) esiste un pruno, sempre della stessa famiglia Rosacee, chiamato comunemente biancospino (ma non è un biancopsino secondo un noto botanico dell’Università di Perugia, il Prof. Menghini, che ho recentemente interpellato). Tale entità botanica fiorisce puntualmente, sembra da 676 anni, cioè dal 1324, poco prima del 15 gennaio, il giorno in cui morì il beato Angelo, eremita in odore di santità e attuale patrono della città. Si racconta che mentre il carro con le spoglie del santo percorreva le vie prima di arrivare alla chiesa di S. Benedetto, quella pianta presente con molti cespugli fiorì ai lati della strada insieme al lino. Di questa pianta ne sono oggi rimasti pochissimi esemplari perché travolti dall’avanzata edilizia, segno che anche le tradizioni religiose più radicate rischiano oggi di essere cancellate. Non ho assistito di persona al fenomeno, e tuttavia tale fioritura straordinaria è confermata dal botanico illustre che ho sopra citato, da varie persone del paese che ho sentito telefonicamente, ultima fra tutte il parroco della chiesa di S. Benedetto, mons. Giancarlo Anderlini, nonché dall’autrice dell’articolo pubblicato ne “Il Messaggero” sul caso, Marcella Calzolai, che parla di “vero
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rompicapo per i botanici” (Calzolai, 1994). A detta di mons. Anderlini, sentito telefonicamente alcuni giorni fa, la stessa pianta che fiorisce a gennaio effettua una seconda fioritura in primavera, intorno al mese di aprile, e dopo di questa emette le foglie e poi i frutti scuri. Anche qui a Gualdo Tadino si ha il fenomeno della “dendroforìa”, come a Vallepietra, perché ai devoti è permesso di staccare un rametto della pianta per portarla a casa, ma i pochi cespugli rimasti nel rione detto “biancospino” – riferisce mons. Anderlini – sono oggetto di cure e attenzioni particolari, per permettere loro di durare negli anni a venire. Il parroco di S. Benedetto mi ha comunicato che a gennaio e poi ad aprile “fiorisce il bastone” della pianta, cioè la pianta senza le foglie, e tale terminologia mi fa di nuovo ripensare alla fioritura miracolosa del bastone di Aronne. Un altro fenomeno simile di fioritura anticipata è riscontrabile a Bra (prov. di Cuneo), in Piemonte. La fioritura anticipata di un analogo Prunus (forse Prunus spinosa), chiamato “biancospino” nell’articolo appena citato, inizia, secondo il Rettore del Santuario della Madonna dei Fiori, che ho sentito di recente, verso l’8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione, e prosegue per culminare il 29 dicembre, data in cui si commemora un evento: una giovane donna incinta era stata aggredita da due soldati di ventura, ma fu protetta da una signora (Maria) e da essa poi aiutata nel parto. Come segno del suo passaggio la signora mutò la “rigida selva in fiorente giardino”, poiché sugli steli morti erano spuntati dei fiori candidissimi. La pianta in oggetto, che in questo caso è dunque abbondante e costituisce un boschetto, fiorisce anch’essa due volte all’anno, la seconda volta a primavera. Il Rettore del Santuario della Madonna dei Fiori mi ha riferito un fatto impressionante, e che cioè tale fioritura miracolosa non si è verificata solamente in due anni nel secolo XX e precisamente nel 1914 e nel 1939, gli anni che hanno preceduto o sono stati contemporanei allo scoppio delle due grandi guerre mondiali. Non ho verificato sul campo gli ultimi dati qui riferiti, perché li ho appresi solo di recente, ma come botanico mi riprometto di effettuare delle indagini particolareggiate su tali fenomeni, recandomi di persona sui luoghi descritti e raccogliendo la relativa bibliografia, che ho già in parte richiesto. Come etnobotanico, parallelamente alla raccolta di usi tradizionali di piante nel campo medico-biologico (usi in terapia umana e veterinaria e nell’alimentazione minore), ho indagato in questi anni su numerosi usi rituali e credenze inerenti al rapporto uomo/mondo vegetale. Ho anche effettuato
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ricerche e studi sulle piante nelle tradizioni bibliche, ebraiche e cristiane, dopo un viaggio compiuto in Israele, e sto raccogliendo documentazione sulla simbologia botanica in relazione alle culture antiche, prima fra tutte quella greca e romana. Non ho potuto in questa relazione che esporre solo alcune delle possibili tematiche di ricerca in questo campo, limitando le citazioni e gli accostamenti fra le varie culture, essendo l’argomento assai vasto e consentendo, esso, diversi tipi di approcci. Con quanto ho riferito, spero di avere dato un piccolo contributo alle tematiche di questo Convegno. P.S. La nomenclatura botanica citata in questo articolo è secondo Pignatti, 1982 e talora secondo altre flore e monografie. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Anzalone A., 1986 – Botanica Farmaceutica. Japadre, L’Aquila Brosse J., 1991 – Mitologia degli alberi. Milano Cattabiani A., 1996 – Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante. Mondadori, Milano Calzolai M., 1994 – Il miracolo si ripete. Oggi a Perugia torna il biancospino. Il Messaggero, 15.1.1994 De Gubernatis A., 1878 – La mythologie des plantes, 2 voll. Parigi De Simoni E., Guarrera P.M., 1994 - Indagine Etnobotanica nella provincia di Teramo. Quaderni di Botanica Ambientale Applicata (Palermo) 5: pagg. 310 Ferrari G.B., 1638 – Flora ovvero cultura dei fiori. Roma Guarrera P., 1981 – Ricerche etnobotaniche nelle province di Macerata e di Ancona. Rivista Italiana E.P.P.O.S., 2: pagg. 99-108,1981; 4: pagg. 220228, 1981 Guarrera P., 1984 – Le Infiorate del Lazio. Informatore Botanico Italiano 16, pagg. 200 – 202 Guarrera P., 1987 - Usi tradizionali delle piante nel territorio della Majella. Rivista Abruzzese, Fascic. Monograf. su Erbe e Piante Medicinali nella Storia e nelle Tradizioni Popolari Abruzzesi: pagg. 17-44. Centro Servizi Culturali Regione Abruzzo, Chieti. Off. Grafiche Anxanum, Lanciano Guarrera P., 1990a - Usi tradizionali delle piante in alcune aree marchigiane. Informatore Botanico Italiano 22, fasc. 3: pagg. 155-167
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PAOLO MARIA GUARRERA ● Su alcuni usi tradizionali magico-religiosi di piante nell’Italia Centrale
Guarrera P., 1990b – Le querce di Pierluigi da Palestrina: un bosco secolare da salvare. Natura e Montagna 39 (fasc. 3-4): pagg. 19-22 Guarrera P.M., 1994 - Il Patrimonio Etnobotanico ("Le Piante del Lazio nell'uso terapeutico, alimentare, domestico, religioso e magico. Etnobotanica laziale e della media penisola italiana a confronto"). Quaderno n. 1 del Censimento del Patrimonio Vegetale del Lazio. Assessorato alla Cultura Regione Lazio e Dipartimento Biologia Vegetale Univ. La Sapienza. Tip. Tipar Guarrera P.M., 1995 - Fitoterapia e uso tradizionale delle piante nel territorio della Valle di Comino (Frosinone). In: Quaderni di "Storia, Antropologia e Scienze del Linguaggio", n.2, "Le Piante Magiche. Una ricerca storicoantropologica" (a cura di S. Giusti), pagg. 121-143, Domograf, Roma Moroni G., 1844 – Dizionario d’Erudizione Ecclesiastica, vol. 27. Venezia, Tip. Emiliana Museo Nazionale Arti e Tradizioni Popolari di Roma (a cura di Guarrera P.), 1986 – Le Infiorate del Lazio. Tip. Palozzi, Marino Penzig O., 1924 – Flora Popolare Italiana, 2 voll. Genova, Tipo-Litogr. del R. Istit. Sordomuti Pignatti S., 1982 – Flora d’Italia, 3 voll. Edagricole, Tacchia A., 1996 - Il Passato e il Presente. Riti, feste e tradizioni popolari nella Valle dell’Aniene. Vol. 1 Edizioni Tendenze della Comunicazione, Bagni di Tivoli Tammaro F., 1984 – Flora Officinale d’Abruzzo. Regione Abruzzo, Centro Servizi Culturali
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LUCIA CIREŞ ● Éléments magiques et religieux dans la médicine empirique de Moldavie
ÉLÉMENTS MAGIQUES ET RELIGIEUX DANS LA MÉDECINE EMPIRIQUE DE MOLDAVIE Lucia Cireş
Notre communication s'appuye, pour l'essentiel, sur des materiaux recueillis entre 1970-1981, par les chercheurs du collectif de folklore et ethnographie de l'Institut de Philologie Roumaine „A. Philippide” de Iaşi, de l'Academie Roumaine, dans les villages de la Moldavie, du côté droit de la rivière de Prut. Durant la décennie où l'on a entrepris cette recherche, on n'a pas eu accès dans des localités de l'actuelle République de Moldavie (république soviétique à l' époque). Une partie importante des matériaux a été mise à profit dans le volume Descîntece din Moldova. Texte inedite, publié à Iaşi, en 1982, dans la série „Les Cahiers de l'Archive de Folklore” (vol.II), en collaboration avec Lucia Berdan. Dans l'étude introductive (60 p.) qui accompagne les textes, elaborée par Lucia Cireş, on a déjà fait quelques observations concernant le rapport magie-religion dans les pratiques thérapeutiques traditionnelles. Etant donné le nombre restreint d'exemplaires et la diffusion dans le cercle exclusif des spécialistes, quelques ideés de cette étude seront reprises dans l'intention de les approfondir et de les donner de l'extension. Il est important de préciser — compte tenu des références religieuses, que la majorité des habitants de la province considérée sont chrétiens de rite oriental-ortodoxe. Il y a également en Moldavie des adeptes du culte romanocatholique, chez lesquels on peut identifier des éléments magiques — sans que la question soit abordée de manière différenciée. Chez les catholiques on peut cependant observer une attitude le plus dogmatique et un combat plus ferme du clergé contre les „hérésies” et les „hérétiques”. En ce qui concerne l'origine des maladies et des états de disconfort (physique ou social), l'on croit que ceux-ci sont provoqués par des êtres maléfiques (Iele, Mama-Pădurii, strigoi, personifications des maladies) ou par des professionnels de la magie noire qui dirigent vers la victime des forces occultes. Le mal est, souvent, attribué aux saints du calendrier ortodoxe (ou du calendrier populaire), insultés par le manque de respect visà-vis de leur fête. C'est pour cette raison prophilactique qu'on célèbre les saints: Vasile (contre les diables), Tănase (contre la peste), Haralambie 253
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(contre les maladies en général), Evdochia et Varvara (contre la varicelle), Antipa (contre les rages des dents), Pantelimon (contre l'épilepsie), Spiridon (contre les malformations), Sisoe, Filofteia et beaucoup d'autres contre les maladies des animaux domestiques. Outre les nobreuses mesures de prévention à caractère magique (mentionnons simplement le talisman „baier” — Perieni -Vaslui, contre l'enchantement), une pratique très fréquente, surtout chez les femmes enceintes, est de garder, sous le coussin, le livre saint Visul Maicii Domnului (Le Rêve de la Vierge Marie). On croit que ce livre protège le croyant contre toutes les forces du mal. La thérapie magico-empirique peut être appliquée aussi par les prophanes, dans leur propre intérêt, surtout dans les cas d'urgence (insolation, enchantement, abcès), mais l'on considère comme plus efficace la thérapie appliquée par les professionnels. L'efficacité du traitement est, pourtant, conditionnée par la triple croyance: du guérisseur, du souffrant et de la collectivité, celle-ci étant conçue par C. Lévi-Strauss comme un „champ gravitationnel”1: „Credé în discîntic şî omu. Dacî el credi în discîntic sî ştii cî tot atunŝa i-o trecut!”2 (Pîrcovaci - Iaşi). L'initiation se fait en sens unique (des plus âgés aux plus jeunes) et l'on croit même que, dans le cas contraire, la force guérissante se pert („se pierde leacul”). On croit encore, mais bien rarement, que le guérisseur (le magicien) possède de petits êtres méchants („drăcuşori”, „spiriduşi”) très capricieux, qui l'assistent, mais dont il ne peut se débarasser ultérieurement qu'à grand peine (Frătăuţii Noi - Suceava). La force confirmée est attribuée à des objets magiques, à des éléments imprégnés de forces surnaturelles, à des gestes symboliques, à des endroits et à des moments favorables. L'on croit encore que la force guérissante et les remèdes sont donnés par les saints guérisseurs „sans argents”, Cozma et Damian3. La formule „Amin, Cozma, Damian” a été perçue comme magique et, par conséquent, enregistrée sous diverses formes altérées. On a pourtant gardé la conviction que le guérisseur ne doit pas demander d'argent: „Cum vi le-am lăsat [leacurile] eu [apostolul] vouă fără bani, aşa să le daţi şi voi, fără bani”4 (Mărăşeni - Vaslui). Dans ces 1
Antropologia structurală, prefaţă de Ion Aluaş, traducere din limba franceză de I. Pecher, Bucureşti, Editura Politică, 1978, p. 28. 2 „L'homme aussi, il croyait dans l'incantation. S'il croit, vous pouvez être sûr que le mal passe au même moment!”. 3 Vasile Bogrea, Pagini istorico-filologice, Cluj, Dacia, 1971, p. 124-138. 4 „Comme je [l'apôtre] vous les ai laissés [les remèdes] sans argent, ainsi faut-il les donner à votre tour, sans argent”.
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conditions, le guérisseur est recompensé en nature, sous forme d'aumône pour l'âme („de sufletul”) de celui qui bénéficie du traitement. La force attribuée à l'actant consacré, magie offensive ou magie défensive5, illustre le dualisme cosmogonique originaire6. La confrontation des deux principes éternels opposés, positif-négatif, respectivement, bénéfique-maléfique, explique aussi l'ascendant du magicien sur Dieu (chréthien). L'on peut citer, là-dessus, une légende que nous avons enregistrée en 1976, à Ţibucani - Neamţ: „Dumnezău cu Sfîntu Petri o umblat pi pămînt şî s-o-ntîlnit cu douî fimei cari făŝau pi ursîtî... Băteu peni la o ŝoată. Ş-atunŝe Dumnezău o zîs: «Ŝi faŝiţ acolo, babilor?» Zîŝi: «Faŝim sî sî prindî!» Ş-atunŝa Dumnezău cu Sfîntu Petru o zîs: «Sî nu sî prindî!» «Niŝ tu, Doamni, şî tu, Petri, sî nu nimeriţ calia încotro v-iţ duŝi!» Ş-o umblat Dumnezău cu Sfîntu Petru pi pămînt trii zîli şî trii nopţ şî n-o avut niŝ adăpost şî niŝ uni sî steii, la nimini, sî-i primiascî sî odihniascî. «Ŝi faŝim, Petri?» «De, Doamni, ŝi faŝim?» «Hai la babi, Petri!» «Hai, Doamni!» Cîn o ajuns, ieli tot acolu făŝé... dac-o spus cî sî nu sî prindî... Zîŝi: «Sî sî prindî!» «Şî tu, Doamni, şî tu, Petri, sî nimeriţ calia încotro v-is duŝi!»”7 Les vertus du guérisseur sont connues aussi par la Vierge Marie, comme il résulte de nombreuses incantations. Habituelement, dans le scénario imaginé, le souffrant est accueilli par la Vierge Marie qui lui dit d'aller chez le guérisseur (homme ou femme) nominalisé (Casandra, Zamfira, Vasile); celui-ce va le sauver par des moyens et procédés magiques. Parfois, le thérapeute est un simple intermédiaire pour le remède qui vient du Bon 5
Antoaneta Olteanu, Ipostaze ale maleficului în medicina magică, Bucureşti, Paideia, 1999, p. 19. 6 Mircea Eliade, I.P. Culianu, Dicţionar al religiilor, Bucureşti, Humanitas, 1993, p. 136. 7 „Le Bon Dieu et Saint Pierre allaient sur la terre et ils ont rencontré deux femmes qui s'adonnaient à la sorcellerie... Elles battaient des coins (pour fendre le bois) dans un tronc [pratique magique d'amener ou ramener le prédestiné]. Alors, le Bon Dieu dit: «Qu'est-ce que vous faites là, commères?» «On fait de la magie qui va s'accomplir!» Alors le Bon Dieu et Saint Pierre ont dit: «Que cela ne s'accomplisse pas! » Et les femmes: «Alors, vous non plus, Bon Dieu et Saint Pierre, ne trouverez pas votre chemin!» Et trois jours et trois nuits le Bon Dieu et Saint Pierre ont marché sur la terre et n'ont pas trouvé d'abri, personne pour les recevoir et les laisser se reposer. «Qu'est-ce qu'on fait, Pierre?» «Oh, Bon Dieu, qu'est-ce qu'on fait?» «Allons chez les femmes!» «Allons, Bon Dieu!» Lorsqu'ils sont arrivés, elles étaient toujours là, à faire leur magie et s'ils avaient dit que cela ne s'accomplisse pas, maintenant ils dirent: «Que cela s'accoplisse!» «Et vous, Bon Dieu et Saint Pierre, que vous trouviez votre chemin!»” (Une variante très proche figure dans I. A. Candrea, Folclorul medical român comparat, Bucureşti, Casa Şcoalelor, 1944, p. 172, dans laquelle le Bon Dieu avoue: „Devant la sorcière, je me retire”.)
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Dieu: „Du-te la Aniţa, că te-a descînta / Şi Dumnezeu leac ţi-a da”8 (Odaia Bursucani - Vaslui). Dans d'autres narrations, récitées par les femmes guérisseurs, il n'y a que la Vierge Marie à pouvoir guérir. Elle accomplit une activité (laboure avec des boeufs noirs, avec une charrue noire, sème et la semence sèche) qui, par analogie, en fait magie sympathétique, doit guérir: comme la semance a séché, ainsi séche l'antrax (Ştefan cel Mare - Vaslui). D'autre fois, la Vierge Marie ordonne aux êtres maléfiques (moroi, pocitori, strigoi) de s'éloigner du malade (Şcheia - Suceava) ou envoie des agents (filles ou garçon vierges, loups, vautours, oiseaux de fer) pour purifier le malade de sa souffrance. Dans l'autres variantes, La Vierge Marie elle-même guérit avec de l'eau bénite de la fontaine de Jordan, où a été baptisé Jésus Christ, avec du saule de Saint Georges, avec un brin de basilic, avec du miel, avec des objets qu'on retrouve dans la récusite du thérapeute magiciens (Cudalbi - Galaţi). Quels que soient les moyens utilisés, la formule usuelle de clôture des incantations est: „Descîntecul de la mine, / Leacul de la Dumnezeu” (sau „de la Maica Domnului”); „De la mine leac, / De la Dumnezeu sănătate.”9 Parmis les saints, Saint Pierre est représenté dans les incantations comme guérisseur surtout dans celles qui utilisent l'analogie phonétique Petre - pietre (Pierre - pierre) de nature à déclancher une analogie bénéfique: „Sî spuni cî Dumnezău şî cu Sfîntu Petru o plecat şî cînd o ajuns la ... [numele proprietarului unei vaci cu ugerul împietrit] o poposît. Ii aveau o traistî cu petri. Pi petri s-o culcat, cu petri s-o-nvălit şî, diminiaţî, cîn s-o sculat, Dumnezău şî cu Sfîntu Petru o luat traista cu petri ş-o luat şî piatra di la ugeru vaŝi”10 (Giurgioana - Bacău, avec une variante en vers à Corni - Galaţi); on dit également du serpent que si on l'appelle serpent (nom tabou), il s'enfuit, mais si on l'appelle ќetru (variante à p palatal) il est pétrifié (Bogza - Vrancea). Les actes magiques sympathétiques fondés sur la forme, le nombre, la couleur, le vide-plaine, haut-bas, gauche-droite, sur la similitude d'activités, tout comme ceux de magie par contact abondent, comme les pratiques magiques consignées dans la thérapie: le passage, le roulement, l'inversion, le 8
„Va chez Aniţa. Ella va dire une incantation/ Et le Bon Dieu te guérira”. „L'incantation est de moi,/ Le remède de Bon Dieu” (où „de la Vierge Marie”); „De moi remède,/ De Bon Dieu santé”. 10 „On dit que le Bon Dieu et Saint Pierre se sont arrêtés chez ... [le nom du propriétaire d'une vache à la mamelle pétrifiée]. Ils avaient un sac rempli de pierres. Ils se sont couchés sur les pierres, ils se sont couverts de pierres, et le lendemain matin, en se réveillant, le Bon Dieu et Saint Pierre ont repris les pierres et la pierre de la mamelle de la vache”. 9
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trajet d'un cercle magique, le tissage et le filage rituels, la réalisation des noeuds (nous les avons énumérés, tels q'ils sont formulés par Antoaneta Olteanu, dans l'ouvrage cité). On a également mentionné les conditionnements temporels (jours de jeune, lever du soleil, croisant de lune, etc.) et spatiaux (sevil de la porte, fenêtre, âtre, carrefour, forêt, cimetière, trace). Dans l'inventaire des plantes magiques, outre celles indiquées par l'auteur cité (noisetier, basilic, chanvre, parat, sureau, ail), l'on utilise encore beaucoup d'autres, parmi lesquelles la mandragore (omise de façon inexpliquable par Antoaneta Olteanu). De même, parmi les objets magiques (à côté de l'eau, l'argent, le couteau, le fer, le balai, le miroir, le sel, le tamis), l'on utilise encore: le cire, le miel, la ceinture, le peigne, les charbons et d'autre. L'on invoque le soleil, le feu, les étoiles, l'arc-en-ciel, en général, tou ce que l'esprit d'observation a pu enregistrer du milieu environnant, tout ce que l'imagination pouvait se représenter et tout se qui pouvait être mis dans une éventuelle relation mentale. L'on va encore signaler quelques imixtion des elements religieux dans la pensée ancestrale magique: les plantes a forces magiques sont gardées auprès de l'icône (même la mandragore, quand elle est utilisée dans un but bénéfique); les plantes médicinales doivent être récoltées avant la fête chrétienne de l'Ascension („Ispas”) en fait, avant le solstice d'été, quand elles sont à l'apogée de la végétation; les excréments de cheval doivent être du Jour de la Croix; le rameau de saule - du Jour des Rameaux („Florii”); le cierge de Pâques. Le torchon sur lequel l'on nettoie les oeufs peints pour Pâques, le basilic de l'Epiphanie („Bobotează”), le balai de l'église ont aussi des pouvoirs purifiants. Une force guérissante particulière est attribuée aux yeux des saints des icôns. Ainsi s'explique pourquoi, surtout dans les fresques des églises, les saints ont les yeux râpés. La prohibition chrétienne concernant les incantations n'est pas restée sans écho dans la mentalité de ceux qui les pratiquent: „Io zîc c-oi ave păcati pi ŝeia lumi, io ştiu?”11 (Prisecani - Vrancea), mais, le plus souvent, la menace de la religion est affrontée car la croyance dans l'efficacité de la magie est profondément enracinée. Le conflit de conscience et le risque ou le sacrifice de celui qui fait l'incantation, tout comme l'ascendant de la magie sur le religion résultent des nombreuses confessions enregistrées: „Di strînsoari, cari-i strîcî ќeptu [la copil], aŝeia îi ŝal mai greu discîntic ... pomineşti lucruri şî mai ... [interzise, periculoase] io m-am păzît, aşa, sî nu
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„Je risque de péchés dans l'autre-monde, qui sais-je?”
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pre discînt da ... nu mă-nduram di copќilaş cî li treŝé şî nu mă-nduram. Mă temem di păcat.”12 (Vad - Neamţ). Les représentant du clergé eux-mêmes se sont montrés conciliants à cet égard — soit pour avoir soupçonné les effets curatifs de certains traitements empiriques, soit parce que la superstition persistait dans leur sous-conscient, comme il résulte du dialogue souivant: „—Părinti, io discînt, am discîntat şî-mpărtăşîtî, cî nu m-o lăsat lumia ... —Dacî ari liac, nu-ţ dau niŝ un păcat, ... ai pomanî.”13 (Orbeni - Bacău). Une évaluation — même sommaire — de ces faits révèle la persistance de l'élément magique — sur lequel se sont superposés des éléments religieux superficiels. Une explication pourrait être celle de J. G. Frazer qui considère que la magie implique l'idée d'omnipotence sur le monde, par la conviction que l'univers est fondé sur des lois fermes, formant un système organisé en base du principe d'ordre, tout comme le croit la science — seulement les deux système, de la magie et de la science, se différencient14. Le magicien se sent maître de toutes les forces surnaturelles qu'il oblige à lui être utiles, ou contraire, homo religiosus se sent dominé par la divinité, il implore. „Magia este un act îndrăzneţ, religia este un act de renunţare, abdicare, resemnare şi supunere.”15 La pensée magique est une forme d'adaptation à la vie, de survie, et, en créant des illusions, ella à protégé les hommes „de îndoieli, neîncrederi, nelinişti, spaime, eşecuri spirituale, prăbuşiri lăuntrice”16. Elle a eu donc une fonction ontologique, en fixant l'homme dans l'horizon du mystère, une pragmatique, d'orientation dans le monde, et une vitale affective, de créer une image du monde favorable à l'âme humaine17. 12
„De serrement, qui gôte la poitrine [de l'enfant], la plus dangereuse incantation, on dit des choses ... [interdites, dangereuses], mai j'ai fait attention, je ne dis pas trop d'incantation, mais j'avais pitié des petits, ils guérissaient... je craignais le péché”. 13 „—Père, je fais des incantations, j'en ai fait même après avoir communié, car les gens m'ont implorée. —Si cela à été efficace, je ne te donne pas de péché, ... c'est faire aumône!” 14 J.G. Frazer, Creanga de aur, traducere, prefaţă şi tabel cronologic de Octavian Nistor, note de G. Duda, Bucureşti, Minerva, 1980, vol. I, p. 106-129. 15 „La magie est un acte audacieux, la religion est un acte de renoncement, d'abdication, de résignation et de soumission.” (Traian Herseni, Literatură şi civilizaţie. Încercare de antropologie literară, Bucureşti, Univers, 1976, p. 173). 16 „de doutes, de méfiances, d'inquiétudes, d'effrois, d'échecs spirituels, de chûtes interieures” (Ibidem, p. 110). 17 L. Blaga, Despre gîndirea magică, Bucureşti, Fundaţia Regală pentru Literatură şi Artă, 1941, p. 170.
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La divinité est traitée conformément à la catégorie du sophianique formulée par L. Blaga, dans le sens que le transcendant descend vers le monde. Les personnages chrétiens ressemblent à l'homme — grâces à l'intropathie, à laquelle le même Blaga confère un rôle vital: „Fără intropatie, sufletul uman ar sucomba.”18 L'attitude de l'église ortodoxe, pour sa part, plus tolerante que celle catholique, a permis cette mixture originale d'éléments magique et religieux. Il serait erroné de conclure à la lumière des faits exposés, que la zone analysée serait primitive, ankylosée dans des mentalités archaïques, loin de la culture et de la civilisations de l'âme humaine pour le mystère, le tanscendant, prédisposition enregistrée, sous d'autres formes, dans les sociétés les plus avancée; d'autre part, il s'agit d'une attitude pratique (user de tous les moyens posibles, même en absence d'un crédit unanime). La majorité des procédés de médecine empirique ont été réactualisés du fonds culturel passif, avec un effort considerable de la part des chercheurs. Celles-ci sont gardées dans la communauté rurale par sa considération pour la tradition et pour sa propre identité spirituelle.
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„Sans intropathie, l'âme humaine succomberait.” (Ibidem, p. 161).
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ILEANA BENGA ● Rubare il latte: fertilità terrena e minaccia del vivente. Note su un’indagine etnografica in Zarand, Romania
RUBARE IL LATTE: FERTILITÀ TERRENA E MINACCIA DEL VIVENTE. NOTE SU UN’INDAGINE ETNOGRAFICA IN ZARAND, ROMANIA Ileana Benga
Il materiale che sostiene quest’indagine è principalmente costituito dalle ricerche che abbiamo intrapreso nel campo, in ripetute discese in quattro villaggi della zona etnografica Zarand, nel 1997 e 1998. Un approccio antropologico al fenomeno in discussione richiede di seguire il suo percorso dall’interno della mentalità magica, proprio nella direzione e nel modo di agire di quest’ultima. I comportamenti impliciti, le motivazioni invocate e gli atteggiamenti distanti adottati dagli individui di una stessa comunità non si spiegano che resi intelligibili nel linguaggio dell’intruso. Vediamo quali sono le situazioni documentate: troviamo, con una spiccata frequenza, attestazioni di atti magici che portano alla perdita del potere del latte della mucca. Il fenomeno, lontano da essere singolare, si incontra - con caratteristiche molto “isomorfiche” - nelle narrazioni sul furto della manna del grano1, sul furto della potenza fertile intesa in un senso più 1
Il furto del grano comporta tutta una serie di pratiche e di tecniche magiche condivise sia interamente, sia parzialmente dalla “tecnologia” del furto del latte. La coesione interna delle due serie di pratiche è invocata nella loro stessa solidaria locazione temporale – ovviamente, nonesclusiva – in quel punto critico rappresentato dalla notte di San Giorgio (Sângiorz): “In questa notte si pensa che si compiano le più malvagie e le più potenti stregonerie, si ruba la manna alle vacche e la raccolta ai campi.” (Gh.F.Ciauşanu, Superstiţiile poporului român în asemănare cu ale altor popoare vechi şi nouă, Bucureşti, Librăriile Socec, 1914, p.20). Ricorriamo all’illustrazione comparativa delle tradizioni romene attraverso i testi dei classici del campo etnologico romeno, visto che l’allargamento della prospettiva tramite informazioni più complete presenti nelle descrizioni etnografiche di tanti decenni fa, non può essere che benefica al nostro proposito. La tecnologia del furto della raccolta ai campi è, in grandi linee, la seguente : la strega, la maga, lo spettro (il più delle volte una donna) va per i campi, si sveste, e si scioglie i capelli, e “rotola sopra il seminato migliore e più bagnato di rugiada, va poi a rotolarsi sul suo - trasferendo così la manna delle altre terre sulla propria - rendendo debole il primo, mentre il suo diventa buono e bello. Oppure prende un lenzuolo e va per il campo, lo passa
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ampiò e sparsa per tutto l’universo capace di fertilità - sia animale sia vegetale - oppure sul furto dell’energia vitale agli esseri umani. Tutte queste manifestazioni rappresentano deviazioni dal normale, rovesciamenti del sistema chiaramente direzionato di questo mondo, che non si possono produrre se non attraverso interventi dall’altro mondo, operati proprio nei punti di contatto fra i due mondi. Un informatore di Dieci2 ci dice esplicitamente che la manna si può rubare e sottrarre “da ogni pianta, da ogni cosa, da ogni animale, da tutto...”3, però non si può sempre riportare al sopra il seminato migliore e con esso, così, bagnato com’è dalla rugiada, va a spremerlo sul suo, riuscendo anche in questo modo a trasferire la rugiada da altri seminati su quello proprio.” (I.Muşlea, Ov.Bîrlea, Tipologia folclorului din răspunsurile la chestionarele lui B.P.Hasdeu, Ed. Minerva, Bucureşti, 1970, p. 248). La fertilità si trova nella rugiada, fatto confermato dalla somiglianza con il raccogliere della rugiada nelle pratiche del furto del latte, o dalla moltitudine di circostanze nelle quali si mira al benefico bagno nella rugiada. Per la magia sulla manna del grano, cf. A. Fochi, Datini şi eresuri populare de la sfârşitul secolului al XIX-lea: răspunsurile la chestionarele lui Nicolae Densuşianu, Ed. Minerva, Bucureşti, p.295-298; E. Niculiţă-Voronca, Datinele şi credinţele poporului român adunate şi aşezate în ordine mitologică, Ed. Polirom, Iaşi, 1998 (ediţia I: 1903), vol.II, p. 238: “la strega (…) ruba la manna del pane dai campi, fregandoti la prima zolla mentre tu stai arando, e la butta sul suo terreno.”; S.Fl. Marian, Sărbătorile la români, Ed. Fundaţiei Culturale Române, Bucureşti, 1994 (ediţia I: 1898, 1899, 1901), vol.II, p. 272-273. Se in quanto al scioglimento del trasferimento della manna del grano, il materiale etnografico è relativamente bene rappresentato, particolarmente per lo scioglimento a distanza (vedi infra), l’illustrazione è del tutto capovolta nelle tecniche apotropaiche e nella profilassi del seminato. 2 Ştefan Lucoaie, 71 anni, Dieci, jud. Arad. 3 L’assimilazione dei principii fertili e potenti al concetto popolare della manna in una somma di ipostasi è evidente: a San Giorgio, la profilassi vegetate si fa “perché le donne che allattano non perdano il loro latte” (S.Fl. Marian, op.cit., p.262; vedi anche p.264 – sul “male dei bambini”); “ le streghe rubano la manna ai campi, (…) tolgono la bellezza alle donne, alle ragazze e ai fanciulli, a loro favore e dei loro bambini, e fanno seccare gli alberi nel bosco”.“ (T. Pamfile, Mitologie românească, Ed. ALLFA, 1997 (ediţia I: 1916), p. 162); “vedrà streghe dal mastello in testa, e con il colo legato al piede, perché è così che le streghe rubano la bellezza alle donne e la manna a chicchesia.” (id., ibid., p. 163); gli agenti magici “rovinano le menti, si appropriano la forza generatrice dei campi e il latte delle vacche”; “ti tolgono la lena, ti riducono ad uno stato misero”; “ portano discordia tra giovani sposi, prendono la manna alle vacche e ai cibi, fanno sicché muoiano le vacche ai vicini con i quali ce l’hanno.” (A. Fochi, op.cit., p. 4-5). Tali attributi avvicinano morfologicamente le categorie di agenti mitico-magici: queste potenti entità femminili (Dânsele) “fanno levare la gente e le mucche nell’aria e quando le fanno scendere spezzano loro le braccia, le gambe ecc.”; “tolgono la manna alle mucche” - in una maniera del tutto atipica; “ storpiano quelli che non le rispettano” (id., ibid., p. 111); Le parche (ielele) “raccolgono dai boschi le felci
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danneggiato. Ci troviamo, dunque, su un terreno afflitto di labilità, che produce situazioni irriducibili al semplice schema di equilibrio tra l’atto magico ed il suo rivolto4. Se così fosse, basterebbero le pratiche profilattiche ed apotropaiche per impedire l’azione offensiva degli spettri, delle streghe o dei maghi - tutti questi specializzati nel furto magico del latte - (ho tradotto approssimativamente il senso che coprono i termini romeni: strigoi, busorci e vrăjitori), per esempio quelle compiute al San Giorgio degli Animali, oppure al primo parto della vacca; ma, nonostante le precauzioni, molto spesso alla mucca vengono fatti dei danni (“stricată” in romeno) ed il vitello sta per morire. Similmente, si usano moltissime pratiche per impedire al morto di diventare spettro (“strigoi”), oppure per impedire le azioni degli strigoi vivi e morti5, per evitare i luoghi di contatto tra i mondi, punti nei quali l’“altra cosa” può irrompere in qualunque tempo; l’“altra cosa” troverà, comunque, un modo per infilarsi nell’ordine del vivente. E, sia che mancha a noi, gli umani, la perspicacia di antecipare o di seguire l’equilibrarsi delle energie e delle loro forze, sia che ci abbandoniamo alla credenza in una potenziale esistenza di un numero praticamente illimitato di filiere di disturbo, una cosa è certa: che il confronto non è mai equilibrato, e che l’agente magico, il performer degli atti di magia, non avrà quasi mai la certezza sull’esito finale. Resta il problema - in gran parte speculativo, dei dati prelevati finora - della sovrapposizione di questi scenari con altri, più generali, loci communes consacrati nella storia delle religioni, che descrivono un continuo bisogno di rinnovamento, di massimizzare tutte le energie, attraverso il contatto con il caos e poi con l’ordine divino. Probabilmente si tratta di una stessa mentalità magica che si esprime diversamente attraverso le varie vesti
che fioriscono in quel periodo e tolgono la manna alle erbacce che non hanno più forze curative.” (id., ibid., p. 141). 4 Per un più ampio inquadramento tipologico del fenomeno messo in discussione si veda la concezione sui beni limitati nell’ universo, secondo la quale il bene non si crea, ma si toglie agli altri, e il male non si annulla, ma solo cambia posto, come pure le argomentazioni fatte, tra le quali non mancano i furti magici della forza generatrice (dei campi e del latte) e le cure fatte per trasferimento di salute, in A.M. Cirese, “Dal gioco di Ozieri al numerus clausus dei beati danteschi: tentativo di tipologia ideologica”, in Il dire e il fare nelle opere dell’uomo, (s.a.), p. 39-63. 5 Per la dicotomia tra gli spettri vivi e gli spettri morti, si veda I. Muşlea, Ov. Bîrlea, op.cit., p. 244-270, şi I. Ghinoiu, Obiceiuri populare de peste an. Dicţionar, Ed. Fundaţiei Culturale Române, Bucureşti, 1997, p. 193-194..
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che indossa un nucleo mitico, nella sua trasmissione (probabilmente) eminamente narrativa. Concretamente, cosa tradisce l’intervento magico sulla manna? e andiamo ad analizzare soltanto il caso del potere del latte di mucca; per primo, tutte le cose cominciano ad andar male, alla rovescia ed in danno alla “vittima” (umana: cioè, il proprietario della mucca); questi effetti costituiscono dei segnali allarmanti che avvertono l’intrusione del male nella rispettiva casa: la mucca si sta rovinando (“se strică”), mugisce straziantemente, non si lascia mungere e questo gli produce ovviamente grandi dolori, invece di latte dona sangue, allora il vitello sta per morire di fame; la vacca colpisce con gli zoccoli da tutte le parti e tira specialmente verso un certo cortile: è lì che si trova il suo latte, se l’azione magica è stata commessa da una strega (“bosoarcă” o “strigoaică” in romeno), cioè da una persona - una donna, più raramente un uomo – di cui si dice “chiamato” (“strigat”)6 alla nascita per un certo comportamento; se non s’interviene in 6
In romeno, strigoi-strigoaică (cf. stregone-strega, ma il senso non è lo stesso) insieme alla loro famiglia lessicale, e il verbo a striga (gridare) si rifanno allo stesso etimo: il latino *strigare < strix,-gis (Dicţionarul explicativ al limbii române. Academia Română. Institutul de Lingvistică “Iorgu Iordan”, Ed. Univers Enciclopedic, Bucureşti, 1998, p. 1028). Dicţionarul limbii române (DLR, s.n., tom X, partea 5, litera S (spongiar-swing), Ed. Academiei Române, Bucureşti, 1994, p. 1736-1745) ci fornisce anche l’etimo striga,-ae, per una serie di omonimi della lingua romena, tra i quali non mancano l’uccello notturno rapace – la civetta, come in latino, e la farfalla testa-di-morto (si veda anche la metamorfosi spettrale in farfalla chiamata strigă e la tecnica della sua identificazione attraverso il bruciamento; una volta segnato, gli si ordina di ritornare il giorno dopo, per chiedere sale o qualcos’altro, che alla fine smaschererà lo stregone – apud Gh.F. Ciauşanu, op.cit., p. 25, nota 2; si veda anche la sua apparizione in forma di farfalla, alle vacche, più avanti nel testo), accanto alla moltitudine di strige, strigoi, strîji ecc.. Interessante da vedere è anche l’elenco dei significati del verbo a striga - gridare (DLR, loc.cit.): comporta un’estensione che va da: lamentarsi, cantare, risuonare, fino ad urlare, gridare, segnalare, insistere, chiedere, pretendere; chiamare da distanza, pronunciando il nome per farlo sottomettere, perché gli possa essere comunicato qualcosa (cf. il richiamo dello stregone alla finestra, due volte al massimo - apud T.Pamfile, Mitologie…, p.138 – e il divieto di rispondergli, sotto il pegno di essere stregato - "pocit", letteralmente imbruttito, sfigurato, deforme; vedi anche T.Pamfile, Sărbătorile la români. Studiu etnografic, Ed. Saeculum I.O., Bucureşti, 1997 (ediţia I: 19111914), p. 26; A.Fochi, op.cit., p. 140-141; cf. anche il divieto di pronunciare il nome dello strigoi (cf. T. Pamfile, Mitologie…, p. 170), isomorfismo con attestazione amplissima del divieto di pronunciare il nome di qualsiasi agente magico – cf. id., ibid., p. 230); fino al richiamo del morto, al lamento per l’alba, al suonare degli strumenti particolarmente sonori (cf. l’informazione etnografica generale sulla profilassi sonore e su come cacciare via gli strigoi, specialmente nel momento critico della notte di San Giorgio, con suoni di buccina e
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tempo, la mucca, afflitta così, può ben’ morire. Oppure: il suo latte scade molto bruscamente, diventa una specie di acqua agra, che non caglia più (“nu se leagă”7), è debole, scremato, non fa più né panna (“groşcior”) né burro8. Cioè, appunto il meglio del latte, la sua essenza, è quella che manca, è quella che viene rubata. In questo caso, se non si cura magicamente la deviazione dal normale, le vacche possono rimanere sterili e di consequenza essere sfruttate e vendute soltanto per la loro carne, quale a sua volta, sarà una di pessima qualità. I contadini ritengono quale altro segno di intervento magico quando una donna senza mucca, né buffala, né pecore, tiene latte come se avesse un intero gregge9, significa che possiede qualcosa che la fa avere più di quanto sarebbe normale10; è questo il caso delle “narrazioni esperienziali” di prima o seconda mano (le “memorate”) che parlano di gente partita lontano dal villaggio, in cerca di lavoro: l’oste, oppure uno degli uomini, procura latte senza mungere una vera mucca: si munge il ganghero del portone (ci dice Popa Florica da Dieci), il timone (“ruda”), “il cuore” del carro (Ştefan Lucoaie da Dieci), una delle punte della casa e la fune che pende dalla trave (Ion Gaiţă, Dieci), oppure una pelle di vacca nascosta nel solaio (Simion Andraş, Păiuşeni). Scomvolti, quelli serviti con questo latte si mettono a spiare ed il loro sospetto viene evidentemente confermato. Sempre fuori norma è il crepare delle mammelle di una mucca a causa dell’immensa quantità di latte. In genere queste crepano perché quello che chiasso forte, accompagnando, dov’è il caso, il pascolo notturno degli animali – vedi infra nel testo). Sul destino alla nascita tramite lo sgridare su una certa cosa, vedi T. Pamfile, Mitologie…, p.127-128. Sullo sgridare su un certo oggetto, per invidia, vedi id., ibid., p.138, nota 4. 7 Si veda il sortilegio di tipo legare (il romeno a lega) quale segno di un’intenzionalità di tipo ordinare. 8 Ecco alcuni aspetti che si ripetono nella sintomatologia della mucca derubata dal latte: “Si dice che le vacche derubate, in breve tempo, si fanno dietro, colpiscono con gli zoccoli, e dimagriscono di più che durante l’inverno, gli si rizza il pelo, come se fossero malate e un mese dopo, al massimo due, cessano definitivamente di dar latte.” (S.Fl. Marian, op.cit., p. 261); “la vacca, invece di latte, dona sangue o non si lascia mungere” (T.Pamfile, Mitologie…, p. 163); la pietra scavata da cui l’arcobaleno bevve acqua “è buona per mungere la vacca , tre volte in croce, quando il latte è con sangue” (E.N.Voronca, op.cit., p. 245); “le vacche perdono il loro latte: il loro burro fa vermi ed è pieno sangue” (A.Fochi, op.cit., p. 296). 9 Petrea, 69 anni, Dieci, jud. Arad. 10 Osservazione riferita da Andraş Simion, 47 anni, Păiuşeni, Gaiţă Ion, 65 anni, Dieci, Ştefan Lucoaie, 71 anni, Dieci, jud. Arad.
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compie l’atto di magia non è abbastanza iniziato ed esperto per agire magicamente; nei racconti questo personaggio viene spesso descritto quale servo o figlio della strega. Egli non conosce la formula esatta né la sua importanza; dunque, quando pronuncia l’incantesimo per togliere il latte e tocca con il ramo verde la stalla da qualche parte, oppure il recinto della casa, invece di dire “Un pò di quà, un pò di là...”, lui dice, infine, “... e tutto di quà”. Le conseguenze sono poi molto visibili, perché al di sotto della stalla scorrono valli di latte, provenienti dalla mucca le cui mammelle sono crepate11. Tutte queste informazioni si ritrovano riprese in narrazioni che inquadrano diversamente i vari livelli di finzione attraverso la mediazione narrativa. Questo discorso essendo però troppo complesso per essere dibattuto quì, torniamo al servo. Questo agisce maldestramente perché fa uso di una tecnologia presa in prestito che non sa applicare correttamente; lo stesso schema narrativo si incontra anche nei racconti sul furto magico del grano12: le conseguenze più tragiche sono la morte della mucca e particolarmente lo smascheramento delle azioni - alternative all’ordine della comunità - dell’agente magico. Il servo non è che un tecnico mancato, a differenza del diavolo quale servo, che è molto pericoloso ed insinuante, e che lavora senza tracce. Come modello, il servo che procura troppa manna potrebbe far parte dello stesso schema nel quale si inseriscono i compiti impossibili, frequenti anche nell’universo mitico romeno. Questi compiti fanno da ponte tra questo e l’altro mondo, passaggio necessario, ma che soltanto l’eroe può compiere correttamente - misura inclusa - e portarlo all’esito scontato; soltanto l’entità che viene dall’al di là, o che agisce
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Ion Gaiţă, 65 anni, Dieci, Marinca Păişan, 75 anni, Păiuşeni, jud. Arad. Ecco come si svolge un simile furto di grano; l’informazione è stata ricavata dall’intervista con Oarcea Todor, 87 anni, din Dieci, jud. Arad: “Poi son’ chiamate su questa cosa. Van’ e pigliano tutto da mo’, e tagliano con la falce le spighe e fan’ cussì in mezzo al seminato, una callaia. E s’en va. (…) E dice andando in mezzo al seminato: “Di quà un po’, di là un altro pò (…)”…e tu lo sapevi che era chiamata sul grano, perché lei aveva del grano, ed il suo fascio non si poteva muovere dalla terra. Ed il seminato era su un campo o due, quanto dovrebbe essere su tre o quattro. Cussì dicono che ci fu una, che non potè andare perché era malata, e ha fatto andare la serva. (…) Quando la donna mise i piedi sul grano, questo divenne tutto affatturato. Cussì dicevano ci fu un pagliaio con fattura.” 12
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secondo i principi dell’aldilà, può svolgere questa trasgressione dell’ordine; il servo non fa che mettere in rilievo le virtù dell’intervento “ideale”13. Chi compie tutte queste operazioni magiche? Si tratta di figure che appartengono ad un livello ontico parallelo, in alcuni aspetti, con la vita umana. Per prima cosa, possiamo dire che, nell’area indagata, predominano le figure delle donne-streghe (“femei-vrăjitoare”); questo fatto acquista rilevanza se osserviamo che gli uomini procurano il latte, lo rubano per uso alimentare, invece le donne lo fanno per riempire le mammelle della mucca. Questo vuol dire che quest’ultime mirano ad un trasferimento di potenza vitale di un fruire e di una motivazione prolungata, rispetto agli uomini, che puntano su un uso immediato. Possiamo aggiungere che gli uomini possono ugualmente compiere degli incantesimi per far ritornare il latte, per sciogliere una fattura; perché qui si tratta di un sortilegio di tipo legare, di una fattura avvenuta in un modo preciso, dato, di una risoluzione molto più 13
Questo schema si ritrova spesso nelle testimonianze sulla sostituzione dell’agente magico autentico con un suo intimo, nell’esercitare la stessa dimensione trasgressiva; facciamo solo qualche esempio relativo ad un altro punto critico: la notte di Sant’Andrea e il motivo delle radunanze e degli scontri tra gli spettri, nei campi di confine, sui quali ci si fermerà più avanti. “Il marito di una strega va al posto della moglie, cavalcando il figlio del prete – sempre uno stregone metamorfosato poi in cavallo - a combattere con gli altri spettri alla “Movila Rîbîii”, portando una spada al posto della lingua di stiglio. Spacca un sacco di stregoni. Di ritorno, taglia al cavallo l’orecchio per convincersi così, il giorno dopo, che si era trattato davvero del figlio del prete, perché vede quest’ultimo con l’orecchio fasciato, e nota che non sente bene.” (I.Muşlea, Ov.Bîrlea, op.cit., p. 255; vedi anche gli altri racconti). “Un uomo aveva come moglie una strega che rimase incinta. Verso il Sant’Andrea, la donna disse al marito di prendere una lingua di stiglio e di andare ai crocifissi che si trovano per la strada, per toccare con la lingua nove volte la terra e per dire: ”do, ma non taglio.” L’uomo se ne andò dicendo però: “Do e taglio.” Rincasando, trovò la moglie tutta tagliata.” (T.Pamfile, op.cit., p. 222). Un altro topos frequente è quello del “servo” – spia: questo agguata la sua padrona, la segue dappertutto, andando con lei al confine; qui i racconti divergono in due categorie: sia il servo partecipa anche lui alla lotta, ma invece di “mimare”, come richiedono i precetti spettrali, lui taglia con un’arma, fatto che ha come conseguenza il ferire della padrona e la divulgazione del suo segreto, o addirittura la morte massiccia dei feriti, che si svelano a volte come compaesani stregoni (lui essendo, in questo caso, lo straniero); sia raccoglie da questo spazio d’al di là qualche frutta mai vista o insolita per quel periodo dell’anno, e che prende con sé sulla via di ritorno, sempre come prova per una divulgazione; la trama può complicarsi se viene mancato il momento del ritorno da quel posto, situazione in cui il ritorno a piedi richiede tra uno e sette anni. Vedi: E.N.Voronca, op.cit., p.240-242; I. Muşlea, Ov. Bîrlea, op.cit., p. 255-256.
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predeterminata – cioè sicura - che la fattura, quale disponeva di un numero pratticamente illimitato di modalità di stregare/legare. Si pensa che nella maggior parte delle tradizioni rurali del sud-est europeo, i bovini siano di solito munti dalle donne, ma nutriti, curati, e portati al pascolo dagli uomini. Ad un altro livello, abbiamo gli spettri morti (“strigoi morţi”), cioè spiriti che sia non sono riusciti a varcare la soglia dell’al di là, a causa o della propria debolezza o perché hanno smarrito la via giusta, o perché i loro parenti rimasti in vita non curandosi abbastanza per la loro sorte, non hanno compiuto tutti i riti necessari per un funerale, sia che irrompono nel mondo dei vivi per i punti di contatto fra i mondi – come, ad esempio, in occasione di qualche festa organizzata a questo proposito; sono loro quelli che tornano il più spesso nelle proprie case, disturbando l’ordine dei viventi, mentre i posti preferiti sono appunto le stalle. Spettri diventano anche quelli sotto il feretro dei quali è passato un gatto nell’intervallo in cui il morto è conservato nella casa. Tutti quanti appaiono metamorfozzati in animali; la gente li identifica post factum, giudicando e chiamando: gatto nero, coniglio, porcospino, farfalla dalle ali di sparviero, gli effetti del loro presupposto passaggio. Ci si può protteggere dalle loro apparizioni nei seguenti modi: con l’aiuto della profilassi, ossia praticando correttamente ed integralmente tutti i rituali funerari richesti dalla dottrina cristina, nella pratica del seppellimento14 e poi quelli ulteriori, fatti davanti alla tomba chiusa15; esiste anche una serie di pratiche apotropaiche relative al ungere della casa e della stalla con aglio e con un miscuglio di pomate (informazione generalmente attestata), al far pendere certe piante dagli usi apotropaici, al vegliare sopra gli animali, specialmente la notte di 23/24 aprile, il San Giorgio degli Animali. In questa notte essi pascono slegati, quasi liberamante, in un quadro selvaggio, ma esponendosi allo stesso tempo all’aggressione magica16. Un’ultima modalità 14
Si vedano le bambole apotropaiche sistemate nel feretro e che s’incontrano nelle seguenti testimonianze: Elisabeta Păişan, 79 anni, Carolina Tîrsală, 56 anni, Păiuşeni, jud. Arad. L’informazione viene solo a completare la summa di pratiche che si compiono ai funerali. 15 Si veda la prova dello spettro con lo stallone - bianco, talvolta: se lo stallone si rifiuta di passare sopra una certa tomba, significa che lì il morto e diventato strigoi: Ion Gaiţă, 65 anni, Dieci, jud. Arad, ma la letteratura che attesta la procedura è molto ampia. 16 Per il San Giorgio degli Animali - Sângiorzul Animalelor, si vedano le interviste con Oarcea Todor, 87 anni, Dieci, Popa Iosif e Florica, 75, rispettivamente 64 anni, Dieci, Păişan Elisabeta, 79 anni, Păiuşeni, jud. Arad. Si veda anche I. Ghinoiu, op.cit., v. Sângiorzul vacilor, p. 173. Il pascolo delle mucche nella notte di San Giorgio si chiama anche împroor, năproor, năprăor, înăproor, - che deriva da rugiada (“rouă”) - o mânecătoare, e racchiude
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di difesa è sciogliersi dal sortilegio o dall’incantesimo17, facendo uso di metodi specifici, in funzione della gravità del danno fatto alle vacche. Tra gli spettri vivi (“strigoi vii”) ci sono “spettri per caso” e “spettri predestinati”18. Forse il primo termine non è abbastanza complesso, in quanto non include la categoria di quelli che s’impegnano ad imparare la tecnologia del magico, in seguito ad una decisione voluta ed intenzionata a questo proposito19. Quelli che imparano quest’arte hanno almeno la possibilità di diventare dei morti per bene, se si sono curati di lasciare un successore negli atti di magia20. Se no, questi moriranno con grande difficoltà, come d’altronde tutti gli stregoni, avendo bisogno di molteplici perdoni supplimentari (dezlegari), per le azioni commesse in un ordine alternativo rispetto a quello normale. Ci sono poi gli strigoi, moroance, moroni, bosărci, vâlve - termini che richiedono un’ancor più profonda circoscrizione rispetto alle ulteriori ricerche - tutti predestinati, individui che abbandonano i loro corpi, in certe notti, soprattutto in quella di San Giorgio, e partecipano alle lotte per il potere, combattendo con altri come loro21; tutte queste azioni sono intraprese involontariamente e spesso incoscientemente. Ricordiamo soltanto in sé un insieme di prassi profilattiche in essenza, contro il furto del latte dalle mucche, ma anche per il suo potenziamento; si veda, ad esempio, la ricca collana di usanze in A.Fochi, op.cit., p. 298-299: “prima che sorga il sole, i contadini portano le mandrie al pascolo, facendole camminare nella rugiada, per la loro salute e perché i grani siano nutrienti”; “le mucche sono lasciate a pascolare liberamente per tutta la notte, anche per i campi vietati”; “alla vigilia di San Giorgio, chiamata anche mânecătoare, tutti partono prima dell’alba, con le mucche per frutteti e le lasciano pascolare fino al giorno dopo, per avere una fonte di latte per tutto l’anno.”; “la mattina si prepara un nuovo formaggio ”. Queste procedure vanno in un perfetto parallelismo con quest’altre, sulla profilassi estrema delle mucche durante questa notte: esse sono chiuse dietro a portoni e finestre unte con aglio o arricchite con altre piante apotropaiche; questi fenomeni sono frequentemente attestati nel folklore romeno. La stessa duplicità si nota anche nel caso in cui, nella notte di San Giorgio, viene messo sul davanzale della finestra un vassoio con latte: imprudenza gravissima che va terribilmente punita, ossia prassi per una buona manna (si veda: S.Fl. Marian, op.cit., p. 263, 270; E.N.Voronca, op.cit., p. 240; A.Fochi, op.cit., p. 264). 17 Gli scongiuri per la manna del latte includono quasi sempre la narrazione sul modo nel quale è stata contattata la maledizione, procedura caratteristica alla scaramanzia romena. 18 Secondo la tipologia operata da M. Mesnil, Revenants et sorciers: entre vie et mort. In Cahiers de Littérature Orale, no. 27, INALCO, 1990. 19 Lo dicono Marinca Păişan, 75 anni e Elisabeta Păişan, 79 anni, Păiuşeni, Arad. 20 Oarcea Todor, 87 anni, Dieci, jud. Arad. 21 Si veda l’ampia estensione del motivo delle lotte delle streghe a C. Ginzburg, Istorie nocturnă. O interpretare a sabatului, Polirom, Iaşi, 1996.
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che nella testimonianza di Oarcea Todor di Dieci, un uomo, tutte le notti, veniva preso e trasformato in cavallo da una strega (strigoaica)22, cosa che lo svuotava di ogni energia. Un simile esempio lo incontriamo in un motivo di fiaba italiana23, in cui la vittima viene spogliata letteralmente dall’energia, perché solo unta con il sangue del suo marito, la strega può andare a Benevento, al Sabba. Ciò che è comune alle vittime è il fatto che nessuna delle due non coscientizza quello che gli succede, nel corso della loro devastatrice strumentalizzazione24. Tutta un’altra discussione si regge intorno alla qualità dello stato effettivo del partecipe al Sabba, durante il viaggio verso quel posto ed agli avvenimenti lì svolti: catalessi, trance, possessione, spostamento corporale effettivo25. Un 22
Simili racconti sulla metamorfosi di un uomo in cavallo, compiuta dal partecipe alla radunanza degli spettri, si ritrovano in tanti documenti folklorici; facciamo un esempio: un fante vuole abbandonare il mestiere, perché dimagrisce considerevolmente col passar dei giorni; una vecchia gli consiglia di non dormire per qualche notte per vedere così come la sua padrona viene da lui di nascosto e gli mette un capestro in testa; in questo modo lei lo fa diventare cavallo e lo porta da qualunque parte volesse. Ora lui deve riuscire a mettere il capestro alla padrona; così fece ed ella si trasformò in cavalla, e con questa lui andò alla battaglia degli spettri ai confini ecc. – apud E.N.Voronca, op.cit., p. 239-240; “esse volano nell’aria, così in alto, che si fanno appena sentire e cavalcano certi tipi di cavalli fatti da uomini che per loro disgrazia sono usciti fuori con la testa scoperta, nella vigilia del San Giorgio delle mucche.” – apud S.Fl. Marian, op.cit., p. 257. 23 Si veda la favola Il re superbo nella raccolta di Italo Calvino, Fiabe italiane, Giulio Einaudi editore, Milano, 1956, p. 432-436. 24 Tranne la situazione della metamorfosi in cavallo e dello sfinirsi in questo modo, la situazione dell’esaurimento effettivo di forza, il più spesso per estrazione di sangue, è presente in una moltitudine di racconti (auto)biografici - le memorate - con spettri, e non necessariamente in connessione con il viaggio verso i raduni sul confine: si veda, ad esempio, il racconto della vecchia e della fanciulla che allogiano nella casa degli spettri; esse non possono fare preghiere apotropaiche lì, sicché la vecchia ricorrerà ad un’altra procedura di protezione di fronte agli agenti trasgressanti: racconta la favola del pane. Lei diventa in questo modo intangibile, visto che “da lei veniva una puzza d’aglio, perché aveva fatto quella mezza preghiera”; gli spettri estraggono il sangue della fanciulla per l’orecchio facendolo scorrere in un tragolo finché la ragazza muore, ma la vecchia la fa ressuscitare con le focacce degli spettri, appena sfornate, scappando via nel frattempo – apud T.Pamfile, op.cit., p.170-171. Non ci possiamo permettere quì una discussione sulla narrativa apotropaica e sulle valenze protettive dei racconti sui lavori del pane e della canapa ecc. nel folklore romeno. 25 Per un inquadramento teorico più ampio dei concetti possessione e sciamanesimo, si veda G. Pizza, The Virgin and the Spider: Revisiting Spirit Posssession in Southern Europe, in Incontri di etnologia europea. European ethnology meetings, Ed. Scientifiche Italiane, 1998, p. 49-81.
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“chiarimento” in questo senso, ce lo possiamo dare soltanto imboccando la strada delle diverse narrazioni su più livelli di mitizzazione, relativi al Sabba, agli incontri ai vari incroci delle streghe, e riguardanti i riscontri tra spettri, tra stregoni e streghe appartenenti al folklore romeno, documentati per il San Giorgio degli Animali26. Se nel folklore occidentale la maggior parte dei documenti sono narrati in prima persona – data la natura specifica delle fonti
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In principio, due sarebbero gli episodi da studiare nell’ambito degli incontri di tipo sabbatico – le raddunanze avvenute sul confine, specifiche al folklore romeno: prima, il viaggio al Sabba, poi, il Sabba propriamente detto, con i suoi scontri o le sue feste (da noi, più raramente; la presenza delle feste – specie le “hore” – è vista piuttosto come un’alterazione dell’immagine delle riunioni delle fate; alla loro volta - molto di raro, però quest’ultime appaiono nella loro ipostasi combattiva all’interno del gruppo, nell’ambito del quale si manifestano). Ecco qualche esempio di modalità in cui si può compiere il viaggio intermundano; la loro collocazione temporale nella notte di San Giorgio o di Sant’Andrea – anche se non di maniera esclusiva – le collegano alle trattative nella magia della manna e designano i loro attori quali spettri - cioè abitanti della Terra, ma di una condizione alterata. Nelle situazioni in cui gli attori sono le mitiche fate, (zâne, iele, rusalii), le informazioni sui loro miracolosi incontri ci parvengono solo dalla loro incidentale intersezione e dai racconti ossia dai precetti dell’agguato (il più delle volte parzialmente compiuto). “Streghe diventano le vecchie e le maghe, e poi, che lo vogliano o no, devono andare nella sera di San Giorgio a pigliare la manna, perché altrimenti il loro capo non le può tollerare in casa. Il corpo però, non ci va, ma solo il loro più malvagio spirito magico. Il corpo resta a casa, steso nel letto e se succede che qualcuno lo spostasse così, come se fosse inerto, come di morto (…) poì è finita anche per la strega (…). (…) si riuniscono in posti solitari, nei nascondigli dei boschi, in case abbandonate e tra i confini, dove si delimitano le terre di più villaggi. Lì cominciano a pestarsi di santa ragione con lingue di stiglioni e stigliatrici e combattono senza posa fino a mezzanotte. Quando arriva l’ora, ognuna, cavalcando il suo stiglione, va nelle case della gente e ruba il latte alle vacche.” (S.Fl. Marian, op.cit., p. 258; vedi anche p. 260, 262, 263, 273). “Gli stregoni vengono in questa notte e rubano la lingua degli stiglioni, dopo di che vanno a combattere tra di loro al primo confine, se sono in tanti, al secondo, se sono in pochi, e al terzo, se sono ancora di meno.” (T. Pamfile, Sărbătorile…, p. 220; vedi anche p. 37, 39, 40, 219, 221). “Le streghe (muroile) si incontrano nella montagna Retezat. Esse vengono a cavallo su lingue degli stigli e su scope. Si spalmano con certe pomate, nude essendo, e poi scappano fuori per il camino.” (A. Fochi, op.cit., p. 328-329; vedi anche p. 45, 145). Per il viaggio fatto in corpo in seguito allo spalmarsi, attraverso il camino, si veda anche E.N. Voronca, op.cit., p. 231, 239-242). Si veda ancora l’esempio parallelo delle magare delle isole Eolie – rimanendo sconosciuto il senso del loro viaggio – con una pomata speciale o in una barca spinta da incantesimi, da M. M. Maffei, La fantasia, le opere e i giorni. Itinerari antropologici nelle isole Eolie, Litografia Lombardo, Milazzo, 2000, p. 243-254.
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risultate dalle testimonianze dei processi di stregoneria dell’Inquisizione27, il folklore romeno abbonda piuttosto in informazioni estratte da “racconti” in terza persona, cioè narrativa mitico-magica sul rito da seguire per diventare testimone privilegiato della cavalcata verso il luogo del riscontro vero e proprio, poi sulle esperienze degli individui che si sono sottoposti al rito28;
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Un’analisi complessa di questi dati relativi al Sabba, parvenutici dai rapporti dell’Inquisizione di Palermo, correlati con informazioni riprese dal tardo folklore siciliano, presenta in parallelo un Sabba “storico” nero, demonizzato, e uno bianco, quello delle fate; per una migliore illustrazione, l’autore – G. Henningsen – sistematizza in una tabella le caratteristiche e gli attributi delle iele (parche), fate romene attive in gruppo, secondo l’esegesi sui căluşari di G. Kligman. Si veda G. Henningsen, Le “donne di fuori”: un modello arcaico del Sabba, in Archivio Antropologico Mediterraneo, 1, no. 0, 1998, Sellerio Editore, Palermo, p. 45-59. Per l’analisi dell’area siciliana contemporanea, si veda E. Guggino, Nota. Gustav Henningsen. Le “donne di fuori”: un modello…, in Archivio Antropologico Mediterraneo, 1, no.0, 1998, …, p. 35-44. P. 43: “Un elemento che più d’ogni altro sembra aver perduto la sua forza e la sua compattezza rappresentativa è quello del viaggio in un luogo magnifico per magnifici raduni, in sostanza al Sabba (bianco).” Cf. şi C. Ginzburg, op.cit. 28 É quello che noi chiamiamo la tecnologia dell’agguato ossia i precetti da seguire per poter vedere gli stregoni mentre stanno per andare ai raduni o, soprattutto, mentre vanno a prendere la manna, perché in questo modo ci si possa difendere e si possa identificarli nel loro stato terreno. Gli esempi romeni abbondano anche qui; un topos frequente è quello della visualizzazione degli spettri con l’aiuto dell’aglio cresciuto in testa ad un serpente spaccato in maniera ritualica: “Si dice che se qualcuno, prima del San Giorgio, trova un serpente, lo prende, gli spacca la testa con una moneta d’argento e poi gli mette in bocca uno spicchio d’aglio insieme alla moneta, in breve tempo questo spicchio spunterà. Dunque, prendendo la testa con questo spicchio sorto, mettendolo nel cappello, e uscendo di casa di buon’ora il giorno di San Giorgio, quando i vaccari fanno uscire la mandria fuori dal villaggio per portarla al pascolo, quello, col cappello in testa, se sale in un posto più alto, da lì potrà vedere tutte le streghe che vanno a cavallo sulle mucche, mentre il loro capo cavalca il toro del villaggio, e vedendole così subito le riconoscerà.” (S.Fl. Marian, op.cit., p. 261; vedi anche p. 258, 262, 263; T. Pamfile, Mitologie…, p. 122, 144, 162, 163, 164: “Chi resterà quella notte presso il recinto, sotto un erpice a denti d’acciaio, potrà vedere e prendere gli spettri.”; 231; ecc.) Sempre con quest’aglio essi si possono controllare: “L’anno successivo, il giorno di San Giorgio, spalmati sul petto quell’aglio e arrampicati su un albero, e tutte le streghe verranno a quell’albero a chinarsi davanti a te, come se fossi il loro capo. Allora devi chiedere loro: “Tu, dove vai?” “Io vado a quel tale per farlo diventare povero.” “E tu?” “Io vado a quell’altro tale a farlo impazzire.” Un’altra va a farlo diventare malato.” “Ehi, voi! Non andate di là, bensì al nono confine e combattete, e poi tornate alle vostre case, e se non fate quello che vi dico, io verrò a saperlo! (E.N. Voronca, op.cit., p. 242; vedi anche p. 239-244).
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questo fatto richiede una certa metodologia di ricerca e una particolare problematica che andrà affrontata in seguito. In fine, un altro punto degno di essere segnalato è il prezzo del riscontro di tipo sabbatico29. Alla fine del nostro discorso ci soffermeremo su di essa. Ora, però, ci interessano le energie buttate in gioco per la sua manipolazione: se sono spettri “vivi” o “morti” (vedi supra), se si radunano per divertirsi o per combattere, disputando la manna del latte o qualsiasi altra garanzia di fertilità30, l’immaginario tradizionale vede queste entità come 29
Vedi la demonizzazione estrema presente nelle testimonianze inquisitoriali occidentali. Ecco qualche scenario: “Lo scontro tra spettri inizia quando uno di loro dice “aglio rosso”, e finisce quando un altro grida “aglio bianco”, oppure quando i galli cantano a mezzanotte. Mentre combattono, gli spettri dicono: - Do, ma non taglio!” (T. Pamfile, Mitologie…, p. 134). “Da alcune parti si pensa che a questi scontri, gli spettri si dividano a paesi, e che il paese che vincerà, affogherà nell’abbondanza, perché tutte le piogge prevviste per il paese sconfitto scenderanno su quello dei vincitori.” (id., ibid., p. 135). “Questi spiriti di stregoni si vedono di notte mentre danzano sui ciglioni, come se fossero piccole fiamme oppure come se ciascuno avesse nelle mani due candele. Più tardi, si radunano davanti al loro capo, e lì spazzano il focolare, lo arano e lo seminano con farina gialla, fine. Cresciuto e maturato, questo granturco verrà raccolto, stritolato e mischiato con latte, e questo se lo mangiano le streghe e gli stregoni. Dopo di che escono per il camino, si aggirano vorticosamente nell’aria e sotto le grondaie e poi se ne vanno per riprendere i loro corpi. C’è chi dice che gli spettri, vestiti di rosso, danzano fino all’alba.” (id., ibid., p. 130). “Un uomo veniva dal mulino, con un sacco di farina gialla, quando ad un tratto sorge una danza di stregoni non lontana da lui: - Buona danza! - augurò loro il passante. - Buona farina anche nel tuo sacco! gli risposero gli spettri danzanti. E infatti, da allora in poi, la farina gialla nel sacco dell’uomo non finì mai, finché non commise l’errore di svelare il segreto di quel miracolo alla moglie che lo provocava di continuo.” (id., ibid., p. 136). “(…) si pensa che gli spettri che sono sempre uomini, ma con la coda, non possano soffrire la puzza d’aglio. Verso il Sant’Andrea, si radunano o nel camposanto o in certi posti nei boschi, in case abbandonate o su muri diroccati e fanno crocchio; poi si spargono per fare del male nel mondo. Spesse volte avvengono scontri tra loro e vengono alle case della gente per pigliare lingue di stiglietti per combattere.” (T. Pamfile, Sărbătorile..., p.221). Da una moltitudine impressionante di narrazioni, facciamo ancora un solo esempio relativo alle fate: “’La fata corre per le nuvole, seguita da una grande corteo di streghe. Tanti sono i romeni che giurano d’aver sentito il firmamento rimbombare dalla sua musica.’ Quando più fate si radunano nello stesso posto, si mettono a danzare come se fossero impazzite; in quel luogo tutta la vegetazione s’appassisce. ‘La fata possiede forze magiche; essa può rendere qualcuno zoppo, sordo o cieco. Particolarmente forte lo è a Pentecoste. Perciò, tutto il 30
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appartenenti ad una zona-intervallo, al di là di questo mondo, al di quà di quell’altro. Si tratta una zona inconsistente dell’illimitazione in cui possono scatenarsi tutti gli agenti trasgressivi tra mondi, dunque anche gli uomini in carne ed ossa. Nei loro tratti trasgredenti i confini, queste entità presentano un’insieme di caratteristiche in buona misura identiche o convergenti fra di loro – si veda, ad esempio, l’invocazione al dominio del potere sul mondo, recitata dalle streghe, ma anche dalle parche (le iele) ecc. Fra queste – significativo per la mentalità romena tradizionale – si può aggiungere anche la bilancia equilibrata del potere tra la loro forza - è vero, nel loro dominio relativamente “ristretto” di attività – e il potere della divinità cristiana31. I predestinati sono nati con la coda (menzione quasi-generale), con la cuffia in testa32 oppure concepiti durante la vigilia o proprio durante una festa religiosa (“praznic”)33. A questi gli si deve comunicare la loro condizione nativa ed il loro statuto di potenziali spettri (“strigoi”) post-mortem, per poter fare alla morte la richiesta di applicare su di loro le tecniche di deromeno porta alla cintola, in quel periodo, un pezzettino di legno, che però non dev’esser stato bagnato, e un ramo di sambuco.’ Le fate hanno diversi nomi…” (id., ibid., p. 24). 31 Qualche racconto è particolarmente suggestivo in questo senso: “Quant’è grande la forza delle streghe! – che Dio ci protegga! Si dice che al tempo in cui Dio insieme a San Pietro andavano per il mondo, Dio si arrampicò su una croce alta e chiese alle streghe: “Che fate voi lì?” “Noi facciamo sicché quanto si può percorrere con lo sguardo, sia coperto da brina il giorno di Pasqua!” “Io non permetterò che voi facciate questo!” “Allora, neanche noi non concederemo che tu salga ai cieli il giorno dell’Ascensione!” E infatti, quando il Signore venne alla festa dell’Ascensione, non potè salire ai cieli. Ritornò da loro, salì sulla croce e disse loro: “Fate pure quello che volete, ma quando verrete da Me ai cieli, sarò Io a chiedervi allora quello che fate quà!” e poi il Signore potè salire ai cieli; - se le ha lasciate fare, anche loro Lo hanno lasciato tornare da Dio.” (E.N. Voronca, Datinele…, p. 243). “Altre volte tolgono del tutto la rugiada, perché gli uomini sono cattivi e non pregano Dio. È sempre Dio ad averci dato le streghe.” (id., ibid., p. 242). “Mentre Dio e San Pietro andavano per il mondo, a cavallo, incontrarono una strega che, con i suoi poteri miracolosi, stava bollendo senza fuoco una pentola, in mezzo alla strada. Quando la vede, Dio le dice: - Che ti si fermi la pentola! E questa, da lì: - Che ti si fermi il cavallo! E la pentola si fermò; ed altrettanto fecero i cavalli. Quando Dio vide che la strega aveva gli stessi poteri che aveva Lui, ritirò le Sue parole: - Che la pentola si metta a bollire! E lei: - Che i cavalli si mettano in moto!” (T. Pamfile, op..cit., nota 2, p. 133). 32 Gaiţă Ion, 65 anni, Dieci; Oarcea Todor, 87 anni, Dieci, jud. Arad. 33 Popa Iosif, 75 anni, Dieci, jud. Arad.
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spettralizzarsi del rituale funebre34. Generalmente, questi predestinati si trasformeranno in animali per operare, il più spesso in gatti – che, rotolandosi tre volte, poi salendo sui piedi della vacca, le succhieranno il latte, danneggiandole in questo modo. Per quelli nati con la cuffia in testa (chiaro segno di predestinazione35), questa non cade loro finché i neonati non vengono chiamati, nominati per questo destino (qualunque esso fosse, dalla strega all’omicida). Indipendentemente dall’origine dell’agente magico, si può far ritornare il latte alla mucca, in grandi linee (questo ovviamente dipende anche dalla gravità del caso), secondo due principii: si provoca l’annullamento della fattura da lontano, ed è appunto questo tecnico magico a compiere le azioni richieste, oppure si provoca quest’annullamento da vicino, cogliendo direttamente in flagranza l’agente magico ed obbligandolo, in cambio al silenzio sulla sua vera identità nella vita terrena, umana, ossia in cambio della sua vita, a sciogliere il sortilegio fatto da lui stesso. Per l’agente recuperatore del latte, il sciogliere da vicino diventa assai pericoloso, però, lascia all’agente ladro la possibilità di una scelta, senza provocargli necessariamente la morte; mentre il sciogliere da lontano è molto più difficile da operare e può anche provocare la morte, senza lasciar più all’agente magico ladro quella possibilità della scelta. Questa è la ragione per cui è più difficile agire da lontano, perché la pratica utilizzata e l’incantesimo compiuto debbono agire direttamente sul nocciolo del sortilegio: allora si narra su come si è contattata la fattura, dalla posizione dell’agente magico, seguendo, attraverso il dire, il tragitto della tecnica utilizzata da lui nel fare, cosa che nell’incantesimo possiede una funzione simbolica36; allo stesso modo, sempre nell’incantesimo, l’agente che scioglie dai sortilegi narra – utilizzando un tempo futuro, il più delle volte - le operazioni da lui intese. La discussione sulla tecnologia magica utilizzata, ed anche sui simboli operanti, richiede nuove informazioni. Ciò che resta chiaro è che una strega che viene a tormentare gli animali, che slega le mucche e che cavalca all’inverso sulla vacca!37 produce una rottura fra i due mondi, fessura tramite 34
Per una presentazione sintetica di queste tecniche, si veda Ion Ghinoiu, op.cit., p. 194, v. Strigoi vii. 35 Il motivo è molto frequente nel folklore romeno. Cf. B.This, Naître… et sourire, Flammarion, Paris, 1983. 36 Si veda anche l’analisi dell’incantesimo a Gh. Pavelescu, Cercetări asupra magiei la românii din munţii Apuseni, Institutul Social Român, Bucureşti, 1945. 37 Oarcea Todor, 87 anni, Dieci, jud. Arad.
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la quale dall’aldilà irrompe il disordine; non solo la potenzialità assoluta, ma l’inverso assoluto, cioè la premessa, la condizione, la causa necessaria per il ritorno allo stato di potenzialità assoluta. Quando la rottura viene fatta dalla strega, essa la fa con una finalità chiaramente e concretamente circoscritta, lei essendo solo un agente. Quando invece la stessa rottura viene fatta da uno spettro, che sia questo vivo o morto, esso la fa in nome dei principii che governano l’altro mondo ed i suoi rapporti con questo mondo, ed allora la farà dalla prospettiva di un essere dell’al di là, essendo per sé anche la causa non solo l’agente del disordine. Molte attestazioni presenti nel folklore romeno affermano che quello che sta sveglio durante la notte del San Giorgio degli Animali può sentire le grida degli spettri (strigoi) quando essi vanno in cerca di manna di vacche: “De n-ar fi hodolean / Hodolean şi rostopastă / Fire-ar lumea toat-a noastră”, cioè ci sono delle piante che impediscono agli strigoi di governare il potere del mondo38. C’interessa ora - da quest’affermazione - soltanto il fatto che queste entità, se avessero la manna delle vacche, deterrebbero il dominio sul mondo. Gli stessi versi vanno cantati anche da altre figure demonologiche romene, per esempio le fate chiamate “iele”; ma evidentemente la loro mira è un‘altra. Si tratta chiaramente di una rivalità, tra questo mondo e l’altro, sul dominio del mondo dei viventi, sul potere, sull’energia vitale di quest’ultimo; si tratta anche di un trasfero magico che 38
L’esempio qui presente fu estratto da S. Fl. Marian, Sărbătorile…, p. 262, ma la messa in rilievo ci appartiene. Come stavamo dicendo, il folklore romeno abbonda in tali esempi; la poesia è trasmessa di maniera estremamente compatta in ciascuna di questi ipostasi, in cui viene invocata: che si tratti di spettri o di fate nella loro molteplicità di ipostasi. Potremmo ricordare in questa sede le valenze profilattiche ed apotropaiche di una somma di piante onnipresenti nell’attrezzatura di qualsiasi essere terreno che mira ad entrare in contatto con le entità dell’aldilà, o che vuole prevenire un impatto con questa dimensione para-umana. Osserviamo solo che dai versi manca la presenza dell’aglio – accreditato, in genere, in quanto efficace contro stregoni e streghe, e l’assenzio – l’erbaccia obbligatoria contro le Rusalii, Iele, Dânse ecc. (si veda, a questo proposito, anche G. Kligman, Căluş. Symbolic Transformation in Romanian Ritual, The Romanian Cultural Foundation Publishing House, Bucharest, 1999). Facciamo di nuovo ricorso alla raccolta di T. Pamfile din Sărbătorile…, p. 24: “La vita terrena starebbe proprio minacciata se Dio non avesse lasciato le quattro erbacce prottetrici dell’uomo. Queste sono: la graziola, l’ajuga laxmanni/la gratiola officinalis (apud Al. Borza, Dicţionar etnobotanic, Ed. Academiei RSR, Bucureşti, 1968, p. 13, 78-79, 225-226 – n.n.), il levistico e la valeriana. Ma come queste piante si possano opporre alle Rusalii, non si sa proprio.”
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prende le vesti di una lotta mai interrotta da illo tempore. Il suo esito minaccia da sempre il nostro mondo; mentre l’altro mondo sembra essere altrettanto minacciato da azioni di un altra natura, da parte degli esseri umani.
Annesso con le citazioni in romeno: Nota 1: “În această noapte se crede că se fac cele mai rele şi mai puternice vrăji, se iea mana vacilor şi rodul câmpurilor.” (Gh.F.Ciauşanu, Superstiţiile poporului român în asemănare cu ale altor popoare vechi şi nouă, Bucureşti, Librăriile Socec, 1914, p.20). “… se tăvăleşte peste holdele cele mai bune şi mai pline de rouă, se duce apoi şi se tăvăleşte pe a lui şi prin aceasta a luat mana de pe altele şi a mutat-o pe a sa şi acelea se fac slabe, iară a lui bună şi frumoasă. Ori merge cu un lepedeu de pânză în câmp şi îl trage peste holdele mai bune şi aşa, cu el ud, merge şi-l stoarce de rouă peste a sa şi în modul acesta încă a mutat roua de pe alte holde pe a lui.” (I.Muşlea, Ov.Bîrlea, Tipologia folclorului din răspunsurile la chestionarele lui B.P.Haşdeu, Ed. Minerva, Bucureşti, 1970, p. 248). “strigoaica (…) ia mana pânei de pe câmp, luându-ţi cea dintâi brazdă când ari şi aruncând-o pe câmpul ei”. (E. Niculiţă-Voronca, Datinele şi credinţele poporului român adunate şi aşezate în ordine mitologică, Ed. Polirom, Iaşi, 1998 [ediţia I: 1903], vol.II, p. 238). Nota 3: “strigoaicele fură mana câmpurilor, (…) iau frumuseţea femeilor, fetelor şi flăcăilor pentru ele şi copiii lor şi ‘usucă copacii în pădure’.“ (T.Pamfile, Mitologie românească, Ed. ALLFA, 1997 (ediţia I: 1916), p. 162); “va vedea pe strigoaice cu doniţa în cap, şi cu şitişca legată de picior, căci cu aceasta iau strigoaicele frumuseţea femeilor şi mana de la orişice.” (id., ibid., p. 163); agenţii magici “strică minţile, iau sporul câmpului şi laptele vitelor”; “iau sporul, te fac neom”; “fac de urât între însurăţei, iau mana vacilor şi bucatelor, fac de mor vitele vecinilor pe care au necaz” (A. Fochi, op.cit., p. 4-5). Dânsele “ridică în aer oameni, vite şi când îi lasă jos le rup mâinile, picioarele etc.”; “iau mana de la vite”; “ologesc pe cei ce nu le respectă” (id., ibid., p. 111); Ielele “culeg ferigile din păduri, care înfloresc în acel timp şi iau mana buruienilor, care nu mai au putere vindecătoare” (id., ibid., p. 141). Nota 8: “Vacile cărora li s-a luat laptele, zice că în scurt timp dau înapoi, hitionesc şi slăbesc mai rău ca iarna, părul li se zbârleşte, pare că ar fi bolnave, iar după o lună, cel mult două, stârpesc cu desăvârşire” (S.Fl. Marian, op.cit., p. 261); “vaca, în loc de lapte, dă sânge sau nu se lasă să fie mulsă” (T.Pamfile, Mitologie…, p. 163); piatra bortită prin care a băut curcubeul apă “e bună de muls vaca, de trei ori în cruciş, când e laptele cu sânge” (E.N.Voronca, op.cit., p. 245); “vacile pierd laptele: untul lor face viermi şi e plin de sânge” (A.Fochi, op.cit., p. 296). Nota 12: Oarcea Todor, 87 ani, Dieci, jud. Arad: “Îs strigate p-acee. Să duc şi iau tăt de acuma şi cu secerea taie spicele şi face pân’ grâu aşe, o cărare. Şî să duşe. (…) Şî zîce mergând pân’ iel: “De-aici o ţâră, de-aici o ţâră (…)” … şi cunoşteai că îi strîgă a grâu, că la ie iera grâu şi snopu’ nu-l puteai ajuta de la pământ. Şi iera p-on lat, pă două cât pă trii-patru.
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ILEANA BENGA ● Rubare il latte: fertilità terrena e minaccia del vivente. Note su un’indagine etnografica in Zarand, Romania Aşa zîce c-o fost una, n-o putut me’ pă vremea asta c-o fost bolnavă, ş-o mânat sluga. (…) Când o călcat femeia grâu’ o fost numa’ cu orândă. Aşe zîceau c-o fost un stog cu orândă până-i lumea.” Nota 13: “Soţul unei strigoaie pleacă în locul neveste-si, călare pe fiul popii – care era strigoi şi se transformase în cal – să se bată cu strigoii la “Movila Rîbîii”, având sabie în loc de limbă de meliţoaie. Taie o mulţime de strigoi. La întoarcere, taie urechea calului şi a doua zi se convinge că a fost fiul popii, fiindcă era legat la ureche şi nu auzea bine.” (I.Muşlea, Ov.Bîrlea, op.cit., p. 255; vezi şi celelalte povestiri). “Un om avea ca femeie o strigoaică ce purcese grea. Înspre Sf. Andrei, femeia îi răspunse bărbatului său să ia o limbă de meliţoi şi să se ducă la crucile drumului să dea cu limba de 9 ori în pământ şi să zică: “dau, dar nu tai”. Omul se duse, dar zise: “dau şi tai”. Când s-a întors acasă, găsi pe nevastă-sa tăiată.” (T.Pamfile, op.cit., p. 222). Nota 16: A.Fochi, op.cit., p. 298-299: “până în ziuă ies oamenii cu vitele la păşune, pe rouă, spre sănătatea lor şi bucatelor le merge bine”; “se pasc vitele toată noaptea liber, chiar prin holdele oprite”; “în ajunul serii sf. Gheorghe, care se numeşte mânecătoare, toţi pleacă de cu noapte cu vitele prin livezi şi le pasc până a doua zi, ca să aibă izvor de lapte tot anul”; “dimineaţă se face brânză nouă”. Nota 22: “ele zboară prin aer, foarte pe sus, încât abia se aud, călărind pe anumiţi cai făcuţi din oameni, cari din nenorocire au ieşit în capul gol afară în preseara Sângiorgiului vacilor.” (S.Fl. Marian, op.cit., p. 257). Nota 24: “de la ea le mirosea a usturoi, pentru că spusese jumătatea cea de rugăciune” (T.Pamfile, op.cit., p. 170-171). Nota 26: “Strigele se fac din femei bătrâne şi fărmecătoare, şi apoi, de vreau ori nu vreau, trebuie să meargă în seara de Sângiorgiu după mană, căci căpetenia lor nu le suferă acasă defel. Nu merge însă şi trupul, ci numai duhul cel rău vrăjitoresc. Trupul rămâne culcat acasă, şi dacă se întâmplă ca cineva să strămute trupul rămas ca mort aşa (…) apoi a gătat şi striga cu viaţa (…). (…) se adună în locuri singuratice, în vizuinile codrilor, în case părăsite, şi între hotare, unde se hotărăsc moşiile mai multor comune. Acolo se apucă la bătaie cu limbi de meliţe şi meliţoaie şi se bat necontenit până la miezul nopţii. Sosind miezul nopţii, încalecă fiecare câte pe o meliţă sau meliţoi şi astfel se duc apoi pe la casele oamenilor de iau laptele la vaci.” (S.Fl. Marian, op.cit., p. 258; vezi şi p. 260, 262, 263, 273). “Strigoii vin în această noapte şi fură limba meliţoaielor, după care se duc şi se bat între ei la hotarul întâi, dacă-s mulţi, la hotarul al doilea, dacă-s mai puţini, la al treilea, dacă-s încă mai puţini.” (T. Pamfile, Sărbătorile…, p. 220; vezi şi p. 37, 39, 40, 219, 221). “Strigoile (muroile) se adună pe muntele Retezat. Ele vin pe limbile (fălcile) meliţelor şi pe mături. Ele se ung cu ceva unsori, fiind în pieile goale, apoi fug pe horn afară.” (A. Fochi, op.cit., p. 328-329; vezi şi p. 45, 145). Nota 28: “Aşa se zice că, dacă dă cineva înainte de Sân-Giorgiu de un şarpe şi prinzându-l îi taie capul cu un ban de argint, iar după ce l-a tăiat îi bagă în gură un căţel sau fir de ai
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ILEANA BENGA ● Rubare il latte: fertilità terrena e minaccia del vivente. Note su un’indagine etnografica in Zarand, Romania (usturoi) şi banul cel de argint, căţelul în scurt timp răsare. Deci luând capul cu căţelul acesta şi punându-l în pălărie şi apoi ieşind în ziua de Sân-Giorgiu, des-dimineaţă, pe când văcarii scot ciurda din sat la păşune, cu pălăria în cap, şi suindu-se într-un loc înalt, atunci vede pe toate strigoaiele cum merg călare pe vite, iar pe mai-marea strigoaielor mergând călare pe taurul satului, şi văzându-le îndată le cunoaşte.” (S.Fl. Marian, op.cit., p. 261; vezi şi p. 258, 262, 263; T. Pamfile, Mitologie…, p. 122, 144, 162, 163, 164: “Cine va sta în noaptea aceea în gard, sub o grapă cu dinţii de fier, va putea vedea şi prinde strigoii.”; 231; etc.) “La anul în ziua de Sf. Ghiorghe, să te ungi pe piept cu usturoiul acela şi să te sui în copac şi toate strigoaicele vor veni la copacul acela şi ţi să vor închina ca la cel mai mare. Atunci le întrebi: “Tu unde te duci?” “Eu merg la cutare să-l sărăcesc.” “Da tu?” “Eu merg la cutare să-i iau mintea.” Altă merge să îmbolnăvească. “Voi să nu mergeţi acolo, dar să vă duceţi pe al 9-lea hotar şi să vă bateţi ş-apoi iar acasă să vă duceţi, căci dacă nu veţi asculta, eu voi şti!” (E.N. Voronca, op.cit., p. 242; vezi şi p. 239-244). Nota 30: “Bătaia între strigoi începe atunci când unul zice “usturoiu roşu”, şi încetează când altul strigă “usturoiu alb”, sau când cântă cocoşii pentru miezul nopţii. Câtă vreme se bat, strigoii zic: - Dau, dar nu tai!” (T. Pamfile, Mitologie…, p. 134). “Prin unele părţi se crede că la aceste bătălii, strigoii se împart pe ţări, şi că în ţara cetei ce biruie, va avea belşug, căci toate ploile menite pentru ţara strigoilor biruiţi se vor revărsa peste cea a biruitorilor.” (id., ibid., p. 135). “Aceste duhuri de strigoi se văd jucând noaptea pe haturi ca nişte făcliuţe mici sau având fiecare în mână câte două lumânări. Târziu, se strâng la căpetenia lor unde mătură vatra, o ară şi o seamănă cu mălai mărunt. După ce acesta creşte şi se coace, este strâns, pisat şi făcut cu lapte, cu care se ospătează strâgele şi strigoii. După aceasta ies pe hornuri, se-nvolburează în văzduh şi pe sub streşini şi apoi pleacă de-şi însufleţesc trupurile. Unii spun că strigoii, îmbrăcaţi în haine roşii, joacă până-n zori de zi.” (id., ibid., p. 130). “Un om venea c-un sac de mălai de la moară, când vede o horă de strigoi nu departe de dânsul: - Să vă crească jocul, - le ură trecătorul. - Şi ţie să-ţi crească mălaiul! – îi răspunseră strigoii jucăuşi. Şi de atunci, într-adevăr, mălaiul din sacul omului nu s-a mai isprăvit, până când n-a făcut greşeala şi a spus femeii care-l tot ispitea, taina acelei minuni.” (id., ibid., p. 136). “(…) se crede că strigoii, cari-s tot oameni, însă cu coadă, nu pot suferi mirosul de usturoi. Înspre Sf. Andrei, se strâng ori în ţintirim ori în anumite locuri de prin păduri, prin case pustii ori pe ziduri ruinate şi fac sfat; pe urmă se împrăştie după rele în lume. Adeseori între ei se întâmplă bătălii şi vin pe la case de iau limbile de la meliţuici, de se bat.” (T. Pamfile, Sărbătorile..., p.221). “ ‘Zâna aleargă prin nori, cu alai mare de vrăjitoare. Mulţi români se jură că ar fi auzit răsunând rin văzduh muzica ei’. Când se strâng mai multe la un loc, pornesc să joace ca nişte nebune; pe acel loc, verdeaţa toată se usucă. ‘Zâna are mari puteri magice; ea poate face (pe cineva) olog, surd sau orb. Cu deosebire puternică este ea la Rusalii. Pentru aceasta, fiecare român poartă în şerpar, pe acea vreme, câte o bucăţică de lemn, care însă să nu fi stat în apă, şi o ramură de soc’. Zânele poartă diferite denumiri…” (id., ibid., p. 24).
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ILEANA BENGA ● Rubare il latte: fertilità terrena e minaccia del vivente. Note su un’indagine etnografica in Zarand, Romania Nota 31: “Strigoaicele, Doamne fereşte, ce putere au! Zice că pe când umbla Dumnezeu şi cu Sf. Petru pe lume, Dumnezeu s-a suit pe o cruce înaltă şi le-a întrebat pe strigoaice: “Ce făceţi voi acolo?” “Noi aşa făcem, au zis ele, că cât vedem cu ochii, de Duminica mare să fie brumă! “Eu nu v-oi lăsa să faceţi voi asta!” “Apoi nici noi în ceri nu te-om lasa pe tine, la Ispas, să te sui!” Când a venit la Ispas, Domnul Hristos nu s-a putut sui. A venit înapoi la ele şi s-a suit pe cruce de le-a vorbit: “Făceţi voi ce făceţi şi când veţi veni în ceri la mine, v-oi întreba eu ce făceţi aice!” ş-apoi tocmai s-a putut Domnul Hristos sui la ceri; - dacă le-a dat lor voie, I-au dat şi ele lui Dumnezeu”. (E.N. Voronca, Datinele…, p. 243). “Altă dată, iau roua, că nu-i deloc, pentru că sunt oamenii răi şi nu se roagă la Dumnezeu. Strigoaicele sunt date tot de Dumnezeu.” (id., ibid., p. 242). “Pe când umblă Dumnezeu şi cu Sf. Petru pe pământ, călări, au întâlnit o vrăjitoare ce-şi fierbea în drum, cu puterea ei vrăjitorească, oala, fără foc sub ea. Când o vede Dumnezeu, zice: - Sta-ţi-ar oala! Şi ea, de acolo: -Sta-v-ar caii! Şi oala a stat; şi caii lor. Dac-a văzut aşa Dumnezeu că vrăjitoarea are aceeaşi putere ca el, şi-a luat vorba: - Porni-ţi-ar oala! Şi ea: - Pleca-v-ar caii!” (T. Pamfile, op..cit., nota 2, p. 133). Nota 38: “Viaţa pământească chiar ar fi în cumpănă dacă Dumnezeu n-ar fi lăsat cele patru buruieni ocrotitoare omului. Acestea sunt: avrămasca, cristineasca, leuşteanul şi odoleanul. Cum însă aceste plante se împotrivesc Rusaliilor, nu se poate şti.” (T. Pamfile, Sărbătorile…, p. 24).
Elenco degli informatori: 1. Gaiţă Ion, 65 anni, Dieci – reg. nel 12.07.1997. 2. Oarcea Todor, 87 anni, Dieci – reg. nel 15.07.1997. 3. Lucoaie Ştefan, 71 anni, Dieci – reg. nel 15.07.1997. 4. Petrea, 69 anni, Dieci – reg. nel 15.07.1997. 5. Popa Iosif, 75 anni, Dieci – reg. nel 18.07.1997 e nel 23.04.1998. 6. Popa Florica, 64 anni, Dieci – reg. nel 23.04.1998. 7. Andraş Simion, 47 anni, Păiuşeni – reg. nel 24.04.1998. 8. Târsală Carolina, 56 anni, Păiuşeni – reg. nel 24.04.1998. 9. Păişan Marinca, 75 anni, Păiuşeni – reg. nel 24.04.1998. 10. Păişan Elisabeta, 79 anni, Păiuşeni – reg. nel 25.04.1998.
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GAETANO SCOLLO ● Medicina popolare e magia a Gela: la malattia come evento sociale
MEDICINA POPOLARE E MAGIA A GELA: LA MALATTIA COME EVENTO SOCIALE Gaetano Scollo
I dati che emergono da questa ricerca ci danno, a mio avviso, l’idea di come in una società post-industriale come la nostra, le pratiche mediche tradizionali siano ancora un forte punto di riferimento. Questo non succede solo tra gli strati suburbani della società o tra le classi sociali meno abbienti; ma, fatto abbastanza nuovo, anche tra la nuova borghesia e tra coloro che, comunque, potrebbero permettersi di pagare prestazioni medico-scientifiche. In un periodo di globalizzazione della società, della cultura, del mercato, le incertezze avvertite da chi non ha una parte attiva nella politica1 non sono quelle di chiedersi se l’Euro ha recuperato valore sul dollaro ma, come ho detto prima, spesso si riferiscono alla necessità di dare risposte immediate agli eventi - previsti e imprevisti - del vivere quotidiano. Il modo più immediato per riuscire a far fronte a tali necessità è ancorarsi alle tradizioni, affrontare concretamente il quotidiano con azioni e pratiche che, per il fatto di essere state sperimentate nel tempo, diano risultati sicuri, concreti e di immediata attuazione. Affidarsi ad una persona che si creda possieda la sapienza adatta a risolvere i propri problemi, sapienza che, in misura minore o maggiore è condivisa dalla collettività, risulta di notevole ausilio quando ci si trova in uno stato di malattia. Inoltre dal punto di vista dell’operatore terapeutico, va considerato che quest’ultimo non sarà solo a combattere contro l’entità maligna o la “malasorte”; come suggestivamente afferma Mauss (1965:134 cit. in Guggino 1993:14): <>. Quindi il guaritore non si trova da solo a contrastare eventi infausti, ma dietro di lui c’è il forte desiderio del gruppo, a cui lui fa riferimento, di risolvere la quotidiana lotta contro le incertezze e <<non ci si trova più di fronte a individui isolati che credono, ciascuno per conto proprio, alla loro magia, ma di fronte all’intero gruppo che crede alla magia>> (Ibidem: 137). 1
Per parte attiva nella politica non intendo la delega che si esprime con il voto, ma la coscienza di classe e la possibilità di intervenire concretamente nelle fasi decisionali che interessano la collettività.
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Dietro ogni fatto sociale c’è la storia, la tradizione, la parola, che permette agli individui di dividere le stesse esperienze, ansie e preoccupazioni; in questo modo, collettivizzando i bisogni (non solo materiali), il peso di questi risulterà meno gravoso. Dalle mie precedenti affermazioni non voglio togliere nessun merito alla medicina “scientifica”, anzi la scienza e la tecnologia hanno fatto ultimamente dei progressi che sicuramente hanno sconfitto mali una volta incurabili; se pensiamo alla tubercolosi che fino a due generazioni fa era causa di morte tra le più comuni, alla malaria, e grazie alla vaccinazione di massa si è ridotta notevolmente la mortalità infantile. Ma ci sono alcune eziologie che esulano la medicina “scientifica” dal loro campo d’azione poiché da quest’ultima non contemplata perché frutto di credenze locali riguardanti la concezione popolare del corpo e di conseguenza della malattia. Inoltre quei “rimedi” tradizionali che fanno parte della sapienza popolare fanno sì che tutti possano, in qualsiasi momento, affrontare i disagi che quotidianamente si presentano, evitando di avere contatti con un mondo spesso sconosciuto e distante come quello medico - scientifico. In questa sede mi sono limitato a trattare di soli due aspetti della medicina tradizionale da me riscontrati durante la ricerca; “u scantu” e “u suli” e “la fattura, gli/le informatori/trici menzionate operano tuttora a Gela, area oggetto della ricerca. Le malattie tradizionali a Gela Vermi e Scantu <> (Guggino, 1986:15). Dire che una persona ha lo scantu significa dire che quella persona ha tutti i sintomi relativi alla malattia da scantu, cioè mal di pancia, febbre, nausea, vomito e, nei casi più gravi anche difficoltà a respirare; nei bambini anche un pianto insistente può essere utile per diagnosticare uno “scantu”. Lo spavento può essere provocato da qualsiasi cosa: assistere ad un evento spiacevole, un rumore improvviso, un incidente d’auto, essere assaliti da un animale, cadere dalle scale o da un albero; ogni accadimento può essere fonte di scantu.
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Miluzza, una mia informatrice, mi racconta di uno spavento del figlio: <<Mio figlio quannu aviva 16 anni si ccattau a vespa, quannu vitti tutti sti machini chi giravanu ‘ppa strata, si scantau>> (mio figlio quando aveva 16 anni si è comprato una vespa e quando vide tutte quelle macchine che giravano per la strada si è spaventato); Miluzza mi racconta anche di una volta che a lei stessa, da grande, le vennero i vermi: <<Si, iu virè. ‘Na vota, quannu muriu ma maritu, vinni na machina; qualche mascalzone, io femmina sola ero con i bambini piccoli, io sentiva questa macchina e mi misi paura, [...]>> (si, anch’io. Una volta, dopo che è morto mio marito, è venuta una macchina; qualche mascalzone, io ero da sola e mi sono impaurita). Miluzza mi raccontò anche di una esperienza del figlio che in età adulta si prese lo scantu perché, sul posto di lavoro, vede un suo collega cadere da una impalcatura; quando in seguito questa persona morì ci vollero molte sedute per curargli lo scantu subìto. Lo scantu può colpire con maggiore facilità le persone più deboli come i bambini, le donne e i vecchi, ma tutti sono soggetti a scantarsi, Miluzza mi dice: <> (tutti possono averlo, basta che una persona si spaventa) e una volta diagnosticato non sempre è facile ricondurlo ad un evento accaduto nella realtà. La malattia che consegue allo scantu nell’ambito gelese è quella dei vermi. Nella concezione popolare del corpo si pensa che tutti abbiamo dei vermi collocati nel basso ventre che risiedono all’interno di un non precisato sacchetto; l’effetto scatenante la malattia, cioè lo scantu, fa sì che questi vermi escano dal proprio sito naturale attaccando le pareti dello stomaco e che all’interno dello stesso si muovono risalendo, fino ad attaccare la gola; una volta che i vermi arrivano alla gola si può morire per soffocamento. La descrizione di questi vermi appare a volte sommaria e confusa anche da parte degli stessi terapeuti; del resto dal punto di vista della medicina moderna essi non sembrano essere identificati. Da una sommaria analisi parrebbe che i vermi siano una parassitosi dovuta da un’infestazione da ossiuri e/o da ascaridi, una prima differenza, molto sommaria, tra i due tipi di vermi mi è stata data da Miluzza: << Abbiamo due tipi di vermi: quelli grossi chi sunu chiddi normali chi avemmu tutti; poi ci sunu chiddi piccoli, come per esempio quelli chi fà u formaggiu, chisti sunu ancora più pericolosi: fannu veniri l'anemia, mangiano tutto, addirittura si infettunu. A mia figlia, se le preso quando è andata in bagno, basta uno chi si rifuggiunu intra on corpo e si riproduciunu. Chisti vermi i 283
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curunu i medici, addiritura sa disinfettari a biancheria.>> (Abbiamo due tipi di vermi: quelli grossi che sono quelli normali che abbiamo tutti; poi ci sono quelli piccoli, come per esempio quelli che fa il formaggio, questi sono ancora più pericolosi: fanno venire l’anemia, mangiano tutto, addirittura si infettano. A mia figlia, che li ha presi quando è andata in bagno, basta che uno si rifugia dentro il corpo e si riproducono. Questi vermi li curano i medici, addirittura si deve disinfettare la biancheria). Vi è poi un altro tipo di parassita: quando una persona mangia di continuo e in grandi quantità, si dice che ha <> (il verme tagliarino) ossia nel suo corpo dimora un parassita che, in base alle informazioni raccolte, sia la Tenia. Per debellarlo si utilizza diffusamente la <<simenza di cuccuzza giarna>> (il seme della zucchina bianca). Quindi abbiamo dei vermi naturali e dei vermi da infestazione esterna: quale è la differenza tra i due? Anche in questo la risposta di Miluzza non è molto esaustiva; quando le chiedo la funzione dei vermi che stanno nel nostro corpo mi risponde: <> (Questo non lo so, questo chiedilo a mio genero che studia per diventare medico, però i medici non credono ai vermi). Quindi abbiamo due vermi; un tipo che risiede normalmente nel nostro corpo la cui esistenza è assodata a tal punto da non chiedersi nemmeno il perché della sua esistenza; quei vermi fanno parte del nostro corpo a tal punto che nemmeno i medici possono curarli dato che non credono alla loro presenza; l’altro tipo, invece, proviene dall’esterno e essendo estraneo al normale equilibrio del corpo può essere curato dalla farmacopea ufficiale. Come Scantu definiamo, quindi, sia la causa che la malattia, ossia quando si dice che un Picciriddu (un bambino) è scantatu, si indica uno stato patologico che indica a sua volta anche una causa certa; non si possono diagnosticare i vermi senza indicare - a priori - che la causa è stato uno spavento e si può usare indistintamente la parola scantu o vermi per indicare la stessa cosa; come dice Pitrè: <> (Pitrè, 1994:175) Come dicevamo prima i soggetti più a rischio di scantu sono i bambini e l’età dove di solito si può rimanere vittima dello scantu va’ dai 284
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primi mesi di vita fino ai nove - dieci anni. Quasi tutti i siciliani sono stati almeno una volta nella loro vita da qualcuno/a che gli ha “fatto i vermi”; io stesso ho dei ricordi della mia infanzia, di mia nonna che periodicamente mi portava, <> da una sua sorella che sapeva “fare i vermi”, anche se non apparivano i sintomi che potevano fare credere ad una diagnosi del genere. La diagnosi di scantu può essere fatta da chiunque, dalla famiglia, da una vicina di casa, da una persona più anziana e i sintomi sono molteplici: <> un lamento, <> (aveva gli occhi di fuori), <> (non respirava), <> (gli è venuta la febbre), inoltre inappetenza, sudori freddi e quando i vermi sono arrivati alla gola, bava e segni di soffocamento. Di per sé i vermi non sono una malattia grave ma questa lo può diventare se non è curata in tempo, può portare alla pazzia se non, addirittura alla morte: <<se ti rrivunu da testa poi impazziri sennò addirittura moriri, se si fermunu da gola poi moriri soffocata, sunu pericolosi>> (se ti arrivano alla testa puoi impazzire se non addirittura morire, se si fermano in gola puoi morire soffocata, sono pericolosi), <> (gli ho fatto scendere i vermi che erano già arrivati in gola, perché se ti salgono in testa puoi anche morire). Nello rappresentazione popolare i vermi quando fuoriescono dal loro sito naturale si <> (accumulano come una palla), e questa palla di vermi si muove tutta insieme verso l’alto; lo scopo della terapia è quella di fare scendere questa palla verso il basso, verso il suo sito naturale: <> (l’importante è che si fanno scendere verso il basso); se i vermi per qualche motivo muoiono è ancora peggio perché vanno in decomposizione all’interno dello stomaco e bisogna espellerli: <<ma figghiu iccau na palla di vermi accumulati già frarici, poi guariu subitu>> (mio figlio ha buttato una palla di vermi accumulati già fradici, poi è guarito subito). Per risolvere il problema dei vermi ci si deve rivolgere, dunque, ad una calavermi. Il suo compito consisterà nel fare in modo che questi vermi ritornino nel loro sito; il rituale consiste di una parte meccanica e di un incantesimo, di solito un’orazione.
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La terapia contro i vermi Come abbiamo già detto, il rituale consiste di due parti: una meccanica o gestuale e una oratoria dove viene recitata l’orazione. La calavermi, diagnostica la malattia toccando lo stomaco del paziente o appoggiando una tazzina da caffè - <> - unta ai bordi con olio e aglio; se la tazzina non si stacca vuole dire che ci sono i vermi; fatto questo procede facendo dei massaggi sullo stomaco del paziente: questi massaggi verranno sempre fatti procedendo con un movimento verso il basso in modo da riportare, come abbiamo già detto, i vermi verso il proprio sito naturale. Mentre effettua il massaggio recita l’orazione; varie sono le orazioni che ho trovato durante la mia ricerca ma quella più nota è la seguente: Lunniri è santu martiri è santu mercuri è santu ioviri è santu venniri è santu sabatu è santu la duminica di Pasqua stu vermi nterra casca2 In questa orazione la pratica viene comparata alla settimana santa, il decorso della malattia corrisponde alla passione e morte di Cristo e la domenica di Pasqua è paragonata al momento della guarigione.Il malato viene dunque identificato con la figura di Cristo. Questo rito si deve eseguire il mattino presto o al tramonto per tre volte nello stesso giorno, o in caso di una situazione grave per tre volte di seguito, solitamente la mattina. Un tratto comune che ho ritrovato durante la mia ricerca e che quasi tutte le orazioni si devono dire tre volte e la maggior parte delle volte si devono fare tre volte al giorno o per tre giorni. Chiesi a Teresa, un’altra terapeuta da me contattata: << Come mai tutte le orazioni si devono dire tre volte? Anche le dosi si devono somministrare tre volte: per quale motivo?>> la risposta è stata immediata e con un tono di rimprovero sul fatto che io, gelese, non sapessi già da me la risposta, che è stata la seguente: <
Lunedì è santo - martedì è santo - mercoledì è santo - giovedì è santo - venerdì è santo sabato è santo - la domenica di Pasqua - e questo verme in terra casca. Cfr. Giancristofaro (1989:179) rileva, in contesto abruzzese, una formula verbale pressoché identica.
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voti indica la trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo.>> (Perché tre volte indica la trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo). Teresa mi ha detto di conoscere invece due differenti orazioni: una per i casi meno gravi o per quelli fatti <> che si fa solo una volta e un’altra che si fa per tre giorni consecutivi, in casi un po’ più gravi. La prima è la seguente: Beddra Matri di sant’Agustinu siti principi e siti finu o chi cci viniti o chi cci mannati accussi prestu ma libirati (femmina) mu libiratu (maschio)3 Chiude infine il Pater noster, l’Ave e il Gloria. La seconda orazione è la seguente: Lu vermi di latifania sa mangiatu la vita mia sa mangiatu la vita e la ula lassatimi libira sta criatura (femmina) stu criaturu (maschio)4 Chiude infine il Pater noster, l’Ave e il Gloria. Nella prima orazione si vede come la richiesta è fatta direttamente ed esplicitamente a sant’Agostino, che viene da Teresa individuato come la figura che è in grado di liberare il paziente dall’infestazione; la seconda orazione invece è molto generica; non viene rivolta a nessun santo in particolare ma è rivolta, in maniera molto generica, a chiunque possa intercedere presso i vermi se non direttamente a Dio. Miluzza, invece, si è rifiutata di comunicarmi l’orazione, poiché <<è segreto>>, <> (l’orazione si può dire solamente durante la settimana santa, per insegnarla). Prima di eseguire l’orazione la calavermi si fa il segno della croce insieme a tutti i presenti. La gestualità è molto importante in questo tipo di pratica poiché molto dipende da come vengono meccanicamente effettuati 3
Bella mamma di sant’Agostino - siete principe e siete fino - o che venite voi - o che ci mandate qualcuno - così presto me la liberate/ me lo liberate. Per fino si intende di belle fattezze e di modi gentili. 4 Il verme della Latifania si è mangiato la vita mia - si è mangiato la vita e la gola lasciatemi libera/o questa creatura. Il termine latifania non sono riuscito a scoprire cosa fosse, la stessa Teresa non sapeva a cosa si riferisse questo termine.
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tutti i gesti. Si inizia, come abbiamo già detto, con il segno della croce, segue la diagnosi fatta con <> o con il toccare il ventre con la mano quindi l’orazione. Prima di fare il massaggio il terapeuta si ungerà la mano di olio che viene santificato dal terapeuta stesso con il segno della croce; all’olio santo vengono attribuite proprietà terapeutiche in grado, assieme al massaggio, di calmare i vermi. Oltre all’olio anche ad altre sostanze vengono attribuite proprietà terapeutiche, come ad es. l’aglio e il petrolio. Si pensa che il petrolio o <> (l’alcool etilico) abbiano la capacità di fare scappare i vermi e odorandoli i vermi scappano “verso il basso”; chiunque può fare a casa un primo intervento di questo tipo, quando ha il sospetto di avere i vermi; Ornella, una ragazza di Gela che mi ha seguito nelle prime fasi della ricerca e che mi ha fatto conoscere sia Teresa che Miluzza, mi dice in proposito: <> (Io mi accorgo subito di avere i vermi perché sò di essermi spaventata; allora prendo un poco d’olio e lo metto sull’ombelico, con o senza tazzina, oppure annuso un poco di petrolio però dal naso, perché se ti tocchi il sedere con la mano sporca di petrolio i vermi scappano verso la testa; allora è pericoloso, anche l’acool etilico [si può usare]). Miluzza mi dice che quando ci sono molti vermi fa un’altra operazione: <> (io certe volte, quando ci sono molti vermi, prendo un pezzo di stoffa o garza, non cotone, si unge di olio e poi la metto nel sedere: i vermi sentono l’odore di cibo e così invece di salire in gola scendono verso il basso e vengono espulsi tramite le feci). Durante la stesura di questo lavoro ho sempre usato il maschile nel parlare dei calavermi ma non è esatto poiché sono quasi sempre le donne a occuparsi di vermi; l’uomo stà quasi sempre fuori casa e raramente si occupa dei figli, la donna anche se lavora, sia in casa che fuori, è colei che si occupa dell’allevamento dei figli e di tutte le cose che occorrono all’interno della casa. Saranno le zie, le nonne, le vicine di casa che si adopereranno nel risolvere le situazioni che si presentano, di conseguenza saranno quasi sempre le donne che verranno investite di questo sapere da altre donne. 288
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Come si riceve il sapere sui vermi? Come dicevo prima di solito si tramanda generazionalmente per via femminile, di madre in figlia, Miluzza mi dice: <<Mu tramannau ma zia, a ma zia ma nonna, e na eredità pi via femminili>> (me lo ha tramandato mia zia, a mia zia mia nonna, e una eredità per via femminile); Teresa mi disse di averlo imparato da una signora anziana che abitava vicino casa sua e Glenda Ciaramella, anch’essa terapeuta tradizionale, l’ha appreso da sua nonna; ma chiunque può insegnare la pratica a chiunque: l’importante che si segua l’iter esatto. Tutte le informatrici sono state concordi nel dirmi che l’orazione si deve imparare durante la settimana santa iniziando dal lunedì fino alla domenica di Pasqua. L’esempio di Miluzza è esplicativo per tutte: <<Sa 'nsignare do venerdi santu, tutta a settimana santa sa fare tutta questa preghiera, la settimana santa il signore dà questi poteri a chi apprende, io sono andata tutta la settimana da mia zia; giorno e mattina, a imparare la preghiera e di comu si sentunu culla manu, io pi principiu nun li sintiva e poi invece, alla fini da simana, cuminciaiu a sintiri questa cosa, i vermi chi si tuculiunu, si incumulunu comu na palla, iu poi, li devu sciogliri ca' preghiera, ca manu chi ci mettu si sciogliunu>> (Si deve insegnare il venerdi santo, tutta la settimana santa si deve fare questa preghiera, la settimana santa il signore dà questi poteri a chi apprende, io sono andata tutta la settimana da mia zia; giorno e mattina, a imparare la preghiera e di come si sentono con la mano (i vermi), io all’inizio non li sentivo e poi invece, alla fine della settimana incominciai a sentire questa cosa, i vermi che si muovono, si accumuluno come una palla, io poi li devo sciogliere con la preghiera, con la mano che metto si sciolgono). Teresa mi spiega il perchè l’apprendistato si debba fare durante la settimana santa nel seguente modo: <> (Durante la settimana santa, tu come il signore, passi una settimana a pregare e a imparare l’orazione e la domenica di Pasqua, quanto il Signore resuscita anche tu e come se resuscitassi; dopo che il Signore muore tu puoi acquisire la capacità di guarire la gente, lui ti dà il potere di fare miracoli; mentre che il Signore era imprigionato pure lui faceva miracoli).
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In questo passo dell’intervista è evidente come Teresa identifichi il percorso del suo apprendistato con la passione di Cristo e come, nella sua concezione, la morte di Cristo serva a salvare l’umanità fino a concedere la facoltà di fare “miracoli”; nel caso dei vermi non si tratta sicuramente di un miracolo vero e proprio dato che la pratica di calare i vermi non è considerato un evento straordinario nella concezione popolare del corpo e della malattia, come dice Guggino (1986:44) a proposito delle calavermi: <>. Di regola l’orazione non si dovrebbe pronunciare se non per insegnarla a qualcuno/a, pena una punizione gravissima che può essere, nei casi estremi, la morte. La calavermi esclude ogni suo rapporto con spiriti ed esseri soprannaturali e, al contrario dei maghi, <<è una persona di cui avere fiducia e il cui operato non verrà mai temuto. [...] Nei suoi confronti ci si comporta come con il medico di famiglia.>> (Guggino, 1986:44). Nessuno nega o nasconde di essersi rivolta ad una calavermi, ella è parte integrante del tessuto sociale locale; quello che la differenzia dalle altre persone è il fatto che lei conosce l’orazione giusta per fare guarire dai vermi. Come abbiamo già detto in precedenza, la parte meccanica del rituale può essere fatta in famiglia, da chiunque, al contrario l’orazione l’elemento fondamentale, è la parte indispensabile dell’intervento terapeutico. Durante una “chiacchierata” con Miluzza, Ornella, una ragazza che mi ha accompagnato durante le mie ricerche, afferma di curarsi da sola e dice: <> (la preghiera la faccio a modo mio) e Miluzza le risponde prontamente: <> (Però è sempre al Signore che chiedi di intervenire e comunque non è la stessa cosa). Anche questa risposta di Miluzza ci conferma quanto sia importante la giusta orazione fatta nel giusto modo da una persona competente; non è la stessa cosa fare una preghiera generica anche se rivolta al “Signore”; solo chi ha imparato l’orazione nel giusto modo può curare i vermi. Riassumendo i dati emersi dalla ricerca possiamo concludere quanto segue. Nel corpo umano abbiamo tre tipi di vermi: il “verme tagliarino” che si cura con rimedi tradizionali o con cure mediche; i vermi piccoli e bianchi, (probabilmente gli ossiuri), che vengono da contagio esterno e che possono 290
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esseri curati dal medico e, da come solamente Miluzza afferma, anche con la terapia tradizionale; e un terzo tipo di vermi che sono quelli smossi in seguito ad uno scantu, che potrebbero venire identificati con gli ascaridi. Quindi gli unici vermi che risiedono stabilmente nel corpo sono quest’ultimi che se non ”smossi”, stanno inermi ad assolvere il loro imprecisato compito. Abbiamo detto che qualsiasi evento casuale può essere la causa di uno scantu, un evento fortuito e non determinato da nessuno. Lo stesso evento causa dello scantu, in altre condizioni può non provocare scombussolamenti interni o esterni al fisico: l’incontro con un cane, se conosciuto, è un evento assolutamente naturale; i fuochi d’artificio, se attesi, sono un evento festoso e non un evento causa di un malessere fisico e psicologico. I bambini, come abbiamo visto, sono più soggetti allo scantu. Ancora una volta Guggino (1986:56) ci aiuta nel comprendere questo fatto: <> Come afferma efficacemente Guggino (ibidem) <> (Guggino, 1986:56). L’antropologa siciliana ha esattamente individuato la connotazione sociale in cui si sviluppa lo scantu. Gli eventi inattesi non rientrano nell’ordine naturale delle cose; un evento di cui non si ha l’immediato controllo può essere causa di forti disagi, può compromettere il naturale equilibrio di una persona e del suo entourage familiare. U Suli Oltre allo scantu un’altra delle malattie tradizionalmente trattate a Gela è “il colpo di sole” o meglio ancora u suli. U Suli, come lo scantu, è un’altra delle malattie “tradizionali” che fanno ricadere la causa nel versante della naturalità dato che questa malattia sopravviene per una lunga esposizione del capo al sole. I sintomi del colpo di sole sono: spossatezza, mal di testa e febbre, nei casi più gravi anche perdita di coscienza e confusione mentale: <<dopu na iurnata chi era o mare, mi 291
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sintiva male; mi veniva di rovesciari, era stanca, confusa, comu ‘mbriaca>> (dopo un giorno di mare, mi sono sentita male; mi veniva di vomitare, ero stanca, confusa, mi sentivo come ubriaca). Gela, per la sua posizione geografica, è esposta ai raggi del sole per quasi la totalità dell’anno, e durante la stagione estiva (che spesso va’ dai primi di maggio a metà ottobre) il sole è talmente forte che è molto pericoloso esporsi all’azione dei suoi raggi durante le ore centrali della giornata. Evitare i raggi del sole non sempre è possibile: chi lavora nei campi, chi passa la maggior parte della sua giornata in barca a cercare di pescare qualche pesce, chi comunque lavora all’aria aperta o anche chi passa una giornata di svago al mare è quasi sicuramente soggetto a prendere u suli. Il sole in testa causa degli squilibri forti all’interno del cranio; Teresa mi spiga questa dinamica: <> (Dentro la testa resta il sole, provoca calore che ti tocca i punti più delicati della testa. Ci sono persone che prendono il sole più facilmente di altre e per queste [persone] prendere il sole è più pericoloso. Indebolisce la testa solo nei punti più delicati). A questo punto viene spontanea la domanda: Dentro la testa rimane solo il calore o direttamente il sole? Teresa risponde senza esitazione: <> (Il calore del sole. Il sole e il calore sono la stessa cosa). Dunque il sole rimane dentro la testa e il suo forte calore causa squilibri; per ripristinare l’equilibrio bisogna fare uscire il sole dalla testa in cui dimora. La diagnosi de u suli è immediata, e, come nel caso dello scantu chiunque può farla, anche lo stesso malato. Dopo una giornata nei campi o in barca sotto al sole è normale andare a farsi fare u suli; del resto passare tutti i giorni dell’estate a lavorare duramente sotto il sole cocente è una cosa molto pericolosa e andare ogni tanto a farsi fare il sole è considerata cosa saggia; “prevenire è meglio che curare”. Nel caso del colpo di sole dunque la diagnosi non viene fatta dalla guaritrice, ma a casa e nella maggior parte dei casi, se il malato è ancora in sensi, dal malato stesso. Quando una persona inizia ad avere i sintomi sopra descritti, è normale pensare di avere u suli, ricorrere ad una persona abile a toglierlo e spontaneo e immediato; la guaritrice non deve fare altro che
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assolvere alla volontà del malato o della sua famiglia ed effettuare la pratica terapeutica. La diagnosi finale, che coincide con la cura, si effettua nel seguente modo: si prende un bicchiere bianco pieno quasi fino all’orlo di acqua, si aggiungono tre gocce di olio d’oliva, si mette in cima al bicchiere una stoffa a trama fitta in modo che l’acqua non passi attraverso; la si pone capovolta sulla testa del paziente e se l’acqua <> vuol dire che c’è il colpo di sole. Più forte bolle più forte è il <> (danno che ha fatto il sole). Dicendo <> non si intende il processo chimico attraverso il quale l’acqua passa da uno stadio liquido ad uno gassoso, ma la comparsa di alcune bollicine d’aria che risalgono verso l’alto e che fanno sì che l’acqua contenuta nel bicchiere si muova, come se bollisse. Una volta accertato che c’è il sole, e individuati i punti dove il sole ha recato danni si procede con l’orazione, introdotta dal segno della croce: Suli di livanti suli di ponenti santu salvaturi luvati stu mali pi lu santu sacramentu5. Chiude infine il Pater noster, l’Ave e il Gloria. Glenda Ciaramella invece apporta una variazione alla precedente orazione: Suli di livanti suli di ponenti ppì lu nostru santu salvaturi luvati stu santu suli6 Segue un Pater noster e un Ave Maria. Tutto questo si ripete per tre giorni, al mattino a digiuno. In entrambi i casi l’orazione è diretta al santo salvatore ossia Gesù morto in croce per salvare l’umanità dai peccati; Teresa chiama il sole <<stu mali>> (questo male), Glenda lo chiama <<stu santu suli>> (questo santo sole>>. In pratica, da dovunque venga il sole (levanti o ponenti), è comunque santo poiché fa crescere le piante, dà benessere ed è indice di tranquillità per il futuro incerto; ma se esposti alla sua azione per un tempo troppo lungo 5
Sole di levente - sole di ponente - santo salvatore - levate questo male - per (in nome) del santo sacramento. 6 Sole di levante - sole di ponente - per il (in nome di ) nostro santo salvatore - levate questo santo sole.
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questo diventa dannoso, e come tutte le cose, anche il sole deve essere preso nelle giuste quantità altrimenti può essere causa di una disfunzione. Ma a tutto, <>, c’è rimedio. La signora Teresa mi riferisce di un'altro modo per curare i colpi di sole, più meticoloso ed utilizzato per i casi più gravi, per chi ha sintomi più forti. La procedura è la seguente: si prende un piatto o una ciotola piena di acqua, un bicchiere, una candela, 13 pezzettini di cotone, che rappresentano gli apostoli, e un panno rosso, che avendo lo stesso calore del sole, ha la capacità di attirarne il calore. Il troppo caldo o il troppo freddo è dannoso, causa uno squilibrio che deve essere al più presto ripristinato. Elemento importante è la stoffa rossa usata da Teresa; il rosso, è risaputo, è un colore molto caldo: rosso è il colore del fuoco, il colore del sole e, si sa, quando si è particolarmente accaldati si diventa rossi; per similitudine la stoffa rossa attirerà il calore verso di sé e, di conseguenza, verso l’acqua benedetta che contiene le tre gocce di olio che a loro volta rappresentano la trinità. A proposito del panno ho chiesto a Glenda se questo deve essere di fattura particolare o se può essere uno qualsiasi; lei mi risponde così: <>. Il panno si pone sulla testa del paziente, sopra di quello il piatto con l'acqua; si bruciano in successione i 13 pezzettini di cotone idrofilo e dopo averli gettati nell'acqua del piatto si coprono rapidamente con il bicchiere: se il bicchiere rimane attaccato al piatto vuol dire che in un punto specifico della testa “c'è il sole”. Attraverso i 13 pezzettini di cotone si riesce a sondare tutta la superficie della testa. L'orazione anche in questo caso è uguale alla precedente. Finita la funzione, l’acqua carica del calore del sole si getta in strada oppure sulla terra nuda oppure ancora su <> (un vaso con una pianta); in questo modo, facendo sì che l’acqua evapori, il sole si riprende il calore e la parola di Dio, di cui l’acqua è carica, può germogliare e dare i propri frutti. L’equilibrio corpo - natura è ripristinato. Anche questa pratica si esegue per tre volte la mattina, a digiuno. Vediamo infatti come anche in questa pratica esiste una idea del corpo basata sull’equilibrio degli elementi che ne costituiscono l’integrità. Come si acquista il sapere per guarire il sole? Glenda mi dice: <>; Teresa invece aggiunge: <<s’ha ‘nsignari duranti a simana santa; a cuminciari di lunedi 294
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santu finu o iorno di Pasqua; comu i vermi>> (Si deve insegnare durante la settimana santa; iniziando il lunedi santo fino al giorno di Pasqua; come i vermi). La pratica di fare <>, è ancora oggi molto comune tra i gelesi. durante i miei incontri con Teresa, avvenuti durante l’estate, sono venute diverse persone a chiederle di fare <>. Lei infatti commenta: <> (vengono sempre, soprattutto d’estati. Vengono anche persone che io non conosco; la mia porta è sempre aperta a tutti). Riporto anche il commento di una vicina di casa di Teresa che spesso partecipava alle nostre “chiacchierate”: <> (Io una volta, due anni fa, dopo una giornata di che stavo al mare , mi sono sentita male; mi veniva da vomitare, ero stanca, confusa, come ubriaca; sono andata alla guardia medica e dopo che il dottore mi ha visitato mi disse di farmi fare il sole, allora venni da Teresa e me lo sono fatto fare; mi sono sentita subito beni e mi sono passati tutti i disturbi). Spontaneamente le chiesi di spiegarmi meglio se era stato il medico a consigliarle di farsi fare <>, lei mi risponde quasi incredula ad una domanda così ovvia dicendomi: <<Si era un dutturi anzianu e u capiu subutu che era u suli>> (Si era un dottore anziano e ho capito subito che era il sole). Anche se quanto mi disse Maria era abbastanza difficile da credere, lei mi circostanziò l’evento dicendomi il nome del medico sottolineando il fatto che la madre di questo medico, quando era in vita, era una famosa guaritrice conosciuta in tutto il paese per la sua bontà e la sua bravura e che, quindi, il figlio era una persona che conosceva l’efficacia dei “rimedi antichi”; questo sottolineando il fatto che il medico era anziano, motivo in più per credere ai rimedi tradizionali. <> insieme allo <<scantu>> sono le due categorie eziologiche più comuni che si possono trovare a Gela, e di conseguenze le più facili da curare; non si è mai sentito che qualcuno è morto a causa di queste ma vi sono altre malattie molto più gravi a cui si cerca di dare rimedio in modo “tradizionale” senza che però la guarigione sia un evento certo.
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La fattura <> (Seppilli, 1989:49). Ecco come Seppilli sintetizza la complessa patologia a cui si dà il nome “fattura”. Anche Pitrè (1994: 169) fa una distinzione di questo tipo, riferendosi alla causa della malattia: <<Se il male è acuto e si scioglie subito, o è seguito da morte, non si ha ragione di uscire dalle cause fin qui cennate (quelle “naturali”); ma se esso diventa cronico, e non si accompagna a febbre, né si localizza in organi interni, ed agli occhi della famiglia e dei vicini ha dello strano, allora nessuno sa sottrarsi al sospetto che una mano misteriosa sia stata la prima origine e sia la causa permanente>>. La malattia da fattura è causata da un'aggressione su commissione da parte di esseri extra-umani; si pensa che l'attacco sia causato dalla manipolazione di uno spirito da parte di un mago, su richiesta di terzi e, spesso, dietro compenso. Un mago ordina ad uno o più spiriti di attaccare una persona specifica minando la sua capacità relazionale e lo stato fisico; le cause possono essere tra le più diverse: invidia, rivalità, ecc..; fatto sta che una persona può cadere malata anche senza che il suo comportamento (ricordiamo lo scantu e u suli) ne sia stata la causa immediata. I sintomi sono vari e di solito molto gravi, come: spossatezza, inappetenza, pallore, incapacità di intendere e di volere, impossibilità a trovare la causa del malore anche tramite l’intervento della medicina moderna; soprattutto in quest’ultimo caso, nella maggioranza delle ipotesi, si cerca la causa nella possibile fattura, e, se allo stesso tempo si ha il sospetto che qualcuno, con finalità malvagie possa avere l’interesse che la persona ammalata debba morire; Guido Russello riferisce sui sintomi della fattura: <<non parlava, era completamente incosciente e il dottore diceva che non si poteva più salvare>>. La cura della malattia diagnosticata come attacco su commissione può risultare molto difficile: per intraprenderla al meglio, è fondamentale risalire a chi ha operato il maleficio, questo per potere in qualche modo 296
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controbbatterne l'efficacia; questa operazione può risultare a volte impossibile e si useranno tutti i mezzi a disposizione del terapeuta per risalire all'esatto mandante il maleficio; per fare ciò un elemento importante è il “racconto” del malato e/o dei suoi familiari: chi si rivolge ad un mago, e sospetta di essere vittima di una fattura, di solito ha il sospetto di conoscere il mandante, o almeno aiuterà il mago nella individuazione di quest’ultimo, circostanziando gli eventi che lo hanno portato a pensare ciò. Come dicevamo prima, questo tipo di eziologia magica ha un riscontro pressoché universale, e nelle aree rurali della nostra nazione è conosciuta con il nome di "fattura". Guggino (1986:23) ci illustra come la diagnosi di una fattura nelle aree rurali della Sicilia sia un avvenimento con le caratteristiche sopra descritte, e come, anche in questo caso, questa causa rientri perfettamente in un sistema medico di tipo "tradizionale", dove la malattia è un evento con ripercussioni sociali molto forti: <>. Inoltre chiunque può essere oggetto di "fattura", e la diagnosi di una tale causa viene per lo più fatta in occasione di casi oscuri e irrisolvibili. Varie ma non infinite possono essere le motivazioni che possono spingere una persona ad ordinare una fattura; secondo Guggino (1986:24): <>. In un contesto diverso e lontano, come quello mesoamericano, troviamo le stesse motivazioni: <> (Signorini e Lupo 1989:27). La fattura risulta essere un mezzo per potere nuocere efficacemente senza tuttavia agire in maniera visibile; gli spiriti, comandati ad arte da un mago, arrecheranno danni alla salute fisica e psicologica della persona colpita, fino a poterne causare la morte. Intorno a questo tipo di malattia ruotano una serie di apprensioni e di tensioni sociali che, al pari della malattia stessa, investono negativamente la vita della famiglia del "fatturato". La malattia, quindi, viene ad inserirsi come un elemento che esprime gli altri disagi patiti dalla società, e la causalità si sposta dall'ordine biologico all'ordine sociale; l'ordine biologico, cioè, viene inglobato nell'ordine sociale; la malattia da fattura, come la nascita e la morte, sono, riprendendo l'analisi 297
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di Augè, <> [in Augè e Herzlich, 1986:36]; con questo termine si intende <> (ibidem, 37). Appare chiaro, a questo punto, che la fattura coinvolge tre parti: il mandante, il tramite (gli esseri che si introducono nel corpo della vittima) e il destinatario. Molteplici sono i modi attraverso i quali una persona può ordinare una fattura e come sempre tutti rientrano perfettamente nel modello culturale dominante: per esempio, nel caso siciliano studiato da Guggino, le invocazioni e le manipolazioni vengono sempre fatte da un mago, interpellando anime e spiriti dannati, pratica questa che la pone in contrapposizione ai canoni di eticità cattolica dominanti nell'area culturale siciliana. La fattura può anche essere richiesta direttamente a Dio, adducendo motivazioni che possono essere di rivalsa per un sorpruso subìto (Cfr. Signorini e Lupo, 1989); essa si può configurare anche come una sorta di punizione divina verso chi si rende autore di sorprusi; più colui che richiede la punizione sarà devoto e fedele, più avrà la possibilità di vedere le proprie richieste esaudite. L'azione di Dio servirà comunque come deterrente: se l'offensore continuerà nella sua opera, la persona offesa si riterrà autorizzata ad intraprendere concretamente una azione di rivalsa. Pur essendo simili le varie modalità di attuazione della fattura, i mezzi attraverso i quali gli spiriti riusciranno a nuocere alla vittima predestinata variano localmente; in Sicilia vengono usati oggetti considerati carichi di un forte potere magico, attraverso i quali gli spiriti interpellati si "incorporano" nella persona colpita e agiscono in modo da farle perdere l'integrità fisica e psicologica. Di solito si usano dei surrogati la persona fisica, come bambole, oggetti appartenuti alle persone da colpire; altre volte si usano dei materiali “di scarto” della stessa persona, come capelli, unghia, sangue, lacrime o qualsiasi altra cosa che è appartenuta al corpo dell’individuo vittima del maleficio. A questo proposito interessante è il racconto di una ragazza a cui le era stata diagnosticata, all’età di 14 anni, una fattura: << iniziai ad avere strane visioni. Vedevo delle ombre nere che mi minacciavano; queste ombre avevano forme umane ed animali: le ombre umane mi minacciavano sempre di morte, mentre quelle animali cercavano sempre di aggredirmi, tanto che una mattina, in seguito alla visione di un'ombra di uomo (identificato in seguito con il mandante della fattura), cadetti dal motorino, facendomi male. 298
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[...] Manuela (la maga interpellata) in seguito identificò in una pigna, lavorato in modo da dargli una forma antropomorfa e da me portato in seguito ad un viaggio sulle alpi, nel contenitore degli spiriti malvagi che la fattura aveva evocato; abbiamo bruciato quella pigna in spiaggia su consiglio di Manuela.>>. Il mago quindi manipola ritualmente gli oggetti utilizzati che possono “per simpatia” sostituire la persona da colpire. Se la persona bersaglio della fattura riesce ad individuare l'oggetto incriminato e il mandante, l'operazione di "sfatturazione" sarà sicuramente molto più semplice. Mi è stato molto difficile trovare, nel corso della mia ricerca, delle persone disposte a parlarmi delle fatture; questo a causa dell’ambito molto riservato e segreto in cui gli operatori si muovono. L’unica persona disposta a parlare di questa particolare patologia è stato Guido Russello che afferma di conoscere le modalità di farle e quelle di toglierle. Egli ribadisce più volte il fatto che chi fa le fatture opera nel male e che quindi è un suo nemico. Mi sembra opportuno, a questo punto, citare il caso di fattura di cui lo stesso Guido Russello mi parla. << Un giorno vennero da me una coppia di amici chiedendomi di fare qualcosa per la moglie che stava molto male. Dopo il consulto capì che era una fattura, che una persona invidiosa, molto potente le aveva fatto. Mi sono offerto di aiutarla e la pregai di attendere un giorno perché necessitavo di alcune erbe per potere fare la cerimonia. Quando ebbi tutto quello che mi occorreva, li convocai a casa mia dicendogli che qualsiasi cosa fosse successa non avrebbero dovuto impaurirsi. L’ho fatta spogliare, ho messo una foglia dentro il braciere, e gli ho dato fuoco; ad un certo punto la fiamma prodotta è uscita dal braciere, e camminando sia sul tavolo che sul pavimento si avvicinò verso la signora. Appena la signora e il marito videro questo si spaventarono entrambi, a quel punto la casa si riempi di fiamme, eravamo circondati dalle fiamme. Ho dovuto tribolare per domare il fuoco impazzito e riportarlo nel braciere, a questo punto ho detto alla coppia che se volevano che la signora guarisse dovevano stare tranquilli e non avere paura, altrimenti la cerimonia non si sarebbe potuta fare; gli spiegai anche che potevano stare tranquilli perché fino a quando c’ero io non poteva succedere niente. Allora ricomincio: la fiamma scende sul pavimento, sale sulla gamba della persona e va a fermarsi esattamente dove lei aveva questa cosa, sta circa tre-quattro minuti, scende nuovamente e si deposita nel braciere; tutto questo sotto gli occhi sia del marito che della moglie, ci sono le testimonianze su questo fatto. Quando la fiamma si è spenta, voleva dire che il male era stato tolto, e 299
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da domani mattina starà nuovamente bene. Mia moglie che a tutta la mia storia stentava a credere, fu testimone di tutto questo; l’indomani la signora ritornò tutta vitale tanto che non sembrava la stessa persona, era guarita. Da quel momento la signora insistette affinché io le rivelassi il nome di chi le aveva fatto la fattura, io le risposi che non era possibile e che se lei avesse fatto in modo di sapere il nome della persona che le ha fatto la fattura, lei sarebbe stata male più di prima, e io non avrei potuto fare nulla per aiutarla, l’avevo messa in guardia di non cercare di scoprirlo. Era il terzo caso che facevo. Non ha voluto ascoltarmi ed è andata a Palermo da un’altra persona, perché io so tutto, e questa persona gli ha detto il nome; era la cognata: una sacerdotessa imperiale7 molto forte e sapevo già che era molto difficile sconfiggerla. Questa persona di Palermo, che gli ha fregato due milioni e mezzo di lire, gli ha detto di buttare una cosa dentro casa della cognata per ripagarle la fattura con la stessa moneta. Allora lei l’ha fatto e gli butta questa cosa dentro casa, questa qua naturalmente se ne accorge; fa passare un pochino di tempo e “glie ne fa” un’altra, però stavolta “glie la” fatta di morte, non poteva uscirne. Io sono stato messo al corrente di questa cosa e per correttezza, perché lei aveva agito in malafede, non avrei dovuto aiutarla; dopo qualche mese, arriva suo marito e suo figlio a casa mia chiedendomi di andare a casa sua perché sua moglie stava per morire, io che sapevo tutto gli dissi che non potevo più fare niente e che li avevo avvertiti, dal momento che loro si sono schierati con il male non ero in grado, anche se avessi voluto, di fare qualcosa. Comunque per aiutarli mi sono consultato con il libro e con i miei confratelli, alcuni erano favorevoli altri no; lei si era comportata male. E’ stato possibile farlo solo per amore dei figli piccoli; arrivo a casa della signora e trovo il dottore che metteva le flebo, ne aveva tre. Lei non parlava, era completamente incosciente e il dottore diceva che non si poteva più salvare, il cuore non avrebbe potuto reggere. Allora, a questo punto, la moribonda, come mi vide mi fece cenno con gli occhi e io le dissi che la potevo aiutare ma solo per l’ultima volta e che avrebbe dovuto smettere di frequentare certe persone. A questo punto le dissi di non preoccuparsi e che l’indomani si sarebbe alzata. In quel momento tutti i presenti furono scettici rispetto al fatto che lei l’indomani si sarebbe alzata: domani mattina io vengo alle nove e la trovo seduta a mangiare. La sera appena arrivato a casa mi sono messo al lavoro subito, non c’era molto tempo da perdere, e ho annullato 7
Le sacerdotesse imperiali sono, secondo Guido Russello, delle donne dalle forti capacità magiche che appartengono ad una non precisata setta.
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tutto quello che la cognata le aveva fatto; non è stato molto difficile perché sapevo già dove andare a vedere. L’indomani sono andato a casa loro e l’ho trovata seduta che mangiava. Dopo quattro-cinque giorni non aveva più niente, dopo una settimana sono tornati qua e mi hanno portato un’agnello, che io non ho accettato completamente. Prima di andare via, le ho dato una polverina che io avevo fatto dicendole di buttarla per le scale, nella casa, sui tuoi abiti, su tutto perché lei (la cognata) cercherà di fartene un’altra. Inoltre ho fatto in modo che appena lei cercherà di fartene un’altra, dovrà partire: non potrà più rimanere nella sua casa (una specie di esilio); è così è stato, come lei ha cercato di fargliene un’altra ha venduto la casa e adesso vive in Calabria. Queste sono cose vissute, cose vere che ci sono i testimoni>>. Da questo racconto di Guido Russello emerge un caso paradigmatico di fattura: l’attacco esterno causato dall’individia, l’individuazione del responsabile (che ha reso possibile la sfatturazione), la malattia mortale, la consegna, da parte di Guido Russello, di una polverina che serve da protezione verso futuri attacchi8. Anche in questo caso la fattura oltre che minare lo stato di salute psico-fisico pregiudica fortemente lo stato delle relazioni della persona colpita; la fattura diventa un mezzo, per chi la attua, per risolvere le controversie personali, lo stato patologico che ne deriva si configura come una condizione di isolamento e passività. La signora di cui si narrava prima, a causa della malattia, è dovuta rimanere a letto incapace di fare qualsiasi cosa riguardasse il normale corso della vita; la cognata è stata costretta a trasferirsi addirittura in Calabria (che nell’immaginario isolano è un posto lontanissimo) interrompendo bruscamente tutti i rapporti costruitasi fino a quel momento: <<non a caso la fattura più pericolosa è quella che sconvolge, oltre <> ossia l’unità vitale dell’individuo, anche la mente, ossia il centro delle sue relazioni con il mondo, in particolare con l’universo sociale. Di quest’ultimo la fattura esprime al di là del danno strettamente personale, la radicale instabilità e la necessità di una ricomposizione>> (Guggino, 1989:208). La <> è avvenuta, nel caso narrato da Guido Russello, con l’allontanamento coatto della persona “maligna” e con il reintegro nella società della vittima.
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Come rileva Seppilli: (1989:50) < < [ . . . ] esiste un gran numero di pratiche e strumenti [...] indirizzati a contrastare il rischio di fattura già ad un livello protettivo/preventivo>>.
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La religiosità locale L’orizzonte ideologico in cui s’iscrivono i personali stati d’afflizione è spesso religioso; nella società post-industriale, la religione si presenta con una scansione collettiva diametralmente opposta al ritmo di vita che ci impone la società odierna; come afferma Di Nola (1976:14): <>. Il mondo religioso di cui parla Di Nola, non è il mondo cattolico10 canonico che tutti conosciamo, ma appare come il risultato di tutte quelle credenze locali e personali adottate da specifici gruppi umani. A questo proposito va ricordato Gramsci (1971:140) quando scriveva sul pluralismo dei cattolicesimi in Italia e sulla diversità dei cattolicesimi contadini: <>. I tratti distintivi locali sono facilmente identificabili se poniamo in considerazione il rapporto personale che ha una comunità con i santi locali; le tematiche mitico-rituali si esplicano nella proliferazione delle madonne locali testimoniate, per esempio, dagli ex voto che ogni immagine sacra possiede in profusione; la patrona di Gela è la Madonna dell’Alemanna a cui si chiedono grazie che spesso, a detta dei fedeli, vengono concesse; ma ha una specificità locale ancora più forte il fatto che a Gela si attribuisce un riconoscimento ed una identificazione ancora più significativa ad un’altra Madonna: la Madonna delle Grazie. Io stesso, essendo nato il due Luglio, festa della suddetta Madonna, e avendo avuto dei problemi subito dopo la nascita, sono stato 9
Corsivo mio. Dico cattolico perché nel contesto Gelese, e italiano in generale, il cattolicesimo è la religione ufficiale e espressione della religione.
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chiamato come secondo nome Graziano poiché i miei genitori hanno creduto che la Madonna mi sia stata vicina durante le prime fasi della vita. La collocazione sociale di chi si affida alla grazia dei Santi e della Madonna ha un ruolo non indifferente; se in passato si parlava di società rurali, adesso questo concetto risulta di problematica utilizzazione: Gela, per esempio, non è sicuramente un contesto rurale, anzi il polo chimico, il terzo settore, il commercio e la libera professione convivono con una forte disoccupazione, la mafia e un ristagno culturale non indifferente; solo ultimamente si sta’ cercando di fare qualcosa contro questa pericolosissima stasi senza tuttavia sentire il bisogno di abbandonare le credenze e le pratiche che fanno della comunità gelese una comunità compatta e omogenea. A proposito della religiosità contadina, Sereni (1968:194-196) affermava 30 anni fa: <>. Trasferendo le affermazioni di Sereni nel contesto gelese, è facile accorgersi come queste si adattino perfettamente alla realtà locale che, come abbiamo già detto, squisitamente rurale non è; si chiedono grazie per fare trovare un posto di lavoro ai propri figli, per riuscire a pagare una cambiale, e per tanti altri motivi che poco hanno a che fare con il mondo contadino. Del resto come evidenzia Lanternari (1989:105) <>. La religiosità locale è dunque il risultato delle aspettative della comunità non soddisfatte dai canoni della religione cattolica; la chiesa locale non condanna e non rinnega le pratiche terapeutiche che non sono 303
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perfettamente inquadrate nel protocollo cattolico, anzi sprona attraverso una convivenza pacifica le pratiche che non sono a lei direttamente assimilabili: questo è testimoniato dal fatto che sia Teresa che Miluzza appartengano ad una comunità neocatecumenale. Di Nola (1976:18) fa una analisi molto precisa del fenomeno: <>. Esempio significativo di quello che afferma Di Nola lo abbiamo se consideriamo le figure di guaritori che ho incontrato nella mia ricerca: come abbiamo già detto in precedenza, Teresa e Miluzza, appartengono ad una comunità neocatecumenale e sono ferventi attiviste all’interno della stessa, ottenendo un riconoscimento ufficiale delle loro funzioni terapeutiche all’interno della stessa comunità; Angelo Campo afferma che nella cappella da lui costruita solo il vescovo, non un comune prete, può effettuare delle funzioni religiose, assimilando in questo modo il suo operato, alla religione ufficiale anche se consapevole del non pieno riconoscimento da parte della chiesa11; mi sento a questo punto di affermare che la religiosità locale non può essere assimilabile completamente alla religione cattolica; questa è il frutto di riadattamenti che nel tempo, data la dinamicità della società “moderna”, è destinata a cambiare e ad adattarsi alle nuove esigenze che si presentano col passare del tempo, come lo stesso Di Nola afferma (1976:18): <> e <
di contro il Campo, quando gli chiedo se la chiesa accetta il suo operato afferma: <<se li vogliono riconoscere bene, sennò un mi interessa, non sta’ a me di giudicari, se ne stà agli altri, a ccu ricevi u beni. Bisogna aviri fedi senza prova>> (se li vogliono riconoscere bene, altrimenti non mi interessa, non sta’ a me giudicare, devono essere gli altri, a chi riceve il bene. Bisogna avere fede senza prova).
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è così rigida da proibire completamente una deviazione dai modelli accettati>> (Langness 1965:21). Per concludere: in questo lavoro ho voluto presentare una concezione del mondo dal punto di vista delle “classi subalterne” che, storicamente, vivono, secondo la terminologia di Cirese (1974), in un dislivello classista; i fatti religiosi, se avulsi dal resto del contesto umano, indicano <> (Di Nola, 1976:21).
Opere Citate Cirese, A., 1974, Cultura egemonica e culture subalterne, Palermo, Palumbo. Di Nola, A., M., 1976, Gli aspetti magico - religiosi di una cultura subalterna italiana, Torino, Boringhieri editore. Gramsci, A., 1971, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Roma, Einaudi. Guggino, E., 1993, Il corpo è fatto di sillabe, Palermo, Sellerio. Guggino, E., 1989, La medicina popolare/Sicilia in “Le tradizioni popolari in Italia, Medicine e magie”, pagg. 204-209, Bergamo, Electa. Guggino, E., 1986, Un pezzo di terra di cielo, Palermo, Sellerio. Langness, L., L., 1965, The Life History in Anthropological Science, New York. Lanternari, V., 1989, Medicina, magia, religione. Dalla cultura popolare alle società tradizionali, Roma. Mauss, M., 1965, Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi. Pitrè, G., 1993, Medicina popolare siciliana, San Giovanni la punta (Ct), Gruppo editoriale Brancato - Clio - Biesse - Nuova Bietti. Seppilli, T., 1989, La Fattura, in “Le tradizioni popolari in Italia, Medicine e magie”, pagg. 49-50, Bergamo, Electa. Signorini, I., & Lupo, A., 1989, I tre cardini della vita, Palermo, Sellerio.
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IV. PROSPETTIVE TEORICHE
FRANCESCO FAETA ● Un rito tra religione e politica: qualche considerazione teorica e metodologica
UN RITO TRA RELIGIONE E POLITICA: QUALCHE CONSIDERAZIONE TEORICA E METODOLOGICA Francesco Faeta
Il rito di flagellazione cruenta che si svolge nel Mezzogiorno italiano, segnatamente in Calabria, su cui con alterne fortune rifletto da molti anni, pone all’etnologo, all’antropologo e allo storico delle religioni, e più in generale della società, problemi teorico-metodologici molteplici, su alcuni dei quali vorrei soffermarmi, nella convinzione, che spero non si riveli errata e presuntuosa, di poter contribuire al dibattito tra studiosi italiani e rumeni che questo incontro sollecita. Nocera Terinese, il luogo in cui si svolgono i fatti sui quali mi soffermerò, è un centro di circa cinquemila abitanti, situato in provincia di Catanzaro, a pochi chilometri dalla costa tirrenica, sulle pendici del monte Mancuso, a circa trecento metri d'altezza. Sino a pochi anni fa paese a struttura agricola, legata alla produzione del grano, del vino, dell'olio d’oliva e degli ortaggi, con una proprietà terriera parcellizzata ed estese aree di latifondo capitalistico, è oggi interessato da consistenti processi di modernizzazione e terziarizzazione1. 1 . Su quanto in esso avviene vi è una letteratura estesa; tra gli studi di maggior rilievo etnografico e antropologico si vedano, essenzialmente, A. Basile, Il rito del sangue del Giovedì Santo in Nocera Terinese, in “Folklore della Calabria”, IV, 13, 1959, pp. 7-14, A. De Vincenzo, Antropologia e storia: fonti e metodi di una ricerca sulla liturgia del sangue in Calabria, in “Prospettive Settanta”, VII, 1985, 1-2, pp. 183-209, Id., Storia, memoria e tradizione nell'immaginario di una comunità calabrese, in “Lares”, LIII, 3, 1987, pp. 321345, F. Faeta, Ostentazione rituale del dolore. Prime considerazioni intorno ai flagellanti di Nocera Terinese in G. D'Agostino, J. Vibaek (a cura di) Il dolore. Pratiche e segni, Palermo, Quaderni del circolo semiologico siciliano, 32-33, 1989, pp. 211-246, Id., La rappresentazione del sangue in un rito di flagellazione a Nocera Terinese. Scrittura, teatro, immagine, in G. Schiavoni (a cura di), Il piacere della paura. Dracula e il crepuscolo della dignità umana, Torino, Edizioni dell'Orso, 1995, pp. 57-67, Id. Il sangue, la rosa e il cardo. Note sul corpo in un contesto rituale, in “Etnosistemi”, V, 5, 1998, pp. 59-72, Id., “Mirabilis imago”. Simboli e teatro festivo, in Il santo e l’aquilone. Per un’antropologia dell’immaginario popolare nel secolo XX, Palermo, Sellerio, 2000, pp. 31-58, F. Ferlaino, Vattienti. Osservazione e riplasmazione di una ritualità tradizionale, Vibo Valentia,
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Qui, la mattina del sabato santo, viene portato per le vie dell'abitato, dagli aderenti a una pseudo-confraternita che godono di grande prestigio, in solenne e lunga processione, un gruppo statuario ligneo seicentesco raffigurante una Pietà. Il simulacro, che è stato praticamente sottratto allo sguardo dei fedeli per tutto l'anno, custodito com'è nella cappella, poco accessibile ai più, gestita dai portantini (gruppo a forte connotazione popolare, oggi composto da artigiani, contadini, piccolo borghesi, fortemente autonomo rispetto all’istanza ecclesiastica), effettua nel paese numerose soste cerimonializzate. Tali soste avvengono in siti scelti a seguito di un vivace processo di negoziazione tra famiglie antagoniste di diverse classi e gruppi sociali, in cui s’inseriscono come elementi di mediazione e arbitraggio i portantini, e generano un sobrio, ma intenso, momento conviviale. L'organizzazione delle soste, considerata privilegio e onore, è appannaggio della famiglia più influente e/o più devota, la cui dimora affaccia sul luogo. Il gruppo scultoreo viene deposto su un tavolino addobbato, con la fronte rivolta verso l'abitazione dell'ospite, poi questi serve dolci, bibite, birra, vino, caffè, consumati dai “fratelli” e fa, assieme ai membri delle famiglie vicine, offerte in danaro, in oro o in natura. Tali offerte sono ricambiate con santini, raffiguranti il gruppo statuario, che prima di essere distribuiti sono posti a diretto contatto con esso, e che sono poi conservati in posizione evidente nella dimora, con funzione apotropaica e protettiva. Dopo alcuni minuti la statua viene nuovamente issata in spalla, effettua un movimento di saluto nei confronti della casa dell’offerente e il corteo riprende il cammino. L'itinerario processionale racchiude l'abitato antico e alcuni agglomerati contigui di recente edificazione. Si tratta di un percorso perimetrale e dorsale, nel senso che il corteo calca l'abitato, marcandone i confini e le linee di forza urbanistico-sociali. Brevemente, e mai in profondità, penetra nei raccordi e nei passaggi interstiziali. La processione si ferma poi, sia pur più rapidamente e informalmente, in corrispondenza delle abitazioni d’individui che necessitino d’intercessione o particolare considerazione divina (malati, miracolati, persone a lutto, etc.) e Qualecultura-Jaca Book, 1990, L. M. Lombardi Satriani, Il silenzio, la memoria, lo sguardo, Palermo, Sellerio, 1979, pp. 87-89, E. Pontieri, I "flagellati" di Nocera Terinese, in “Rivista critica di cultura calabrese”, I, 2, 1921, pp. 228-234, Id., Sopravvivenze pseudo-ascetiche medioevali: i "Battenti" di Nocera Terinese, in Divagazioni Storiche e Storiografiche, Seconda serie, Napoli, ESI., 1971, 2 voll., vol. II, pp. 127-143.
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dei luoghi significativi del paese, in prospettiva liturgico-religiosa e civile: edicole sacre, chiese (al cui interno sono stati allestiti, sin dal giovedì, i “sepolcri”, rappresentazioni scenografiche della tomba del Cristo), chiesa di San Martino o dei morti, carcere mandamentale, municipio, monumento dei caduti in guerra. Le soste, dunque, mentre disegnano una mappa dei punti istituzionalmente forti e di quelli di emergenza critica individuale, costituiscono occasione per una pratica di scambio tra comunità e “fratelli”. Questi elargiscono la protezione divina di cui sono custodi e amministratori, con il concorso, oggi subalterno, del clero e ricevono ristoro alimentare, per la loro personale fatica, offerte per l'intercessione divina. Tali offerte s’intendono dirette ai “fratelli” i quali, infatti, le amministrano, anche se ne devolvono parte cospicua alla Chiesa, nella sua articolazione locale. Più in generale tutta la processione del sabato viene vissuta come occasione di scambio, tra famiglie alleate, tra nuclei nell'ambito della famiglia allargata, tra membri della comunità e forestieri. Ogni casa, specialmente se situata lungo il passaggio del corteo, custodisce una tavola imbandita, da ogni porta si offre qualcosa. Molti abbandonano temporaneamente la processione per essere ricevuti nelle case o sulle soglie, per consumare un rinfresco, salutare, augurare. L'offerta ricevuta nell’ultimo giorno di Quaresima rinnova una relazione particolare e andrà ricambiata alla prima occasione, e la visita, in quanto augurale, è considerata a sua volta dono. Nel frattempo altri penitenti, i vattienti (battenti, flagellanti), girano per le vie e i vicoli, movendo verso il simulacro, che incontrano in punti diversi del paese. I vattienti si flagellano in esecuzione di un voto, che mantengono segreto. Si tratta di maschi dai diciotto anni sin verso i sessanta, tutti appartenenti alle classi popolari o, più raramente, alla piccola borghesia, vestiti con stretti pantaloni corti e magliette, per lo più oggi di colore nero, con un velo pure nero acconciato sulla testa, trattenuto da una coroncina spinosa di asparagina; nelle loro mani stringono uno strumento di flagellazione, di sughero e con aculei di vetro, il cardo, e un nettatoio, ancora di sughero, per pulire le ferite e mantenerle aperte, la rosa. Sono circondati da un piccolo gruppo di comites rituali, anch’essi tutti maschi, che hanno il compito di assisterli durante la loro performance; tra essi spicca un giovane, detto acciomu (ecce-homo), con il petto nudo e i fianchi avvolti da un peplo rosso, che porta un’alta croce di canna o legno leggero, foderata di stoffa
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rossa, da cui pendono rade frange, e che durante l’esecuzione del rito resta legato al battente con un cordone stretto attorno alla vita. La funzione del giovane è quella di affiancare il penitente in tutte le fasi della sua esibizione rituale, simboleggiando la figura del Cristo alla colonna. Giunti al cospetto del gruppo statuario, così come dinanzi ai sagrati delle chiese, ai calvari, al monumento ai caduti in guerra, alle case di parenti, parenti spirituali e amici, secondo precise modalità rituali che appare superfluo in questa sede ricordare in dettaglio, i battenti si flagellano con veemenza, segnando con il sangue copiosamente versato gli usci delle case di amici e parenti, i sagrati, i calvari e le edicole sacre. Considerato salvifico e augurale, il sangue fonda tra il penitente e i beneficiati uno speciale legame di parentela spirituale, che agisce in profondità nel tessuto comunitario, influisce sulla gestione politica del conflitto sociale, disegna largamente l’identità locale in rapporto al mondo (Nocera è il paese dei vattienti). Dopo aver compiuto l'itinerario prefissato, fermandosi altre volte, durante il percorso, per nettare le ferite e mantenere costante l'emorragia, il vattente e i compagni si ritirano nell’abitazione del primo: qui i penitenti si svestono e si lavano. Il battente si disinfetta con l'infuso di rosmarino, disinfetta e ripone i suoi attrezzi, indossa abiti festivi, commenta laconicamente la propria prestazione con i compagni, rallegrandosene o lamentandosene, si mescola alla folla che ancora segue la processione, ricevendo auguri, apprezzamenti, complimenti, cui risponde in modo sobrio ed elusivo (rientra, qualora ne faccia parte, nel gruppo dei portantini che aveva lasciato in un punto del cammino). Da quel momento la sua giornata avrà l'andamento consueto della festività (pranzo, visite familiari, passeggiata sul corso, partita a carte con gli amici nel bar o nelle cantine, etc.), senza che, in apparenza, alcunché alluda a quanto è accaduto al mattino. In realtà egli è attento a cogliere, dietro ogni sguardo, parola, gesto, attraverso qualsiasi accenno, anche indiretto, la valutazione che la comunità e, al suo interno, particolarmente, il più ristretto numero dei penitenti e dei portantini, vecchi e nuovi, ha espresso su di essa. La “normalità festiva” che s’instaura, mentre tende a riaffermare la forza fisica del penitente che, dopo un'abbondante emorragia, appare non provato, disteso, sereno, funge da strumento di ascolto del grande cuore comunitario che ancora pulsa per l'accaduto. L'intero paese appare segnato con il sangue che rimane, al termine del rito, misto al vino, nelle strade, sulle soglie dei luoghi sacri, sulle pareti, sugli
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stipiti e gli architravi di decine e decine di case, sui vestiti di centinaia di persone. Non posso soffermarmi più a lungo, se voglio restare nei tempi assegnatimi, come sarebbe in realtà necessario, sulla dimensione etnografica del rito e sul suo contesto. Mi limiterò a richiamare ulteriori particolari, sullo sfondo di questa descrizione a maglie larghe, trattando dei singoli problemi che intendo porre in evidenza. Riassuntivamente, però, ricorderò che il rito e la festa di Nocera, come abbiamo visto, hanno la funzione di selezionare due gruppi rituali complementari e relativamente antagonisti (in quanto custodi del simulacro da cui il rito promana, i portantini hanno sovente un atteggiamento censorio nei confronti dei battenti, soprattutto quando questi si flagellano in conspectu divinitatis; in quanto veri interpreti della Pasqua locale, i battenti orgogliosamente rivendicano una loro autonomia e mal sopportano critiche e limitazioni), i quali sono espressione di ceti popolarmente connotati. I leaders di tali gruppi e, più in generale, tutti gli adepti, costruiscono reti di relazione sociale fondate sulla dimensione sacrale e sulle pratiche para-liturgiche connesse, tendono a porsi, attraverso un meccanismo di cattura del consenso e di organizzazione del prestigio, come elementi egemonici all’interno della comunità e aspirano, attraverso tale egemonia, a detenere posizioni importanti nella gestione dei poteri locali (agenzie sindacali, amministrazione comunale, uffici di collocamento, etc.). Il primo problema che il rito sollecita riguarda il suo tempo storico e, conseguentemente, il tempo della ricerca antropologica. In modo documentato, un rito di flagellazione si svolge in area nocerina, durante la settimana santa, a partire dal XVII secolo. Lo attestano, in particolare, fonti ecclesiastiche presenti sia negli archivi parrocchiali del paese, sia presso l’Archivio Storico Diocesano di Tropea, sia presso l’Archivio Segreto Vaticano. L’antropologo può avere sotto i propri occhi, dunque, sia pur con approssimazioni e lacune, quasi quattro secoli di pratica rituale. Esercitata, tuttavia, in forme e modi, da gruppi e classi sociali, con logiche religiose e politiche, assai differenti nel corso del tempo. Su un ordito fortemente codificato, viene tessuta la trama di innumerevoli variazioni, su base temporale, sociale, individuale, che animano e diversificano lo scenario
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rituale comunitario, conformemente a un modello evidenziato da numerosi studiosi delle forme rituali. Questo rapporto tra costanti e varianti, esperibile tramite le fonti scritte nel corso dei quattro secoli di storia documentata, trova puntuale riscontro nella rilevazione etnografica di medio periodo. Ho seguito il rito nocerino per venticinque anni (dal 1970 a oggi, grosso modo), rilevando una notevole fedeltà a un modello codificato e, contemporaneamente, una straordinaria capacità di modulazione dei singoli vocaboli rituali, sulle basi che prima ricordavo: temporale, sociale, individuale. Delle due dimensioni della vita culturale cui il rito sembra far capo, quella religiosa e quella politica, in via d’ipotesi, la prima sembra fornire le ragioni di una, sia pur relativa - si pensi, a esempio, alle variazioni imposte dalla liturgia o dai deliberati canonici – continuità; la seconda sembra fornire le ragioni del costante, ma mai lineare, mutamento. Fatto sta che, pur mantenendo inalterato un suo nucleo centrale, il rito si è, nel corso degli ultimi venticinque anni, diuturnamente modificato, vuoi nel suo aspetto morfologico, vuoi in merito al suo orizzonte di valori, vuoi rispetto alle sue funzioni sociali. Persino il numero dei flagellanti (inizialmente 7 persone; nel 1995, circa 70), di anno in anno muta, allargandosi o restringendosi. Ma soprattutto muta, e su questo aspetto tornerò tra breve, l’orizzonte di significazione politica del rito nel contesto comunitario e rispetto alla più vasta scena del mondo, la sua incidenza nello strutturare la società locale e le sue reti di relazione, la sua produzione di senso identitario, le idee di memoria e mutamento che si determinano. Non sembra mutare invece la connessione tra pratiche rituali e strutturazione politica della vita comunitaria, soprattutto rispetto alle crisi, di ordine naturale e sociale, che la travagliano. Mi sembra possibile - ma lo pongo problematicamente alla riflessione dei presenti - che ovunque un evento sociale e culturale – in modo particolare religioso - mostri, sulla lunga durata, come sul medio periodo, una vivacità così marcata, la ricerca antropologica non possa che indagare sui vettori del mutamento, prescindendo da qualsiasi conclusione interpretativa, per quanto provvisoria o interlocutoria, intorno alla natura dei fenomeni. Ipotizzo che, per svolgere compiutamente tale attività d’individuazione sulle strutture del mutamento, occorra una riflessione e una pratica storiografiche indefesse. Tale esercizio deve essere in grado di saturare le valenze storiografiche locali, raccordandole con piani più generali e, soprattutto, deve saper
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rifunzionalizzare, nella logica specifica della ricerca antropologica e nel quadro di un’ermeneusi non ingenua del dato storiografico, gli elementi acquisiti. Una doppia attività, dunque: di riflessione sui modelli che presiedono all’organizzazione del mutamento; di organizzazione delle forme di memoria storiografica nella prospettiva antropologica. Sul piano pratico ciò postula una dimensione aperta della ricerca etnografica e antropologica, una radicale messa in causa della forma scrittoria della monografia, che cristallizza e formalizza i processi, allontanando dalla più urgente motivazione epistemologica di un’antropologia dei fatti religiosi, quella d’individuare modelli e vettori della trasformazione. Il secondo problema su cui vorrei brevemente soffermarmi è inerente alla nozione di terreno ed è, in qualche maniera, in relazione con quanto detto prima. Un’indagine di lungo periodo, un’indagine che sia attenta alle connessioni, centrali nel caso da me emblematicamente assunto, tra dimensione locale e dimensioni più ampie (regionale, nazionale, mediterranea), postula una nozione di terreno molto diversa da quelle più consuetamente esperite nell’ambito disciplinare. Così in lungo e in largo sono dovuto andare per seguire i miei penitenti e i loro destini, pur all’interno di un contesto etnografico circoscritto cui mi sono ancorato, per convinzione metodologica; così avanti e indietro nel tempo, pur nella definita epoca che mi sono imposto di privilegiare; così “dentro” e così “fuori”, oscillando tra paese, campagne, biblioteche, archivi diocesani o metropolitani, luoghi dell’emigrazione, scuole e università, botteghe artigiane e santuari periferici, che il concetto classico di terreno non mi pare avere alcun senso. Soprattutto, nell’ambito dell’antropologia religiosa europea, non restituisce le dinamiche sociali che intorno all’evento s’intrecciano. Risiedere a Nocera per molti mesi o anni, mischiarsi con i nativi e condividerne la giornata, come un’attardata mitologia nazionale, anche in risposta a pratiche nel passato piuttosto disinvolte, caldeggia, è sicuramente utile a comprendere qualcosa, ma del tutto insufficiente nella prospettiva prima enunciata. Molte delle relazioni decisive, per individuare i vettori della persistenza e del mutamento nel rito nocerino, le ho rinvenute in un santuario meta di un pellegrinaggio estivo, distante molti chilometri dall’abitato e poco frequentato dai nativi, nella casa di un operaio emigrato e Milano, nelle
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stanze dell’Archivio Segreto Vaticano, in Roma, o di quello di Stato di Simanças, in Spagna. Ma vi è, ancora, una più radicale messa in discussione del terreno che occorre compiere. Una realtà rituale, popolarmente connotata, ma in buona misura trans-classista come quella di cui mi occupo, postula l’attenzione, e la parola, del diretto interessato, il falegname di Nocera che si batte al culmine della Quaresima, ma anche del mediatore colto, un professore locale che ha scritto, autorevolmente, un libro sull’argomento, del mediatore politico locale, un allevatore che ritiene suo dovere la riorganizzazione culturale e sociale del rito e dei suoi celebranti, dell’etnologo, un collega romano che da epoca immemorabile, problematicamente ma risolutamente, organizza i flagellanti e la loro risposta allo sguardo del mondo e all’impatto della dimensione globale, del tutto alterando le dinamiche endogene dell’evento e dei suoi immediati dintorni. Il terreno, dunque, non restituisce più esclusivamente la voce dei nativi o quella dei diretti interessati ai fenomeni; restituisce le voci ibride d’individui che sono al contempo interni ed esterni, che sono stanziali e dislocati, locali e viaggiatori, e che, se è oltremodo utile ascoltare, bisogna comunque saper decifrare in quanto voci che provengono da un nuovo terreno, contaminato e sincretico, meticciato e impuro; voci interessate, le cui referenze si collocano, assai spesso, molto lontano da dove i fatti avvengono o sono avvenuti. Paradossalmente la Constitutio sinodale del 1618, in cui un vescovo compiacente mette in scena la flagellazione rituale, o la voce dell’emigrante milanese, che narra di un recente passato personale, ci pongono in contatto con un linguaggio più “puro”, univoco e ancorato ai fatti di quanto non succeda incontrando nel loro recinto i nativi, o coloro che stabilmente od occasionalmente vi bazzicano. Quanto sin qui ricordato, che è oggi oggetto di riflessione assai attenta e radicale, soprattutto da parte dei colleghi d’Oltreoceano, riveste una particolare rilevanza all’interno dei contesti europei, nei quali le dinamiche intercorrenti tra struttura e sovrastruttura hanno costituito elemento determinante nel profilo degli eventi; nei quali, dunque, un intreccio inestricabile di bisogni materiale e di motivazioni ideologiche ha mosso gli uomini e ne ha, simultaneamente, occultato i movimenti e i reali interessi. Tutto ciò riveste una particolare importanza nell’ambito religioso, al cui interno si addensa, come dirò tra breve, una seria straordinariamente ricca di determinazioni della vita collettiva.
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FRANCESCO FAETA ● Un rito tra religione e politica: qualche considerazione teorica e metodologica
Vi è, infine, un terzo ordine di questioni che mi sembra la mia prassi di ricerca a Nocera ponga all’ordine del giorno. Abbiamo prima visto come portantini e battenti, attivando all’interno della dimensione devota, del rito e della festa di Nocera, due distinti e intrecciati circuiti di relazione, s’impongano sulla scena sociale, conquistando considerazione, prestigio, potere. Aggiungerò che i riti quaresimali sono stati, negli anni da me osservati, lo strumento per una doppia costruzione politicamente orientata: quella di reti solidali, tese alla conquista del potere locale, costruite all’interno di ceti popolari conflittuali con quelli agrari e con le vecchie élites paesane, quella di un’identità locale, fortemente coesa, tesa al recupero di una memoria collettiva, di una posizione originale e distinta, e sul piano regionale, e su quello nazionale. Il rito, insomma, e la festa che al suo intorno si estende con il compito di rendere socialmente attivi i suoi tratti simbolici, hanno fortemente, direi determinantemente costruito, nella sua intensa dialettica interna, nella sua unitarietà, la Nocera contemporanea, dotandola di un’identità assieme conflittuale e solidale, localmente centrata e globalmente spendibile. Ovunque abbia effettuato nella regione, in ottica comparativa, ricerche e sondaggi, dinamiche simili, centrate sulla dimensione religiosa, che mescolano trasversalmente classi e gruppi sociali, unendoli e dividendoli, impegnandoli in conflitti e pratiche di negoziazione assai fitti, sono emerse con tutta evidenza (da qui, indirettamente, la assoluta inadeguatezza di una nozione come quella di religiosità popolare per interpretare i fenomeni in questione). Ciò postula una riflessione antropologica molto accurata sulla realtà locale, su cosa effettivamente la animi, la muova, la determini; su cosa significhi al suo interno la dimensione religiosa, su cosa significhi la dimensione politica. L’ipotesi che il caso di Nocera accredita è quella di una realtà comunitaria magmatica, in cui il vocabolo religioso, fortemente connesso con le nozioni di frattura, crisi, ricambio, sostituzione, viene diversamente declinato da singoli, gruppi, ceti, ai fini di un’egemonia locale assai ambita, certamente connessa, in modo non sempre evidente o trasparente, con le dinamiche regionali e nazionali.
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In prima istanza, dunque, lo studio antropologico dei fatti religiosi è studio della dimensione politica, del suo dispiegarsi a partire dalle faglie sociali e dai nuovi dislivelli culturali che esse generano. Vi è, tuttavia, una densità antropologica del sacro che pone problemi particolari. Lottare per il possesso e la gestione di un’immagine sacra, o per l’affermazione della propria imitatio Christi nel teatro paesano, come avviene a Nocera, non è esattamente la stessa cosa che lottare per la vittoria di una squadra di calcio, o per l’affermazione di una fazione in un gioco televisivo o in un concorso a premi; non è la stessa cosa, neppure, che lottare in loco per il concreto possesso di un bene, o di una risorsa, materiali. In realtà, la densità antropologica del sacro che prima ho richiamato poggia sulla complessità delle stratificazioni simboliche in esso racchiuse o che intorno a esso si addensano. Autentico deposito di simboli, la dimensione sacrale e le istanze religiose e cultuali che la sostanziano ed esprimono, consentono un’appropriazione differenziata, una gestione negoziale, una conduzione ambigua, una costante messa in discussione e rivalorazione dei segni e delle pratiche. Ciò è tanto più vero quanto maggiore è lo spessore temporale del simbolo e quanto più estesi sono stati, nel tempo, i processi di riplasmazione culturale. L’indagine antropologica, dunque, con il suo indispensabile corollario storiografico, deve mirare a rischiarare la complessa connessione che si determina, all’interno di un corpo sociale dato, tra pratiche del potere e stratificazioni simboliche. Un’analisi che miri soltanto a lumeggiare la finalizzazione politica di un fatto religioso, del resto, non potrà di molto trascendere una prospettiva neo o cripto funzionalista; un’analisi, al contrario, che sappia puntualmente rinvenire le connessioni esistenti tra pratiche del potere e universi simbolici, che sappia notomizzare le istanze simboliche, cogliendo le molteplici stratificazioni che al loro interno sono presenti e ponendole in relazione con i singoli comportamenti sociali, appare più correttamente orientata verso una critica politica dei fatti culturali. Verso una prospettiva dunque che, lo riaffermerò più avanti, ritengo centrale nella riflessione antropologica contemporanea. Soffermiamoci a osservare, per fare un solo esempio tra i molti possibili, l’uso del corpo nel rito quaresimale nocerino; vedremo con quanta evidenza la complessità del simbolo agito sulla scena sociale determini la profondità degli spessori politici.
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Il battente, come abbiamo visto, è qualcuno che attraverso il rischio, l'impegno del corpo, la sofferenza e lo spargimento del sangue, lascia una condizione ordinaria per entrare in una società ristretta, posta in relazione complementare e dialettica con quella più vasta, formata da uomini che si avvertono, e che sono avvertiti, in buona misura, come aristoi e, creando reti sociali ego-centrate, s’impegna nell’agone politico paesano. Il corpo e il sangue, che sono caricati localmente di valenze assai complesse, cui non posso qui neppure accennare, sono gli elementi che tutti possiedono e che tutti possono impegnare; strumento egualitario e, insieme, istanza radicale, dunque. Quel che muta, naturalmente, da persona a persona, da gruppo a gruppo, da classe a classe, è l’orizzonte ideologico e la capacità di modulazione simbolica connessi con il corpo e il sangue. Spargimento del sangue e impiego rituale del corpo testimoniano fede religiosa, salute fisica, coraggio, disposizione virile, capacità di fecondazione; valori connessi con un universo popolare, non condivisi dagli elementi appartenenti alle classi colte, legate alle terra e alla rendita capitalistica, non egualmente apprezzati da soggetto a soggetto. Ma lo spargimento del sangue significa anche una capacità di messa in sintonia con la dimensione mitica connessa alla vicenda del Cristo e una disposizione a versare il proprio sangue per gli altri. Anche queste sono caratterizzazioni popolari non universalmente condivise. Naturalmente, se l’insieme dei tratti simbolici non fosse del tutto condiviso, nessuna spesa orientata su di un piano comunitario sarebbe possibile; ma ho detto prima che sangue e corpo sono elementi radicali e come tali, largamente, cosa comune. Su tale dialettica si erge il potere di spesa politica del simbolo, attraverso una dettagliata articolazione del suo linguaggio, una costante rinegoziazione dei caratteri a esso connessi. La considerazione, il prestigio, il potere che attraverso la flagellazione si costruiscono, poggiano su un ordinato impiego e un’ordinata modulazione del vocabolario simbolico messo a disposizione dalla pratica religiosa e dagli orizzonti mitici che le sono connessi, così come dalla più generale “mentalità” popolare; su una complessa dialettica tra capacità di spesa del simbolo e livelli dell’ascesa sociale; su una ordinata messa in valore delle identità e delle differenze tra diversi soggetti sociali. Quale funzione assegna, dunque, per concludere provvisoriamente, la ricerca sui fenomeni religiosi all’antropologia culturale?
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FRANCESCO FAETA ● Un rito tra religione e politica: qualche considerazione teorica e metodologica
Quella di evidenziare, come ho detto, le connessioni e gli snodi esistenti tra ordini simbolici e pratiche del potere. Nella prospettiva di rischiarare, da un punto di vista originale, i meccanismi di costruzione del dominio e le risposte che il corpo sociale offre alle sue pratiche. L’antropologia culturale, dunque, proprio transitando attraverso il campo religioso, può affermare la sua natura ultima, di radicale critica politica della società contemporanea.
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ELISABETA SILVESTRINI ● Simulacri “da vestire”. Cultura materiale, antropologia dell’abbigliamento, antropologia dell’immagine
SIMULACRI “DA VESTIRE”. CULTURA MATERIALE, ANTROPOLOGIA DELL’ABBIGLIAMENTO, ANTROPOLOGIA DELL’IMMAGINE* Elisabetta Silvestrini
Solo negli ultimi decenni gli studi italiani – di ambito storicoartistico, storico-religioso, antropologico – hanno accolto e preso in considerazione una particolare modalità del culto cattolico, e cioè i riti e le cure rivolti ai simulacri della divinità, con speciale attenzione alla loro corporeità e matericità, e caratterizzati da pratiche di abbellimento e di adornamento, che spesso comprendono anche la vestizione. Questi aspetti del culto sono così diffusi nell’ambito del cattolicesimo che meritano di costituire specifici temi di ricerca. Con il termine “simulacri da vestire” si indicano quelle effigi tridimensionali la cui fabbricazione prevede una successiva vestizione con abiti in tessuto, così che svestite tali effigi appaiono del tutto simili a manichini. Questa produzione di statuaria da vestire non è altro che la prosecuzione di usi e riti già conosciuti nel mondo classico, poi stabilizzati nel cattolicesimo a partire dall’età medievale, e che hanno conosciuto la loro massima espansione nel secolo XVIII, almeno in Italia; la progressiva decadenza si è verificata successivamente, nel corso dell’Ottocento, anche se le vestizioni dei simulacri ed il culto loro tributato sono ancora oggi, in alcuni casi ed in alcune specifiche situazioni, vivi ed operanti1. Per diversi motivi di ordine storico, legati soprattutto all’origine ed alla diffusione di specifici culti *
Queste brevi note rappresentano una sintesi, corredata di ulteriori riflessioni, di un più ampio saggio dal titolo Abiti e simulacri. Itinerario attraverso mitologie, narrazioni e riti, in corso di pubblicazione in R.Pagnozzato, Donne, Madonne, Dee, Padova, Il Poligrafo, 2001. 1 È ancora possibile, oggi, studiare i culti attualmente operanti di simulacri “da vestire”, soprattutto nei casi in cui l’aspetto della vestizione e del corredo di abiti e gioielli ha avuto, all’interno del culto stesso, una importanza cos’ grande che i riti e le cure si sono mantenuti, con scarse modificazioni, fino ad oggi. Chi scrive ha iniziato una ricerca sul culto della madonna del Carmine in Trastevere a Roma – comunemente detta Madonna Fiumarola -; l’effigie è attualmente dotata di una cospicua serie di abiti e di mantelli, offerti al simulacro per lo più come doni votivi, i più recenti dei quali risalgono agli anni Sessanta-Settanta del Novecento.
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mariani, i simulacri “da vestire” riguardano soprattutto le effigi della Madonna del Carmine , della Madonna del Rosario, della Madonna Addolorata; ma in passato erano soggette a vestizioni anche le effigi di personaggi maschili. La vestizione e l’abbellimento delle immagini poteva, in ogni caso, riguardare anche statue complete in tutte le loro parti; o poteva essere costituita esclusivamente di una massiccia copertura di gioielli – come nel caso della statua lignea del Gesù Bambino dell’Aracoeli in Roma -; o poteva riguardare anche effigi bidimensionali, che venivano “vestite” con parziale copertura di lembi di tessuto, o con applicazioni di lamine di metalli preziosi. Il tema dei simulacri “da vestire”, un importante aspetto – come si è già notato in precedenza – delle pratiche del cattolicesimo, investe diversi ambiti di studio e diversi approcci metodologici. Da un lato, la matericità dei simulacri-manichini e quella dei loro corredi di abiti e gioielli costituisce un significativo oggetto di ricerca per gli storici dell’arte e del tessuto, per gli storici del costume, per gli studiosi della cultura materiale; e in questo senso, da alcuni decenni i simulacri ed i corredi, considerati, in precedenza, oggetti “minori” e quindi di scarsa importanza culturale, vengono oggi inseriti nei percorsi di studio e nelle campagne di catalogazione storico-artistica, mentre vengono trascritti e pubblicati i documenti archivistici che a questo stesso tema di riferiscono. Dall’altro lato, la tematica delle dotazioni e vestizioni dei simulacri costituisce oggetto di ricerca anche per storici e storici delle religioni. Nel volume Madonne della Laguna di Riccarda Pagnozzato2 la cospicua serie di simulacri, di corredi, di documenti archivistici di ambiente veneziano si dispiega in un’ampia disamina di meccanismi costruttivi, tessuti, fogge, elenchi di gioielli. Il tema appare, infine, molto significativo anche per un approccio antropologico. Anche in questo senso, sono apparsi studi pionieristici, tra i quali quelli di Marlène Albert-Llorca3, che, in area franco-ispanica, ha posto l’accento soprattutto sull’associazionismo religioso femminile dedito alla cura dei simulacri, e sul valore sociale, economico, culturale, delle donazioni e dotazioni offerte collettivamente alle effigi della divinità. Ricerche ulteriori 2
R.Pagnozzato, Madonne della Laguna. Simulacri “da vestire” dei secoli XIV-XIX, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1993. 3 M.Albert-Llorca, La fabrique du sacré. Les Vierges "miraculeuses" du pays valencien, « Genèses », n.17, sept.1994, pp.33-51; ID., La Vierge mise à nu par ses chambrières, « Clio », 2/1995, pp.201-228.
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sono attualmente in corso nell’area del viterbese4, e in area friulana5; per quanto riguarda i simulacri veneziani, Riccarda Pagnozzato ha lavorato a tracciare le biografie delle donne depositarie dei corredi e vestitrici dei simulacri veneziani, dal secolo XVII fino ad oggi6. I simulacri “da vestire” ed i culti ad essi tributati offrono, allo sguardo antropologico, numerosi elementi di riflessione. Uno di questi riguarda certamente la questione della corporeità dei simulacri stessi, che appare in qualche modo corrispondente o parallela al problema della realtà e tangibilità dei personaggi divini. Si tratta di un trasferimento dall’essenza e “presenza” della divinità alla matericità dei simulacri, e talvolta da questi ai loro abiti, fino alla completa sovrapposizione di effigie e divinità7. Un’altra tematica riguarda invece la visione e l’immagine della divinità, così come viene elaborata e trasmessa attraverso canali diversi, tra i quali soprattutto le narrazioni orali delle visioni e apparizioni miracolose8. Il simulacro della divinità coinvolge i fedeli in un impegnativo lavoro di visione e di contemplazione, più libero nel caso dell’immagine bidimensionale, più circoscritto e rassicurante nel caso della statua tridimensionale9; il simulacro è del resto soglia, mediazione, porta spalancata all’irruzione della divinità, immagine “inquieta” e mobile, non opaca, che consente la comunicazione tra piani diversi e paralleli, quello terrestre e quello divino10. Il valore estetico 4
M.Arduini, Vestire la Madonna. Prime note su un rito di vestizione della Madonna della Stella di Oriolo Romano, «Informazioni», a.VIII, n.16, gennaio-dicembre 1999, pp.20-28. 5 Per la ricerca di Gian Paolo Gri nell’Italia nord-orientale si veda G.P.Gri, Tessere tela, tessere simboli. Antropologia e storia dell’abbigliamento in area alpina, Udine, Forum, 2000. 6 Si tratta del già citato Donne, Madonne, Dee, in corso di pubblicazione presso la casa editrice “Il Poligrafo” di Padova, il volume contiene anche saggi di Gian Paolo Gri e di Elisabetta Silvestrini. 7 I E.Buttitta, I corpi dei santi. Breve discorso intorno alle immagini della santità, in P.Grimaldi (a cura di), Il corpo e la festa. Universi simbolici e pratiche della sessualità popolare, Roma, Meltemi, 1999. 8 Tra le innumerevoli narrazioni del manifestarsi della divinità, è utile rileggere, per l’elevata qualità letteraria e per l’importanza dell’abbigliamento divino nell’insieme della visione stessa, il testo che, ne Le metamorfosi o l’asino d’oro di Apuleio, descrive l’apparire di Iside al devoto Lucio (libro XI, 3). 9 A.Dupront, Il sacro. Crociate e pellegrinaggi. Linguaggi e immagini, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, pp.102-148. 10 F.Faeta, Il santo e l’aquilone. Per un’antropologia dell’immaginario popolare nel secolo XX , Palermo, Sellerio, 2000.
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dell’immagine del simulacro, e la qualità della sua realizzazione, vengono sanciti socialmente mediante il maggiore o minore gradimento espresso dalla comunità; l’immagine realizzata è il risultato di istanze diverse, come temi e modelli visivi proposti dalle gerarchie ecclesiastiche, tendenze innovative di artisti, adesione alle richieste – generalmente più conservatrici – della comunità dei fedeli. In questo senso si è strutturata, in molti casi, la realizzazione dei simulacri “da vestire”, i quali, più leggeri e maneggevoli per esigenze di trasporto processionale, rappresentano spesso un doppio dell’immagine originale e “vera”, dalla quale tuttavia si distanziano notevolmente, per forma, aspetto, dimensioni, costituendo, rispetto alle prime, immagini della divinità più accessibili alla visione ed alla comprensione, e di gusto più autenticamente popolare. L’abbigliamento dei simulacri “da vestire”, caratterizzato dalla luminosità e dallo scintillio dei tessuti, delle gemme e dei metalli preziosi, costituisce un importante elemento della suggestione che il simulacro stesso deve esercitare sui fedeli, ed è possibile porlo in parallelo con l’abbigliamento che, fin dal periodo medievale, ha caratterizzato in Europa la regalità11. Singoli elementi dell’abito dei simulacri racchiudono simboli e significati complessi, stratificatisi nel tempo. Per quanto riguarda l’abbigliamento delle statue mariane, particolare significato assume il mantello, baluardo protettivo per i fedeli e, quasi sempre stellato, simbolo del cosmo, del firmamento, della calotta celeste; anche gli imperatori romani, i condottieri vincitori, i re e gli imperatori medievali indossavano come simbolo della regalità manti stellati, istoriati con immagini di guerre vittoriose e con scritte inneggianti ai valori della regalità12. Nell’abbigliamento della Madonna è da segnalare anche la cintura, che la ricerca etnologica e storica hanno dimostrato essere simbolicamente in relazione con la sessualità e la nascita13. 11
Si vedano le descrizioni delle vesti del re normanno Ruggero II o dell’imperatore Enrico II il Santo: S.Tramontana, Vestirsi e travestirsi in Sicilia, Palermo, Sellerio, 1993, pp.90-92; M.Schuette – S.Muller Christensen, Il ricamo nella storia e nell’arte, Roma, Edizioni Mediterranee, 1963, p.26. 12 Tra i mantelli, più noti, si veda il già citato manto dell’imperatore Enrico II il Santo, e quelli della moglie Santa Cunegonda, del cognato Santo Stefano re d’Ungheria, la coperta di Sant’Evaldo, il mantello di Riccardo di Cornovaglia, e così via. Si veda R.Eisler, Weltenmantel und Himmelszelt, München, O.Beck, 1910, oltre al già citato Il ricamo nella storia e nell’arte (si veda la nota n.11). 13 E.Cerulli, Vestirsi spogliarsi travestirsi, Palermo, Sellerio, 1981.
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Elemento molto importante nelle pratiche di culto tributate ai simulacri “da vestire” è la cura dell’effigie e del suo corredo vestimentario ed ornamentale. Se è vero che questi simulacri sono, generalmente, proprietà di confraternite, è accaduto di frequente che essi fossero legati a forme minori, non ufficiali, di associazionismo femminile. La vestizione delle effigi è stata quasi sempre affidata a donne, generalmente una o due, intestatarie di un incarico e di una abilità, che al momento di raggiungere un’età avanzata veniva trasmesso, come un’investitura, a donne più giovani, in alcuni casi per via ereditaria14. La vestizione costituiva un rito segreto, da praticare a porte chiuse, ed al quale veniva eventualmente ammesso un gruppo di persone estremamente ristretto. L’associazionismo correlato alla cura delle effigi costituisce, inoltre, una importante spia dell’organizzazione socio-economica delle comunità interessate. L’incarico della vestizione, e ancor più quello della cura del corredo vestimentario e ornamentale, dimostravano un riconoscimento del ruolo esercitato all’interno della associazione, e conferivano un certo alone di prestigio (che tuttavia non coincideva necessariamente con uno status socioeconomico elevato). Se l’effigie era destinata a peregrinare a turno da una famiglia all’altra, per periodi di tempo stabiliti, le modalità della turnazione (per posizione gerarchica all’interno della confraternita, o per acquisto mediante asta all’incanto) denunciano l’intrecciarsi dei rapporti sociali: all’interno della associazione o confraternita, dove il privilegio di ospitare l’effigie esprimeva, come si è già detto, una posizione di prestigio nella comunità; all’esterno, nei confronti, ad esempio, del vicinato, che invitato a visitare l’effigie durante la sua permanenza nell’abitazione privata di turno, poteva ammirarla esposta in casa con tutti gli onori, e celebrata con piccole cerimonie domestiche, banchetti, e così via15. Nell’indagare, infine, su quale sia il senso profondo di queste donazioni e dotazioni alle effigi, al di là di un rapporto con la divinità caratterizzato da un concreto do ut des di tipo votivo, è utile riprendere, nei 14
L’investitura dell’incarico della vestizione del simulacro, preceduta da un periodo di addestramento, è documentata soprattutto nella ricerca di Riccarda Pagnozzato. La trasmissione ereditaria, di madre in figlia o da suocera a nuora, è documentata ad esempio in D.Isabella, Santa Maria Rodega. La Madonna del Pane di Zahre-Sauris, Sauris (UD), Edizione del Centro Etnografico, 1995. 15 Per l’effigie del Gesù Bambino, che a Bari veniva esposta a turno in abitazioni private, si veda un testo di Angelo Stefanucci, citato in E.Silvestrini, Culti, leggende, vestizioni, in C.Basta-E.Silvestrini, Il Bambino Gesù, Brescia, Grafo, 1996.
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ELISABETA SILVESTRINI ● Simulacri “da vestire”. Cultura materiale, antropologia dell’abbigliamento, antropologia dell’immagine
testi già citati, le osservazioni di Marlène Albert-Llorca: nelle donazioni collettive (come la corona della Vergine, acquistata con le offerte dei fedeli) si manifesta una forte proiezione di identità nei confronti dell’effigie – identità municipale, di quartiere, di appartenenza ad una delimitata e specifica comunità religiosa. A queste osservazioni potrebbero aggiungersi, inoltre, quelle che individuano, nell’effigie vestita e adornata, una condizione parallela ad altre “icone”, come la sposa, elemento di scambio tra due famiglie nel contratto matrimoniale, dotata e ornata di corredi di abiti e gioielli, o come il re, che rappresenta simbolicamente tutto il suo popolo, e il cui corpo, dotato, nella mentalità medievale16, di poteri speciali, era nelle società antiche garanzia del benessere e della salute di tutti i sudditi e del suo territorio17. Anche il simulacro “da vestire” è elemento di scambio tra due piani diversi, quello terrestre e quello celeste, è tramite e soglia, è personaggio incaricato di una attiva intercessione, è testimonianza rilucente di un rapporto tra i fedeli e la divinità dichiarato effettivamente reale ed operante.
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Come è noto, nel Medioevo erano attribuiti, ai sovrani europei, speciali poteri taumaturgici, quali quello di guarire il male della scrofola. Si veda M.Bloch, I re taumaturghi, Torino, Einaudi, 1973. 17 J.G.Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, Torino, Boringhieri, 1973. Alcuni storici hanno lavorato allo studio del significato culturale del corpo del re e delle cure ad esso praticate. Si vedano E.H.Kantorowicz, I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Torino, Einaudi, 1989, e S.Bertelli, Il corpo del re. Sacralità del potere nell’Europa medievale e moderna, Firenze, Ponte alle Grazie, 1990.
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AUREL CODOBAN ● Sullo gnosticismo del “cristianesimo popolare” romeno
SULLO GNOSTICISMO DEL “CRISTIANESIMO POPOLARE” ROMENO Aurel Codoban
L’asserzione che “il popolo romeno è nato cristiano” è unanimamente diffusa tra i teologi e gli storici romeni. Nel suo senso largo vorrebbe significare che l’etnogenesi del popolo romeno si è manifestata nell’ambito di una romanità senza impero. Il cristianesimo in quanto religione appartenente alla civiltà dei Romani ha lasciato l’impronta di essa persino nelle provincie da dove l’impero si era ritirato, così com’è stato il caso della Dacia. Il popolo romeno è nato nell’ambiente spirituale, rispettivamente religioso, dell’Impero Romano, anche se non è appartenuto dal punto di vista statale all’Impero. In principio, questo senso dell’affermazione iniziale non crea alcun problema. Il secondo senso dell’affermazione però, è quello che ci sembra discutevole, dato che definisce il cristianesimo romeno attraverso la sua genesi come un cristianesimo popolare, una religione popolare. Per i ricercatori romeni, “la nascita del popolo romeno e del suo cristianesimo sono processi simultanei e compenetranti”1. L’ascensione della religione cristiana si manifesta per una via popolare, non ufficiale, senza l’intervento brutale di un’autorità politica ed ecclesiastica, senza missionari eroici. Similmente all’etnogenesi, la cristianizzazione si compie su un vuoto di potere politico. Il cristianesimo romeno appare, così, come una religione popolare, dato che nasce in mancanza di un’opposizione istituzionale all’ascensione della nuova religione e si costituisce, poì, fuori dalle istituzioni ecclesiastiche sostenute dal punto di vista statale. Questo secondo senso dell’asserzione è, forse, accettabile? Di cristianesimo come religione popolare si parla a cominciare dalla Riforma. Esso appare quale concetto normativo che denuncia l’ignoranza paganeggiante delle masse verso la fine del XV-esimo secolo. Questo senso luterano-calvinista è ora ripudiato con l’osservazione che nel Medioevo l’alta società e il popolo non avevano fedi diverse e che il clero non costituiva una
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Nelu Zugravu, Geneza creştinismului popular al românilor, Institutul român de tracologie, Biblioteca tracologică, Buc. 1997, p. 15
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AUREL CODOBAN ● Sullo gnosticismo del “cristianesimo popolare” romeno
classe colta2. Esso diventa un concetto molto più ampio nel momento dell’assunzione dell’esperienza storica del cristianesimo occidentale. La funzione descrittiva del concetto è quella di indicare l’opposizione tra una religione basata sul Libro, cristocentrica, ascetica ed esigente, ed una religione di una tradizionalità orale, espressa piuttosto gestualmente e ritualmente con differenze attenuate tra il sacro e il profano e con una dimensione cosmica. E’ cosparso di segni e presentimenti e sostenuto da un pensiero associativo per cui possiamo usare il modello del “pensiero selvaggio” di Levi – Strauss, dell’epistema del Rinascimento di Foucault o di “semiosi ermetica” di Eco. Si caratterizza per fede taumaturgica, il culto dei santi taumaturgi, credenze apocalittico-soteriologiche ed attese millenaristiche, la credenza nell’intervento per l’azione immanente di Dio, della Vergine Maria – con una posizione particolarmente accentuata nell’ordine delle gerarchie celesti – e di alcuni santi. Tanto sul suo punto normativo di emergenza quanto nel suo uso descrittivo, molto più recente, l’idea di religione popolare appartiene alla storia delle idee della modernità. L’opposizione per cui si costituisce inizialmente, quella tra cristiani e pagani – paganus, l’abitante extra muros cittadine nell’antichità romana, diventa, per estensione, nel IV secolo il rustico che si ostina a rimanere nella fede “naturale” – è continuata dalle distinzioni descrittive tra urbano - rurale, tra chierici – laici, scritto – orale, colto – popolare, alta società – massa. L’opposizione cristianesimo teologale – cristianesimo popolare si inserisce, così, perfettamente nell’opposizione cultura specializzata – cultura di massa che è una distinzione moderna. Nella sua qualità di religione popolare, il cristianesimo è la religione del Libro, così come lo intendono gli incolti. Il normativismo iniziale del concetto persiste però, perché, situato nell’ambito moderno della gnosi misura le performanze dell’istruzione. Il cristianesimo moderno è una religione del Libro, che dev’essere imparata dal Libro e “à la carte”. Nel contesto della cultura universitaria dei chierici e dei laici del periodo moderno, la religione popolare misura l’inesistenza, l’inefficienza o la mancata performanza dell’istruzione. Rispetto alla religione teologale, erudita e sapiente, basata sul Libro e sul sistema della dottrina, pura e coerente, accettata individualmente, la religione popolare, di oralità tradizionale, partecipazione cosmica, non differenziazione del sacro 2
Vedi B. Plongeron, Avant-propos, in La religion populaire dans l'Occident crétien. Approches historiques, sous la direction de B. Plongeron, Paris, 1976
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dal profano, di accettazione collettiva appare come una deviazione del discorso e delle pratiche religiose dal livello dogmaticamente già stabilito. Le deviazioni sono sia deformazioni, alterazioni dei sentimenti religiosi, forme di pietà modificate, esagerate, accentuate, adattate alla psicologia collettiva, però senza una contraddizione impossibile da conciliare con le istituzioni ecclesiastiche, sia un insieme di pratiche conservate negli ambienti rustici per tradizione e lontananza, talvolta sino a contraddire il sistema del dogma ufficiale3. Le differenze nell’ambito di questo modello interpretativo appaiono come gradazione dell’atteggiamento normativo teologale: gli accostamenti più descrittivi, parlano di inventività e spontaneità, del culto dei santi taumaturghi mentre l’atteggiamento dogmatico esigente scopre piuttosto resistenze o rimanenze di tipo stregoneria. L’opposizione popolare-teologale implica nel piano del discorso religioso l’opposizione tra la polisemia simbolica e la coerenza logico-teorica teologale, dottrinaria, e rispettivamente tra il dogma e la semiosi ermetica. Beninteso, dietro il dislivello di coerenza discorsiva si cela un potere coercitivo: quello politico che imponeva ai Greci la religione della città sulle credenze individuali o ai Romani, la religione dello Stato sulle credenze del cittadino. Secondo quanto dicevo, il senso normativo della gnosi moderna è l’istruzione: i risultati dell’insegnamento si misurano in conformità agli standards cognitvi per essere riconosciuti come tali dalle istituzioni accreditate. Nell’epoca moderna, l’istruzione deve produrre una istruzione standardizzata, cioè coerente, senza variabilità significativa, individuale o di gruppo. Il regolamentare dell’istruzione, cioè l’imporre degli standards e la regolamentazione dei discorsi e delle pratiche presuppone l’esercitazione del potere. L’effetto di standardizzazione e regolarizzazione della modernità, l’effetto di universalizzazione è l’appannaggio di un potere più o meno politico, più o meno istituzionalizzato. L’idea di religione popolare è la conseguenza della cognizione e del riconoscimento di tale conoscenza da parte delle istituzioni con potere normativo. Il cristianesimo popolare nell’accezione occidentale definisce i dialetti comunitari di un unico linguaggio nato da un processo di istruzione inefficiente o imperfetta e rimediabile tramite la ripresa dell’atto educazionale. 3
Vedi Fr. Rapp, Réflections sur la religion populaire en Moyen Age in La religion populaire dans l'Occident crétien. Approches historiques, sous la direction de B. Plongeron, Paris, 1976; A. van Gennep, Cultures liturgiques et cultes populaires, Paris, 1934; G. Duby, La vulgarisation des modéles culturels dans la société féodale, in Niveaux de culture et groupes sociaux. Actes du colloque réuni du 7 au 9 mai 1966, Paris, 1967
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In questo aspetto si manifesta, d’altronde, la differenza radicale rispetto al cristianesimo popolare invocato dai teologi e dagli storici romeni. Il vuoto politico, l’assenza di uno Stato, la mancanza di una forza coercitiva extracomunitaria fa della religione popolare romena, del cristianesimo popolare romeno una cosa molto diversa come senso da quello che è la religione popolare o il cristianesimo popolare nell’Occidente europeo. La tradizione è piuttosto orale e ritualica che libresca, il clero non è nemmeno oggi meglio educato dogmaticamente dei fedeli, il cui pastore è e non è, si tratta praticamente di un cristianesimo teologale puro. Il modello della trasmissione non è quello dell’istruzione, dell’assimilazione più o meno corretta e coerente di un sistema dogmatico chiaro elaborato in prealabile. Più precisamente, il cristianesimo popolare non è il risultato della volgarizzazione di un cristianesimo teologale, elaborato come sistema dogmatico referenziale. Il modello del cristianesimo romeno non può essere uno dell’istruzione perché mancano le forme istituzionali in grado di imporre il discorso standardizzato e l’insegnamento. Questo modello è il risultato dell’istruzione realizzata attraverso la comunicazione orale. L’istruzione per lo studio presuppone strutture di potere gerarchicamente costituite, cioè piramidali. Le strutture di comunicazione sono semplici strutture di rete che permettono la diffusione dei messaggi. La differenza consiste a questo punto nell’assimilazione per studio, in cui i gradi dell’assimilazione si misurano in conformità ai campioni del sistema e il nuovo significato che presuppone la comunicazione e le cui trasgressioni sono insignificanti, finché non blocchino la comunicazione. Da questa prospettiva non esiste mai un punto neutro di partenza, non c’è uno stato zero, naturale, e non ci sono lacerazioni assolute o successi assoluti. C’è, piuttosto, comunicazione ed intertestualità, nuovo significato e palinsesto. Il modello esplicativo della costituzione della religione popolare attraverso la comunicazione è quello freudiano della psicanalisi, della formazione dei significati per sovrapposizione, spostamento e condensazione. E’ vero che tale modello non è compatibile con una storia lineare, irreversibile e in costante progresso delle religioni. E’ vero che il risultato è piuttosto un modello di religiosità compatibile con la religiosità della tarda modernità – per cui l’esperienza religiosa, più che lo studio di una verità è una comunicazione con l’oggetto dell’esperienza – che con la normatività dogmatica del cristianesimo tradizionale. Ma ancora più vero è che la religione popolare romena non è un cristianesimo popolare in senso 330
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occidentale europeo. Di conseguenza, le sue qualità, molto spesso scambiate per qualità di un cristianesimo popolare dovrebbero essere reinterpretate. L’anarchismo del cristianesimo romeno ritrovato nella lingua è il risultato della mancata resistenza politica delle istituzioni locali, cioè la loro inesistenza in quel momento e la conseguenza dell’istallazione della nuova religione per contaminazione o disseminazione comunicativa nel sistema. La neutralità rispetto alle controverse dogmatiche, l’assenza degli eretici e delle eresie, la mancanza delle guerre di religione4 non sono altro se non una conseguenza del diverso modello di insediamento del cristianesimo, per diffusione comunicativa e non per studio controllato da un’istanza del potere. La “simbiosi” tra Chiesa e Stato non significa altro se non la reciproca tolleranza di istituzioni deboli, prive di potere reale di coercizione che impongano loro le norme e che controllino la loro osservanza. Ci troviamo, secondo l’espressione di Iorga, davanti ad un “cristianesimo senza vescovi canonici” che ottiene la sua prima Mitropolia – in una delle province storiche romene – soltanto verso la metà del XIV-esimo secolo. Da quì la mancata reazione alle eresie. I romeni sono, certamente, cristianizzati fino al IV secolo, ma in un miscuglio di romanità e orientalità, senza un contesto politico statale stabile. E tutto comincia con la prima destrutturazione religiosa che la conquista romana della Dacia vi impose alla vita religiosa, seguita a breve intervallo da un’altra, conseguenza della ritirata romana. L’istallarsi del cristianesimo si manifesta in uno spazio privo di organizzazione politica fino all’inizio del secondo millennio, con una vita urbana rarefatta, sottomessa ad una dominazione barbara, con una comunicazione fluttuante con i centri istituzionali cristiani. Mancano sacerdoti, chiese, oggetti di culto. La prassi religiosa viene continuata, in questo modo, sullo strato ritualico e simbolico antico, precristiano. Fino al V secolo, questo cristianesimo coesiste con l’eresia ariana. Nessuna reazione registrata in alcun modo, così com’era d’altronde successo ancora prima, in quanto alla gnosi o alle eresie orientali. La fondazione di una prima Mitropolia non cambia affatto le cose. Verso la metà del XIV-esimo secolo i bogomili cacciati dalla Bulgaria e dalla Serbia da leggi intolleranti scappano nel “principato recentemente fondato della Valacchia, al nord del Danubio, e
4
Vedi Simion Mehedinţi, Creştinismul românesc, Fundaţia Anastasia, Bucureşti, 1995
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da questo momento i dati relativi alla loro attività in Bulgaria spariscono completamente dai documenti scritti”5. Come si può osservare, non c’è alcuna reazione di rinnego in questo Paese ortodosso come in Bulgaria o in Serbia. Non ci sono processi di stregoneria6. Né più tardi, verso i nostri tempi, non ci saranno reazioni evidenti di rifiuto per quanto riguarda la magia rurale, e si registra folkloricamente la stessa accezione comunicativa, lo stesso scambio di reciproco riconoscimento nella mancanza della regolamentazione e del controllo fermamente esercitato da un’istituzione normativa, efficiente. Uno statuto nato da una reciprocità di riconoscimento tra istanze che si trovano sullo stesso piano di parità religiosa. Non ci sono gradi diversi del discorso cristiano, che convivano, ma un discorso cristiano impreciso ed inesistente dal punto di vista dogmatico ed un discorso non cristiano, che si tollerano reciprocamente. Però, cristianesimo popolare significa un cristianesimo con uno scarso grado di purezza che coesiste insieme ad un discorso teologale puro e rispetto al quale si definisce per rapporto accettato, come una deviazione. La trasformazione di un simile cristianesimo che si rapporta con tolleranza alle pratiche e alle concezioni non cristiane in un altro cristianesimo, di tipo popolare, è piuttosto il risultato di uno sforzo interpretativo e della dimenticanza selettiva che di una realtà storica. E’ il caso delle due leggende storiche romene “Mioriţa” e “Meşterul Manole” (La Pecorella e il Mastro Manole) e che ad un’analisi più attenta si dimostrano esserne tre: “Mioriţa”, ”Meşterul Manole” e la “Leggenda della creazione della Terra dalle acque nei tempi in cui Dio e il Diavolo erano fratelli”7. Sono più numerose le gemme gnostiche che altri segni, ovviamente cristiani, scoperte nelle tombe8, le icone popolari con evidente contenuto bogomilico e
5
Yuri Stoianov, Tradiţia ascunsă a Europei. Istoria secretă a ereziei creştine în Evul Mediu, Ed. Polirom, Iaşi, 1999, p. 176 6 Ioan Petru Culianu, Eros şi magie în Renaştere, Ed. Nemira, Bucureşti, 1994, p. 351 7 Mircea Eliade, Ocultism, vrajitorie şi mode culturale, Ed. Humanitas, Bucureşti, 1997, pp. 100-109; Vedi anche Mircea Eliade, De la Zalmoxis la Gingis Han, Ed. Ştiinţifică şi Enciclopedică, Bucureşti, 1980 8 Vedi Vasile Pârvan, Contribuţii epigrafice la istoria creştinismului daco-roman, Bucureşti, 1911; Vedi anche N. Gudea, I. Ghiurco, Din istoria creştinismului la români. Mărturii arheologice, Oradea, 1988
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gli affreschi gnostici nei celebri monasteri moldavi9 sostengono il senso della terza leggenda folklorica. Questo cristianesimo è popolare soltanto nel senso della generalizzazione del modello comunicativo della trasmissione, delle contaminazioni, delle condensazioni e degli spostamenti. Più che di un cristianesimo popolare – che è una deviazione da un sistema cristiano teologale – si tratta di un cristianesimo gnostico, tollerante e in comunicazione con le forme religiose alternative, della magia e delle credenze, che accetta la presenza equipotente del male. Al posto di un dialogo verticale, tra livelli di purezza diversa del sistema dogmatico cristiano, il cristianesimo romeno mantiene un dialogo orizzontale, con forme religiose che, in conformità con la propria concezione non possono appartenere che al male. Questo dialogo esteriore si è interiorizzato fino alla fine e porta non ad un cristianesimo popolare, ma ad un’altra forma di cristianesimo. Perciò, la formula unanimamente accettata dagli storici e dai teologi romeni dovrebbe essere interpretata nel senso che il popolo romeno è nato gnostico.
9
Jean Magne, Teme antignostice în iconografia mănăstirilor din Moldova, in Anexe la Logica dogmelor. O Enigmă mereu actuală: creştinism, iudaism, gnosticism, Bucureşti, Ed. Polimark, 1995
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ROBERTA MORETTI ● Ioan P. Culianu, storico delle idee: esempi di metodologia ermeneutica
IOAN P. CULIANU, STORICO DELLE IDEE: ESEMPI DI METODOLOGIA ERMENEUTICA Roberta Moretti
Premessa In questa relazione mi sono proposta di esporre alcune tesi che Ioan Petru Culianu ha sostenuto a proposito della storia delle idee, l’ambito di studi da lui intensamente coltivato fino alle soglie degli anni Novanta. Ne ho tratto alcuni esempi di metodologia ermeneutica che, a quasi dieci anni dalla morte dello studioso romeno (1991), si offrono oggi a nuovi, importanti sviluppi teorici. 1. Il mestiere dello storico delle idee La civiltà contemporanea prende forma dall’incontro di varie culture nel corso del loro sviluppo storico, si tratta però, secondo Culianu, di una configurazione che si avvale di idee e categorie di origine disparata: sta allo storico delle idee riconoscerle anche quando esse toccano ambiti di riferimento che a un primo livello paiono eccentrici a un indagine di questo tipo. Uno di tali ambiti ‘eccentrici’ all’indagine storica comunemente intesa, è la polarità del fantastico, i processi immaginativi che si attivano nelle varie epoche, e la cui ermeneutica secondo Culianu non può andare disgiunta dall’analisi dei processi culturali esplicitati nella dinamica storica. Se infatti le idee si modellano in rapporto alla storia e al potere politico e religioso, l’arsenale immaginario, dal canto suo, nasconde una forza in grado di manipolare, dirigere, ripristinare ma anche sovvertire i valori di una data epoca. In Eros e magia nel Rinascimento1 Culianu appunta lo sguardo sulla trasformazione apportata nell’età contemporanea dalla scoperte scientifiche e dall’ingente sviluppo delle tecnologie. I presupposti di tale trasformazione secondo Culianu vanno ispezionati più “a livello dell’immaginario in quanto tale” che a quello, del tutto esplicito delle scoperte scientifiche “prendendo le mosse, beninteso, dall’idea che una scoperta è resa possibile solo da un determinato orizzonte di conoscenze e credenze relative alla sua 1
Eros et Magie à la Renaissance, 1484, Flammarion, Paris 1984 (trad. it., Eros e magia nel Rinascimento. La congiunzione astrologica del 1484, Il Saggiatore, Milano 1987).
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possibilità”2. L’autore mette a confronto due sistemi: quello delle dottrine magiche del Rinascimento, e dell’odierno pensiero scientifico, constatando che lo sviluppo della scienza moderna “presuppone una mentalità ben diversa da quella che presiedeva alle <<scienze>> del Rinascimento”. “Lo storico delle idee -sottolinea Culianu- ha, non solo il diritto, ma anche il dovere di interrogarsi sulle cause che hanno prodotto quest’enorme cambiamento dell’immaginazione umana, il quale ha portato alla trasformazione dei metodi e dei fini delle scienze della natura”3. Secondo l’autore ci troviamo di fronte ad una questione fondamentale della nostra cultura; una questione su cui dovremmo riflettere evitando la facile chiamata in causa dello sviluppo tecnologico inteso come evento chiave della modernità, senza considerare che non fu la tecnica da sé sola a portare alle grandi scoperte della scienza Novecentesca. La grande svolta tra la magia rinascimentale e la scienza moderna starebbe, secondo lo studioso romeno, in un “mutamento dell’immaginario”: “Magia e scienza –egli scrive- rappresentano in ultima istanza bisogni immaginari, e il passaggio da una società a dominante magica verso una società a dominante scientifica si spiega in primo luogo con un mutamento dell’immaginario”4. Questo mutamento può apparire come una frattura tra due tipi di pensiero, di cui l’uno immaturo precederebbe il successivo più maturo. Ma secondo Culianu occorre riaggiustare quest’ottica storica. I progressi scientifici e tecnologici dei tempi moderni ci predispongono a opinioni erronee, le stesse che accampavano i Positivisti del XIX secolo, fautori a oltranza del ‘progresso’ e devoti alla ‘ragione’ scientifica. Culianu invece adotta un diverso atteggiamento nei confronti dell’idea di progresso adottando il punto di vista di una epistemologia di nuovo conio: “Ci troviamo oggi –scriveva nel 1987- al crocevia di due epistemologie: La prima, che risale all’Illuminismo, crede che il progresso della scienza è cumulativo e che, in fin dei conti, all’umanità toccherà scoprire la Verità; la seconda, che non esiste che da un quarto di secolo, considera che tutte le visuali del mondo sono valide, che esse sono parimenti distanti dalla Verità e che tra esse non c’è continuità. Secondo questa epistemologia, la visuale del mondo del Rinascimento e quella della scienza moderna, sebbene in successione cronologica, non hanno niente a che fare l’una con l’altra: esse 2
Ivi, p. 8. Ivi, p. 265. 4 Ivi, p. 8. 3
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sono semplicemente incommensurabili”5. L’idea va dunque ridimensionata in una prospettiva storica multiprospettica e relativista, seppure non ignara delle teorie dello storicismo tedesco della fine del Ottocento6. L’analisi che intraprende Culianu è meno dei fatti e delle cronologie degli eventi, e più delle cause che li hanno prodotti, rispetto allo sviluppo della scienza moderna. Egli mette in luce le pressioni ideologiche esercitate dalle istituzioni dominanti e, nel passaggio dal Rinascimento all’età moderna, indica come momenti cruciali la morte di Giordano Bruno e l’imporsi della Riforma protestante. Siamo nel periodo di transizione alla modernità, e Culianu ricorre a una comparazione curiosa: paragona il mutamento dell’immaginario e la nascita della scienza moderna a una mosca àptera (wingless fly). Questo paragone prende spunto da quanto aveva sostenuto Jacques Monod ne Il caso e la necessità (trad.it., Mondadori, Milano 1970)7. La scienza moderna scrive Culianu “scaturisce da un’interazione di forze ideologiche estremamente complesse, in un processo che ricorda da vicino la selezione naturale delle specie. Ora, sappiamo -egli prosegue- che questa non è determinata da una legge provvidenziale, bensì dagli accidenti dell’ambiente, quelli che J. Monod ha definito, forse a torto, <>‘“8. Nella selezione della specie, possono manifestarsi degli eventi che mettono a rischio, e spesso eliminano, le specie animali la cui sopravvivenza è minacciata dalla subentrata situazione ambientale. Una mosca àptera è sostanzialmente un animale malato, un prodotto mal riuscito della natura, essa è infatti priva di ali. Questo mutante genetico non ha possibilità di sussistenza nella terra in quanto facile preda di uccelli e viene con tutta probabilità eliminato dalla selezione naturale. Ma la stessa cosa può avvenire alla ‘razza normale’ se le condizioni esterne diventano avverse, come ad esempio un vento fortissimo che le mosche ‘normali’ non riescono a contrastare. In questo caso riesce a sopravvivere e a moltiplicarsi proprio la mosca àptera, essendo in grado di 5
Ivi, p. 9. Alcuni esponenti dello storicismo tedesco la cui figura più rappresentativa è Wilhelm Dilthey (1833-1911), accentuarono il relativismo implicito in quest’ultimo e sono Georg Simmel (1858–1918) e Oswald Spengler (1880-1036). “Secondo Spengler, seguito poi da A. J. Toynbee, le civiltà sono destinate a nascere, crescere e perire sempre chiuse in se stesse: nessuna verità o valore può sopravvivere alla civiltà cui appartiene” (Enciclopedia Garzanti di Filosofia, 1994, p.1110). 7 Il biologo francese (1910-1976), Nobel per la medicina nel 1965, pioniere della genetica molecolare. 8 Eros e magia nel Rinascimento, op. cit., p. 270 6
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camminare sulla terra, e di sventare il pericolo di essere facile preda di uccelli, anch’essi contrastati dal vento. Tornando alle scienze del Rinascimento Culianu sostiene che non erano affatto in crisi. Infatti, in modo simile ai processi di selezione toccati alla mosca àptera, eventi imprevisti e concomitanti nell’età del tardo Rinascimento hanno innescato una mutazione di idee donde è scaturita la nuova forma formante foriera dello spirito scientifico moderno. Esso “è nato –scrive Culianu- come una mosca aptera che, nei grandi sommovimenti della storia del XVI secolo, ha avuto la fortuna di passare inosservata e di non venir eliminata dalla implacabile selezione naturale, la quale incise tanto profondamente sulle scienze rinascimentali, da privarle di ogni possibilità di risollevarsi”9. La grande paura, come il forte vento per la mosca àptera, ebbe la meglio, e di fronte ad una riforma religiosa spietata, si rinunciò alla magia, all’alchimia, all’astrologia e, per chi non voleva rischiare come Galileo (1564-1642) e come Bruno (1548-1600), conveniva seguire l’esempio di Newton (1642-1727) e mantenere il silenzio, come egli fece, sugli studi di occultismo e soprattutto di alchimia coltivati da Newton in segreto attraverso quasi tutta la vita. Le scienze del Rinascimento, precisa Culianu, funzionavano bene per la gente dell’epoca; occorre perciò prendere le distanze da quanti sostengono la ‘carenza di valore d’uso’ di quelle scienze. Infatti l’astrologia del XVI secolo “lungi dall’essere una scienza in declino godeva d’una considerazione che doveva essere ben superiore al suo reale valore d’uso. Tuttavia, è solo a posteriori che lo si può controllare; per gli uomini del Rinascimento il relativo valore d’uso dell’astrologia era non minore di quello che noi attribuiamo oggigiorno alla teoria della radioattività o della relatività. (…) Delle scienze rinascimentali, l’alchimia è quella che ha registrato i più costanti fallimenti; tuttavia, dato che essa svolgeva un ruolo importante nei rimedi della iatrochimica e persino in quelli della medicina astrologica, sarebbe impossibile negarle ogni valore d’uso. …l’alchimia non aveva motivo alcuno di ritenersi minacciata nei suoi fondamenti. Certo, l’altissimo numero dei ciarlatani l’ ha screditata, ma le pratiche alchemiche di Newton ci dimostrano che essa non aveva smesso di suscitare l’interesse degli spiriti più illuminati del XVII secolo. Alcuni storici delle scienze si chiedono ancora perché, se l’alchimia costituiva il fondamentale interesse di Newton, questi abbia pubblicato di tutto, tranne i materiali attinenti alle sue esperienze 9
Ivi, p. 270.
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alchemiche. La risposta è talmente semplice da lasciar stupiti…: Newton viveva in un’ epoca caratterizzata, sul piano politico, dal trionfo del puritanesimo il quale, va ricordato, aborriva le scienze occulte… Sicché, Newton non ha reso pubbliche le proprie esperienze di alchimia perché aveva la testa sulle spalle e preferiva che ci restasse”. In conclusione per Culianu “E’ del tutto evidente che le scienze del Rinascimento, quale che fosse il loro reale valore d’uso, non erano affatto prive di valore relativo d’uso”10. Lo studioso romeno ribadisce la forza delle pressioni ideologiche, che nel caso dei dogmi religiosi, piegano con forza le idee dominanti, i costumi e la vita sociale di grandi masse. Confrontando le idee dei rispettivi due sistemi socio-culturali, quello magico da una parte e quello scientifico moderno dall’altra, si cominciano ad individuare i processi che connettono le idee storicamente. Ci si avvede di un mutamento della dimensione immaginaria, riflesso di due visuali del mondo certo incomprensibili se si adotta il criterio storico (per Culianu è un pregiudizio) di un progresso lineare dell’umanità. Questa nuova prospettiva ermeneutica ci consente di stabilire quelle che sono le connessioni dinamiche tra le idee; infatti “nell’unità psichica della vita, nella storia, nei sistemi di cultura e nelle organizzazioni- sostiene Wilhelm Dilthey11-, tutto è concepito in costante mutamento…”. Le idee, che stazionano nei depositi della memoria culturale, si dispiegano in una propria storia in relazione sia al loro uso che al loro oblio, pronte a riattualizzarsi, riemergendo in forme nuove, per lo più irriconoscibili. “La magia –scrive Culianu- ha in comune con la tecnologia moderna la pretesa di pervenire , con altri mezzi, agli stessi risultati: comunicazione a distanza, trasporti rapidi, viaggi interplanetari fanno parte delle normali prodezze del mago”12. La base propulsiva del pensiero scientifico e tecnologico potrebbe essere racchiusa, almeno in parte, nell’ immaginazione e nelle audaci credenze del pensiero magico. Culianu non intende con questo affermare che il metodo della magia abbia a vedere con quello delle scienze moderne. L’immaginare in potenza una data cosa precede inevitabilmente la sua messa in opera, ne è il presupposto inequivocabile: “Hanno avuto torto gli storici -scrive Culianu- sostenendo la scomparsa della magia con l’avvento della <<scienza quantitativa>>; questa non ha fatto che sostituirsi a una parte della prima, continuandone d’altronde i sogni e gli scopi con mezzi della tecnologia. L’elettricità, i mezzi 10
Ivi, p. 266s. Wilhelm Dilthey, Critica della ragione storica, Einaudi, Torino 1954, p. 365. 12 Ivi, p. 7. 11
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di trasporto veloci, la radio e la televisione, l’aereo e il computer sono stati la realizzazione delle promesse che per prima la magia aveva formulato, e che rientravano nell’arsenale dei procedimenti soprannaturali del mago, come produrre la luce, spostarsi istantaneamente nello spazio, comunicare con lontane regioni dello spazio, volare nell’aria e disporre di una memoria infallibile. La tecnologia, si può ben dirlo, è una magia democratica, che permette a tutti di godere delle facoltà straordinarie di cui si vantava il mago”13. Chi sono allora gli eredi diretti della magia rinascimentale? Se la tecnologia moderna ha sfruttato i sogni del mago, esistono però altri campi in cui la magia è insospettabilmente attiva e operante, e ciò accade nelle scienze psicologiche e sociali. L’operazione magica si svolge qui al di sotto della soglia della coscienza, e in ciò risiede la sua forza. I fenomeni magici, secondo la scienza rinascimentale, sono strettamente legati a quelli erotici. Tali legami sottostanno, in senso lato e sottile, anche ai rapporti tra gli individui, pertanto i rapporti intersoggetivi sono regolati in modo inconsapevole dai processi magici. L’osservazione di questi rapporti, la loro dinamica e la comprensione di questo complesso meccanismo può essere estremamente utile e utilizzabile. Da anni le relazioni intersoggettive sono accuratamente osservate dalla psicosociologia generale e dalle scienze che si occupano della formazione dell’individuo. L’ antesignana di questa scienza, secondo Culianu, con tutta probabilità sarebbe la magia erotica di Giordano Bruno, il più tragico e bizzarro dei sapienti del tardo Rinascimento, memori della magia astrologica di provenienza arabo-ispanica. Inconsapevolmente una società prenderebbe la forma che il manipolatore bruniano vuole imprimerle: “La sociologia, la psicologia e la psicosociologia applicate,scrive Culianu- nella misura in cui hanno sempre un aspetto operativo, al giorno d’oggi sono le dirette eredi della magia rinascimentale. Che cosa si poteva sperar di ottenere con la conoscenza delle relazioni intersoggettive? Una società omogenea, ideologicamente sana e governabile. Il manipolatore totale di Bruno si fa carico di fornire ai soggetti un’istruzione e una religione convenienti”, poi citando Bruno prosegue, <<E’ soprattutto necessario avere estrema cura del luogo e della maniera in cui qualcuno è educato, in cui ha seguito gli studi, in quale pedagogia, quale religione, quale culto, con quali libri e quali autori. Perché tutto ciò genera di per sé e non per accidente ,
13
Ivi, p. 163s.
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tutte le qualità del suddito […]>>(Theses de Magia, LII). “Controllo e selezione sono dunque i pilastri dell’ordine”14. 2. Il filtro ermeneutico Nel passaggio da un sistema di idee ad un altro le idee si riconfigurano a partire dalla forma mentis precedente, da essa vengono scelte e riadattate per una nuova sistematizzazione, sia economica che religiosa, politica, sociale ecc.. In Eros e magia nel Rinascimento Culianu ci dice che lo storico delle idee non deve accontentarsi di descrivere i contenuti ideologici di una data epoca, egli è tenuto ad intravedere un aspetto sottile, la cui osservazione mette in luce la volontà selettiva: il lato oscuro che sarebbe alla base del progetto coordinatore del pensiero di un’epoca. “L’originalità di un’epoca – scrive Culianu- non la si misura secondo il contenuto dei suoi sistemi ideologici, ma piuttosto secondo la sua <>, vale a dire secondo la griglia interpretativa che essa interpone tra un contenuto preesistente e il suo risultato moderno”15. La griglia interpretativa funziona come filtro ermeneutico, ed ogni messaggio che la attraversa non si riversa inalterato, ma produce “due effetti d’ordine semantico”: “…il primo, -scrivetendente all’organizzazione stessa della struttura culturale del tempo, e perciò situantesi al di fuori di questa, si definisce come un complesso quanto sottile meccanismo di valorizzazione oppure, al contrario, di rimozione di certi contenuti ideologici; il secondo, che agisce all’interno della struttura culturale stessa, si definisce quale una distorsione sistematica, o addirittura un’inversione semantica delle idee che passano attraverso la griglia interpretativa dell’epoca”16. La prima operazione è la selezione che ogni epoca fa dei materiali ideologici derivanti da altri sistemi culturali, essi servono ad organizzare la struttura culturale del tempo, la seconda la cui azione si svolge all’interno della struttura stessa si riferisce all’utilizzo del materiale scelto. Il compito dello storico delle idee, anzi la sua “massima aspirazione”, è quella di intravedere la <>, il filtro ermeneutico di un dato periodo e quindi conseguentemente valutarne l’azione interna e cioè la sua volontà deformatrice. Secondo Culianu l’unica cosa che conta realmente in quanto determina l’originalità di un dato momento culturale è il suo sistema interpretativo. Mentre i contenuti di un’ideologia possono essere descritti, il sistema interpretativo risulta sfuggente, esso viene 14
Ivi, p. 164. Ivi, p. 26. 16 Ibidem. 15
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descritto come una: “presenza tacita per non dire occulta, ma anche oggettiva e inesorabile, si mostra furtivamente in tutta la sua complessità, per sottrarsi di colpo allo sguardo del ricercatore il quale, per poter praticare la storia delle idee, è chiamato a vedere non già solo ciò che si mostra di per sé, vale a dire le stesse idee, ma per l’appunto ciò che non si mostra, i nessi segreti che collegano le idee alla volontà invisibile del tempo, loro regista”17. I concetti di inversione semantica e volontà deformante, agiscono nel sistema di valori di una data epoca, essi possono avere la forza di trasformare in modo radicale il modo di pensare di un gruppo sociale. Come già si è detto la Riforma del XVI secolo, e la conseguente accentuazione del Puritanesimo, sia da parte protestante che cattolica, rappresenta per Culianu uno dei fattori decisivi nella comparsa della scienza moderna. Il cambiamento ideologico conseguente investe a tal punto il pensiero magico, che Culianu non esclude l’esistenza di un circolo ermeneutico per cui non sappiamo se sia stata la “fine della magia a produrre la Riforma o la Riforma a produrre la fine della magia”18; in ogni caso va tenuto presente che i due avvenimenti sono strettamente collegati. Il fattore Riforma include l’ esame delle ragioni ideologiche di questo movimento, le cui pressioni agiscono sul sistema dei valori correnti modificandoli, innescando una graduale configurazione di nuovi valori più conformi alle istanze religiose e politiche del tempo. I valori che prima erano ben tollerati dalla società vengono degenerati dalla nuova corrente di idee, e l’alchimia, l’astrologia19, la magia20sono respinte ed eliminate. A ciò Culianu accosta un altro fattore, che comincia ad apparire nell’Inghilterra puritana dal XVII secolo: un cambiamento negli “interessi vocazionali”21 orientati verso la scienza e le tecniche. Rispetto ad essi il rapporto con gli interessi militari non va sottovalutato. In sintesi i fattori presi in esame da Culianu mettono in luce che “le basi tecnologiche della nostra società sembrano essere state 17
Ibidem. Nella nota che accompagna questo passo l’autore sottolinea che “l’ipotesi della circolarità è stata formulata per eccesso di cautela. In realtà, sull’avvento della Riforma la magia imperava. E’ la Riforma ad aver messo fine alla magia, non viceversa”. Ioan P. Couliano, Alcune riflessioni sulla magia e la sua fine, in AA.VV., La Religione della Terra, (Grazia Marchianò, a cura di), Red, Como 1991,p.182. 19 “Ogni fenomeno magico diventa illecito e l’astrologia viene colpita da divieto definitivo nel 1586”. Ivi, p. 183. 20 Che alla fine del Seicento, secondo Culianu, era praticamente scomparsa. 21 “La sociologia ha già costatato da tempo l’apparizione di un <>“ in Eros e magia nel Rinascimento, op. cit., p. 10. 18
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poste da due attività umane di cui si sarebbero difficilmente sospettati i rapporti con le scienze: la religione e la guerra”22. In Religione e potere (1981), Culianu aveva sostenuto la validità di fondo delle affermazioni di Max Weber, meritevole “di aver compreso che le modificazioni ideologiche precedono e provocano le modificazioni economiche…. Perché il sistema economico chiamato capitalismo potesse sorgere, è stata necessaria una disposizione dell’individuo al risparmio che acconsenta l’accumulazione di capitali. Questa disposizione non è certamente <>, perché allora il <> si trasformerebbe in una costante della storia. Al contrario, perché l’individuo rinunci ai beni terreni e accumuli il valore, tutto sommato astratto, che si chiama denaro, c’era bisogno di una forte spinta ideologica che giustificasse un simile atteggiamento. Questa non poteva essere di sicuro la spinta ascetica medievale, perché l’uomo del Medioevo cristiano era portato a non curarsi della scarsità dei mezzi materiali, mentre nell’abbondanza era tenuto, almeno in teoria, ma molto spesso anche in pratica, a fare opere di carità. Ecco dunque sorgere, col puritanesimo, una forma di ascetismo completamente nuova, un ascetismo intramondano che non solo consente l’accumularsi delle ricchezze, ma impedisce formalmente e di goderne l’uso e di elargirle ai più bisognosi”23 Nel saggio Religione come sistema, Culianu suggerisce che non solo la religione, ma anche la nostra stessa esistenza, si possano tradurre in termini di sistema, e la rappresentazione che ce ne offre, si inspira alle proprietà dei frattali, ogni ramificazione dei quali è infinita, e risponde ad una certa regola. “La mia vita –scrive Culianu– è un sistema di frattali estremamente complesso, un sistema che si muove simultaneamente in più dimensioni”24. Ciò che vuole dirci è che in fondo noi possiamo cogliere solo una minima parte del sistema. “Ma in che modo -prosegue- è possibile tradurre in pratica i risultati di questa constatazione alquanto vaga, dalla quale risulterebbe che la religione (e tutto il resto) è un sistema? In realtà -egli risponde- non è una scoperta recente, ma ciò che essa implica in primo luogo è che i dati della religione sono sincronici e che la loro distribuzione diacronica è un’operazione le cui cause possiamo tralasciare di analizzare; oppure, ove se ne intraprenda l’analisi, occorre rifarsi continuamente a dimensioni sempre nuove di frattali infinitamente complessi. In questa 22
Eros e magia nel Rinascimento, op. cit., p. 10. Ioan Petru Culianu, Religione e accrescimento del potere, in Religione e potere, Marietti, Torino 1981, p. 230-31. 24 In Religioni. Enciclopedia Tematica Aperta, Jaca Book, Milano 1992, p. 133. 23
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prospettiva la religione non possiede una “storia”, e la storia in un dato momento non viene definita da una “religione”, ma solamente da qualche frammento incompleto di una religione. Perché una religione è prima di tutto un sistema infinitamente complesso e poi la parte di quel sistema che è stata scelta nel corso della sua storia”.25 3. La nozione di programma mentale Nelle ultime opere prima della morte Culianu accentua il carattere cognitivo delle sue indagini, e se come “storico cognitivo” egli solleva questioni inerenti al funzionamento della mente umana, come storico delle religioni punta l’attenzione su ciò che definisce il “programma mentale”. “Le religioni –dice Culianu- sono programmi mentali che derivano dell’impatto di un numero illimitato di fattori, interni ed esterni, sulla mente umana (…) parliamoci chiaro, questo è un gioco (…) con una posta individualmente e collettivamente molto alta: il senso dell’esistenza umana e l’avvenire dell’umanità”. E aggiungeva che: “Come uomini noi ci interroghiamo sulla qualità di un messaggio di una religione, ma come scienziati ci interroghiamo sul programma”.26 L’indagine su I miti dei dualismi occidentali27 aveva messo in luce un punto chiave che coinvolgeva i rapporti di dipendenza fra le varie formulazioni dualistiche dei sistemi gnostici. Il dualismo come categoria storico-religiosa nell’accezione utilizzata da Culianu, fa capo alla ‘opposizione tra due principi’: opposizione indica antagonismo, mentre principio ha a che fare con l’origine di qualche cosa. Nei sistemi gnostici, il dualismo presuppone la “presenza di due entità separate, ciascuna delle quali è all’origine di una sua propria creazione”28. Ugo Bianchi, maestro e iniziatore di Culianu negli studi sullo gnosticismo all’Università Cattolica di Milano, aveva fornito importanti contributi alle ricerche sulla storia del dualismo, tra cui la scoperta “che numerosi miti presenti nelle ‘grandi religioni’ hanno aspetto e origine dualistica”. Nella comparazione di varie 25
Tale prospettiva ricorda Culianu non è nuova e gli eresiologi cristiani e i dossologhi arabi sapevano bene che “qualsiasi eresia è la variante di un’altra eresia e che le diverse dottrine coincidono in base a regole alquanto evidenti”. Ivi, p. 134. 26 A cosa serve la religione?, in ‘Leggere’, n.32, giugno 1991. Cfr. anche G.Marchianò, Le aure di un tempo concluso, in La religione della terra, op. cit, p. 22s.. 27 Les gnoses dualistes d’Occident, Payot, Paris 1987 1989 (trad. it., I miti dei dualismi occidentali, Jaca Book, Milano 1989). Tesi di Doctorat d’Etat, discussa all’Università Sorbona con M. Meslin nel 1987. 28 Ivi, p. 26.
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mitologie in diverse aree, Ugo Bianchi aveva rilevato dei peculiari parallelismi, ossia versioni diverse di medesimi miti anche in popoli senza scrittura. Un tale risultato, rifletteva Culianu, oltre a porre il problema della genesi indipendente di questi racconti, solleva importanti quesiti in seno alla storia stessa delle religioni. Anche Claude Lévi-Strauss -ricorda Culianuaveva sollevato l’ipotesi di un meccanismo fondamentale alla base del pensiero umano, ossia la produzione di narrazioni simili nei più disparati contesti culturali. L’indagine sui dualismi occidentali metteva Culianu di fronte a nuove prospettive sull’origine e l’interpretazione della categoria dualistica. Gli facevano da guida le Remarques sur le dualisme religieux, un saggio di Mircea Eliade sul dualismo religioso in cui il dualismo era messo in rapporto con i sistemi di classificazione binaria. I miti dei sistemi gnostici mettevano in luce una struttura impostata dualisticamente dove due principi (quello delle cose buone e delle cose cattive) si contrapponevano. Dal canto loro le classificazioni di tipo binario offrono uno strumento utile per gerarchizzare i fenomeni che si presentano immediatamente come duali. Questa constatazione spingeva Culianu a indagare la possibile relazione tra il dualismo del fenomeno religioso nell’ambito che lo riguardava, e la struttura bicamerale del cervello umano, impressa nei suoi due emisferi29. Nel corso della sua evoluzione, il cervello dell’uomo, è andato incontro ad un processo peculiare di differenziazione funzionale tra i due emisferi. E’ stato accertato, ad esempio, che l’emisfero sinistro sia specializzato nelle funzioni linguistiche30. Considerato alla luce di queste considerazioni interdisciplinari, in virtù delle evidenze emerse nella struttura del pensiero mitico e nei rapporti di dipendenza tra le formulazioni dualistiche nei sistemi gnostici, il problema del dualismo finiva con l’imporsi non solo e non tanto come problema storico ma cognitivo. Culianu ne riferiva in un articolo su “Panorama” del 1989 come di una scoperta che gli era piombata addosso. 29
Culianu si rivolge tra gli altri alle ricerche neurofisiologiche del premio Nobel Roger Sperry. Ed anche alle indagini sulla “mente bicamerale” di Julian Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Adelphi, Milano 1984. Per quanto riguarda la formazione dei sistemi di classificazione simbolica binaria, si rivolge alle ricerche di R. Needham, Right and Left. Essays on Dual Symbolic Classification, (R. Needham a cura di), University of Chicago Press 1973 e dello stesso autore, Symbolic Classification, Goodyar, Santa Monica (Cal.) 1979. 30 R. W. Sperry, I due cervelli: neuropsicologia dei processi cognitivi (F.Denes e C. Umiltà a cura di), Il Mulino, Bologna 1968.
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Culianu intuiva che alla base dei miti gnostici si riconosce un “sistema ideologico” innestato nella mente dell’uomo: una “regola di produzione”, peraltro semplice, ne combinerebbe le sequenze logiche all’interno del sistema, generando tutte le varianti. Una variante del sistema viene scelta dal gruppo umano in base a ragioni economiche e sociali, ma “in generale si può dire che un sistema di idee (…) è fondamentalmente innestato nelle menti umane e dunque si svolge al buio, come il programma di un computer che poi esegue altre cose sullo schermo”.31 Quanto alla cosiddetta “semplice regola di produzione”, Culianu non forniva ulteriori specificazioni: ce ne restano soltanto interessanti spunti dove si intravede la direzione che quella ricerca avrebbe potuto prendere. Ma è nell’affabulazione narrativa -che è l’altra parte abbagliante di un sistema cognitivo in fieri, che Culianu sondava le regole della logica combinatoria, l’arte che fa capo al lato esoterico del pensiero di Raimondo Lullo e di Giordano Bruno. Questo sondaggio sotto la specie narrativa era svolto nel racconto, cronologicamente l’ultimo, dal titolo Il linguaggio della creazione32. E qui il tema cruciale della produzione mentale di ‘programmi’ si svolge in quello della ricerca di una lingua universale. Si tratta di una questione filosofica che ha coinvolto molti pensatori del passato, a proposito della cabala, della scrittura geroglifica, delle congetture su un alfabeto “divino” che sillaberebbe occultamente il processo di creazione della realtà. Qui Culianu mostra di essersi volto a una ulteriore ermeneutica incentrata sul tema del “linguaggio della creazione”. Sorprendentemente lo scavo delle varianti combinatorie, mostrava di prendere la direzione dell’indagine sulle moderne lingue artificiali e gli sviluppi cognitivi impliciti nelle tecnologie digitali. Emerge dunque un nuovo approccio allo studio delle civiltà e delle connessioni dinamiche delle idee, il fatto che le idee si ripropongano in forme mutanti, e in stretta relazione con i mutamenti della realtà materiale e della coscienza collettiva. Fra tanti problemi aperti nel pensiero interrotto dello studioso romeno c’è quello indecifrabile del rapporto tra immutabilità (dei programmi impiantati nel cervello come dei chip mentali), e della mutazione biologica e storica: un enigma che la sfrenata immaginazione di Giovanni Culianu aveva mostrato furtivamente di corteggiare. 31
“Panorama”, aprile 1989, in E. Zolla, Joan Petru Culianu 1950-1991, Tallone 1994. I.P.Couliano e H.S.Wiesner, On the language of Creation, in “Exquisite Corpse”(Aprile 1991).
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RELIGIONE POPOLARE E RELIGIONI ANTICHE. PROSPETTIVE COMPARATIVISTE Bogdan Neagota
Non si ha l’intenzione di presentare quì una storia dell’comparativismo storico ed etnologico-religioso, ma soltanto di tracciare alcune linee generali del problema che c’interessa: le basi epistemologiche dell’comparativismo tra le religioni antiche e le religioni folkloristiche europee negli ultimi due secoli, lo storicismo e il metastoricismo dei vari comparativismi, la ricerca delle origini della religione e la critica di questa ossessione culturale, le morfologie storiciste e trascendentali. Gli studi moderni di analisi comparata hanno esordito sotto il segno del Rinascimento, svolgendosi su due piani: i paragoni tra le società contemporanee cristiane e le religioni pagane antiche1 (amplificate dopo la Riforma, nel contesto delle polemiche tra i cattolici e i protestanti) e poì, cominciando dal XVII-esimo secolo, le prime ricerche comparative sistematiche sui miti delle culture antiche mediterranee in relazione con lo studio dei miti dei popoli estraeuropei “primitivi” (il problema delle origini degli amerindiani2). L’idea della ricerca di una religione primitiva è stata favoreggiata dalla resurrezione di un mito culturale e religioso tardoantico, la “rivelazione ermetica primordiale”, egiziana (Corpus hermeticum)3. Gli eruditi del Classicismo e del Barocco hanno sviluppato soprattutto le ipotesi orientali sulle origini della mitologia greca, cioè l’ipotesi microasiatica (giudaica4) e quella egiziana5, gli anelli intermediari essendo i Fenici (tra la 1
Julien Ries, Le mythe et sa signification. Bible, ethnologie, sociologie, psychanalyse, structuralisme, religion, Centre d’Histoire des Religions, Louvain-La-Neuve, 1982, cap.V. 2 I.Hallowell, The History of Anthropology as an Anthropological Problem, in R.Darnell (ed.), Readings in the History of Anthropology, Harper & Row, New York, 1965, pp.304321. 3 Mircea Eliade, Nostalgia originilor. Istorie şi semnificaţie în religie, Humanitas, Bucureşti, 1994, pp.66-70 (O revelaţie primordială). cf. M.Eliade, Contribuţii la Filosofia Renaşterii, Colecţia “Capricorn”, 1984. 4 J.Ries, op.cit., pp.63-64: Etienne Guichard (L’harmonie étimologique des langues hébraique, chaldaique, syriaque, grecque, latine…, Paris, 1606), Daniel Heinsius (Aristarchus sacer, Leiden, 1627), Gerhard Johan Voss (De theologia gentili, de origine ac progressu idolatriae, 1641), Samuel Bochart (Geographica sacra, Caen, 1646).
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Bibbia e la Grecia omerica) e, all’occorenza, Platone ed i neoplatonici (tra la religione egiziana e la mitologia greca). L’idea del ricupero delle origini della religione si amplifica nel contesto dello storicismo illuministico: il giudaismo come tradizione primordiale, che stà alla base della mitologia greca, per la diffusione di alcuni elementi vetero-testamentari6, le filiazioni storiche tra le religioni antiche7 nella ricerca di una religione primordiale rivelata (René Tournemine), le connessioni tra le religioni storiche e quelle primitive8. Un ruolo importantissimo negli studi di storia comparata delle religioni l’ha avuto l’Académie royale des inscriptions et belles lettres (fondata nel 1663 da Colbert), specializzata nello studio delle religioni antiche9. Charles de Brosses, rappresentante di questa scuola e studioso nella tradizione comparativistica (tra mitologia ed etnologia) di Lafitau, svolgendo delle ricerche nel campo in Sudan, ha cercato l’origine della religione primitiva nella psicologia umana, in due sentimenti religiosi essenziali (l’ignoranza e la paura), uniti nel concetto di “feticismo”: “la rassomiglianza tra le pratiche religiose che vediamo nei secoli e negli ambiti lontani ha una causa la cui esplicazione dev’essere cercata nei sentimenti dell’umanità, nella paura, nell’ammirazione, nella gratitudine.”10. Certo, per tutti questi ricercatori, il mondo dell’antichità classica era il modello paradigmatico e, in questo senso, il loro intervento comparativistico era legittimo. 5
Athanase Kircher (Oedipus Aegyptiacus, Roma, 3 vol., 1652-1654). J.F.Buddeus, H.Gebhardi, J.H.Maius, Friedrich Strunz. 7 Louis Dupuis (Mythologie ou histoire des dieux, des demi-dieux et des plus illustres héros de l’antiquité paienne, 1731), Guillaume de Lavaur (Histoire de la fable comparée avec l’histoire sainte…, 1730). 8 I rappresentanti della Scuola di Salamanca (Las Cassas e Acosta) - vedi B.Bucher, Le sauvage aux seins pendants, Hermann, Paris, 1977) e i gesuiti di Trevaux (missionari in Cina e in America). Padre Charlevoix e Lejeune, missionari in America di Nord. Jean François Lafitau, missionario in Canada (Moeurs des sauvages américains comparées aux moeurs des premiers temps, Paris, 1724): “La base della religione dei selvaggi di America è la stessa con quella dei barbari che hanno occupato la Grecia, e si sono sparsi per tutta l’Assia, la stessa che è servita poi come fondamento per tutta la mitologia pagana e per le favole dei Greci.” (ap. Michel Meslin, Ştiinţa religiilor, tr. rom., Humanitas, Bucureşti, 1993, p.35). 9 J.Ries, op.cit., pp.65-68: Padre Etienne Fourmont (la tesi dell’origine egiziana dei miti omerici), Michel Fourmont (specialista in etimologie), Padre Antoine Banier (l’ipotesi dei testi perduti, che sarebbe stata alla base delle mitologie omerica ed esiodica), Padre Foucher (la tesi del monoteismo primitivo), Nicolas Freret (la conciliazione tra il comparativismo storico e l’esegesi simbolica). 10 Du culte des dieux fétiches ou Parallèle de l’ancienne religion de l’Egipte avec la religion actuelle de la Nigritie, 1760, ap. M.Meslin, op.cit., pp.35-36. cf. J.Ries, op.cit., pp.67-68. 6
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Dopo lo storicismo moderato di Giambattista Vico11, che starà in gran parte alle basi dello storicismo italiano del XX-esimo secolo12, l’ossessione della ricerca delle origini di ogni creazione culturale e di tutte le istituzioni umane prende nuove dimensioni nel XIX-esimo secolo. Adesso si sviluppano due metodologie distinte, entrambi di natura morfologica: una morfologia storicista, fondata sull’idea della trasmissione provabile storicamente di alcune forme religiose antiche e l’altra, una morfologia trascendentale di ispirazione kantiana. Ma ambedue sono orientate verso il ricupero delle “origini” del fenomeno ricercato, cioè la ricerca di un “fenomeno originario” (Urphänomenon), di cui si suppone che sia stato alla base di tutti i fenomeni ulteriori nel corso del tempo. L’ambiguità era già presente nelle teorie biologiche di Goethe, il quale ha esitato molto tra un’accezione naturalistica della pianta archetipale (die Urpflanze) e una trascendentale, di programma ideale dell’oggetto naturale (Typus), ma senza affrontare il problema del modo in quale si svolge la trasformazione. Così, gli ultimi fondamenti del fenomeno religioso saranno cercati l’uno dopo l’altro nella Natura e nella Storia, visti come trascendenze immanenti e sorgenti di sacralità mundana. Sulla scia della tradizione naturalistica di Goethe e sotto l’impatto delle scienze naturali (l’evoluzionismo), la corrente naturalista riprende, su nuove basi epistemologiche, alcune tesi del fisicalismo allegorico antico13, cercando le origini della mitologia nei fenomeni della natura14: i fenomeni atmosferici, le nuvole e la tempesta (Alfred de Maury); la contemplazione del cielo e la malattia del linguaggio15 (Max Müller); i miti cosmici primitivi e i miti religiosi come risultato dell’associazione tra speculazione filosofica e poesia (Herman Oldenberg); le basi naturali della mitologia vedica, il prototipo della religione germanica (Wilhelm Mannhardt); gli dei come fenomeni naturali 11
vedi Philip Vanhaelemeersch, Jean Le Clerc and G.B.Vico: from “Protestant Euhemerism” to “Historical Mythology”, in corso di apparizione nell’Annuario dell’Academia Belgica, Roma, 2002. 12 vedi Benedetto Croce, La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte (1893), La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, 1893, în Primi saggi, Bari, 1919 e Teoria e storia della storiografia, Laterza, Bari, 1917. 13 Félix Buffiere, Miturile lui Homer şi gândirea greacă, Univers, Bucureşti, 1987, pp.66185. 14 M.Eliade, Nostalgia originilor, pp.76-81 (Obsesia originilor). 15 L’inesistenza di termini tecnici adeguati per esprimere le cause ed i principii generali e la presentazione delle teorie scientifiche in una forma drammatica; l’amplificazione di queste favole dai poeti (nomina → numina).
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personificati (Auguste Comte)16. Poi, le teorie naturaliste sono criticate dai rappresentanti della scuola storico-comparata17, che propongono tesi alternative di ispirazione storicista: la teoria dei prestiti18, la teoria dell’animismo19 e la teoria del monoteismo primitivo20. Certo, in ambedue i casi, la sola trasmissione accettata delle idee e pratiche magico-religiose è una rigorosamente storica. Cambia soltanto la fonte sull’origine del fenomeno, nel senso che adesso la storia diventa una realtà irriducibile. Però, l’ossessione delle origini rimane intatta e gli studiosi continuano a localizzare le origini della religione in paradigmi religiosi antichi, storici (Grecia, Roma, Babilone, Persia, India, Egitto, i Pelasgi) oppure “primitivi” (ridotti ad un certo aspetto considerato come dominante: animismo, totemismo ecc.). Si cercava così di dimostrare alcune discendenze dirette delle strutture mitiche specifiche delle culture “orali” (le fiabe) dai miti “originari”, prototipi mundani (appartenendo all’antichità greca e romano-elenistica, per esempio), che erano istituiti con un valore archetipale. Questa era la loro base epistemologica per un comparativismo morfologico tra le culture antiche e quelle etnografiche. Ricorro quì soltanto agli esempi più noti: i rappresentanti della Scuola mitologica21 e i “diffusionisti”22. Certo, il loro errore era uno di 16
La conclusione di Comte è che la mitologia non è religione e l’homo mythologicus non è un homo religiosus. 17 Victor Rydberg considera le tesi della scuola naturalista come un romantismo prolungato e un folklore mitologico; le sue ricerche mirano allo sfondo comune dei miti ariani e germanici. 18 L’indo-europenistica e lo studio dei miti nordici (Sophus Bugge) e la dottrina panbabilonese, applicata agli studi biblici (Hugo Winkler, O. Gruppe, A. Jeremias). 19 Edward Tylor (Primitive culture, 1871: la mitologia come prodotto dell’immaginazione dei primitivi) e Herbert Spencer (Principles of sociology, 1876: il culto degli spiriti, l’adorazione della natura e il culto degli antenati). 20 Andrew Lang (Custom and Myth, 1883, Modern Mythology, 1897: la critica delle teorie di M.Müller. The Making of Religion, 1898: la critica dell’animismo di Tylor e la teoria di un monoteismo primordiale - la credenza primitiva in un dio supremo non è accompagnata dai miti), Leo Frobenius (l’ipotesi solare sui miti africani), Paul Ehrenreich (l’ipotesi selenare sotto la genesi delle mitologie agrarie). Il Padre Wilhelm Schmidt (Der Ursprung des Gottesidee, 12 vol., 1926-1955: il pensiero primitivo monoteista non ha generato un culto, ma si è alterato). 21 I Fratelli Grimm, Max Müller ed i loro corrispondenti romeni (Athanasie Marienescu, Elena Niculiţă-Voronca, Aron Densuşianu e.a.) e sassoni di Transilvania (Arthur e Albert Schott, Johann Karl Schuller). 22 India (Max Müller, Theodor Benfey, B.P.Haşdeu, Lazăr Şăineanu, Moses Gaster); Babilone (A.Jensen, H.Winkler, E.Stucken); Italia, Dacia, Tracia, Persia, Egipt (E.NiculiţăVoronca); Tracia (Dan Botta e, più recente, Gh.Muşu) e i Pelasgi (N.Densuşianu).
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livello metodologico, tributario allo storicismo specifico per quel periodo, che determinava questa febbre della ricerca di filiazioni di tipo storico tra fenomeni religiosi appartenedo ad alcuni contesti spazio-temporali lontani. Alla base di questa costruzione storico-religiosa risiede la confusione tra l’origine (origo) di un fenomeno, che è rintracciabile attraverso un metodo meta-storicista e il suo inizio (initium), identificabile con un metodo storicista23. In una situazione simile si trovano anche i rappresentanti della Scuola Finnica, anzi malgrado il loro intervento geografico-storicisto (la corroborazione dello studio di tutte le varianti con la loro diffusione territoriale e l’anzianità storica) sia sostenuto da una morfologia estremamente rigorosa (la conoscenza e la sistemazione di tutte le varianti di una narrazione). Tutte le articulazioni di questa metodologia esaustiva hanno come obiettivo l’identificazione della forma narrativa primaria (il prototipo, l’archetipo) dal quale provengono tutte le variante conosciute. Ancora una volta, il “fenomeno originario” è ricercato attraverso la sua trasmissione storica e geografica, in virtù della determinazione delle coordinate spaziotemporali originarie. I rappresentanti dello storicismo classico sostengono la necessità di una critica comparata dei miti, secondo un metodo storico e filologico. Anche le tradizioni orali sono accettate come uniche fonti per alcuni periodi storici, ma devono essere sottomese ad una selezione rigorosa dello storico, a causa della loro mancanza di fidelità (deformazione, mescolanza, alterazione) rispetto ai miti “originari” (come apparivano nell’India antica)24. Il punto estremo di questa corrente, che accredita come autentico soltanto il documento scritto oppure archeologico, è illustrato dalla teoria dell’origine scritta delle fiabe orali, sostenuta tale quale da Theodor Benfey e sfumata poi da una richissima erudizione del Moses Gaster25. La scuola storica si fonda così sulle scienze sviluppate negli ultimi secoli, cioè l’archeologia (fonte essenziale per lo studio delle religioni mediterranee antiche), l’etnologia, la filologia comparata (l’orientalistica, la linguistica e la grammatica comparata) e la sociologia (Comte, Durkheim, Wundt). Il punto comune per 23
Karl Jaspers, Introduction à la philosophie, Plon, Paris, 1970, pp.151-152. cf. M.Eliade, Nostalgia originilor. Istorie şi semnificaţie în religie, Humanitas, Bucureşti, 1994, pp.66-90 (cap. “În căutarea ‘originilor’ religiei”). 24 Karl Ottfried Müller, Prolegomena zu einer wissenschaflicher Mythologie, Göttingen, 1825. 25 Studies and Text in Folklore, Magic, Medieval romance, Hebrew Apocripha and Samaritan Archeology, 3 vol., London, 1925-1928.
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quasi tutti i tipi di storicismo rimane il rifiuto della ricerca del simbolismo religioso specifico per il mito, dunque un diniego dell’ermeneutica, a causa del suo carattere metastorico e una sacralizzazione delle scienze storiche sotto l’impatto del hegelianismo26. I “morfologisti” trascendentali sono rimasti più fedeli a Goethe, il fondatore unanimmente riconosciuto del metodo morfologico. Rispetto agli storicisti, il loro intervento mira a toccare intuitivamente il livello paradigmatico (i “fenomeni originari”) attraverso le analogie. Per Goethe, l’Urphänomenon è un “prodotto dello spirito”, una “rappresentazione di natura intuitiva”27 che non può essere appropriata dall’“intelletto puro” sennon soltanto al rischio dell’alienazione (mania), ma può essere “vista dall’occhio interiore”, come le idee platoniche. La struttura del “fenomeno originario” è di tipo coincidentia oppositorum28, simile alla categoria del sacro per la fenomenologia della religione. Le ermeneutiche trascendentali, metastoriche, minoritarie negli ultimi tre secoli29, acquistano terreno, e il mito viene rimesso nei diritti, diventando il concetto centrale della riflessione per Lessing, Herder e Schelling. Lessing ha sottopposto il razionalismo religioso ad una critica radicale, dalla prospettiva della realtà storica delle religioni30. Herder, influenzato da Hume (la tesi dell’originare la mitologia e la religione nel sentimento dell’angoscia) e da Vico (l’importanza del medio sociale e culturale nello sviluppo religioso) è il fondatore della mitografia romantica31, che si costituisce in un metodo ermeneutico, incentrandosi sul concetto di intuizione sensibile. La poesia, il mito e la religione sono realtà isomorfiche, la cui origine non si deve cercare altrove, attraverso filiazioni storiche, ma nella cultura popolare autoctona. Da quì anche lo sviluppo senza 26
K. R. Popper, The poverty of Historicism, Routledge, London, 1961. The Open Society and its Enemies, George Routledege & Sons, London, 1945, vol.I-II. 27 Lucian Blaga, Fenomenul originar, nel volume “Zări şi etape”, Minerva, Bucureşti, 1990, pp.114-123. 28 vedi la teoria goetheana del “demonico” (Das Dämonische), il “fenomeno originario” per eccelenza. 29 Sotto la corrente “simbolista” (l’esegesi allegorica oppure morale) vedi J.Ries, op.cit., pp.68-70: Nicolas Silvestre Bergier (i miti come sacralizzazioni del cosmo, del sistema politico e della gente), Antoine de Gebelin (i miti come calchi di avvenimenti storici e culturali o di azioni naturali, Charles François Dupuis (la religione come natura riflessa nello specchio: deismo), Leclerc de Septchenes (il monoteismo originario greco e l’ulteriore politeismo). 30 Lessing, L’education divine de l’humanité, 1780. 31 Von Enstehung und Fortpflanzung der religionsbegriffe, 1768.
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precedente dell’etnologia, il folklore essendo una componente essenziale per le definizioni identitarie romantiche, soprattutto nelle società est-europee32. La mitografia romantica si sviluppa seguendo tre direzioni maggiori33, nelle quali lo storicismo specifico è sostenuto da metodi ermeneutici: il romantismo allegorico (il panteismo di Arnold Kanneg, G.Welcker), il romantismo poetico (K.P.Moritz) e il romantismo simbolistico, quest’ultimo valorizzando la natura (Ch.G.Heyne) e la mistica religiosa indù34 o nordica35. Il comparativismo romantico, fondato sull’idea di una relazione storica tra le mitologie indiana, greca e nordica, in virtù dello stesso pensiero religioso, allude alla configurazione di paralellismi dottrinari (dovuti alle costanti della psicologia umana e ai comportamenti sociali simili nei confronti della natura) e non al paragone tra elementi minimali (invarianti). Il mito diventa l’espressione di una verità trascendente, una visione poetica e religiosa del mondo (Weltanschauung), che è un messaggio divino espresso attraverso la creazione. Allo stesso tempo, esso è l’espressione di un linguaggio-veicolo di una rivelazione divina nella natura, scoperta da una divinità immanente (panteismo). Quelli che hanno creato questo linguaggio mitico sono i sacerdoti (il culto vedico e brahmanico: le mitologie mistiche ) e i poeti (le mitologie poetiche greche e nordiche)36. Di conseguenza, lo studio dei miti rischia a dissolversi in sistemi esoterici di tipo gnostico, evolvendosi verso il postulato ermetico dell’unità trascendente delle religioni. Per lo studio della religiosità folklorica, il positivismo storicista e le ermeneutiche metafisiche romantiche sono ugualmente azzardate: nel primo caso - il comparativismo storico, con il suo primato assoluto del documento scritto, nel secondo – il carattere quasi mistico della cultura popolare, vista 32
Cf. Paul Cornea, Originile romantismului românesc. Spiritul public, mişcarea ideilor şi literatura între 1780-1840, Minerva, Bucureşti, 1972, pp.498-509 (Descoperirea folclorului). 33 J.Ries, op.cit., pp.74-77. 34 Fr.Creuzer (il primato dell’immagine rispetto al discorso, l’incapacità dei greci di capire il pensiero religioso indiano e la creazione di miti greci da sacerdoti indù; la triplice spartizione della religione: monoteismo, panteismo, mitologia), J.Görres (le manifestazione di Dio nella natura e la sua espressione poetica nei miti). 35 Jakob Grimm (Deutsche Mythologie, 1844, ed.II: il monoteismo primitivo e l’analisi della reazione che un popolo ha nei confronti della natura), L.Uhland (Der Mythus von Thor nach nordischen Quellen, 1836: la natura in quanto emanazione della divinità e il mito come personificazione di essa, dell’emanazione di quasta natura divina; le tradizioni orali quali espressioni essenziali, e quelle poetiche in quanto forme particolari). 36 J.Ries, op.cit., pp.79-80.
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come ricettaculo di una religione primordiale. Le radici intellettuali del comparativismo storico e di quello mitologico, tra le religioni antiche e le religioni folkloristiche moderne si ritrovano nella stessa ossessione delle origini, concepite diversamente e ricercate con metodi opposti. Soltanto il salto del comparativismo dallo storicismo fattuale (basato sull’idea delle influenze) verso un comparativismo categoriale (tipologico, fondato sul concetto di analogia) e universalizzante, quello degli invarianti37, aprirà nuove strade nella comprensione della religiosità popolare. Il comparativismo dei rapporti della storia evenimenziale individualizza, ristringe il campo visivo orientato verso la differenza, verso il particolare. Il comparativismo degli invarianti cerca l’unità delle identità, le permanenze nascoste oltre le variazioni. “Esso riduce le distanze, tende ad una sintesi globale di tutti gli elementi e dei denominatori comuni che vanno messi in risalto”38, dimostrando la solidarietà strutturale delle idee del pensiero magico-religioso. Le critiche storiciste degli invarianti mirano ai caratteri tipici di questi strumenti: essenzialismo, superficialità, generalità, carattere statico e statistico, attenzione esclusiva alle identità, mancanza della prospettiva storica ecc... L’invariante è un “fatto di ricorrenza, di circolarità”, che ignora l’ordine cronologico tradizionale a vantaggio della propria sistemazione, diventando così un complesso coerente attraverso il quale traspare l’essenziale e l’universale. Non si tratta dell’annullamento della prospettiva storica, ma di un approcio radicalmente diverso, con una legittimità propria39 e di una complementarità, dato che il problema di ordine storico della (poli)genesi degli invarianti, della loro circolazione e della loro diffusione passa in secondo piano40. Si tratta di una sintesi realizzata a metà distanza tra un metodo astratto e lo storicismo, che propone soluzioni mediani, che si 37
cf. Adrian Marino, Comparatism şi teoria literaturii, Editura Polirom, Iaşi, 1998 (titl. orig.: Comparatisme et théorie de la littérature, PUF, 1988), cap.IV-V. 38 Id., ibid., p.76. 39 “Il punto di vista storico (…) può benissimo ‘coesistere’ con qualsiasi prospettiva ‘ statica’ – a meno che siano chiaramente definite tanto la dissociazione tra questi due termini, quanto il rapporto essenza/storia, la chiave del conflitto. (…) Che cos’è un invariante se non in punto di incrocio dei piani fenomenologico e storico? Esso si edifica, di conseguenza, su una doppia struttura: una permanente e una transitoria... L’invariante rappresenta una sintesi variabile di costante ed effimero, di essenziale ed accidentale storico.” (A.Marino, op.cit., pp.67-68) 40 “… l’invariante fa riferimento all’identità di certi elementi, mentre il suo statuto storico – alla funzione.” (A.Marino, op.cit., p.90).
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trovano all’incrocio tra un invariante e una situazione storica41. Il comparativismo basato sullo studio degli invarianti ha generato una vera e propria rivoluzione metodologica nelle scienze umane42, tanto più che è apparso dopo una lunga cattività in metodi storico-genetici, implicando uno spostamento del paradigma dalla storia verso la teoria (scienza delle religioni). Nella prima metà del XX-esimo secolo, il comparativismo metastorico applicato al fenomeno religioso si sviluppa prevalentemente nella psicologia culturalista (psicologia jungiana) e nella fenomenologia. Un precursore della corrente jungiana, Adolf Bastian43, sosteneva già nella seconda metà del XIX-esimo secolo l’esistenza di alcuni invarianti di tipo kantiano: Elementargedanken (pensieri fondamentali, innati in ogni individuo), fattori ipotetici che non possono essere visti, ma soltanto supposti alla base di Völkergedanken (pensieri nazionali), attestati storicamente in varie culture. Le teorie oniriche sull’origine delle fiabe44, elaborate nello stesso periodo, si fondano sull’isomorfismo tra il fenomeno magico “primitivo” e l’onirismo, considerato come base ontologica. I psicanalisti di stampo jungiano riprenderanno questa omologia, per creare un’ermeneutica allegorista (nel senso della tradizione ermeneutica tardoantica), che agisca con le unità minimali dell’inconscio - gli archetipi45 -, e si fondi sull’omologia tra i scenari mitico-narrativi e quelli psichici, nel senso che 41
“ Questo tipo di lettura non si colloca fuori della storia”, ma “porta l’impronta del suo momento storico e della tradizione storica alla quale appartiene, che ne determina la definizione ed il contenuto (…). Integrato in una particolare tradizione storica in continuo movimento e di cui si approria, il comparativismo ermeneutico si assume, con l’aiuto della sua griglia, la totalità dei dati storici e tradizionali che vanno ricuperati in questo modo. Le due “storicità” coincidono, dunque, all’interno di una sintesi, di un continuum in cui il passato diventa presente e il presente prende le vesti di un passato attualizzato per assimilazione.” (A.Marino, op.cit., pp.120-121) 42 Georges Dumézil, Ugo Bianchi, Joachim Wach, Mircea Eliade (la storia comparata delle religioni), Lucian Blaga (la filosofia della cultura), Ruth Benedict (l’antropologia) e.a. 43 Adolf Bastian, Beiträge zur vergleichenden Psychologie, Berlin, 1868. cf. le teorie dei rappresentanti della scuola simbolica (Chr. Heyne, Fr. Creuzer, Joseph Görres). 44 Ludwig Laistner (il motivo dell’incubo), Karl von der Steinen (l’onirico e il magico), Georg Jakob (la relazione tra fiaba e sogno), Bogdan Petriceicu Haşdeu (l’origine onirica delle fiabe). 45 “L’archetipo è non solo un ‘pensiero elementare’, ma anche un’immagine, una fantasia poetica elementare, un’emozione e perfino una pulsione elementare diretta ad un’azione tipica. Esiste, dunque, (..) tutt’un substrato fatto di sentimento, di emozione, di fantasia e di impulso ad agire, che (…) deve invece essere integrato nella nozione di pensiero elementare.” (Marie Louise von Franz, Le fiabe interpretate, Editore Boringhieri, Torino, 1980, p.8.)
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ogni narrazione mitica è una traduzione simbolica di un conflitto psichico. Altrimenti, Jung stesso sottolineava il carattere parziale delle categorie filosofiche (anche quelle della scuola fenomenologica) di “tipo-pensiero”, che dimenticano che un’immagine archetipale è non solo un “modello di pensiero”, ma anche un’“esperienza emotiva individuale”46. Sulla scia di Jung, Marie Louise von Franz affronterà la narrativa di tradizione orale dalla prospettiva multipla delle funzioni della coscienza (il “tipo-pensiero”, il “tipo-sentimento”, il “tipo-sensazione”) che si integrano nell’unità di un “unico messaggio” sotto il segno del “tipo-intuizione”47. Su posizioni altrettanto metastoriche si collocano le ricerche nel campo della fenomenologia della religione48, che, in variante classica (R. Otto, G. van der Leeuw, F. Heiler, C. J. Bleeker) si rifiutano de facto l’impresa storica e qualsiasi condizionamento estrareligioso del sacro. Van der Leeuw, per esempio, si è interessato non soltanto alla “rivelazione delle strutture interne dei fenomeni religiosi”, che si riduce a tre strutture basilari (Grundstrukturen), rispettivamente al dinamismo, all’animismo e al deismo49. Soltanto Mircea Eliade approderà ad una morfologia complessa dei fenomeni religiosi50, ulteriormente continuata attraverso un metodo diacronico e una storia delle strutture e delle idee religiose51. La sua metodologia storico-religiosa si sviluppa su tre livelli di ricerca. Al livello storico sono interrogati i miti vivi, le mitologie già esistenti nelle società primitive attuali oppure nelle culture popolari europee e i miti storici (mitologie dislocate e reinterpretate, trasformate e arricchite). L’analisi dei dati etnologici concede al ricercatore di studiare la struttura dei miti e il comportamento specifico del homo religiosus e, in maniera analogica, di capire meglio i miti antichi (accessibili soltanto a livello documentare) e il 46
C. G. Jung, I simboli e l’interpretazione dei sogni (1961), in Opere, vol.8, Edizioni Boringhieri, ap. M. L. von Franz, op.cit., p.9. 47 M. L. von Franz, op.cit., p.14. 48 vedi J.Martín Velasco, Introducere în fenomenelogia religiei, Polirom, Iaşi, 1997. 49 G.van der Leeuw, La religion dans son essence et ses manifestations. Phénoménologie de la religion, Payot, Paris, 1948. cf. M.Eliade, Nostalgia originilor, pp.62-64. 50 Mircea Eliade, Tratat de istorie a religiilor, Humanitas, Bucureşti, 1995 (editia a II-a), cap.I (Aproximări: structura şi morfologia sacrului), pp.17-44. Id., Imagini şi simboluri. Eseu despre simbolismul magico-religios, Humanitas, Bucureşti, 1994, pp.11-32. Id., Nostalgia originilor. Istorie şi semnificaţie în religie, Humanitas, Bucureşti, 1994, pp.62-64. cf. Michel Meslin, Ştiinţa religiilor, Humanitas, Bucureşti, 1993, pp.157-164 (Morfologia fenomenelor religioase). 51 vedi Ioan Petru Culianu, Mircea Eliade, Nemira, Bucureşti, 1995, pp.98-109.
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loro significato religioso52. La fenomenologia viene impiegata nella penetrazione all’interno dell’evento religioso e nella sua comprensione. L’ermeneutica implica la comprensione esistenziale del messaggio del fenomeno religioso da parte dell’ermeneuta. La scienza delle religioni deve identificare, mettere in risalto, capire e tradurre i diversi fenomeni religiosi, le diverse strutture del pensiero religioso, gli atteggiamenti e le situazioni assunte dagli uomini nel corso della storia53. Dato che l’impresa di tipo fenomenologico non mette “tra parentesi” il contesto storico che in una tappa preliminare, per delineare l’“essenza e la struttura dei fenomeni religiosi”54 ed è soltanto uno dei due versanti della “scienza integrale delle religioni”. In questo senso, malgrado il metastoricismo del suo metodo55, Eliade sfocia nel vichianesimo56 e nello storicismo aperto dell’ultimo periodo di Pettazzoni57, che il primo completa attraverso un’iniziativa di natura ermeneutica in grado di superare la neutralità del discorso storicista vero e proprio58. Ma lo storicismo classico e 52
Mircea Eliade, De la Zalmoxis la Genghis-Han, Editura ştiinţifică şi enciclopedică, Bucureşti, 1980. cf. l’ipotesi protomediterranea dell’origine dei riti puberali e guerreschi greci in Henri Jeanmaire, Couroi et Courètes. Essai sur l’education spartiate et sur les rites d’adolescence dans l’antiquité hellénique, Bibliothèque Universitaire, Lille, 1939, chap.III (Rites d’éphébie et classes d’âge dans l’Afrique contemporaine). 53 Mircea Eliade, Nostalgia originilor. cf. Georges Dumézil, Les dieux des Germains, Paris, 1959, p.21 şi Mythe au roman, Paris, PUF, 1970. 54 M.Eliade, Nostalgia originilor, pp.64-65 (“Fenomenologi” si “istoricisti”). 55 cf. la critica storicista della fenomenologia religiosa in Ernesto de Martino, Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro (a cura di Marcello Massenzio), Argo, Lecce, 1995. 56 vedi Philip Vanhaelemeersch, Vico: New Lights on Eliade and his Critics, în “Archaeus. Etudes d’Histoire des Religions”, tome IV (2000), fasc.4, Bucarest, pp.79-121. 57 “Phenomenology and history complement each other. Phenomenology cannot do without ethnology, philology and other historical disciplines. Phenomenology, on the other hand, give the historical disciplines that sense of the religious which they are not able to capture. So conceived, religious phenomenology is the religious understanding (Verständniss) of history; it is history in its religious dimension. Religious phenomenology and history are not two sciences but are two complementary aspects of the integral science of religion, and the science of religion as such has a well-defined character given to it by its unique and proper subject matter.” - Raffaele Pettazzoni, The Supreme Being: Phenomenological Structure and Historical development, în vol. “The History of Religions. Essays in Methodology” (Edited by Mircea Eliade and Joseph M.Kitagawa), The University of Chicago Press, Chicago London, 1962, p.66. 58 “Non si devono confondere, però, le circostanze storiche che fanno sicché un’esistenza umana sia quello che è con il fatto che c’è un simile dato, che è l’esistanza umana stessa. Per lo storico delle religioni il fatto che un mito o un rito sia sempre storicamente condizionato,
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le sue ossessioni culturali (il primato del documento validato dalla critica testuale59 e la ricerca storica delle origini della religione60) rimangono la mira di critiche costanti. Allo stesso tempo, Eliade compie il salto dalla semplice morfologia ad un’ermeneutica “totale”, “creatrice”, la cui finalità sarebbe l’istituzione di un “nuovo umanesimo”61. Alla questione della trasmissione delle strutture religiose risponderà, però, ricorrendo a elementi universali, patterns (modelli esemplari), collocabili in una zona transcosciente dell’uomo, zona non dimostrata, ma soltanto presupposta per mancanza di contra-argumenti62, e diversa tanto dal conscio, quanto dall’subconscio (Freud) o dall’inconscio collettivo (Jung). D’altronde, il parallelismo tra i patterns di Eliade, gli archetipi di Jung63 e i “fattori stilistici” (Blaga)64 mantiene la sua validità, malgrado l’insistenza ontologica dei primi. Risulta significativo, da questo punto di vista, il ricorso di Eliade alla psicanalisi di Jung: la critica di alcuni errori metodologici (la confusione fatta tra sogno – che è una realtà individuale – e mito – che è comunitario e universale; il riduzionismo) e il riconoscimento dei meriti (la riscoperta dei simboli e dei temi mitici nella psyche dell’uomo moderno). Secondo Eliade, la storia delle religioni non va confusa con le altre discipline connesse (psicologia, etnologia, sociologia ecc.), ma ne deve valorizzare sinteticamente i dati. In questo senso, il rapporto dello storico delle religioni con l’etnologia resta uno di cooperazione, non di sovrapposizione: l’etnologo studia il comportamento mistico nelle sue manifestazioni storiche, mentre lo storico delle religioni
non spiega l’esistenza stessa di questo mito o rito. In altre parole, la storicità non ci dice quello che è, in fin dei conti, l’esperienza religiosa. Si sa soltanto che il sacro può essere segnalato soltanto attraverso le sue manifestazioni, che sono sempre storicamente condizionate. Ma lo studio di queste espressioni storicamente condizionate non risponde alla domanda: Che cos’è il sacro? Cosa significa, in fin dei conti, un’esperienza religiosa?” M.Eliade, Nostalgia originilor, p.90. 59 vedi la critica del “primato dei documenti” degli storicisti nel saggio Folclorul ca instrument de cunoaştere, nel volume “Insula lui Euthanasius”, Fundaţia regală pentru literatură şi artă, Bucureşti, 1934, pp.28-49. 60 Nostalgia originilor, cap. 3 (În căutarea “originilor religiei”). 61 I.P.Culianu, op.cit., pp.124-130. cf. Wilhelm Dancă, Mircea Eliade. Definitio sacri, Ars Longa, Iaşi, 1998, pp.153-159. 62 Mircea Eliade, Imagini şi simboluri, pp.11-32 (Cuvânt înainte). 63 vedi I.P.Culianu, Mircea Eliade, pp.77-84. 64 Lucian Blaga, Trilogia cosmologica, în Opere XI, Minerva, Bucureşti, 1988, pp.329-338 (Arhetipuri si factori stilistici).
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mira alla rivelazione degli ingranaggi ermeneutici del mito grazie ad un metodo integrativo65. La critica di Ioan Petru Culianu, formulata in una maniera molto categorica negli studi scritti dopo il 1983 prende di mira lo storicismo tedesco, al quale rimprovera tanto l’ossessione della ricerca delle origini culturali o geografiche di alcuni fenomeni religiosi (teoria della trasmissione storica)66, quanto i metodi metastorici, rispettivamente il comparativismo degli invarianti (criticato come insufficiente, contraddittorio e incapace di sorprendere la specificità dei metodi religiosi)67, la psicanalisi jungiana (respinta per la mancanza di una base cognitiva della nozione di “inconscio collettivo”) e le ermeneutiche fenomenologiche (interessate al significato dei miti e dei comportamenti religiosi), tributari alla tradizione metafisica europea68. Culianu si colloca sulle posizioni della tarda modernità, rifiutando i concetti “forti” dell’ermeneutica e sottopone ad una critica di principio persino il valore cognitivo del “principio esplicativo” (explanatory principle), che condurrebbe “o alla regressione infinita (spostando sempre il prolema accanto o indietro) o alla postulazione di alcune essenze …opache o confuse”69. Alla tesi diffusionista tradizionale Culianu contrappone la teoria alternativa della trasmissione cognitiva attraverso le nozioni correlative di intertestualità e di tradizione culturale70. La novità fondamentale del metodo proposto consiste nel fatto che supera tanto il modello storicista di diffusione, incentrato sulla tesi della trasmissione delle idee attraverso testi scritti, quanto le teorie comparativiste fondate su elementi psicologici universali (archetipi) o ontologici (patterns). 65
M.Eliade, Nostalgia…, cap. I-III. Vedi la critica delle teorie iraniane oppure egiziane in I.P.Culianu, Psychanodia, Nemira, Bucureşti, 1997 (ed. engl.: 1983), cap.II (O eroare istorică: teoriile propuse de religionsgeschichtliche Schule). cf. I.P.Culianu, Experienţe ale extazului. Extaz, ascensiune şi povestire vizionară din elenism până în Evul Mediu, Nemira, 1998 (ed. fr.: 1984). 67 Sulla critica del metodo degli invarianti (Hans Jonas, C.Colpe, H.M.Schenke, Ugo Bianchi) dello gnosticismo I.P.Culianu, Gnozele dualiste ale Occidentului, Nemira, Bucureşti, 1995 (ed. fr.: 1990), pp.81-84. 68 I.P. Culianu, Călătorii în lumea de dincolo, Nemira, Bucureşti, 1994, cap.I. 69 vedi H.-R. Patapievici, Ioan Petru Culianu: o mathesis universalis, nel volume I.P.Culianu, Gnozele dualiste ale Occidentului, p.353. 70 La tradizione culturale, “complessa e indipendente dalla trasmissione di interri sistemi di idee”, è un “sistema ideale” di natura frattalica, composta da norme gruppate in complessi limitati come numero che dovrebbero “produrre nelle menti umane, e in un arco di tempo virtualmente infinito gli stessi risultati” (ibid., p.11); cf. il modello ermeneutico di tipo caballistico. 66
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Anzi, esso prende in considerazione proprio lo specifico delle culture orali, in cui la diffusione è meno visibile, supponendo, il più delle volte, soltanto la trasmissione di un “principio ermeneutico generale” (un sistema di proposizioni atomiche, tipo “asserzione ontologica” e un “meccanismo di generazione, che è dato da un procedimento binario di scelta di tipo sì/no”71), che produce “testi” conformi a questo e non ad un testo anteriore. La dimensione diacronica non è elusa, ma edificata su basi epistemologiche nuove attraverso la ridefinizione del concetto di storicità come “integrazione morfodinamica degli oggetti ideali”72 e un “complesso processo di integrazione tra le menti umane”73. L’ultima teoria discussa in questa sede è quella di Carlo Ginzburg, che, su piano metodologico, sostiene la convergenza di un metodo storicista e uno transistorico. Benché storiografo di formazione, l’autore risente acutamente l’impossibilità dell’impiego di un metodo storico classico, che consiste nell’“impiego della successione cronologica come filo conduttore”, per l’analisi dei documenti (scritti) appartenenti a periodi e spazi geografici lontani l’uno dall’altro.74 In questo senso, Ginzburg si avvicina inizialmente ai miti, alle credenze e ai riti, basandosi su “affinità puramente formali”, senza “la preoccupazione per il loro inquadramento in uno spazio storico plausibile”. La giustificazione metodologica la troverà solo ulteriormente, nelle riflessioni di Wittgenstein in margine al Ramo d’oro (Frazer): “La spiegazione storica come ipotesi di sviluppo è soltanto un modo di 71
H.R.Patapievici, op.cit., p.363. I.P.Culianu, Arborele gnozei. Mitologia gnostică de la creştinismul timpuriu la nihilismul modern, Nemira, 1998 (ed. orig.: 1992), Introducere. cf. Gnozele…, p.165. 73 I.P.Culianu, I viaggi..., pp.11-13: “La trasmissione cognitiva è di tipo storico; essa presuppone una rielaborazione continua di antiche credenze, implicando oblio, annullamento e innovazione continua. (...) Sarà quì sufficiente ripetere che per trasmissione cognitiva intendiamo una riconsiderazione attiva della tradizione, che si fonda su un semplice insieme di norme, e il fatto che ogni singolo individuo partecipi a questa tradizione spiega perfettamente la tenace persistenza di molte pratiche e credenze. Ognuno infatti pensa una parte di tradizione, e talora viene da questa pensato; e in questo processo si raggiunge l’autoconsapevolezza cognitiva che ciò che è pensato è sperimentato, e tutto ciò che è sperimentato ha un riscontro in ciò che è pensato.” 74 “Il ricostituirsi di una cultura estremamente densa, da una parte, e dall’altra, frammentariamente e casualmente documentata, implica, almeno in maniera provvisoria, la rinuncia ad alcuni postulati della ricerca storica: innanzitutto a quello di un tempo unilineare e uniforme. Nei processi (di stregoneria –n.n) si confrontavano non soltanto due culture, bensí radicalmente eterogene.” - Carlo Ginzburg, Istorie nocturnă. O interpretare a sabatului, Polirom, Iaşi, 1996, p.20. 72
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raccogliere i dati in insiemi sinottici. È altrettanto possibile guardare i dati nel loro rapporto reciproco e riassumere in un’immagine generale senza che essa abbia la forma di un’evoluzione cronologica. Questa rappresentazione sinottica (übersichtliche Darstellung) assicura una comprensione che consiste proprio nell’afferrare le connessioni. Da quì, l’importanza di trovare gli anelli intermediari.”75 Ginzburg rifiuta ugualmete il concetto di archetipo (così come esso appare da Jung)76, “le manifestazioni primordiali del sacro” (Eliade), l’ipotesi delle “strutture invarianti costanti della mente umana” (Vernant e Detienne), e il modello diffusionista classico77, riformulando in una maniera radicale il concetto di archetipo, il quale lo vede come una “autorappresentazione della corporalità”, che “stà operrando come uno schema, come un’istanza mediatrice con carattere formale, in grado di rielaborare esperienze relative ad alcune caratteristiche fisiche del genere umano, traducendole in configurazioni simboliche potenzialmente universali”78. Lo studioso cerca di evitare la trappola degli elementi universali, ricorrendo alla semiologia strutturalista79, che utilizza anche nel suo approccio con il metodo storico. Il precedente lo trova nella tesi di Levi-Strauss riguardante il rapporto dilemmatico che l’antropologia stabilisce con la storia80, dal quale si distacca, però, in quello che riguarda lo statuto ancillare dell’istoriografia. Per il Ginzburg, “la partita vera e propria tra l’antropologia e la storia” si gioca in un “medio che si trova tra la profondità astratta della struttura (preferita da Levi-Strauss) e la concretezza superficiale dell’evento”81. Anzi, la 75
Id., ibid. Id., ibid., p.23: “il termine manda … più o meno esplicitamente, ad un’eredità dei caratteri culturali esistenti, impossibile da dimostrare”, con “pretensioni esplicativi … totalmente inconsistenti, proprio razzistici potenzialmente”. 77 Id., ibid.: “il contatto oppure la continuità sono degli avvenimenti esterni, insufficienti a spiegare la migrazione in spazio e in tempo dei fenomeni culturali – soprattutto se questa suppone, come nei casi in discuzione, aree molto grande.” 78 Id., ibid., p.249. 79 Id., ibid., p.250: “l’elemento universale non è rappresento dalle unità isolate (zoppi, esseri metà uomo – metà animale, uomini con un solo sandalo), bensì dalle serie aperte che li includono per definizione. Più precisamente: non dalla concretezza del simbolo, ma dall’attività categoriale che, così come si vedrà, rielabora simbolicamente esperienze concrete (fisiche). Tra quest’ultime dobbiamo includere soprattutto l’esperienza corporale di grado zero: la morte.” 80 Claude Levi-Strauss, Histoire et ethnologie, în “Annales E.S.C.”, 38/1983, p.1227). cf. C.Ginzburg, op.cit., pp.25-26. 81 Id., ibid., p.27. 76
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BOGDAN NEAGOTA ● Religione popolare e religioni antiche. Prospettive comparativiste
“dimensione temporale diventa (...) una dimensione esplicativa”82, nella misura in cui, grazie al “comparativismo retrospettivo” si può arrivare ad un “significato primario”, “nel senso, estremamnte relativo, della più antica che si potrebbe raggiungere.”83 “La ricostituzione storica” non può essere sostituita con una ricerca di tipo morfologico, dato che mettendo tra parentesi la dimensione temporale, si otterrebbe un “quadro inevitabilmente alterato”, tarato dall’assenza di rapporti di forza. La morfologia è operante soprattutto nel caso dei periodi e dei spazi precari dal punto di vista della documentazione scritta, per sondare “uno strato profondo, altrimenti intangibile”. Ma la traduzione dei dati presentati “sulla base delle affinità formali” in “termini storici” diventa obbligatoria per il Ginzburg.84 Tuttavia la sua tesi esposta nella Storia notturna fallisce proprio in questo punto, in cui prova di edificare una macro-teoria pan-sciamanica concernente uno spazio e un intervallo temporale enorme. Abbiamo presentato quì soltanto alcune posizioni, più antiche o più recenti, relative al rapporto tra i comparativismi metastorici e quelli storicisti. La polemica esistente tra le due schiere e lontana dall’essere stata chiusa. Però, la ricerca attuale non può ignorare l’esistenza di alcune continuità morfologiche tra le culture antiche mediterranee e le culture popolari del sudest europeo e quelle romanze. In questo senso, si considera che il ricorso all’impresa storico-religiosa diventa più che necessario nell’ambito degli studi etnologici. Tra la religiosità popolare antica e quella specifica per le culture folkloristiche moderne ci sono delle continuità e delle discontinuità, che non possono essere messe in luce che attraverso un accostamento interdisciplinare, che possa integrare in maniera costruttiva la sincronia e la diacronia.
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cf. E.Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Torino, 1976, vol.I, p.7. C.Ginzburg, op.cit., pp.28-29. 84 Id., ibid., p.21. 83
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