Methexis Didattica 2
Mauro Lenci
Le metamorfosi dell’antilluminismo Aspetti ed itinerari del dibattito sui Lumi nella storia del pensiero politico
Lenci, Mauro Le metamorfosi dell’illuminismo : aspetti ed itinerari del dibattito sui Lumi nella storia del pensiero politico / Mauro Lenci (Methexis. Didattica ; 2) 940.25 (21.) 1. Illuminismo - Studi critici CIP a cura del Sistema bibliotecario dell’Università di Pisa ISBN 978-88-8492-482-7
Il presente lavoro beneficia, per la pubblicazione, di un contributo a carico dei fondi di Ateneo dell’Università di Pisa.
Methexis - Didattica - collana diretta da Maria Chiara Pievatolo Questo volume fa parte delle iniziative editoriali del progetto Methexis ed è disponibile anche on-line, in formato pdf, al seguente indirizzo: http://bfp.sp.unipi.it/ebooks/
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“Di tutte le scienze la più meravigliosa e la più importante è la conoscenza di sé, perché chi conosce sé stesso conoscerà anche Dio” Clemente d’Alessandria (Pedagogia)
A Letizia, che più di tutti mi ha aiutato a conoscere me stesso.
Indice
Introduzione .................................................................................
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1. Una vexata quaestio: illuminismo o illuminismi? ....................
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2. I sentieri della modernità: Liberalismo e democrazia .............
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3. Le origini dell’antilluminismo: Bossuet e i cattolici francesi, Swift, Vico, Rousseau, Tucker ed Herder.....................................
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4. Il pettine della rivoluzione: La reazione cattolica, Burke, Fichte ed il Romanticismo ............................................................
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5. Un’idra a due teste: Liberalismo e industrialismo. Coleridge e Carlyle .........................................................................................
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6. Andare oltre l’illuminismo: Hegel, Saint-Simon, Marx ed Engels ............................................................................................. 117 7. Alle origini del male moderno: Il radicalismo aristocratico di Taine, Renan e Nietzsche ............................................................. 129 8. Il corto circuito dell’antilluminismo: Georges Sorel .............. 167 9. La lunga notte della civiltà illuministica: 1914-1945 ............... 191 10. Il fuoco antilluminista sotto la cenere del benessere: Il conservatorismo anglo-americano, la scuola di Francoforte, lo strutturalismo francese ................................................................. 247 11. I travestimenti dell’antilluminismo: la destra e la sinistra postmoderne .................................................................................. 283 12. Conclusioni: Illuminismo, laicità, religione .......................... 325 Bibliografia .................................................................................... 337 Indice dei nomi ............................................................................. 365
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Introduzione
L’illuminismo sul banco degli imputati, questo il titolo della recensione che Sergio Luzzatto ha scritto per il libro di Roberto Vivarelli, I caratteri dell’età contemporanea, nel quale, scrive Luzzatto, “sulla soglia degli ottant’anni, l’insigne docente della Normale non trova di meglio che riscaldare la minestra nella quale – da due secoli e mezzo – il pensiero reazionario va annegando il proprio piagnisteo sulla corruzione dei costumi e il disincanto del mondo”1. E questo in effetti sembra essere l’ennesimo libro che si unisce alla lunga, secolare, sequela delle opere che si sono scagliate contro la civiltà dei Lumi. Alcuni anni fa, a questo proposito, Eugenio Scalfari, constatava come allora, essere illuminista, fosse il vero modo per andare controcorrente; il mondo, infatti, sembrava ancora soffrire “per un drammatico deficit di razionalità”, piuttosto che per un “eccesso” di questa, dato che “la Kultur romantica o più semplicemente arcaica del sangue e della terra” aveva per millenni dominato il pianeta ed era tutt’ora prevalente2. Scalfari, con queste osservazioni, aveva dato il via ad un fortunato dibattito sulla stampa italiana, in parte da lui stesso raccolto nel libro Attualità dell’illuminismo, nel quale si era cercato di individuare le caratteristiche dei Lumi e di tracciare un bilancio della loro eredità. Alessandro Pagnini, recensendo l’opera su “Il Sole 24 ORE”, avrebbe però constatato che, nonostante “i buoni propositi di Scalfari un compiaciuto «sonno della ragione» domina[va] con poche eccezioni la scena filosofica italiana”; non solo, la lettura dei vari contributi l’aveva convinto “che a soccorrere l’illuminismo in crisi d’identità (oltre che d’attualità) si [erano] precipitati anche molti anti-illuministi: neoromantici, ermeneuti, pensatori della differenza, pensatori deboli, S. LUZZATTO, L’illuminismo sul banco degli imputati, “Corriere della Sera”, 11 maggio 2005. 2 E. SCALFARI, Il nostro secolo senza Lumi, in Id. (a cura di), Attualità dell’illuminismo, Bari, Laterza, 2001, pp. 6-7. 1
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Introduzione
nichilisti, spiritualisti e postmoderni vari. Insomma, proprio quelli che Scalfari additava come gli affossatori dei valori dei Lumi”3. Pagnini certo non aveva tutti i torti se, in quella raccolta, autori come Franco Volpi e Sergio Givone si domandavano se non fosse stata “messa troppo affrettatamente da parte” la lezione di Horkheimer ed Adorno o se, Roberto Esposito riteneva che “la risposta più convincente” alla domanda sull’illuminismo, fosse stata quella fornita da Michel Foucault e Gianni Vattimo minacciasse di mettere “la mano alla pistola” tutte le volte che sentiva parlare di “verità «oggettive»”4. Fuori da questa silloge altri scrittori e giornalisti erano ‘andati giù’ ancor più duramente. Marcello Veneziani, ad esempio, sul “Giornale”, aveva rimarcato polemicamente come il “neoilluminismo” si fosse ritratto sconfitto di fronte al trionfo del giubileo del Papa e avesse sventolato bandiera bianca anche all’interno della redazione di “Repubblica”, dove molti dei collaboratori della pagina culturale erano in realtà “figli e figliastri di Schopenauer e Nietzsche, di Heidegger e Jünger”5. A dire il vero, continuava Veneziani, la causa più profonda della sconfitta dei Lumi stava nel trionfo della civiltà consumistica che faceva “leva più sull’emisfero emotivo e irrazionale, sui desideri e gli istinti”, che sulla ragione. L’illuminismo era stato sconfitto “dai mostri che [aveva] esso stesso evocati”, ed invece di portare avanti la “liberazione” dell’individuo, come aveva promesso, era approdato ad una maggiore “alienazione”, impoverendo spiritualmente l’uomo. I Lumi, più che per causa dell’oscurantismo, si erano spenti per un “cortocircuito da essi stessi determinato”6. Quando Scalfari ha tentato di riassumere cosa fosse l’illuminismo, ha respinto decisamente la distinzione tra illuministi francesi 3 A. PAGNINI, Tutti i travestimenti dell’anti-illuminismo, “Il Sole 24 ORE”, 4 novembre 2001. 4 In E. SCALFARI (a cura di), Attualità dell’illuminismo cit., pp. 33, 13, 44, 42. 5 M. VENEZIANI, L’illuminismo si è spento da solo, “Il Giornale”, 12 gennaio 2001. 6 Ibid.
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Le metamorfosi dell’antilluminismo
ed anglosassoni perché entrambi si erano battuti per la società aperta. I Lumi, quindi, oltre ad essere la netta cesura tra antico regime e modernità, avevano innalzato la bandiera della libertà individuale e della tolleranza, dell’uguaglianza di fronte alla legge e della democrazia, dell’equilibrio dei poteri e del cosmopolitismo, e si erano battuti per l’abolizione dei privilegi di ogni genere e “contro l’uso temporalistico della religione e (...) le sue pretese di assolutezza e di esclusivo possesso e magistero della verità”7. Il dibattito innescato dall’ex direttore di “Repubblica”, si era svolto interamente prima che l’undici settembre 2001 rendesse ineludibile la questione del fondamentalismo islamico, del fanatismo religioso e del terrorismo internazionale ad esso collegati. La civiltà illuministica, archiviata vittoriosamente la guerra contro il totalitarismo comunista, subiva inaspettatamente un inedito ed insidioso attacco militare. Non si deve dimenticare che, al di là delle farneticazioni di Osama Bin Laden, l’“ideologo di punta del radicalismo islamico”, Sayyd Qutb (1901-1966)8, nell’arco temporale della sua vita aveva già ingaggiato una strenua lotta teorica proprio contro l’eredità illuministica del pensiero politico occidentale, rea di aver permesso di respingere le verità trascendentali in favore della limitatezza delle conoscenze umane9. In questo suo progetto l’autore islamico è affiancato da Euben, in un inedito paragone, ai filosofi communitarian: “Come Qutb”, ha scritto Euben, “teorici così diversi come Alasdair MacIntyre, Charles Taylor e Robert Bellah ritengono che il razionalismo dell’illuminismo abbia provocato una rottura della tradizione e dei fondamenti trascendenti che ha fatto fluire via il significato dal mondo e ha distrutto concezioni dell’autorità, della comunità e della morale, in precedenza solide”10.
E. SCALFARI, Il nostro secolo senza Lumi cit., pp. 8-9. R. GUOLO, Il fondamentalismo islamico, in E. PACE, R. GUOLO, I fondamentalismi (1998), Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 43. 9 R.L. EUBEN, Comparative Political Theory: An Islamic Fundamentalist Critique of Rationalism, “The Journal of Politics”, 1997, n. 1, p. 51. 10 Ibid., p. 53. 7 8
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Introduzione
Questa comparazione semplicemente serve per dimostrare come il retaggio illuminista sia stato messo sotto accusa non solo da una nutrita schiera di autori interna alla nostra tradizione di pensiero ma anche dalle élite culturali extraeuropee, che si sono sentite minacciate dalla globalizzazione e dalla modernizzazione. Le pretese dell’illuminismo di costruire una civiltà universale, nella pace e nel rispetto reciproco sono state infatti decisamente respinte, fuori e dentro l’Occidente, perché viste quali minaccia assimilazionistica alle specificità ed alle differenze culturali al punto da invocare, da più parti, una resistenza contro il capitalismo globalizzante ed una cultura di massa che tende all’omogeneizzazione ed all’omologazione verso il basso. Il caso più emblematico che ci svela i caratteri di questa ostilità riguarda uno dei frutti più preziosi dell’illuminismo, la concezione dei diritti dell’uomo, rifiutata da altri popoli e culture, perché vista solo come “una merce da esportazione” invadente11, un grimaldello che permette l’ingerenza umanitaria12, un paravento per coprire le pretese egemoniche degli Stati Uniti d’America e dei suoi alleati. Nella dichiarazione di Bangkok dell’aprile 1993, 49 paesi asiatici avevano messo in discussione l’universalità dei diritti dell’uomo. Questa era valida solo in natura, perché in realtà tali diritti dovevano “essere considerati nel contesto di un processo normativo internazionale dinamico ed in evoluzione, mantenendo ben presente il significato delle particolarità regionali e nazionali e dei vari background storici, culturali e religiosi”13. Tale evento avrebbe ridestato la polemica sugli Asian Values che vennero contrapposti proprio ai diritti individuali di origine illuministica. Il tiranno di Singapore, Lee Kuan Yew, avrebbe infatti stigmatizzato, in una famosa interviCfr. A. GAMBINO, Gli altri e noi: la sfida del multiculturalismo, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 50. 12 Massimo Fini l’aveva giudicata “una categoria giuridica nuova di zecca” che aveva giustificato l’invasione del Kossovo (M. FINI, Il vizio oscuro dell’occidente. Manifesto dell’antimodernità, Venezia, Marsilio, 2002, p. 35). 13 In M. JACOBSEN, O. BRUUN (eds), Human Rights and Asian Values. Contesting National Identities and Cultural Representation in Asia, Richmond, Curzon, 2000, p. 135. 11
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Le metamorfosi dell’antilluminismo
sta, il loro essersi trasformati “in dogma”, la loro espansione a danno delle società asiatiche ben ordinate che concepivano l’individualità solo nel contesto della famiglia14. Questo tipo di giustificazioni, in fondo, erano state date anche dagli intellettuali anti-liberali della Cina comunista, preoccupati di salvaguardare la priorità dello Stato e dei suoi interessi, in termini di “bene comune”, dalle pretese dello scetticismo individualista che conduceva al declino delle virtù sociali e che era stato sostenuto dagli “intellettuali illuminati” dissidenti15. Per quanto riguarda l’India, vale la pena ricordare che, il premio Nobel Naipaul, diversi anni prima, aveva lamentato l’impotenza di qualsiasi sistema legale di fronte alla struttura sociale indiana. Esso non avrebbe mai potuto funzionare finchè avessimo dato “più importanza al dharma che non agli elementari diritti dell’uomo”16. In realtà su questi temi, alcuni commentatori, hanno visto una sorta di manovra strategica di certi leader asiatici proprio “per distogliere l’attenzione da violazioni palesi dei diritti umani compiute dai regimi autoritari”17. Eppure questi diritti, anche tra gli intellettuali occidentali, non sembra che abbiano goduto di maggior credito: John Gray, per esempio, ha messo in luce la loro incompatibilità con l’empirismo moderno, al punto che nel futuro, con l’ingegneria genetica, avremmo potuto modificare persino la stessa natura dell’uomo18; Jean Baudrillard non ha fatto altro che sottolineare la loro
F. ZAKARIA, Culture is Destiny. A Conversation with Lee Kuan YEW, “Foreign Affairs”, 1994, n. 2, pp. 111-113. Yew aveva detto di non essere “intellettualmente convinto” che la formula “un uomo-un voto” fosse la “migliore” (Ibid., p. 119). 15 B.L. MCCORMICK, D. KELLY, The Limits of Anti-Liberalism, “Journal of Asian Studies”, 1994, n. 3, pp. 808-809, 820. 16 V.S. NAIPAUL, India: A Wounded Civilization (1977), London, Penguin, 1979, p. 132 (trad. it., Una civiltà ferita: L’India, Milano, Adelphi, 2001, p. 197). 17 T. WEI-MING (ed.), Confucian Traditions in East Asian Modernity. Moral Education and Economic Culture in Japan and the Four Mini-Dragons, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1997, p. 345. 18 J. GRAY, Liberalism, Milton Keynes, Open University Press, 1986, pp. 4647. 14
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Introduzione
“stupidità”19, e MacIntyre ha scritto che credere in essi “è come credere nelle streghe e negli unicorni”20. Questa categoria di diritti con la relativa concezione di tolleranza, è stata messa in discussione, all’interno delle società occidentali, soprattutto dal cosiddetto “progetto multiculturalista”, che va sostenendo l’esistenza di diritti collettivi, di veri e propri diritti culturali che dovrebbero precedere quelli di origine illuministica ma che in realtà rischiano di “balcanizzare” tali società21. Massimo Fini vede nell’illuminismo la tabe totalitaria dell’evangelizzazione e lo considera responsabile di una società che ha trasformato gli uomini in consumatori, succubi alle esigenze economiche e tecnologiche, schiavi “di un meccanismo che va per conto suo”, e che li ha resi incoscienti come “ranocchie che, opportunamente stimolate, devono saltare anche quando vorrebbero star ferme”22. Da dove proviene tutto questo astio? Quali sono le radici dell’antilluminismo contemporaneo? Quali i sentieri le strade che hanno condotto fin qui? Quali gli argomenti e le idee più ricorrenti e quali le trasformazioni cui sono state sottoposte nei diversi contesti politico-intellettuali? Questo libro cerca di ripercorrere criticamente alcuni degli itinerari in cui si è articolato il dibattito sui Lumi nella storia del pensiero politico moderno. Il cammino che viene tracciato, senza avere la pretesa di essere esaustivo e completo, cercherà preliminarmente di mostrare (capitoli I e II), come al di là della contrapposizione interpretativa illuminismo/illuminismi, i Lumi abbiano visto irrompere l’individualismo democratico, in tutte le sue accezioni: religiosa, morale, politica, economica e cultuJ. BAUDRILLARD, La trasparence du mal, Paris, Galilée, 1990, p. 11. A. MACINTYRE, After Virtue. A Study in Moral Theory (1981), London, Duckworth, 1985, pp. 69-70 (trad. it., Dopo la virtù, Milano, Feltrinelli, 1988, pp. 90-91). 21 Cfr. C. TAYLOR, Multiculturalism. “The Politics of Recognition”, Princeton, Princeton University Press, 1992, pp. 52, 63-64; B. PAREKH, Superior people. The Narroweness of Liberalism from Mill to Rawls, “Times Literary Supplement”, feb. 25th, 1994, p. 13; G. SARTORI, Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica, Milano, Rizzoli, 2000, pp. 55-114. 22 M. FINI, Il vizio oscuro dell’occidente cit., pp. 67, 57-58. 19 20
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Le metamorfosi dell’antilluminismo
rale, contro il pregiudizio aristocratico, per andare a formare la struttura portante delle nostre liberal-democrazie. In opposizione alla modernità operante si sarebbero subito alzate diverse voci e vedremo come, nei capitoli III e IV, a partire dalla polemica cattolica di Bossuet, attraverso Rousseau ed Herder, per arrivare sino a Burke ed al romanticismo, l’armamentario dell’antilluminismo fosse ormai pronto in tutte le sue componenti di destra e di sinistra. Nei capitoli V e VI tenteremo di illustrare come la critica alle Lumières ed ai Philosophes si sarebbe trasformata in un attacco al liberalismo ed all’industrialismo e prenderemo come esempio le invettive di conservatori e reazionari come Coleridge e Carlyle, ma anche quelle di Hegel e S. Simon, concludendo con il tentativo di ricezione e superamento di tutte queste posizioni da parte di Marx ed Engels. Il capitolo VII esplorerà invece le accuse rivolte all’illuminismo nella seconda metà dell’800, accuse caratterizzate anche dai primi tentativi di andare a ricercare indietro nella storia le origini del male moderno: dopo le analisi di Taine e Renan seguiremo le critiche radicali di Nietzsche, critiche destinate ad avere grande fortuna. Nel capitolo successivo prenderemo in esame quel clima di totale discredito della ragione che avrebbe attraversato la cultura occidentale dall’inizio del secolo sino all’avvento del fascismo, individuando in Georges Sorel l’elemento catalizzatore delle più svariate tradizioni antimoderne. Il capitolo IX, più che occuparsi di qualche scrittore in particolare, vuole ricostruire per sommi capi quel dibattito sulla crisi della civiltà illuministica che aveva preso corpo tra le due guerre e che aveva portato ad una avversione profonda nei confronti della massificazione della società. I capitoli X e XI cercheranno di dare un quadro d’insieme delle varie fogge dell’antilluminismo contemporaneo, critico del soggetto cartesiano e del razionalismo strumentale e costruttivista, dell’individualismo edonista e del consumismo. Passeremo perciò dall’analisi dei temi cari al neoconservatorismo anglosassone, agli argomenti centrali nella teoria critica della scuola di Francoforte ed all’antiumanesimo del pensiero francese post-bellico, per affrontare poi i caratteri del rifiuto totale del pro-
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Introduzione
getto illuminista da parte della destra e della sinistra ‘postmoderne’. Per l’ultimo capitolo si tratta, più che di conclusioni vere e proprie, di un breve saggio sull’odierno dibattito riguardante le fondamenta etiche della democrazia, dibattito che vede ancora una volta l’illuminismo sedere sul banco degli imputati, accusato di essere il principale responsabile del decadimento morale delle nostre società. Ringrazio i professori Claudio Palazzolo e Roberto Giannetti, discutendo con i quali parti di questo lavoro, ho ricevuto preziose indicazioni e utili suggerimenti. Desidero ringraziare anche la professoressa Maria Chiara Pievatolo che ha permesso che quest’opera venisse pubblicata nella collana da lei diretta. La mia riconoscenza va infine al professor Domenico Settembrini senza la cui lezione questo libro non avrebbe potuto neppure essere concepito. Avvertenza: I corsivi e le parole in maiuscolo all’interno delle citazioni sono presenti nei testi originali. Le citazioni dai testi stranieri, dove non altrimenti indicato, sono da me tradotte.
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1. Una vexata quaestio: illuminismo o illuminismi?
Da quando si è cercato di capire che cosa fosse, che cosa rappresentasse l’illuminismo, a partire dalla famosa risposta kantiana che invitava l’uomo ad avere coraggio, a servirsi della propria ragione per uscire da quello stato di minorità in cui erano altri a guidarci1, si è scelta prevalentemente una strada: la ricerca della sua essenza filosofica, di un nucleo di verità, che era tale alla sua origine, e che, tutt’oggi, manterrebbe un fondamento di validità. Su questa via una lunga serie di interpretazioni divenute ormai classiche. Quella di Ernst Troeltsch, ad esempio, aveva visto nell’illuminismo l’opposizione netta alla cultura teologica, al dominio pratico della rivelazione2. Su questa linea, approfondendo la prospettiva, si poteva considerarlo come un attacco indiscriminato contro le credenze tradizionali in nome della ragione critica: questa, in sostanza, la pista seguita da Ernst Cassirer e da Peter Gay3. Anche Ira Wade, d’altronde, pur concentrando la sua analisi sull’illuminismo francese, aveva scorto quattro chiare tendenze che erano già apparse varie volte nella storia dell’umanità. Queste tendenze, tra ambiguità ed elementi di incompatibilità, portavano dalla tradizione alla modernità, da una società teocratica ad una democratica, dal dominio della religione a quello della politica, dall’organizzazione sociale all’individualismo4. 1 I. KANT, Beantwortung der Frage: was ist Aufklärung (1784), in Id., Was ist Aufklärung, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1985, p. 55. 2 E. TROELTSCH, Der Aufklärung (1897), in Id., Gesammelte Schriften, Tübingen, J.C.B. Mohr, 1925, vol. IV, p. 338. 3 E. CASSIRER, Die Philosophie der Aufklärung (1932), in Id., Gesammelte Werke, Hamburg, Felix Meiner Verlag, 2003, vol XV, p. xv, e P. GAY, The Enlightenment: an Interpretation:, vol. I: The Rise of Modern Paganism, New York, Knopf, 1966, p. 3. 4 I. WADE, The Structure and Form of the French Enlightenment, vol. I, Esprit Philosophique, Princeton, Princeton University Press, 1977, p. 650.
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1. Una vexata quaestio: illuminismo o illuminismi?
Forse un tratto distintivo comune delle varie interpretazioni, fin dai primi decenni del XIX secolo, è stato quello della percezione dei Lumi come una frattura epocale, il vero e proprio inizio della modernità occidentale; nel bene e nel male, the pursuit of modernity, per usare sempre le parole di Peter Gay. A questo proposito lo stesso Troeltsch aveva già sottolineato la peculiarità e l’importanza dell’illuminismo come forza dirompente, ben oltre quella del Rinascimento e della Riforma5. Ed inizio della modernità, per Lester Crocker, aveva voluto anche dire, completando il quadro, inizio della crisi morale della nostra cultura, con la perdita della base metafisica dei suoi valori e la conseguente confusione etica6. Per i suoi sostenitori, come per i suoi avversari l’Illuminismo è stato costantemente percepito quale premessa e spina dorsale della modernità se non addirittura come suo alias7. Riformulando l’interrogativo kantiano Foucault vi aveva visto inoltre, non solo l’evento inaugurale della modernità europea, un semplice episodio della storia delle idee, ma anche una sorta di processo permanente che portava costantemente a porsi delle domande sull’attualità e le funzioni della filosofia moderna, come sullo stesso ruolo della ragione critica in un determinato contesto storico8. E. TROELTSCH, Der Aufklärung cit., p. 358. Cfr. P. GAY, The Enlightenment: an Interpretation:, vol. I: The Rise of Modern Paganism cit. Vedi anche V. FERRONE, D. ROCHE (a cura di), L’illuminismo nella cultura contemporanea (1997), Bari, Laterza, 2002, p. 5, e Z. STERNHELL, Contro l’illuminismo. Dal XVIII secolo alla guerra fredda (2006), Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2007, p. 52. 6 L.G. CROCKER, An Age of Crisis. Man and World in Eighteenth Century French Thought, The John Hopkins Press, 1959, p. xi. 7 D. OUTRAM, The Enlightenment, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, p. 8, R. VIERHAUS, Ideas, Skepticism, and Critique. The Heritage of the Enlightenment, in J. SCHMIDT (ed.), What is Enlightenment? Eighteenth-Century Answers and Twentieth Century Questions, Berkeley, University of California Press, 1996, p. 331, P.M. GREGORIOS, A Light too Bright. The Enlightenment Today, Albany, State University of New York Press, 1992, p. 34, R.S. RUDERMAN, Odysseus and the Possibility of Enlightenment, “American Journal of Political Science”, 1999, n. 1, p. 138, W. GABARDI, The Philosophical Politics of the Modern-Postmodern Debate, “Political Research Quarterly”, 1994, n. 3, p. 769. 8 M. FOUCAULT, Qu’est que les Lumières? (1984), in Id., Dits et écrits, Paris, Gallimard, 1994, vol. IV, pp. 681-688. Per Mark Lilla le categorie di illuminismo 5
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Le metamorfosi dell’antilluminismo
Daniel Brewer, seguendo l’invito di Foucault, ha ribadito l’importanza della critica autoriflessiva dell’illuminismo, sottolineando che la prospettiva che esso ci indica, sarebbe così stringente da mettere in discussione “qualsiasi critica che possa essere prodotta, inclusa quella dello stesso illuminismo e della filosofia”9. Brewer ha poi denunciato come l’illuminismo non sia stato altro che “un oggetto mutevole e sfaccettato, un prodotto degli ultimi duecento anni e passa di storie inventate” per raccontarlo10. L’impasse rilevata da Brewer è stata, se così si può dire, il sintomo di una necessità, percepita da molti storici già dall’inizio degli anni Settanta, di abbandonare la ricerca di un solo modello di spiegazione, quasi sempre derivato dall’esperienza francese, o da quella tedesca. La storiografia sull’illuminismo ha preferito così concentrarsi sui diversi contesti storici in cui questo si sarebbe manifestato, e nella ricerca delle sue diverse modalità di attuazione. Privilegiando l’analisi storica a discapito di quella filosofica, è stata messa perciò in discussione l’unicità stessa del fenomeno illuministico e si è preferito parlare e sottolineare i vari aspetti e caratteristiche prettamente nazionali in cui questo fenomeno si è declinato. Sicuramente tra i primi ad indicare tale percorso è stato Franco Venturi. Egli, nell’introduzione del 1970 all’edizione italiana delle “Trevelyan Lectures” tenute a Cambridge l’anno precedente, aveva sostenuto infatti che il dibattito sui Lumi, nei termini in cui si era sino ad allora svolto, aveva rischiato e rischiava “di deviare la ricerca portandola su una strada sbagliata”. Persino autori come Condillac, Voltaire, Diderot, e d’Alembert, secondo Venturi, avevano chiaramente manifestato la propria avversione nei riguardi dei sistemi filosofici, il loro interesse non era stato catalizzato da astratte teorie ed antilluminismo esprimerebbero, non qualcosa di storico, bensì di eterno nell’esperienza umana (M. LILLA, Che cos’è l’antilluminismo, in “Micromega”, 1996, n. 1, p. 111). 9 D. BREWER, The Discourse of Enlightenment in Eighteenth-Century France: Diderot and the Art of Philosophizing, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, pp. 2, 15. 10 Ibid., p. 55.
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1. Una vexata quaestio: illuminismo o illuminismi?
giuridiche, ma si era indirizzato verso la religione, lo stato, il governo, la terra, il commercio. Oggetti della polemica di Venturi erano stati da una parte, il dominio assoluto che, secondo lui, aveva esercitato l’interpretazione filosofica della Aufklärung tedesca da Kant a Cassirer, un vero e proprio “cerchio magico” da cui era difficile uscire, dall’altra l’interpretazione marxista, che aveva teso ad inglobare l’illuminismo dentro di sé, spiegandolo in base agli schemi di Marx ed Engels come l’ideologia della borghesia in sviluppo. Tale lettura era divenuta ormai uno dei maggiori ostacoli alla sua reale comprensione. Per Venturi il moto dei Lumi non era altro che “un cerchio storico conchiuso in sé stesso, ma che tende[va], in determinate circostanze, a riaprirsi e a riprendere il percorso del suo ciclo di problemi e di scoperte”11. La presenza di Venturi a Cambridge non era stata certo casuale, proprio da Cambridge infatti, come ha raccontato John Pocock, era partito “un indirizzo o movimento (...) di studiosi intenzionati a rimodellare la storia del pensiero politico, presentandola come storia del linguaggio e del discorso politico”12. Su questa linea si sarebbero mossi, nel 1981, Roy Porter e Mikulas Teich curando il volume The Enlightenment in National Contexts, che mirava a mettere in evidenza la radicale diversità che aveva assunto l’illuminismo una volta che si era incarnato nelle diverse realtà culturali nazionali13. Ricondurre gli autori ai propri contesti politico-culturali era sembrata dunque una salutare correzione per contraddire, come scrive Isztvan Hont, la vulgata ‘post-rivoluzione francese’, che aveva fatto della teoria politica illuministica “un idioma ottimistico, esageratamente razionalista e prematuramente secolare”14. Non solo, ha precisato Hont, F. VENTURI, Utopia e riforma nell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1970, pp. 9, 11, 13, 19, 20. 12 J.G.A. POCOCK, Introduzione all’edizione italiana di Id., Il momento machiavelliano (1975), Bologna, Il Mulino, 1980, p. 17. 13 R. PORTER, M. Teich (eds), The Enlightenment in National Contexts, Cambridge, Cambridge University Press, 1981. 14 I. HONT, Commercial Society and Political Theory in the Eighteenth-century: The Problem of Authority in David Hume and Adam Smith, in W. MELCHING, W. VALEMA (eds), Main Trends in Cultural History, Amsterdam, Rodopi, 1994, p. 54. 11
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c’è un rinnovato apprezzamento del carattere profondamente politico e religioso della maggior parte della storia sociale, politica ed intellettuale del XVIII secolo, ma ripercorrendo il lavoro di Grozio, Hobbes, Pufendorf, Smith, Kant ed Hegel, ci accorgiamo come il dibattito sulla teoria politica e la società commerciale, intento a comprendere come una moderna società, basata sulla sociabilità commerciale, potesse sperare in una decente e stabile vita di comunità e di ordine politico, fu davvero una delle principali preoccupazioni del periodo che va dal preilluminismo alla sua reazione15. Emblematici sono i casi di due autori come David Hume e Adam Smith, tra i maggiori rappresentanti dell’illuminismo scozzese, che per Hont furono “sinceramente ansiosi su alcuni aspetti cruciali della modernità”16. Se le istanze conservatrici di Hume e Smith possono non colpire l’attenzione, che dire allora dell’inquietudine di Diderot scaturita dalla prospettiva di un progresso verso l’ignoto, della sua convinzione che “l’industria dell’uomo è andata troppo lontano, e se si fosse fermata molto prima, e fosse stato possibile semplificare la sua opera, noi non staremmo peggio”17? Come valutare quei deisti conservatori che, secondo Crocker, “vedevano nell’attacco al cristianesimo una follia che minacciava le basi morali della società”, e che si chiedevano se gli uomini avrebbero continuato a seguire il cammino della virtù18? Il tema principale che è stato al centro di queste riconsiderazioni è, senza dubbio, quello del rapporto tra illuminismo e religione, a partire almeno dai lavori di Bernard Plongeron sul “catholicisme Ibid., pp. 55, 71. Ibid., p. 58. 17 D. DIDEROT, Réfutation suivie de l’ouvrage d’Helvétius intitulé, l’Homme (1783-86), in Id., Œuvres Complètes, Paris, Le Club Français du Livre, 1971, vol. XI, p. 628. Cfr. D. SETTEMBRINI, Dal predominio dell’ideologia alla progettazione sociale, in AAVV, L’eredità del Novecento, Istituto editoriale dell’Enciclopedia italiana, Roma, 2001, vol. I, p. 232, L. GUERCI, Libertà degli antichi e libertà dei moderni. Sparta, Atene e i philosophes nella Francia del ‘700, Napoli, Guida, 1979, pp. 200-201. 18 L.G. CROCKER, An Age of Crisis cit., p. 377 (trad. it., Un età di crisi. Uomo e mondo nel pensiero francese del Settecento, Bologna, Il Mulino, 1975, p. 469). 15 16
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éclairè”, tra i primi saggi seminali ad indicare l’esistenza di una relazione di non radicale contrapposizione tra il secolo dei Lumi e la Chiesa Cattolica. Gli autori studiati da Plongeron erano sfuggiti “alla tentazione kantiana”, avevano sostituito il punto di vista che vedeva l’uomo quale artefice del proprio diritto, con “una morale internazionale capace d’assicurare all’uomo in società il rispetto della sua libertà e la sicurezza della sua proprietà”. Era questo l’ideale cristiano, incarnato dalla Chiesa, che avrebbe dovuto rassicurare gli uomini, a condizione che fossero edotti sulle sue finalità19. Tale la via tracciata da scrittori come Pietro Tamburini, che si era opposto ad una concezione che considerava la tolleranza come sovversiva tanto della religione quanto della società, una posizione di cui sarebbero state debitrici in seguito “numerose correnti del cattolicesimo contemporaneo”20. Sulla via aperta da Plongeron si può arrivare sino al recente libro curato da Knut Haakonssen sull’Inghilterra settecentesca, dove viene dimostrato come i protagonisti di quella stagione di rational dissent, non avessero affatto intrapreso la via dell’ateismo seguita dai philosophes francesi21. D’altronde lo stesso studio fondamentale di John Dunn su Locke ci ha chiaramente mostrato come egli fosse restio ad affidarsi solo alla volontà razionale dell'uomo ed ad abbandonare il sistema teocentrico. Locke, infatti, aveva scritto: “Se l’uomo fosse indipendente non avrebbe nessuna legge se non la propria volontà, nessun fine se non se stesso. Sarebbe un Dio per sé stesso e la soddisfazione della sua volontà sarebbe la sola misura ed il solo fine di tutte le sue azioni”22. B. PLONGERON, Recherches sur l’Aufklärung catholique en Europe occidentale, 1770-1820, “Revue d’histoire moderne et contemporaine”, 1969, n. 16, p. 583, vedi anche id., Théologie et politique au siècle des Lumières, 1770-1820, Genève, Droz, 1973. 20 Ibid., pp. 605, 601-603. 21 H. HAAKONSSEN (ed.), Enlightenment and Religion. Rational Dissent in Eighteenth-Century Britain, Cambridge, Cambridge university Press, 1996. 22 Manoscritto di LOCKE, c.28, fol. 141, "Ethica B", presso la Bodleian Library di Oxford, in J. DUNN, From Applied Theology to Social Analysis: the Break 19
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Questi aspetti non possono che confermare per l’ennesima volta, come ha recentemente scritto Edoardo Tortarolo, “l’inanità dello sforzo di chiudere in un racconto sistematico e che pretende d’essere completo, un mondo culturale che le ricerche analitiche mostrano essere più differenziato”23. Al di là delle necessarie correzioni apportate dall’approccio contestualista, rimane comunque l’esigenza di fondo di cui si fa interprete lo stesso Tortarolo, cioè “di cogliere i momenti di rottura rispetto alle tradizioni religiose, culturali, politiche, intellettuali in genere per indicare gli snodi su cui la nostra modernità si è costruita”24. Per questa ragione Daniel Roche, al di là della constatazione delle notevoli divergenze tra gli illuminismi storici, sostiene che si possa tutt’ora parlare di un movimento unificato da una comune ontologia individualistica e da una cornice utilitaristica e caratterizzato dal ruolo centrale che avrebbe rappresentato la coscienza morale individuale25. In questa direzione, tesa quasi a riconciliare i due diversi metodi, sembra anche l’opinione di Leszek Kolakowski secondo cui, l’uomo dell’illuminismo, in termini kantiani, certamente era emerso da uno stato di immaturità ed era stato proprio lo spirito individuale che aveva spinto la ragione secolare, l’immaginazione, la curiosità scientifica, nel tentativo di scrollarsi dalle spalle il passato, spesso concepito come opprimente, per prendere il destino nelle proprie mani26, ma il carattere irreligioso non era stato la sua between John Locke and the Scottish Enlightenment, in I. HONT, M. IGNATIEFF (eds), Wealth and Virtue. The Shaping of Political Economy in the Scottish Enlightenment, Cambridge, Cambridge University Press, 1983, pp. 127-128. 23 E. TORTAROLO, L’illuminismo. Ragioni e dubbi della modernità. Roma, Carocci, 1999, pp. 11, 12. 24 Ibid., p. 13. 25 D. ROCHE, La France des Lumières, Paris, Fayard, 1993, pp. 527-528. 26 L. KOLAKOWSKI, Modernity on Endless Trial, Chicago and London, The University of Chicago Press, 1990, pp. 26, 27, 30, 39. Vedi anche D. SETTEMBRINI, Individualismo, diversità e identità. Il tema della diversità nell’illuminismo, in L. CAVAZZOLI, La diversità in età moderna e contemporanea, Genova, Name, 2001, p. 95. Anche per Sternhell l’illuminismo fu ed è l’età della critica come metodo di investigazione che ha come suo perno l’individuo e la ricerca della sua felicità (Z. STERNHELL, introduzione a, Id. (ed.), The Intellectual Revolt against Liberal
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vera essenza, forse era più giusto affermare che c’era stata una generale riconsiderazione dell’eredità cristiana, per sconfiggere quelle forme ossificate di tale retaggio che impedivano alle nuove idee di affermarsi27. L’illuminismo insomma, è andato a costituire, nel bene o nel male, la struttura della moderna società liberal-democratica, caratterizzata dai diritti dell’uomo, dalla sovranità popolare, dalla carriera aperta al talento, dalla fiducia nel progresso economico e sociale e dalla ricerca della felicità. Nel 1818 Benjamin Constant, nel celebre Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, avrebbe fissato i due pilastri fondamentali delle nostre liberal-democrazie: “non voglio affatto rinunciare alla libertà politica, ma reclamo la libertà civile con altre forme di libertà politica. I governi non hanno più di ieri il diritto di arrogarsi un potere legittimo. Ma i governi che derivano da una fonte legittima hanno meno di ieri il diritto di esercitare sugli individui una supremazia arbitraria”28, Constant insomma, dopo l’infausta esperienza giacobina congiungeva in un unico fiume i due grandi torrenti della modernità politica, sostenendo che si doveva rinunciare alla libertà degli antichi, quella forma di libertà politica che aveva preteso la completa soggezione del cittadino all’autorità dell’intero corpo sociale, in favore della libertà dei moderni, la quale aveva garantito all’individuo che una parte della sua esistenza rimanesse libera ed indipendente dal controllo sociale, senza però, per questo, rinunciare a forme diverse di libertà politica, come quelle Democracy, 1870-1945: International Conference in Memory of Jacob L. Talmon, Jerusalem, Israel Academy of Sciences and Humanities, 1996, pp. 12-13, e Id., Contro l’illuminismo cit., p. 58). Cfr. anche R. PORTER, The Enlightenment, London, MacMillan, 1990, p. 75, e D. OUTRAM, The Enlightenment cit., pp. 3-4. Sull’individuo come nuova categoria divenuta centrale nell’illuminismo vedi A. LAURENT, Histoire de l’individualisme, Paris, Puf, 1993, pp. 28-29. 27 Cfr. L. KOLAKOWSKI, Modernity on Endless Trial cit., p. 30. 28 B. CONSTANT, De la liberté des anciens comparée à celle des modernes (1818), in C. CORDIE (a cura di), Benjamin Constant, Milano, Hoepli, 1946, p. 224, (trad. it., Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, Roma, Editori Riuniti, 1992, p. 29).
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che ad esempio prevedevano una rappresentanza democratica. Constant sembrava aver scritto la parola fine ad un lungo dibattito che era sorto più di un secolo e mezzo prima, perlomeno dal tempo della celebre polemica di James Harrington contro Thomas Hobbes. Questi, infatti, reo di aver affermato che non si potevano confondere libertà e partecipazione, argomentando contro Aristotele, aveva sostenuto che la libertà dei greci e dei romani non era “la libertà dei privati (particular men), ma la libertà dello stato”. Per questa ragione, continuava Hobbes, per quanto i cittadini di Lucca allora si sforzassero di scrivere sulle proprie torri “a grandi caratteri la parola LIBERTAS”, in realtà non ne avevano più di un suddito di Costantinopoli29. Harrington aveva risposto che la differenza sostanziale stava invece nel fatto che i cittadini di Lucca erano sottoposti a leggi fatte da loro stessi “al solo fine di proteggere la libertà di tutti e dunque la libertà della repubblica”30. Soltanto con l’illuminismo la libertà politica e quella civile avrebbero acquisito la loro carica universale ed egalitaria, soltanto con l’illuminismo, l’individuo alla ricerca della propria felicità, sarebbe divenuto il perno centrale della loro congiunzione. Felicità, che addirittura nella dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, aveva raggiunto lo status di diritto. Come avrebbe scritto Pietro Verri, “fra tutte le verità possibili sento che la più importante e dimostrata di tutte pel l’uomo è che deve cercare la propria felicità”31. Certo questa non poteva ancora essere concepita negli estremi termini edonistici di oggi, e manteneva comunque, nei principali scrittori, i suoi fondamenti morali di origine stoica e cristiana32, ma era altrettanto vero che essa si fondava sulla consapevoT. HOBBES, Leviathan (1651), London, Penguin, 1988, p. 266 (trad. it., Bari, Laterza, 1974, vol. I, pp. 189-190), vedi anche Id., De Cive (1642, 1647), Oxford, Clarendon, 1983, parte II, capp. x, e viii. 30 J. HARRINGTON, The Commonwealth of Oceana (1656), in Id., The Political Works of James Harrington, Cambridge, Cambridge University Press, 1977, pp. 170-171. 31 P. VERRI, Meditazioni sulla felicità (1763), Pavia, Ibis, 1996, p. 74. 32 Sempre Verri, nella stessa opera appena citata, poche pagine prima, aveva significativamente premesso che “l’eccesso de’ desiderj sopra il potere è la misura 29
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lezza dell’unicità dell’esperienza umana, su quella peculiare combinazione di emozioni e sensibilità che caratterizzava ogni uomo. Se già Shaftesbury aveva elevato alla natura le sue sacre e solitarie meditazioni, se poi Herder avrebbe sottolineato come ogni individuo si differenziasse per “una particolare armonia” nella “percezione dei sensi”33, nessuno meglio di Rousseau, descrivendo il suo “sentimento dell’esistenza”, avrebbe riassunto questa condizione moderna: “Il sentimento dell’esistenza privato di ogni altra passione, è in sé stesso un sentimento prezioso di soddisfazione e di pace che da solo basterebbe a rendere questa esistenza cara e dolce a colui che fosse in grado di allontanare da sé quella sensualità terrena che continuamente ne devia e disturba il godimento”34. Per dirla in altre parole l’illuminismo ha promosso l’uso della ragione critica e favorito l’estendersi dell’individualismo democratico sotto ogni sua forma, scientifica, religiosa, morale, politica, economica e culturale, e soprattutto lo ha promosso contro il pregiudizio aristocratico, il quale ha sempre frapposto un’accanita resistenza, prima nelle vesti e nei pregiudizi della nobiltà ereditaria, poi in quelle di un pervicace pessimismo intellettuale nei confronti della progressiva democratizzazione della società. L’illuminismo fu e rimane universalista, cosmopolita, e teso all’affermazione della mo-
della infelicità” (P. VERRI, Meditazioni sulla felicità cit., p. 47). Kant avrebbe operato una distinzione tra “felicità” [ndr: Glückseligkeit] e “contentezza” [ndr: Zufriedenheit]: “Quanto più una ragione raffinata tende al godimento della vita e della felicità, tanto più l’uomo si allontana dalla vera contentezza” (I. KANT, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten (1785), in Id., Kants Werke, Berlin, Walter de Gruyter & co., 1968, vol. IV, p. 395 (trad. it., Scritti morali, Torino, Utet, 1986, p. 51). 33 J.G. HERDER, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit (1785), in Id., Werke, München-Wien, Carl Hanser Verlag, 2002, vol. III, tomo I, p. 259. 34 J.J. ROUSSEAU, Les Rêveries du promeneur solitaire, cinquiéme promenade (1777), in Oeuvres Complètes, Paris, Gallimard, 1959-69, vol. I, p. 1047. Herder avrebbe ricalcato Rousseau quasi perfettamente: “Questo sentimento semplice, profondo, insostituibile dell’esistenza è la felicità, una piccola goccia di quel mare infinito della beatitudine totale, che è in tutto e si compiace e si sente in tutto” (J.G. HERDER, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit cit., p. 301).
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derna società “civilizzata”, contro gli adoratori dei tempi andati, della natura e delle culture esotiche. L’illuminista oggi quindi accetta come inevitabile il fatale dispiegarsi dell’individualismo democratico; questo non è né buono né cattivo, né “vero” né “falso”. Non si può da una parte respingere il capitalismo ed alcune inevitabili disuguaglianze da esso fomentate e dall’altra accettare una democrazia ampiamente tollerante verso qualsiasi diversità, non si può condannare la ricerca personale di una maggiore autenticità o aspirare all’ordine garantito da uno stato autoritario e tessere contemporaneamente le lodi sperticate della libertà economica. Daniel Bell, alla metà degli anni settanta, registrava come l’impulso economico e la cultura della modernità si muovessero nella stessa traiettoria, condividendo come fonte comune, “le idee di libertà e di liberazione, le cui incarnazioni erano il «rugged individualism» negli affari economici e l’io senza restrizioni nella cultura”. “Sebbene entrambe avessero una comune origine nel rifiuto della tradizione e dell’autorità del passato”, continuava Bell, “subito si [era sviluppata] una relazione di avversità tra le due”35. Insomma, per Bell, l’atteggiamento borghese di calcolo e di metodica restrizione si era trovato in conflitto con la ricerca impulsiva per la sensazione e l’eccitamento che scoperta dal romanticismo era poi passata nel modernismo36. L’esito paradossale delle due tendenze parallele della modernità era stato proprio questo: la società borghese aveva introdotto l’individualismo radicale in economia e la volontà di frantumare tutte le relazioni sociali tradizionali, ma nello stesso tempo essa temeva l’esperimento dell’individualismo modernista nella cultura37. L’individualismo economico e quello politico, la libertà civile e la sovranità popolare si erano intrecciati proprio durante l’illuminismo ed entrambi avrebbero minato inesorabilmente l’antico regime, D. BELL, The Cultural Contradictions of Capitalism, London, Heinemann, 1976, p. xxiii. 36 Ibid., p. xxiv. 37 Ibid., p. 18. 35
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come qualsiasi altro tipo di società chiusa che si sarebbe opposta alla loro azione.
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Secondo Cassirer l’illuminismo, in fatto di dottrine, era dipeso proprio dalle età precedenti e non aveva fatto altro che portare a compimento il secolo di Leone X, sviluppando e liberando la conoscenza razionale dalle costrizioni autoritarie1. In che senso si dovette superare il Rinascimento? Lo spirito critico e lo spirito storicofilologico che avevano contribuito, con l’umanesimo, a risvegliare il grande amore per il mondo greco-romano parevano a tratti esser dimenticati o messi da parte, nel momento in cui era andata cristallizzandosi per l’Europa un’opinione, ampiamente diffusa, se non prevalente, che solo tra l’età di Pericle e quella di Augusto l’ingegno umano avesse raggiunto il suo massimo grado di perfezione. Il Rinascimento era cioè sfociato in una vera e propria sudditanza nei confronti della civiltà classica, una sorta di “manierismo” da intendersi non solo in stretto senso letterario ed artistico ma anche in senso filosofico e politico; perché si potesse aprire lo sguardo verso il progresso e verso il futuro sarebbe stata necessaria la lunga crisi seicentesca, costellata da una serie impressionante di rivoluzioni in tutti i campi delle arti e del sapere umano2. Ci vollero cioè la deflagrante novità dell’opera pittorica del Caravaggio, la polemica di Giambattista Marino e Alessandro Tassoni contro la poetica aristotelica, l’avvio della fisica sperimentale con Galileo Galilei, ma anche i sistemi di Cartesio e Bacone, come pure il tremendo impatto della E. CASSIRER, Die Philosophie der Aufklärung cit., pp. x-xi, 49. Paul Hazard aveva situato la crisi della coscienza europea tra il 1680 e il 1714 (P. HAZARD, Crise de la conscience européenne -1935-, Paris, Fayard, 1961). Paul Vernière, richiamandosi a quella che Gusdorf definisce rivoluzione galileiana, preferisce antedatare l’idea di “crisi” già alla prima metà del XVII secolo, per sottolineare poi l’esistenza di una seconda “crisi”, più francese che europea, che avrebbe avuto luogo tra la pubblicazione dello Spirito delle Leggi e quella del Sistema della natura (P. VERNIÈRE, Peut on parler d’une crise de la conscience europèenne, in AA.VV., L’età dei Lumi, Napoli, Jovene, 1985, p. 76). 1 2
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teoria politica di Thomas Hobbes, per mettere in crisi il senso di riverenza tributato verso gli antichi. Alla fine del XVII secolo con le opere di Bernard de Fontenelle e Charles Perrault e la famosa disputa filosofica tra gli antichi e i moderni tale riverenza pareva definitivamente essere abbandonata3. Il Cinquecento però era stato anche il secolo di Lutero. Senza voler entrare nello spinoso dibattito valutativo sulla Riforma, che per certi versi è stata percepita come un potente movimento antimoderno4, resta comunque il fatto che l’affermazione dei princìpi Cfr. anche Z. STERNHELL, Contro l’illuminismo cit., pp. 57-63. Soprattutto Fontenelle aveva sottolineato il fatto che la natura era sempre uguale a sé stessa, per cui gli antichi non potevano vantare titoli particolari per affermare la propria superiorità sui moderni: “La natura ha per le mani sempre la stessa pasta che modella in continuazione e in mille modi; attraverso essa plasma gli uomini, gli animali, le piante e certamente Platone, Demostene ed Omero non sono stati plasmati con un’argilla più fine o meglio preparata, rispetto a quella che è stata utilizzata per i nostri attuali filosofi, oratori e poeti” (B. LE BOVIER DE FONTENELLE, Digression sur les anciens et les modernes (1688), in Id., Oeuvres, vol. IV, Paris, 1758, p. 171). A Fontenelle, alcuni anni dopo, aveva fatto eco Perrault: “Egli parte dall’idea che la natura è immutabile e sempre la stessa in ciò che produce e, dal momento che tutti gli anni ci dona una certa quantità di vini eccellenti in mezzo a un gran numero di vini mediocri e senza corpo, essa, in tutte le epoche, plasma anche un certo numero di geni che si distinguono tra la folla degli spiriti comuni ed ordinari” (C. PERRAULT, Parallêle des anciens et des modernes en ce qui regarde le arts et, les sciences, vol. I, Paris, 1692, pp. 88-89). Anzi i moderni, continuando il cammino già iniziato dagli antichi, potevano avvantaggiarsi di ciò che era già stato acquisito nel patrimonio culturale dell’umanità. Fontenelle, a questo proposito, aveva paragonato la mente adulta dei moderni a quella infantile degli antichi, riprendendo una metafora che era già stata utilizzata da Blaise Pascal, il quale aveva stabilito un parallelo tra la storia dell’umanità e quella di un singolo uomo “che esiste sempre e che continuamente apprende”. Per questa ragione l’umanità era destinata ad “un progresso continuo man mano che l’universo invecchia”. Da tutto questo scaturiva come la sudditanza verso gli antichi fosse il frutto, per Pascal, di una prospettiva distorta perché era l’età attuale che rappresentava la vera vecchiaia dell’umanità alla quale dovevamo tributare il nostro rispetto. In realtà, scriveva Pascal, “quelli che noi chiamiamo antichi erano davvero nuovi in tutto e formavano quella che può propriamente definirsi l’infanzia degli uomini” (B. PASCAL, Fragment de préface sur le traité du vide -1651-, in Id., Oeuvres complètes, Alençon, Desclie de Browwer, 1970, vol. II, pp. 782-783). Per Fontenelle comunque l’umanità non sarebbe mai invecchiata e il progresso sarebbe stato senza fine. 4 Cfr. ad esempio nel capitolo VII l’opinione di Nietzsche. Vedi anche L. KOLAKOWSKI, Modernity on Endless Trial cit., p. 10. 3
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del libero esame dei testi sacri, e del sacerdozio universale, avrebbe in concreto fondato l’autonomia morale dell’uomo in materia religiosa, autonomia che, contro le stesse opinioni del monaco agostiniano, subito sarebbe stata rivendicata anche nella sfera politica5. Perché si potesse affermare “una variante secolare, non religiosa, di modello cognitivo”6, perché si rendessero possibili le condizioni per la nascita delle prime società moderne, occorreva perciò che anche la perturbazione religiosa e politica innescata dalle idee di Lutero trovasse una provvisoria sistemazione, occorreva che trovassero una risposta praticabile i problemi politico-religiosi suscitati dalla Riforma. Questo voleva dire che solo alla fine dell’atroce e bi-secolare sequela di guerre e persecuzioni religiose, culminate nelle immani devastazioni della guerra dei trent’anni, le stanche classi dirigenti europee si sarebbero decise ad accettare un modus vivendi che non fosse la drammatica e semplicistica soluzione del cuius regio eius et religio. Gli intellettuali, d’altrocanto, avevano già da tempo iniziato a teorizzare la necessità di un’ampia tolleranza in materia di credenze religiose, ed alla fine si sarebbe arrivati a concepire la libertà religiosa come un vero e proprio diritto individuale. Di certo la libertà di coscienza non era mai divenuta, in passato, il nocciolo del credo degli umanisti nella tolleranza. Essi infatti a causa della loro profonda religiosità non avrebbero potuto mai accettare, sino in fondo, quel tipo di razionalismo che si sarebbe incarnato nell’e-
Sul sacerdozio universale cfr. M. LUTHER, An den Christlichen Adel deutscher Nation, von des Christlichen Standes Bessurung (1520), in Id., Werke, Berlin, Walter de Gruyter, 1959, vol. I, pp. 366-367. Le paure di Lutero sul radicalismo politico furono all’origine di Eine treue vermahnung zu allen Christen, sich zu hüten vor aufruhr und Empörung (1522), in Id., Werke cit., vol. II, pp. 303-304. Per un’ analisi del contesto da cui scaturirono le idee luterane, ed una valutazione del contraddittorio rapporto che il monaco agostiniano stabilì con l’umanesimo e con i suoi protagonisti vedi Q. SKINNER, The Foundations of Modern Political Thought (1978), Cambridge, Cambridge University Press, 2000, vol. II, The Age of reformation, pp. 3-108. 6 E. GELLNER, Postmodernism, Reason and Religion, London-New York, Routledge, 1992, p. 58 (trad. it., Ragione e religione, Milano, Il Saggiatore, 1993, p. 84). 5
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sperienza illuministica7. La rivoluzione scientifica ed i tragici eventi europei causarono infatti, per Domenico Settembrini, “il discredito morale del cristianesimo nella coscienza delle classi colte: (...) L’impressione fu tale da stimolare la ricerca di una giustificazione della legge morale e del dovere di obbedire alle leggi e ai magistrati che si reggesse anche indipendentemente dall’esistenza di Dio”8. In questo contesto si inserì l’opera di Grozio che con il suo famoso Prolegomena n. 11 nel De Jure Belli ac Pacis, avrebbe rappresentato davvero un punto di svolta nella storia del pensiero. Egli ipotizzò, sia pure in linea di principio, che una legge naturale potesse sussistere egualmente anche ammettendo – “cosa che non [poteva] farsi senza empietà gravissima – che Dio non esistesse o non si occupasse dell’umanità”9. Fu il suo, infatti, il primo cauto tentativo di fornire una legittimazione umana e razionale al potere politico che sostituisse quella divina. Una delle parole chiave che ci permette di comprendere al meglio il pensiero e l’azione degli illuministi è dunque la parola tolleranza; per Haakonssen, che prende in considerazione il caso inglese, lo scopo dei Lumi fu quello di far uscire e preservare la società moderna, allora in fieri, dalla barbarie dei cruenti scontri religiosi, con l’aiuto di diversi strumenti: dalla scienza ed il miglioramento economico, alla filosofia scettica, la teologia moderata e la letteratura raffinata10. Per questa ragione i protagonisti di quel periodo si impegnarono in una lotta senza quartiere contro il fanatismo religioso. Proprio in Inghilterra, scrittori come Joseph Addison, RiG. REMER, Humanism and the Rhetoric of Toleration, Pennsylvania, Pennsylvania State University Press, 1996, p. 14. Vedi anche Kolakowski, secondo cui l’umanesimo di Pico della Mirandola era perfettamente compatibile con il cristianesimo (L. KOLAKOWSKI, Modernity on Endless Trial cit., pp. 28-29). 8 D. SETTEMBRINI, Democrazia senza illusioni, Bari, Laterza, 1994, p. 9. 9 U. GROZIO, De Jure Belli ac Pacis (1625), tomo primo, § 11 Prolegomena, Losanna, Bousquet, 1751, p. 8. 10 H. HAAKONSSEN, Enlightened Dissent: an Introduction, in Id. (ed.), Enlightenment and Religion cit., p. 2. Vedi anche C.C. O’BRIEN, The Repeal of Enlightenment, in “Transition”, 1992, n. 57, p. 10, e R. WOKLER, Projecting the Enlightenment, in J. HORTON and S. MENDUS (eds), After MacIntyre: Critical perspectives on the Work of Alasdair MacIntyre, Oxford, Polity Press, 1994, p. 280. 7
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chard Steele e il terzo conte di Shaftesbury, cercarono di infondere nella società la propria concezione della religione che doveva essere razionale e civile in contrapposizione all’entusiasmo di derivazione puritana ed alla chiesa cattolica, o, peggio ancora, al fanatismo degli atei, che, nelle parole di Addison, erano diventati “una specie mostruosa di uomini”11. Sicuramente l’influenza di Addison si fece sentire nel Montesquieu delle Lettres Persanes12, un vero e proprio caposaldo dell’illuminismo, dove veniva condannato lo spirito di proselitismo e di persecuzione in favore di una più ampia idea di tolleranza, e nello stesso Hume della History of England che descriveva il fanatismo come “un accanito zelo per la religione”13. Ma come non accennare, in questo contesto, alle famose voci encliclopediche redatte da Diderot, anch’esse pervase da un intenso afflato di tolleranza, o a Voltaire, l’ottuagenario patriarca degli illuministi che lo stesso Diderot, nel 1772, aveva definito come colui che per tutta la vita aveva attaccato i pregiudizi più riveriti ed aveva ispirato lo spirito di tolleranza? Nel suo celebre Traité sur la Tolérance Voltaire aveva scritto chiaramente: “Perché un governo non abbia il diritto di punire gli errori degli uomini, è necessario che tali errori non siano dei delitti. Sono delitti soltanto quando turbano la società: turbano la società dal momento in cui suscitano il fanatismo; per meritare la tolleranza è dunque necessario che gli uomini comincino a non essere fanatici”14. J. ADDISON, The Works of the R.H. Joseph Addison, London, Cadell, 1811, vol. III, p. 392 (trad. it., Dallo “Spettatore”, Torino, Utet, 1957, p. 193). Per un riassunto dell’ideologia addisoniana vedi, E.A. BLOOM, L.D. BLOOM, Joseph Addison’s Sociable Animal: In the Market Place, on the Hustings, in the Pulpit, Providence (R.I.), Brown University Press, 1971. 12 MONTESQUIEU, Lettres Persanes (1721), in Id., Oeuvres Complètes, Paris, Gallimard, 1948-58, vol. I, pp. 258-60. 13 D. HUME, History of England (1754-62), vol. IV, Indianapolis, Liberty Classics, 1984, p. 45. 14 VOLTAIRE, Traité sur la Tolérance (1763), S.L., S. D., p. 146 (trad. it., Trattato sulla tolleranza, in Id., Scritti politici, Torino, Utet, 1964, p. 551). Nel “Dizionario filosofico” aveva già scritto che il fanatismo addiritura era più pericoloso dell’ateismo, quest’ultimo “infatti non ispira azioni sanguinarie, ma il fanatismo ne 11
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L’opera di Addison, Steele e Shaftesbury, era stata però più vasta e profonda, essi avevano contribuito a portare all’ordine del giorno, nell’Inghilterra del primo ventennio del Settecento, anche una fiducia ed un ottimismo generalizzato sulle inusitate possibilità permesse dalla società moderna, diffondendo il cosiddetto linguaggio della Politeness. Con questa parola, ha scritto Lawrence Klein, si intendeva designare “un ideale culturale di socievolezza urbana, adatto ad un’élite secolare”15. Politeness era in pratica quell’ideale cortese di buone maniere e galanterie che aveva avuto la sua origine nel Rinascimento italiano con scrittori come Baldassarre Castiglione e Monsignor Della Casa16, ma adesso si stava estendendo sempre più nella società fino a coinvolgere e divenire la virtù tipica delle élite mercantili delle città. Addison e Steele, dalle colonne di periodici come lo “Spectator”, il “Tatler” o il “Guardian”, furono in prima linea nell’opera di martellamento dell’opinione pubblica allora nascente, con il loro ideale di ingentilimento dei costumi. Come ha scritto Pocock, il circolo dello “Spectator” era un gruppo di cortesi gentiluomini che “scoprì nell’amicizia, nella tolleranza, nella conversazione e nell’osservazione distaccata della politica, piuttosto che nella partecipazione ad essa, i mezzi più efficaci per civilizzare la propria società”17. ispira; l’ateismo non si oppone ai crimini, ma il fanatismo induce a commetterli” (Id., Dictionnaire philosophique -1764 -, Paris, Garnier, 1961, pp. 401-403; trad. it., Tutti i romanzi e i racconti e Dizionario filosofico, Roma, Newton, 1995, p. 466). Per Diderot vedi le voci enciclopediche “Tolleranza” e “Intolleranza”, ma anche “Aius Locutius” (Encyclopédie ou dictionnaire raisonné des sciences des arts et des métiers, Lucca, Giuntini, vol. I -1756- p. 202, vol. VII -1766- pp. 695-699, vol. XVI -1771- pp. 335-339). Cfr. F. DIAZ, Discorso sulle “Lumières” programmi politici e idea-forza della libertà, in AA.VV. L’età dei Lumi cit., vol. I, pp. 101-163. 15 L.E. KLEIN, Berkeley, Shaftesbury and the Meaning of Politeness, “Studies in Eighteenth Century Culture”, XVI (1986), p. 58. 16 Vedi E. COCHRANE, Italy 1530-1630, London, Longman, 1988, pp. 26, 78-79. 17 J.G.A. POCOCK, The Problem of Political Thought in the Eighteenth Century: Patriotism and Politeness, in “Theoretische Geschiedenis”, 1982, n.1, p. 14. Addison divenne la punta di diamante di un crescente neoclassicismo letterario che incarnava ideali di stile delle epoche di Augusto e Cicerone e contribuì in modo decisivo ad aumentare la valenza morale del ruolo delle lettere nella società. A questo proposito vedi ancora POCOCK, Clergy and Commerce. The Conservative En-
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Fu comunque Shaftesbury che dette a questo fenomeno culturale una compiuta fondazione filosofica. Egli, infatti, elevò la Politeness allo stesso livello della morale e della filosofia, come si poteva dedurre dalle sue Characteristiks, il cui fine fu proprio quello di “raccomandare la morale sullo stesso piano di ciò che in un senso più modesto sono chiamati costumi (manners), e far avanzare la filosofia (per quanto essa possa sembrare un soggetto duro) sul fondamento stesso di ciò che viene detto piacevole e civile (polite)”18. Politeness dunque, politesse in francese, ‘politezza’ in un italiano ormai desueto, divenne la virtù delle moderne società ‘civilizzate’ fondate sugli scambi. Se però vogliamo capire in che modo questi temi andarono consolidandosi, non possiamo prescindere dal lungo dibattito filosofico-politico sull’entità ‘commercio’ che si era svolto a cavallo tra Seicento e Settecento e che fu il preludio all’affermazione del ruolo centrale del libero mercato e del capitalismo. Il commercio, ha scritto Pocock, divenne “qualcosa che nessun oratore, nessun libellista, nessun teorico si poté permettere di ignorare”19. Per chi sosteneva la funzione fondamentale dei traffici, gli uomini dell’antichità apparivano come rozzi e barbari, con una personalità completamente impoverita dall’impossibilità di scambiare i beni con i propri simili, mentre gli uomini moderni attraverso l’interscambio erano riusciti a stabilire un elaborato codice morale e di maniere che era alla base della cultura europea20. Questa era stata dunque, storicamente, la grande opera civilizzatrice del comlightenment in England, in AAVV, L’Età dei Lumi cit., p. 541. Consulta inoltre W.K. WEINBROT, Augustus Caesar in “Augustan” England: the Decline of a Classical Norm, Princeton, Princeton University Press, 1978 e R. BROWNING, The Political and Constitutional Ideas of the Court Whigs, Baton Rouge, Lousiana State University Press, 1982. 18 SHAFTESBURY, Characteristicks of Men, Manners, Opinions and Times (1714), London, Richard, 1900, vol. II, p. 257 (la trad. it. di questo passo è in D. FRANCESCONI, Il pensiero politico di Shaftesbury. Filosofia, politica e incivilimento nel primo settecento inglese, “Studi Settecenteschi”, 1995, n. 15, p. 57). 19 J.G.A. POCOCK, The Machiavellian Moment, Princeton, Princeton University Press, 1975, p. 425 (trad. it. cit., p. 724). 20 J.G.A. POCOCK, introduzione a Burke, Reflections on the Revolution in France, Indianapolis, Hackett, 1987, p. xxi.
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mercio da cui molti si aspettavano grandi benefici ed in particolare la mitigazione dei costumi più rudi, creando modi di vita raffinati e socievoli. Già nel 1675 Jacques Savary aveva scorto in questa forza addomesticante delle relazioni commerciali l’opera della provvidenza divina, la quale “non ha voluto che tutto ciò che è necessario alla vita si trovasse in un sol luogo, ha sparso i suoi doni affinché gli uomini commercino, e quindi la comune necessità di aiutarsi reciprocamente faccia nascere l’amicizia tra loro: è questo continuo scambio di tutti i beni della vita che fa il commercio, ed è proprio questo commercio che fa tutta la doucer della vita”21. Sarebbe stato comunque Montesquieu a rendere famoso questo collegamento nel libro XX dello Spirito delle Leggi, dove si poteva leggere che “il commercio guarisce dai pregiudizi distruttivi, ed è quasi una massima generale che ovunque esistano miti costumi esiste il commercio, e ovunque esiste il commercio esistono miti costumi. Non ci si meravigli, dunque, se i nostri costumi sono meno feroci di quanto non lo fossero un tempo. Il commercio ha fatto sì che la conoscenza dei costumi di ogni nazione sia giunta ovunque: li si è paragonati tra di loro, e ne sono risultati grandi benefici”22. Erano stati però i grandi pensatori dell’illuminismo scozzese, David Hume, Adam Ferguson, William Robertson, Adam Smith, John Millar ecc., che avevano articolato compiutamente il linguaggio della Politeness e la dottrina del doux commerce in una vera e propria teoria dello sviluppo della società civile moderna, soprattutto dopo che l’unione dell’Inghilterra con la Scozia nel 1707 aveva fatto pensare che la partecipazione ai vantaggi del florido sistema di commercio internazionale e di credito inglese avrebbe risollevato la misera condizione del paese23. Già lo stesso Hume nei suoi Saggi J. SAVARY, Le parfait négociant, ou instruction générale de tout ce qui regarde le commerce (1675), Paris, 1713, p. 1, in A.O. HIRSCHMAN, The Passions and the Interests, Princeton, Princeton University Press, 1977, pp. 59-60 (trad. it., Le passioni e gli interessi, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 49). 22 MONTESQUIEU, De l’Esprit de Lois (1748), in Id., Œuvres complètes cit., vol. II, p. 585 (trad. it., Lo spirito delle leggi, vol. I, p. 528). 23 Vedi soprattutto, N. PHILLIPSON, Adam Smith as Civic Moralist, in I. HONT, M. IGNATIEFF (eds), Wealth and Virtue cit., pp. 179-202 e J. ROBERTSON, The Scot21
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del 1742 aveva anticipato Montesquieu scrivendo “che nulla è più favorevole alla nascita della civiltà e della cultura di un numero di Stati indipendenti e vicini, collegati dal commercio e dalla politica”24, e Robertson, addirittura, nel 1769 lo avrebbe ricalcato quasi letteralmente affermando che “il commercio tende a eliminare i pregiudizi che perpetuano le divergenze e le animosità fra i popoli; mitiga e incivilisce i costumi degli uomini, unisce questi ultimi con uno dei vincoli più forti, il desiderio di sopperire ai loro reciproci bisogni; li dispone alla pace, creando in ogni Stato una classe di cittadini indotti dal loro interesse a ergersi custodi della pubblica tranquillità”25. Nella scuola scozzese la transizione che aveva portato da un’economia di tipo agrario al moderno ruolo del mercato venne vista come sviluppantesi all’interno di un complesso processo storico che conduceva l’uomo da una condizione di stato selvaggio ad una di civiltà attraverso successivi passaggi ben stabiliti. Dugald Stewart si sarebbe preso la briga di definire questa “storia naturale” – questa specie di investigazione filosofica – come Theoretical or Conjectural History26, ed essa sarebbe stata conosciuta in seguito anche come “teoria dei quattro stadi”. Secondo Ronald Meek, che così l’ha battezzata, “questa teoria affermava che la società progredisce «natutish Enlightment at the Limit of the Civic Tradition, in I. HONT, M. IGNATIEFF (eds), Wealth and Virtue cit., pp. 138-162. Consulta anche J.G.A. POCOCK, The Problem of Political Thought in the Eighteenth Century cit., p. 16 e Id., Clergy and Commerce cit., p. 543. 24 D. HUME, Essays Moral Political and Literary (1741-58), Indianapolis, Liberty Press, 1981, p. 119 (trad. it., Saggi e trattati morali, politici ed economici, Torino, Utet, 1974, p. 305). 25 W. ROBERTSON, A View of the Progress of Society in Europe (1769), in Id., The Works of William Robertson, vol. IV, London, Baynes, 1821, p. 82 (trad. it., I progressi della società europea, Torino, Einaudi, 1951, p. 59). 26 Scriverà infatti: “A proposito di questo tipo di indagine filosofica, che nella nostra lingua non ha un nome appropriato, mi prendo la libertà di chiamarla storia teorica o congetturale; un’espressione che nel suo significato pressappoco coincide con quella di storia naturale, com’è stata utilizzata dal sig. Hume, e che alcuni scrittori francesi hanno chiamato Histoire Raisonnée” (D. STEWART, Account of the Life and Writings of Adam Smith -1794-, in A. Smith, Essays on Philosophical Subjects,, Indianapolis, Liberty Press, 1980, p. 293).
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ralmente» o «normalmente» nel corso del tempo attraverso quattro stadi più o meno distinti o consecutivi, ognuno dei quali corrisponde ad un diverso modo di sussistenza: caccia, pastorizia, agricoltura e commercio. A ciascuna di queste fasi corrispondono poi differenti complessi di idee e di istituzioni relative alle leggi, alla proprietà e al governo, ed anche differenti costumi, usanze e principi morali”. Essa era inoltre emersa “come una sorta di prodotto secondario delle indagini storiche e antropologiche dell’epoca, di cui si nutrivano allora tutti gli intellettuali”27. La vera origine della Conjectural History è stata rintracciata da Istzvan Hont e Michael Ignatieff nella tradizione Grozio-Pufendorf-Locke28. In particolare fu proprio il problema della storicizzazione dello stato di natura affrontato da Pufendorf che risultò decisivo per la nascita di questa concezione, scaturita dalla necessità di risolvere il problema della giustizia terrena nei termini impostati da Aristotele sino alla tradizione tomistica29. Per Hont e Ignatieff infatti il problema principale di Smith ne La ricchezza delle nazioni era quello della “Giustizia”, cioè quello di trovare un meccanismo di mercato che fosse capace di conciliare le diseguaglianze derivanti dalla proprietà con provvedimenti adeguati in favore degli esclusi: “Smith non fece altro che trasporre nel linguaggio del mercato, un antico discorso giurisprudenziale, riportato nella modernità da Grozio, Pufendorf e Locke, su come assicurare che l’individuazione 27 R. MEEK, Social Science and the Ignoble Savage, Cambridge, Cambridge, University Press, 1976, pp. 6, 126 (trad. it., Il cattivo selvaggio, Milano, Il Saggiatore, 1981, pp. 4, 91). Su questo tema consulta inoltre R. EMERSON, Conjectural History and the Scottish Philosophers, “Historical Papers of the Canadian Historical Association”, 1985, pp. 63-90. Per quanto riguarda l’Italia vedi E. PESCIARELLI, The Italian Contribution to the Four - Stage Theory, “History of Political Economy”, 1978, n. 4. 28 I. HONT, M. IGNATIEFF, Needs and Justice in the Wealth of Nations: an Introductory Essay, in Id. (eds), Wealth and Virtue cit., pp. 1-44. Hont e Ignatieff hanno seguito un’indicazione già presente nel libro di Meek (R. MEEK, Social Science and the Ignoble Savage cit., p. 153), il quale faceva notare come un pensatore quale Ferguson si fosse particolarmente interessato alla trasformazione del regime di proprietà secondo la linea indicata, appunto, da Grozio, Pufendorf e Locke. 29 I. HONT, M. IGNATIEFF, Needs and Justice in the Wealth of Nations cit., p. 28.
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privata del dominio di Dio non negasse a coloro che non avevano proprietà alcuna, i mezzi per soddisfare i propri bisogni”30. Smith negò che i bisogni dei poveri potessero divenire, in qualche modo, un diritto da far valere contro la proprietà dei ricchi e spostò, in tal modo, il problema della giustizia dalla sfera giuridicopolitica a quella economica, dimostrando che la società commerciale, aumentando la produttività agricola, poteva rispondere adeguatamente ai bisogni dei salariati, senza il bisogno di una redistribuzione della proprietà31. Finché il mondo, hanno scritto Hont e Ignatieff, è stato dominato dall’idea che la terra era stata data all’umanità in comune, per giustificare la proprietà privata si è dovuto fornire una Conjectural History che ne legittimasse l’attuale distribuzione. In questo senso si possono leggere le teorie di Pufendorf e Locke sulle iniziali condizioni dell’umanità come “negative” piuttosto che “positive”, e l’eliminazione da parte di Locke persino del consenso tacito come momento necessario nell’individuazione di ciò che è comune. Entrambe le teorie spianarono la strada a Smith che assunse la distribuzione della proprietà nella sua società come generata storicamente e si sforzò di spiegare come il mercato, fornendo beni e lavoro, potesse equilibrarli in un modo coerente con la giustizia e la legge naturale dell’umanità32. Il mercato rimaneva dunque l’unico artefice di una giustizia distributiva, mentre per quanto riguarda lo Stato, esso doveva interessarsene solo in senso stretto: “lo scopo primo e principale di ogni sistema di governo è di mantenere la giustizia; di prevenire che i membri della società invaIbid., p. 2. Ibid., p. 25. 32 Ibid., pp. 42-43. William Blackstone riassunse i termini della questione, evidenziando la non necessità del momento dell’assenso. Mentre da una parte Grozio e Pufendorf sostenevano che il diritto di occupazione si poteva trasformare in proprietà solo con il tacito consenso dell’umanità, per Barbeyrac, Locke ed altri tale assenso non era necessario. D’altronde per Blackstone questa ipotesi, pareva non essersi mai verificata: “La comunione dei beni non sembra mai essere stata possibile, persino in epoche primordiali” (W. BLACKSTONE, Commentaries on the Laws of England(1766), Chicago, University of Chicago Press, 1979, vol. II, pp. 3, 8). 30 31
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dano la proprietà altrui o prendano ciò che non è loro”33. Adam Smith si rivelò decisivo nel dare il colpo di grazia ai sostenitori degli antichi, il ruolo del mercato infatti, veniva esaltato proprio in contrapposizione allo sfruttamento della schiavitù, l’unico sistema che aveva permesso ai cittadini greci e romani di godere dell’agiatezza e del tempo necessari per partecipare attivamente alla vita politica e morale delle repubbliche34. Questo sistema non era certo riproponibile in quell’unica porzione della civile e moderna Europa che era riuscita ad esentarsene35. La crescita degli scambi commerciali era stata così forte che gli economisti del Settecento non potevano più distinguere la proprietà da una merce qualsiasi36. Per questa ragione Smith si adoperò affinché la libertà si sganciasse definitivamente dal suo legame con la proprietà e la politica, cosicché potesse essere estesa indiscriminatamente a tutti. Questa in sostanza era la libertà dei moderni, una libertà che poteva essere goduta da chiunque, purché sotto la protezione della legge, e che permetteva perciò di godere pienamente della proprietà e del proprio intelletto. Questa libertà aveva un’accezione puramente negativa e non poteva certo essere determinata dalla sola discriminante della partecipazione politica. Per Adam Smith, ad esempio, il buon cittadino doveva solamente “rispettare la legge ed obbedire al magistrato civile” e promuovere “il benessere dell’intera società e dei suoi concittadini”37, senza
A. SMITH, Lectures on Jurisprudence (1762-3, 1766), Indianapolis, Liberty Press, 1982, p. 5. 34 In questo modo Smith si rivolgeva verso i suoi allievi all’Università: “A Sparta non c’era commercio e ad Atene nessun cittadino libero se ne occupava. I cittadini liberi pertanto potevano ancora andare a combattere e lasciare il controllo dei loro schiavi agli anziani e alle donne” (A. SMITH, Lectures on Jurisprudence cit., p. 231, ma vedi anche le pp. 186-187, 225-228). 35 A. SMITH, Lectures on Jurisprudence cit., pp. 451-52. 36 Su questo aspetto consulta J.G.A. POCOCK, The Political Limits to Premodern Economics, in J. DUNN (ed.), The Economic Limits to Modern Politics, Cambridge, Cambridge Univerity Press, 1990, pp. 124, 131. 37 A. SMITH, The Theory of Moral Sentiments (1759), Indianapolis, Liberty Press, 1982, p. 231. 33
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per questo dover condividere, in qualche modo, una parte del potere politico38. Smith, in questo modo, aveva dichiarato la sentenza di morte per la tesi del cosiddetto “umanesimo civico” sostenuto dai fautori della libertà degli antichi, tesi che aveva collegato strettamente proprietà-autogoverno-libertà nell’unica persona del proprietario-cittadino-guerriero. Pocock ha individuato come il vero nodo teorico del Settecento fosse stato proprio l’opposizione tra il nuovo umanesimo commerciale e quello più antico di stampo civico. Il primo era appunto l’ideologia della Politesse, del ‘Gusto’, delle Manners che si era sempre più affermata come la virtù delle moderne società commerciali. L’altro si era incarnato invece nella plurisecolare tradizione repubblicana che affondava le proprie radici nell’esperienza delle polis greche e della repubblica romana ed in quella dei comuni medioevali italiani da cui attinsero scrittori come Brunetto Latini, Marsilio da Padova e una folta schiera di umanisti fiorentini: tra questi era emerso, per risonanza, il Machiavelli della Prima deca su Tito Livio. Egli dette infatti nuovo lustro alla “virtù” classica del “vivere civile”, la virtù, insomma, del cittadino romano che lasciava il suo lavoro nei campi per imbracciare le armi e difendere la Repubblica, la quale, per merito di tale virtù, difficilmente sarebbe stata ridotta all’obbedienza. Era questa la ragione, secondo Machiavelli, per cui “stettono Roma e Sparta molti secoli armate e libere”39. E paradossalmente un ruolo decisivo nell’affermazione dell’idea democratica moderna sarebbe stato giocato anche dai sostenitori della libertà degli antichi, dai fautori del repubblicanesimo classico. Secondo Franco Venturi, non si può infatti concepire l’illuminismo
38 A questo proposito vedi C.J. BERRY, The Idea of Luxury. A Conceptual and Historical Investigation, Cambridge, Cambridge University Press, 1994, pp. 15659, M. IGNATIEFF, John Millar and Individualism, in I. HONT, M. IGNATIEFF (eds), Wealth and Virtue cit., pp. 329-30 e K. HAAKONSSEN, The Science of a Legislator cit., p. 140. 39 N. MACHIAVELLI, Il Principe (1513), Milano, Garzanti, 1988, p. 51.
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senza il loro messaggio, soprattutto nelle forme tramandate nel continente dall’esperienza repubblicana inglese40. Pocock ci ha mostrato chiaramente le linee essenziali della fortuna anglosassone dell’umanesimo civico machiavelliano, sino alla rivoluzione americana. Centrale in questa ricostruzione è stata l’utopia militare di James Harrington che aveva riflettuto sul problema della distribuzione del potere tra Re e Parlamento dopo la rivoluzione del 1640. Harrington era interessato alla creazione di una repubblica duratura, fatta di uomini virtuosi, inattaccabile dalla corruzione interna ed esterna. La sua utopica comunità di “Oceana” non sembrava discostarsi troppo dal modello classico: “La coltivazione della terra, formando dei buoni soldati, contribuisce a mantenere una repubblica virtuosa, (...) perché, quando il proprietario dell’aratro entrerà in possesso della spada, la userà in difesa di ciò che è suo”41. Nei dieci anni successivi alla Glorious Revolution, due epigoni di Harrington, John Trenchard e Andrew Fletcher, che avevano per modello quel passato medioevale inglese in cui i Freeholders partecipavano direttamente alla difesa ed al governo del paese, si sarebbero fatti i portavoce della battagliera opposizione della Gentry alla politica estera del paese, che con la creazione della Banca d’Inghilterra nel 1694 e l’enorme progressione del debito pubblico, aveva potuto armare e mantenere una flotta ed un grande esercito permanente da impiegare nella guerra contro Luigi XIV42. A questi scrittori aveva risposto Daniel Defoe, negando proprio il valore di quella libertà medioevale. La vera libertà, per lui, era quella apparsa quando i grandi proprietari terrieri erano riusciti a svincolarsi dalla subordinazione feudale e avevano acquisito attraverso il commercio, il controllo sui movimenti dei loro beni43. Secondo DeF. VENTURI, Utopia e riforma nell’illuminismo cit., pp. 61-87. J. HARRINGTON, The Commonwealth of Oceana cit., p. 158. Su Harrington vedi J.G.A. POCOCK, The Machiavellian Moment cit., pp. 383-461 e J.H. HEXTER, On Historians, London, Collins, 1979, pp. 293-303. 42 J.G.A. POCOCK, The Machiavellian Moment cit., pp. 425-435. 43 Ibid., pp. 432-433. Di POCOCK vedi anche The Varieties of Whiggism from Exclusion to Reform, in Id., Virtue, Commerce, and History, Cambridge, Cambridge University Press, 1985, pp. 246-247 e The Problem of Political Thought in 40 41
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foe l’individuo avrebbe potuto vivere meglio e più felicemente e sarebbe stato veramente libero solo in una moderna società commerciale e non certo in una polis antica fondata su un’economia di tipo agrario e continuamente in stato di guerra. Per Pocock il dibattito sul carattere della libertà si sarebbe radicato stabilmente nel pensiero politico inglese alcuni anni dopo, anche e sopratutto per merito della vivace battaglia cartacea tra i sostenitori del capo di gabinetto Robert Walpole e quelli del suo avversario Lord Bolingbroke. Secondo gli scrittori filogovernativi non si poteva ipotizzare neppure l’ombra di una partecipazione del popolo al governo o addirittura neppure la parvenza della sua libertà, in un medioevo caratterizzato non da uno ma da tanti piccoli tiranni quanti erano i Baroni che trattavano i sudditi come schiavi44. Dall’altra parte, invece, Lord Bolingbroke aveva proclamato l’assurdità della tesi di una moderna libertà: “una dottrina nuova e pericolosa, inizialmente sostenuta dai Tories e poi adottata dai nostri moderni Whigs, secondo cui la libertà non è un’eredità antica, bensì solo un’acquisizione della Rivoluzione o, andando ancora più indietro nel tempo, della Restaurazione”45. Per Venturi un ruolo decisivo nella creazione della modernità politica attraverso la contaminazione del repubblicanesimo, fu giocato dai deisti John Toland, Anthony Collins e Mattew Tindal. Le idee repubblicane inglesi, infatti, poterono attecchire nel continente soltanto nella veste filosofica che questi autori seppero dargli, presentandole sotto la forma di deismo, libero pensiero, esaltazione della libertà inglese. “Soltanto così le idee dei levellers e dei repubblicani classici dell’Inghilterra seicentesca divennero cosmopolite e poterono attecchire in Francia, in Germania, in Italia, agendo come
the Eighteenth Century: Patriotism and Politeness cit., pp. 9-12. 44 D. FORBES, Hume‘s Philosophical Politics, Cambridge, Cambridge University Press, 1975, pp. 233, 243, 249. Vedi anche J.G.A. POCOCK, Josiah Tucker on Burke, Locke, and Price, in Id., Virtue, Commerce, and History cit., p. 181. 45 LORD BOLINGBROKE, dedica al vol. VIII de il “Craftsman”, London, 1737, in D. FORBES, Hume‘s Philosophical Politics cit., p. 244.
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un fermento potente su tutta l’Europa del nascente Illuminismo”46. Le idee di Toland e Collins furono fortemente attive nella tollerante Olanda, resa fertile alla loro ricezione dall’opera di Bayle, così come nella Francia del periodo successivo alla morte del Re Sole, e nella stessa Vienna, da dove, tramite Pietro Giannone, furono propagate nell’ Italia meridionale. Esse penetrarono anche nella Germania dell’Aufklärung, sebbene meno incisivamente, essendo questa interessata più a problemi di ordine morale ed estetico che politico47. Il “passaggio dalla tradizione repubblicana alla nascita dell’illuminismo”, fu caratterizzato, per Venturi, dalla “stretta connessione fra la lotta politica e la nascita del libero pensiero”48. In Francia la sirena repubblicana avrebbe attratto molteplici scrittori, da Fénelon, Boulanvilliers e Montesquieu, a Voltaire, Diderot, d’Alembert e Rousseau. Un vero e proprio “fermento repubblicano” avrebbe percorso il paese fra il 1745 e il 175449. Sarebbero stati però Montesquieu e Rousseau gli scrittori più emblematici di questa tradizione, anche perché furono quelli che avrebbero influenzato maggiormente i protagonisti della rivoluzione francese. Da una parte i due autori, nella loro concezione della democrazia avevano stabilito che il popolo era l’unico detentore del potere legislativo sovrano – Montesquieu infatti aveva scritto che “in uno stato libero ogni uomo, che si suppone possieda uno spirito libero, deve guidarsi da sé”50, dall’altra, però, quest’ idea di democrazia diretta presupponeva appunto l’esistenza di stati dalle piccole dimensioni, proprio come le virtuose repubbliche di Grecia e di Roma. Rousseau a questo proposito era stato molto chiaro: “D’altra parte, quante cose difficili da riunire non suppone questo governo! In primo luogo, uno stato piccolissimo, ove il popolo sia facile a radunarF. VENTURI, Utopia e riforma nell’illuminismo cit., p. 64. Ibid., pp. 83-84. 48 Ibid., p. 86. 49 Ibid., pp. 90, 93. Vedi anche L. GUERCI, Libertà degli antichi e libertà dei moderni. Sparta, Atene e i philosophes nella Francia del ‘700 cit. 50 MONTESQUIEU, De l’Esprit de Lois cit., vol. II, p. 399 (trad. it. cit., vol. I, p. 280). Su Montesquieu consulta T.L. PANGLE, Montesquieu Philosophy of Liberalism, Chicago, University of Chicago Press, 1973, pp. 48-160. 46 47
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si, e dove ogni cittadino possa agevolmente conoscere tutti gli altri; secondariamente, una grande semplicità di costumi che eviti il moltiplicarsi degli affari e le discussioni spinose; inoltre l’eguaglianza dei gradi sociali e delle fortune, senza di che l’eguaglianza non potrebbe sussistere lungamente nei diritti e nell’autorità”51. Nel Contratto Sociale di Rousseau, il repubblicanesimo, alla fine, si sarebbe miscelato con una teoria della sovranità popolare dai contorni decisamente universalistici; per questa ragione Venturi ha fatto del ginevrino il “punto di contatto tra le idee democratiche che andavano allora emergendo e il passato comunale”52, e J.N. Shklar ha considerato per questa ragione Rousseau una sorta di ‘universalizzatore’ del repubblicanesimo proprio perché spingeva in direzione di una nuova democrazia più egualitaria53. Questa trasformazione della libertà degli antichi in una concezione democratica più moderna la si può osservare meglio, se volgiamo ancora una volta lo sguardo verso il ‘ribollente calderone’ del radicalismo politico anglosassone. Infatti se da una parte è vero che per molti esponenti del repubblicanesimo inglese, la partecipazione politica non doveva essere intesa in senso individualistico ed egalitario ma sempre all’interno della tradizionale gerarchia sociale, il caso di James Burgh è sintomatico di una transizione in atto che avrebbe portato a qualcosa di concettualmente diverso e nuovo; egli sosteneva il suffragio universale per i maschi, ma coniugato ad una concezione del popolo che rimanesse organizzato nelle vecchie forme sociali, le quali dovevano contemplare la necessaria guida da parte degli uomini di proprietà. Aveva infatti scritto: “Ciò che io propongo è di impiegare il potere del popolo, guidato, limitato e diretto dagli uomini di proprietà che hanno interesse alla sicurezza J.J. ROUSSEAU, Du Contrat Social (1762), in Id., Œuvres complètes cit., vol. III, p. 405 (trad. it., Il contratto sociale , Milano, Mursia, 1987, p. 74). 52 F. VENTURI, Utopia e riforma nell’illuminismo cit., p. 107. Sul problema della sovranità in Rousseau vedi R. DERATHÉ, J.J. Rousseau et la science politique de son temps, Paris, J. Vrin, 1988, pp. 248-364. 53 J.N. SHKLAR, Montesquieu and the New Republicanism, in G. Bock - Q. Skinner - M. Viroli, Machiavelli and Republicanism, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, pp. 269-274. 51
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del proprio paese e non hanno entrate che derivino da uffici o pensioni”54. Dall’altra, questo linguaggio, non fu mai disgiunto completamente da una matrice religiosa che avrebbe finito per estenderne le rivendicazioni in senso universale. Quando il freddo individualismo metodologico di Locke, ha scritto John Dunn, parlando dell’opera di Elisha Williams, si sarebbe mescolato “con l’insistente domanda puritana per l’autonomia emozionale”, i due aspetti si sarebbero trasformati in una dottrina così radicale che “non avrebbe potuto essere concepita da nessun altra parte nel mondo del diciottesimo secolo”55. I Dissenters, infatti, calvinisti, tollerati ma non riconosciuti dalla chiesa anglicana, dopo il 1760 si sarebbero impegnati su tre grandi temi: l’attacco ai testi religiosi ufficiali, l’indipendenza americana e la riforma parlamentare56. Per essi la richiesta di una più ampia libertà doveva significare l’abbattimento dell’establishment ecclesiastico. Il “diritto di giudicare per sé stessi che cosa si deve credere e praticare nella religione”57 secondo le sacre scritture, diritto che secondo Elisha Williams apparteneva ad ogni cristiano, divenne il “diritto ad esprimere un’ opinione personale” e fu rivolto sia contro l’istituzione del sacerdozio, che contro la tirannia dello J. BURGH, Political Disquisitions: or, an Enquiry into Public Errors, Defects, and Abuses, London, Dilly, 1774-5, vol. III, p. 426, vedi anche vol. I, pp. 181, 3738. La sua opera è stata considerata una delle più influenti nei riguardi dei coloni americani e di personaggi come Thomas Jefferson. A questo proposito vedi C. ROBBINS, The Eighteenth-Century Commonwealthmen, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1959, pp. 363-364, B. BALYN, Ideological Origins of the American Revolution, Cambridge (Mass.), Harvard, University Press, 1967, nota p. 41. Altrettanto conosciuta e influente presso gli americani fu Catharine Macaulay, ospite dello stesso George Washington. Le contraddizioni della sua concezione repubblicana scaturirono soprattutto dopo la rivoluzione francese. Cfr. B. HILL, The Republican Virago, the Life and Times of Catharine Macaulay, Historian, Oxford, Clarendon Press, 1992. 55 J. DUNN, Political Obligation in Its Historical Context, Cambridge, Cambridge University Press, 1980, p. 73. Cfr. E. WILLIAMS, The Essential Rights and Liberties of Protestants (1744), in E. SANDOZ (ed.), Political Sermons of the American Founding Era, 1730-1805, Indianapolis, Liberty Fund, 1990, pp. 51-118. 56 J.C.D. CLARK, English Society 1688-1832: Ideology, Social Structure and Political Practice during the Ancien Régime, Cambridge, Cambridge University Press, 1985, p. 320. 57 E. WILLIAMS, The Essential Rights and Liberties of Protestants cit., p. 55. 54
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stato, perché entrambe le istituzioni rendevano impraticabile l’esercizio della libertà religiosa58. Le due grandi cause dell’indipendenza americana e della riforma parlamentare, negli scritti dei non conformisti, si erano trasformate in un attacco diretto contro Chiesa e Re. Samuel Adams così aveva arringato i suoi fedeli a Philadelphia nel 1776: “I nostri antenati si sono liberati dal giogo del papismo nella religione, a voi è riservato l’onore di abolire il papismo della politica”59 e, due anni dopo in Inghilterra, anche Robert Robinson si sarebbe scagliato contro il governo dell’alto clero: “La prelatura come sistema di governo è fondamentalmente sbagliata – in tutti i tipi di buon governo – il popolo è l’origine del potere” 60. Per Joseph Priestley, invece, si doveva aspettare che si fosse frantumata quell’alleanza innaturale tra una falsa chiesa e i regni di questo mondo, si doveva attendere “la caduta dei poteri civili”, prima che Gesù Cristo tornasse su questa terra61. L’intima connessione tra la critica ai principi religiosi e quella ai principi politici, la stretta interdipendenza tra l’attacco al governo civile e a quello ecclesiastico, furono messi bene in luce da un loro accanito avversario, John Fletcher, nel 1775. Egli aveva scritto che “il passaggio dall’antinomismo ecclesiastico a quello civile è semplice ed ovvio: poiché, come colui che rispetta la legge di Dio, rispetterà naturalmente gli ordini del Re, allo stesso modo, colui che pensa di essere libero dalla legge del Signo-
58 Vedi, per esempio, A. KIPPIS, A Sermon Preached at the Old Jewry, on the Fourth of November, 1788, London, 1788, e J. TOWERS, An Oration Delivered at the London Tavern on the Fourth of November, 1788, London, Dilly, 1788. 59 S. ADAMS, An Oration Delivered at the State-House, in Philadelphia to a Very Numerous Audience; on Thursday the 1st of August, 1776, Philadelphia-London, Johnson, 1776, p. 2. 60 R. ROBINSON, A Plan of Lectures on the Principles of Non Conformity, Cambridge, Hodson, 1778, p. 10. Più avanti continuava: “Il moderno clero non conformista ci induce a studiare il governo - Sidney- Locke- Montesquieu- Beccariaci insegnano le nozioni che abbiamo di governo – tutti ritengono il popolo come l’origine del potere” (Ibid., p. 49). 61 J. PRIESTLEY, A History of the Corruptions of Christianity (1782), in Id., The Theological and Miscellaneous Works of Dr. Priestley, London, Rutt, 1817-32, vol. V, p. 504.
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re, difficilmente si considererà vincolato agli statuti del suo sovrano”62. Secondo Pocock la proposta rivoluzionaria dei dissenters era stata proprio quella di invocare la separazione tra chiesa e stato ed una volta che si era fatta venir meno la giustificazione ecclesiastica per la società civile, non si poteva ricorrere ad altro che ai diritti naturali che sancissero l’uguaglianza di tutti gli uomini a prescindere dalla chiesa di appartenenza63 . Qual era la posta in palio che stava sottesa a queste dispute? I dissenters cominciarono ad identificare la libertà religiosa con quella civile e politica in quanto entrambe rappresentanti un diritto d’opinione legato alla libera espressione della persona e lottarono perché queste libertà fossero estese a tutti in modo da rappresentare un grande beneficio per l’intera società. La libertà religiosa relegata nello stretto ambito della coscienza interiore non era più sufficiente, la vera libertà si poteva godere solo quando si aveva la possibilità di agire esternamente seguendo i propri principi, senza per questo essere oggetto di discriminazione civile e politica. Libertà religiosa, civile e politica dovevano così andare di pari passo e la stessa partecipazione politica si venne in tal modo spesso a configurare come il diritto di poter dare un’opinione, magari pubblica attraverso la stampa, su problemi concernenti la religione e la politica. Così avrebbe scritto Joseph Priestley a questo proposito: “In realtà uno dei più preziosi diritti dell’uomo, in quanto individuo, ed il più importante per lo stato stesso, è quello di dare la propria opinione e di sforzarsi di informare gli altri tutte le volte che sono coinvolti i 62 J. FLETCHER, A Vindication of the Rev. Mr. Wesley’s “Calm Address to our American Colonies”: in Some Letters to Mr. Caleb Evans, London, Foundry, 1775, p. 46. 63 J.G.A. POCOCK, introduzione a Burke, Reflections cit., p. xxvii. Clark, a questo proposito, ha parlato dell’importanza di Common Sense, di Thomas Paine, che rompendo la necessità dell’alleanza monarchica, aveva aperto la strada all’indipendenza americana; inoltre, anche il nucleo fondamentale dei Diritti dell’uomo, si sarebbe basato sull’attacco contro il principio ereditario e il sacerdozio in quanto pilastri centrali dell’antico regime (J.C.D. CLARK, English Society cit., pp. 326, 328).
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propri interessi e quelli pubblici. È il solo metodo per recuperare ed aumentare la saggezza del proprio popolo. Pertanto è nell’interesse di tutti che ogni uomo nella società mantenga il suo potere naturale di parlare, scrivere ed esternare i propri sentimenti su tutte le questioni ed, in particolar modo, di proporre nuove forme di governo e di criticare quelli che abusano della fiducia pubblica. Questo è il metodo migliore e più semplice per controllare gli abusi”64. Che cosa c’era di tanto destabilizzante nelle parole di Priestley e di quelle simili degli altri predicatori non conformisti? Essi, semplicemente, avevano spostato quello che loro consideravano un vero e proprio “diritto ad un parere personale” – un diritto intellettuale presente nella natura dell’uomo – dalla religione alla politica, in pratica cioè stavano estendendo in campo politico il principio democratico implicito, come abbiamo già accennato, nell’idea luterana del sacerdozio universale. Questo passaggio dalla sfera religiosa a quella civile, poi soprattutto politica, si era potuto effettuare anche perché si era cominciato a pensare che la libertà personale, che includeva quella religiosa e civile, potesse essere meglio salvaguardata con una partecipazione alla libertà politica. Per questa ragione Priestley, in un primo tempo, distinse la libertà civile da quella politica65, poi affermò che “le libertà civili, o i diritti personali non [sarebbero stati] più garantiti essendo alla mercé degli altri. La libertà politica perJ. PRIESTLEY, Lectures on History (1788), in Id., The Theological and Miscellaneous Works of Dr. Priestley cit., vol. XXIV, p. 222. 65 Aveva scritto Priestley: “Direi che la LIBERTÀ POLITICA consiste nel potere che i membri di uno stato si riservano per accedere alle cariche pubbliche o almeno per avere il diritto di nominare coloro che le occupano: con LIBERTÀ CIVILE chiamerei quel potere che i membri dello stato hanno sopra le proprie azioni e che i funzionari pubblici non devono calpestare. La libertà politica è pertanto equivalente alle prerogative della magistratura, essendo diritto di ogni membro dello stato quello di far diventare i propri giudizi o le proprie opinioni personali di rilevanza pubblica e perciò controllare le azioni degli altri; laddove la libertà civile non va oltre la condotta personale del singolo ed implica il diritto che egli ha di essere dispensato dal controllo della società o dei suoi funzionari, e cioè il potere che egli ha di provvedere alla propria convenienza e felicità” (J. PRIESTLEY, An Essay on the First Principles of Government, and on the Nature of Political, Civil and Religious Liberty (1768), in Id., The Theological and Miscellaneous Works of Dr. Priestley cit., vol. XXII, p. 11). 64
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tanto [era] l’unico modo sicuro di preservare la libertà civile, ed [era] quindi, sotto questo aspetto, molto preziosa”66. Anche un altro predicatore, Richard Price, pensava che “tutti i diversi tipi di libertà converg[eva]no nell’idea generale di autogoverno”67. Eppure il suo caso merita una maggiore attenzione per capire come potessero saldarsi i nuovi elementi universalistici introdotti dalla teologia protestante, elementi che avevano fatto assumere notevoli sfumature in senso democratico alla dottrina settecentesca della legittimazione dal basso dell’autorità, con la tradizione repubblicana, per cui la libertà politica si identificava esclusivamente con il concetto di autogoverno ed era prerogativa dei soli cittadini virtuosi. Fu proprio Price infatti, a differenza di Priestley che spesso dava alla libertà politica un mero valore strumentale, ad insistere sull’aspetto dell’autogoverno; “ogni uomo è il legislatore di se stesso”, aveva scritto nelle Observations, specificando proprio che la possibilità di essere guidati dalla propria volontà era “particolarmente adatta alla libertà politica”68. Inoltre il rousseauviano Price mostrava di temere proprio quei pericoli che accompagnavano le grandi estensioni degli stati moderni, cioè a dire proprio il pericolo di “una diminuizione della libertà”69, mentre Priestley era perfettamente consapevole che le antiche repubbliche, insieme alla libertà politica, più volte avevano prodotto anche una buona dose di oppressione70. 66 J. PRIESTLEY, Lectures on History cit., vol. XXIV, p. 228, ma vedi anche Id., The Theological and Miscellaneous Works of Dr. Priestley cit., vol. XXII, pp. 386, 388 sgg. e anche Id., An Essay on the First Principles of Government cit., pp. 37, 40. 67 R. PRICE, Additional Observations on the Nature and Value of Civil Liberty (1777), in Id., Political Writings, Cambridge, Cambridge University Press, 1991, p. 76. 68 R. PRICE, Observations on the Nature and Value of Civil Liberty (1776), in Id., Political Writings cit., p. 26. Vedi anche Id., Additional Observations ... cit., p. 80. 69 R. PRICE, Observations on the Nature and Value of Civil Liberty cit., p. 24. D’altronde anche Price era pervaso dall’ideale harringtoniano e pensava che la virtù pubblica fosse l’unico ostacolo al lusso ed alla corruzione. 70 J. PRIESTLEY, Lectures on History cit., p. 425.
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Le metamorfosi dell’antilluminismo
La nuova concezione democratica che si andava formando e la tradizione repubblicana andarono così a fluire inestricabilmente nella rivoluzione francese. Fu Edmund Burke, tra i primi, ad associare il giacobinismo sostenitore della libertà degli antichi ed il dissenso radicale inglese. Nel 1793, nelle Osservazioni sulla condotta della minoranza, egli rese esplicito questo collegamento, stabilendo un parallelo tra i vecchi sostenitori della riforma del parlamento nel 1782 (a quel tempo sostenuti da William Pitt) e i nuovi adepti della rivoluzione. Coloro che attaccavano la Camera dei Comuni in nome di una “rappresentanza del popolo contata per teste, ossia una rappresentanza individuale”, non erano altro che giacobini: La riforma parlamentare e la rivoluzione erano infatti collegate. “I partigiani dell’una sono i partigiani dell’altra”71. Questo incontro era simboleggiato per Burke dall’amicizia tra Priestley e Condorcet, “il più accanito degli stravaganti repubblicani”72. Eppure sarebbe stato proprio da Condorcet che Benjamin Constant avrebbe tratto la sua famosa distinzione e reinterpretazione delle due libertà, caposaldo della moderna concezione liberal-democratica73.
E. BURKE, The Writings and Speeches of Edmund Burke, P. Langford (ed.), Oxford, Clarendon Press, 1981-1997 (di qui in avanti WR), vol. VIII, pp. 441, 443. 72 Ibid., p. 369. 73 E. ROTHSCHILD, Condorcet and the Conflict of Values, in “The Historical Journal,” 1996, n. 3, pp. 698-699. Vedi anche della stessa autrice, Economic Sentiments: Adam Smith, Condorcet and the Enlightenment, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 2001. 71
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3. Le origini dell’antilluminismo: Bossuet e i cattolici francesi, Swift, Vico, Rousseau, Tucker ed Herder
Peter Gay ci ha mostrato come l’illuminismo, sin dal suo sorgere, sia stato tacciato di tutto e del suo contrario. Esemplificative erano state due posizioni a lui contemporanee che, pur non citando egli gli autori, erano però facilmente riconducibili alle opere di Lester G. Crocker e Carl L. Becker. Da una parte cioè, c’era chi aveva accusato i philosophes di stravolgere i valori cristiani in un vortice di relativismo, dall’altra invece chi li stigmatizzava per avere quella mentalità utopica che starebbe alla base del moderno totalitarismo1. È sempre difficile raccontare una storia intellettuale in termini di contrapposizione frontale, di schemi binari, la tentazione di semplificare eccessivamente infatti è sempre presente. Ogni scrittore è un universo complesso fatto di intuizioni e suggestioni spesso contraddittorie, un universo che non si può riassumere sotto un’unica categoria, un liquido che non si può racchiudere in un solo recipiente. A volte, al di là delle macroscopiche incongruenze teoriche, dobbiamo cercare di percepire uno stato d’animo, un atteggiamento di sostanziale rifiuto del mondo nuovo che veniva configurandosi. Certi scrittori, sin dai primordi dell’età dei Lumi, vi intravidero gli errori funesti della modernità, a volte nella non consapevolezza di essere loro stessi portatori del nuovo in altre parti della loro produzione letteraria. Contrastare i Lumi, contrastare l’avanzata della società moderna, significava dunque ‘sparare’, se non su tutti contemporaneamente, almeno su alcuni di quegli aspetti od autori che siamo venuti sin qui evidenziando. In una breve rassegna di scrittoP. GAY, The Party of Humanity. Essays in the French Enlightenment, New York, Alfred A. Knopf, 1964, pp. 284-85. L.G. CROCKER, An Age of Crisis cit., C.L. BECKER, The Heavenly City of the Eighteenth Century Philosophers (1932), New Haven, Yale University Press, 1959. 1
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3. Le origini dell’antilluminismo:
ri significativi per la storia del pensiero politico, dalla fine del Seicento alle soglie della rivoluzione francese vedremo come l’armamentario ideologico contro l’individualismo democratico fosse pronto sin dalle origini, come la reazione all’autonomia morale dell’uomo, ai diritti della natura, al razionalismo, ad una civilizzazione cosmopolita, alla società commerciale, al progresso, fossero da tempo ben delineati. Già agli esordi del Settecento si sarebbero levate, contro le nuove idee, le voci di alcuni grandi autori. Come non accennare alla famosa A Tale of a Tub di Jonathan Swift che, nel 1704, si era scagliato contro il razionalismo di Cartesio ed Hobbes, e contro tutte quelle follie dei filosofi causate dal vapore acqueo che offusca i loro cervelli2. In particolare era stata proprio la filosofia di Hobbes a destare le maggiori preoccupazioni, il suo Leviatano è l’opera da cui, scriveva Swift, “i terribili ingegni della nostra epoca prend[o]no in prestito le armi” per attaccare lo Stato e la religione3. Swift ovviamente, nella disputa tra gli antichi e i moderni, si era schierato in favore dei primi: nella celebre Battaglia dei libri così aveva descritto i sostenitori dei moderni: “essendo leggeri di testa, possiedono un’agilità fenomenale nella speculazione, e nulla è tanto in alto che le loro concezioni non possano salirvi; ma quando passano a ridurle in pratica, ecco che si scoprono una possente pressione nel posteriore e nelle calcagna”4. A fare una fine ingloriosa, oltre a Cartesio, tra gli altri figuravano anche Bacon, Perrault e Fontenelle. Queste acute critiche al razionalismo ed ai moderni, sarebbero state riprese anche nei Viaggi di Gulliver, dove si sarebbe negata recisamente qualsiasi analogia tra matematica e politica: famosa la descrizione degli abitanti delle città fantastiche di Laputa e Balnibarbi, cittadini sempre assorti nei loro pensieri, nelle loro astrazioni, e sempre 2 J. SWIFT, A Tale of a Tub (1704), in Id., A Tale of a Tub with Other Early Works 1696-1707, Oxford, Blackwell, 1965, pp. 104-107 (trad. it., Opere, Milano, Mondadori, 1983, pp. 506-508). 3 Ibid., p. 24 (trad. it. cit., pp. 410-411). 4 J. SWIFT, The Battle of the Books (1704), in Id., A Tale of a Tub with Other Early Works cit., p. 145 (trad. it., Opere cit., p. 555).
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Le metamorfosi dell’antilluminismo
“pieni di vaporose idee”, mentre il loro “paese è tutto una pietosa devastazione, le case crollano, i cittadini difettano di cibi e indumenti”5. Swift che sarebbe stato, come accennato, anche una delle penne del “Craftsman” al servizio di Bolingbroke contro Walpole, dai fogli dell’“Examiner” aveva già tuonato sprezzante, con piglio aristocratico, contro alcuni aspetti del costume della nuova società commerciale allora in fieri. Così aveva argomentato a riguardo degli speculatori sul debito pubblico inglese: “una quantità di uomini nuovi e abili”, persone che però erano “oscure come i loro antenati”, e volevano trarre profitto da uno stato di guerra prolungato. La loro azione era così nefasta da turbare i tradizionali ancoraggi del potere inglese. Esso “che secondo la vecchia massima [avrebbe dovuto] sempre accompagnare il possesso terriero, [era] ora passato al denaro”. La ricchezza del paese non si misurava più dal valore della terra, ma “dal rialzo e dal ribasso dei titoli di Stato”. Non era la ricchezza in se stessa a far paura, ma quando questa viaggiava unita all’ambizione. Per Swift dunque ci si poteva anche arricchire ma rimanendo al proprio posto e per condannare la “sete insaziabile di denaro”, si doveva far ricorso a tutte le armi, “la divina autorità delle Sante Scritture, i precetti dei filosofi, le frustate e i motteggi dei poeti satirici”, armi che erano a disposizione di un uomo di cultura, o come lui si definiva, “un esaminatore e non un riformatore”6. Anche Giambattista Vico, che Berlin inserisce tra i grandi critici dell’illuminismo, sempre al principio del Settecento, nella disputa tra gli antichi e i moderni, si era schierato con i primi, in nome dei classici latini, manifestando la sua predilezione, contro le scienze sperimentali, per le discipline umanistiche e per la storia, questa sì, la vera scienza nuova: men che mai, nella sua opinione, il metodo J. SWIFT, Gulliver’s Travels (1726), Oxford, Oxford University Press, 1963, p. 197 (trad. it., Opere cit., p. 209). 6 J. SWIFT, The Examiner and Other Pieces Written in 1710-11, Oxford, Blackwell, 1966, pp. 4, 6, 5, 82 (trad. it., Opere cit., pp. 646, 644, 658). 5
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3. Le origini dell’antilluminismo:
galileiano avrebbe potuto applicarsi alla storia umana7. Possiamo dire che, pur nel suo modo peculiare di intendere le virtù civiche dei classici, Vico fu fortemente influenzato dal neoplatonismo rinascimentale, da autori come Lorenzo Valla, Marsilio Ficino o Pico della Mirandola, e rimase costantemente come proiettato all’indietro8. Per Cecilia Miller la sua stessa svolta anti-cartesiana fu un modo per dimostrare ai contemporanei che lui si identificava proprio con gli antichi9. Non a caso nella sua autobiografia Vico non poté rimarcare che con delusione come negli ambienti letterari napoletani di fine Seicento invece di coltivare “i Platoni, i Plotini coi Marsili, onde nel Cinquecento fruttarono tanti gran letterati”, si era preferito occuparsi delle “astrusissime” “Meditazioni di Renato”10. Nella sua polemica contro il razionalismo ed il diritto naturale, sottolineando l’importanza dell’immaginazione e della fantasia, Vico non avrebbe risparmiato i suoi strali anche a Grozio, Selden, Hobbes, Pufendorf e Locke11. Egli si era opposto ad una concezione dell’indagine scientifica e razionale che, come aveva sostenuto Bayle, fosse priva di un fondamento religioso: il primo colpevole era stato Grozio che aveva preteso che il suo sistema prescindesse “dalla provvedenza divina” e si reggesse senza “cognizione di Dio”, poi era seguito Pufendorf che aveva posto “l’uomo gittato in questo mondo senza niun aiuto e cura di Dio”12, ma non da meno era stato G. VICO, De nostri temporis studiorum ratione (1709), Firenze, Olschki, 2000, pp. 349-374. 8 Cfr. G. VICO, Vita di Giambattista Vico scritta da sé medesimo (1725, 1728), Milano, Garzanti, 1983, pp. 19, 20, 29. 9 C. MILLER, Giambattista Vico: Imagination and Historical Knowledge, London, S. Martin Press, 1993, pp. 12, 9, 23. Per le celebri osservazioni su Cartesio vedi G. VICO, Risposta a tre opposizioni contro il “De antiquissima italorum sapientia”, in Id., Opere, vol. I, Bari, Laterza, 1914, p. 221. 10 G. VICO, Vita di Giambattista Vico scritta da sé medesimo cit., p. 33. 11 G. VICO, La Scienza Nuova (1744), Milano, Garzanti, 1983, §313, p. 274, §§394, 395, 396, 397, p. 335, §179, pp. 253-54, § 185, p. 255, §498, p. 367, e Id., Opere giuridiche. il diritto universale (1720), Firenze, 1974. 12 G. VICO, La Scienza Nuova cit., §§ 395, 397, p. 335. Per Mark Lilla, Vico si era opposto alla modernità e all’illuminismo filosofico (M. LILLA, Giambattista Vico: The Making of an Anti-Modern, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1993, pp. 227-231), mentre Paolo Cristofolini è scettico sul fatto che il 7
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Le metamorfosi dell’antilluminismo
Spinoza che “con lo stesso metodo geometrico (...) impone a cervelli deboli una metafisica dimostrata che porta all’ateismo”13. Hobbes, Spinoza, Bayle e Locke con le loro dottrine si erano opposti alle “massime della civiltà cattolica” e in questo modo non potevano che andare a “distruggere tutta l’umana società”14. Il germe corruttore che accomunava tutti questi autori a partire da Cartesio era stato senza dubbio l’individualismo: mentre le opere di Platone, Aristotele e Cicerone erano intese “a ben regolare l’uomo nella civile società”, quelle degli stoici e degli epicurei, erano caratterizzate da “una morale di solitari”. Per questo Vico accostava la fisica epicurea a quella di “Renato Delle Carte”, entrambe connotate da l’essere “meccaniche”, ma paragonava anche le stesse figure di “Grozio, Seldeno e Pufendorfio” a quelle sètte che si erano intruse nella giurisprudenza romana, “spezialmente degli stoici ed epicurei”, e che lui valutava negativamente15. E se Vico si richiamava alla teologia cattolica contro l’individualismo nascente, non possiamo non considerare un autore come Bossuet, che già in una lettera del maggio 1687, aveva avvertito che contro la Chiesa si stava preparando una grande attacco “sotto il nome della filosofia cartesiana”. Bossuet vedeva “nascere dal suo seno e dai suoi principi, (...) più di un’eresia”. Tali principi infatti, che non permettevano di ammettere altro, da ciò che si poteva capire chiaramente, nei fatti introducevano “una libertà di giudicare”, che “senza riguardi per la tradizione”, avrebbe avanzato “temerariamente, tutto ciò che uno pensa”16. Bossuet non si sarebbe fermato a Cartesio e sarebbe andato a rintracciare le origini dell’individualismo ancora più indietro, sino alla Riforma. Un anno dopo, nel cartesianesimo e l’illuminismo siano i suoi veri idoli polemici (P. CRISTOFOLINI, Vico pagano e barbaro, Pisa, ETS, 2001, p. 61). 13 G. VICO, Lettera a Muzio Gaeta (1737), in Id., Epistole, con aggiunte le epistole dei suoi corrispondenti, Napoli, Morano, 1992, p. 190. 14 G. VICO, Lettera a Filippo Monti (1724), in Id., Epistole... cit., pp. 109-110. 15 G. VICO, Vita di Giambattista Vico scritta da sé medesimo cit., pp. 21, 22, 58. 16 J.B. BOSSUET, Lettera ad un discepolo di P. Malebranche, 21 maggio 1687, in Id, Oeuvres Complètes de Bossuet évêque de Meaux, Paris, Migne, 1856, vol. XI, p. 974.
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3. Le origini dell’antilluminismo:
1688, anticipando tutta la settecentesca diatriba cattolica contro i philosophes, e la seguente polemica controrivoluzionaria, ed inaugurando quella prassi, tanto in voga nella filosofia novecentesca, di andare a ricercare nel passato il peccato originale del declino del presente, individuava l’origine di tutto il male nella teologia di Lutero. Era dunque nella sua personale battaglia contro i protestanti che si poteva rinvenire una delle prime chiare opposizioni ai principi del libero esame e del sacerdozio universale ed una delle prime lucide descrizioni delle conseguenze deleterie che queste idee avrebbero comportato per l’ordine religioso e politico. Bossuet infatti nella sua Histoire des variations des églises protestantes aveva messo in luce i disagi e le incertezze di Melantone di fronte alle dottrine del suo maestro Lutero, soprattutto riguardo all’autorità del Papa e dei vescovi. Egli, secondo Bossuet, aveva individuato le deplorevoli conseguenze delle idee luterane, ed aveva mostrato come queste avrebbero potuto portare a continue sedizioni e guerre civili che avrebbero sconvolto la cristianità. Senza un’autorità che provenisse dall’alto sarebbero seguiti ogni sorta di mali, la barbarie e l’anarchia. Saremmo arrivati sempre a questo risultato qualora avessimo scosso “il giogo dell’autorità legittima”17. Per Bossuet i dubbi di Melantone avevano riguardato la costituzione stessa di una chiesa protestante. Era infatti difficile stabilire la verità quando “la scrittura si lasciava torcere e violentare” da chiunque. La chiesa doveva essere ordinata come gli imperi e doveva avere una successione legittima nei suoi magistrati. Se “il vero tribunale” rimaneva “la coscienza”, con cui ognuno poteva “giudicare le cose” nella loro essenza e “capire la verità da sé stesso”, veniva lasciata “una porta aperta a chiunque volesse proclamarsi inviato da Dio”, e si sarebbero costretti “i fedeli a giungere sempre ad un esame di fondo, malgrado l’incapacità della maggior parte degli uomini”. Una volta scossa l’autorità tutti i dogmi sarebbero stati messi in questione, “l’uno dopo l’altro, senza che J.B. BOSSUET, Histoire des variations des églises protestantes (1688), in Id., Oeuvres Complètes de Bossuet cit., vol. VIII, pp. 462-463, vedi anche le pp. 475476, 482. 17
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si sapesse come finire”. Che cosa avrebbe pensato Melantone, si era chiesto ancora Bossuet, se avesse visto uscire dal seno della riforma quelle dottrine che avevano spogliato “il cristianesimo di tutti i suoi misteri”, e che lo avevano trasformato “in una setta filosofica tutta dedita ai sensi”, se da là avesse visto “nascere l’indifferenza verso le religioni”, e ciò che ad essa seguiva naturalmente, “il fondamento stesso della religione attaccato. La Scrittura combattuta direttamente, la strada aperta al deismo, cioè ad un ateismo mascherato”18? D’altronde, come ha scritto Darrin McMahon analizzando l’opposizione settecentesca pre-rivoluzionaria dei cattolici francesi alle Lumières, questa avrebbe considerato l’illuminismo, come Hegel avrebbe fatto in seguito, quale conseguenza ed estensione stessa della riforma protestante. Scuotendo la tradizione cattolica e l’autorità ecclesiastica, la riforma aveva infatti indirizzato gli uomini verso “la frenesia di un intelletto umano senza briglie”, facendogli “credere che potevano raggiungere la verità indipendentemente attraverso lo studio personale della Scrittura e lo scandaglio privato del proprio cuore e della propria mente”. Non era forse vero, inoltre, che i philosophes si consideravano eredi spirituali di autori protestanti come Tindal, Collins, Bayle, Locke e Newton? Essi, con i loro scritti, avevano causato una sorta di terremoto nella concezione dei sentimenti morali e religiosi. Gli apologisti cattolici, contro Voltaire e gli altri, avrebbero adottato perciò, “in un modo moderno”, il linguaggio della controriforma che era stato utilizzato dai loro predecessori contro luterani e calvinisti, ed avrebbero approntato “una consapevole difesa di tradizione, convenzione e pregiudizio storico” ben prima di Burke. Essi, inoltre, in quella che McMahon definisce “una curiosa ironia”, avrebbero sottolineato la “necessità di sostenere virtù e patrie; le loro tirate contro luxe, sensualità, ed egotismo; ed il loro costante lamento per il declino della famiglia [avrebbero echeggiato] motivi ricorrenti nel classico pensiero repubblicano”19. 18 19
Ibid., pp. 475, 482-483. D. MCMAHON, Enemies of the Enlightenment. The French Counter-Enlight-
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Anche in campo protestante, nello stesso periodo preso in esame da McMahon, l’inglese Josiah Tucker, ben prima dunque delle turbolenze rivoluzionarie francesi, si era reso conto della pericolosità per il vecchio ordine sociale che poteva scaturire dall’estensione in politica del principio democratico insito nel sacerdozio universale. Abbiamo già analizzato, nel costituirsi del torrente democratico inglese e americano, il confluire del repubblicanesimo, del deismo e della teologia protestante radicale. Tucker aveva anche capito come all'origine di questa posizione, in Inghilterra e non solo, vi fosse il pensiero di Locke. Per lui infatti, i principi di Locke avevano fornito “un diritto illimitato a sostituire, cambiare, variare ed alterare senza mai giungere a qualcosa di stabile, permanente o durevole”20, ed il principio cui Tucker si era opposto più accanitamente era proprio “il principio lockiano dell’inalienabile diritto ad un parere personale”, principio in sé stesso perfettamente accettabile, “ma ahimè! Egli (ndr: Locke) estese queste idee, che erano veritiere solo per ciò che riguardava la religione, a questioni di mera natura civile e persino all’origine stessa del governo civile”21. Questa estensione, enment and the Making of Modernity, New York, Oxford University Press, 2001, pp. 10, 42-53. 20 J. TUCKER, Four Letters on Important National Subjects, Addressed to the R.H. the Earl of Shelburne, Dublin, Marchbank, 1783, p. 66. 21 J. TUCKER, Treatise Concerning Civil Government, London, Cadell, 1781, pp. 29-30. Anche Blackstone nei suoi Commentari sulle leggi d'Inghilterra, aveva fatto risalire a Locke l'assurda pretesa che il popolo avesse un supremo potere di rimuovere il legislativo. Per quanto giusta, infatti, poteva essere in teoria questa affermazione, era altrettanto inapplicabile: “poiché questo ritorno del potere all’insieme del popolo, implica la dissoluzione dell’intera forma di governo da esso stabilita; riporta tutti i membri alla loro condizione originaria di eguaglianza e annientando il potere sovrano, revoca qualsiasi legge positiva emanata in precedenza” (W. BLACKSTONE, Commentaries on the Laws of England cit., vol. I, p. 157). E durante la rivoluzione, nella metà degli anni ’90, quando il dibattito sulla libertà si infiammerà di nuovo, ovviamente, i più attenti tra coloro che avversavano un qualsiasi collegamento tra libertà personale e libertà politica videro chiaramente la radice di questo nesso negli scritti di Locke, non a caso la fonte principale di Price e Priestley. A questo proposito Dugald Stewart fu esplicito nell’asserire come le errate nozioni di libertà politica fossero state “ampiamente diffuse in Europa dagli scritti del sig. Locke” (D. STEWART, Account of the Life and Writings of Adam Smith cit., p. 310. Sul dibattito vedi Lord H. COCKBURN, Memorials of His
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per Tucker, avrebbe implicato, prima o poi, il ricorso nefasto al suffragio universale diretto, conseguenza da cui non erano rifuggiti Rousseau e Priestley: “L’onesto e non ipocrita Rousseau, vide chiaramente a cosa necessariamente doveva portare l’ipotesi lockiana. Egli era un uomo che non si lasciava mai intimorire dalle conseguenze, per quanto stravaganti ed assurde esse fossero, e dichiarò, con la solita franchezza, che il popolo non poteva trasferire ad altri il proprio inalienabile diritto di voto”22. Questo è ciò cui aspiravano predicatori come Richard Price, il futuro bersaglio polemico di Burke, mentre in Inghilterra il voto era stato considerato sempre un privilegio, “secondo i principi del sig. Locke e dei suoi seguaci questo è completamente sbagliato, poiché il diritto di voto non è legato alla proprietà terriera o alla franchigia, alla condizione sociale, l’età o il sesso; bensì alla natura umana e all’autonomia morale”23. Time, Edinburgh, Black, 1856, pp. 175-185 e E. ROTHSCHILD, Adam Smith and Conservative Economics, “The Economic History Review,” 1992, n. 1, p. 81). 22 J. TUCKER, Treatise Concerning Civil Government cit., p. 39, ma vedi anche p. 236. 23 Ibid., pp. 26-27. Secondo Pocock i “dissenters” nelle loro petizioni avevano usato un linguaggio così fortemente lockiano che il filosofo aveva finito per aquistare un nuovo inusitato ruolo nel discorso politico inglese. Egli, infatti, aveva affermato la sua dottrina dei diritti naturali in un linguaggio abbastanza drastico, anticlericale e antitetico rispetto a Filmer da far divenire il suo Trattato un arsenale pieno di armi per tutti coloro che volevano opporsi all'establishment religioso (J.G.A. POCOCK, Political Thought in English Speaking Atlantic, 1760-1790 cit., p. 271). Per Clark, la sua importanza nel Settecento non si deve tanto al fatto che introdusse la teoria del contratto nel pensiero politico, quanto al fatto che introdusse la sua teologia eterodossa nella speculazione religiosa, elevando la ragione a criterio fondamentale per accertare la rivelazione (J.C.D. CLARK, English Society cit., p. 280). In ogni caso l'uso che venne fatto del pensiero di Locke distorse in parte il vero significato della sua opera. Ha scritto Pocock a questo proposito: “Allora cominciò ad apparire un Locke completamente ‘dissenting’, che poteva anche diventare un Locke radicalmente democratico nel momento in cui l’attacco alla chiesa istituita avesse implicato un attacco al regime monarchico ed aristocratico che la sosteneva e la visione di una società che esista esclusivamente per il mantenimento dei diritti civili e per il loro libero godimento pose le fondamenta di quell’ incessante critica delle istituzioni che è divenuta la ragion d’ essere degli intellettuali liberali; i dissidenti razionali furono gli antenati della sinistra britannica” (J.G.A. POCOCK, Political Thought in English Speaking Atlantic, 1760-1790
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Nelle parole di Tucker si può dunque comprendere come, affermando l'indipendenza e l'autonomia morale dell'individuo, si stabilisse la necessità dell'uguaglianza di tutti gli individui e, di conseguenza, quando si sarebbe parlato di rappresentanza del popolo, si sarebbe cominciato a vederlo non più come un Body Corporate, come una “Persona Ficta”, ma come un insieme composto da singoli individui. Questo passaggio dalla sfera religiosa a quella civile, poi soprattutto politica, si era potuto effettuare anche perché, come si è notato, si era cominciato a pensare che la libertà personale, che includeva quella religiosa e civile, potesse essere meglio salvaguardata con una partecipazione alla libertà politica. Nel capitolo precedente abbiamo visto come la tradizione dell’umanesimo civico si possa leggere anche in modo antitetico all’illuminismo e vedremo in seguito come il torrente sotterraneo dell’ideologia repubblicana abbia continuato ad alimentare i suoi avversari sino ai nostri giorni. Considerando perciò centrale l’importanza che questa tradizione ebbe ed avrebbe assunto anche in seguito, il caso di Rousseau, che abbiamo visto proprio ora essere additato da Tucker come sostenitore di nuove e pericolose idee, ci sembra essere quello più emblematico per mettere a nudo l’ambivalenza di questa tradizione di pensiero fin nel cuore stesso delle Lumières. Rousseau aveva in mente infatti, come abbiamo già ricordato, un modello di società, in netta contrapposizione con la corruzione e la decadenza delle moderne società commerciali, uno stato cioè basato sull’agricoltura, non lontano da quello proposto da Harrington, che assomigliasse alle virtuose repubbliche di Grecia e Roma, caratterizzate dalla semplicità dei costumi24. Nel celebre Discours sur les cit., p. 271). R. Ashcraft ha invece avanzato l'ipotesi che i legami che Locke ebbe con i Levellers dovrebbero far considerare la sua politica più radicale di quanto sino adesso si è creduto (R. ASHCRAFT, Revolutionary Politics and Locke's Two Treatises on Government, Princeton, Princeton University Press, 1986). Per i legami tra Locke e i dissenters vedi anche C. ROBBINS, The Eighteenth-Century Commonwealthman, cit., pp. 36, 62-63. 24 Cfr. J.J. ROUSSEAU, Du Contrat Social cit., p. 405. Vedi anche Projet du constitution pour la Corse (1765), in Id., Œuvres complètes cit., vol. III, pp. 904905, 907, 909-911, 920, 922, e Considérations sur le gouvernement de Pologne et
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sciences et les arts del 1750, Rousseau aveva già stigmatizzato come queste ultime insieme al lusso si nutrissero reciprocamente, con nefasti effetti corruttori sul cittadino, e mestamente aveva constatato come “gli antichi politici” parlassero “senza posa di costumi e di virtù”, mentre quelli dei suoi tempi parlavano “solo di commercio e di danaro”25. Tre anni dopo, nella Préface a Narcisse, avrebbe ribadito come “le scienze, le arti, il lusso, il commercio, le leggi. e gli altri legami che, stringendo tra gli uomini i nodi della società tramite l’interesse personale, li pongono tutti in uno stato di mutua dipendenza, danno loro bisogni reciproci e interessi comuni, e obbligano ciascuno di loro a concorrere alla felicità degli altri per poter creare la propria”26. Nell’ Emilio, poi, sarebbe stato lapidario: “togliete i nostri funesti progressi, togliete i nostri errori e i nostri vizi, togliete l’opera dell’uomo, e tutto è bene”27. Ma la penna di Rousseau si sarebbe scagliata anche contro una civilizzazione che tendeva ad acquisire caratteri uniformi, una civilizzazione che aveva cancellato ogni genuino e “naturale” sentimento nazionale. Mentre Montesquieu, Turgot e Robertson avevano considerato l’Europa un unico grande stato fondato sulle medesime radici storico-culturali, e Volsur sa réformation projettée (1771), in Id., Œuvres complètes cit., vol. III, pp. 10031004. Per Sternhell, invece, Rousseau non era un pessimista ed anche se “non può essere annoverato tra i teorici dell’idea di progresso, per lui l’uomo era comunque padrone del proprio destino. Per gli illuministi il male non stava nell’uomo ma nella condizione sociale, nell’ignoranza, nella superstizione e nella povertà” (Z. STERNHELL, Contro l’illuminismo cit., p. 63, vedi anche le pp. 159 e 644). Anche per Todorov Rousseau non aveva raccomandato di “tornare indietro” (T. TODOROV, Lo spirito dell’illuminismo -2006-, Milano, Garzanti, 2007, p. 20). 25 J.J. ROUSSEAU, Discours sur les sciences et les arts (1750), in Id., Œuvres complètes cit., vol. III, p. 19 (trad. it., Scritti politici, Bari, Laterza, 1994, p. 17). Nel Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes (1755) Rousseau avrebbe scritto “dalla società e dal lusso che genera nascono le arti liberali e meccaniche, il commercio, le lettere; e tutte le cose inutili che fanno fiorire l’industria e arricchiscono lo stato mandandolo in perdizione” (in Id., Œuvres complètes cit., vol. III, p. 206; trad. it., Scritti politici, cit., p. 220). 26 J.J. ROUSSEAU, Préface a Narcisse ou l’amant de lui-même (1753), in Id., Œuvres complètes cit., vol. II, p. 968 (trad. it., in Opere, Firenze, Sansoni, 1972, p. 26). 27 J.J. ROUSSEAU, Emile (1762), in Id., Œuvres complètes cit., vol. IV, p. 588 (trad. it., Emilio, Firenze, Sansoni, 1972, p. 282).
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taire aveva vagheggiato l’esistenza di una vasta “Repubblica letteraria”, unita dalle scienze e dalle arti, e soprattutto, al di là delle guerre e delle religioni differenti, unita da alcuni principi di politica e di diritto pubblico, sconosciuti alle altre parti del mondo28, Rousseau si lamentava di questo processo omologante: “oggi, checché se ne dica, non esistono più francesi, tedeschi, spagnoli, neanche inglesi; esistono solo europei. Tutti hanno gli stessi gusti, le stesse passioni, gli stessi costumi, perché nessuno ha ricevuto, attraverso istituzioni sue proprie, una forma nazionale”29. Rousseau, per questi ed altri numerosissimi passi, è stato ritenuto da molti studiosi il critico più incisivo delle tendenze autodistruttive della modernità in nome del ritorno dell’uomo estraniato, alla natura30. Il problema non è però qui quello di capire se il disagio di Rousseau gli facesse vagheggiare l’ideale delle città antiche, un ritorno alla vita istintuale, od una futura comunità organica31; e neppure quello di mettere in discussione quegli aspetti che sono autenticamente moderni nella sua teoria, penso anche al già ricordato Rousseau del “sentimento dell’esistenza”, rivalutato e riconsiderato da Tzvetan Todorov o Charles Taylor32, ma anche all’opinione di Peter Gay che aveva sottolineato come i romantici tedeschi lo avessero isolato dal resto dei philosophes, proprio per farne il profeta del VOLTAIRE, Le Siècle de Louis XIV (1751), in Œuvres Historiques, Paris, Gallimard, 1957, p. 1027. 29 J.J. ROUSSEAU, Considérations sur le gouvernement de Pologne cit., p. 960 (trad. it., Considerazioni sul governo di Polonia, Torino, Utet, 1970, p. 1133). 30 Vedi ad esempio A.M. MELZER, The Origin of the Counter-Enlightenment: Rousseau and the New Religion of Sincerity, “The American Political Science Review”, 1996, n. 2, pp. 344, 351, P. SAINT-AMANDE, Les lois de l’hostilité. La politique à l’âge des Lumières, Paris, Seuil, 1992, p. 22, o V. HÖSLE, Filosofia della crisi ecologica (1991), Torino, Einaudi, 1992, p. 128. 31 Cfr. S.S. WOLIN, Politics and Vision. Continuity and Innovation in Western Political Thought, Boston, Little, Brown and Company, 1960, pp. 368-376. 32 J.J. ROUSSEAU, Les Rêveries du promeneur solitaire, cinquiéme promenade cit., p. 1047. C. TAYLOR, Multiculturalism and “the Politics of Recognition”, Princeton, Princeton University Press, 1992, pp. 28-29; ma vedi soprattutto Id., Sources of the Self. The Making of the Modern Identity, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1989, cap. 15. T. TODOROV, Frêle bonheur. Essai sur Rousseau, Paris, Hachette, 1985, pp. 60-87. 28
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vero sentimento, ed i controrivoluzionari lo avessero trattato, di conseguenza, come il più estremo e quindi deplorevole prodotto dell’ età della ragione33. Certo sbaglieremmo se pensassimo di schiacciare Rousseau in un acritico elogio della natura. Era senza dubbio vero che l’uomo selvaggio “errando senza legami nella foresta, senza industria, senza parola, senza domicilio, senza guerra”, sarebbe bastato certamente a sé stesso, non avrebbe avuto “alcun bisogno dei suoi simili”, e sarebbe stato “soggetto a poche passioni”. Il quadro complessivo che scaturisce dalla penna di Rousseau, però, non è affatto ingenuamente idilliaco: se l’uomo infatti “per caso faceva qualche scoperta, non sapeva a chi comunicarla, tanto più che non riconosceva neanche i propri figli. L’arte periva con l’inventore; non c’era né educazione né progresso; le generazioni si moltiplicavano inutilmente; e, poiché ognuna partiva dallo stesso punto, i secoli scorrevano in tutta la rozzezza delle prime età; la specie era già vecchia e l’uomo restava sempre bambino”. Lo stato di civiltà che era andato a sostituire quello naturale non aveva però affatto migliorato tale condizione, anzi “quanti delitti, quante guerre, quante uccisioni, quante miserie e quanti orrori”, avremmo risparmiato se avessimo impedito, al primo uomo che aveva recintato un terreno, “il vero fondatore della società civile”, “di affermare questo è mio”, se avessimo divelto quei “paletti” e colmato “il fossato”34. Da questa ambiguità era scaturito il problema fondamentale che il Contratto Sociale avrebbe cercato di risolvere, e cioè quello di ricreare in uno stato civile quella libertà e quell’uguaglianza che erano tipiche dello stato di natura, ma che purtroppo erano assenti nella società a lui contemporanea. Il problema sarebbe stato cioè quello di trovare “una forma di associazione che difend[esse] e protegg[esse] con tutta la forza comune la persona e i beni di ogni associato e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedi[sse] P. GAY, The Party of Humanity. Essays in the French Enlightenment cit., pp. 264-265. 34 J.J. ROUSSEAU, Discours sur l’origine de l’inégalité parmi les hommes cit., pp. 160, 164 (trad. it. cit., pp. 168-169, 173). 33
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che a sé stesso, e rest[asse] libero come prima”. Rousseau aveva pensato di risolvere tutto ciò con l’altrettanto ambiguo concetto di “volontà generale”: mettendo tutta la nostra persona ed ogni potere sotto la sua direzione saremmo divenuti una “parte indivisibile del tutto”. A parte le implicazioni “totalitarie” di questa dottrina democratica, rilevate ormai da una lunga sequela di autori, è proprio in questo tipo di soluzione al problema politico che percepiamo l’ansia rousseauviana di superare le asprezze della modernità, di superare l’illuminismo per completarlo, in una sorta di movimento triadico che anticipa la dialettica hegeliana (pensiamo anche alla sua concezione della religione civile che descrive come integrazione delle parti positive della religione dell’uomo e del cittadino), e che si conclude nel modello di stato offerto dal Contratto sociale. A conti fatti, la concezione che Rousseau vagheggiava, tende comunque ad assomigliare a quella degli antichi, da una parte infatti si aveva una libertà che alla fine rimaneva completamente sottomessa alla legge e non tollerava affatto l’opinione delle minoranze, e dall’altra un’ uguaglianza che veniva declinata in perfetto stile repubblicano: “Ho già detto che cosa sia la libertà civile: quanto all’eguaglianza, non bisogna con questa parola intendere che i gradi di potenza e di ricchezza siano assolutamente identici; ma che, quanto alla potenza, essa sia al di sopra di ogni violenza e non si eserciti che in virtù del grado e delle leggi; e quanto alla ricchezza, che nessun cittadino sia tanto ricco da poterne comprare un altro e nessuno tanto povero da esser costretto a vendersi; il che suppone, da parte dei grandi, moderazione di beni e di credito, da parte dei piccoli, moderazione di avidità e di brame”35. J.J. ROUSSEAU, Du Contrat Social cit. pp. 360-361, 391-392 (trad. it., Il contratto sociale, Milano, Mursia, 1987, pp. 30-31, 60-61). M. Viroli, pur considerando Rousseau uno dei maggiori rappresentanti della tradizione repubblicana moderna, ha respinto il mito di “un Rousseau totalitario”, interpretando in senso opposto celebri passi su cui questa mitologia si è andata costruendo. Secondo Viroli, infatti, Rousseau si sarebbe sempre dichiarato “in favore di una democrazia ben temperata (dalle leggi), non di una democrazia assoluta dove il popolo legifera, governa e giudica” (M. VIROLI, Jean-Jacques Rousseau e la teoria della società ben ordinata -1988-, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 17, 19, 150-151). Dello stesso 35
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Un ultimo sguardo, nel vasto panorama dell’insorgenza dei motivi antilluministici, va dedicato, senza dubbio, alla Germania che avrebbe sviluppato in seguito la radicale reazione romantica ai Lumi ma che già aveva elevato alcune sue voci contro la filosofia del secolo. Veri e propri precursori del romanticismo, suscitato dal senso di rivalsa culturale tedesco contro la Francia e dall’influenza del pietismo, furono scrittori come Johann Georg Hamann e Johann Gottfried Herder, che, per Isaiah Berlin anticiparono molte delle tematiche cavalcate dagli autori del secolo seguente: la rivalutazione del mito e dell’irrazionalismo contro la ragione illuministica, la centralità del volkgeist contro il cosmopolitismo, l’individualità aristocratica contro il conformismo egualitario36. Non dobbiamo però dimenticare un autore come Justus Möser, che aveva definito l’opera dei Lumi “impolitica”, “il trionfo dell’umanitarismo alla moda contro il senso civico”37. Egli, anticipando temi burkeani, avrebbe lodato la funzionalità delle pratiche irrazionali, la superiorità dell’esperienza sulla teoria degli astratti diritti dell’uomo ed avrebbe sottolineato l’importanza del rango contro l’individualismo del merito38. avviso è anche Sternhell che, riprendendo un’opinione di Jean-Fabien Spitz sui passi incriminati di Rousseau, scrive: “l’idea secondo la quale la legge mi costringe a essere libero significa che essa punisce tutte le infrazioni commesse da me o dagli altri contro di me. Una infrazione non punita diventa un privilegio per chi la commette; il privilegio distrugge la libertà poiché toglie a coloro che ne sono privi ogni obbligo di coscienza di obbedire alle leggi e di rispettare i diritti dei loro concittadini” (Z. STERNHELL, Contro l’illuminismo cit., p. 570). 36 I. BERLIN, The Roots of Romanticism, Princeton, Princeton University Press, 1999, pp. 36-38, 41-42, 46-48, 49, 57-58, 63-65, 66-67. Vedi anche Id., J.G. Hamann and the Origins of Modern Irrationalism, London, Murray, 1993, e Id., Three Critics of the Enlightenment: Vico, Hamann, Herder, London, Pimlico, 2000. Anche per Venturi i Lumi furono fatti discendere in Germania dall’alto, “attraverso il veicolo della lingua francese e delle corti modellate su quella del Re Sole” (F. VENTURI, introduzione a J.G. HERDER, Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità -1773-, Torino, Einaudi, 1955, p. xii). 37 J. MÖSER, Über die zu unsern Zeiten verminderte Schande der Huren und Hurkinder (1772), in Id., Sämtliche Werke, Oldenburg, Stalling, 1945, vol. V, p. 142. 38 Ibid., pp. 142-145. Vedi anche Id., Keine Beförderung nach Verdiensten (1770), in Id., Sämtliche Werke cit., vol. V, pp. 161-164.
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Se dunque Hamann, maestro di Herder, lo precede e lo affianca nella battaglia contro “tutte queste chiacchere e questi capziosi ragionamenti sui minorenni affrancati” che “appaiono come un freddo e sterile chiaro di luna”, come una sorta di “illuminazione cieca volta verso un minorenne che cammina a tentoni” nel “pieno mezzogiorno” rappresentato dalla religione39, è però Herder che nella sua polemica riassume tutti i topoi dell’antilluminismo e ne prefigura di nuovi. Egli è stato definito il Rousseau tedesco, ma forse sarebbe più giusto desciverlo come una sorta di anello di congiunzione tra lo scrittore ginevrino ed Edmund Burke. Per F.M. Barnard gli interessi comuni che avvicinavano Herder a Rousseau erano quelli della tradizione dell’umanesimo civico. In un passo abbastanza eloquente in questo senso Herder aveva scritto come in un sistema repubblicano ciò che contava fossero le leggi e le istituzioni, e non le individualità potenti: “Niente aiuta a spiegare perché un uomo dovrebbe governare sopra migliaia di suoi simili, solo in virtù della sua nascita; perchè dovrebbe esigere obbedienza alla sua volontà senza alcuna responsabilità, limitazione e controllo contrattuale, ed essere nella posizione di mandare a morire migliaia di loro; di dissipare il danaro pubblico senza darne giustificazione, e di imporre i più pesanti fardelli di tasse sui membri più poveri del suo Regno”40. Per Barnard auto-direzione e diritto politico avevano in Rousseau ed Herder una stretta connessione con la cultura e la legittimità era legata alla nazione, non ad una legge naturale cosmopolita; come nella concezione della “volontà generale” di Rousseau, l’interpretazione di Herder della costituzione mosaica, mostrava un chiaro “spostamento dal prevalente individualismo dell’illuminismo”41. Herder naturalmente aveva lodato anche le invettive di J.G. HAMANN, Lettera a Christian Ktausvom, 18 dicembre 1784, in Id., Briefwechsel, Frankfurt am Main, Insel Verlag, 1965, vol. V, p. 291 (trad. it., Lettera sulle contraddizioni dell’illuminismo, in A. Tagliapietra -a cura di-, Che cos’è l’illuminismo? I testi e la genealogia del concetto, Milano, Bruno Mondadori, 1997, p. 52), vedi anche p. 290. 40 J.G. HERDER, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit (1784), in Id., Werke cit., vol. III, tomo I, pp. 296-297. 41 F.M. BARNARD, Self-Direction and Political Legitimacy: Rousseau and Her39
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Rousseau contro i vizi e la corruzione della società in nome della virtù e dell’integrità, e molte delle argomentazioni dei Discorsi le possiamo ritrovare nello scritto Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità, opera che avrebbe goduto in seguito di ampia fortuna42. Infatti quest’opera, perfettamente inserita nella moda settecentesca di affrescare il succedersi delle varie civiltà, in chiaro spirito rousseauviano, capovolgeva il giudizio di valore sul suo tempo. L’idea del secolo, avrebbe scritto Herder, era stata quella del “progresso dei singoli verso una maggiore virtù e felicità”, ma c’era stato un grosso equivoco: “si [era] presa una parola per l’altra, rischiaramento per felicità, raffinamento e molteplicità delle idee per virtù e si [eran] così potuti fare dei romanzi sul generale e progressivo miglioramento del mondo, romanzi a cui niuno crede e tanto meno l’autentico alunno della storia e del cuore umano”43. Il lusso e la libertà di pensiero infatti non potevano diventare vocazione e felicità per tutti; se infatti di felicità davvero si voleva parlare, “la nazione più ignara, la più carica di pregiudizi, [era] anche la prima”44. Herder, in questo senso, si era chiesto allora se fosse stata veramente una “liberazione”, la scomparsa di tante istituzioni medioevali. I “rozzi manieri” avevano ostacolato lo “sviluppo delle lussuose e malsane città”, e “l’assenza del commercio e del raffinamento”, avevano salvaguardato l’unità delle famiglie. Nonostante le “rozze corporazioni e la cavalleria” avessero fomentato “l’orgoglio artigiader, Oxford, Clarendon Press, 1988, pp. 267, 20. 42 Ibid., pp. 5, 12. Herder, nel Journal meiner Reise im Jahre 1769, aveva già ammonito dal seguire l’esempio di autori come Diderot e dal prendere “questo illuminismo come una meta finale, come uno stato eterno”. Tutt’al più lo si poteva considerare come “un mezzo”, evitando così di essere accusati di raccontare favole e di andare esageratamente contro “lo spirito del nostro tempo”, e cioè l’“antirousseauianism”. Per questa ragione Herder non se la sentiva di stare a rimpiangere, come aveva fatto Rousseau, “età che non esistono più e non sono mai esistite” (in J.G. HERDER, Werke cit., vol. I, pp. 419, 379, 375). 43 J.G. HERDER, Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit (1774) in Id., Werke cit., vol.I, p. 619 (trad. it., Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità cit., pp. 39-40). 44 Ibid., pp. 671, 618 (trad. it. cit., pp. 57, 39).
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no e nobiliare”, esse avevano però impedito “la più dura tra le umane tribolazioni, la schiavitù della propria terra e dell’anima, schiavitù nella quale evidentemente l’umanità sta sprofondando ora con cuore gaio e sereno, dacché tutti quegli isolotti sono andati sommersi”. Se non avesse avuto alle spalle “i tempi barbarici”, la “povera Europa incivilita”, non sarebbe stata altro che “un deserto”45. È proprio affrontando temi come questi che Herder diventa una sorta di trait d’union con la futura retorica antirivoluzionaria di Edmund Burke, il quale nella strenua difesa dell’antico regime, messo sotto assedio dai francesi, ne avrebbe rinvenuto i due pilastri fondamentali nello spirito del gentiluomo e nella religione. Herder, non dissimilmente, aveva già visto nella “devozione” e nell’“onor cavalleresco”, il fondamento di legittimità degli stati di allora, la linfa vitale dell’albero medioevale che avrebbe fruttificato nei diversi “caratteri nazionali”46. Con amarezza non aveva potuto fare a meno di constatare come non ci fosse più “bisogno della religione (stimolo infantile!), dell’onore, della libertà spirituale”, come le “uniche molle motrici” fossero ormai solo “la paura e il denaro”47. “Sovranità” era la parola chiave per capire la politica moderna, sovranità che egli definiva come “raffinata arte politica, forma di governo filosofica e nuova, (...) mitria e corona dei nuovi secoli”, che si reggeva solo sulla forza militare48. Come avrebbe fatto Burke, alcuni anni più tardi, Herder metteva già in guardia dal concepire la politica in questi termini astratti. Il pericolo supremo era infatti la ragione universale che voleva imporre dovunque lo stesso tipo di legislazione. In realtà il “codice della ragione, dell’umanità”, non era adatto per tutti i popoli, su ognuno di questi invece esso avrebbe dovuto “conformarsi come un suo abito”49. La politica moderna “meccanica” dunque, ma anche la cultura in voga e i nuovi modi di far guerra, avevano reso completamente inuIbid., pp. 630-631 (trad. it. cit., pp. 56-57). Ibid., pp. 631, 633 (trad. it. cit., pp. 57, 59-60). 47 Ibid., p. 649 (trad. it. cit., p. 80). 48 Ibid., p. 639 (trad. it. cit., p. 67). 49 Ibid., p. 645 (trad. it. cit., p. 74). 45 46
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tili “l’antica forma gotica della libertà, dei ceti, della proprietà”, non c’era più distinzione tra servi e signori, tutto era diventato “un amalgama compatto”50. Questa “antica” forma era ormai considerata una concezione ristretta e barbara, e barbaro si giudicava anche ciò che aveva sempre rappresentato il cemento delle nazionalità: “odio reciproco, ostilità contro gli estranei, attaccamento al proprio centro, pregiudizi tradizionali, legami con la zolla sulla quale siam nati e nella quale marciremo”51. Per contrastare coloro che “tutto [volevano] incivilire”, per affermare un mondo in cui “tutto [tendeva] a uniformarsi”52, Herder, addirittura, arrivava a rimpiangere le guerre civili ed i grandi vizi del passato; di fronte al nulla presente, davanti ad un amorfo senso di soddisfazione, egli si chiedeva che fine avessero fatto “la greca libertà, il patriottismo romano, la religiosità dell’oriente, l’onore cavalleresco”53. Egli, come gli odierni critici della globalizzazione, respingeva l’omogeneizzazione introdotta dal rischiaramento: quali erano stati in fondo i miseri risultati dell’ansia civilizzatrice degli europei? Nient’altro che “il nostro sistema di commercio” che ci aveva fatto ridurre in schiavitù mezzo globo: “Sistema commerciale! La grandiosità e la singolarità della cosa è evidente. Tre continenti desolati e inciviliti da noi e noi da loro spopolati, evirati, sprofondati nel lusso, nello sfruttamento e nella morte: ottimo commercio e proficuo in verità” 54. Questa civiltà cosmopolita e filantropica, in cui tutti erano “costumati, cortesi, felici”, e parlavano una sola lingua, il francese, aveva ormai cancellato “i caratteri nazionali” e tutte le distinzioni sociali55. Con ironia Herder, ad un certo punto, ci dice non esser vero che egli era andato sempre vantando il lontano passato per dolersi del tempo presente, e di apprezzare invece la grandezza, la bellezza, la singolarità del suo secolo: “quando mai la terra è stata come ora Ibid., p. 639 (trad. it. cit., p. 67), vedi anche pp. 646-647. Ibid., p. 652 (trad. it. cit., p. 83). 52 Ibid., p. 642 (trad. it. cit., p. 71). 53 Ibid., p. 657 (trad. it. cit., p. 91). 54 Ibid., pp. 651, 652 (trad. it. cit., pp. 82, 83). 55 Ibid., p. 652 (trad. it. cit., pp. 83-84). 50 51
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3. Le origini dell’antilluminismo:
tanto generalmente illuminata”? In realtà però, tessendo l’elogio parodistico di Voltaire (“La terra intera già par quasi risplendere della chiarezza di lui!”), ci dà una ben diversa valutazione del procedere della civilizzazione: “E come tutto questo sembra ancor progredire! Dove non troviamo colonie europee e dove non se ne fonderanno in futuro? Dappertutto i selvaggi, sempre più amanti della nostra acquavite e del nostro comodo lusso, diventan maturi per convertirsi. Si approssimano ovunque, anche in virtù dell’acquavite e del lusso, alla nostra civiltà: saranno presto, che Dio ci aiuti! Tutti uomini come noi, buoni, solidi, felici”56! Voltaire, così diverso da Rousseau, rappresentava per Herder l’apice dei mali del suo tempo, “quanta misera frivolezza, fiacchezza, incertezza e freddezza, quanta superficialità, incoerenza, quale scetticismo di fronte alla virtù, alla felicità ed al merito! Quanto non distrugge sorridendo il suo esprit, in parte senza neppur avere l’intenzione di annientare; vincoli teneri, gentili e necessari spezzati con mano sacrilega senza nulla potervi sostituire”57. Voltaire era l’alfiere del libero pensiero e della “ragion ragionante” che avevano affievolito le passioni ed il sentimento, avevano resa inutile la lezione di Montesquieu fondata sull’esperienza. In ogni campo in ogni mestiere non c’era più bisogno “di lavorare faticosamente nel profondo (...) La ragione basta a tutto. Dizionari e filosofie soprattutto, senza saper più intenderne neppure uno, con lo strumento alla mano: abrégés, raisonnés bell’e fatti di tutte le antecedenti pedanterie: spirito astratto, filosofia fondata su due pensieri, meccanicissima fra le cose tutte della terra”58. Eccoci giunti alla chiave per capire le origini del male presente: la filosofia dei lumi, scriveva Herder, “il moderno esprit non è che una forma, sia pur elevata, d’una realtà meccanica”, lontana dalla Ibid., pp. 648-649 (trad. it. cit. pp., 78-79). Ibid., p. 680 (trad. it. cit., p. 122). 58 Ibid., pp. 640-641 (trad. it. cit., pp. 68-70) Nel “Journal” aveva scritto che Diderot e D’Alambert “non hanno niente da scrivere e così fanno abregés, dictionnaires, histoires, vocabulaires, esprits, Encyclopedieen ecc.” ( J.G. HERDER, Journal meiner Reise im Jahre 1769 cit., pp. 419-420). 56 57
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Le metamorfosi dell’antilluminismo
vita e dal buon senso59. Il grande sconvolgimento che il mondo aveva subito negli ultimi due o tre secoli era stato il frutto delle applicazioni tecniche della scienza. In questo passo, che vale la pena di citare per esteso, Herder riecheggia la futura polemica di Carlyle, anticipa alcune delle critiche alla civiltà tecnologica occidentale che sarebbero diventate comuni per molti autori della prima metà del Novecento: “Mutarono il mondo per lo più semplici invenzioni meccaniche, che parzialmente già si erano intravedute (...), ma che ora, per un’improvvisa trovata, si vennero applicando precisamente in questo e in nessun altro modo. Così l’applicazione del vetro all’ottica, della calamita alla bussola, della polvere alla guerra, dell’arte della stampa alle scienze, del calcolo ad un mondo matematico del tutto nuovo...e allora tutto assunse una forma diversa. Trasformato lo strumento, si ricavò uno spazio nuovo fuori dal vecchio mondo, e si continuò così a farlo avanzare. Scoperte le armi da fuoco, ecco scomparire quello che fu l’antico valore di Tèseo, degli Spartani, dei Romani, dei cavalieri, dei giganti: la guerra si trasformò, e quanto fu mutato da questa nuova guerra! Scoperta la stampa, il mondo delle scienze ne uscì profondamente trasformato, rischiarato, allargato, venne facendosi chiaro e piano. Tutti posson leggere, sillabare, e chiunque può leggere diventa dotto. Con un piccolo ago sul mare, chi può numerare le rivoluzioni che ne vengono generate in tutti i continenti? (...) Nuovi costumi, tendenze, virtù, vizi: chi ne dirà l’infinito numero e varietà? La rotazione compiuta dal mondo negli ultimi tre secoli è infinita; e da che cosa è dipesa, chi ha dato la spinta? La punta di un ago, due o tre concetti di meccanica. Da ciò deve necessariamente seguire che gran parte della cosiddetta nuova cultura è in realtà una meccanica, visto dappresso, tale ci appare lo spirito moderno”60! 59 60
Ibid., p. 641 (trad. it. cit., p. 69). Ibid., pp. 637-638 (trad. it. cit., pp. 65-66).
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3. Le origini dell’antilluminismo:
Herder davvero rappresenta l’insofferenza aristocratica alle nuove idee, alla modernità che si viene profilando, insofferenza che egli esprime sia nella classica versione repubblicana (“I forti corposi vincoli delle antiche repubbliche e dei tempi trascorsi sono da tempo ormai sciolti”61), sia anticipando quella conservatrice e reazionaria post-rivoluzione francese: “Libertà, socievolezza eguaglianza che ovunque vengono ora germogliando hanno già posto in mille abusi le fondamenta del male e altro ne produrranno ancora”. Herder teme soprattutto quell’individualismo che ha fomentato “il generale rimescolamento dei ceti sociali”, nemmeno “un tutore del gran corpo sociale” riuscirebbe ad eliminare le ragioni “del progressivo raffinamento, dell’invadente raisonnement, del lusso, della libertà e della spudoratezza”. Egli non può che constatare come ormai sia decaduto il rispetto verso le classi alte, verso l’autorità dei genitori, come vengano calpestati i pregiudizi di ceto e di educazione: “Per mezzo di un’unica educazione, filosofia, irreligione, illuminismo, (...) tutti noi diventiamo fratelli”62.
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Ibib., pp. 676-678 (trad. it. cit., pp. 117-118). Ibid., pp. 674-675 (trad. it. cit., p. 114).
4. Il pettine della rivoluzione: La reazione cattolica, Burke, Fichte ed il Romanticismo
Da quando nel Settecento si è presa consapevolezza, ha scritto Domenico Settembrini, “che l’individuo delle classi superiori si andava sempre più emancipando dall’acquiescenza spontanea alle credenze comuni tradizionali, perché su di esse osava interrogarsi e confrontarle con quelle di altri tempi e di altri paesi, si è scatenata una duplice reazione, che possiamo definire, spostando all’indietro una dicotomia sorta più tardi, di ‘destra’ e di ‘sinistra’, perché anticipa e prepara le argomentazioni e le preoccupazioni delle due opposizioni radicali alla società aperta, quella appunto dell’estrema destra e quella dell’estrema sinistra, che si svilupperanno e si affermeranno nel ’900”1. Da una parte, come abbiamo già accennato, la posizione dei cattolici tradizionalisti, dall’altra quella degli utopisti come Morelly, Mably e Deschamps, entrambe accomunate dalla lotta contro lo stesso nemico: “La prima, quella ‘di destra’, mira a rafforzare l’antico organicismo, per porre riparo all’erosione dell’insorgente individualismo. L’utopia – la reazione ‘di sinistra’ – in luogo dell’organicismo tradizionale in crisi sogna, invece, di instaurarne un altro ben altrimenti radicale, di tipo, per così dire, matematico-geometrico, quantitativo, in cui il generale livellamento, non offrendo nessuno spunto allo spirito di confronto e di emulazione, avrebbe estirpato alla radice, con la disuguaglianza, il risorgere dell’individualismo. Speculare è anche, tra le due reazioni, il rifiuto di Prometeo, dell’ideale della conoscenza come strumento per cambiare e dominare la natura, perché entrambe sono avverse alla crea-
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D. SETTEMBRINI, Individualismo, diversità e identità... cit., p. 81.
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4. Il pettine della rivoluzione:
tività e al mutamento, legate ad un sogno, per quanto antitetico nei suoi tratti, di stabilità permanente”2. Spesso le due “reazioni” di destra e di sinistra all’illuminismo avrebbero pescato l’una nella tradizione dell’altra alla ricerca del miglior armamentario possibile contro il comune nemico. Il travaso ideologico, come avremo modo di sottolineare anche nei prossimi capitoli, sarebbe stato reciproco, ma già in questo iniziale frangente abbiamo modo di mettere in evidenza una particolare contaminazione. Come ha mostrato McMahon, parlando di Rousseau che, in seguito alla rivoluzione francese, sarebbe divenuto una delle bestie nere del pensiero controrivoluzionario e conservatore, gli apologisti cattolici di questo periodo “presero in prestito da lui in modo estensivo”, citandolo “contro i comuni nemici”3. Nonostante l’indubbia formazione della retorica antilluminista, nei suoi vari aspetti, nel corso del Settecento, è stata però la rivoluzione francese che ha portato al pettine tutti i problemi suscitati dall’epoca dei Lumi: le sue conquiste centrali, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, e cioè i diritti dell’uomo, la sovranità popolare, l’abolizione del regime feudale, la carriera aperta al talento ma anche i suoi esiti drammatici e illiberali come la stagione del terrore o la dittatura bonapartista, avrebbero svelato le contraddizioni insite in molti dei discorsi politici allora in voga, discorsi che, di fronte alla modernità avanzante anche in direzioni non gradite, avrebbero reagito con durezza mostrando anch’essi il proprio volto antilluministico precedentemente celato. Certamente nella rivoluzione confluirono linguaggi politici che avevano alle spalle una lunga tradizione (ne è un esempio quello repubblicano, ma anche altri di recente formazione), linguaggi che contribuirono a creare l’humus necessario da cui avrebbero preso vita nuove inusitate combinazioni. In questo senso possiamo leggere gli eventi parigini come esperimento di un tipo radicale di cultura democratica, di una “inte-
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Ibid., pp. 84-85. D. MCMAHON, Enemies of the Enlightenment cit., pp. 35, 51, 197.
Le metamorfosi dell’antilluminismo
ramente nuova modalità di azione politica”4, ma nello stesso tempo, come ha scritto Simon Schama, dobbiamo essere consapevoli che essa fu anche il tentativo di arrestare più che di affrettare il processo di modernizzazione in atto5. Sulla scorta di ciò che afferma Settembrini, possiamo dire che la reazione di destra e di sinistra avrebbe teso a radicalizzarsi per la drammaticità degli eventi politici. Da una parte, dunque, avremmo trovato ancora i cattolici come Rivarol, Barruel, De Maistre o Bonald che, determinati nel loro astio controrivoluzionario, avrebbero respinto qualsiasi innovazione e condannato l’individualismo moderno, che ne era alla base, sin nella sua culla protestante, dall’altra avrebbero segnato il campo i seguaci di Rousseau e degli utopisti, come i giacobini, che avrebbero cercato di instaurare un nuovo modello di democrazia che avrebbe dovuto ricreare l’esperienza comunitaria antica ma avrebbe finito, con il terrore, per soffocare anche le moderne libertà civili, frutto della società commerciale; la democrazia che nei fatti avevano realizzato i giacobini, nelle parole di Guglielmo Ferrero, era divenuta ormai “a rovescio”, la negazione di sé stessa. Come ha scritto Berlin a proposito di De Maistre, controrivoluzionari e giacobini erano sostanzialmente della stessa pasta6. Tra i reazionari Rivarol si sarebbe vantato di essere stato il primo a criticare la rivoluzione, ed avrebbe messo in evidenza come i philosophes avessero contribuito ad innalzare al trono Robespierre, lastricando la via con il loro pensiero. Una filosofia questa che si presentava, ai suoi occhi, come una marcia inarrestabile che avrebbe ingrossato il numero dei non credenti, i quali non avrebbe avuto più K.M. BAKER, Enlightenment and Revolution in France: Old Problems, Renewed Approaches, in “Journal of Modern History,” 1981, n. 2, p. 284. Vedi anche G. CLAEYS, introduzione a Id. (ed.), Political Writings of 1790s, vol. I, London, Pickering, 1995, p. xvii. 5 S. SCHAMA, Citizens. A Chronicle of the French Revolution, New York, Alfred A. Knopf, 1989, p. 185. 6 I. BERLIN, The Crooked Timber of Humanity, London, Fontana Press, 1990, p. 109. 4
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4. Il pettine della rivoluzione:
alcun freno morale nella società7. Tale tesi, parallelamente, in Augustin Barruel, si era articolata in una complessa teoria del complotto ad opera dei letterati, tra cui veniva collocato anche Rousseau con le sue concezioni socio-politiche; questo complotto aveva avuto un unico fine, quello di distruggere Cristo e tutte le religioni che lo adoravano8. Sulla stessa lunghezza d’onda di questi autori ma destinato ad avere un’influenza più duratura fu indubitabilmente Joseph De Maistre, che Stephen Holmes considera quale capostipite della tradizione dell’antiliberalismo di destra9. De Maistre in gioventù aveva coltivato delle idee illuministiche e nel 1775 aveva tessuto un vero e proprio Elogio di Vittorio Amedeo III, invitandolo a prendere la filosofia per mano ed a sbarazzarsi delle “istituzioni gotiche” e delle “vecchie formule” affinché l’“ignoranza” non avesse potuto più vantarsi di avere “i suoi ultimi sudditi” nel Regno di Sardegna10. Con la rivoluzione però le cose erano cambiate completamente e De Maistre avrebbe cominciato a provare una forte avversione verso “i libri francesi sui diritti dell’uomo e l’utilità delle lanterne”11. Dei rivoluzionari egli soprattutto criticò la loro astrattezza e mania di onnipotenza derivata proprio dalle idee illuministiche: “uno dei grandi errori del secolo che li racchiuse tutti, fu quello di credere che una costituzione politica potesse essere scritta a priori”, avrebbe scritto De Maistre, mentre la mera esistenza di ra-
A. RIVAROL, De la Philosophie moderne,s.l, s.d. (1797), pp. 68, 23-24. A. BARRUEL, Mémoires pour servir à l’histoire du jacobinisme, Ausbourg, 1797, vol. I, p. 5. Su Rousseau vedi anche M. RIQUET, Augustin de Barruel, un jésuite face aux jacobins francs-macons, 1741-1820, Paris, Beauchesne, 1989, pp. 144-145. 9 S. HOLMES, The Anatomy of Antiliberalism, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1993, pp. 13-36. 10 J. DE MAISTRE, Eloge de Victor Amédée III (1775), in R. TRIOMPHE, Joseph de Maistre, Genève, Droz, 1968, p. 96. 11 J. DE MAISTRE, Lettera a Costa del 16 giugno 1791, in Id., Oeuvres complètes, Lyon, Vitte et Parrussel, 1886, vol. IX, p. 17. Vedi anche R. TRIOMPHE, Joseph de Maistre cit., p. 499. 7 8
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Le metamorfosi dell’antilluminismo
gione ed esperienza sarebbe stata sufficiente a farci capire che essa non poteva essere che un’opera divina12. De Maistre, sotto l’incalzare degli avvenimenti parigini, si era reso conto di come alla base delle idee del secolo vi fosse stato un individualismo religioso e politico devastante per le istituzioni sociali: “Lasciate che ciascun uomo, in materia di culto, si attenga alla sua ragione particolare e vedrete di conseguenza nascere l’anarchia delle credenze, ovvero la dissoluzione della sovranità religiosa. Nello stesso modo, se chiunque si rendesse giudice dei princìpi di governo, ben presto vedreste nascere l’anarchia civile, e cioè la dissoluzione della sovranità politica”13. “Le aberrazioni della ragione individuale”14 erano derivate dalla Riforma protestante: che cos’era infatti il protestantesimo se non “l’insurrezione della ragione individuale contro la ragione universale”15? “Il protestantesimo politico” che aveva spinto “fino al più assoluto individualismo”, era dunque il “castigo della Francia e dell’Europa”16, “il grande nemico” che era “necessario soffocare con qualsiasi mezzo non criminoso” perché rappresentava “l’ulcera funesta che intacca tutte le sovranità e che le corrode senza tregua”17. Il XVIII secolo aveva avuto la colpa di estendere la sovranità dell’uomo dalle questioni religiose alla politica. Le idee di Locke, trasportate nella pentola a pressione di Parigi avevano prodotto il “mostro rivoluzionario” che aveva divorato il J. DE MAISTRE, Essai sur le Principe générateur des Constitutions Politiques (1814), in Id., Oeuvres complètes cit., vol. I, p. 235. Tale tipo di critica comparirà anche nel Pouvoir di Louis Bonald: “l’uomo non può dare una costituzione alla società politica nel modo in cui può dare la pesantezza ai corpi o l’estensione alla materia” (L. DE BONALD, Théorie du Pouvoir Politique et Religieux -1796-, in Id., Oeuvres completes, Bruxelles, Gérant, 1845, tomo III, p. 9). 13 J. DE MAISTRE, Étude sur la Souveraineté (1794-96), in Id., Oeuvres complètes cit., vol. I, p. 376 (trad. it. in C. GALLI, a cura di, I controrivoluzionari. Antologia di scritti politici, Bologna, Il Mulino, 1981, p. 62). 14 Ibid., p. 375 15 J. DE MAISTRE, Réflexions sur le protestantisme dans ses rapports avec la souveraineté (1797), in Id., Oeuvres complètes cit., vol. VIII, p. 64. 16 Extrait d’une conversation entre J. de Maistre et M. Ch. de Lavau, in J. DE MAISTRE, Oeuvres complètes cit., vol. XIV, p. 286. 17 J. DE MAISTRE, Réflexions sur le protestantisme dans ses rapports avec la souveraineté cit., p. 64. 12
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4. Il pettine della rivoluzione:
continente18. Il legame tra critica della religione e critica dell’ordine politico, così come quello tra ateismo e giacobismo, sarebbe stato reso esplicito anche da Bonald in De la Philosophie morale e politique du XVIII siècle, dove avrebbe affermato che i democratici si sarebbero anche potuti chiamare “gli atei della politica e gli atei, gli arrabbiati, o i giacobini della religione”19. Per Berlin comunque, è De Maistre che rimane particolarmente significativo perché, a differenza di Bonald, aveva capito che il vecchio mondo stava morendo ed aveva intuito il ‘terribile’ profilo di quello che stava emergendo al suo posto. Per questa ragione, pur ritenendo inconcepibile qualsiasi concezione di governo o di libertà civile in una società che non fosse permeata dal cristianesimo20, alla fine Maistre, come ultima ratio, si affidava al boia: “l’orrore e il legame dell’ associazione umana. Togliete dal mondo questo agente incomprensibile, e nello stesso istante l’ordine lascia il posto al caos, i troni si inabissano e la società scompare”21. Date queste premesse era chiaro che tentare di ristabilire l’ordine prerivoluzionario sarebbe stato come provare a versare in una bottiglia l’intero lago di Ginevra22. Se dunque i caratteri antilluministici di questa reazione balzano subito agli occhi, la rivoluzione avrebbe rivelato anche le contraddizioni insite in un linguaggio politico tipicamente illuministico come Cfr. S. Holmes, The Anatomy of Antiliberalism cit., p. 24. Cfr. J. DE MAISTRE, Les Soirées de Saint-Pétersbourg (1821), in Id., Oeuvres complètes cit., vol. IV, pp. 299-381. 19 L. DE BONALD, De la Philosophie morale e politique du XVIII siècle (1805), in Id., Oeuvres complètes cit., vol. VII, pp. 78-79. 20 J. DE MAISTRE, Quatres chapitres inédits sur la Russie, in Id., Oeuvres complètes cit., vol. VIII, p. 283. 21 J. DE MAISTRE, Les Soirées de Saint-Pétersbourg cit., p. 33. 22 “Il progetto di mettere il lago di Ginevra in bottiglia è molto meno folle di quello di ristabilire le cose precisamente sullo stesso piede dove stavano prima della rivoluzione” (Lettera del 9 dicembre 1793 al barone Vignet des Etoles, in J. DE MAISTRE, Oeuvres complètes cit., vol. IX, p. 58). Cfr. I. BERLIN, The Crooked Timber of Humanity cit., pp. 102, 155. Secondo McMahon invece Berlin esagera l’importanza ed il carattere di novità di Maistre, il cui pensiero si inseriva invece pienamente nella “lunga tradizione di scritti cattolici” prerivoluzionaria (D. MCMAHON, Enemies of the Enlightenment cit., pp. 46, 9). 18
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Le metamorfosi dell’antilluminismo
quello di Edmund Burke23. Il suo caso è particolarmente emblematico: nell’opposizione ai fatti parigini egli avrebbe elaborato una sofisticata retorica, non sempre originale ma nella sua complessa articolazione convincente, a cui avrebbe attinto gran parte del pensiero controrivoluzionario, retorica che avrebbero utilizzato, nel corso ormai di due secoli, molti dei successivi denigratori del secolo dei Lumi. Gli orrori della rivoluzione, per Burke, erano derivati proprio dal tentativo di applicare alla realtà politica le idee astratte dell’illuminismo24. Tipico esempio erano stati i tanto conclamati diritti dell’uomo. Anticipando la celebre osservazione di De Maistre, Burke aveva già sentenziato in parlamento che “l’uomo, l’unico che conosceva, l’aveva trovato nella società e solo quell’uomo lui poteva osservare. Egli non era neppure in grado di discutere sui suoi diritti in quanto pensava che ogni genere di diritto astratto fosse incorporeo e quindi inadatto al corpo”25. Burke aveva condannato la pretesa di individuare alcuni diritti in modo scientifico, l’astrazione metafisica e la razionalità matematica applicate, senza modifiche od eccezioni, in campo politico e morale. La determinazione di questi diritti, non poteva infatti avvenire una volta per tutte; essi dovevano essere individuati di volta in volta, a seconda delle varie circostanze che da-
Di diverso avviso è Sternhell secondo cui Burke “non si inscrive nella grande tradizione del liberalismo inglese, non ne è un anello, come invece si crede spesso: al contrario Burke fonda una nuova tradizione politica, quella di un liberalismo «bloccato», «incompleto» o «mutilato», di sua concezione. Ai nostri giorni questa varietà di liberalismo assume l’aspetto del neoconservatorismo”. Burke dunque non sarebbe una roccaforte della tradizione liberale inglese, ma il fondatore, con Herder, “di una nuova tradizione politica, quella di un’altra modernità, fondata sul primato della comunità e sulla subordinazione dell’individuo alla collettività” (Z. STERNHELL, Contro l’illuminismo cit., pp. 55, 85, vedi anche p. 617). 24 Discorso parlamentare tenuto il 14 dicembre 1792, Debate in the Commons on the Address of Thanks, in The Parliamentary History of England from the Earliest Period to the Year 1803, W. COBBET (ed.), London, Hansard, 1816, (di qui in avanti PH) vol. XXX, p. 71. 25 Discorso parlamentare tenuto l’ 11 maggio 1792, Mr Fox‘s Motion for the Repeal of certain Penal Statutes respecting Religion Opinions, in PH, XXIX, p. 1386. 23
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4. Il pettine della rivoluzione:
vano loro il proprio particolare colore26. Se fossero stati applicati direttamente alla realtà sarebbero stati distorti dal loro obbiettivo originale. Nella celebre metafora delle Reflections così scriveva: “Questi diritti astratti, quando si introducono nella vita pratica, si comportano come quei raggi di luce che penetrando in un mezzo denso, vengono, per legge di natura, riflessi, ma deviati dal loro diritto cammino. Così a contatto di un mezzo denso quale la complicata ed enorme massa delle passioni e degli interessi umani, i diritti originari dell’uomo subiscono una tale varietà di riflessioni e rifrazioni, che diviene assurdo parlare di essi come se ancora mantenessero tutta la semplicità della loro primitiva direzione”27. Erano perciò questi specifici diritti astratti e metafisici che venivano messi al bando, perché non tenevano conto dell’intricata e passionale natura dell’uomo; i veri diritti, invece, risiedevano “in una zona media, difficile a definire ma non impossibile a percepire”, e potevano essere afferrati, nelle loro infinite gradazioni, dalla ragione politica che funzionava come un principio di calcolo, con una lunga serie di operazioni “tutte morali, e non metafisiche o matematiche, compiute su fattori squisitamente morali”28. Per individuarli, quindi, non c’era carta costituzionale che tenesse, e Burke avrebbe palesato più volte il proprio dispregio verso quella dei rivoluzionari ed era altresì necessaria la prima delle virtù morali, la prudentia latina: “Le linee della moralità non sono come le linee ideali della matematica. Esse sono altrettanto larghe e profonde che lunghe. Ammettono eccezioni, richiedono modifiche. Queste eccezioni e queste modifiche non avvengono per processo logico, ma seguono le regole della prudenza. La prudenza è non soltanto la prima delle virtù politiche e morali, ma di esse costituisce la guida, la norma, il modello. La metafisica non potrebbe esistere senza definizioni, ma la prudenza è cauta nel definire”29. Per scoprire infatti se una teoria era fallace WR, VIII, pp. 57-58. E. BURKE, Reflections on the Revolution in France (1790), WR, VIII, p. 112 (trad. it., Scritti politici, Torino, Utet, 1963, p. 225). 28 Ibid., p. 112 (trad. it. cit., p. 226). 29 E. BURKE, An Appeal from the New to the Old Whigs (1791), in Id., Further 26 27
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Le metamorfosi dell’antilluminismo
bisognava confrontarla con la politica e soprattutto con ciò che era legittimato dall’uso e dal tempo, come la costituzione materiale di un popolo. Burke, a questo proposito, non si sarebbe mai sognato di farla a pezzi per buttarla nella pentola di un mago, sperando così che acquisisse gioventù e nuovo vigore30. Così invece avevano fatto i rivoluzionari francesi con il loro paese: “in questi signori non c’è niente della tenera sollecitudine materna che teme di tagliare a pezzi il fanciullo per compiere un esperimento a giustificazione di una qualche teoria”31. Nelle Reflections ritornava il mito di Medea, così come, vent’anni prima, per criticare tale modo di accostarsi alla politica, aveva usato quello del celebre brigante, ucciso da Teseo, che allungava o amputava i viandanti per farli adattare alle dimensioni del suo letto: “Tra tutti gli uomini dell’antichità, Procuste non sarà mai il mio eroe in fatto di legislazione”32. Burke, in sostanza, affermava la naturalità della condizione sociale dell’uomo e l’esistenza di una superiore Natural Law; qualora invece avessimo accettato i diritti naturali astratti, avremmo dovuto Reflections on the Revolution in France, Indianapolis, Liberty Press, 1992, p. 91 (trad. it. cit., pp. 463-464). 30 Ibid., pp. 132, 136. 31 E. BURKE, Reflections on the Revolution in France cit., p. 214 (trad. it. cit., pp. 349-350). 32 WR, II, p. 176. Le invettive di Burke contro il razionalismo non erano nate d’incanto dall’odio verso i rivoluzionari, ma avevano accompagnato costantemente la sua produzione intellettuale. Già nella Difesa della società naturale egli aveva ammonito dai pericoli in cui si poteva incorrere seguendo i voli dell’intelligenza e dell’immaginazione lasciate correre a briglia sciolta senza il freno rappresentato dalla consapevolezza della propria debolezza di uomini (E. BURKE, A Vindication of a Natural Society -1756-, in WR, I, p. 135), e nell’Inchiesta sul bello e il sublime aveva cercato di fondare il ragionamento sulla base dell’esperienza: “Ritengo non sia infrequente l’aver torto in teoria e ragione in pratica: e siamo ben lieti che sia così. Gli uomini sovente agiscono bene se seguono il loro sentimento, ma ragionano poi male su di esso per i loro princípi; ma dal momento che è impossibile evitare un tentativo di ragionamento ed è ugualmente impossibile prevenire il fatto che esso eserciti un influsso sulla pratica, vale certo la pena, affrontando pure qualche sofferenza, di averlo esatto e fondato sulla base di una sicura esperienza” (E. BURKE, A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful -1757-, in WR, I, p. 228; trad. it., Inchiesta sul bello e il sublime, Palermo, Aesthetica, 1985, p. 83).
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4. Il pettine della rivoluzione:
regredire ad uno stato di barbarie. Che cosa c’era, allora, di così nefasto al fondo di questa teoria? La risposta era semplice: accettare questi diritti, al di là della loro determinazione concreta, avrebbe significato, anche per Burke, porre la scelta individuale quale fondamento della religione e della politica. I diritti dell’uomo, validi universalmente ed incentrati appunto su ogni singolo individuo, sarebbero divenuti, in questo modo, la mina che avrebbe fatto saltare tutti i precedenti e tutta l’esperienza accumulati in secoli di antico regime33. Ciò che spaventava Burke erano soprattutto le conseguenze radicali che si potevano trarre da questa teoria e che riguardavano essenzialmente il concetto stesso di sovranità: “per quanto riguarda la parte di potere, autorità e direzione che spetta ad ogni individuo nell’amministrazione dello stato, nego che questa faccia parte direttamente degli originali diritti dell’uomo in una società civile”34. Nessuno, in passato, aveva mai “posto volentieri il potere attivo nelle mani di una moltitudine”35, anche perché esercitare e controllare il potere, nello stesso tempo, sarebbe stata una cosa impossibile, come teneva a precisare Burke, ricordando quella che era stata una critica di Montesquieu alla democrazia diretta delle repubbliche antiche36. La costituzione parigina del settembre 1791, invece, aveva sancito solennemente che la sovranità era una, indivisibile, inalienabile, impescrittibile ed apparteneva alla nazione. Per Burke questa dichiarazione era stupida e dannosa perché confondeva “l’origine del governo nel popolo”, cosa peraltro giusta e legittima, con “la continuazione di questo nelle sue mani”37. L’incidente di percorso o forse, con maggior enfasi, il vero e proprio peccato originale che aveva condotto a queste deleterie affermazioni, si era avuto quando, sconvolgendo il vecchio sistema di votazione per ordine, i 33 34
223).
WR, VIII, pp. 108-110. E. BURKE, Reflections on the Revolution in France cit., p. 110 (trad. it. cit., p.
E. BURKE, An Appeal from the New to the Old Whigs cit., pp. 158-159 (trad. it. cit., p. 534). 36 MONTESQUIEU, De l’Esprit de Lois cit., vol. II, p. 400. 37 WR, VIII, p. 438. 35
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tre stati avevano deciso di riunirsi insieme e di votare per testa: “quel che mi colpì subito nella convocazione degli Stati generali fu un grande cambiamento sopravvenuto nella prassi tradizionale. La rappresentanza del Terzo Stato era composta di seicento membri, eguale quindi alla rappresentanza degli altri due ordini presi insieme. Se gli Stati avessero deliberato separatamente il numero non avrebbe avuto importanza, eccetto che nel comportare una spesa maggiore. Ma quando divenne chiaro che i tre Stati dovevano riunirsi a deliberare insieme, allora il motivo di questa rappresentanza numerosa, e l’effetto che ne sarebbe derivato, divenne d’un tratto ovvio. Una diserzione minima dei membri degli altri due ordini avrebbe riversato il potere di ambedue nelle mani del terzo. Infatti, l’intero potere della nazione venne presto a trovarsi in un solo corpo, il Terzo Stato”38. Come ha sottolineato Gérard Gengembre, per Burke il passaggio dalla convocazione degli Stati Generali all’idea democratica fu veramente un salto sbalorditivo, qualcosa che non si poteva in alcun modo prevedere39. Era dunque il principio della rappresentanza individuale, senza corporate capacity, il vero fondamento della rivoluzione francese e nelle parole di Burke questo principio assurgeva addirittura al rango di dogma politico40, la cui caratteristica si concretizzava nel far risiedere la sovranità “costantemente e inalienabilmente nel popolo”41. Contro di esso Burke si sarebbe battuto tenacemente in parlamento. Da una parte si sarebbe opposto a coloro che volevano estendere il privilegio ed il diritto di elettori anche ai “middle ranks of life”, adducendo la ragione che gli antichi usi fino ad allora lo avevano vietato42, e dall’altra avrebbe contrastato i nuovi 38
201).
E. BURKE, Reflections on the Revolution in France cit., p. 92 (trad. it. cit., p.
39 G. GENGEMBRE, Burke, in F. FURET, M. OZOUF (a cura di), Dizionario critico della rivoluzione francese, Milano, Bompiani, 1989, pp. 861-862. 40 WR, VIII, pp. 344, 438, 440. 41 E. BURKE, An Appeal from the New to the Old Whigs cit., p. 123 (trad. it. cit., p. 497). 42 Discorso parlamentare tenuto il 4 marzo 1790, Debate on Mr Food’s Motion for a Reform in Parliament, in PH, XXVIII, p. 477.
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sostenitori della esclusiva sovranità del popolo, precisando che il potere sovrano non poteva essere considerato un corpo distinto da coloro che ne erano i rappresentanti43. Nel momento in cui avessimo adottato sovranità e uguaglianza dei cittadini come regole di governo, si sarebbe potuto dire addio ad ogni proprietà, ad ogni legge, morale e religione44. Coloro che in Inghilterra perseguivano una riforma parlamentare lo facevano solamente come pretesto per la sedizione e la rivolta contro lo Stato, per questo motivo dovevano essere messi fuori legge, ove fosse necessario, addirittura sospendendo una garanzia costituzionale come quella dell’ Habeas Corpus45. Questa la ragione di fondo, politica, per cui Burke diresse la propria polemica contro predicatori dissenters come Price e Priestley. Il nesso tra il loro operato e ciò che stava accadendo in Francia venne immediatamente stabilito non appena venne a conoscenza del famoso sermone di Price, A Discourse on the Love of Our Country, e delle associazioni che lo sostenevano. Nelle Reflections egli avrebbe raccontato che nell’eterogeneo discorso di Price, che esprimeva solamente un calderone di pasticciati sentimenti morali, religiosi e politici, l’ingrediente fondamentale era costituito dalla Rivoluzione francese46. Nell’appello finale del sermone Price aveva incitato il suo uditorio a sostituire il dominio dei Re e dei preti con quello della legge e della ragione47 e per Burke queste parole avevano acquistato improvvisamente una pericolosità inaspettata, proprio alla luce degli avvenimenti francesi. Lo statista inglese infatti, aveva confidato il 12 novembre a Fitzwilliam che le cause di ciò che Discorso parlamentare tenuto il 28 dicembre 1792, Debate in the Commons on the Alien Bill, in PH, XXX, p. 184. 44 Discorso parlamentare tenuto il 28 febbraio 1793, Debate on Mr Sheridan‘s Motion relative to the Existence of Seditious Practices, in PH, XXX, p. 555. 45 Discorso parlamentare tenuto il 16 maggio 1794, Debate in the Commons on the Habeas Corpus Suspension Bill, in PH, XXXI, pp. 518-520. 46 WR, VIII, p. 61. 47 Aveva scritto Richard Price: “Io vedo l’ardore per la libertà diffondersi; un generale spirito di riforma si sta affermando nel campo degli affari; il dominio dei Re si è mutato nel dominio delle leggi ed il dominio dei preti sta cedendo il passo al dominio della ragione e della coscienza” (R. PRICE, A Discourse on the Love of Our Country, London, Cadell, 1789, p. 51). 43
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stava accadendo in Francia avevano cominciato finalmente a dispiegarsi e la nobiltà e il clero, le uniche energie che potevano tenere in vita la monarchia, si stavano estinguendo48. Quel che era peggio, avrebbe scritto nel gennaio 1790, era che le parole di Price sembravano davvero essersi avverate con l’avvento al potere del razionalismo di Voltaire e la teoria del contratto di Rousseau. Chi si sarebbe mai immaginato che questi due filosofi potessero diventare un modello per i legislatori? Egli aveva letto ormai da lungo tempo Il contratto sociale, e non avrebbe mai pensato che potesse causare “rivoluzioni e dare leggi alle nazioni”. Ma così era accaduto ed adesso vedeva l’Inghilterra pullulare di suoi discepoli desiderosi di riformare lo stato sul modello francese49. Burke, insomma, vedeva l’Europa dell’antico regime, con gli occhi degli illuministi scozzesi, un mondo cioè situantesi all’apice di uno sviluppo progressivo della società civile ma, in fondo, finché non era esplosa la rivoluzione francese, non era stato costretto a riflettere sulle basi dell’ordine civilizzato. Fu senza dubbio questa riflessione che lo portò a vederne le cause soprattutto nella “rivoluzione dei sentimenti e dei costumi”, quindi, in contrapposizione, a rivalutare, ed anzi, a dare un’importanza basilare e sostanziale a quei sentimenti e quei costumi che fino ad allora avevano retto l’antico regime. Essi, per Burke, “dipesero per secoli, in questa nostra Europa, da due principi combinati insieme: voglio dire lo spirito del gentiluomo e lo spirito della religione”50. Questi principi erano talmente fondamentali da superare per importanza persino quelli della stessa legislazione. Nella First Letter on a Regicide Peace aveva scritto: “I costumi sono più importanti delle leggi ed esse, in larga misuLettera a Fitzwilliam del 12 novembre 1789, in The Correspondance of Edmund Burke, Cambridge, Cambridge University Press, 1958-1976, vol. VI, p. 36. 49 Ibid., pp. 80-81, lettera del gennaio 1790. Nelle Reflections scriverà: “Noi non ci siamo convertiti a Rousseau, non ci proclamiamo discepoli di Voltaire, Elvezio ha fatto scarsi progressi tra noi. Non scegliamo i nostri predicatori tra gli atei, i nostri legislatori tra i pazzi” (E. BURKE, Reflections on the Revolution in France cit., p. 137; trad. it. cit., p. 256). 50 E. BURKE, Reflections on the Revolution in France cit., pp. 129-130 (trad. it. cit., p. 247). 48
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ra, dipendono da loro. La legge non ci riguarda se non qua e là e di tanto in tanto. I costumi invece sono quelli che ci opprimono oppure ci consolano, che ci corrompono oppure ci purificano, che ci esaltano oppure ci disprezzano, che ci rendono barbari oppure ci raffinano, attraverso una costante, ferma, uniforme, impercettibile azione, come quella dell’aria che respiriamo. Essi danno forma e colore alle nostre vite. A seconda delle loro caratteristiche, vengono in aiuto alla morale e la alimentano oppure la distruggono del tutto. I nuovi legislatori francesi ne erano ben consapevoli; pertanto, con lo stesso metodo e con la stessa autorità, stabilirono il più dissoluto e corrotto sistema di costumi che sia mai stato conosciuto, ed allo stesso tempo quello più volgare, rozzo, selvaggio e feroce”51. Ed infatti, nella Seconda lettera, Burke metterà in evidenza come, sempre, “una rivoluzione silenziosa nel mondo morale precedeva quella politica e la preparava”52. Il lento ma graduale divincolarsi del talento e delle energie delle nuove classi dalla chain of subordination, insieme alla loro impaziente volontà di affermazione, le aveva rese consapevoli della crucialità della situazione. I rapporti tra il mondo finanziario e mercantile e quello letterario, filtrati attraverso la stampa, avevano creato, per Burke, “ovunque una specie di comunicazione elettrica”, che rendeva ogni governo, “nel suo spirito, quasi democratico”53. Secondo Keith Michael Baker, nel punto critico rappresentato dalla rivoluzione francese l’opinione pubblica si stava trasformando da categoria cognitive a categoria voluntative, per divenire sempre più un immaginario sostituto per power. Alla fine di queWR, IX, p. 242. Ibid., p. 291. Sull’importanza dell’opinione pubblica e dei giornali per Burke vedi WR, VIII, pp. 160-162, 347-348, An Appeal from the New to the Old Whigs cit., pp. 89, 192, WR, II, pp. 177, 313, WR, III, pp. 118-119, 314-315, WR, IX, pp. 295, 544. In questo passo Burke, sembrava, per certi versi, anticipare l’analisi di A. Cochin sulla rivoluzione come gradualmente preparata da un lungo lavoro di sottosuolo operato dalle società di pensiero, dalle accademie e simili, o, addirittura, la teoria di Gramsci sulla società civile come caratterizzata dal concetto di “egemonia”, che si deve raggiungere con una lenta conquista dei suoi capisaldi (A. COCHIN, Les sociétés de pensée et la démocratie moderne, Paris, Mouton, 1921, A. GRAMSCI, Quaderni dal carcere, Torino, Einaudi, 1977, pp. 866, 1518). 53 WR, IX, p. 292. 51 52
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sto processo anche il potere sarebbe finito per divenire funzione stessa dell’opinione54. Le due istituzioni che lentamente erano state corrose e quasi scalzate dal giacobinismo erano dunque la religione e lo spirito del gentiluomo, che si identificava nell’istituzione della cavalleria. Pocock ha scritto che quest’ultimo non era meramente un termine emotivo, ma il nome di un complesso fenomeno storico con il quale i grandi storici dell’illuminismo avevano cercato di spiegare la transizione dal “barbarismo” al commercio, mostrando come la classe dei “cavalieri” si fosse emancipata da una condizione di coraggio brutale e guerriero, acquisendo un codice di comportamento fatto di modi cortesi, soprattutto verso le donne55. Religione e cavalleria erano strettamente collegati nella loro funzione di condizione necessaria alla civilizzazione. Sempre secondo Pocock, Burke, utilizzando tale retorica, aveva cercato di salvare l’illuminismo dal fanatismo senza religione della rivoluzione, nella quale sostanzialmente aveva visto “l’illuminismo che si rivoltava contro se stesso”56. In realtà egli, pensando di salvare la civiltà dalla barbarie rivoluzionaria, aveva respinto altri aspetti centrali dell’illuminismo che si erano incarnati proprio in quelle già ricordate conquiste della rivoluzione che avrebbero fornito parte del substrato fondamentale delle moderne liberal-democrazie, conquiste che avevano come fondamento proprio l’individualismo democratico, da intendersi sia in senso politico che culturale oltre che economico e religioso. L’esportazione delle idee illuministiche sulla punta delle baionette rivoluzionarie avrebbe scatenato anche la reazione romantica, un vero e proprio contrattacco della cultura tedesca al cosmopolitismo dei Lumi. Nei vari autori romantici, che avevano potuto attinK.M. BAKER, Enlightenment and Revolution in France: Old Problems, Renewed Approaches, “Journal of Modern History”, 1981, n. 2, pp. 284-285. 55 J.G.A. POCOCK, introduzione a Burke, Reflections cit., p. xxxii. Vedi anche Id., The Political Economy of Burke’s Analysis of the French Revolution, in Id., Virtue, Commerce, and History cit., pp. 197-200. 56 J.G.A. POCOCK, Political Thought in the English Speaking Atlantic,17601790, in Id. (ed.), The Varieties of British Political Thought, 1500-1800, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, p. 304. 54
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gere al repertorio di Rousseau, di Herder e di Burke, si trova l’univoca esaltazione dell’individuo, della nazione, della storia contro l’universale ed il senza tempo. La loro posizione è però peculiare e nell’insieme non la si può collocare sull’asse politico destra – sinistra. Il pensiero romantico infatti, come ha scritto Carlo Galli, non può essere totalmente assimilato a quello dei controrivoluzionari cattolici perché passa “in realtà da posizioni reazionarie ad altre, «progressive», senza che se ne possa mai individuare un centro di organizzazione solido e stabile”57. Quali le ragioni di questa contraddizione? Da una parte i romantici avevano ripudiato quasi tutto dell’illuminismo, dall’altra però coltivarono un individualismo estetizzante, moderno, di origine rousseauviana, che aveva alla base un’idea di individualità, unicità, originalità, riassunta nel termine eigentümlichkeit, che certamente se veniva radicalizzata nel culto dell’eccentricità e dell’egoismo avrebbe portato al nichilismo sociale e sarebbe stata perciò in aperto contrasto con “gli standard razionali, universali e uniformi dell’illuminismo”58. Nei romantici, inoltre, prevalse il pregiudizio aristocratico, che faceva respingere l’individualismo moderno ma solo in quanto, essendo “quantitativo, razionalistico, ottimistico, democratico”, metteva a repentaglio l’armonia e l’unità sociale. Essi però non trassero fino in fondo le conseguenze della loro concezione, cosa che invece non avrebbe tardato a fare il tardo romanticismo, che come ha scritto Swart, sarebbe stato a sua volta critico verso le tendenze atomistiche e nichiliste insite nello stesso ideale romantico59. Questo cambiamento di giuC. GALLI, introduzione a Id. (a cura di), I controrivoluzionari cit., p. 8. Per Gadamer, addirittura, il romanticismo condividerebbe gli stessi presupposti dell’illuminismo e la stessa filosofia della storia; l’unica differenza starebbe nel rovesciamento della valutazione dell’astratta opposizione Mythos - Logos (H.G. GADAMER, Wahreit und Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, Tübingen, Mohr, 1960, pp. 258; trad. it., Verità e metodo, Milano, Bompiani, 1983, pp. 321). 58 S. LUKES, Individualism, Oxford, Basil Blackwell, 1973, p. 17. Berlin ha mostrato come nella cultura europea tra il 1760 e il 1820 si fosse venuto affermando il moderno valore dell’interiorità (I. BERLIN, The Roots of Romanticism cit., pp. 89). 59 K.W. SWART, «Individualism» in the Mid-Nineteenth Century (1826-1860), 57
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dizio sarebbe stato riassunto esemplarmente da Charles Maurras, l’epigono della reazione cattolica; per lui, infatti, i romantici francesi degli anni ‘30 dell’Ottocento, tramite la mediazione di Chateaubriand e Madame De Staël, erano stati completamente intrisi dall’ individualismo rousseauviano, ma questo non poteva, in alcun modo, essere considerato come un fatto puramente estetico. Tale il motivo per cui, “la rivolta individuale”, aveva scritto Maurras, “una volta riconosciuta come principio d’arte, sotto il nome di originalità, [aveva] determinato un’anarchia che era ancora più profonda”60. L’attacco all’illuminismo venne dunque sferrato su più fronti: Novalis avrebbe accusato il corrosivo spirito dei Lumi perché aveva purificato “di ogni poesia la natura, il suolo terrestre, le anime umane e le scienze”, aveva cancellato “ogni traccia del sacro”, aveva guastato “la memoria di tutti gli eventi o uomini edificanti”, e spogliato “il mondo di ogni colorito avvenimento. La luce a motivo della sua matematica docilità e della sua impudenza”, era divenuta la sua metafora prediletta61. Fichte avrebbe sottolineato lo spaesamento, l’estraniamento indotto dall’ideale cosmopolita; l’assurdo “desiderio di essere tutto e di appartenere ad ogni luogo”, che ci aveva fatto arrivare al punto “di non trovarci in nessun luogo a casa nostra”62. Di fronte al pericolo della civilizzazione illuministica, nei suoi aspetti morali e di costume, fomentati senza sosta dal libero commercio, era necessario opporre una solida cultura nazionale. Nel commercio, infatti, non c’era niente della semplicità dei nostri avi, esso non era altro che un gioco d’azzardo; coloro che vi reclamavano una maggiore libertà, qui come nell’industria, volevano anche “la “Journal of the History of the Ideas”, 1962, n. 1, pp. 82-83. 60 C. MAURRAS, L’avenir de l’intelligence (1920), in M. SUTTON, Nationalism, Positivism and Catholicism. The Politics of Charles Maurras and French Catholics, Cambridge, Cambridge University Press, 1980, p. 62. 61 NOVALIS, Die Christenheit oder Europa (1799), in Id., Werke in einem Band, München-Wien, Carl Hanser Verlag, 1984, pp. 535-536 (trad. it.,Opera filosofica, vol. I, Torino, Einaudi, 1993, p. 600). 62 J. G. FICHTE, Der geschlossen Handelsstaat (1800), in Id., Werke, Stuttgart, Frommann, 1988, vol. VII, p. 141 (trad. it., Lo stato secondo ragione o lo stato commerciale chiuso , Torino, Bocca, 1909, p. 134).
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liberazione da ogni vigilanza e polizia, indipendenza da ogni ordine e costume”63. E Schlegel, a questo proposito, non avrebbe potuto fare a meno di constatare, pochi anni dopo, come fosse stato proprio il principio economico a fungere da guida dell’illuminismo64. Tutti i romantici, indiscriminatamente, avrebbero attaccato l’individuo quando lo si considerava come fondamento del diritto naturale e principale cellula dello stato. Sempre per Novalis era stato proprio l’illuminismo il principale colpevole della concezione meccanicistica ed utilitaristica dello stato che si fondava, secondo il noto topos reazionario, sul continuum riforma-rivoluzione65. La più elaborata costruzione teorica, in questo senso, però, sarebbe stata quella di Adam Müller, che Carl Schmitt considerò la più tipica del romanticismo politico66, e Mannheim il punto d’incontro simbolico tra il pensiero cetuale ed il romanticismo letterario. Per lui, infatti, vi era stata una sorta di osmosi, il romanticismo era divenuto cetuale man mano che il vecchio pensiero aristocratico era divenuto romantico67. Müller innanzitutto aveva attaccato “la chimera del diritto naturale”, che vent’anni prima aveva agitato “tutti i grandi regni d’Europa”, semplicemente perché non si era ancora capita la vera idea di Stato la quale altro non era che “la totalità delle attività umane, la loro unione in un tutto vivente”. Lo stato, avrebbe ribadito Müller, “non è semplicemente una manifattura, una fattoria, un istituto di assicurazione o una società mercantile; esso è l’unione di tutti i bisogni fisici e spirituali di una nazione, di tutte le ricchezze fisiche e spirituali, e di tutta la vita esterna ed interna, in un’unica grande e vigorosa totalità, possente ed infinitamente viva”. L’uomo o il cittadino non erano neppure concepibili al di fuori di questa toIbid., p. 140 (trad. it. cit., p. 133). A.W. SCHLEGEL, Allgemeine Übersicht des gegenwärtigen Zustandes der deutschen Literatur (1802-3), in Id., kritische Schriften und Briefe, Stuttgart, Kohlhammer, 1964, vol. III, pp. 22-85. 65 NOVALIS, Die Christenheit oder Europa cit., pp. 531-534, 537-538. 66 C. SCHMITT, Politische Romantik (1919-1924), Berlin, Duncker & Humblot, 1991, p. 21. 67 K. MANNHEIM, Konservatismus. Ein Beitrag zur Soziologie des Wissen (1925), Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1984, pp. 141, 149-151. 63 64
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talità, alla quale, soprattutto in caso di guerra, dovevano “essere in grado di sacrificare ogni cosa”68. Secondo Schelling la prima opera che in realtà si era contrapposta alla visione meccanicistica dell’illuminismo, considerando lo stato come un organismo, era stata il Naturrecht di Fichte, un’opera dove la nazione veniva concepita come una realtà che trascendeva la mera esistenza individuale, il mero concetto di uomo, da non confondersi dunque assolutamente con quello di individuo69, ma la polemica di Fichte, in realtà, avrebbe conquistato un posto centrale nell’opinione pubblica tedesca e una successiva e notevole influenza all’estero soprattutto dopo la pubblicazione delle sue conferenze “popolari” nel 1806. Nei Tratti fondamentali dell’epoca presente, Fichte non descrisse altro che il fallimento dell’illuminismo, un’età di transizione che doveva precedere quella in cui la scienza, vera realizzazione dell’“istinto di ragione”, avrebbe dovuto ergersi a principio della vita70. Quello attuale era “lo stato della compiuta peccaminosità”, un’“epoca di liberazione” dall’autorità e dalla ragione in generale, di “assoluta indifferenza” verso la verità e di “completa indipendenza priva di qualche filo conduttore”71. Una simile epoca poteva considerarsi “unicamente una invenzione di certi uomini oziosi a cui si da il nome di filosofi”, e le stesse “esposizioni” degli enciclopedisti assomigliavano “a della sabbia lanciata in aria, in cui ogni granello è precisamente per sé anche un tutto, e tutti non sono tenuti assieme che dall’aria vuota”72. A. MÜLLER, Die Elemente der Staatskunst (1809), Leipzig, Alfred Kröner Verlag, 1931, pp. 28, 22, 25, vedi anche pp. 101-103 (trad. it., Gli elementi dell’arte politica, Milano, Guerini e associati, 1989, pp. 52, 50, 45, 47). 69 SCHELLING, Vorlesungen über die Methode des Akademischen Studiums (18021813), in Id., Werke, München, Oldenbourg, 1927, vol. III, p. 338. 70 Aveva scritto Fichte: “Lo scopo della vita sulla terra del genere umano è questo istituire liberamente tutti i suoi rapporti secondo ragione” (J.G. FICHTE, Die Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters -1806-, in Id., Werke cit., vol. VIII, pp. 242; trad. it., I tratti dell’epoca presente, Napoli, Guerini e Associati, 1999, p. 149). Della stessa opera vedi anche le pp. 212-213. 71 J.G. FICHTE, Die Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters cit., p. 207 (trad. it. cit., pp. 97-98). 72 Ibid., pp. 216, 249 (trad. it. cit., pp. 111, 159). 68
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4. Il pettine della rivoluzione:
La liberazione tanto vantata dall’illuminismo non riguardava che i singoli individui, presi separatamente, “un tutto aggregato di parti ma in nessun modo organico e in sé compatto”. Per tali individui poi non esisteva che un unico principio: “non ammettere assolutamente nulla come esistente e vincolante, se non quanto si comprende e si concepisce chiaramente”. Nulla era inoltre concretamente percorribile se non si riferiva all’esistenza ed al benessere personale, nulla che andasse “oltre la vita dell’individuo” veniva preso seriamente in considerazione. Perchè una volta sbarazzatisi della “ragione”, sia come “istinto” che come “scienza”, non rimaneva altro che “il mero egoismo puro e nudo”73. La mancanza di orizzonti che trascendessero il singolo si rifletteva quindi in ogni ambito sociale. A livello politico, per quanto riguardava “la costituzione legislativa degli stati e il governo dei popoli”, l’illuminismo, trascinato “dal suo odio verso l’antico”, avrebbe cominciato “a fondare costituzioni statali su astrazioni campate in aria e vuote di contenuto”; nei confronti della moralità, esso avrebbe riconosciuto “come unica virtù il fatto che si [sarebbe promosso] il proprio utile, tutt’al più aggiungendo, o honoris causa, o per incoerenza, l’utile altrui (...); e come unico vizio di mancare il proprio profitto”. La religione infine sarebbe stata ridotta “a una semplice dottrina della felicità destinata a ricordarci che si devono moderare i piaceri per godere grandemente e a lungo”74.
Ibid., pp. 212-213, 209-210 (trad. it. cit., pp. 105-106, 100-102). Vedi anche le pp. 215, 243-244. 74 Ibid., pp. 215-216 (trad. it. cit., pp. 109-110). 73
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5. Un’idra a due teste: Liberalismo e industrialismo. Coleridge e Carlyle
Se la rivoluzione francese aveva portato alla luce le contraddizioni insite nei linguaggi politici settecenteschi, anche di carattere illuminista, e ne aveva per altro inaugurati di nuovi, nella prima metà dell’Ottocento, l’illuminismo viene attaccato in quelle che i suoi avversari considerano le sue moderne incarnazioni; esso diventa cioè un’idra le cui due teste sono rappresentate dal liberalismo, sotto la cui egida si raccolgono anche gli amici della democrazia rappresentativa, e dall’industrialismo, inteso se non sempre come nuova modalità di sviluppo capitalistico, quanto meno come sinomino delle conseguenze negative e dei mali provocati da questo nella società. I modi del nuovo attacco, che ormai nel 1850 possono dirsi maturi a tutti gli effetti, attraversano un periodo di transizione che va a culminare nel decennio tra il 1830 e il 1840. Nelle prime decadi del secolo chi si oppone alla civilizzazione di matrice illuministica lo fa ancora, in gran parte, mutuando il lessico dalle precedenti polemiche settecentesche, ed in parte creandone uno nuovo che andrà a incrementare il bagaglio teorico degli odierni avversari dei Lumi. La dicotomia che abbiamo già messo in evidenza, e cioè quella di una reazione di destra e una di sinistra, continua ad essere valida anche in questa prima parte dell’Ottocento. Specialmente in Francia, ma non solo, si contrappongono da un lato il partito controrivoluzionario che si batte per difendere la corona e la chiesa, la loro autorità e legittimità, dall’altro un partito che aspira a forme più radicali di democrazia e socialismo per portare a compimento proprio alcuni di quegli esperimenti sociali che la rivoluzione aveva iniziato1. 1 M. LILLA, The Legitimacy of the Liberal Age, in Id. (ed.), New French Thought: Political Philosophy, Princeton, Princeton University Press, 1994, p. 4.
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Félicité Robert de Lamennais, fece parte del partito controrivoluzionario, perlomeno fino alla sua conversione alle idee moderne negli anni trenta. Importante fu la sua lezione, come la sua presenza e i suoi viaggi, tra i legittimisti e i tradizionalisti italiani, dal principe di Canosa a Monaldo Leopardi e al Padre Gioacchino Ventura2. In Lamennais ricorrono tutte le argomentazioni classiche del pensiero reazionario, da quella che considerava la rivoluzione, basata sulla ragione umana, come la causa principale che aveva fatto crollare “il gotico edificio delle superstizioni politiche e religiose”, annientando lo stesso uomo in quanto essere sociale3, a quella che vedeva la libertà e l’uguaglianza proclamate dai rivoluzionari come perfettamente conformi alla “dottrina teologica dei protestanti”4, per non parlare della stretta correlazione, la inevitabile e reciproca influenza, che si era instaurata tra democrazia e ateismo5. Se dunque, questo breve accenno ci fa capire la persistenza e la sostanziale identità del pensiero legittimista cattolico, a secolo ormai inoltrato, dall’altra parte avrebbe continuato a giocare un ruolo fondamentale, per diverso tempo ancora, la retorica repubblicana. Certamente tra gli autori più attivi ed influenti, dopo la congiura degli eguali, ci fu Filippo Buonarroti, compagno ed erede di Babeuf, ed uno dei maggiori animatori dei movimenti democratici europei ottocenteschi, in senso repubblicano e socialista. Nei suoi scritti politici, sin dal Discorso preliminare nel “Giornale patriottico di Corsica” del 1790, sarebbero stati infatti presenti temi della tradizione repubblicana, mediata attraverso le opere di Rousseau ma an2 G. VERUCCI, Per una storia del cattolicesimo intransigente in Italia dal 1815 al 1848, in “Rassegna storica toscana”, 1958, fasc. III-IV, p. 265. Vedi anche S. FONTANA, La controrivoluzione cattolica in Italia (1820-1830), Brescia, Morcelliana, 1968, pp. 13-64 e C. GALLI (a cura di), I controrivoluzionari cit., p. 41. 3 F.R. DE LAMENNAIS, Del clero (1819), in Id., Scritti politici, Torino, Utet, 1964, p. 49. 4 F.R. DE LAMENNAIS, Essai sur l’indifférence en matière de religion (1817-24), Paris, Pognerre, 1844, p. 164. 5 F.R. DE LAMENNAIS, De la religion considérée dans ses rapports avec l’ordre politique et civil (1825-26), in Id., Œuvres, Genève, Éditions du milieu du monde, 1973, p. 53.
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che di Mably e Morelly. Aspra, ad esempio, sarebbe stata la polemica antilluminista contro la civilizzazione ed il commercio, contro una nascente industria, polemica fatta più nel segno di una concreta e realizzabile “legge agraria”, sul modello repubblicano, piuttosto che nel nome di un utopico comunismo6. Ancora nel 1833, in un articolo pubblicato sulla “Giovine Italia” nel quale Buonarroti si preoccupava di dare delle regole ad una nazione in rivolta per conseguire la libertà, egli constatava come “un popolo corrotto dal falso incivilimento” potesse “spezzare le sue catene” solo con gran fatica e contro potenti nemici. Per questa ragione, per renderlo edotto all’“uso della sovranità popolare” bisognava “predisporre l’animo de’ cittadini ai sensi di fratellanza, di modestia, d’uguaglianza, di disinteresse e di caldo amor di patria”. Quest’opera, ovviamente, si presentava impervia, non era affatto facile convincere “tanta gente cresciuta col vizio, frutto di tirannide, a moderare la sete dell’oro, a vincere la vanità, a non far più conto delle distinzioni, a mettere in pratica l’eguaglianza, a sopportare volentieri gli aggravi pubblici, a metter da parte ogni idea di privilegio e di superiorità sugli altri, ad offrirsi in esempio di temperanza, di frugalità e di coraggio”7. Quali differenze troviamo, a distanza di quasi un secolo, dalla descrizione montesquieuana della repubblica democratica nella civiltà classica8? A prescindere dunque dalla persistenza in questa fase di temi settecenteschi e del gergo pro o contro la rivoluzione è necessario far vedere come il collegamento tra la critica all’illuminismo e quella al liberalismo e all’industrialismo fosse fatta proprio da alcuni deF. DELLA PERUTA, nota introduttiva a F. BUONARROTI, Scritti politici, Torino, Einaudi, 1976, pp. xi, xxv. 7 F. BUONARROTI, Del governo d’un popolo in rivolta per conseguire la libertà (1833), in Id., Scritti politici cit., p. 96. 8 Sulla persistenza della retorica repubblicana come fonte antilluminista in questi anni, il caso di Giacomo Leopardi sembra essere sintomatico. Criticando coloro che si aspettavano dal commercio e dall’industria quell’agiatezza che avrebbe reso “stabili le virtù e proprie dell’universale, (...) intanto, in compagnia dell’industria”, si moltiplicavano “senza fine, (...) la bassezza dell’animo, la freddezza, l’egoismo, l’avarizia, la falsità e la perfidia mercantile, tutte le qualità e le passioni più depravatrici e più indegne dell’uomo incivilito”, e “le virtù si aspetta[va]no” (G. LEOPARDI, Pensieri, Milano, Adelphi, 1993, p. 49). 6
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gli autori che abbiamo già preso in considerazione o che analizzeremo tra breve. Lamennais, per esempio, considerava il liberalismo come la diretta continuazione della filosofia dei Lumi. Così aveva scritto nel 1815: “leggete i numerosi pamphlet che danno vita ogni giorno ai deliri filosofici. Ogni sogno anti-sociale in loro viene rinnovato, esaltato, consacrato sotto il nome di idee liberali, un’espressione sacramentale, la cui calcolata oscurità cela agli occhi del volgare i terribili misteri della religione filosofica”9. Saint Simon, sull’altra sponda, passando in rassegna i partiti politici all’inizio della restaurazione, avrebbe affermato che il “partito liberale” era proprio la diretta emanazione di quei filosofi francesi che per tutto il diciottesimo secolo avevano preparato la rivoluzione francese: “furono i liberali a preparare la Rivoluzione, denunciando nei loro scritti i difetti dell’antico regime. Furono loro a destare quel grande entusiasmo popolare, che richiama alla memoria tanti mali e tanti beni, a proclamare i principi generali che, secondo la dichiarazione dell’assemblea Costituente, dovevano formare la base della politica interna ed estera della nazione francese”10. A fornirci invece il legame tra l’economia politica settecentesca, e gli apologeti della società commerciale, con la nascente forma di capitalismo industriale ci avrebbe pensato Robert Southey. Egli aveva scritto nel 1812 che il sistema manifatturiero si era ingrandito a tal punto in Inghilterra che aveva permesso di aumentare le entrate in un modo inconcepibile fino a venti anni prima. Chi era stato il nume tutelare di questo cambiamento? Non c’erano dubbi: “il libro di Adam Smith [era] il codice, o la confessione di fede di questo sistema; un libro noioso e insensibile grandemente sopravvalutato”11. F.R. DE LAMENNAIS, L’influence des doctrines philosophiques sur la société (1815), in Id., Réflexions sur l’etat de l’église en France pendant le dix-huitième siècle, et sur sa situation actuelle; suivies de Mélanges religieux et philosophiques, Paris, Tournachon-Molin et H. Seguin, 1820, p. 165. 10 C. H. DE SAINT-SIMON, L’industrie, ou Discussions politiques, morales et philosophiques (1817-1818), in Id., Œuvres de Claude-Henri de Saint-Simon, Genève, Slatkine Reprints, 1977, vol. I, p. 175 ( trad. it in Opere, Torino, Utet, 1975, p. 289). 11 R. SOUTHEY, On the State of the Poor, “Quarterly Review”, 1812, in D. 9
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E come avrebbe rilevato il nipote di Coleridge, qualche anno più tardi, le osservazioni dello zio sul “Reform Bill” e sugli economisti malthusiani sarebbero state giudicate “illiberali da quelli che, oggigiorno si definiscono liberali – i liberali”12. L’aggettivo “liberale” veniva infatti utilizzato all’epoca di Coleridge e di Southey in espressioni come “inchiesta liberale”, “vedute liberali”, “principi liberali”, e proprio negli anni che vanno dal 1793 al 1815, venne specialmente usato da coloro che in Inghilterra si erano battuti per raggiungere una pace con la Francia. Il cambio che avrebbe visto sostituire questi aggettivi con i sostantivi “i liberali” ed “il liberalismo”, sarebbe avvenuto più tardi, ma già si potevano registrare significative anticipazioni come quando, nel 1812, osserva Cookson, John Douglas di Glasgow scriveva al leader Whig, Brougham, facendo un riferimento a sé stesso come leader del “partito liberale” della città13. Anche in Germania lo Smithianismus prima, e a metà secolo il Manchesterthum, sarebbero stati considerati delle forme di razionalismo liberale e parte integrante di quello spirito corrosivo “associato con la rivoluzione francese e con quell’altro malanno francese rilasciato dall’illuminismo e trasportato negli zaini dell’armata di Napoleone”14. Come avrebbe riassunto efficacemente Thomas Carlyle alcuni anni più tardi, i veri governatori della sua epoca non erano i Re e gli uomini di stato, “ma il Papa Voltaire, il Vescovo Hume, il Vescovo Smith , l’Arcidiacono Helvetius”15. Se dunque l’illuminismo politico si era incarnato nella rivoluzione francese, quello economico avrebbe raggiunto il suo apice nel WINCH, Riches and Poverty. An Intellectual History of Political Economy in Britain, 1750-1834, Cambridge, Cambridge University Press, p. 323. 12 S.T. COLERIDGE, Table Talk (1836), in Id., The Collected Works of Samuel Taylor Coleridge, London, Routledge and Kegan, 1969-1993, vol. XIV, tomo II, p. 13. 13 J.E. COOKSON, The Friends of Peace. Antiwar Liberalism in England, 17931815, Cambridge, Cambridge University Press, 1982, pp. 2-3. 14 D. WINCH, Riches and Poverty cit., p. 414. 15 In R.K.P. PANKHURST, The Saint Simonians Mill and Carlyle. A Preface to Modern Thought, London, Lalibela Books, 1957, p. 31.
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pieno dispiegarsi di quel fenomeno sociale che è stato definito come rivoluzione industriale. Certamente introducendo questo concetto non possiamo commettere l’anacronismo di considerarlo significativo di un evento, della cui portata i contemporanei e, persino gli intellettuali dell’epoca, erano completamente consapevoli. Lo storico dell’economia Wrigley ha avvertito di non lasciarsi intrappolare da una terminologia che considera la rivoluzione industriale come un fenomeno unitario e progressivo in un arco cronologico, ormai convenzionale, che parte dal 1780 e raggiunge la sua maturità nel 1830. I grandi cambiamenti sarebbero avvenuti soltanto nel decennio successivo. Fino a quel momento, scrive Wrigley, l’aumento della crescita poteva essere visto ancora come conseguenza di cause che vantavano “un lungo pedigree”, solo in seguito l’impeto della crescita sarebbe stato sostenuto in modo crescente “da nuove forze”16. Un autore che ci è utile per capire le mutazioni della critica illuministica in questa età di transizione è senza dubbio Samuel Taylor Coleridge. Con altri autori a lui contemporanei come Southey, anch’egli rappresenta una sorta di trait-d’union tra due tradizioni che di solito non sono collegate nei resoconti storiografici, e cioè, nelle parole di John T. Miller, “la critica morale del «commercialismo» del XVIII secolo e la critica sociologica dell’ «industrialismo» del XIX e del XX secolo”17. Coleridge per Miller starebbe proprio nell’intersezione tra la società rurale ed agricola e quella urbana ed industriale, ma la sua polemica sarebbe “inestricabilmente immersa nel linguaggio della virtù e della corruzione” e per questa ragione 16 E.A. WRIGLEY, Continuity, Chance and Change, Cambridge, Cambridge University Press, 1988, p. 9, e Id., People, Cities and Wealth, Oxford, Blackwell, 1987, pp. 21-45. Sulla reale consapevolezza dell'evento in atto nei protagonisti intellettuali di allora, come ha scritto Paul Samuelson, paradossalmente “essi vissero durante la rivoluzione industriale, ma quasi per niente gettarono uno sguardo fuori dalle loro biblioteche per rendersi conto che il mondo si stava rinnovando” (P. SAMUELSON, The Canonical Classical Model of Classical Political Economy, “Journal of Economic Literature”, XVI, 1978, p. 1428). 17 J.T. MILLER, Ideology and Enlightenment. The Political and Social Thought of Samuel Taylor Coleridge, New York, Garland, 1987, p. x, vedi anche pp. 300-301.
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sarebbe da considerarsi più come erede delle diatribe settecentesche contro modernità e capitalismo che rivolta invece verso la rivoluzione industriale; non si dovrebbe perciò enfatizzare, a suo parere, l’“incidentale” utilizzo della “nozione di «machinery»” al punto da far dimenticare la costante preoccupazione di Coleridge per “la comunicazione della verità”. Anche la stessa attività manifatturiera, in fondo, sarebbe stata da lui classificata tra quelle attività commerciali la cui concezione, nel profondo, era ancora pre-industriale18. Ma Coleridge, se da una parte viene rincuorato e rinsaldato nelle sue convinzioni antilluministiche dall’odio dei romantici tedeschi verso i francesi19, e dall’altra utilizza concetti dell’ideologia country e repubblicana contro la società commerciale, nella nostra ricostruzione acquisisce un peso particolare perché la sua polemica contro i lumi sembra essere soprattutto erede di quella di Edmund Burke. Anzi è forse alla luce della lezione del grande oratore parlamentare di origine irlandese che la si può ben intendere. Non è infatti un caso che Coleridge ritenesse che gli scritti di Burke contenessero “i germi della profezia”20. Lui stesso infatti, non aveva potuto sottrarsi al suo “incantesimo” antigiacobino, quell’incantesimo che in gioventù aveva tanto stigmatizzato21. La critica di Burke all’illuminismo si sarebbe comunque insinuata nella mente di Coleridge quando ancora andava a braccetto con la retorica country. Egli infatti avrebbe condannato la maggioranza di quei democratici infatuati della rivoluzione, ed autori come William Godwin, con una tipica espressione burkeana, perché capaci solamente di “contemplare verità e giustizia «nella nudità dell’astrazione»”22. In seguito non ci saIbid., pp. 289, 292, 288, 285, 283. Ibid., p. 105. Sull’influenza tedesca vedi G. MARCEL, Coleridge et Schelling, Paris, Aubier-Montaigne, 1971, pp. 39-57, 73-93, 115-128, 140-145. 20 S.T. COLERIDGE, Table Talk (1820-32) cit., vol. II, p. 391. Le lodi sperticate di Burke si possono riscontrare anche in altri passi del “Table Talk”, vedi ad esempio vol. I, pp. 358-359, 405-406, vol. II, pp. 213, 243. 21 S.T. COLERIDGE, Burke (9 dic. 1794), Sonnets on Eminent Characters (17945), in Id., Coleridge Poetical Works, Oxford, Oxford University Press, 1967, p. 80 (nell’originale leggiamo “wizard spell”). 22 S.T. COLERIDGE, Conciones ad Populum or Addresses to the People (1795) in 18 19
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rebbero state più remore: il fatto che in Inghilterra si fossero grandemente propagati gli errori di Rousseau e degli economisti francesi, di Thomas Paine e dei riformatori autoctoni, era dovuto proprio al “piccolo numero di convertiti fatto da BURKE durante la sua vita”. Dai discorsi sull’America alle opere postume si potevano trovare in lui le stesse dottrine, la stessa saggezza pratica, “le stesse argomentazioni e gli stessi pregiudizi contro i principi astratti, contro tutte le deduzioni della pratica dalla teoria”23. Il principale errore nella storia recente, per Coleridge, era stato proprio quello di ritenere che esistessero dei diritti universali derivati da “principi contenuti nella ragione dell’uomo”24, ma soprattutto, in aperta polemica antidemocratica contro Rousseau e i suoi seguaci inglesi, non poteva esistere “affatto alcun diritto naturale al suffragio”25. In qualsiasi modo avessimo ovviato a questa obiezione, continuava Coleridge con inconfondibile afflato burkeano, avremmo dovuto comunque ammettere “l’ Opportunità basata sull’ Esperienza, e le circostanze particolari” che variavano “in ogni diversa nazione, e nella stessa nazione in tempi differenti”, così come era soggetta a variazione “la Massima di tutta la legislazione ed il Principio fondamentale di tutto il potere legislativo”. I princìpi universali, “fintanto che sono princìpi ed universali, necessariamente presuppongono soggetti uniformi e perfetti, che possono essere trovati nelle idee della pura geometria e (io confido) nella realtà del paradiso, ma mai, mai, nelle creature di sangue e carne”26. Id., The Collected Works of Samuel Taylor Coleridge cit., vol. I, p. 37. 23 S.T. COLERIDGE, On the Grounds of Government as Laid Exclusively in the Pure Reason; or a Statemente and Critique of the Third System of Political Philosophy, viz. the Theory of Rousseau and the French Economists, “The Friend”, 1809, n. 9 in Id., The Collected Works of Samuel Taylor Coleridge cit., vol. IV, tomo II, pp. 123-124. 24 S.T. COLERIDGE, On the Principles of Political Philosophy, “The Friend”, 1809, n. 7 in Id., The Collected Works of Samuel Taylor Coleridge cit., vol. IV, tomo II, p. 105. 25 S.T. COLERIDGE, On the Grounds of Government as Laid Exclusively in the Pure Reason cit., p. 132, vedi anche pp. 128-129. 26 Ibid., p. 133
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Gli hurrying Enlighteners e i Revolutionary Amputators di quei tempi erano i figli e i nipoti dei filosofi illuministi. Scriveva Coleridge ironicamente: “i denti del Serpente piantati dai Cadmo della letteratura francese, sotto Luigi XV, produssero un copioso raccolto di filosofi e trombettieri della verità (...) nel regno dei suoi successori. Essi insegnarono molte verità, storiche, politiche, fisiologiche ed ecclesiastiche e diffusero le loro nozioni così ampiamente, che le stesse signore e i parrucchieri di Parigi diventarono fluenti Enciclopedisti: ed il solo prezzo che i loro allievi pagarono per questi tesori di nuova informazione, fu di credere la cristianità un’impostura”27. Come Burke aveva visto risorgere, nella rivoluzione francese, il peggiore fanatismo e spirito di proselitismo della riforma, Coleridge più volte fece balenare l’inquietante analogia tra la triade Erasmo-Lutero-Müntzer e quella Voltaire-Rousseau-Robespierre, con Lutero e Rousseau (il Lutero di un’età “despiritualizzata”), accomunati dalla loro natura “radicale”, con l’orrore della guerra dei contadini paragonato al terrore giacobino. Una sola la differenza fondamentale, che “Lutero visse abbastanza a lungo per vedere le conseguenze delle dottrine in cui la pietà sdegnata e le idee astratte di diritto lo avevano precipitato- per vedere, per ritrarsi, per opporsi a loro. Se il destino di Rousseau fosse stato lo stesso, io non dubito, che la sua condotta sarebbe stata la stessa”28. Anche nella sua opposizione al predominio dello “spirito commerciale” che dal regno di Guglielmo III, al suo apice nelle guerre napoleoniche, aveva esteso sempre più la sua influenza nel paese, Coleridge pareva utilizzare le stesse coordinate di Burke29. Per quest’ultimo infatti se lo “spirito commerciale” arrivava al punto di esS.T. COLERIDGE, On the Communication of Truth and the Rightful Liberty of the Press in Connection with It, “The Friend”, 1809, n.3 in Id., The Collected Works of Samuel Taylor Coleridge cit., vol. IV, tomo II, p. 45. 28 S.T. COLERIDGE, On the Grounds of Government as Laid Exclusively in the Pure Reason cit., p. 128. 29 S.T. COLERIDGE, A Lay Sermon addressed to the Higher and Middle Classes on the existing Distresses and Discontents (1817) in Id., The Collected Works of Samuel Taylor Coleridge cit., vol. VI, pp. 195-196. 27
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sere considerato un fine in sé stesso e cessava di essere sottoposto alla religione e all’ aristocrazia, alla fine “tendeva a frantumare questi interessi” e “doveva essere diminuito”30. In modo quasi identico Coleridge sottolineava “la preponderanza dello spirito commerciale in conseguenza dell’assenza o della debolezza dei contrappesi” politici, sociali ed intellettuali rappresentati proprio dal “rango”, dalla religione e da una “filosofia genuina”31. Per questo motivo, per ottenere un riequilibrio, in Lay Sermon invocava l’ intervento di un generico “spirito dello stato”32, ma in On the Costitution of the Church and State avrebbe auspicato la creazione della “Clerisy della nazione, o chiesa nazionale” che, teneva a precisare Coleridge, “nella sua accezione primaria e nell’intenzione originaria, comprendeva gli uomini colti di ogni tipo” e non solo gli ecclesiastici e i teologi33. Questa classe in qualche modo avrebbe assolto a quelle funzioni che Burke aveva assegnato alla Natural Aristocracy, come questa doveva essere il legittimo presidio delle manners e della “civiltà” dell’antico regime messi sotto assedio dalla rivoluzione francese e dalle nuove forme dell’individualismo politico ed economico promosse dall’illuminismo, così quella doveva preservare la “cultura” nazionale, la cultivation dalla minaccia questa volta di una civilization che, identificata con i settecenteschi caratteri civilizzatori del commercio, assumeva adesso, in assonanza con quanto aveva già scritto Fichte, un aspetto fondamentalmente negativo34. Coleridge su questo punto quindi si distanziava anche dalla percezione dello stesso Burke, e vedeva nella crescente forza del capitalismo la vera e più pericolosa minaccia all’ordine esistente. Men30 Discorso parlamentare del 9 aprile 1793, Debate in the Commons on the Traitorous Correspondence Bill, in PH, XXX, p. 645. 31 S.T. COLERIDGE, A Lay Sermon cit., pp. 169, 194. 32 Ibid., pp. 223, 169. 33 S.T. COLERIDGE, On the Constitution of the Church and State, according to the Idea of Each; with Aids towards a Right Judgment on the Late Catholic Bill (1829) in Id., The Collected Works of Samuel Taylor Coleridge cit., vol. X, p. 46 (trad. it. Sulla costituzione della Chiesa e dello Stato, Torino, Giappichelli, 1996, p. 109). 34 Ibid., p. 49, ma sulla distinzione vedi anche “The Friend”, in Id., The Collected Works of Samuel Taylor Coleridge cit., vol. IV, tomo I, p. 494.
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tre Burke in Thoughts and Details about Scarcity, scritto due anni prima di morire, nel 1795, ancora aveva difeso e quasi estremizzato i principi di Smith, Coleridge si era scagliato invece contro gli economisti politici come Malthus, e contro lo stesso sistema escogitato da Smith nella Ricchezza delle nazioni secondo cui “tutte le cose trovano il loro livello”35. È proprio su questo punto che la critica di Coleridge sembra farsi più radicale, sembra abbandonare le vecchie suggestioni country o burkeane e, analizzando alcuni dei mali e delle contraddizioni della società inglese in fase di industrializzazione, tocca alcune corde le cui vibrazioni andranno a ripercuotersi profondamente nell’animo di Thomas Carlyle. Coleridge, dunque, quanto meno sembra anticipare, in alcuni temi, la cosiddetta critica sociologica all’industrialismo. Prima di tutto c’era la triste constatazione del fallimento del progetto illuminista, la disincantata consapevolezza di come il mero sviluppo materiale fosse avvenuto a detrimento di quello spirituale. Il genio del commercio e quello dell’industria avevano ottenuto tali successi nell’incremento della vita umana e dei suoi mezzi che “eccita[va]no la nostra meraviglia”. Ma davvero, si chiedeva Coleridge, “gli ultimi risultati giustificano altrettanto la nostra esultanza”? In realtà la vita umana delle classi inferiori veniva considerata solo come un “mezzo meccanico” costituito da “metallo malleabile”36. Gli operai infatti, sin dalla prima infanzia, erano “ammassati in gruppi e impiegati come parti di un potente sistema di macchine” 37, mentre i contadini erano lasciati sprofondare in un miserabile “pauperismo” man mano che crescevano i profitti ed il lusso degli agricoltori agiati e dei grandi proprietari38. Soprattutto Coleridge stigmatizzava gli effetti devastanti dei cicli economici in termini di disoccupazione: “forse ci diranno che S.T. COLERIDGE, Table Talk (1833) cit., vol. I, p. 383, ma vedi anche Id., A Lay Sermon cit., p. 205 e “The Friend” cit., vol. IV, tomo I, p. 198. 36 S.T. COLERIDGE, A Lay Sermon cit., pp. 208, 212 37 Ibid., p. 224. 38 Ibid., p. 212. 35
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anche i mali propri di questo sistema, persino lo stesso periodico crash, devono essere considerati solo quanto il vapore superfluo emesso dai tubi di scappamento e le valvole di sicurezza di una macchina autoregolantesi”39. A lavoratori e capitalisti doveva essere sì accordata una piena libertà di contrattazione, ma questi ultimi non avevano alcun diritto di disporre a proprio piacimento della salute, della vita e del benessere degli stessi lavoratori: “le persone non sono cose- (...) l’Uomo non trova il suo livello”. Coleridge invitava a chiedere, al medico di paese, se dopo una stagione terribile in cui “le migliaia di ruote di una qualche grande fabbrica [erano] rimaste silenziose come una cascata ghiacciata” ed il commercio era ritornato a farsi palpitante, “se la salute e la temperanza del lavoratore [avevano] trovato il loro livello di nuovo”40! D’altronde, si era chiesto ancora ironicamente, mettendo sotto accusa il supposto naturale armonizzarsi di interessi divergenti: la stessa tratta degli schiavi non era stata forse abolita “dalla crescente umanità e dagli illuminati interessi di parte dei padroni degli schiavi”41? Od ancora, in una lettera in cui descriveva un discorso del conte di Lauderdale, aveva scritto che forse sarebbe stato ozioso domandarsi “se un pugno di ricchi capitalisti dovesse essere prevenuto dall’istigare suicidi e perpetuare infanticidi” o altri crimini morali42. John Stuart Mill vide negli intelletti diametralmente opposti di Bentham e Coleridge la “reazione del XIX secolo contro il XVIII” e, di fatti, la strada aperta da quest’ultimo e da Southey avrebbe condotto direttamente a Carlyle e Ruskin43. Ibid., p. 205. Ibid., pp. 206-207. 41 In A. COBBAN, Edmund Burke and the Revolt against the Eighteenth Century. A Study of the Political and Social Thinking of Burke, Wordsworth, Coleridge and Southey, London, George Allen & Unwin, 1929, p. 215. 42 In Ibid., p. 214. 43 D. WINCH, Riches and Poverty cit., pp. 401-402, 289-290. Per Claudio Palazzolo invece Coleridge esitò a compiere quel breve passo che lo distanziava da una generica “disposizione critica alla nostalgia di una società preindustriale e organica”, e Carlyle non trasse affatto, “principalmente” da lui, “lo stimolo nostalgico” (C. PALAZZOLO, Introduzione al pensiero politico di Coleridge, Torino, Giappichelli, 1988, pp. 104-106). 39 40
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Senza dubbio, tra le varie voci vittoriane che si alzarono contro la democrazia, la polemica di Carlyle nei riguardi dell’“età delle macchine” è quella che ha avuto più grande eco e fortuna, una fortuna che si è protratta addirittura sino alla seconda guerra mondiale44. La pubblicazione nel 1829 di Signs of the Times sulla “Edinburgh Review”, la palestra abituale dei suoi nemici (gli eredi di Smith e dell’illuminismo scozzese), avrebbe influenzato molti scrittori a venire, e sarebbe divenuta per Raymond Williams “un elemento importante nella tradizione della critica sociale inglese”. Williams vi ha visto anche una delle prime reazioni all’ industrialismo, così definito per primo proprio dallo stesso Carlyle45. In questa polemica, ha scritto ancora Williams, ovviamente vi erano “anche segni dell’influenza di Coleridge”46, ma è proprio questa influenza, insieme a quella della filosofia tedesca, che, paradossalmente, ha tenuto ancorata l’invettiva di Carlyle alla critica dell’illuminismo. Coleridge infatti aveva messo in guardia dai possibili danni derivanti da una concezione dell’etica in senso utilitarista, e sull’utilitarismo aveva chiaramente avvertito della necessità di limitare “il contagio generale della sua filosofia meccanica”47. Carlyle, dopo essere stato turbato dalla lettura di Hume nel 1814 e di Gibbon nel 1818, nel 1821, contagiato dalla letteratura tedesca, aveva ormai dichiarato guerra al materialismo. Alla lezione di Coleridge, infatti, venne affiancata quella del Fichte più popolare, il Fichte che, come abbiamo visto, descrivendo I tratti fondamentali dell’epoca presente, ne aveva sottolineato proprio l’esteriorità ed il materialismo, al punto che avrebbe potuto definirsi “con una parola che de-
J. MENDILOW, The Political Philosophy of Thomas Carlyle: Towards a Theory of Catch-All Extremism, in J. HALL (ed.) Rediscoveries, Oxford, Clarendon Press, 1986, pp. 18-21 e Id., The Romantic Tradition in British Political Thought, Totowa (N.J.), Barnes and Nobles, 1986, pp. 198-204. 45 R. WILLIAMS, Culture and Society 1780-1950, London, Chatto & Windus, 1960, pp. 71-72. 46 Ibid. 47 S.T. COLERIDGE, The Collected Works of Samuel Taylor Coleridge cit., vol. VI, p. 28. 44
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signa a meraviglia la sua vera essenza – come rischiaramento e oscuramento”48. L’aggettivo “meccanico”, caratterizzante tutti i domini dell’esistenza, dalla politica all’arte, dalla religione alla morale, sarebbe divenuto per Carlyle emblematico del “nuovo” mondo che stava sostituendo il “vecchio”. La rivoluzione francese era stata il germoglio di questo trapasso, ma l’origine del male stava più indietro, nella filosofia di Locke, la cui “intera dottrina è meccanica, nel suo scopo e nella sua origine, nel suo metodo e nei suoi risultati”. A Locke erano seguiti i “metafisici scozzesi”, Reid e Hume; la scuola del primo aveva intrapreso “un corso meccanico, non vedendone altri”, ed il secondo non aveva fatto che trascinare quella stessa scuola, con tutto il mondo appresso, “in un abisso senza fondo di ateismo e fatalismo”49. Filosofi moderni come Diderot, Smith, De Lolme e Bentham avevano insegnato che la felicità umana dipendeva solo da circostanze esterne, materiali; il nostro interesse non doveva più focalizzarsi sulla “condizione morale, religiosa e spirituale del popolo”, ma solo su quella “fisica, pratica, economica (...) come regolata dalle leggi pubbliche”50. Il culmine della filosofia scettica, dell’ateismo, dello spirito distruttore del ’700 era comunque rappresentato da Voltaire, nel quale erano confluiti Hobbes e Shaftesbury, Tindal, J.G. FICHTE, Die Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters cit., p. 215 (trad. it. cit., p. 109). Sull’influenza della letteratura tedesca e di Fichte in particolare su Carlyle vedi E. CASSIRER, The Myth of the State, New Haven, Yale University Press, 1946, pp. 210, 213, B.E. LIPPINCOTT, Victorian Critics of Democracy. Carlyle - Ruskin - Arnold - Stephen - Maine - Lecky (1938), New York, Octagon Books, 1974, pp. 20-21. 49 T. CARLYLE, Signs of the Times (1829), in Id., The Works of Thomas Carlyle in thirty volumes, New York, Charles Scribner’s Sons, 1900, vol. XXVII, tomo II, pp. 82, 64, 65. Sullo scetticismo di Hume vedi anche Characteristics (1829), in ibid., vol. XXVIII, tomo III, pp. 26, 40-41. Carlyle aveva già attaccato la filosofia di Locke in The State of German Literature (1827). Anche Coleridge aveva affermato che Hume aveva trascinato le premesse di Locke “alle loro naturali ed inevitabili conclusioni” (S.T. COLERIDGE, Table Talk (1820) cit., vol. II, p. 366). 50 T. CARLYLE, Signs of the Times cit., p. 67. Su Diderot vedi le Characteristics cit., pp. 40-41 ed il saggio omonimo del 1833 a lui dedicato in Id., The Works of Thomas Carlyle cit., vol. XXVIII, tomo III, p. 177sgg. 48
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Toland e Bayle. La sua epoca e quella degli enciclopedisti era paragonabile, aveva scritto Carlyle utilizzando un tipico argomento repubblicano, a quella degli imperatori romani, un periodo in cui ormai lo spirito pubblico e la libertà erano declinati definitivamente e trionfavano l’egoismo, il materialismo e il discredito di qualsiasi possibilità di “virtù”51. E questa epoca si estendeva ormai sino ai suoi tempi: in Chartism nel 1839 scriveva infatti che Voltaire era solo un “corifeo”, “in questa assordante e stridente danza universale della spada che il mondo europeo balla da mezzo secolo”52. L’età presente era dunque per Carlyle diretta emanazione di questi autori, propagazione stessa dell’illuminismo; essa poteva definirsi come un’“era (...) della filosofia”, dominata da “illuminati” interessi egoistici53. In Sartor Rasartus poi aveva visto “liberali, economisti, utilitari” marciare “con il loro catafalco, (...) cantando peana altisonanti, verso la pila funeraria” del “corpo politico” e delle “istituzioni della società”54. Era lo spirito meccanico che aveva unito l’illuminismo all’epoca attuale. Esso pervadeva la politica, con le richieste di maggior democrazia e di ampliamento del suffragio da parte dei riformatori, ed era sinonimo dello spirito del Profit and Loss, lo spirito del laissezfaire; che se anche aveva avuto una qualche ragione nel ’700, oramai aveva esaurito il suo compito definitivamente55. L’individualismo politico, rappresentato dal liberalismo e dalla democrazia, e quello economico che si incarnava nello spirito del “laissez-faire”, viaggiavano quindi indossolubilmente uniti all’insegna del perseguimento degli interessi egoistici, e a discapito dell’ordine e del governo56. T. CARLYLE, Voltaire (1829), in Id., The Works of Thomas Carlyle cit., vol. XXVI, tomo I, pp. 456, 461. Vedi anche Sartor Resartus (1833-34), in Ibid., vol. I, tomo II, p.147. 52 T. CARLYLE, Chartism (1839), in Id., The Works of Thomas Carlyle cit., vol. XXIX, tomo IV, p. 184 (trad. it., Cartismo, Macerata, Liberilibri, 1999, p. 82). 53 T. CARLYLE, Voltaire cit., p. 464. 54 T. CARLYLE, Sartor Resartus cit., p. 186. 55 T. CARLYLE, Chartism cit., p. 157. 56 Ibid., p. 159. Cfr. R. Williams, Culture and Society cit., p. 79. 51
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Da una parte dunque il capitalismo aveva ingaggiato un’aspra lotta “con la dura natura” e con l’aiuto delle sue “macchine irresitibili è riuscito sempre vittorioso e carico di spoglie”. Aveva fatto e continuava a fare conquiste meravigliose nell’accrescimento del “potere fisico dell’umanità”. “Gli uomini [avevano] attraversato gli oceani con il vapore”, e “quanto meglio nutriti, vestiti, alloggiati, e sistemati in tutti gli aspetti esteriori (...) [erano] adesso o [avrebbero potuto] essere”57. Nel descrivere il pieno dispiegarsi della potenza industriale a Manchester Carlyle, in Chartism, non mancava persino di raggiungere certi picchi di vera poesia: per trovare “la sostanza preziosa, bella come un sogno magico”, dell’epoca industriale si doveva andare oltre il “turbolento squallore” la polvere, il fumo, e la lanugine di cotone; per capirne la vera essenza si doveva squarciarne “l’involucro rumoroso”, separarne “la fuliggine e la disperazione”. “Hai mai sentito con orecchie attente il risveglio di Manchester, il lunedì mattina alle cinque e mezza precise; il rapido avvio dei suoi mille opifici, come il fragore di una marea oceanica, diecimila volte diecimila rocchetti e fusi messi lì a ronzare? – Se lo conosci bene, è forse sublime come il Niagara, o anche più sublime. Filare il cotone è, nel suo effetto, vestire gli ignudi; è, nel suo mezzo, il trionfo dell’uomo sulla materia”58. Il commercio inglese esportava il cotone su tutta la terra ed era sensibile alle più remote variazioni del mercato. A queste, “cambiando forma come Proteo”, si adattava di conseguenza il sistema industriale: “l’immenso demone della macchina fuma e tuona, sbuffando mentre svolge il suo grandioso compito, in ogni parte della terra inglese (...), sconvolgendo infallibilmente, a ogni mutamento di forma, intere masse di lavoratori che, da lontano, come a un’oscillazione della sua ombra, scaraventa di qua e di là mentre marciano accalcati o mentre lavorano o circolano, sì che persino il più saggio di loro non sa più dove si trova”59. T. CARLYLE, Signs of the Times cit., p. 60. T. CARLYLE, Chartism cit., pp. 181-182 (trad. it. cit., p. 79). 59 Ibid., pp. 141-142 (trad. it. cit., p. 32), vedi anche p. 143. 57 58
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In queste parole possiamo già intuire quella che Carlyle aveva definito come la “questione inglese”, cioè la drammatica situazione delle classi lavoratrici che erano state rappresentate nella loro protesta dal movimento cartista, questione che, in quella stessa opera, lo scrittore britannico aveva chiesto al parlamento di Londra di affrontare e risolvere. Quel movimento infatti, se pur ormai sconfitto esternamente, quando usciva il pamphlet, era comunque alimentato da una fiamma viva e nascosta che avrebbe dovuto essere estinta; “Cartismo”, precisava Carlyle, non significava altro che “amaro scontento, inferocito e impazzito”, scaturito da un “Inferno inosservato, buio e senza luci, prigione di anime in pena”60. In Signs of the Times egli aveva già avvertito “gli economisti politici” che il nuovo sistema industriale avrebbe creato sempre più ricchezza, concentrata in grandi quantità, e non avrebbe solo incrementato “le distanze tra il ricco e il povero”, ma sarebbe andato ad alterare anche “le vecchie relazioni”. Questo era il quesito impellente a cui essi avrebbero dovuto dare una risposta, un quesito “molto più complesso ed importante di qualsiasi altro che fino a quel momento li aveva occupati”61. Carlyle insomma registrando con timore il divario crescente tra le classi inferiori e quelle superiori, si era reso conto che il nuovo sistema emergente stava distruggendo il vecchio ordine e metteva in discussione la legittimità delle tradizionali autorità. Egli infatti riteneva impossibile che la società avrebbe potuto sopravvivere unita se i suoi principi fossero stati appunto “«Laissez-faire», «Domanda e offerta», «Pagamento in denaro come unico legame»”62. A minacciare però l’ordine in modo più pressante c’erano state le richieste di maggior democrazia da parte di queste classi. Carlyle era davvero Ibid., pp. 119, 144 (trad. it. cit., pp. 4, 35). T. CARLYLE, Signs of the Times cit., p. 60. 62 T. CARLYLE, Past and Present (1843), in Id., The Works of Thomas Carlyle cit.,, vol. X, p. 33, ma vedi anche le pp. 146, 169, 186, 188, 195, 272. Sempre sul “cash payment”, Chartism cit., p. 164, 162, 169, The Present Time (1850), in The Works of Thomas Carlyle cit.,, vol. XX, pp. 24-25, 31. Su questo aspetto vedi J. MENDILOW, Waiting for the Axe to fall: Carlyle’s Place in the Study of Crises of Authority, “Political Research Quarterly”, 1993, n. 3. 60 61
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spaventato dall’ipotesi di “una seconda edizione della rivoluzione francese” in Inghilterra63, e quando scriveva Cartismo non poteva che constatare amaramente come questa, ormai a distanza di mezzo secolo, in realtà, non fosse “ancora finita! Chiunque osservi quell’enorme fenomeno può trovarvi molti significati, ma a fondamento di tutto vi troverà questo significato in particolare, ossia che è stata una rivolta delle classi inferiori oppresse contro le classi superiori tiranniche o negligenti: è stata non solo una rivolta francese; no, è stata una rivolta europea; piena di moniti severi per tutti i paesi d’Europa”64. In nessun altro campo meglio che in politica si poteva riscontrare “la fede che abbiamo nel meccanismo”, il nostro desiderio di codificazione astratta che ci derivava dal ‘70065. La vera, “spaventosa difficoltà” infatti, osservava ironicamente Carlyle, non era redigere delle costituzioni, ma “convincere gli uomini a venire a viverci”66. I diritti dell’uomo erano stati “la vera base di carta di tutte le costituzioni di carta”67. Su di essi si fondavano ovviamente le pretese democratiche, da quando la democrazia “era stata terribilmente annunciata a tutto il mondo” proprio con la rivoluzione francese68. Ma la storia ci diceva che nessuna nazione aveva potuto vivere di democrazia, né le repubbliche antiche, né quelle moderne francesi. Persino una “repubblica modello” come quella americana non poteva considerarsi un esempio da imitare; certo aveva prodotto grandi “quantità di cotone, dollari, industria e risorse” in un modo “quasi indescrivibile”, ma “quale grande anima umana, quale grande pensiero, quale grande e nobile cosa che si possa venerare, o lealmente 63 J.A. FROUDE, Thomas Carlyle: A History of the First Forty Years of His Life 1795-1835, London, Longmans, Green, 1882, vol. II, p. 221. Cfr., J. MENDILOW, Waiting for the Axe to fall: Carlyle’s Place in the Study of Crises of Authority cit., pp. 612-613, 615. 64 T. CARLYLE, Chartism cit., p. 149 (trad. it. cit., p. 42). 65 T. CARLYLE, Signs of the Times cit., pp. 66, 68. 66 T. CARLYLE, The French Revolution. A History (1837), Oxford, Oxford University Press, 1989, p. 225. 67 Ibid., p. 229. 68 T. CARLYLE, The Present Time cit, p. 9.
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ammirare, è stata fino adesso prodotta lì? Nessuna: i cugini americani non hanno ancora fatto alcuna di queste cose”. In fin dei conti la democrazia statunitense non era altro che “Anarchia più un poliziotto di quartiere”, e avrebbe potuto sopravvivere soltanto finchè ci fossero state vaste terre da conquistare. Anzi, precisava Carlyle, “io prevedo (...) che molto prima che le terre incolte siano occupate, lo stesso poliziotto di quartiere (...) sarà divenuto impossibile: senza le terre incolte, come qui nella nostra Europa, io non vedo come possa rimanere possibile per molte settimane”69. Eppure Carlyle, analogamente a Tocqueville, non aveva potuto fare a meno di constatare come “il progresso delle cose tenda ovunque verso la democrazia, e verso di essa soltanto, come sua meta finale e traguardo”70. Essa era “un fatto inevitabile dei giorni in cui viviamo”71. Nonostante ciò la sua opposizione era totale, tutti gli uomini lungimiranti non potevano non accorgersi che in una democrazia non poteva “esserci finalità alcuna”, che con il suo trionfo si otteneva solo “il vuoto”: “la democrazia è, per sua natura, un fenomeno che si autoannienta; e alla lunga distanza dà il risultato netto di zero”72. La democrazia era dunque, come abbiamo già accennato, “la consumazione del non governo e del laissez-faire”73, ad essa doveva essere contrapposto “il principio del Contratto Permanente invece del Temporaneo”74. Insomma una sorta di stato “organico” che ricordava molto il patto tra generazioni di Burke. La democrazia, fondata su parole come “affrancamento” o “emancipazione” era diventata ormai “la grande panacea delle lamentele sociali”, e prometteva felicità lasciando tutti liberi gli uni da gli altri senza alcun legame se non quello del danaro, ma “l’intero edificio dell’esistenza umana”, scalfito ed allentato in ogni congiunIbid., pp. 18-21. T. CARLYLE, Chartism cit., p. 158 (trad. it. cit., p. 52). 71 T. CARLYLE, The Present Time cit., p. 8, vedi anche la p. 9. 72 T. CARLYLE, Chartism cit., p. 158 (trad. it. cit., pp. 52-53). 73 Ibid., p. 159 (trad. it. cit., p. 54). 74 T. CARLYLE, Past and Present cit., p. 277. 69 70
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zione “pietra per pietra”, sarebbe stato alla fine “capovolto da un improvviso scoppio di rabbia rivoluzionaria”, come i recenti avvenimenti del 1848, in vari paesi avevano mostrato75. Era desolante, aveva scritto Carlyle in Sartor Resartus, chiamare ancora col nome di società il luogo in cui l’unica “Idea Sociale” rimasta era non tanto quella “di una casa comune, ma solo di un sovraffollato dormitorio pubblico”, un luogo “dove ognuno, isolato, senza riguardi per il suo vicino, diventato a lui ostile, afferra ciò che può, e grida «Mio»”! Una società dove ormai quelle che dovevano essere le “Alte Guide e Governatori non possono guidare”, dove i poveri morivano di fame e di duro lavoro e i ricchi affondavano nell’ozio, dove si era perso il senso del rango e persino i simboli sacri non rappresentavano altro che vuoto sfarzo, “un mondo che era stato smantellato: in una parola, la CHIESA muta, trascinata a terra dall’obesità e dall’apoplessia; lo STATO ristretto alle dimensioni di un ufficio di polizia, ridotto a ricevere la propria paga”76! Ed un mondo tale, in cui ormai la vecchia aristocrazia non esercitava pienamente la sua funzione dirigente, aveva bisogno di una nuova élite, ed il suffragio universale non era certo il sistema più adatto per trovarne una migliore77. Per questo Carlyle guardava ancora all’industria, ma questa volta con occhio diverso. Se l’industria era davvero iscritta nel nostro destino e doveva essere governata, allora erano proprio i leader di questa che di fatto divenivano i reali “capitani del mondo” che, insieme a quelli “pubblici” dello stato, avrebbero dovuto “irregimentare i banditi della povertà in soldati dell’industria”78. Ma è proprio in questo elogio romantico dell’“auto-affermazione” della nuova classe degli industriali, nella concezione di un individualismo concepito ancora e solo in modo aristocratico che sta la sostanziale contraddizione delle pagine di T. CARLYLE, The Present Time cit, pp. 24-25. T. CARLYLE, Sartor Resartus cit., p. 185. 77 Cfr. T. CARLYLE, Chartism cit., pp. 160-161, Downing Street (1850), in Id., The Works of Thomas Carlyle cit., vol. XX, p. 120, e Parliaments (1850), in ibid., p. 238. 78 T. CARLYLE, Past and Present cit., p. 271, Downing Street cit., p. 166. 75 76
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Carlyle. Come ha scritto efficacemente Benjamin Lippincott, “l’individualismo di Carlyle sosteneva lo stesso sistema contro il quale aveva ingaggiato una guerra senza compromessi. La dottrina dell’auto-affermazione per il potere è parte integrante della psicologia di una società competitiva, specialmente nei suoi primi stadi; è la stessa giustificazione logica dei capitani d’industria”79.
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B.E. LIPPINCOTT, Victorian Critics of Democracy cit., p. 14.
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Karl Mannheim ha mostrato come il pensiero di conservatori e reazionari fosse legato in origine al mondo contadino, ed a uno stile di vita ed una visione del mondo che prima della rivoluzione industriale erano dominanti. Il capitalismo però avrebbe relegato questa prospettiva “irrazionale” ai margini della società; da qui sarebbero nate un’opposizione ed una critica che si sarebbero comunicate in seguito anche alla “sinistra”, Marx incluso1. R. Williams, a questo proposito, ha scritto che Marx “avrebbe attaccato il capitalismo nei suoi scritti giovanili, con un linguaggio molto simile a quello di Coleridge, di Burke e ... di Cobbett”, e non si sarebbe sottratto all’influenza dello stesso Carlyle2. Famosa la ricezione della polemica Carlyliana contro il cash nexus nel Manifesto del partito comunista. Così scrivevano i due Dioscuri del comunismo: “Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo «pagamento in contanti». Ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell’esaltazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d’illusioni religiose e politiche”3. K. MANNHEIM, Konservatismus cit., pp. 84-88, 114. R. WILLIAMS, Culture and Society cit., p. 20 (trad. it., Cultura e rivoluzione industriale. Inghilterra 1780-1950, Torino, Einaudi, 1968, p.45); Sull’influenza di Carlyle su Marx vedi p. 72 3 K. MARX, F. ENGELS, Manifest der kommunistichen Partei (1848), in K. MARX, 1 2
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Dopo aver indossato le vesti del polemista liberale nella “Rheinische Zeitung”, dall’aprile del 1842 fino alla chiusura del giornale ad opera del governo prussiano nel 1843, cercando di ridare vigore alla tradizione illuministica avversata nel proprio paese, Marx, all’inizio del 1844, avrebbe pubblicato lo scritto Sulla questione ebraica, composto nei mesi precedenti, calando, come ha scritto D. Settembrini, “una pietra tombale sul liberalismo della prima giovinezza” e inoltrandosi “con decisione sulla via del comunismo”4. In quest’opera c’era infatti una critica serrata alla concezione liberale e borghese dei diritti dell’uomo e della proprietà privata, entrambi concepiti come disgiunti dai diritti del cittadino. Questi diritti si fondavano infatti “non sul legame dell’uomo con l’uomo, ma piuttosto sull’isolamento dell’uomo dall’uomo”, ed a fondamento di entrambi non c’era altro che l’“uomo egoistico”, “il risultato passivo ed ereditato dalla società dissolta”5. Il primo comunismo abbozzato da Marx in quel periodo, sembrava proprio essere una risposta a tale problema. Esso andava cioè considerato “come soppressione positiF. ENGELS, Werke, Berlin, Dietz Verlag, 1978, vol. IV, pp. 464-465 (trad. it., Manifesto del partito comunista, Milano, Mondadori, 1978, p. 103). Engels aveva già fatto un riferimento diretto a Carlyle, su questo tema, ne La situazione della classe operaia in Inghilterra (F. ENGELS, Die Lage der arbeitenden Klasse in England (1845), in K. MARX, F. ENGELS, Werke cit., vol. II, pp. 486-487). Importante fu, senza dubbio, anche la critica che Sismonde de Sismondi, nei primi decenni del secolo, fece all’esaltazione del sistema competitivo, lasciando trasparire uno sfumato vagheggiamento dell’economia feudale. Fosco il quadro che egli tracciò delle condizioni degli operai inglesi concentrati nelle insane periferie delle città, ma forse ancor più determinante nella successiva elaborazione di Marx ed Engels, fu la sua analisi economica sulla concentrazione del capitale, sulle ricorrenti crisi del sistema capitalistico che generavano disoccupazione, sfruttamento, povertà ed insicurezza nelle masse lavoratrici. Cfr. H. GROSSMAN, Sismonde de Sismondi et ses théories économique: une nouvelle interpretation de sa pensée, Warsaw, 1924, p. 47. Sull’influenza di Sismondi su Engels e sulle loro divergenze vedi D. SETTEMBRINI, Due ipotesi per il socialismo in Marx ed Engels, Bari, Laterza, 1973, pp. 36-61. 4 D. SETTEMBRINI, Due ipotesi per il socialismo in Marx ed Engels cit., p. 3, vedi anche pp. 5, 12-16. 5 K. MARX, Zur Judenfrage (1844), in K. MARX, F. ENGELS, Werke cit., vol. I, pp. 364-370 (trad. it., Sulla questione ebraica, in K. MARX, F. ENGELS, Opere, Roma, Editori Riuniti, 1976, vol. III, pp. 176-181).
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va della proprietà privata intesa come autoestraneazione dell’uomo; e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo e per l’uomo; perciò come ritorno dell’uomo per sé, dell’uomo come essere sociale, cioè umano (...)”. In definitiva esso non era altro che “la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivizzazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e il genere. [Era] la soluzione dell’enigma della storia, ed [era] consapevole di essere questa soluzione”6. Nel 1848 la concezione comunista di Marx ed Engels poteva dirsi ormai matura, e con essa avremmo avuto l’esempio paradigmatico del tentativo, da sinistra, di superare, di andare oltre l’illuminismo ed inverarlo. Affinché si potesse concepire questo “superamento” era però necessario un nuovo metodo logico che abbandonasse il principio classico di non contraddizione e concepisse come possibile l’unità organica degli opposti in senso antiatomistico ed antimeccanico, ci voleva insomma la dialettica di Hegel. Ma tutto questo non era ancora sufficiente, poiché Hegel, nei fatti, aveva respinto una teoria dello sviluppo che prevedesse il passaggio da fasi meno sviluppate a fasi più alte in una sorta di progresso indefinito. Come avrebbe sottolineato in seguito Herbert Marcuse, per Hegel, infatti, la storia aveva raggiunto il proprio compimento ai suoi tempi7. Parallelamente, in campo proto-socialista, per quanto personaggi come Babeuf e Buonarroti avessero avuto, senza dubbio, il merito di aver preservato e tramandato un’idea, quella comunista, che era ancora prematura per i loro tempi, nella sostanza però, la loro rimaneva comunque un’utopia agraria che sulla scia di Rousseau e del repubblicanesimo lasciava pensare che l’età dell’oro si collocasse K. MARX, Ökonomisch-philophische Manuskripte aus dem Jahre 1844, in K. MARX, F. ENGELS, Werke cit., Engänzungsband, tomo I, p. 536 (trad. it., Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino, Einaudi, 1949, pp. 121-122). 7 H. MARCUSE, Reason and Revolution: Hegel and the Rise of Social Theory, London, Routledge and Kegan, 1941, p. 226. 6
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indietro nel tempo. Ecco perché, per comprendere il “superamento” marx-engelsiano, sarebbe stata fondamentale l’opera di Saint-Simon, il quale fortemente influenzato dall’ideologia del progresso di Condorcet, avrebbe posto tale età in un futuro da raggiungere, un futuro disegnato, da noi e dai nostri padri, per i nostri figli: “L’età dell’oro del genere umano”, avrebbe scritto Saint-Simon, “non si trova alle nostre spalle, ma dinanzi a noi, nella perfezione dell’ordine sociale”8. Per ben comprendere dunque questa modalità di “superamento” dell’illuminismo, può aiutare la nostra disamina l’accennare alle opinioni di Hegel su tale questione e l’ approfondire alcuni aspetti della teoria di Saint-Simon. Lucien Goldmann ha scritto che “la critica all’illuminismo formulata dal pensiero dialettico ha rappresentato per un largo settore del mondo intellettuale, e in particolare per il pensiero socialista della generazione che ci ha preceduto, un’acquisizione definitiva della coscienza occidentale”9. Questa opinione, ovviamente, aveva alle spalle la definitiva vittoria, in campo socialista, dell’interpretazione marxiana, ed andando ancora più indietro, la devozione che la sinistra hegeliana aveva tributato al suo maestro. Nel 1878 Engels, nell’Antidühring, aveva condensato questa valutazione in un perentorio giudizio nel quale affermava che la filosofia tedesca aveva trovato il suo coronamento in Hegel, il cui merito maggiore era stato proprio “la riassunzione della dialettica come la forma più alta del pensiero”10. Come hanno scritto Ferrone e Roche, anche la “celebre caratterizzazione hegeliana dei Lumi, formulata nella Phänomelogie des Geistes”, avrebbe avuto ampia influenza sino ai nostri giorni. In essa C.H. DE SAINT-SIMON, De la réorganisation de la société européenne (1814), in Œuvres de Claude-Henri de Saint-Simon cit., vol. I, pp. 247-248 (trad. it. cit., p. 197). 9 L. GOLDMANN, L’illuminismo e la società moderna, Torino, Einaudi, 1967, p. 96. 10 F. ENGELS, Antidühring (1878), in K. MARX, F. ENGELS, Werke cit., vol. XX, p. 19 (trad. it., L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, Roma, Editori Riuniti, 1951, p. 69). Vedi anche le pp. 22-23. 8
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infatti, secondo i due autori, avrebbe preso piede la visione dell’illuminismo come fase storica ormai passata, un momento che andava appunto “dialetticamente superato”11. Nella transizione dal feudalesimo alla moderna società civile, dominata dalle leggi dell’economia politica, era sbocciata la libertà individuale e universale, vero frutto dell’illuminismo, ma essa non poteva, per Hegel, “produrre nessun’opera né operazione positiva”. “Soltanto l’operare negativo” gli era permesso, un operare che alla fine sarebbe culminato nella rivoluzionaria “furia del dileguare”12. Il liberalismo avrebbe proseguito l’opera dell’illuminismo, stabilendo “il principio atomistico”, fondato sull’ondeggiamento delle “volontà individuali” ed affermando che tutti i governi avrebbero dovuto emanare “dalla loro forza esplicita, e dalla loro esplicita approvazione”13. Hegel era ovviamente contrario a questa visione e riteneva che il principio secondo cui “tutti singolarmente debbano aver parte nella deliberazione e decisione sugli affari generali dello stato”, si fermava ad una “determinazione astratta” ed era quindi superficiale. Lo stesso concetto di rappresentanza andava interpretato nell’ambito di una società civile articolata tradizionalmente “nelle sue corporazioni, comunità e associazioni”, e “quindi non in quanto dissolta atomisticamente nei singoli e adunantesi per un momento senza ulteriore permanenza”14. V. FERRONE, D. ROCHE, L’illuminismo nella cultura contemporanea cit., p. 33. La filosofia di Hegel è stata spesso interpretata come una risposta all’illuminismo, a questo proposito vedi L. HINCHMAN, Hegel’s Critique of Enlightenment, Gainsville (Fl.), University of Florida Press, 1984, S.B. SMITH, Hegel’s Critique of Liberalism, Chicago and London, University of Chicago Press, 1981, p. 57, C. TAYLOR, Hegel and Modern Society, Cambridge, Cambridge University Press, 1979. 12 G.W.F. HEGEL, Die Phänomelogie des Geistes (1807), in Id., Werke in zwanzig Bänden, Frankfurt, Suhrkamp, 1971, vol. III, pp. 435-436 (trad. it, Fenomenologia dello spirito, Firenze, La Nuova Italia, 1973, vol. II, p. 129). Su un Hegel risolutamente antirivoluzionario vedi E. FLEISCHMANN, La philosophie politique de Hegel, Paris, Plon, 1964, p. 271. 13 G.W.F. HEGEL, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte (1830-31), in Id., Werke cit., vol. XII, p. 534 (trad. it., Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze, La Nuova Italia, 1964, vol. IV, p. 213). 14 G.W.F. HEGEL, Grundlinien der Philosophie der Rechts (1821), in Id., Werke 11
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Per sottolineare la sua distanza da questa concezione di impronta individualistica Hegel, negli anni seguenti, si sarebbe sempre più convinto che il contenuto organico e spirituale dello stato andava “completamente sottratto all’arbitrio, ai particolarismi, ai capricci dell’individualità e dell’accidentalità. Ciò ch’è abbandonato a queste ultime non contribuisce per nulla a costituire la natura del popolo: è come la polvere che ondeggia, sì, su una città o su un campo, ma non lo trasforma nell’essenza”. Invece avrebbe dovuto essere compito dell’“astuzia della ragione” il fare “agire per sé le passioni”. Gli individui, in tal modo “sacrificati e abbandonati al loro destino”15, avrebbero alla fine riacquisito “oggettività, verità ed eticità”16, soltanto in quanto componenti dello stato, che rappresentava il vero e proprio “incedere di Dio nel mondo”, secondo quanto ci riporta Eduard Gans, in base alla trascrizione delle lezioni dello stesso Hegel17. Come la filosofia di Hegel è stata considerata una sorta di religione secolarizzata, e l’ astuzia della ragione una specie di provvidenza mascherata, così simili considerazioni sono state formulate per il Nuovo cristianesimo di Saint-Simon. Il tentativo cioè di creare un futuro ordine sulle rovine dell’antico regime, un ordine, guidato dalla casta degli industriels, nel quale sarebbero coesistiti i valori organici del passato con la prosperità di un paradiso in terra esteso cit., vol. VII, § 308, pp. 476-478 (trad. it., Lineamenti di filosofia del diritto, Bari, Laterza, 1999, p. 246). Per la critica a Rousseau ed alla concezione della democrazia diretta vedi anche § 258, p. 398-404. 15 G.W.F. HEGEL, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte cit.., p. 109 (trad. it. cit., ed. 1981, vol. I, pp. 97-98). 16 G.W.F., HEGEL, Grundlinien der Philosophie der Rechts cit., § 258, p. 399 (trad. it. cit., p. 196). 17 Ibid., p. 403 (trad. it. cit., p. 358). C’è chi ha commentato come la concezione dello stato di Hegel, al pari di quella di Montesquieu e di Rousseau non si fosse sottratta al “miraggio della democrazia antica” e della sua virtù, anche se, quest’ultima, andava reinterpretata in senso più moderno e complesso (G. PLANTY-BONJOUR, L’esprit général d’une nation selon Montesquieu e le «Volksgeist» hégélien, in J. D’HONDT, Hegel et le siècle des Lumières, Paris, PUF, 1974, pp. 1719. Vedi in proposito G.W.F., HEGEL, Grundlinien der Philosophie der Rechts cit., § 273, pp. 435-440.
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alle classi più povere, prosperità prodotta dallo sviluppo senza ostacoli del commercio e dell’industria (le système final), scatenate dalla rivoluzione francese18. Il discepolo Bazard, aveva imputato all’opinione del maestro, l’aver individuato nello sviluppo storico una sorta di successione tra epoche “organiche” ed epoche “critiche”19, e Saint-Simon, senza dubbio, aveva considerato quella a lui contemporanea come un’epoca critica. La crisi moderna era infatti iniziata con l’attacco alla Chiesa cattolica sferrato su più fronti; sul piano scientifico con la teoria di Copernico e su quello teologico con la dottrina di Lutero. Tale attacco si era poi sviluppato ed intensificato con i sistemi di Bacone, di Galileo e di Newton e con le filosofie di Cartesio e Locke. Le scoperte scientifiche erano state talmente importanti che avevano “contribuito alla distruzione radicale e irrevocabile del sistema teologico più di tutti gli scritti di Voltaire e dei suoi collaboratori, nonostante la loro prodigiosa influenza”20. Erano stati comunque quest’ultimi, gli illuministi, od il “partito dei liberali”, come l’ aveva definito Saint-Simon, che avevano rovesciato “le istituzioni feudali e teologiche”, che avevano distrutto “le superstizioni”, che avevano trasformato “i costumi e le consuetudini che i privilegiati avevano imposto a chi si dedicava all’industria, ai villani, come venivano chiamati”. Tutta la forza militare dell’antico regime non era riuscita a sopraffare il partito dei liberali, ma esso aveva lasciato il lavoro a metà, incompiuto, non era riuscito a progettare “un nuovo ordine che sostituisse l’antico; (...) una amminiCfr. C.H. DE SAINT-SIMON, Noveau Christianisme (1825), in Id Œuvres de Claude-Henri de Saint-Simon cit., vol. III, pp. 147-148, 154, ma anche L’industrie cit., vol. II, p. 74, Catéchisme des industriels (1823), in Ibid., vol. IV, p. 21, Du système industriel (1821), in Ibid., vol. III, tomo I, pp. 28, 39, 40, 166 . Per industria Saint-Simon si riferisce a quella “intesa nel senso più generale e che abbraccia tutti i tipi di lavori utili, la teoria e la pratica; i lavori dello spirito e quelli manuali” (L’industrie cit., vol. I, p 165; trad. it. cit., p. 284). 19 SAINT-AMAND BAZARD, Doctrine saint-simonienne: exposition - première année (1828-29), in The Doctrine of Saint-Simon: An Exposition - First Year 182829, New York, Schocken Books, 1972, p. 4. 20 C.H. DE SAINT-SIMON, L’organisateur (1819-20), in Œuvres de Claude-Henri de Saint-Simon cit., vol. II, p. 105 (trad. it. cit., p. 475), vedi le pp. 88-110. 18
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strazione dei comuni interessi organizzata secondo la saggezza e i lumi del secolo”21. Questo era il dramma ulteriore, la crisi nella quale si trovava “impegnato (...) il corpo politico”, la crisi in cui, scriveva Saint-Simon, ci si dibatteva da più di trent’anni: Il “passaggio dal sistema feudale e teologico al sistema industriale e scientifico”, una transizione, nei fatti, non ancora “completamente attuata”. Ma perché ci si trovava ancora in questa condizione? La causa purtroppo stava nell’amara constatazione che il XIX secolo era “ancora dominato dal carattere critico del XVIII”22. “Il secolo XVIII non ha fatto che distruggere”, aveva infatti scritto Saint-Simon, echeggiando il lamento romantico di Madame de Staël, “noi non proseguiremo affatto la sua opera: noi tenteremo invece di gettare le basi di un nuovo edificio”23. I “legisti” e i “metafisici” illuministi avevano svolto una degna funzione nell’impedire che l’antico regime “soffocasse il sistema industriale e scientifico, sin dai suoi primi sviluppi”; a loro si doveva “l’istituzione del principio della libertà di coscienza che ha scalzato dalla base il potere teologico”. Ma una volta scoppiata la rivoluzione francese, invece “di organizzare il sistema industriale e scientifico, chiamato dallo stadio della civiltà” a sostituire quello feudale, e lasciare industriali e scienziati a “occupare la scena politica, ognuno nel loro ruolo naturale”, gli illuministi se ne erano messi a capo, pretendendo di dirigerla, “con le dottrine dei metafisici”, e conducendola invece verso “singolari sviamenti” e “sventure”. Non solo, e la critica incideva ancora più profondamente, lo stesso frutto liberale dell’illuminismo, la libertà civile e la libertà politica, riflettevano soltanto un’“idea vaga e metafisica di libertà, quale è oggi in voga”, entrambe erano insufficienti per essere considerate il fine dell’associazione umana. “In nessun caso, il mantenimento delle liC.H. DE SAINT-SIMON, L’industrie cit., vol. I, pp. 179, 180 (trad. it. cit., pp. 291, 292). 22 C.H. DE SAINT-SIMON, Du système industriel cit., pp. 3-4 (trad. it. cit., p. 587). 23 C.H. DE SAINT-SIMON, L’industrie cit., vol. I, p. 17 (trad. it. cit., pp. 263). 21
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bertà individuali [poteva] rappresentare lo scopo del contratto sociale. La libertà, considerata dal suo vero punto di vista, [era] una conseguenza della civiltà, [era] progressiva come lei, ma non [avrebbe saputo] esserne lo scopo”. Ancor più debolmente si poteva difendere, su tali basi, la libertà politica: “il diritto di occuparsi degli affari pubblici senza una precisa condizione di capacità, conferito, in teoria, a ogni cittadino come un diritto naturale, e limitato soltanto nell’esercizio, ma sempre senza una precisa condizione di capacità, è la prova più completa e più tangibile della vaghezza e dell’incertezza in cui si trovano ancora le idee politiche”. Per questo motivo non si poteva accostare il sistema industriale al “sistema vagamente liberale, con il quale si tende a confonderlo”24. Il sistema liberale, infatti, era caratterizzato da un “sentimento d’egoismo che è divenuto dominante in tutte le classi e in tutti gli individui”. E proprio a tale sentimento si doveva “attribuire la malattia politica della nostra epoca”. L’egoismo inoltre si era potuto diffondere grazie al “declino delle dottrine generali antiche”, in seguito alla Riforma, e per combatterlo ed abbatterlo non rimaneva che l’arma dell’“attività filantropica”25. Nei primi anni del secolo a Parigi due partiti si erano scontrati con accanimento, da una parte il partito della rivoluzione, fedele al secolo dei Lumi, si era appoggiato alla rivista “Décade Philosophique”, dall’altra il partito controrivoluzionario, mistico ed ostile al progresso scientifico, aveva manifestato le sue idee sul “Mercure de France”26. Saint-Simon aveva militato nel primo, ma dopo un rigoroso e travagliato esame critico delle istituzioni politiche scaturite dall’illuminismo era pronto a tendere le mani ai suoi avversari nello sferrare l’ attacco contro il comune nemico: l’individualismo27. C.H. DE SAINT-SIMON, Du système industriel cit., pp. 8, 10, 11, 15, 16, 20 (trad. it. cit., pp. 589, 591, 593, 594, 596). 25 C.H. DE SAINT-SIMON, Noveau Christianisme cit., pp. 183-185 (trad. it. cit. pp. 1141-1142), Du système industriel cit., p. 21 (trad. it. cit., p. 596). 26 F. GENTILE, Dalla concezione illuministica alla concezione storicistica della vita sociale. Saggio sul concetto di società nel pensiero di C.H. de Saint-Simon, Padova, Cedam, 1960, pp. 67, 284. 27 Cfr. K.W. SWART, «Individualism» in the Mid-Nineteenth Century (182624
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Questo, infatti, era alla base della filosofia illuministica e rappresentava il perno del sistema liberale; certo, ha scritto Léo Moulin, non si può escludere che Saint-Simon avesse usato davvero questo termine prima del 182028, ma non è un caso che lo avessero utilizzato i suoi discepoli29 e che avesse già cominciato ad essere impiegato proprio negli ambienti “ultra realisti” e reazionari francesi almeno dal 181430. Entrambi gli schieramenti avevano infatti designato comunque con il termine individualismo i mali sociali e politici scaturiti dalla modernità e dall’illuminismo, e avrebbero impugnato, per sconfiggerlo, le stesse armi che la Chiesa Cattolica aveva indirizzato contro di esso per secoli31. Come avrebbe stigmatizzato in seguito Pierre Leroux, un transfugo del sansimonismo, a questa retorica non erano sfuggiti neppure i socialisti: essi infatti avevano “ripresa con orgoglio la linea dell’ortodossia cattolica del Medioevo”, e avevano “scagliato l’anatema su tutta l’età moderna, dal protestantesimo alla filosofia”32. 1860) cit., p. 79. È stato osservato come il breve “mariage de raison” di Saint-Simon con il liberalismo, a cavallo tra il 1816 ed il 1817, si fosse fondato su alcuni fraintendimenti, vedi O.P. GRENOUILLEAU, Saint-Simon. L’utopie ou la raison en actes, Paris, Payot, 2001, p. 305. 28 L. MOULIN, On the Evolution of the Meaning of the Word «Individualism», in “International Social Science Bulletin”, 1955, n. 1, p. 181. 29 G. CLAEYS, Individualism, Socialism, and Social Science, in “Journal of the History of Ideas”, 1986, n. 1, p. 81, cfr. anche A. LAURENT, Histoire de l’individualisme cit., p. 48. 30 C. CASSINA, Appunti intorno alle origini di una parola, «individualismo», in “Cromohs”, 1996, n.1, pp. 12-15. 31 D. SETTEMBRINI, Due ipotesi per il socialismo in Marx ed Engels cit., pp. 161162, S. LUKES, Individualism cit., p. 6. Significativa è anche la simpatia reciproca tra Carlyle e i saint-simoniani. “Signs of the Times” aveva attratto l’interesse di questi ultimi, e nondimeno Carlyle avrebbe annoverato i saint-simoniani “tra i segni” dei tempi nuovi, mostrando curiosità per il loro futuro. “La classe la plus pauvre è evidentemente in ascesa”, avrebbe commentato. Egli inoltre li avrebbe lodati perché, nell’epoca dei motori a vapore, avevano scoperto che “l’uomo è ancora umano” e non è uno strumento che si consuma e che si può buttare via. Rispondendo alla lettera di uno di loro anche Carlyle avrebbe manifestato la sua fede nella venuta di una società “organica” basata su una nuova religione (in E. NEFF, Carlyle and Mill. An Introduction to Victorian Thought cit., pp. 208, 215216). 32 P. LEROUX, De l’individualisme et du socialisme, “Revue Encyclopédique”,
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E certo questo anatema non avrebbe mancato di lanciarlo anche Engels, che avrebbe contrapposto il metodo dialettico, “una rappresentazione esatta della totalità del mondo, del suo sviluppo e di quello dell’umanità”, alla filosofia dell’illuminismo, che altro non era se non un’estensione del modo di vedere le cose da parte di Bacone e di Locke. Trasferito dalle scienze naturali alla filosofia, tale punto di vista “aveva prodotto la limitatezza specifica degli ultimi secoli, cioè il modo di pensare metafisico”. Per Engels, fu proprio Saint-Simon tra i primi ad accorgersi che “le pompose promesse degli illuministi, le istituzioni sociali e politiche instaurate col «trionfo della ragione»”, si erano rivelate “caricature e amare delusioni”. Unica era la conclusione che se ne poteva trarre: “il mondo borghese ordinato secondo i principi di questi illuministi, è irrazionale e ingiusto e trova il suo posto nel secchio dell’immondizia proprio come il feudalesimo e tutti i regimi sociali precedenti”33. Il mondo borghese, per Marx ed Engels, aveva al proprio centro quell’“individuo egoistico della società civile”, che si poteva “gonfiare, nella sua rappresentazione non sensibile e nella sua astrazione non vivente, fino a diventare l’atomo, cioè un’essenza irrelata, autosufficiente, priva di bisogni, assolutamente piena, beata”. Per rendere questa monade un cittadino virtuoso però, la vecchia soluzione repubblicana non era più adatta, come aveva dimostrato la grande tragedia del terrore: “Robespierre, Saint-Just ed il loro partito sono caduti perché hanno scambiato la comunità antica, realisticamente democratica, che poggiava sul fondamento della schiavitù reale, con lo stato moderno rappresentativo, spiritualisticamente democratico, che poggia sulla schiavitù emancipata, sulla società civile. Che colossale illusione essere costretti a riconoscere e sanzionare nei diritti dell’uomo la società civile moderna, la società dell’industria, della concorrenza generale, degli interessi privati perseguenti liberamente i loro fini, dell’anarchia, dell’individualità naturale e spirituale 1833, in D. SETTEMBRINI, Due ipotesi per il socialismo in Marx ed Engels cit., p. 162 n. 33 F. ENGELS, Antidühring cit., pp. 20-22, 240, 18 (trad. it., pp. 74, 71, 57, 54).
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alienata a sé stessa, e volere poi nello stesso tempo annullare nei singoli individui le manifestazioni vitali di questa società, e volere modellare la testa politica di questa società nel modo antico”34! Questo esperimento politico, per Marx ed Engels, avrebbe rallentato “l’illuminismo reale della terra francese”, che sarebbe esploso in seguito “in potenti correnti vitali. Sviluppo tempestoso e impetuoso di imprese commerciali, desiderio di arricchimento, ebrezza della nuova vita civile, il cui primo godimento di sé stessa è ancora audace, leggero, frivolo, inebriante”35. Il capitalismo infatti avrebbe dovuto portare la società, tramite la creazione di ricchezza e benessere ad opera di un’iper-industrializzazione, a quelle “condizioni materiali” che avrebbero permesso la successiva “attuazione” di un comunismo nell’abbondanza36. È proprio mediante l’interpretazione moderata della rivoluzione che, commenta Settembrini, “la teoria sociale evolutiva del comunismo si ricollega all’ideale illuministico di una politica guidata dalla ragione, di cui aspira ad essere un approfondimento critico”. Senza dimenticare però, come abbiamo visto, che questa è soltanto la faccia di un Giano che dall’altra parte nasconde “l’aspirazione al «paradiso in terra»”37.
34 K. MARX, F. ENGELS, Die heilige Familie (1845), in K. MARX, F. ENGELS, Werke cit., vol. II, p. 129 (trad. it., La sacra famiglia, in K. MARX, F. ENGELS, Opere cit., vol. IV, pp. 136-138). 35 Ibid., p. 208. 36 Cfr., ad esempio, sempre F. ENGELS, Antidühring cit., pp. 262-263. 37 D. SETTEMBRINI, Due ipotesi per il socialismo in Marx ed Engels cit., pp. 29, viii.
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7. Alle origini del male moderno Il radicalismo aristocratico di Taine, Renan e Nietzsche
La rivoluzione industriale, intorno al 1850, aveva ormai dispiegato ampiamente le sue forze e nel giro di pochi decenni avrebbe completamente trasformato il volto del continente, dal suo paesaggio con i rapporti tra città e campagna, alla sua struttura sociale. Warren Wagar ha individuato, in questo periodo, una sorta di secondo illuminismo, che al progresso tecnologico aveva unito la contestuale affermazione di una serie di dottrine che avevano fondato la propria legittimità su presunti postulati scientifici. Queste dottrine, tra cui figuravano anche il marxismo ed il positivismo, erano sembrate trarre la propria ispirazione originaria proprio dai Lumi1. Per Tzvetan Todorov però, esse, in ultimo, si sarebbero rivelate talmente materialiste e deterministe da travolgere la libertà stessa dell’individuo, considerato alla stregua di un burattino i cui fili erano azionati dalla necessità storica2. Sotto questo punto di vista possiamo considerare emblematica la parabola del positivismo. Indossando i panni dell’illuminismo e dell’utilitarismo, ha scritto Stuart Hughes, esso aveva mantenuto la solida convinzione che i problemi dell’uomo potessero essere affrontati cercando una soluzione razionale, ma sotto l’impatto del darwinismo sociale, anch’esso aveva perso la sua fisionomia razionalistica3. Come ha poi ribadito ancora Todorov, “lo scientismo non è la scienza. E, si dovrebbe aggiungere, lo scientismo non è l’umanesimo. Anche se effettivamente umanesimo e scientismo coesiW. WAGAR (ed.), European Intellectual History since Darwin and Marx, New York, Harper and Row, 1966, p. 5. 2 T. TODOROV, Nous et les autres, Paris, Seuil, 1989, p. 146. 3 H. STUART HUGHES, Consciousness and Society. The Reorientation of European Social Thought (1958), London, Mac Gibbon and Kee, 1967, pp. 34-35. 1
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stono in alcuni filosofi dei Lumi, bisogna essere miopi, o in totale malafede, per pensare che essi possano confondersi”4. Alla fine del XIX secolo in Europa vennero perciò rimesse in gioco, nel loro complesso, le idee e le istituzioni caratteristiche della civilizzazione industriale, si ebbe, nelle parole di Zeev Sternhell, “la negazione sistematica dei valori ereditati dal XVIII secolo e dalla rivoluzione francese”5. In particolare proprio gli ultimi venticinque anni dell’800 si rivelarono una sorta di periodo di incubazione per quei sistemi di pensiero, radicalmente antilluministici, che si sarebbero affermati nel primo quarto del secolo successivo. Mentre la Germania, però, si era andata affermando come la patria dell’ortodossia marxista, sarebbe stata la Francia ad assurgere ben presto alla funzione di laboratorio in cui si sarebbero sperimentate le sintesi originali del Novecento. Nel contesto francese infatti avrebbero avuto luogo i primi scontri diretti tra il sistema liberale ed i suoi avversari, là si sarebbe realizzato il primo connubio tra nazionalismo e radicalismo sociale nei sostenitori del generale Boulanger, là si sarebbero sviluppati sia i primi movimenti di massa di destra, sia quel tipo di “gauchismo”, che avrebbe condotto “alla fine i propri adepti alle soglie del fascismo”6. Come si era potuti arrivare a tutto questo? Per cercare di ricostruire i percorsi e le mutazioni dell’antilluminismo in un periodo così cruciale per i futuri destini del continente, si deve necessariamente partire da un avvenimento che con le sue conseguenze avrebbe contribuito a creare una profonda spaccatura tra i sostenitori delle vestigia dell’antico regime e i sostenitori della moderna liberal-democrazia. Tale fu la guerra franco-prussiana che, come ha scritto Federico Chabod, avrebbe seminato “un odio violento tra le T. TODOROV, Nous et les autres cit., p. 195 (trad. it., Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, Torino, Einaudi, 1991, p. 198). 5 Z. STERNHELL, Maurice Barrès et le nationalisme français, Paris, Presses de la fondation nationale des sciences politiques, 1972, p. 7. Vedi anche D. SETTEMBRINI, Storia dell’idea antiborghese in Italia 1860-1989, Bari, Laterza, 1991, p. 79. 6 Z. STERNHELL, La droite révolutionnaire 1885-1914. Les origines françaises du fascisme, Paris, Seuil, 1978, pp. 15, 24. 4
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due parti”, ed avrebbe introdotto “per secoli un’acre dissonanza nel concerto delle società europee”7. In generale si può affermare che in quel periodo, così cruciale per gli sviluppi successivi delle relazioni internazionali, un pervasivo stato d’inquietudine si diffuse tra gli intellettuali europei, molti dei quali percepirono di essere sull’orlo di una crisi radicale della cultura e dei valori dell’epoca8. In Francia, in seguito alla sconfitta bellica, si verificò un vero e proprio crollo morale, un vasto disorientamento che attanagliò, nelle parole di Chabod, anche “gli spiriti magni del pensiero francese”. La Comune non fece che approfondire e drammatizzare questi turbamenti indirizzandoli contro gli esiti della rivoluzione e della democrazia9. Sempre in questo contesto anche il nazionalismo, che in Francia aveva tratto la sua ispirazione dall’esperienza giacobina, avrebbe acquisito sempre più una decisa connotazione di destra10. La tragica esperienza della Comune fu dunque all’origine di una drastica svolta nell’atteggiamento psicologico di molti intellettuali, e fece venire a galla alcune di quelle ansie antidemocratiche ed antilluministiche che giacevano camuffate nel fondo del loro animo, o che erano state esternate, sino ad allora, solo con la sordina. Rappresentative di quel mutamento sono diventate le invettive cariche di disprezzo, ormai celebri, di Flaubert contro il suffragio universale, considerato vera e propria “vergogna dello spirito umano”, e “più stupido del diritto divino”, perché “la massa, il numero è sempre idiota”11. Per contrastare l’avanzata della democrazia, sempre Flaubert, aveva auspicato la formazione di una nuova “aristocrazia legittima” in piena sintonia con le parole di Numa Denis Fustel de F. CHABOD, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 (1951), Bari, Laterza, 1971, p. 82. 8 Cfr. G. CAMPIONI, Les lectures françaises de Nietzsche, Paris, PUF, 2001, p. 88. 9 F. CHABOD, Storia della politica estera italiana cit., p. 88. 10 J. EL GAMMAL, La guerre de 1870-71 dans la mèmoire des droites, in J. SIRINELLI (a cura di), Histoire des droites en France, Paris, Gallimard, 1992, vol. II, pp. 486-489. 11 G. FLAUBERT, Correspondance, lettere a G. Sand dell’ 8 settembre e del 7 ottobre 1871, Paris, Gallimard, 1998, vol. IV, pp. 376, 384. 7
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7. Alle origini del male moderno
Coulanges che aveva ritenuto improrogabile il compito di approntare una classe dirigeante all’altezza della situazione, dato che sino ad allora la Francia aveva avuto la sfortuna di avere una nobiltà parassitaria invece di una vera aristocrazia che svolgesse la propria funzione correttamente12. In realtà queste ed altre ansie non erano che il riflesso di un problema ben più vasto che aveva interessato la Francia sin dall’epoca della rivoluzione, e che la guerra e la Comune non avevano fatto che riacutizzare, il problema cioè della legittimità del potere. Maurice Duverger ha scritto che con la caduta della monarchia il 10 agosto 1792 aveva avuto inizio la storia parallela di due differenti paesi che si sarebbero affrontati per quasi due secoli, accusandosi reciprocamente di usurpazione. Il difetto di legittimità che era scaturito dal regicidio, secondo Duverger, avrebbe reso inefficaci ed instabili tutte le varie repubbliche ed i vari governi che si sarebbero succeduti fino agli anni ’80 del XX secolo13. Talleyrand, era stato tra i primi a porsi con chiarezza tale problema durante la restaurazione e si era reso conto che ristabilire il governo legittimo in Francia non poteva significare solamente la mera restaurazione del vecchio ordine borbonico; si sarebbe dovuto infatti tener conto, in qualche modo, della recente affermazione dei principi democratici. Molti francesi infatti, era la sua convinzione, difficilmente avrebbero potuto credere, come una volta, che il principio di legittimità fosse un'emanazione della divinità; l'opinione generale era ormai un'altra e sarebbe stato vano tentare di indebolirla. Da tutto ciò egli aveva tratto le conclusioni “che i governi esistono unicamente per i popoli; conseguenza necessaria di quest'opinione è che il potere legittimo sia quello che può meglio assicurare il loro benessere e la loro tranquillità”14. Ma Talleyrand, secondo 12 N.D. FUSTEL DE COULANGES, Essai sur l’aristocratie (manoscritto), in F. HARTOG, Le XIXeme siècle et l’histoire. Le cas Fustel de Coulanges, Paris, PUF, 1988, p. 281. 13 M. DUVERGER, La V République, achèvement de la Révolution française, Roma, Camera dei Deputati, 1989, pp. 5-39. 14 TALLEYRAND, Mémoires, Paris, Calmann Lévy, 1891, vol. III, p. 214 ( la trad.
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Guglielmo Ferrero, aveva anche capito che la nuova legittimità democratica avrebbe potuto sopravvivere solo all’interno del quadro stabilito dall’unico governo legittimo possibile allora concepibile, cioè quello monarchico. Era insomma necessario che fosse il re borbone a riconoscere e santificare il diritto d’opposizione e l’esistenza di corpi rappresentativi della nazione15. Per Stephen Holmes questa fu la posizione che contraddistinse un manipolo di scrittori e di politici francesi che condividevano idee liberali e costituzionali e che cominciarono ad usare il concetto di legittimità per sostenere la restaurazione di Luigi XVIII, sotto il cui regno avevano intravisto, nelle parole di Constant, maggiori possibilità di libertà che sotto il dominio di Bonaparte16. Bonald si era reso subito conto di questo tentativo di conservare il principio democratico sotto la campana del diritto divino: una volta abbattuto Bonaparte, aveva infatti scritto, l’unica strada che era rimasta per salvare la rivoluzione dal disgusto e dall’orrore che aveva provocato con i suoi disordini, era quella di riaffermarla “sur la base de la legitimité”17. Constant, infatti, nei Principi di politica, aveva affermato che la sacralità del potere monarchico era indispensabile per poter separare da esso i principi di responsabilità governativa e di alternanza con l’opposizione. Questi principi infatti, tipici di uno stato repubblicano dove il potere si rinnova periodicamente, per lui non avevano in sé stessi la forza per farlo stare in piedi con le proprie gambe perché il potere repubblicano “non è un essere a parte, non colpisce in nulla l’immaginazione, non ha diritto all’indulgenza per i suoi errori perché ha brigato per il posto che occupa e non ha nulit. è in G. FERRERO, Ricostruzione, 1939, Milano, Garzanti, 1948, pp. 66-67). 15 G. FERRERO, Ricostruzione cit., pp. 52-70. TALLEYRAND, Mémoires cit., vol. III, p. 156. 16 S. HOLMES, Two Concepts of Legitimacy - France after the Revolution, in “Political Theory”, 1982, n. 2, p. 173, e B. Constant and the Making of Modern Liberalism, New Haven, Yale University Press, 1984, p. 238. L’opinione di Constant è espressa in Mémoires sur les Cent-Jours (1818-20), Tübingen, Niemeyer Verlag, 1993. 17 L. DE BONALD, Observations sur l’ouvráge de madame la baronne de Stael, in Id., Oeuvres cit., tomo VII, p. 667.
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la di più prezioso da difendere che la sua autorità, la quale è compromessa quando si attacca il suo ministero, composto di uomini come lui e con i quali è di fatto sempre solidale”18. Questi dubbi, questi interrogativi avrebbero investito con ancor più forza la Francia dopo la caduta della monarchia orleanista. In un famoso opuscolo del 1849 François Guizot, costernato dall’impossibilità di giungere ad un governo stabile nel paese, si sarebbe infatti chiesto: “d’où vient le mal?” La sua risposta era stata chiara: “Il caos si nasconde[va] sotto la parola democrazia”, e giungeva direttamente dalla rivoluzione dell’89. Per questo motivo Guizot si era domandato, con ancor maggiore apprensione, se quest’ultima non fosse destinata ad altro che a “generare dubbi”, e ad accumulare “rovine sui suoi trionfi”19. Lo stesso Tocqueville che pure sappiamo aver teorizzato l’ineluttabilità dell’avvento della società democratica, in questo periodo, era rimasto turbato dall’ultima eruzione di “una società in movimento, che è stata agitata da sette grandi rivoluzioni in meno di sessant’anni, senza contare una moltitudine di piccole scosse secondarie”. Meditando su quelle recenti mutazioni, Tocqueville aveva constatato come ad ogni frattura significativa nella storia istituzionale del paese, fosse questa dovuta alla proclamazione della repubblica, alla costituzione dell’impero, alla restaurazione dei Borboni od alla monarchia di luglio, ogni volta si era sperato che finalmente la rivoluzione fosse finita ma, “aihmè”, sospirava Tocqueville, “ecco che la rivoluzione francese ricomincia, perché è sempre la stessa. Mano a mano che noi procediamo, il suo termine si allontana e si oscura”20. La ricerca delle origini del malessere francese avrebbe coinvolto i più importanti intellettuali transalpini della seconda metà dell’Ottocento, e molti si sarebbero trovati d’accordo con Guizot e Toc18 B. COSTANT, Principes de politique (1815), in Id., Oeuvres, Paris, Gallimard, 1957, pp. 1084-1085 (trad. it., Principi di politica, Roma, Editori Riuniti, 1970, p. 69). 19 F. GUIZOT, De la démocratie en France, Paris, Masson, 1849, pp. 5-6, 63. 20 TOCQUEVILLE, Souvenirs (1851), in Id., Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 1964, vol. XII, pp. 85, 87 (trad. it., Memorie, Roma, Lucarini, 1989, pp. 72, 75).
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queville nell’indicare la rivoluzione, fonte della moderna società democratica, come la causa permanente dell’instabilità politica del paese, sia che la si detestasse, sia che si auspicasse il completamento della sua opera. Era certamente vero, sulla scorta dell’analisi di quest’ultimo, che i semi di quella società si potevano rintracciare sin nell’antico regime, ma era stato solo tramite la rivoluzione che essi erano potuti venire pienamente alla luce21. Alla vigilia della guerra franco-prussiana le parole di Prévost-Paradol avrebbero riassunto con chiarezza e sinteticamente i termini della questione: “la rivoluzione francese ha fondato una società, essa cerca ancora il suo governo”22. Gli eventi del 1870-71, dunque, non avrebbero fatto altro che esacerbare gli animi e la democrazia sarebbe divenuta il capro espiatorio della sconfitta, della debolezza e del ridimensionamento della Francia. Prima di tutto, quindi, nell’intento dei suoi avversari, bisognava colpire lo strumento tecnico con cui la democrazia si era affermata, vale a dire il suffragio universale. Emile Montegut, sulla “Revue des deux Mondes”, dichiarando la bancarotta irrevocabile della rivoluzione francese, aveva individuato nel suffragio universale la causa prossima del malessere transalpino: la sua proclamazione, nel 1848, era stata una vera e propria “Waterloo interna”23. È proprio in questo contesto che emersero sulle altre le opere di Hippolyte Taine e di Ernest Renan, due autori che, con Flaubert e Fustel, condividevano la medesima visione gradualistica, la stessa fiducia nella scienza e nell’elitismo civilizzatore, l’identica avversione contro democrazia e suffragio. Perché la loro polemica assume un valore aggiunto sulle altre? Perché, come ebbe a scrivere Victor Giraud alla fine del secolo, i due autori avrebbero esercitato una specie di dittatura spirituale, paragonabile solo a quella che avevano in-
Cfr. R. POZZI, Gli intellettuali e il potere. Aspetti della cultura francese dell’Ottocento, Bari, De Donato, 1979, pp. 195-196. 22 L.-A. PRÉVOST-PARADOL, La France nouvelle, Paris, 1868, pp. 295 sgg., in R. POZZI, Gli intellettuali e il potere cit., p. 201. 23 In F. HARTOG, Le XIXeme siècle et l’histoire cit., p. 54. 21
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staurato Voltaire e Rousseau tra il 1760 ed il 177024. Sarebbero state proprio le analisi e le polemiche post 1870 di Taine e Renan che avrebbero nutrito ideologicamente le moderne reazioni alla liberaldemocrazia, ed avrebbero permesso il fiorire di un nuovo antilluminismo nella cultura francese, sul quale avrebbe attecchito e si sarebbe alimentata parallelamente anche la originale sintesi di Nietzsche25. Cosa aveva reso possibile questa ricezione? Come fece la fede di Taine e Renan verso la scienza ed il progresso, una fede di indubbia origine illuministica, a trasformarsi in qualcosa di profondamente diverso che negava addirittura le sue premesse? Perché i due autori, che si erano presentati in qualche modo come discepoli degli enciclopedisti, benché “iperbolici”, si erano rivelati invece avversari risoluti dei Lumi? Per spiegarlo, ha scritto Todorov, si deve operare una distinzione preliminare, ciò che Taine e Renan avevano accettato dell’illuminismo era infatti solo “la fede nel determinismo con tutto ciò che ne consegue”, mentre avevano respinto decisamente “l’universalismo, la fede nell’unità essenziale della specie umana, e nell’eguaglianza in quanto ideale”26. L’appello alla scientificità sarebbe così divenuto o un modo per giustificare la struttura e il funzionamento delle società gerarchiche dell’antico regime, che dovevano essere sostanzialmente preservate, o il substrato culturale necessa24 In M. BARRES, Taine et Renan. Pages perdues, recueillies et commentees par Victor Giraud, Paris, Bossard, 1922, p. 9. 25 Sull’influenza di Taine e Renan, in particolare sul nuovo nazionalismo e sulla destra francese vedi Z. STERNHELL, Maurice Barrès et le nationalisme français cit., p. 291, 294, Id., La droite révolutionnaire cit., pp. 23-24, 83-84, R. RÉMOND, Les droites en France, Paris, Aubier Montaigne, 1982, pp. 174 sgg., G. SHAPIRO, Nietzsche Contra Renan, “History and Theory”, 1982, n. 2, p. 220, C. DIGEON, La crise allemande de la pensée française -1870-1914, Paris, PUF, 1959, pp. 234, 387, G. LA FERLA, Renan politico, Firenze, De Silva, 1953, p. 200. Sulla controversa interazione tra Nietzsche e la cultura francese a cavallo dei due secoli vedi C.E. FORTH, Nietzsche, Decadence and Regeneration in France, 1891-95, “Journal of the History of Ideas”, 1993, n. 1, pp. 98-99, 106, 109-110, 114-116, ma soprattutto G. CAMPIONI, Les lectures françaises de Nietzsche cit., pp. 41-107, 145-165. 26 T. TODOROV, Nous et les autres cit., pp. 139-140, 195 (trad. it. cit., pp. 136137, 198).
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rio per sostenere un’ideologia neoconservatrice che giustificasse il potere di una nuova casta27. Gli avvenimenti del 1870-71 avrebbero messo a nudo le contraddizioni di fondo nelle teorie di Taine e Renan. I conti con il suffragio universale furono solo un aspetto delle asprezze che il loro liberalismo avrebbe dovuto superare per adattarsi alla democrazia di massa, a quella che Gustave Le Bon avrebbe battezzato come “l’era delle folle”28. La tendenza principale dell’illuminismo infatti andava proprio verso un più generale individualismo democratico che Taine e Renan tentarono in tutti i modi di contrastare, riprendendo vecchi temi e suggestioni dell’antilluminismo burkeano e romantico, riproposti adesso, però, in termini nuovi o più radicali. Essi cercarono inoltre di capire le origini del male oltre la stessa rivoluzione, aprendo una via d’indagine che Nietzsche avrebbe percorso sino in fondo; e come lui, sebbene in termini diversi, furono fautori di una radicale concezione aristocratica, che vedeva nel riconoscimento della superiorità naturale di una classe di uomini, l’unico strumento necessario per governare le masse brute e la borghesia filistea. Taine, tra i tre, senza dubbio, sembra essere quello che più si avvicina all’approccio tradizionalista burkeano. Impaurito dalla Comune, in una lettera del 6 marzo 1871, aveva lamentato l’assenza nel paese di capi che fungessero da guide naturali del popolo, tale mancanza era la ragione per cui “la massa oscilla a caso sotto l’impulso tutto esteriore dell’interesse e della paura”29. I disordini e i tumulti parigini non erano ancora terminati che Taine in preda a preoccupazioni e turbamenti di vario genere decideva di mettersi a lavorare a quello che sarebbe divenuto il suo libro più famoso, Le origini della Francia contemporanea30. Nella prefazione a quest’opera egli avrebbe illustrato chiaramente la sempre più stringente atcfr. R. POZZI, Gli intellettuali e il potere cit., pp. 207-208. G. LE BON, Psychologie des foules (1895), Paris, Retz, 1975, pp. 37-43. 29 H. TAINE, Sa vie et sa correspondance, Paris, Hachette, 1902-1907, vol. III, p. 27 28
55.
30
Ibid., vol. III, pp. 115, 90.
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tualità del problema dell’instabilità politica: la mancanza di legittimità che aveva caratterizzato ogni cambiamento di regime, nella sua opinione, era causata proprio dall’esistenza di due paesi diversi che si contrapponevano l’uno all’altro. “Che cos’è la Francia contemporanea”? Si sarebbe chiesto Taine, “per rispondere a questa domanda, bisogna sapere come questa Francia si è fatta o, meglio ancora, assistere da spettatori alla sua formazione. Alla fine del secolo scorso, simile a un insetto che si trasforma, essa subisce una metamorfosi. La sua antica organizzazione si dissolve; essa ne lacera con le proprie mani i tessuti più preziosi e cade in convulsioni che sembrano mortali. Poi, dopo molti contrasti ed un penoso letargo, si rialza. Ma la sua organizzazione non è più la stessa: per un sordo travaglio interiore un nuovo essere si è sostituito all’antico. Nel 1808 tutti i suoi lineamenti fondamentali sono tracciati, e sono definitivi”31. Ma la nuova Francia, la nuova casa politica che era stata appena costruita si sarebbe subito dimostrata inadeguata: “tredici volte in ottanta anni”, avrebbe scritto Taine, “l’abbiamo demolita per rifarla, non abbiamo ancora trovato quella che fa per noi”32. Mentre gli altri popoli avevano lentamente adattato ed ampliato per gradi il proprio edificio, la nuova Francia era stata ideata e poi costruita dal 1789, “tutta in una volta, sotto un nuovo padrone, e secondo i soli canoni della ragione”33. In queste ultime parole si comprende chiaramente come Taine concepisse lo stato, scaturito dall’epopea rivoluzionaria, quale il naturale sbocco del secolo dei Lumi. L’“età della ragione” infatti, aveva prodotto una dottrina che aveva preteso il governo delle cose umane, ed aveva cercato di mettere da parte la volontà del re, legittimato nel possesso ereditario da 8 secoli, e con lui tutte le consuetudini immemoriali. La ragione, insomma, aveva accantonato una volta per tutte il pregiudizio ereditario, che pure avrebbe potuto esH. TAINE, Les origines de la France contemporaine (1875-93), Paris, Laffont, 1986, vol. I, p. 4 (trad. it., Le origini della Francia contemporanea, Milano, Adelphi, 1986-89, vol. I, p. 48). 32 Ibid., vol. I, p. 3 (trad. it. cit., vol. I, p. 46). 33 Ibid., vol. I, p. 4 (trad. it. cit., vol. I, p. 46). 31
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sere considerato come “una sorta di ragione che ignora sé stessa”, avendo a suo fondamento proprio il cumulo delle esperienze passate, il vaglio e la saggezza dei secoli34. La ragione invece aveva “scoperto i diritti dell’uomo e le condizioni del contratto sociale”, e questi erano diventati i principali arnesi con cui aveva proceduto alla demolizione dell’antico regime, ma tali teorie, per Taine, non si potevano applicare agli uomini in carne ed ossa: basandosi infatti sulla semplice autorità della geometria, quelle teorie presupponevano soltanto “uomini astratti” o, nel caso specifico francese, “uomini nati a ventun anni senza genitori, senza passato, senza tradizioni, senza obblighi, senza patria”, uomini che si sarebbero riuniti in assemblea come se fosse stata la prima volta che avrebbero dovuto trattare tra di loro; in realtà i francesi erano “una specie affatto particolare”, con la loro storia ed il loro temperamento35. La “spedizione bellica” contro il pregiudizio ereditario era iniziata per Taine durante l’illuminismo ed aveva visto succedersi due fasi. Nella prima il condottiero dell’“armata filosofica” era stato Voltaire che aveva usato “il ridicolo come piccone” contro tutte le istituzioni dell’antico regime, risparmiando solo “la prima assise”. Era seguita poi, più radicale nella sua furia, la seconda ondata, a sua volta divisa in due componenti: da una parte stavano gli enciclopedisti, i quali, scettici o materialisti che fossero, erano uniti nel considerare “la tradizione” “il nemico da vincere”, dall’altra marciava invece “il battaglione di Rousseau e dei socialisti”, che affermando essere “tutti i mali (...) nella società”, considerava l’uomo buono e la civiltà “cattiva”, facendosi così portatore di un’idea totalmente nuova della natura umana. Idea che era stato lo stesso Rousseau a trarre “tutta intera dallo spettacolo del proprio cuore”36. Come poco sopra abbiamo accennato, è facile rinvenire la fonte principale di questa analisi: Edmund Burke, al quale Taine non Ibid., vol. I, pp. 153-156 (trad. it. cit., vol. I, p. 377). Ibid., vol. I, p. 413 (trad. it. cit., vol. II, tomo I, pp. 231, 232, 233), vedi anche p. 174. 36 Ibid., vol. I, pp. 160-173 (trad. it. cit., vol. I, pp. 387-415). 34 35
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avrebbe certo mancato di tributare il suo elogio37. Come Burke infatti Taine temeva che l’uomo, privato del “retaggio prezioso” trasmesso dai secoli precedenti, sarebbe ricaduto “immediatamente allo stato selvaggio”, e sarebbe tornato ad “essere ciò che fu un tempo, un lupo inferocito, affamato, vagabondo e inseguito”38. L’originalità di Taine, però, sta nel fatto che le intuizioni burkeane gli si presentavano ora davanti sotto forma di verità scientifiche, perfettamente inserite nel suo radicale determinismo storico e razziale39. La “ragione ragionante”, astratta, disincarnata degli illuministi non potendo capire il passato difficilmente avrebbe potuto comprendere il presente, ed il motivo principale stava proprio nel fatto che i philosophes, salvo le intuizioni di Montesquieu, non avevano la benché minima idea di come la “struttura” della mente del popolo fosse ancora “primitiva”, non avevano il più vago sentore “della rarità e tenacia delle sue idee, della ristrettezza della sua vita abitudinaria, meccanica, totalmente consacrata al lavoro, assorbita dalla preoccupazione del pane quotidiano, confinata entro i limiti dell’orizzonte visibile; altrettanto ignoti erano il suo attaccamento al santo locale, ai riti, al prete, i suoi rancori profondi, la sua diffidenza inveterata, la credulità radicata nell’immaginazione, la sua incapacità di concepire il diritto astratto e gli avvenimenti pubblici, (...) i suoi smarrimenti contagiosi come quelli di un gregge, i suoi furori ciechi come quelli di un toro – in una parola tutti quegli aspetti del carattere che la rivoluzione metterà in luce. Venti milioni e più di persone avevano appena superato lo stato mentale del Medioevo”40. Se dunque Burke non aveva certo sbagliato dicendo che la politica non si doveva adeguare semplicemente al ragionamento, bensì alla natuIn questa stessa opera lo avrebbe infatti definito “il teorico più profondo della libertà politica” e le sue Reflections “un libro che è una profezia ed un capolavoro” (Ibid., vol. I, pp. 399-400; trad. it. cit., vol. II, tomo I, p. 202). 38 Ibid., vol. I, p. 156 (trad. it. cit., pp. 377-378). 39 Cfr., R. POZZI, Hippolyte Taine. Scienze umane e politica nell’Ottocento, Venezia, Marsilio, 1993, p. 226, T. TODOROV, Nous et les autres cit., p. 137. 40 H. TAINE, Les origines de la France contemporaine cit., vol. I, pp. 159-160 (trad. it. cit., vol. I, pp. 385-386). 37
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ra umana, di cui la ragione era solo una parte “e non la più grande”41, Taine ora interrogava direttamente la psicologia, per spiegare il delicato funzionamento degli ingranaggi cerebrali, il cui fragile e precario equilibrio era “una meraviglia, per non dire un miracolo”, poiché “l’allucinazione, il delirio, la monomania, in attesa alla nostra porta, sono sempre sul punto di entrare in noi”. Inoltre, “se la ragione è zoppicante nell’uomo, essa è altrettanto rara nell’umanità”42. I filosofi del diciottesimo secolo si erano dunque sbagliati completamente, il predominio della ragione non era affatto naturale nell’uomo, né poteva considerarsi universale la sua estensione all’umanità. Tutt’altro, ben poca cosa poteva essere la sua influenza fintanto che padroni dell’uomo rimanevano “il temperamento, il bisogno fisico, l’istinto animale, il pregiudizio ereditario, l’immaginazione, (...) l’interesse personale o l’interesse di famiglia, di casta, di partito”43. Da queste premesse risultavano completamente inficiate le fondamenta individualistiche del “contratto sociale”; il pessimismo sulla ragionevolezza dell’uomo, portava poi Taine a svalutare completamente il ruolo dell’opinione pubblica, luogo virtuale in cui l’assenza della “ragione politica” risaltava in modo ancor più evidente e non riguardava soltanto, come era ovvio, il contadino ed il lavoratore manuale, ma era assente “perfino nell’uomo che si crede colto e legge i giornali”, per il quale “i principi sono quasi sempre ospiti sproporzionati; vanno al di là della sua comprensione, invano lui ne recita i dogmi: non può misurarne le conseguenze, non ne afferra i limiti, ne dimentica le restrizioni, ne falsa l’uso. Sono composti di laboratorio che restano inoffensivi nel gabinetto del chimico e in
E. BURKE, Observations on a Late State of the Nation (1769), in Id., WR II, p. 169. 42 H. TAINE, Les origines de la France contemporaine cit., vol. I, pp. 178-179 (trad. it. cit., vol. I, pp. 426-427). 43 Ibid., vol. I, pp. 179-180 (trad. it. cit., vol. I, p. 429). 41
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mano sua, ma che diventano terribili nella strada e sotto i piedi dei passanti”44. Il contratto sociale inoltre, posto anche che lo avessimo accettato in teoria, come aveva già scritto Burke, doveva essere considerato un patto tra generazioni. Ogni uomo infatti che veniva al mondo aveva un debito cospicuo verso il proprio stato e una pesante responsabilità nei confronti dei propri discendenti. Taine però andava oltre, e descrivendo la Francia come una “comunità passata, presente e futura”, introduceva un’analogia perfettamente inserita nella moda dell’ organicismo biologico del tempo45. I francesi da ottocento anni formavano cioè “una nazione”, un unico organismo, “ognuno di loro è in questa comunità come una cellula in un corpo organizzato. Questo corpo, forse, è veramente l’insieme delle cellule; comunque, è certo che la cellula nasce, sopravvive si sviluppa e raggiunge i suoi scopi solo grazie alla salute di tutto il corpo. Suo interesse fondamentale è dunque la prosperità dell’organismo di cui è parte, e ogni piccola vita parziale, lo sappia o no, ha come esigenza primaria la conservazione della grande vita totale nella quale ciascuna è inserita, come una nota in un concerto”46. Era dunque all’interno di questa, fortemente sottolineata, cornice organicistica ed antindividualista che Taine poteva individuare il miglior governo nel concorso delle tre forze sociali, seguendo la tradizione costituzionale inglese e il modello classico dello stato misto. Paragonando la Francia ad un grande vascello, la migliore organizzazione possibile doveva prevedere al primo posto la regalità e l’aristocrazia ereditaria, che avrebbero fornito “il capitano ed il miIbid., vol. I, p. 179 (trad. it. cit., vol. I, p. 428). David G. Hale ha mostrato come la biologia evoluzionista nel corso dell’Ottocento, introducendo un linguaggio ed idee nuove, avesse contribuito grandemente a cambiare i termini con cui veniva concepita, in politica, l’analogia organismo-società. I vecchi termini, infatti, spesso presupponevano un’accettazione di fondo della politica lockiana e della fisica newtoniana (D.G. HALE, The Body Politic, a Political Methafor in Renaissance English Litterature, The Hague, Mouton, 1971, pp. 131-134). 46 H. TAINE, Les origines de la France contemporaine cit., vol. I, p. 414 (trad. it. cit., vol. II, tomo I, pp. 234-235). 44 45
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glior stato maggiore”, in second’ordine l’“influenza della classe ricca o agiata”, nella quale trovavano posto i principali armatori, e per ultima “l’influenza del numero”, dal quale selezionare elementi che avrebbero rinsaldato le due principali classi. Il peggior sistema immaginabile per questo tipo d’ imbarcazione sarebbe stato proprio la democrazia di massa nella quale vigeva il suffragio universale: in esso dominava il numero, la populace, ed essendo il modo di procedere abituale, “lo schiamazzo, la gazzarra, la rivolta perpetua”, avrebbe causato tutta una serie di false manovre, che alla fine avrebbero recato “gravi danni alla nave”47. Se il male democratico e razionalistico era derivato dalla rivoluzione e dai Lumi, Taine, con spirito analitico, aveva cercato di risalire alle sue radici, ed il percorso à rebours nella storia, ancora una volta lo aveva portato in Inghilterra. Era proprio in quel contesto che la filosofia del diciottesimo secolo aveva preso corpo, ma, fortunatamente, senza svilupparsi troppo perché là, l’ansia di demolire per poi ricostruire, era rimasta solo una specie di febbre lieve e passeggera: “Deismo, ateismo, materialismo, scetticismo, ideologia, teoria del ritorno alla natura, proclamazione dei diritti dell’uomo, tutte le audacie di Bolingbroke, Collins, Toland, Tindal e Mandeville, tutte le arditezze di Hume, Hartley, James Mill e Bentham, tutte le dottrine rivoluzionarie sono state piante di serra, sbocciate qua e là nei gabinetti isolati di qualche pensatore: all’aria aperta, dopo una breve fioritura, sono abortite a causa della concorrenza troppo forte dell’antica vegetazione, alla quale il suolo già apparteneva”48. Perché allora, si era chiesto ancora Taine, quelle stesse idee, una volta seminate in Francia, avevano attecchito subito ed erano cresciute in modo così rigoglioso durante il periodo della Reggenza? Una sola poteva essere la spiegazione, esse erano cadute in un terreno fertile, e cioè la “patria dello spirito classico. In questo paese di H. TAINE, Extrait des notes préparatoires pour Les origines de la France contemporaine (1871), in Id., Sa vie et sa correspondance cit., vol. III, pp. 348-351. 48 H. TAINE, Les origines de la France contemporaine cit., vol. I, p. 189 (trad. it. cit., vol. I, pp. 449-450). 47
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ragione ragionante”, le nuove idee non avrebbero più incontrato quegli ostacoli che “le soffocavano dall’altra parte della Manica”49. Taine aveva così compiuto una specie di scomposizione chimica del veleno filosofico del XVIII secolo ed aveva isolato due ingredienti specifici, lo “spirito classico” ed il “sapere scientifico” che, presi separatamente, avrebbero potuto rivelarsi anche salutari, ma, combinati insieme, avevano formato quella miscela pericolosissima che aveva originato la filosofia dei Lumi e la dottrina rivoluzionaria50. In una lettera del 1874, Taine aveva spiegato chiaramente come nel primo capitolo della sua opera si fosse sforzato di mostrare che “Boileau, Descartes, Le Maistre de Sacy, Corneille, Racine, Flèchier, ecc... sono gli antenati diretti di Saint-Just e di Robespierre”51. Lo “spirito classico” si era sviluppato parallelamente alla monarchia assolutistica che aveva gradatamente svuotato l’aristocrazia della sua tradizionale funzione. Quest’ultima, allora, aveva rivolto la sua attenzione ed i suoi interessi verso la conversazione raffinata, alla ricerca dei piaceri dello spirito. “La struttura” dell’“occhio interiore” del francese del XVIII secolo, aveva dunque preso forma “dall’abitudine di parlare, di scrivere e di pensare in funzione di un uditorio da salotto”. Lo spirito classico aveva però un difetto d’origine, una sorta di difficoltà intrinseca a cogliere la peculiarità del “vivente”, esso cioè preferiva ricercare i caratteri comuni tra gli uomini, amava fare astrazione dalle circostanze di luogo e di tempo, applicava con fiducia il metodo della matematica: “estrapolare, circoscrivere, isolare alcune nozioni molto semplici e molto generiche; poi, abbandonando l’esperienza, confrontarle, combinarle e, dal composto artificiale così ottenuto, dedurre col puro ragionamento tutte le conseguenze in esso implicite”. Tale difetto, mantenuto nei giusti limiti, aveva sfornato anche dei capolavori, ma nel XVIII secolo era rimasta la sola astrazione svuotata del suo conteIbid., vol. I, p. 190 (trad. it. cit., vol. I, p. 451). Ibid., vol. I, pp. 129, 139-140, 153-154. 51 H. TAINE, Sa vie et sa correspondance cit., vol. III, p. 268. 49 50
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nuto. Nel leggere Gibbon, Robertson, Hume, Voltaire, per esempio, secondo Taine, vi si trovava tutto, “erudizione, critica, buon senso, esposizione quasi esatta dei dogmi e delle istituzioni, vedute filosofiche sulla concatenazione dei fatti e sul corso generale delle cose, non vi manca[va] niente se non le anime”. Ma un pericolo ancor più temibile si sarebbe avuto con la creazione dell’“ideologia, ultimo prodotto del secolo”, il giocare infatti su astrazioni come natura, ragione, popolo, tirannia, libertà avrebbe prodotto “ben presto effetti molto pratici, e terribili”52. Se dunque fino alla Reggenza il compito della ragione era rimasto subordinato alla tradizione ed alla religione, da qui in poi le cose sarebbero cambiate, le parti si sarebbero invertite e la ragione sarebbe balzata al primo posto. “Da un lato, la religione e la monarchia, con i loro eccessi e le loro malefatte sotto Luigi XIV, con il loro scadimento e le loro inadeguatezze sotto Luigi XV”, avrebbero demolito “pezzo per pezzo quel fondamento di venerazione ereditaria e di obbedienza filiale su cui poggiavano, e che permetteva loro di ergersi in una regione superiore, al di sopra di ogni contestazione e di ogni esame”. Dall’altro le grandi scoperte scientifiche avrebbero innalzato a tal punto il rango della ragione che questa si sarebbe sentita legittimata ad indagare in territori a lei prima proibiti53. Mentre ancora per Pascal, Cartesio e Fènelon la religione aveva fornito un quadro morale dove poter sistemare le proprie osservazioni, con il XVIII secolo ormai la scienza morale si era staccata definitivamente dalla teologia54. Una volta realizzatosi pienamente tale distacco ed il rovesciamento causato dalla nuova veduta scientifica del mondo, “Newton apporté par Voltaire”, lo spirito classico avrebbe prodotto “fatalmente la teoria dell’uomo naturale astratto e il contratto sociale”55, le dottrine alla base della rivoluzione.
H. TAINE, Les origines de la France contemporaine cit., vol. I, pp. 140-141, 147-154 (trad. it. cit., vol. I, pp. 342-345, 359-68). 53 Ibid., vol. I, p. 155 (trad. it. cit., vol. I, p. 576). 54 Ibid., vol. I, p. 134 (trad. it. cit., vol. I, pp. 329-330). 55 H. TAINE, Sa vie et sa correspondance cit., vol. III, p. 268. 52
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Anche per Ernest Renan il male della Francia, “snervata dalla democrazia” e dal suffragio del 1848, piegata dalla guerra francoprussiana e dalla Comune, aveva avuto la sua origine nella rivoluzione francese e nella “falsa politica di Rousseau”, che aveva spinto i suoi protagonisti ad architettare “una costituzione a priori”, inducendoli a pensare di poter fare a meno del sovrano, senza rendersi conto “che, una volta eliminato il re, sarebbe crollato l’intero edificio di cui il re era la chiave di volta”56. Il problema della legittimità del potere era dunque ben chiaro a Renan: “la malattia di questo paese è profonda”, aveva constatato con amarezza ancor prima degli eventi del 1870-71, “nel cerchio fatale delle rivoluzioni, l’abisso chiama l’abisso”. Altre nazioni erano riuscite a risalire l’inferno, “ma che dire della nazione che, dopo esserne uscita, ci si è immersa di nuovo, due volte, tre volte”? Una lezione terribile attendeva quei popoli che incapaci di un governo repubblicano avevano distrutto “la dinastia che i secoli avevano donato loro”57! Nel 1872 il problema aveva ormai acquisito un carattere ancor più drammatico, se fino al 1848 avrebbe avuto ancora un senso la restaurazione legale della monarchia, dato che “l’immensa maggioranza del paese, a quell’epoca aveva la fede monarchica”, adesso quella fede era irrimediabilmente affaiblie, ed una soluzione di quel genere non era più ipotizzabile. La Francia doveva fare i conti con la sua netta divisione in due campi avversi: da una parte stava “la presunzione superficiale dei democratici”, dall’altra “l’esasperazione del partito clericale”. Ad ogni rottura del fragile equiliE. RENAN, La Réforme intellectuelle et morale de la France (1871), in Id., Œuvres complètes, Paris, Calmann-Lévy, 1947-61, vol. I, pp. 333, 337, 340 (trad. it., La riforma intellettuale e morale della Francia, Roma, Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea, 1991, pp. 85, 88, 91). Queste accuse Renan le aveva mosse anche due anni prima, quando aveva accusato i francesi di voler avanzare “filosoficamente in una materia”, quella costituzionale, “in cui bisogna procedere storicamente”, come avevano dimostrato gli inglesi, la cui nazione era “mille volte più libera della Francia, che aveva così fieramente piantato la bandiera filosofica dei diritti dell’uomo” (E. RENAN, La monarchie constitutionelle en France -1869-, in Id., Œuvres complètes cit., vol. I, p. 481). 57 E. RENAN, prefazione a Questions contemporaines (1868), in Id., Œuvres complètes cit., vol. I, pp. 25, 28. 56
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brio faticosamente raggiunto il paese rischiava di essere gettato in nuove crisi. Ed era proprio dal versante della “superficiale democrazia” che non si comprendeva e non si vedeva come la società, d’ora in avanti, sarebbe stata sballottata “di avventura in avventura, di dittatura in dittatura”, senza alcuna vera riforma, nel generale inabissamento morale ed intellettuale58. Era dunque proprio il “tipo fatale uscito dalle nostre rivoluzioni” che aveva inaugurato “il regno dell’egoismo”59, aveva già scritto Renan alcuni anni prima. Nel momento in cui “il giudizio ed il governo delle cose” venivano infatti trasferiti alla “massa, (...) pesante, grossolana, dominata dalla più superficiale visione dell’interesse”, inevitabilmente la sua scelta sarebbe caduta sui “mediocri”, ne sarebbe perciò conseguita la scomparsa delle classi nobili, delle “nobili preoccupazioni”, la rinuncia “alla gloria, alla forza, allo splendore”, ed il paese sarebbe irrimediabilmente affondato in un “laido” “materialismo borghese che chiede soltanto di godere in pace della ricchezza acquisita”. La Francia, preceduta in questo dall’Inghilterra, si stava così indirizzando, mestamente, sulla strada tracciata dall’America, stava navigando “a gonfie vele verso la mediocrità”, verso “una piccola vita provinciale, materialmente assai florida, indifferente all’istruzione e alla cultura intellettuale, abbastanza libera; una vita di borghesi agiati, indipendenti gli uni dagli altri, senza pensiero della scienza, dell’arte, della gloria, del genio; una vita lo ripeto, abbastanza simile alla vita americana, fatta salva la differenza dei costumi e del temperamento”60. Renan, dopo che abbiamo già incontrato un simile giudizio di Carlyle, faceva così affluire nuova acqua al mulino del nascente preLettere del 14 luglio e 17 settembre 1872 e del 13 settembre 1876 in E. RENAN, Œuvres complètes cit., vol. X, pp. 607, 614, 712-713. “Nel seno del nostro paese, (...), si battono due popoli, di cui l’uno vuole soffocare l’altro”, aveva scritto nel 1868 (E. RENAN, prefazione a Questions contemporaines cit., p. 27). 59 E. RENAN, Philosophie de l’histoire contemporaine (1859), in Id., Question contemporaine cit., p. 58. 60 E. RENAN, La Réforme intellectuelle et morale de la France cit., pp. 349, 403, 404, 344, 360, 355, 333 (trad. it. cit., pp. 95, 112, 107, 85). 58
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giudizio verso la giovane civiltà d’oltre-oceano, e contribuiva anch’egli alla costruzione del mito dell’antiamericanismo, che negli anni seguenti sarebbe divenuto un vero e proprio alias dell’antilluminismo61. E come sovente in questi tre ultimi secoli, autori conservatori e non, sono andati preconizzando la fatale catastrofe del sistema economico capitalistico che sull’esempio americano ha disegnato il suo modello62, così Renan si domandava: al di là della banale soddisfazione nel “dispiegare la propria attività a tutto vapore”, le società che si attengono a quel modello, “quanto tempo dureranno, quali malattie particolari le intaccheranno, come si comporteranno nei confronti del socialismo, che le ha fino ad ora poco colpite”63? La società democratica pertanto non avrebbe potuto durare a lungo, perché ogni civiltà nel passato era stata opera di una aristocrazia, e di questa c’era tutt’ora bisogno. Un paese non poteva affatto reggersi in piedi per “la semplice addizione degli individui” che lo componevano, esso aveva “un’anima” e questa poteva risiedere solo “in un piccolissimo numero di uomini”64. Il suffragio universale permetteva infatti solamente che si creasse un rapporto tra atomi sciolti senza coesione come in un pugno di sabbia, ma “un mucchio di sabbia non è una nazione”, avrebbe scritto a Berthelot65. Anche il patto a cui pensava Renan assomigliava pertanto a quello di Burke; la “casa di sabbia” che sognavano i democratici, era “una nazione senza istituzioni tradizionali, senza corpo incaricato di fare Nella prefazione alla pubblicazione delle Questions contemporaines nel 1868 Renan era già stato abbastanza esplicito: “i paesi che, come gli Stati Uniti, hanno creato un insegnamento popolare considerevole senza una seria istruzione superiore espieranno per lungo tempo ancora questo errore per la loro mediocrità intellettuale, la loro rozzezza di costumi, la loro generale mancanza d’intelligenza” (E. RENAN, Questions contemporaines cit., pp. 14-15). 62 Su questo tema mi permetto di rimandare a M. LENCI, Capitalismo, cultura comune, tradizione: il dilemma dei conservatori, “Il Nuovo Baretti”, 2003, nn. 1 e 2. 63 E. RENAN, La Réforme intellectuelle et morale de la France cit., p. 402 (trad. it. cit., p. 153). 64 Ibid., p. 361 (trad. it. cit., p. 113). 65 In G. LA FERLA, Renan politico cit., p. 203. 61
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la continuità della coscienza nazionale, una nazione fondata su questo deplorevole principio che una generazione non impegna la generazione successiva, sicché non v’è nessuna catena dai morti ai vivi, nessuna sicurezza per l’avvenire”66. L’uomo, avrebbe pronunciato in un celebre discorso tenuto alla Sorbona, non era il frutto dell’improvvisazione, ma di un lungo passato di sforzi e sacrifici, che erano andati a formare la “grande solidarietà” della nazione. “Gli antenati”, ribadiva Renan, ci avevano reso “ciò che siamo”, e la vita stessa della nazione era una sorta di “plebiscito di tutti i giorni”67. Egoismo ed invidia, fonte rispettivamente di socialismo e democrazia, non avrebbero permesso che la proliferazione di società deboli. Gli Stati, perciò, avrebbero potuto divenire forti “solo a condizione di riconoscere il fatto delle superiorità naturali”, superiorità che, in fondo, si riducevano ad una sola, “quella della nascita, poiché la superiorità intellettuale e morale non è essa stessa che la superiorità di un germe di vita schiusosi in condizioni particolarmente favorevoli”68. Se dunque, da una parte stava il modello americano, la sconfitta nella guerra aveva rivelato l’inadeguatezza bellica della Francia a causa proprio della democrazia, che si era rivelata “il più forte dissolvente dell’organizzazione militare” e aveva aperto con la Comune una crisi più profonda di quella del 1848, “un abisso al di sotto dell’abisso”69. Specularmente aveva messo in netto risalto il modello prussiano, l’altra via che si apriva alla modernità, nelle parole di Giuliano Campioni, la perfetta sintesi “tra modernità scientifico –
E. RENAN, La Réforme intellectuelle et morale de la France cit., p. 375 (trad. it. cit., p. 125). 67 E. RENAN, Qu’est-ce qu’une nation? (1882), in Id., Œuvres complètes cit., vol. I, p. 904. 68 E. RENAN, La Réforme intellectuelle et morale de la France cit., pp. 361-362, 374-376 (trad. it. cit., pp. 113-114, 125-126). 69 Ibid., pp. 366, 345, 404 (trad. it. cit., 118). Renan avrebbe palesato le sue paure nei riguardi degli ondeggiamenti distruttivi delle folle anche nell’Antichrist del 1873. Cfr. Id., Œuvres complètes cit., vol. IV, pp. 1246-1247. 66
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industriale e struttura feudale”70. “La vittoria della Prussia è stata la vittoria della monarchia di diritto quasi divino (di diritto storico)”, aveva scritto Renan, qui infatti vigeva ancora l’antico regime ma “sviluppato e corretto”, qui il singolo era “preso, educato, modellato, addestrato, disciplinato, incessantemente richiesto da una società che deriva dal passato, plasmato in vecchie istituzioni, che si arrogano una padronanza di moralità e di ragione. In questo sistema, l’individuo dà enormemente allo stato; riceve in cambio dallo stato una forte cultura intellettuale e morale, così come la gioia di partecipare ad una grande opera”. Qui i nobili “creano la scienza; dirigono lo spirito umano; fanno la storia” e inaugurano quel tipo di guerra, quella “scientifica” che “la democrazia non farà mai”71. Se la Francia aveva ormai espulso, ben oltre la Prussia, ogni “elemento dell’antica vita militare”, e ovunque si riscontrava solo “la ferma volontà di non fare sacrifici ad interessi non palpabili”, anche il modello tedesco, constatava Renan, era indebolito ogni giorno di più “dalle rimostranze dell’egoismo individuale”, perché implicava “categorie intere di sacrificati”, gravati dal pesante fardello che lo stato imponeva loro72. Per capire dunque l’affermazione dell’egoismo democratico, dello spirito egalitario bisognava andare oltre la rivoluzione e l’illuminismo che, nell’edificare la nuova costituzione sociale della Francia, avevano conservato “una sola ineguaglianza, quella della fortuna”, e lasciato in piedi un solo “gigante, lo Stato, e delle migliaia di nani”73. “Il travaglio secolare della Francia”, scriveva Renan, era “consistito G. CAMPIONI, Les lectures françaises de Nietzsche cit., p. 71. E. RENAN, La Réforme intellectuelle et morale de la France cit., pp. 373, 402 (trad. it. cit., p. , 124-125, 153). Renan era già rimasto colpito dalla trionfante apparizione della Prussia sui campi di battaglia a Sadowa, dalla sua organizzazione statale e militare. La guerra nei tempi moderni si sarebbe dimostrata sempre di più “un problema scientifico e morale”, che avrebbe visto trionfare i popoli più votati alla tecnica e dotati di senso del dovere e “capacità di sacrificio” (E. RENAN, Questions contemporaines cit., pp. 23-24). 72 E. RENAN, La Réforme intellectuelle et morale de la France cit., pp. 347, 402 (trad. it. cit., pp. 98-99, 153). 73 E. RENAN, Questions contemporaines cit., p. 12. 70 71
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nell’espellere dal suo seno tutti gli elementi deposti dall’invasione germanica fino alla rivoluzione,(...) l’ultima convulsione di questo sforzo. Lo spirito militare della Francia veniva da quel che essa aveva di germanico; cacciando violentemente gli elementi germanici e sostituendoli con una concezione filosofica ed egalitaria della società, la Francia ha respinto con la stessa mano tutto quel che in essa c’era di spirito militare”74. “Lo spirito germanico” era dunque per Renan lo stesso “spirito della feudalità”, ed esprimeva “il più assoluto individualismo”, “la vittoria dell’individuo sullo stato”, esso aveva creato quel sistema variegato di stati che si era contrapposto alla monarchia universale, che aveva lottato senza sosta contro l’uniformità del dispotismo. Lo spirito germanico infatti aveva fondato la libertà moderna proprio contro le esperienze statuali antiche, la monarchia orientale, la repubblica greca, l’impero romano, accomunate dalla stessa concezione assolutistica del potere. La regalità medioevale non era stata che “la conseguenza di un diritto personale e come un’estensione della proprietà”, mentre era stata la sovranità del popolo a fondare “le vecchie repubbliche ed i vecchi dispotismi”. Durante il rinascimento erano stati i pubblicisti italiani a riprendere “i principi dello stato alla maniera greca o romana”, sia nella forma repubblicana che in quella assolutistica ma fu però la Francia di Luigi XIV, “sorta d’imitazione di un ideale sassanide o mongolo”, che aveva dato corpo a queste idee, realizzando “il fenomeno più strano dei tempi moderni”75. Da qui, dall’“aberrazione di Luigi XIV”, sarebbe seguita, E. RENAN, La Réforme intellectuelle et morale de la France cit., p. 348, 402 (trad. it. cit., p. 99). Per Hartog l’esaltazione dello spirito germanico proveniva a Renan direttamente dal Guizot della Histoire de la civilisation en France, che aveva descritto la libertà come la maestria di se stessi provenienteci dai germani (F. HARTOG, Le XIXeme siècle et l’histoire cit., pp. 83-84), per La Ferla invece, oltre a Guizot e Thierry ci si doveva riferire soprattutto all’ultima parte del Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane di Gobineau (G. LA FERLA, Renan politico cit., pp. 151, 157, 222). 75 E. RENAN, Philosophie de l’histoire contemporaine cit., pp. 34-37, 39. Già nei suoi Cahiers de jeunesse (1845-1846, in Id., Œuvres complètes cit., vol. IX, p. 22), Renan, seguendo Guizot, aveva notato come questa idea antica dell’individuo che veniva completamente assorbito dallo stato la si ritrovasse anche “nei politici 74
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“come conseguenza immediata”, la rivoluzione francese, nella quale, “la pura concezione dell’antichità” avrebbe ripreso “il sopravvento”. I suoi principali artefici sarebbero stati proprio i seguaci di Rousseau che avrebbero impresso alla rivoluzione “il suo carattere definitivo, cioè a dire la sua tendenza verso l’organizzazione astratta, senza tener conto né dei diritti anteriori né della libertà”76. Anche dopo la restaurazione, un ritorno “inintelligente ed antipatico”, si era avuta una graduale estensione dei servizi pubblici in mano allo Stato che aveva messo “la società intera alle dipendenze del governo”, strada questa perseguita anche dalla “scuola liberale”, che, nel sogno di “una regalità repubblicana” o “popolare” in nulla si sarebbe discostata da quella linea che aveva unito la monarchia degli ultimi secoli alla rivoluzione. Non discostandosi dall’analisi di Tocqueville, dunque, Renan aveva individuato “la vera causa delle rivoluzioni” in quella “nozione di stato che è risultata dall’azione combinata di Richelieu, di Luigi XIV, della repubblica e dell’ Impero”77. La cacciata degli “elementi germanici”, aveva significato in Francia, l’immiserimento proprio della funzione aristocratica di limitazione del potere sovrano, e di ostacolo “allo sviluppo esagerato dell’idea di stato”, ma in realtà, aveva lamentato Renan, la nobiltà francese non aveva mai assolto questo ruolo, Versailles era stata “la tomba di tutte le virtù”. Quella che si sarebbe formata in seguito poi sarebbe stata solo “una aristocrazia di funzionari, avente perlopiù gli inconvenienti dell’antica nobiltà senza offrire i medesimi vantaggi”78. “L’orribile regno della violenza”, a cui Renan aveva assistito durante i giorni della Comune, avrebbe “ingenerato degli incubi”, che avrebbe poi trascritto nei suoi Dialoghi filosofici79, un’opera allucimoderni che hanno ricalcato gli antichi; Fènelon, lo stesso Bossuet”. 76 E. RENAN, Philosophie de l’histoire contemporaine cit., p. 39, 65. 77 Ibid., pp. 40, 63-65. 78 Ibid., pp. 41, 64. 79 E. RENAN, Dialogues et fragments philosophiques (1876), in Id., Œuvres complètes cit., vol. I, p. 553 (trad. it., Dialoghi filosofici, Pisa, ETS, 1992, p. 69). Sul-
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nata, in cui le originali premesse illuministiche della sua impostazione, avevano lasciato il campo ad un radicale scientismo antindividualista che le avrebbe cancellate completamente80. A tal punto si era acuito il pessimismo antropologico di Renan che ormai poteva immaginarsi solo una società dominata da “tiranni positivisti” che avrebbero regnato con “il terrore assoluto”81. Il quadro che si presentava a Renan, infatti, non dava più adito a false illusioni di emancipazione. Era risultato praticamente impossibile convertire alla ragione la maggior parte degli esseri umani, incapaci per natura di comprendere verità elevate; per questo motivo la tesi democratica era semplicemente falsa, anche dal punto di vista teologico: “tutte le coscienze sono sacre ma non sono affatto uguali. Dov’è il limite? Anche l’animale ha i suoi diritti. Il selvaggio australiano ha i diritti dell’uomo o dell’animale”82? La democrazia avrebbe portato all’esaurimento “del calore morale e della capacità di sacrificarsi”, “all’estinzione di ogni cultura difficile e di ogni disciplina elevata”, ad “un pianeta di idioti, che si l’importanza e la fortuna di quest’opera Giuliano Campioni ha spiegato, nell’introduzione all’edizione italiana, come “lo scritto conobbe adesioni, entusiasmi di contemporanei e di successori che vi cercavano argomentazioni politiche e visioni del mondo, ed altrettanto decise opposizioni nel nome dei diritti umani o della conseguenza filosofica” (G. CAMPIONI, introd. ai Dialoghi filosofici cit., p. 9). 80 Sicuramente, nella sua prima opera, L’avenir de la science, Renan aveva auspicato l’“emancipazione di tutti gli uomini per l’azione civilizzatrice della società”, ma allo stesso tempo si era scagliato anche contro “quelle fanfaronate del liberalismo”, che inutilmente avevano creato uno stato d’agitazione nel paese per la richiesta di maggiore libertà contro il dispotismo o per affermare i diritti di riunione e di associazione, per non dire del suffragio universale. Fino a che non fossero state mature determinate condizioni di civilizzazione morale e religiosa, fino a che tutti gli uomini non avessero raggiunto un certo grado di intelligenza, non aveva alcun senso parlare di emancipazione politica, non ci sarebbe stato “niente di più frivolo”, aveva scritto Renan: “degli imbecilli e degli ignoranti avranno un bel riunirsi, non verrà niente di buono dalla loro riunione”. Addirittura le istituzioni più liberali si sarebbero rivelate “pericolose” finché fosse perdurata “la schiavitù dell’ignoranza” (E. RENAN, L’avenir de la science -1848-, in Id., Œuvres complètes cit., vol. III, pp. 1012, 999-1000, 1015, 1001). 81 E. RENAN, Dialogues et fragments philosophiques cit., pp. 614-615 (trad. it. cit., pp. 138-139). 82 Ibid., 606-607 (trad. it. cit., p. 130).
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scaldano al sole, nella sordida pigrizia di esseri che non mirano che ad avere il necessario per la vita materiale”. L’ideale americano, che ancora una volta qui veniva evocato, insomma, era il più lontano possibile “dall’ideale di una società retta dalla scienza”83. Se dunque tale tipo di società non era affatto un terreno fertile per lo sviluppo della scienza, Renan non per questo si attardava a rimpiangere il passato e affermava con chiarezza: “non ci piace il vecchio regime, perché soffocava il pensiero e spesso ha ostacolato gli scienziati”. La vecchia nobiltà, che aveva sempre rappresentato il suo pilastro, poi era ormai al collasso, con la maggior parte dei titoli “usurpati” ed il resto derivante “dall’innobilimento e non dalla conquista”, ad essa non corrispondeva più una vera “superiorità di razza”. Questo, in fin dei conti, era il principale aspetto che veniva negato dalla scuola democratica, e che ora, invece, veniva enfaticamente sottolineato, cioè a dire “l’ineguaglianza delle razze e la legittimità dei diritti che conseguono dalla superiorità razziale”. Se non si fosse accettato tale principio, continuava Renan, la terra non avrebbe avuto altro futuro che quello di “un decadimento generale”. Ecco perché c’era bisogno di una nuova aristocrazia che si ponesse alla testa delle masse, di una nuova oligarchia fondata sulla superiorità intellettuale che solo la scienza poteva conferire e creare: “Una vasta applicazione delle scoperte della fisiologia e del principio di selezione potrebbe condurre alla creazione di una razza superiore, con il diritto di governare non solo per la sua sapienza, ma per la superiorità stessa del suo sangue, del suo cervello e dei 83 Ibid., pp. 607-608, 598 (trad. it. cit., pp., 132, 120). Nell’ Anticristo Renan aveva sottolineato come nell’umanità ci fossero fossati incolmabili, segnati dall’odio, tra uomini così diversi come l’uomo di pace e quello di guerra, tra l’uomo del negozio e della banca e il nobile e il contadino (E. RENAN, L’antéchrist -1873-, in Id., Œuvres complètes cit., vol. IV, p. 1275). Anche nella sua Storia delle origini del cristianesimo Renan aveva teso ad esaltare il ruolo delle gerarchie episcopali ed a relegare in second’ordine l’aspetto dell’“uguaglianza primitiva” delle antiche comunità; essa addirittura veniva letteralmente cancellata dall’autorità apostolica trasmessa con l’imposizione delle mani (E. RENAN, Histoire des origines du christianisme. L’église chretienne -1879-, in Id., Œuvres complètes cit., vol. V, pp. 436437).
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suoi nervi. Sarebbero delle specie di dèi o devas”. Era questo, insomma, il vero fine della natura e dell’umanità, negato di fatto alla democrazia. Il progresso come lo avevano sognato gli illuministi non aveva più alcun senso. Renan, senza ipocrisie traeva le conseguenze di questo ragionamento: “l’essenziale non è tanto di produrre delle masse illuminate, ma di produrre grandi geni ed un pubblico capace di comprenderli. Se l’ignoranza delle masse è una condizione essenziale per tutto ciò, tanto peggio”84. La natura infatti non si era mai fermata di fronte a simili ostacoli, anzi essa ci dimostrava come il sacrificio dei singoli, o addirittura di specie intere, fosse a volte necessario per produrre un essere superiore. Nell’armonia di questa concezione l’unica nota stonata era rappresentata proprio dal “nostro individualismo superficiale”. Anche Renan sfruttava adesso l’analogia con l’organicismo biologico: la coscienza personale infatti poteva arrivare ad essere completamente realizzata solo se si fondeva con altre milioni di coscienze in “gruppi organici” più grandi come, ad esempio, le chiese e le nazioni; “per il materialismo non c’è che l’atomo che esista pienamente, ma per il filosofo vero, per l’idealista, la cellula esiste più dell’atomo, l’individuo esiste più della cellula, la nazione, la chiesa, la città esistono più dell’individuo, poiché l’individuo si sacrifica per queste entità, che un realismo grossolano considera delle pure astrazioni”85. Nell’utopia dei “Dialoghi”, infine, non veniva negato solo l’individuo, ma addirittura la stessa concezione di umanità che, come aveva “avuto un inizio”, avrebbe avuto anche “una fine”. Tale il trapasso implicito nella creazione stessa dei devas: come l’umanità era scaturita dall’animalità, così dalla prima sarebbe emersa la divinità, incarnata da esseri che si sarebbero serviti “dell’uomo come l’uomo si serve degli animali”. La centralità dell’homo sapiens, a questo pun-
E. RENAN, Dialogues et fragments philosophiques cit., pp. 609, 618, 591, 612, 616, 610 (trad. it. cit., pp. 133, 143, 111, 141, 134). 85 Ibid., pp. 623, 603-604 (trad. it. cit., pp. 148, 126-127). 84
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to, era ormai abbandonata, e si apriva inesorabilmente la strada all’antiumanesimo contemporaneo86. Anche Friedrich Nietzsche, nella cui opera, come ha scritto Richard Bernstein87, esistono anticipazioni di quasi tutte le successive critiche all’illuminismo, di fronte agli eventi della Comune e fortemente influenzato dal contesto culturale francese, percepì chiaramente il “senso dell’autunno della civiltà”. Negli scrittori francesi di quel periodo egli trovò la descrizione della crisi moderna quale malattia spirituale, come febbre ideologica che doveva essere dominata affinché non uccidesse il malato88. La causa più evidente di quella febbre, come avevano già indicato Taine e Renan, venne anche da lui individuata nel suffragio universale, al quale inesorabilmente conduceva tutto ciò che nella società aveva contribuito a rammollire ed addolcire i costumi e il carattere. Il suffragio era il fondamento di un “sistema in base al quale le nature più infime si impongono alle superiori in qualità di legge”89. Il sistema liberale era dunque inevitabilmente malato a causa della sua tendenza a livellare verso il basso tutto e tutti, e per Nietzsche poteva considerarsi come un “imbestiamento in gregge”. Liberi non si diveniva affatto ricercando la propria felicità, quella “spregevole sorta di benessere di cui sognano i mercanti, i cristiani, le mucche, le femmine, gli inglesi e gli altri democratici”90. Questa Ibid., pp. 589, 618 (trad. it. cit., pp. 109, 142), vedi anche le pp. 628-630. R.J. BERNSTEIN, The Rage against Reason, “Philosophy and Literature”, 1986, n. 10, p. 192. Sull’importanza di Nietzsche nella tradizione antilluminista vedi anche J. SCHMIDT, What is Enlightenment? A Question, its Context and Some Consequences, in Id., (ed.), What is Enlightenment? Eighteenth-Century Answers and Twentieth Century Questions cit., p. 21-26. Sulla sua influenza anche su Maurras, Spengler, Hulme, Ortega e Schmitt, vedi Z. STERNHELL, introduzione a, Id. (ed.), The Intellectual Revolt against Liberal Democracy cit., pp. 15-16. 88 G. CAMPIONI, Les lectures françaises de Nietzsche cit., p. 73, e introd. ai Dialoghi filosofici cit., p. 12. 89 F. NIETZSCHE, Nachgelassene Fragmente (1884-85), in Id., Sämtliche Werke, Berlin-New York, De Gruyter, 1988, vol. XI, § 25, [174], [211], pp. 60, 69 (trad. it., Frammenti postumi-1884-, Milano, Adelphi, 1976, pp. 51, 59-60). 90 F. NIETZSCHE, Götzen-Dämmerung (1888), in Id., Sämtliche Werke cit., vol. VI, pp. 139-140 (trad. it., Il crepuscolo degli idoli, Milano, Adelphi, 1970, pp. 137138). 86 87
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era l’essenza illuministica delle moderne democrazie liberali, che si era rivelata in due tratti ben precisi, “quello individualistico” e l’antiaristocratica “pretesa di uguali diritti”. Nel descriverli Nietzsche sembrava quasi riprendere alcuni accenti tocquevilleani della Democrazia in America, l’individuo veniva perciò dipinto come “una vanità estremamente vulnerabile”, che per la paura della sofferenza pretendeva “che ogni altro [fosse] uguagliato a lui”, ma tali accenti venivano immediatamente fusi nella sua sprezzante allure aristocratica. “Il principio individualistico” che si era affermato nelle società moderne presupponeva infatti “soggetti pressoché uguali”, e dava “alla nostra epoca un’aria di sconfinata equità”; ma respingendo “gli uomini davvero grandi”, tale organizzazione non poteva che confermare “la sua iniquità, (...) una furia senza limiti (...) contro gli uomini aristocratici”. Il vero individualismo, dunque, come lo intendeva Nietzsche era ben altro, era “l’orgoglio, che vuole solitudine e pochi estimatori”91, era “volontà di potenza”. L’altro individualismo era solo la “forma modesta e non ancora consapevole” di quest’ultima, che si era contrapposta a Stato e Chiesa unendo individui uguali contro la collettività, e che aveva fatto divenire lo stesso socialismo, “un mezzo d’azione dell’individualista” che, per raggiungere i propri scopi, si doveva appunto “organizzare come «potenza»”92. L’errata concezione dell’individualismo era derivata, per Nietzsche, dalla “falsa autonomia concessa all’ «individuo» come atomo”, ma soprattutto dall’aver voluto mettere al bando tutti i suoi “impulsi più forti e naturali”, dall’aver dichiarato sacro “il furore contro gli istinti della vita”. In poche parole, “si erano dichiarati cattivi i motivi reali dell’agire”, e ci si era messi “sul serio a formare uomini in cui l’egoismo fosse estinto”. “Gli istinti calunniati” però, cacciati dalla porta erano rientrati dalla finestra, avevano cercato di “crearsi F. NIETZSCHE, Nachgelassene Fragmente (1884-85) cit., § 40 [26], pp. 642643 (trad. it., Frammenti postumi -1884-85-, Milano, Adelphi, 1975, pp. 328-329). 92 F. NIETZSCHE, Nachgelassene Fragmente (1885-87), in Id., Sämtliche Werke cit., vol. XII, § 10 [82], pp. 502-504 (trad. it., Frammenti postumi -1887-88-, Milano, Adelphi, 1971, pp. 148-149). 91
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un diritto”, li si era perciò ribattezzati “dando loro nomi santi”. Addirittura si era andati oltre, nella ricerca del “maggior utile”, “in vista della felicità dei più, o dell’avanzamento dell’umanità”, si era favorito “il punto di vista egoistico su quello altruistico ed improduttivo”, si era sognata persino “la scomparsa del contrasto in un qualche futuro”, in sostanza si era pensato di poter “salvare il mondo morale trasferendolo nell’ignoto”93. Qui, chiaramente, si faceva riferimento alla presunta armonizzazione degli interessi ipotizzata dai teorici del laissez-faire, di cui Herbert Spencer, in quel periodo, era uno dei principali sostenitori. Il commercio, infatti, per Nietzsche era senza dubbio egoistico, “per sua natura, satanico”, ma “la filosofia da mercante” del “pedante inglese” Spencer, non faceva altro che favoleggiare la “conciliazione finale di «egoismo» e «altruismo»”94. Questa era, in pratica, l’essenza stessa della teoria del libero scambio che presupponeva appunto che l’armonia si producesse “secondo leggi innate di miglioramento”, un po’ come ci si aspettava dalla morale kantiana che avrebbe preteso dal singolo “quelle azioni che si desiderano da tutti gli uomini”95. Il soggetto della “parità dei diritti” però, come lo concepivano socialisti ed utilitaristi, affermava Nietzsche, pretendeva ancora di più, cercando la salvezza dell’anima eterna e pensando “che l’umanità” dovesse “assolvere una missione globale”, sognava che alla fine “la venuta del «Regno di Dio»” fosse “trasferita nel futuro, sulla terra, nella sfera umana”96. Alla radice di questa concezione c’era Ibid., § 10 [57], pp. 485-490 (trad. it. cit., pp. 133-138). Ibid., § 10 [118], pp. 523-525 (trad. it. cit., p. 168), Nachgelassene Fragmente (1887-89), in Id., Sämtliche Werke cit., vol. XIII, § 11 [215], p. 85 (trad. it., Frammenti postumi -1887-88- cit., p. 291), Die fröhliche Wissenschaft (1881), in Id., Sämtliche Werke cit., vol. III, § 373, p. 625 (trad. it., La gaia scienza, Milano Adelphi, 1986, p. 252). Vedi anche Zur genealogie der Moral. Eine Streitschrift (1887), in Id., Sämtliche Werke cit., vol. V, Erste Abhandlung, §§ 2, 3, pp. 258-261 (trad. it., La genealogia della morale. Uno scritto polemico, Milano, Adelphi, 1984, pp. 14-17). 95 F. NIETZSCHE, Menschliches, Allzumenschliche. Ein Buch für freie Geister (1878-86), in Id., Sämtliche Werke cit., vol. II, Erster Band, § 25, p. 46 (trad. it., Umano troppo umano, Milano, Adelphi, 1965, vol. I, p. 34). 96 F. NIETZSCHE, Nachgelassene Fragmente (1887-89) cit., § 11 [226], pp. 87-89 93 94
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una visione completamente edulcorata dell’uomo e della natura, che si poteva con facilità ricavare dalla filosofia di Rousseau. Una concezione che, come aveva già mostrato Taine, assumeva la natura come sostanzialmente idilliaca e l’uomo come buono in origine e successivamente corrotto dalle istituzioni. Per Nietzsche dunque Rousseau aveva edificato l’uomo moderno fondando “la regola sul sentimento”, sul “diritto sovrano della passione” che avrebbe comportato “la mostruosa dilatazione dell’io”, e aveva considerato “la natura come fonte di giustizia”. Ma “il ritorno alla natura” era da considerarsi tutt’altra cosa da un mero ritornare, era “un «ascendere» – verso la forte, solarmente pura, terribile natura e naturalezza dell’uomo”, questi infatti assomigliava più a “un predone” e la nostra civiltà poteva considerarsi “un inaudito trionfo” su tale indole. In pratica “il XVIII secolo di Rousseau” aveva dimenticato la vera essenza dell’uomo “per adattarlo alla sua utopia” 97. Il secolo dell’illuminismo era però stato la fonte anche di altre concezioni sbagliate: “la ragione come autorità; la storia come superamento di errori; il futuro come progresso”. L’umanità infatti, secondo Nietzsche non era affatto diretta verso una meta stabilita, nè il suo sviluppo avrebbe implicato necessariamente, miglioramento, “elevazione, potenziamento, rafforzamento...” questa era “un’idea assai recente, molto oscura e arbitraria”; se addirittura l’indice di misurazione di tale sviluppo doveva essere “la tendenza democratica”, allora forse avremmo potuto constatare come, tracciando “attraverso la storia linee isocrone di civiltà, (...) il concetto moderno di progresso”, sarebbe risultato “bellamente rovesciato”98. A riprova di tutto ciò, Nietzsche adduceva l’ampia evidenza di come “l’europeo di oggi” restasse, “nel suo valore, profondamente (trad. it., Frammenti postumi -1887-88- cit., pp. 293-295). 97 F. NIETZSCHE, Nachgelassene Fragmente (1885-87) cit, §§ 9 [116], [125], [130], [184], 10 [2], [3], pp. 402-403, 409, 411, 447-449, 453-455 (trad. it., Frammenti postumi -1887-88 cit., pp. 58-59, 64, 66, 97-99, 105-107), vedi anche Götzen-Dämmerung cit., pp. 150-151 (trad. it. cit., pp 149-150). Cfr. H. TAINE, Les origines de la France contemporaine cit., pp. 160-175. 98 F. NIETZSCHE, Nachgelassene Fragmente (1887-89) cit, § 11 [226], [413], pp. 87, 191 (trad. it., Frammenti postumi -1887-88- cit., pp. 293, 394-395).
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al di sotto dell’europeo del Rinascimento”. Che lo si chiamasse “progresso”, “civilizzazione”, oppure “umanizzazione”, Nietzsche vedeva espandersi ovunque “il movimento democratico d’Europa”, come una sorta di “immenso processo fisiologico che va divenendo sempre più fluido”; egli temeva davvero il “processo di omogeneizzazione degli europei”, e registrava con disincanto il “loro crescente distacco dalle condizioni alle quali devono la loro origine razze vincolate dal punto di vista del clima e delle classi, una loro progressiva indipendenza da ogni milieu determinato”. Queste nuove condizioni avrebbero provocato alla fine “un livellamento medio e un mediocrizzarsi dell’uomo”, al punto che si sarebbe trasformato, inevitabilmente, in “un utile, laborioso, variamente usabile e industre animale da branco”. Un uomo che avrebbe avuto bisogno di un padrone che lo comandava “come del pane quotidiano”. Coloro perciò che erano i più accesi sostenitori delle “idee moderne” dovevano aspettarsi dei risultati ben diversi da quelli sperati, perché “la democratizzazione dell’Europa” sarebbe divenuta “al tempo stesso un’involontaria organizzazione per l’allevamento di tiranni”99. All’affermazione di questo XVIII secolo, Nietzsche aveva contrapposto la chiarezza, l’eleganza, la “greca semplicità” di Voltaire, il quale aveva affermato che l’uomo si poteva perfezionare solo allontanandosi dalla natura, il Voltaire inneggiante all’“invenzione so99 F. NIETZSCHE, Der Antichrist. Fluch auf das Christenthum (1888), in Id., Sämtliche Werke cit., vol. VI, § 4, p. 171 (trad. it., L’anticristo. Maledizione del cristianesimo, Milano, Adelphi, 1986, pp. 5-6), Jenseits von Gut und Böse (1886), in Ibid., § 242, pp. 182-183 (trad. it., Al di là del bene e del male, Milano, Adelphi, 1986, pp. 153-155). I nietzscheani timori di una omogeneizzazione dell’umanità avrebbero influenzato anche uno scrittore come Victor Segalen, convinto che la percezione del diverso e della differenza fosse appannaggio solo delle forti individualità. Il progresso, il confronto tra i popoli anziché lo scontro, minavano nell’intimo ogni diversità. Se l’omogeneità, da un livello più profondo, avesse preso il sopravvento nella realtà sensibile, ecco che alla fine si sarebbe avverato “il reame del tiepido, questo momento di pappa vischiosa senza diseguaglianze, senza cadute, senza sbalzi, prefigurata più o meno dalla degradazione del diverso etnografico” (V. SEGALEN, Essai sur l’exotisme. Une esthétique du divers 1904-18, Cognac, Fata Morgana, 1978, p. 67; trad. it., Saggio sull’esotismo, Bologna, Edizioni del cavaliere azzurro, 1983, p. 84; vedi anche le pp. 23-24, 77).
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ciale”, cioè a dire l’esatto contrario del “sensualismo” di Rousseau; e sempre seguendo questa linea Nietzsche si era richiamato anche al XVII secolo, in tutto ciò che esso aveva di aristocratico, di superbo, di ordinatore verso quanto era animale, e quindi, a maggior ragione, al Rinascimento, l’epoca in cui la virtù non era stata ancora “inacidita dalla morale”, e che aveva racchiuso in sé tutto ciò che poteva considerarsi positivo della “cultura moderna: ossia liberazione del pensiero, disprezzo dell’autorità, vittoria dell’istruzione contro l’alterigia della schiatta, entusiasmo per la scienza e per il passato scientifico degli uomini, affrancamento dell’individuo”100. Il Rinascimento era stato soprattutto lo splendido risveglio dell’ideale classico e pagano, e proprio quest’ultimo, per Nietzsche, aveva rappresentato “la potenza di carattere, spirito e gusto; la «mondanità»; la «felicità» classica, la nobile frivolezza e scepsi, il duro orgoglio, la stravaganza eccentrica e la fredda moderazione del saggio, la raffinatezza greca del gesto, della parola e della forma”. Insomma i due periodi potevano essere accomunati nella concezione di “un tipo superiore d’uomo”, e soprattutto superiore in quanto “immorale”101. Molti erano disposti a riconoscere questa “superiorità”, ma lo facevano in modo superficiale, mancavano di “una visione più profonda” sui greci: avrebbero sì voluto averli ancora qui ma “senza le (...) cause” che avevano determinato la loro civiltà102. L’incapacità di assumere un punto di vista fuori dagli schemi usuali, che permettesse di penetrare in profondità le dinamiche che avevano portato a quel tipo di modernità, sembrava per Nietzsche F. NIETZSCHE, Menschliches, Allzumenschliche cit., Erster Band, §§ 221, 237, pp. 181-82, 199-200 (trad. it., Umano troppo umano cit., vol. I, pp. 153-154, 170171), Nachgelassene Fragmente (1885-87) cit, §§ 9 [31], [178], [183], [184], pp. 349, 440-443, 446-449 (trad. it., Frammenti postumi -1887-88- cit., pp. 66-67, 9293, 97-99), Nachgelassene Fragmente (1887-89) cit, § 11 [414], p. 192 (trad. it., Frammenti postumi -1887-88- cit., p. 395), Zur genealogie der Moral cit., Erste Abhandlung, § 16, pp. 285-288 (trad. it. cit., pp. 40-42). 101 F. NIETZSCHE, Nachgelassene Fragmente (1887-89) cit, §§ 11 [294], p. 114 (Trad. it., Frammenti postumi -1887-88- cit., p. 319), Nachgelassene Fragmente (1885-87) cit, 10 [3], p. 455 (trad. it., Frammenti postumi -1887-88- cit., p. 107). 102 F. NIETZSCHE, Nachgelassene Fragmente (1887-89) cit, § 11 [133], p. 62 (trad. it. Frammenti postumi -1887-88- cit., pp. 270-271). 100
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riguardare la maggioranza degli intellettuali del suo tempo. Così commentava: “I filosofi e i moralisti ingannano se stessi, credendo di uscire dalla décadence per il semplice fatto che muovono guerra contro di essa. Uscire è qualcosa al di fuori della loro forza: quel che essi scelgono come rimedio, come àncora di salvezza, è esso stesso nient’ altro che una nuova espressione della décadence – essi trasformano la sua espressione, ma non la eliminano”103. Per questa ragione, nella ricerca del malessere spirituale del tempo, si doveva andare oltre le analisi di John Stuart Mill e Tocqueville104, oltre l’attenta lettura delle opere di Bourget, di Brunetiëre, al di là del fondamentale testo dello stesso Taine, pur così influente nella cultura europea post-1870. Certo, come Taine, Nietzsche aveva riconosciuto che la causa principale della rivoluzione francese era stato il razionalismo seicentesco, il cui padre era Cartesio. E dunque proprio Cartesio poteva a tutti gli effetti considerarsi “il nonno della rivoluzione”, ma il bisturi di Nietzsche si era spinto ancora più in profondità, finendo per far risultare insufficiente persino l’analisi di Renan, perché anche l’autore della Reforme, in fondo, “nelle proprie viscere” era rimasto cristiano, cattolico, persino prete, ed il suo spirito aveva contribuito a smidollare ancor più “la povera Francia malata, malata nella volontà”105.
F. NIETZSCHE, Götzen-Dämmerung cit., pp. 72-73 (trad. it. cit., p. 68). K. ANSELL-PEARSON, An Introduction to Nietzsche as a Political Thinker: the Perfect Nihilist, Cambridge, Cambridge University Press, 1994, pp. 7-8. 105 F. NIETZSCHE, Götzen-Dämmerung cit., pp 111-112 (trad. it. cit., pp. 107108), Jenseits von Gut und Böse cit., § 191, p. 113 (trad. it. cit., p. 90), Nachgelassene Fragmente (1885-87) cit, § 8 [4], p. 335 (trad. it., Frammenti postumi -188587- cit., p. 321). Cfr. G. CAMPIONI, Les lectures françaises de Nietzsche cit., pp. 4142, 48-49, 74, 147-150. Da notare che i critici contemporanei accostarono Nietzsche e Renan: Georges Brandes li accomunò sotto il medesimo ombrello del “radicalismo aristocratico” (G. SHAPIRO, Nietzsche Contra Renan cit., p. 211); per Brunetiëre invece Nietzsche non aveva fatto che “esprimere a voce alta quello che i nostri Flaubert e Renan avevano pensato sottovoce”, e addirittura Alfred Fouilléè, nei primi del Novecento, definì la filosofia del tedesco un “renanismo esasperato e senza sfumature” (G. CAMPIONI, Les lectures françaises de Nietzsche cit., pp. 86-88). 103 104
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Se Renan aveva messo in contrapposizione democrazia e scienza, se ancora aveva considerato il divino e la religione come alleate di quest’ultima contro “il materialismo volgare” e “la meschinità dell’uomo egoista”106, Friedrich Nietzsche lo avrebbe sorpassato nel suo assalto alle radici filosofiche e religiose dell’illuminismo107. Renan infatti aveva sbagliato quando aveva cercato di “agghindare il cristianesimo”, esso infatti ci aveva “defraudato del raccolto della civiltà antica” e del paganesimo, aveva utilizzato “il rimorso come mezzo per distruggere l’armonia dell’anima”108. Il cristianesimo in fondo non era altro che “l’espressione di un profondo malcontento per il reale”, che contribuiva costantemente a svalutare e falsificare, fomentando “l’odio contro i sensi, contro le gioie dei sensi, contro la gioia in generale...”. La sua era una “mortale inimicizia contro i signori della terra, contro i «nobili»”. A questo punto Nietzsche portava alla luce le radici stesse dell’illuminismo, e smascherava una volta per sempre il vero colpevole, quello che aveva inoculato “il veleno della dottrina dei «diritti uguali per tutti»”, diffondendolo “nel modo più sistematico”: “concedere l’«immortalità» a ogni Pietro e Paolo, è stato fino ad oggi il più grande e il più maligno attentato all’umanità nobile. – E non sottovalutiamo la sorte funesta che dal cristianesimo si è insinuata fin nella politica! Nessuno oggi ha più il coraggio di vantare diritti par106 E. RENAN, Les apotres (1866), in Id., Œuvres complètes cit., vol. IV, pp. 469470. Vedi anche la La théologie de Béranger (1859), in Œuvres complètes cit., vol. I, p. 314. 107 Cfr. E. FINK, Nietzsches Philosophie, Stuttgart, Kohlhammer Verlag, 1960, p. 123 (trad. it., La filosofia di Nietzsche, Venezia, Marsilio, 1993, p. 133). 108 F. NIETZSCHE, Nachgelassene Fragmente (1887-89) cit., § 11 [408], p. 188 (trad. it., Frammenti postumi -1887-88- cit., p. 391), Der Antichrist cit., §§ 5, 59, 60, pp. 171, 247-250 (trad. it. cit., pp. 6-7, 90-93), e Nachgelassene Fragmente (1885-87) cit, § 8 [4], p. 332 (trad. it., Frammenti postumi -1885-87- cit., p. 318). La Riforma, “un’energica protesta di spiriti arretrati”, ne aveva proseguito l’opera defraudando l’Europa “dell’ultima grande mèsse di civiltà, (...) cioè del Rinascimento” (Menschliches, Allzumenschliche cit., Erster Band, § 237, pp. 199-200 trad. it., Umano troppo umano cit., vol. I, pp. 170-171, Der Antichrist cit., § 61, pp. 250-252 - trad. it. cit., pp. 93-95). Vedi anche Nachgelassene Fragmente (188587) cit., § 9 [129], p. 411 (trad. it., Frammenti postumi -1887-88- cit., pp. 65-66).
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ticolari, diritti di supremazia, un sentimento di rispetto dinanzi a sé e ai suoi pari – un pathos della distanza... La nostra politica è malata di questa mancanza di coraggio! –l’aristocraticità del modo di sentire venne scalzata dalle più sotterranee fondamenta mercé questa menzogna dell’uguaglianza delle anime; e se la credenza nel «privilegio del maggior numero» fa e farà rivoluzioni, – è il cristianesimo, non dubitiamone, sono gli apprezzamenti cristiani di valore quel che ogni rivoluzione ha semplicemente tradotto nel sangue e nel crimine”109. Renan aveva sbagliato anche quando non aveva capito che la scienza era profondamente democratica ed antioligarchica110. Nell’ itinerario intellettuale di Nietzsche la scienza, insieme al metodo positivista, ma possiamo tranquillamente aggiungere quello illuminista, aveva rappresentato solo uno strumento che, nell’immagine evocata da Eugen Fink, poteva rappresentarsi come una pelle in cui era necessario infilarsi per potersi sbarazzare definitivamente della religione111. La scienza infatti, a causa dell’“intimo odio con cui (...) tratta ogni specie di gerarchia e di distanza”, faceva causa comune con gli “istinti del gregge”112. Nietzsche aveva criticato persino lo stesso bisogno psicologico che era alla radice della visione del mondo scientifica, e cioè “il voler rendere comprensibile; il voler rendere pratico, utile, sfruttabile”. Un modo di vedere le cose che dava valore solo a “quanto può essere numerato e calcolato”. Ma siamo sicuri, si chiedeva ancora il tedesco, che questo sia “davvero un «comprendere»”113? La scienza inoltre, in un’epoca dove ormai Dio era morto, non faceva altro che perpetuare sulla terra il suo ricordo, 109 F. NIETZSCHE, Der Antichrist cit., §§ 15, 21, 43, pp. 181-182, 187-188, 217218 (trad. it. cit., pp. 17-18, 24-25, 56-58). 110 F. NIETZSCHE, Götzen-Dämmerung cit., pp. 111-112 (trad. it. cit., p. 107) e Nachgelassene Fragmente (1885-87) cit., § 9 [20], [29], pp. 347, 349 (trad. it., Frammenti postumi -1887-88- cit., pp. 9, 11). 111 E. FINK, Nietzsches Philosophie cit., pp. 52-56. 112 F. NIETZSCHE, Nachgelassene Fragmente (1885-87) cit., § 10 [2], pp. 453-454 (trad. it., Frammenti postumi -1887-88- cit., p. 106). 113 Ibid., § 7 [3], [56], pp. 257, 314 (trad. it., Frammenti postumi -1887-88cit., pp. 245, 298-299).
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“e noi”, scriveva Nietzsche, dovevamo “vincere anche la sua ombra”, dovevamo sdivinizzare la natura; “non esistono sostanze eternamente durature: la materia è un errore né più né meno del Dio degli Eleati”114. La critica di Nietzsche era dunque giunta ormai al suo capolinea, all’altro pilastro portante della civiltà occidentale: la filosofia greca, i cui “«concetti sommi», cioè i concetti più generali e più vuoti” non erano altro che “l’ultimo fumo della svaporante realtà”. Quella filosofia, sin dall’“equazione socratica di ragione = virtù = felicità: la più stravagante (...) che sia mai esistita”, aveva avuto “contro di sé (...) tutti gli istinti dei più antichi Elleni”. Sotto accusa era tutto il pensiero ontologico a partire da Parmenide, bisognava abbattere la metafisica platonica, abbandonare il Dio dei filosofi, tornare ad Eraclito, il quale, scriveva Nietzsche, avrebbe avuto “ragione in eterno nell’affermare che l’essere è una vuota finzione”, nel sostenere che “il mondo «apparente» è l’unico mondo” e “il «vero mondo» è solo un’aggiunta mendace... (...) In realtà, nulla fino ad oggi ha posseduto una più ingenua forza di persuasione che l’errore dell’essere, come fu formulato (...) dagli Eleati: esso ha anzi a suo favore ogni parola, ogni frase che pronunciamo! (...) La «ragione» nel linguaggio: ah, quale vecchia donnaccola truffatrice! Temo che non ci sbarazzeremo di Dio perché crediamo ancora nella grammatica”115.
F. NIETZSCHE, Die fröhliche Wissenschaft cit., §§ 108, 109, 343, pp. 467-469, 573-574 (trad. it. cit., pp. 117-18, 204-205). Questa espressione Nietzsche l’aveva ripresa proprio dal Renan dei Dialoghi che aveva scritto “noi viviamo nell’ombra di un’ombra” (E. RENAN, Dialogues et fragments philosophiques cit., p. 557 - trad. it. cit., p. 73). Cfr. G. CAMPIONI, Les lectures françaises de Nietzsche cit., pp. 52, 84. 115 F. NIETZSCHE, Götzen-Dämmerung cit., pp. 69, 75-78 (trad. it. cit., pp. 64, 70-73). E. FINK, Nietzsches Philosophie cit., pp. 119-120, 139-142, 145-148, 165166. 114
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8. Il corto circuito dell’antilluminismo: Georges Sorel
Nel periodo che va dal 1870 al 1914 l’Europa godette di una relativa pace interna e di un generale miglioramento delle condizioni di vita dovuto al fatto che, l’estendersi dell’industrializzazione, aveva recato benessere e prosperità in zone del continente che sino ad allora ne erano state a mala pena lambite. In particolare gli ultimi anni del secolo furono caratterizzati da un’“euforia generale” che, dal periodo immediatamente successivo al 1870, non si era più avuta. Si era aperta così, nelle parole di David Landes, la belle époque, un’ era in cui “sembrava che tutto andasse bene di nuovo, nonostante il tintinnare di armi e i moniti marxisti sull’ «ultima fase» del capitalismo”1. Questo periodo fu segnato anche da una profonda trasformazione della vita politica e culturale di molti stati, nei quali cominciarono a prendere piede i cosiddetti fenomeni della “democratizzazione” e della “nazionalizzazione” della masse2. I sistemi liberali dovettero cioè cercare di adattare i propri modelli rappresentativi, oramai obsoleti, all’incontrastato affermarsi del suffragio universale, che ovunque andava sostituendo il potere di origine divina, quale principale fonte di legittimazione3.
D.S. LANDES, The Unbound Prometheus. Technological Change and Industrial Development in Western Europe from 1750 to the Present (1969), Cambridge, Cambridge University Press, 2003, p. 231 (trad. it., Prometeo liberato, Torino, Einaudi, 1978, p. 302). 2 G. L. MOSSE, La nazionalizzazione delle masse (1974), Bologna, Il Mulino, 1975, pp. 25-48. Renzo De Felice, nell’introduzione all’edizione italiana, tende a sottolineare la complessità del problema della “nazionalizzazione” delle folle in masse e l’importanza delle singole specificità nazionali, al punto che tale difficoltà può diventare “probabilmente irrisolvibile se si vuole dilatare, sino a quasi a trarne un modello, l’esperienza tedesca della «nuova politica»” (Ibid., pp. 15-16). 3 D. SETTEMBRINI, Storia dell’idea antiborghese in Italia cit., pp. 7, 165, Z. STERNHELL, Naissance de l’ideologie fasciste, Paris, Fayard, 1989, pp. 26-27. 1
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8. Il corto circuito dell’antilluminismo: Georges Sorel
In netta contrapposizione a questa tendenza, gli anni che precedettero la guerra furono caratterizzati invece, dal punto di vista intellettuale, da una profonda avversione contro quello che si riteneva essere il materialismo imperante che stava accompagnando il mutamento socioeconomico. In Italia, per esempio, ha scritto Settembrini, personaggi così diversi come Giovanni Amendola ed Arturo Labriola, furono accomunati dal medesimo “aristocratico disprezzo verso l’aspirazione delle masse ad un po’ di benessere”, per il timore del “grigiore di una vita non più rischiarata da alte mete puramente spirituali”4. Animato da simili considerazioni, William James, replicando a L.T. Hobhouse, che aveva messo in luce il carattere precario delle vittorie dell’illuminismo, sempre soggetto al rischio di una regressione nella barbarie, aveva invece constatato come la sua vittoria fosse stata in realtà talmente schiacciante, da renderci eccessivamente “raffinati”, estranei al vero “contatto con la vita guerriera”, e quindi incapaci di nutrire qualsiasi slancio di ardore bellico o religioso, incapaci persino di gioire in un inarrestabile declino verso “l’aridità”5. Con l’inizio del secolo si poté ormai parlare apertamente di una vera e propria “rivolta contro la ragione”, di cui James fu senza dubbio uno dei principali artefici, insieme a Henri Bergson che, pascalianamente, aveva esaltato l’“intuizione” di contro alla cartesiana facoltà di analizzare6. Prima di loro, come abbiamo visto, c’era stata l’opera di Nietzsche, la cui influenza, antecedente al 1918, secondo Steven Aschheim era stata molto profonda in ogni direzione, sia nel
D. SETTEMBRINI, Storia dell’idea antiborghese in Italia cit., p. 118. In C. LASCH, The True and only Heaven, New York-London, Norton & Company, 1991, pp. 294-295 (trad. it., Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica, Milano, Feltrinelli, 1992, p. 277). “La colpa cronica del liberalismo”, aveva scritto James nel 1902, in una prolusione tenuta davanti alla “Graduate School” di Harvard, “è la sua mancanza di velocità ed entusiasmo” (in R.B. PERRY, The Thought and Character of William James (1935), New York, Harper & Row, 1964, p. 240). 6 H. BERGSON, Introduction à la métaphysique (1903), in Oeuvres, Paris, PUF, 1963, vol. I, p. 431. 4 5
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campo “progressista” che in quello “reazionario”, contribuendo in tal modo a rendere queste due categorie quasi irrilevanti7. Nel 1892 l’autore dello Zarathustra era infatti diventato di moda a Parigi, e agli occhi di molti intellettuali ed artisti aveva rappresentato una sorta di antidoto al decadentismo che fino ad allora aveva regnato incontrastato nella cultura e nell’arte francese. Come per la Germania anche in Francia i suoi caustici aforismi sarebbero fermentati nei circoli anarchici e socialisti e tra i conservatori radicali, uniti in questa occasione dalla medesima ansia di rigenerazione culturale, sia che da una parte si sostenesse una libertà individuale senza alcun ostacolo, sia che dall’altra si incitasse, senza alcuna mistificazione, alla violenza antiborghese. A personaggi come Hugues Rebell o Henri Mazel che, nelle parole di quest’ultimo, consideravano lo “stupido socialismo” umanitario un pasto prelibato per “coccodrilli nietzscheani”, finivano perciò involontariamente per essere associati socialisti come Henri Albert, Georges Sorel o Daniel Halèvi che, in sintonia con la visione di Albert, consideravano Nietzsche un socialista che avrebbe contribuito a liberare il proletariato dalle sue catene8. Nietzsche, in Francia, addirittura, avrebbe rappresentato qualcosa di più, sarebbe divenuto una specie di vero e proprio collante tra la generazione del 1890 e quella del 1912, divise dall’affaire Dreyfus9. Questo avvenimento sarebbe stato infatti decisivo affinché la destra e la sinistra estrema, fossero sottoposte ad una sorta di processo di mutazione che le avrebbe completamente trasformate, creando le basi per inedite alchimie rivelatesi poi la vera e propria “culla” teorica del fascismo, la reazione più originale all’illuminismo ed alla modernità sorta nella prima metà del ‘900, e che assurse ben S.E., ASCHHEIM, Nietzsche and the German Radical Right 1914-1933, in Z. STERNHELL (ed.), The Intellectual Revolt against Liberal Democracy cit., p. 160 nota, vedi anche H. ALTHAUS, Nietzsche. Una tragedia borghese (1985), Bari, Laterza, 1994, p. 491, M. SERRA, Nietzsche und die französischen Rechten, “Nietzsche Studien,” XIII (1984), pp. 617-623. 8 C.E. FORTH, Nietzsche, Decadence, and Regeneration in France, 1891-95, “Journal of the History of Ideas”, 1993, n. 1, pp. 109-110, 112, 114-115. 9 Ibid., p. 98. 7
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presto al rango di una vera e propria terza via tra il liberalismo ed il socialismo marxista10. Dopo l’affaire parte della sinistra non conformista avrebbe abbandonato il campo ideologico della liberal-democrazia, nell’intento di salvare il salvabile dell’impostazione rivoluzionaria del socialismo; nel tentativo così di non farsi fagocitare dalla democrazia e dal riformismo, quella sinistra avrebbe così inevitabilmente abbandonato per strada tutti i suoi relitti illuministici. Tale fu l’esperienza che dette vita al sindacalismo rivoluzionario. Dall’altra parte, in un processo speculare ma inverso, la destra avrebbe cominciato a fare i conti sul serio con la modernità politica e gradatamente si sarebbe convinta dell’opportunità di accettare persino il suffragio universale, quale nuova fonte della legittimità politica, sebbene in modo strumentale ed in funzione di una concezione del popolo inteso quale entità organica11. Questo trapasso, naturalmente, non sarebbe stato indolore e sarebbe andato a confliggere contro la tradizione reazionaria tout court che aveva continuato a tenere alta la propria polemica contro il suffragio anche dopo le grandi crisi del 1848 e del 1870-71; nel 1895 Charles Benoist, per esempio, rispolverando la vecchia polemica cattolica antiprotestante ancora una volta aveva alzato l’indice contro il carattere “inorganico”, “molecolare”, ed “anarchico” del suffragio universale12, e Charles Maurras, in seguito, difendendo la causa della monarchia tradizionale nella sua celebre Enquête, aveva attaccato il nazionalismo repubblicano di Dérouléde, il mito dell’infallibilità del po-
10 Z. STERNHELL, Naissance de l’ideologie fasciste cit., pp. 11-13. Per un punto sul più recente dibattito storiografico sulla definizione ed i caratteri del fascismo vedi A. CAMPI (a cura di), Che cos’è il fascismo? Interpretazioni e prospettive di ricerca, Roma, Ideazione Editrice, 2003. 11 Cfr. G. LE BÉGUEC, J. PRÉVOTAT, 1898-1919. L’éveil à la modernité politique, in J. SIRINELLI (a cura di), Histoire des droites en France, Paris, Gallimard, 1992, vol. I, p. 214. 12 C. BENOIST, La crise de l’Etat moderne: de l’organisation du suffrage universal, Paris, Firmin Didot, 1895, p. 29. Cfr. P. BIRNBAUM, Catholic Identity, Universal Suffrage and “Doctrines of Hatred,” in Z. STERNHELL (ed.), The Intellectual Revolt against Liberal Democracy cit., pp. 233-251.
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polo ed il suffragio universale che, con le parole di André Buffet, veniva descritto come una chimère cornue13. Nel 1913 in Italia, Domenico Corradini, alfiere della nuova idea nazionalista, poi confluita nel fascismo, avrebbe annunciato la “revisione” della democrazia, “forma politica” della decadenza borghese, “costituita a vantaggio di pochi e a danno di tutti”, vero e proprio “ideal regime” del “parassitismo proletario” e di quello “plutocratico”, tale revisione sarebbe stata compiuta, per Corradini, proprio ad opera dello stesso nazionalismo. Egli infatti avrebbe finalmente dichiarato di accettare la democrazia, ma solo in quanto nazionale, perché fondata non su una generica “sovranità del demos”, ma su di “un ente che vive di vita meravigliosa attraverso i secoli, e che si chiama nazione”. Corradini pertanto considerava la sua posizione come “l’antitesi di ciò che oggi volgarmente si chiama reazionario”, perché comunque la democrazia era espressione di “valori nuovi” e dei mutamenti della vita moderna, con cui si doveva fare i conti14. Era chiaro che a rappresentare il legame con la vecchia critica controrivoluzionaria stava il comune carattere antindividualistico ed organico perché, come avrebbe ribadito alcuni anni più tardi lo stesso Maurras, dietro la democrazia liberale si ergeva in ogni caso “l’idolatria dell’individuo contato come singola persona, contato fintantoché è un individuo”15. Tra il nazionalismo organicista e parte del sindacalismo rivoluzionario ci sarebbe stata una sorta di convergenza nella lotta senza quartiere al materialismo fomentato dalla borghesia conservatrice e dal proletariato riformista, a sua volta uniti, come si andava affermando con disprezzo, dalle sole “questioni di ventre”16. Mentre il C. MAURRAS, L’ Enquête sur la Monarchie (1900), Paris, Nouvelle Libraire Nationale, 1924, p. 67. 14 D. CORRADINI, Nazionalismo e democrazia (1913), in Id., Scritti e discorsi 1901-1914, Torino, Einaudi, 1980, pp. 202-203, 206-207. Corradini avrebbe anche scritto “noi siamo la riforma protestante italiana del cattolicesimo democratico” (Ibid., p. 208). 15 C. MAURRAS, Dictionnaire politique et critique, Paris, A la cité des livres, 1932, p. 307. 16 D. SETTEMBRINI, Storia dell’idea antiborghese in Italia cit., pp. 125-126. 13
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nazionalismo, aprendosi alla risoluzione della questione sociale degli emarginati, avrebbe di conseguenza lasciato cadere la sua componente socialmente conservatrice, il sindacalismo, nella battaglia contro la democrazia razionalista, avrebbe abbandonato la sua impostazione rigidamente classista, sostituendo “il primato del proletariato, giudicato carente dal punto di vista rivoluzionario, con quello della nazione”. Alle soglie della prima guerra mondiale, questa congiunzione, afferma Sternhell, sarebbe stata cosa fatta, e insieme, tali tendenze, con tutte le loro contraddizioni, sarebbero confluite nel fascismo. Nell’estate del 1914, in Italia, nazionalisti, futuristi e revisionisti rivoluzionari, trovarono “le truppe, le condizioni storiche ed il capo”, che gli avrebbero permesso “di portare a compimento la lunga incubazione intellettuale iniziatasi all’inizio del secolo”17. Quando Mussolini, nella voce enciclopedica sulla dottrina del fascismo, avrebbe tracciato una sorta di genealogia intellettuale del suo movimento, riconoscendo debiti e tributando onori, non avrebbe dimenticato, tra gli altri, Georges Sorel18. E Jacques Julliard, a questo proposito, ci racconta un aneddoto, per la verità contestato, ma altamente simbolico, secondo cui “il governo bolscevico dell’URSS e quello fascista avrebbero proposto contemporaneamente di restaurare la tomba di Georges Sorel che il governo francese aveva lasciato cadere in abbandono”19. Non vogliamo con ciò alimentare la vexata quaestio sulla valutazione delle presunte simpaZ. STERNHELL, Naissance de l’ideologie fasciste cit., pp. 42, 44, 13 (trad. it., Nascita dell’ideologia fascista, Milano, Baldini & Castoldi, 1993, pp. 42, 44, 11), vedi anche D. SETTEMBRINI, Storia dell’idea antiborghese in Italia cit., p. 165. 18 B. MUSSOLINI, La dottrina del fascismo (1932), in Id., Scritti politici, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 265. Ma già in un’ intervista rilasciata ad un giornale inglese alcuni anni prima, elencando le influenze ricevute da Nietzsche, James e Sorel, Mussolini aveva ribadito che era “nei confronti di Georges Sorel che [aveva] il più grosso debito”. Era stato infatti “quel maestro di sindacalismo che, per mezzo delle sue teorie sulle tattiche rivoluzionarie” aveva contribuito in modo decisivo “alla formazione della disciplina, delle energie e del potere delle coorti fasciste” (“Sunday Times”, 11 aprile 1926, p. 15). 19 J. JULLIARD, Georges Sorel e la sfida del pensiero (1990), prefazione a G. SOREL, Riflessioni sulla violenza, Milano, Rizzoli, 1997, p. 5. 17
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tie politiche che Sorel espresse alla fine della propria esistenza, se queste cioè fossero maggiori per il regime sovietico o per l’esperienza fascista allora in fieri, ma, prendendo a prestito le efficaci parole di Giuseppe Goisis, non possiamo fare a meno di considerare Sorel “come un elemento-portante, e fra i più saldi, di quella «cultura-ponte» che, negli anni precedenti al primo conflitto mondiale, andava articolandosi in Europa tra settori estremi dell’universo politico, a prefigurazione di quel «blocco storico» mirante a comprimere i settori più moderati, che sarà impresa politica del fascismo italiano plasmare compiutamente”20. In questa breve e succinta storia intellettuale, Sorel assume pertanto una forte valenza idiomatica, perché in lui convergono, come in una sorta di crocevia, in modo diretto ed indiretto, quasi tutti i sentieri dell’antilluminismo che siamo andati sin qui tracciando. Nel suo pensiero, infatti, generando un vero e proprio corto circuito dell’antilluminismo, confluiscono, senza soluzione di continuità, i reazionari cattolici, Marx depurato dalle scorie “scientifiche”, Taine e Renan, Nietzsche, ed in modo originale persino la tradizione repubblicana, mediata attraverso Proudhon, per non citare poi gli autori temporalmente a lui più vicini, come James e Bergson, poco sopra ricordati. Come ha scritto ancora Goisis, Sorel è stato il trait d’union tra gli “umori più neri” dell’Ottocento e la cultura della “crisi della civiltà” che avrebbe animato la Germania degli anni ‘20 e la Francia della successiva decade21. Nel 1897, come ci racconta Sorel, egli stesso pose fine alla breve infatuazione verso il socialismo scientifico e decise di rompere con l’ortodossia marxista, di terminare quell’ idillio che era sbocciato nel 1893 con la scoperta di Marx e la pubblicazione dell’articolo Science et socialisme, in cui si era allora sostenuta la pretesa socialista di “stabilire una scienza economica”, la quale comportava la conseguente e necessaria applicazione dei suoi teoremi, poiché, come aveva riassunto sinteticamente e con chiarezza, “ciò che è razionale 20 21
G.L. GOISIS, Sorel e i soreliani, Venezia, Edizioni Helvetia, 1983, p. 94. Ibid., p. 72.
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e dimostrato deve diventare reale”22. Adesso invece le aspettative sulla “necessarietà” delle previsioni di Marx ed Engels venivano svuotate di significato e le si reputava solamente quali indicazioni di senso comune in vista di determinate conclusioni pratiche senza alcuna pretesa scientifica. Le leggi bronzee del capitalismo erano state smentite dai fatti, e Marx in realtà, per Sorel, aveva solo voluto mettere in guardia i rivoluzionari dalle illusioni sulla rivoluzione secondo “la moda antica”23. Nella famosa disputa tra Bernstein e Kautsky, la posizione di Sorel era stata chiara: il primo aveva avuto il merito di rivelare come Marx avesse “fatto le sue ricerche in vista di giustificare delle tesi socialiste preconcette”, impedendogli di compiere “un lavoro sotto ogni riguardo soddisfacente”, il trionfo del secondo invece avrebbe significato “la rovina definitiva del marxismo, spogliato ormai di ogni interesse scientifico”24. Il colpo finale ai residui legami che tenevano unito il marxismo ai suoi presupposti illuministici sarebbe stato sferrato dopo l’affare Dreyfus, la boa che aveva fatto cambiare rotta a Sorel ed abbandonare definitivamente l’idea di poter conciliare democrazia e socialismo25. Nel medesimo anno in cui Lenin, andava ventilando il pericolo che il proletariato, adagiandosi unicamente sul versante delle richieG. SOREL, Science et socialisme, in “Revue Philosophique,” XVIII (1893), p. 510 (trad. it in G.B. FURIOZZI-a cura di- Scritti sul socialismo, Catania, Edizioni Pellicanolibri, 1978, p. 37). Cfr. Id., Le confessioni (come divenni sindacalista) (1910), Roma, Cadmo, 1984, p. 12. Vedi anche J.J. ROTH, Revolution and Morale in Modern French Thought, “French Historical Studies,” 1963, n. 2, pp. 205-206. 23 G. SOREL, La necessità e il fatalismo nel marxismo (1898) e La crisi del socialismo scientifico (1898), in Id., Democrazia e rivoluzione, Roma, Editori Riuniti, 1975, pp. 99-100, 108, 141. 24 G. SOREL, Bernstein et Kautsky, “Revue Internationale de Sociologie”, 1900 aprile-maggio, (trad. it in G.B. FURIOZZI-a cura di- Scritti sul socialismo cit., pp. 84, 91). Per la polemica tra i due autori tedeschi vedi E. BERNSTEIN, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1899), Bari, Laterza, 1968 e K. KAUTSKY, Bernstein und das sozialdemokratisches Programm. Ein Antikritik, Stuttgart, 1899. La posizione di Kautsky, aveva già scritto a Croce nel giugno del 1899, “indica una completa incomprensione della storia” (G. SOREL, Lettera del 7 giugno 1899, in Id., Lettere a Benedetto Croce, Bari, De Donato, 1980, p. 79). 25 G. SOREL, Le confessioni (come divenni sindacalista) cit., pp. 21-22. 22
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ste sindacali, potesse essere trasformato “in strumento della democrazia borghese” e sperava di ovviare a questa evenienza auspicando altresì la creazione di un partito di “rivoluzionari di professione”26, Sorel amaramente constatava come i socialisti francesi, al congresso di Tours del 1902, avessero candidamente ammesso il loro ricorso alle ideologie democratiche, e Jaurés avesse interpretato il socialismo solo quale mera estensione delle garanzie proclamate dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo. La netta opposizione tra i due tipi di socialismi però, come lui stesso avrebbe confessato più tardi, gli sarebbe stata chiara solo nel 1905, quando stava scrivendo le Réflexions; allora infatti il riformismo parlamentare gli si sarebbe presentato in tutta la sua luce come “degenerazione sofistica” dell’ideologia dell’ ’8927. Nel 1908 Sorel avrebbe scritto a Ferrero come il pericolo maggiore per il proletariato derivasse proprio dalla stessa adorazione, da parte di quest’ultimo, del pensiero borghese, tale la ragione per cui, qualsiasi rivoluzione avesse deciso di marciare con in testa le idee del XVIII secolo, avrebbe finito sempre per “rimpiazzare la borghesia con una borghesia più stupida e più noiosa”28. Pochi anni dopo, nella prefazione ad un’opera del discepolo Berth, Sorel non avrebbe avuto più alcun dubbio: borghesia e proletariato procedevano ormai uniti “sotto la direzione di mammona”29. Per questi motivi, il compito culturale che si era prefisso Sorel era già stato espresso chiaramente nella chiusa delle Illusions, e cioè era quello “di impedire che le idee borghesi giungano ad avvelenare la classe
LENIN, Che fare? (1902), in Opere scelte, Mosca, 1949, vol. I, p. 203. Cfr. D. SETTEMBRINI, C’è un futuro per il socialismo? E quale? Bari, Laterza, 1996, pp. 6875. 27 G. SOREL, Le confessioni (come divenni sindacalista) cit., pp. 26-29. 28 G. SOREL, Lettere a Guglielmo Ferrero, in M. SIMONETTI, Georges Sorel Guglielmo Ferrero fra “cesarismo” borghese e socialismo, “Il pensiero politico”, 1972, n. 1, p. 146. 29 G. SOREL, Prefazione a E. BERTH, Le méfaits des intellectuelles, Paris, Rivière, 1914, p. xxix. 26
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che è in ascesa; è per ciò che non faremo mai abbastanza per spezzare ogni legame fra il popolo e la letteratura del XVIII secolo”30. La tradizione della rivoluzione francese, che aveva protratto i suoi tentacoli sino al 1870-71, era stata infatti sostanzialmente intossicata dall’ideologia della borghesia liberale e non poteva ormai più fornire alcuna luce per risolvere i problemi sociali31. I veri primordi del socialismo pertanto, dovevano essere fatti risalire al 1848 ed al successivo sviluppo economico che, con l’affermazione del capitalismo delle ferrovie e della borsa, aveva ormai relegato nel passato gli obsoleti tentativi giacobini e le varie utopie socialisteggianti32. Richiamandosi al 1848 come discriminante, Sorel di fatto si ricongiungeva alla lunga sequela di valutazioni negative espresse sulla società francese a partire proprio da quell’epoca. Molti autori, da diverse sponde, erano andati infatti rimarcando, sin da allora, il generale decadimento morale del paese. In primis, ad esercitare il suo fascino su Sorel, vi era stato senza dubbio Proudhon, a cui già era stato dedicato un saggio, quel Proudhon che in un’opera del 1853, ampiamente saccheggiata nelle Réflexions, aveva rilevato come ormai “la Francia [avesse perso] i propri costumi”33. Ma importante era stata anche l’opera, specie dopo il 1870, di autori come Le Play, Taine e Renan. A Croce, nel marzo del 1916, G. SOREL, Les illusions du progrès (1908), Paris-Genève, Slatkine, 1981, pp. 285-286 (trad. it., Le illusioni del progresso, in Scritti politici, Torino, Utet, 1971, p. 655). 31 G. SOREL, Ultime meditazioni (postumo, 1928), in Id., “Da Proudhon a Lenin” e “L’Europa sotto la tormenta”, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1974, p. 422. Cfr. Id., Réflexions sur la violence (1908), Paris, Rivière, 1925, p. 137 (trad. it., Riflessioni sulla violenza, in Scritti politici cit., p. 186). 32 G. SOREL, Ultime meditazioni cit., p. 430. 33 P.J. PROUDHON, De la justice dans la Révolution et dans l’église (1853), Paris, Fayard, 1988, p. 86 (trad. it, La giustizia nella rivoluzione e nella chiesa, Torino, Utet, 1968, p. 75). Cfr. G. SOREL, Réflexions sur la violence cit., pp. 331-332; Les illusions du progrès cit., pp. 262-263; Ultime meditazioni cit., p. 430. Importante per Sorel fu anche la condanna che Proudhon aveva espresso nei confronti di tutte le utopie sociali, da Platone a Cabet, vedi P.J. PROUDHON, System des contradictiones économiques en philosophie de la misère (1846), Saint-Amand, Bussière, 1964, p. 260. 30
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Sorel avrebbe confidato che se allora purtroppo si stava ritornando “all’ intellettualismo del XVIII secolo”, era proprio perché “tutti i cambiamenti che si [potevano] credere acquisiti per influenza di Renan e Taine, [erano] definitivamente perduti”34. Renan aveva infatti avvertito da tempo sul “pericolo della supremazia degli interessi materiali”35. Tutti e tre gli autori però, indiscriminatamente, avevano fallito nel loro intento, e cioè quello di “fondare una riforma intellettuale e morale su inchieste, sintesi scientifiche e dimostrazioni”36. Insomma la società contemporanea, per Sorel, sembrava aver perso persino le “radici per una nuova morale”, e non sarebbero certo bastati a salvarla “i gemiti di una borghesia piagnistea”, la cui letteratura non faceva altro che istigare costumi “irragionevoli e scandolosi”37. Anche Nietzsche, il pur lodevole fustigatore della letteratura decadente, il sostenitore del mondo aristocratico e guerriero degli “eroi omerici”, aveva sbagliato pensando che i valori, insiti in quel mondo, “fossero inconciliabili con altri (...) che derivavano da un principio del tutto diverso”. Infatti “il mondo contemporaneo” considerava “come (...) veri valori di virtù, (...) il rispetto della persona umana, la fedeltà sessuale e il soccorso per i deboli”, valori che avevano trovato il proprio compimento nell’ambito della famiglia. A Nietzsche, inoltre, erano sfuggiti anche tutti quei valori che riguardavano i rapporti civili e che, come nel caso degli ebrei, non erano altro che “un miscuglio di precetti igienici, regole sessuali, consigli relativi alla probità, alla benevolenza o alla solidarietà nazionale, il tutto avvolto di superstizioni magiche”38. L’affare Dreyfus aveva rappresentato l’ultimo picco negativo in senso cronologico nel diagramma di questa generale decadenza e 34
240.
G. SOREL, Lettera del 26 marzo 1916, in Id., Lettere a Benedetto Croce cit., p.
G. SOREL, Lettres a M. Missiroli, Lettera del 6 settembre 1915, in Id., “Da Proudhon a Lenin” e “L’Europa sotto la tormenta”, cit., p. 582. 36 G. SOREL, Réflexions sur la violence cit., p. 138 (trad. it. cit., pp. 186-187). 37 Ibid., pp. 346, 338-339 (trad. it. cit., pp. 342, 336). 38 Ibid., pp. 355-364 (trad. it. cit., pp. 349-355). 35
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non aveva fatto altro che dimostrare come il “sublime borghese” non fosse altro che un “valore di borsa”39. Concordemente all’analisi di tutti gli altri autori Sorel rinveniva nell’idea stessa di democrazia, la causa del decadimento, poiché essa era consustanzialmente ostile a qualsiasi ostacolo, a qualsiasi recinto in cui la morale pretendeva di costringere gli uomini, e lungi dal possedere realmente le tanto lodate doti “moralizzatrici”, era al contrario generatrice di “mediocrità”40. La democrazia di cui parlava Sorel era quella che, attraverso la rivoluzione, aveva cercato di inverare e di attuare le idee astratte dell’illuminismo, prendendo “sul serio semplici paradossi scolastici”, dando “un valore realistico a semplici racconti”, e cancellando “la differenza che l’antica società aveva stabilito tra la teoria e la pratica”. Essa inoltre aveva come fondamento la dottrina del contratto, importata dall’Inghilterra di Locke e risistemata definitivamente da Rousseau nel suo opuscolo “meravigliosamente oscuro”41. L’errore fondamentale, scriveva Sorel, sviluppando così l’analisi di Taine e dei reazionari cattolici, era stato proprio nell’aver “tratto dalla mistica alterata e volgarizzata dal protestantesimo, teorie politiche assai difettose”. Seguendo questi “principi paradossali” che consideravano gli uomini come “isole”, le prime società americane avevano elaborato delle costituzioni che avevano in sé “qualcosa di monacale”. I legislatori della rivoluzione francese avrebbero fatto tutto il resto, “grandi ammiratori degli americani e di Jean-Jacques, credettero di compiere un capolavoro proclamando i diritti dell’uomo assoluto”. A questo punto, citando direttamente la celebre osservazione di De Maistre, Sorel si mostrava scettico sulla reale esistenza di “quell’uomo astorico” e di quei princìpi dell’ ’89 che erano alla base di codici a cui la scuola storica del diritto avrebbe riservato molte critiche42. Era appunto basandosi su questi assiomi errati che Ibid., p. 355 (trad. it. cit., p. 348). G. SOREL, Les illusions du progrès cit., pp. 272-273, 333-334. 41 Ibid., pp. 86, 94 (trad. it. cit., pp. 499, 505-506). 42 G. SOREL, Réflexions sur la violence cit., pp. 401-405 (trad. it. cit., pp. 382385). 39 40
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Sièyes aveva raffinato “la sua arte di fabbricare costituzioni irrealizzabili fondate sui più astratti princìpi”; a tale “genere” di arte si era appassionato anche Condorcet, e leggendo le sue “scempiaggini”, non ci si doveva dunque stupire se semplicemente constatavamo come tutte le rivoluzioni che si erano succedute in Francia, fossero alla fine “sfociate in dittature”43. Le idee del XVIII secolo erano state, in sostanza, il risultato della conquista della Francia da parte di una oligarchia borghese. “Il progresso” ne aveva rappresentato l’elemento ideologico centrale che sarebbe giunto integro sino alla democrazia moderna, perchè tale dottrina, scriveva Sorel, permetteva “di godere in tutta tranquillità i beni dell’oggi, senza preoccuparsi per le difficoltà del domani”. Il progresso infatti non si esauriva “affatto nell’accumulazione dei mezzi tecnici, e neppure nelle conoscenze scientifiche, ma nell’ornamento dello spirito, che, ormai libero di pregiudizi, sicuro di sé e fiducioso nell’avvenire, si è creato una filosofia che assicura la felicità a tutti coloro che possiedano i mezzi per vivere con larghezza. La storia dell’umanità è una sorta di pedagogia che ci conduce dallo stato selvaggio alla vita aristocratica”. Per l’affermazione di questa dottrina erano state di fondamentale importanza, da una parte la famosa disputa tra gli antichi e i moderni, disputa che aveva avuto tali conseguenze da andare ben oltre “il mero campo delle controversie artistiche”, e dall’altra le tesi di Cartesio, il quale, citando direttamente Pascal, si era reso colpevole di aver voluto “fare a meno di Dio” nel suo sistema. Ma, attaccando Cartesio sulla scorta di Pascal e di Bossuet e sulla riga della lezione di Taine e Brunetière, Sorel voleva colpire ciò che veniva indicato come “razionalismo”, vero e proprio sinonimo di “cartesianesimo”, che, nella sua opinione, sarebbe rimasto sempre “il tipo di filosofia francese”, perché adattantesi “perfettamente alle tendenze di un’aristocrazia piena di spirito che si piccava di ragionare ed era desiderosa di trovare il modo di giustificare la propria leggerezza”. Il razionalismo, ov43
580).
G. SOREL, Les illusions du progrès cit., pp. 183-185 (trad. it. cit., pp. 579-
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viamente, avrebbe dovuto distinguersi da quello che invece doveva considerarsi come un ben diverso “impiego scientifico della ragione”. Chiunque fino ad allora aveva osato mettere in discussione il razionalismo, come Bergson, era passato “immediatamente per un nemico della democrazia (...) il più grande pericolo contro il quale debba combattere lo spirito moderno”44. Nel tentativo di convincere i suoi contemporanei dei pericoli che correva la nostra civiltà a causa dell’indifferenza in fatto di morale e di diritto, Sorel, sulla traccia di Nietzsche, per scovare le origini del male presente, doveva andare alle radici stesse dell’età dei Lumi, e cioè al cosiddetto “illuminismo antico”, al Socrate venerato dal XVIII secolo. Era lui infatti che si era tanto battuto per rompere quelle “catene che stringevano il cittadino della città antica”, era lui che aveva fornito ai “dialettici” “un arsenale inesauribile per rovinare tutte le false morali”, proseguendo, in un certo senso, un’opera già avviata dai sofisti, che avevano lavorato “con tanto ardore per rovinare la società greca”. L’etica di Socrate, in definitiva, non poteva “condurre a niente di solido”45. E, ancora come Nietzsche, Sorel avrebbe attaccato i presupposti illuministici del cristianesimo; nel momento in cui questo, sviluppando il suo individualismo, si rese correo della dissoluzione della coesione morale nella società romana e dell’affievolirsi dello spirito guerriero e patriottico, avrebbe causato la conseguente caduta dell’Impero46.
44
460).
Ibid., pp. 65-66, 48-51, 29, 39-41 (trad. it. cit., pp. 481, 467-469, 450, 459,
45 G. SOREL, Le procès de Socrate, Paris, Alcan, 1889, pp. 21, 6, 10, 16. Secondo Goisis, Socrate viene “interpretato come il «cattivo maestro» di un individualismo ottimistico e di un probabilismo etico corrosivo per la polis, e continua, in un crescendo, con cartesiani, ideologi illuministi, giacobini, enciclopedisti, filosofi positivisti, «socialisti della cattedra», professori alla Sorbona: tutti li sferza e li schernisce ne Les illusions du progrès” (G.L. GOISIS, Sorel e i soreliani cit., p. 113). Vedi anche R. VIVARELLI, introduzione a G. SOREL, Scritti politici cit., pp. 12, 40 e J.J. ROTH, The Cult of Violence. Sorel and the Sorelians, Berkeley, University of California Press, 1980, pp. 4-5. 46 G. SOREL, La ruine du monde antique. Conception matérialiste de l’Histoire (1902), Paris, Rivière, 1925, pp. 44, 88-89, 137, 140, 176-177, 186-187.
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È a questo punto che dobbiamo inserire la reinterpretazione soreliana del repubblicanesimo classico, una lettura fortemente moralisteggiante che lo avrebbe fatto andare oltre l’a-morale Nietzsche. Goisis, nell’accostare Sorel a Péguy, ha scritto: “ciò che conta per i nostri due è la virtù, con tutte le risonanze emotive che questo termine possiede nella grande tradizione rivoluzionaria, repubblicana e socialista della Francia”. Eppure si può anche affermare che si tratta di una vera e propria reinterpretazione perché Sorel, nel tentativo di forgiare una nuova “moralità dei produttori”, salda insieme elementi eterogenei, a volte quasi inconciliabili; dagli argomenti della destra reazionaria, ai buoni costumi tradizionali di Proudhon con l’esaltazione della frugalità e della castità; dall’ethos guerrieroaristocratico e superomista di Nietzsche, all’irrazionalismo di Bergson. Senza dimenticare i timori espressi da William James sull’inesorabile declinare dell’importanza dell’eroismo nel mondo moderno, quel James che aveva cercato di rinvenire nel culto della frugalità monastica, l’equivalente morale della guerra nella società di oggi. Tutti questi elementi concorrerebbero perciò, unitamente, nel formare una concezione etica basata fondamentalmente sul sacrificio personale e quindi lontana da una interpretazione utilitaristica ed edonistica della morale dell’illuminismo47. Per Sorel dunque era il proletariato il soggetto portatore di “una civiltà nuova, adatta ad un popolo di produttori”, proletariato la cui concezione morale doveva mantenersi ben distinta da quella borghese dei “consumatori”, che traeva le proprie origini sin nell’antica economia fondata sulla schiavitù. Il socialismo era infatti una “virtù che nasce”, e per questo motivo gli uomini dediti alla causa rivoluG.L. GOISIS, Sorel e i soreliani cit., pp. 273, 103, 44, 170, 173, 272, 363, 2425, 143-145, 155-156. Sul repubblicanesimo di Sorel vedi anche C. LASCH, The True and only Heaven cit., pp. 310, 552-553. Su James cfr. G. Sorel, La religione d’oggi (1909), Lanciano, Carabba, 1919, pp. 42-43. James pensava che “le virtù marziali” potessero essere “il cemento”, “la roccia su cui gli stati sono costruiti”, e riteneva che gli “ideali di disciplina e di durezza militare potevano essere trapiantati nella fibra crescente di un popolo”, anche senza le crudeltà e la degradazione che comportava una guerra (manoscritti in R.B. PERRY, The Thought and Character of William James cit., pp. 229-230). 47
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zionaria dovevano abituarsi a vivere in condizioni modeste, dovevano sentirsi come gli eroi spartani che avevano contribuito a mantenere viva la luce del mondo antico48. Nella concezione di Sorel lo sciopero generale andava così a sostituire la guerra quale palestra di virtù eroiche individuali. Questo infatti veniva immaginato “come immensa sommossa che può ancora essere qualificata come individualista: ognuno segue la sua strada con il maggior ardore possibile, operando per suo conto, senza preoccuparsi affatto di subordinare la propria condotta ad un grande piano d’insieme saggiamente preordinato”. Lo sciopero generale, come la guerra, avrebbe operato una dura selezione tra il proletariato eliminando quegli “elementi pacifici” che avrebbero rovinato “la truppa scelta”, e fomentando “i pensieri virili”, “il sentimento della gloria”, l’“eroismo”49. L’esempio delle repubbliche antiche, che con i loro valori guerrieri avevano fornito “le idee che formano l’ornamento della nostra cultura moderna”, era per Sorel riapparso durante l’epopea rivoluzionaria che aveva visto opporsi “gli uomini liberi delle armate repubblicane agli automi delle armate reali”: con la rivoluzione francese era infatti riapparsa “l’indipendenza romana del padrone delle coltivazioni”, ed avevano ripreso vigore “le «virtù quiritarie», che la letteratura classica aveva per tanto tempo esaltate”50. Il carattere dell’indipendenza personale, tipico del guerriero, lo stoico “sui juris”, pervadevano e giustificavano anche il successo ottenuto da quegli scrittori anarchici che avevano auspicato “la formazione di una società di uomini liberi”, in cui gli individui avessero finalmente acquisito “la capacità di disporre di sé”, influenzando così “la nuova scuola” socialista che si era distinta da quella riformista, proprio 48
385).
G. SOREL, Réflexions sur la violence cit., pp. 401-405 (trad. it. cit., pp. 382-
Ibid., pp. 375, 426, 430, 249 (trad. it. cit., pp. 363, 399, 402, 270). Vedi anche le pp. 433-435. 50 Ibid., pp. 434, 371-372 (trad. it. cit., pp. 406, 360-361). Id., Les illusions du progrès cit., p. 315 (trad. it. cit., p. 678), Il tramonto dell’autorità (1921), in Id., “Da Proudhon a Lenin” e “L’Europa sotto la tormenta” cit., p. 378. 49
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perchè aveva riconosciuto “la necessità di perfezionare i costumi”51. Sempre in questo contesto il socialismo avrebbe fatto meglio a seguire persino l’esempio di Mazzini e dei mazziniani invece di combatterlo, quel Mazzini che aveva mostrato ostilità verso la rivoluzione francese proprio per “il disgusto che provava per la borghesia liberale, avida e rósa da appetiti, che è stata la piaga del XIX secolo”52. Già, perché qui viene fuori l’ambivalente atteggiamento di Sorel nei confronti della rivoluzione francese, che era stata encomiabile solo quando era riuscita a mobilitare le masse, fintanto che era riuscita a fomentare lo spirito bellico, ma che cosa restava di questa “una volta soppressa l’epopea delle guerre contro la coalizione e quella delle giornate popolari”? Queste guerre inoltre “avevano riempito l’animo francese di un entusiasmo simile a quello che provocano le religioni”, come si era già verificato con la credenza nel ritorno del Cristo, nel crollo del mondo pagano e nell’instaurazione del regno dei santi da parte dei primi cristiani, credenza che, a prescindere dalla sua attuazione, sarebbe stata di estrema importanza per l’affermazione successiva del cristianesimo, e come sarebbe accaduto in seguito anche per la “folle chimera” di Mazzini che aveva contribuito nella creazione dell’unità d’Italia più della scuola politica di Cavour, così la funzione della rivoluzione era stata quella di un mito sociale che aveva mosso gli istinti più profondi, “le tendenze più forti di un popolo, di un partito o di una classe”. Questa ovviamente era anche la forza che animava e si irradiava dalla propaganda per il mito dello sciopero generale, “ravvivata costantemente dai sentimenti che provoca la violenza proletaria”, la cui “eloquente brutalità”, era la risposta più adatta alle lusinghe corruttrici della borghesia53. 51
340).
G. SOREL, Réflexions sur la violence cit., pp. 342-343 (trad. it. cit., pp. 339-
G. SOREL, Lettera del 15 settembre 1918, in Id., Lettere a Benedetto Croce cit., p. 270, e Id., Lettres a M. Missiroli, Lettera del 16 aprile 1921, in “Da Proudhon a Lenin” e “L’Europa sotto la tormenta” cit., p. 730. 53 G. SOREL, Réflexions sur la violence cit., pp. 140, 136, 177-179, 388-389, 130 52
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L’ambivalente valutazione sulla rivoluzione e l’afflato repubblicano, si riscontravano anche nel tentativo teorico di Sorel di recuperare Rousseau dal suo precedente giudizio negativo. Rousseau, infatti, prima bollato come antesignano dell’edonismo borghese e perno delle concezioni politiche astratte settecentesche, in una lettera a Missiroli, veniva descritto come il sostenitore di un protestantesimo spesso definito come aristocratico, ed era indubitabile che molti hommes de progrès avessero visto in lui un reazionario. Queste le ragioni per cui, secondo Sorel, la democrazia moderna aveva di fatto interpretato il contratto sociale “contrariamente alle intenzioni del suo autore”. Tale concezione infatti proveniva piuttosto dai “filosofi odiati da Rousseau che da Rousseau” stesso54. L’ultima incarnazione delle repubbliche antiche si sarebbe avuta con l’esperienza della democrazia sovietica, che si era proposta “di far partecipare al governo la grande massa dei lavoratori”, ed aveva fatto sorgere delle istituzioni che si avvicinavano a quelle escogitate da Proudhon. Mosca era divenuta “la Roma del proletariato”, in lotta contro “le nuove Cartagini” plutocratiche, a cui teneva testa proprio grazie a quelle “virtù quiritarie” che avevano donato a Roma un Impero. “Gli eroici sforzi del proletariato russo”, e i “sacrifici prodigiosi sostenuti dai bolscevichi”, avrebbero meritato perciò una “ricompensa della storia”, e cioè il “trionfo di quelle istituzioni per la difesa delle quali le masse operaie e contadine della Russia” si erano tanto abnegate55. (trad. it. cit., pp. 188, 185, 216-217, 372-373, 180). Autori, ben conosciuti da Sorel, come Le Bon e Sighele avevano già messo in luce la forza del mito nella mobilitazione delle masse (Cfr. Z. STERNHELL, introduzione a, Id. (ed.), The Intellectual revolt against Liberal Democracy cit., pp. 18-19). 54 G. SOREL, Lettres a M. Missiroli, Lettera del 27 dicembre 1914, in “Da Proudhon a Lenin” e “L’Europa sotto la tormenta” cit., p. 532. 55 G. SOREL, Ultime meditazioni cit., p. 430; Réflexions sur la violence cit., pp. 452-454; Les illusions du progrès cit., p. 315. Cfr. G.L. GOISIS, Sorel e i soreliani cit., p. 146. Anche per Sorel, come avrebbe scritto a Croce nel dicembre del 1918, si stava ormai entrando “nel periodo più detestabile della decadenza: quello della plutocrazia, all’americana”. Egli riportava anche un giudizio di Proudhon, espresso alla fine del 1860, secondo il quale “gli americani, con i loro dollari, tutto il loro orgoglio, erano all’ultimo posto fra le nazioni civili, per mancanza d’arte, di
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Quando Sorel era immerso nel bel mezzo della sua battaglia contro il socialismo scientifico aveva scritto a Croce che “invece di teorizzare tanto sul materialismo storico, bisognerebbe prendere le grandi lotte francescane e spiegarle”56. Questa affermazione poteva sembrare allora una sorta di viatico per il suo successivo impegno, una forte azione moralisteggiante e volontaristica che, è bene sottolinearlo, come fa anche Goisis, rimase però, sempre e comunque, nell’alveo del marxismo. Sulla sponda opposta certamente Mussolini non poté non ammirare un uomo che aveva accusato il governo parlamentare di “impedire a qualsiasi risoluzione virile di andare in porto”, che lapidariamente aveva scritto, “non si fa la guerra sotto la direzione di assemblee parolaie”57, ma Sorel, che indubbiamente aveva mostrato curiosità verso il nascente fascismo, definito come “il fenomeno sociale più originale dell’Italia”58, e che aveva dimostrato “il valore della violenza trionfante”, non poteva indulgervi più di tanto perché, come avrebbe scritto a Missiroli, pensava che i disordini scatenati dai suoi accoliti, in difesa dello stato, alla fine avrebbero rischiato di far precipitare di nuovo “l’Italia ai tempi del medioevo”59. Eppure, queste ultime considerazioni, non devono sviarci ed alimentare il possibile equivoco di un Sorel liberale, equivoco originato anche dalla valorizzazione crociana dell’idea di libertà del pensafilosofia, di ragionate nozioni di diritto e di morale” (Lettere a Benedetto Croce cit., p. 271). 56 G. SOREL, Lettera del 7 giugno 1899, in Id., Lettere a Benedetto Croce cit., p. 79. 57 G. SOREL, Réflexions sur la violence cit., p. 428 (trad. it. cit., p. 401). 58 G. SOREL, Lettera del 26 agosto 1921, in Id., Lettere a Benedetto Croce cit., p. 293. 59 G. SOREL, Lettres a M. Missiroli, Lettere del 16 aprile e del 21 giugno 1921, in “Da Proudhon a Lenin” e “L’Europa sotto la tormenta,” cit., pp. 731, 733. I fascisti infatti vennero più volte equiparati, nell’epistolario di Sorel, al gruppo paramilitare filogovernativo Black and Tans che gli inglesi avevano costituito in Irlanda per contrastare gli appartenenti al “Sinn Fein” (vedi Ibid., Lettere del 22 gennaio e 11 marzo 1921, pp. 724, 727, Lettera a Croce del 25 marzo 1921 in Id., Lettere a Benedetto Croce cit., p. 291, Lettera a Ferrero del 13 marzo 1921 in M. SIMONETTI, Georges Sorel Guglielmo Ferrero fra “cesarismo” borghese e socialismo cit., p. 149).
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tore francese, un Sorel “liberale” che addirittura, nelle parole di M. Charzat, potrebbe addirittura definirsi “classico”60. Se anche poi, come fa Julliard, si inserisce l’autore delle Riflessioni sulla violenza, nella scia di Tocqueville e Taine, nel filone della “rivolta individualistica contro lo stato autoritario”, si deve far bene attenzione a come si va declinando il termine “individualismo”, che, nel bene e nel male, in Sorel sembra avere piuttosto cospicue assonanze con l’interpretazione nietzscheana di questa parola, e cioè in modo sicuramente avverso a tutto ciò che siamo andati sin qui delineando come individualismo democratico e liberale. Julliard però ci dice anche di non dubitare affatto dell’individualismo soreliano, “nonostante la diffidenza che (...) ha sempre ostentato nei riguardi dell’ideologia liberale”, perché tale apparente contraddizione deriverebbe dal non aver collocato il liberalismo nel suo contesto storico. Per Julliard infatti “le società liberali non avrebbero potuto sopravvivere, probabilmente, se gli individui che le compongono fossero stati permeati dei princìpi che le ispirano. Che perseguendo l’interesse individuale si produce necessariamente il bene collettivo è un’idea per i tempi di pace. In altri termini è un’idea astratta. L’osservazione più elementare della storia universale ci convince, al contrario, che la salvaguardia e lo sviluppo della società sono fondati sul sacrificio, cioè su un prelievo volontario o forzato dai godimenti individuali e sull’interesse personale a vantaggio della collettività. Morire per la patria o per la rivoluzione o anche per la democrazia non è certamente un’idea liberale”61. Insomma per Julliard le società liberali potrebbero sopravvivere solo grazie “a una virtus ex machina”, grazie ad una serie di sentimenti quali la devozione, il sacrificio e l’eM. CHARZAT, Georges Sorel et le fascisme. Éléments d’explication d’une legende tenace, “Cahiers Georges Sorel”, I (1988), p. 47, e Id. G. Sorel et la Révolution au XX siècle, Paris, Hachette, 1977. A proposito di Charzat Sternhell ha scritto che “evidentemente, la parola «liberale» è qui usata in un senso a tutt’oggi completamente sconosciuto” (Z. STERNHELL, Naissance de l’ideologie fasciste cit., p. 346; trad. it. cit., p. 358). Per una confutazione dell’interpretazione liberale crociana vedi G.L. GOISIS, Sorel e i soreliani cit., pp. 205-212. 61 J. JULLIARD, Georges Sorel e la sfida del pensiero cit., pp. 14, 16, 18. 60
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roismo recuperati “dagli antichi modi di pensare”62. Qui Julliard sembra riprender la critica che i filosofi “comunitari” anglosassoni hanno mosso al liberalismo e riformulare il loro auspicio di una sua possibile correzione, critica e auspicio che tanto devono alla riscoperta della tradizione repubblicana da parte di una non lontana storiografia sulla rivoluzione americana, e la cui compatibilità con una società liberale, come vedremo più avanti, specie quando si invoca il “bene comune” a discapito delle libertà individuali, è tutta da dimostrare. Se ci focalizziamo direttamente su Sorel, vediamo però come la sua ideologia vada ben oltre le odierne ansie comunitarie e repubblicane, ed abbia delle forti aspirazioni palingenetiche, e di redenzione verso un’umanità nuova, legate ad un socialismo trasformato ormai in un mito quasi religioso, al punto che lo stesso Croce, prima della sua conversione al liberalismo, si era talmente “appassionato” alla sua concezione del sindacalismo, da sperare con essa in “una rigenerazione della presente vita sociale”63. Il 25 gennaio del 1911, Sorel avrebbe scritto, sempre a Croce, lamentandosi di un Lagardelle che andava edulcorando la sua posizione e pretendeva di far credere che, lui e i suoi amici, si erano “associati per superare la democrazia e non per distruggerla”. Nelle righe seguenti, ancora rivolto a Lagardelle, Sorel intavolava una polemica sull’esatto significato hegeliano del termine “superare”, per sostenere la tesi che ogni rivoluzione era “conservazione di certe cose e distruzione di altre”, e come Marx aveva capito che il socialismo doveva conservare “le acquisizioni dell’economia capitalistica”, così se si preservava ancora “l’organizzazione democratica”, si contribuiva a mantenere anche “il potere dei politici su tutte le cose”, che era esattamente il contrario della rivoluzione concepita dal marxismo64. Ibid. B. CROCE, L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, Bari, Laterza, 1965, p. 24. Cfr. D. SETTEMBRINI, Storia dell’idea antiborghese in Italia cit., pp. 85-100, e Id., C’è un futuro per il socialismo? E quale? cit., pp. 66-67. 64 G. SOREL, Lettera del 25 gennaio 1911, in Id., Lettere a Benedetto Croce cit., p. 175. 62 63
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Sorel dunque, nonostante il radicale antidemocraticismo, come Marx continuava a pensare che si dovessero sciogliere le briglia al capitalismo, il quale, addirittura, grazie all’ ardore di “una borghesia affamata di conquiste e ricca”, avrebbe potuto raggiungere “la sua perfezione storica”. Il “progresso reale” fomentato dal capitalismo era infatti la premessa necessaria per la rivoluzione che avrebbe soppresso i padroni. In sostanza, al fine di portare l’industria al più alto grado che la scienza e la tecnologia potevano permettere di raggiungere, andavano fatti proseguire di pari passo sia “il progresso morale del proletariato (...) che il progresso materiale delle attrezzature”. Stava infatti, oltre che nello sviluppo delle forze produttive, proprio nello sforzo “epico” del proletariato, nella sua rinuncia ad ogni “ricompensa personale”, quella “virtù segreta” che, permettendo “di realizzare una officina liberamente funzionante e prodigiosamente progressiva”, avrebbe assicurato “nel mondo”, dopo l’estinzione del capitalismo borghese, “la continuità del progresso”, anche attraverso una continua sollecitazione del “lavoratore alla ricerca scientifica”. Per favorire questi processi, perciò, non si dovevano assolutamente assecondare i tentativi, allora in atto, di formare una coalizione tra socialisti parlamentari, moralisti, chiesa e la stessa democrazia, “per cercare di riformare l’economia in senso medioevale, per mezzo di leggi”, e, come sempre avevano fatto i marxisti, si dovevano denunciare quali “reazionari pericolosi i filantropi che, allo scopo di evitare al popolo le sofferenze provocate da ogni grande trasformazione economica, [volevano] ostacolare colle loro regolamentazioni il progresso reale”65. Il capitalismo dunque, convertito dalla rivoluzione, non avrebbe avuto più, come suoi eroi, i capitani d’industria che, sollecitati dalla violenza rivoluzionaria avevano nuovamente imparato a sviluppare le proprie antiche “qualità bellicose”, un po’ come gli americani che, lanciati alla conquista del far west erano abituati a lottare per la soG. SOREL, Réflexions sur la violence cit., pp. 120, 345, 384-385, 388, 122 (trad. it. cit., pp. 172-173, 341, 370, 372, 174), e Les illusions du progrès cit., pp. 282, 276 (trad. it. cit., pp. 653, 649). 65
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pravvivenza ed erano caratterizzati dallo sprigionarsi dell’energia creatrice; adesso sarebbe stato lo stesso proletariato a divenire protagonista, assurgendo ormai al rango di “superuomo”66. Il proletariato, però, lo abbiamo appena visto, avrebbe dovuto essere l’interprete di una rigenerazione morale, basata su una riforma dei costumi “spartana” e “monastica”. Come si potevano conciliare la sombartiana bramosia di conquiste materiali, il “rugged individualism” negli affari economici, che nella modernità era avanzato legandosi strettamente all’individualismo “culturale”, all’“io senza restrizioni”, con una società caratterizzata da saldi costumi etici? La contraddizione nel pensiero di Sorel era quella che sin dai primordi dell’affermarsi del cosiddetto umanesimo commerciale e dell’economia politica, aveva attanagliato la tradizione politica conservatrice67. Secondo Goisis, appunto, egli “non s’avvedeva completamente, del legame esistente fra la crescente anomia nel campo dei costumi e l’anomia immanente dello sviluppo economico che, lasciato a sé stesso, dissolveva ogni più antica e consacrata consuetudine e assestava una ferita gravissima, direi definitiva, a quei ceti artigiani e contadini che erano, a guardar bene, i principali portatori della prisca moralità così diletta all’animo di Sorel”68. E in fin dei conti il legame stretto con quei ceti, sembrava ripresentarsi nel riecheggiare di una vecchia polemica, cara alla tradizione repubblicana, contro il capitalismo finanziario, contro i moneyed men di swiftiana memoria: Sorel infatti, alla fine, pareva definitivamente ritrarsi di fronte a forme di capitalismo che non fossero strettamente legate alla produzione, metteva in guardia dagli “abusi provocati da un regime plutocratico”, e riscontrava l’attrazione fatale della borghesia verso le società anonime, verso le speculazioni di borsa che, nel creare enormi fortune, avevano avuto ben altra parte “che le felici innovazioni introdotte nella produzione da abili capi d’industria”. In questo modo la G. SOREL, Réflexions sur la violence cit., pp. 120, 358-359 (trad. it. cit., pp. 173, 350-352). 67 Su questo aspetto mi permetto di rimandare a M. LENCI, Capitalismo, cultura comune, tradizione: il dilemma dei conservatori cit. . 68 G.L. GOISIS, Sorel e i soreliani cit., p. 111. 66
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ricchezza avrebbe teso “sempre più ad apparire distaccata dall’economia della produzione”, e a perdere contatto con i principi del diritto civile69.
69 G. SOREL, Les illusions du progrès cit., pp. 297, 305-306 (trad. it. cit., pp. 664, 670-671).
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“Noi abbiamo conquistato la realtà e perduto il sogno. (...) È precisamente come se la vecchia inetta umanità si fosse addormentata su un formicaio; e la nuova svegliandosi s’è trovata le formiche nel sangue, sicché da allora è costretta a compiere i moti più violenti senza potersi liberare da quella sordida smania di animalesca laboriosità. (...) La matematica è entrata come un demone in tutte le applicazioni della vita (...), è l’origine di un perfido raziocinio che fa, sì, dell’uomo il padrone del mondo, ma lo schiavo della macchina. L’intima sterilità, il mostruoso miscuglio di rigore nelle minuzie e l’indifferenza per l’insieme, la desolata solitudine dell’uomo in un groviglio di particolari, la sua inquietudine, la malvagità, la spaventosa aridità di cuore, la sete di denaro, la freddezza e la violenza che contraddistinguono il nostro tempo, sarebbero (...) unicamente e semplicemente conseguenze del danno che un ragionare logico e rigoroso arreca all’anima”. Questa impietosa valutazione sulla civiltà occidentale la possiamo leggere nel capolavoro di Robert Musil, “L’uomo senza qualità”, uscito in due volumi nel 1930 e nel 1933, ma concepito e quindi successivamente redatto sin dal 19231. Nello stesso romanzo, esemplificativo del funzionamento e delle dinamiche spersonalizzanti e massificatrici di tale civiltà, si faceva riferimento all’idealtipo rappresentato dall’ ancor più futuribile “concetto di una specie di città super-americana, dove tutti corrono o s’arrestano col cronometro in mano. Aria e terra costituiscono un formicaio, attraversato dai vari piani delle strade di comunicazione. Treni aerei, treni sulla terra, treni sotto terra, posta pneumatica, catene di automobili sfrecR. MUSIL, Der Mann ohne Eigenschaften (1930-33), in Id., Gesammelte Werke, Reinbek bei Hamburg, Rowohlt, 1978, vol. I, pp. 39-40 (trad. it., L’uomo senza qualità, Torino, Einaudi, 1972, vol. I, p. 35). 1
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ciano orizzontalmente, ascensori velocissimi pompano in senso verticale masse di uomini da l’uno a l’altro piano di traffico; nei punti di congiunzione si salta da un mezzo di trasporto all’altro, e il loro ritmo che tra due velocità lanciate e rombanti ha una pausa, una sincope, una piccola fessura di venti secondi, succhia e inghiotte senza considerazione la gente, che negli intervalli di quel ritmo universale riesce appena a scambiare in fretta due parole. Domande e risposte ingranano come i pezzi di una macchina, ogni individuo ha soltanto compiti precisi, le professioni sono raggruppate in luoghi determinati, si mangia mentre si è in moto, i divertimenti sono radunati in altre zone della città, e in altre ancora sorgono le torri che contengono moglie, famiglia, grammofono e anima. Tensione e distensione, attività e amore sono ben divisi nel tempo e misurati secondo esaurienti ricerche di laboratorio (...); per essere felici non ha importanza lo scopo prefisso, ma solo il fatto di raggiungerlo. E inoltre la zoologia insegna che da una somma di individui limitati può benissimo risultare un insieme geniale”2. Questo dunque, tracciato dalla penna di Musil, era il quadro desolante, quasi da incubo, che ci avrebbe prospettato la vita moderna. In alcuni di quegli edifici, all’angolo di una strada di periferia forse avremmo incrociato uno dei volti dipinti da Otto Dix, o alcuni di quei corpi caricaturizzati da George Grozs, oppure ci saremmo imbattuti, magari, in una delle scene ritratte da un qualsiasi altro artista della Neue Sachlichkeit. Anche la cinematografia, allora in una vera e propria età dell’oro, si era cimentata, con le potenzialità del nuovo mezzo espressivo, in questo esercizio di descrizione critica, spesso cinica, della realtà, a volte frammista a divinatori presagi catastrofici. Un film come Metropolis del connazionale di Musil, Fritz Lang, nel 1927, prescindendo dal lieto fine della storia d’amore, aveva delineato i contorni inquietanti e drammatici dal punto di vista sociale ed esistenziale della vita futura in un conglomerato urbano robotizzato, e l’anno successivo, King Vidor ne La folla avrebbe messo sotto accusa l’individualismo esasperato e gli spietati 2
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Ibid., vol. I, p. 31 (trad. it. cit., vol. I, pp. 26-27).
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meccanismi della società americana. Ma le critiche più acute ai caratteri alienanti della civiltà industriale – civiltà da cui era sembrato voler cercare scampo Murnau in Tabù del 1931, trovando rifugio nella Polinesia stilizzata di Gaugin – sarebbero venute da due opere, distanti nelle modalità narrative se pur vicine nello spirito, come A me la libertà di René Clair, girato nello stesso anno di Tabù, e il celeberrimo Tempi moderni di Charlie Chaplin del 1936. Era senza dubbio l’avvelenamento e l’insudiciamento causato dalla distopia moderna che “il Selvaggio”, uno dei protagonisti del romanzo di Aldous Huxley Brave New World, si ritrovava a scaricare nel bagno. Alla domanda di Bernardo, “avete mangiato qualcosa che v’ha fatto male”? egli, facendo cenno di sì, aveva risposto lapidario, “ho mangiato la civiltà”3. Nonostante David Luft ci abbia assicurato che le invettive di Musil non sono quelle di un ribelle irrazionalista contro la civiltà4, è pur vero che nelle sue parole, come nelle opere artistiche sopracitate, prendono corpo molti di quei temi e di quelle problematiche in cui si sarebbe articolata la polemica antilluministica tra il 1914 ed il 1945: condanna del materialismo, della massificazione e meccanizzazione della società, della sua democratizzazione con la conseguente omogeneizzazione culturale verso il basso, indice puntato contro l’apologia del progresso scientifico e tecnologico e contro il dominio del danaro e del profitto capitalistico; tutti mali che potevano anche essere riassunti sotto un unico termine di nuovo conio, per certi versi destinato a diventare vero alias della civiltà illuministica, e cioè quello di “americanismo”. I chiaroscuri della descrizione di Musil venivano fatti risaltare maggiormente nello stridente contrasto con lo stile di vita che aveva caratterizzato l’Impero asburgico prima della Grande Guerra, quella “KaKania” dove sì “c’era anche la velocità, ma non troppa”, un regno sulle cui bianche contrade ancora si viaggiava con la diliA. HUXLEY, Brave New World (1932), London, Granada, 1982, p. 193 (trad. it., Il mondo nuovo, Milano, Mondadori, 1971, p. 215). 4 D. LUFT, Robert Musil and the crisis of European Culture 1880-1942, Berkeley, University of California Press, 1980, p. 296. 3
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genza per unire paesi e terre così diverse, dai campi di grano della Boemia alle coste dell’Adriatico, e dove si potevano persino incontrare delle automobili, “ma non troppe”! Era proprio il ricordo nostalgico di questo mondo passato che prima o poi, per Musil, ci avrebbe fatto desiderare di saltar giù dal treno del progresso che procedeva speditamente senza che noi sapessimo in realtà “verso quale meta”. Un bel giorno avremmo provato anche noi la frenesia dello scendere, il “desiderio di esser ostacolati, di non più evolversi, di restar fermi, di tornare indietro al punto che precede la diramazione sbagliata. E nel buon tempo antico, quando c’era ancora l’Impero austriaco, si poteva in quel caso scendere dal treno del tempo, salire su un treno comune d’una ferrovia comune e ritornare in patria”5. Quel mondo descritto da Musil e da romanzieri come Joseph Roth, si era inabissato inesorabilmente nel vortice bellico; “il grande edificio della civiltà ottocentesca”, ha scritto Eric Hobsbawn, “ [era crollato] tra le fiamme della guerra mondiale e i suoi pilastri [erano rovinati] al suolo”, inaugurando così “un’epoca catastrofica” che si sarebbe conclusa solo alla fine del secondo conflitto6. In quell’arco di tempo anche la civiltà borghese e liberale di origine illuministica avrebbe ricevuto una serie di attacchi terrificanti che rischiarono di cancellarla definitivamente dalla faccia della terra; dalla sfida congiunta dei totalitarismi comunista e nazifascista, ad una crisi economica di tale vastità che non aveva vantato precedenti nella storia: “mentre l’economia barcollava”, continua Hobsbawn, “le istituzioni delle democrazie liberali scomparvero tra il 1917 ed il 1942 in ogni paese, tranne che in una piccola fetta d’Europa, nel Nord America e nell’Australia”7. “Il mondo tra le due guerre”, avrebbe ribadito Bertrand Russel, “era attratto dalla follia”, e “di 5 R. MUSIL, Der Mann ohne Eigenschaften cit., vol. I, p. 32 (trad. it. cit., vol. I, p. 28). 6 E.J. HOBSBAWM, Age of Extremes. The Short Twentieth Century 1914-1991, London, Michael Joseph, 1994, pp. 22, 7 (trad. it., Il secolo breve. 1914-1991: L’era dei grandi cataclismi, Milano, Rizzoli, 1995, pp. 34, 19). 7 Ibid., p. 7 (trad. it. cit., p. 19).
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questa attrazione il nazismo” sarebbe risultato essere “l’espressione più enfatica”8. E certamente il nazismo avrebbe portato a maturazione il frutto più avvelenato dell’antilluminismo, vale a dire il tentativo da parte di Hitler, di tradurre in pratica l’ideologia razzista moderna, fino a contemplare la guerra di annientamento e lo sterminio del popolo ebraico. Lo stesso termine “razzismo”, ci ricorda Giuliano Gliozzi, non è infatti che un neologismo degli anni ‘309, e lo si può considerare il prodotto della sintesi teorica che Chamberlain aveva operato, all’inizio del secolo, tra il misticismo razzista di Wagner, l’opera di Gobineau e un atavico antisemitismo. Il risultato sarebbe stato il rifiuto di qualsiasi universale, dell’unità stessa della specie umana, con l’assolutizzazione delle differenze, che nel corso della storia erano già state classificate con criteri diversi, passando dalla discriminante del colore a quella linguistica, fino al grado estremo della biologizzazione10. “Il pessimista culturale Hitler”, ha scritto Bracher, “che si era inebriato dell’eroismo tragico di Wagner e di Nietzsche, mise in atto le idee con le quali Gobineau e H.St. Chamberlain, Lagard e Langbehn alla fine del secolo avevano falsificato l’intera storia trasformandola in una lotta di razza”11. Lo stesso nazismo e i suoi esiti aberranti, rischiano però di apparire come una creatura mostruosa calata da un altro pianeta, se non sono necessariamente inseriti in un contesto storico più ampio 8 In K.D. BRACHER, Zeit der Ideologien. Eine Geschichte politischen Denkens im 20. Jahrhundert (1982), Stuttgart, Deutsche Verlags-Anstalt, 1982, p. 121 (trad. it., Il Novecento Secolo delle ideologie, Bari, Laterza, 1999, p. 113). 9 G. GLIOZZI, Le teorie della razza nell’età moderna, Torino, Loescher, 1986, pp. 9-10, 26-30. 10 K.D. BRACHER, Zeit der Ideologien cit., pp. 56-61. Vedi anche G.L. MOSSE, Il razzismo in Europa dalle origini all’olocausto (1978), Bari, Laterza, 1980, A. MEMMI, Il razzismo (1982), Genova, Costa e Nolan, 1989, p. 73, P.A. TAGUIEFF, Razzismo e antirazzismo: modelli e paradossi, in AAVV, Razzismo e antirazzismo (1986), Firenze, La Roccia di Erec, 1992, pp. 45-50. 11 K.D. BRACHER, Zeit der Ideologien cit., p. 208 (trad. it. cit., p. 201). Non dobbiamo dimenticare che anche il comunismo russo non fu esente dalla sindrome razzista come avrebbe testimoniato il riaffiorare dell’antisemitismo di matrice zarista nell’ultima fase dello stalinismo. A questo proposito vedi AAVV, Il libro nero del comunismo (1997), Milano, Mondadori, 2000, pp. 228-231.
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che aveva visto il tentativo di demolire i pilastri politico-culturali della civiltà illuministica sin dall’inizio del Novecento, non solo con il contributo degli autori che abbiamo incontrato nel capitolo precedente, ma anche con la fattiva collaborazione della maggior parte di quelle avanguardie artistiche i cui esponenti possono essere inclusi nella vasta ed imprecisa definizione di modernismo12. In un senso però ancor più vicino e cogente per la nostra disamina, si deve considerare quella sorta di ideale dibattito sulla “crisi della civiltà”, che si svolse nel mondo occidentale, tra il 1914 ed il 1945, e a cui parteciparono alcuni tra i maggiori intellettuali del tempo che, sia a destra che a sinistra, furono uniti dalla stessa ansia fustigatrice delle istituzioni liberali. L’ attacco all’illuminismo fu inoltre reso più micidiale per il fatto che, a tale dibattito, presero parte anche un bel numero di ‘pensosi’ liberali, preoccupati anch’essi ed estremamente critici su alcuni aspetti della società moderna 13. Due opere sembrano emergere come boe di riferimento ai limiti temporali di questo periodo, il celeberrimo Der Untergang des Abendlandes di Oswald Spengler, vero e proprio battistrada del Kulturpessimismus e The Fear of Freedom di Erich Fromm, che cercò di essere testimone ed interprete, fino ai primi anni ‘40, di quell’“irrilevanza e impotenza dell’individuo”, di quello “stato di stanchezza interiore e rassegnazione, (...) caratteristico dell’individuo del nostro tempo anche nei paesi democratici”, che avrebbe indirizzato miriadi di uomini verso l’abbraccio rassicurante del fascismo14. Sotto questo termine, hanno scritto Bradbury e McFarlane, si possono accostare movimenti diversi come l’impressionismo, il post-impressionismo, l’espressionismo, il cubismo, il futurismo, il simbolismo, il vorticismo, il dadaismo, ed il surrealismo, accomunati da uno spirito antirealista tendente verso l’astrazione (M. BRADBURY, J. MCFARLANE, The Name and Nature of Modernism, in Id. (eds), Modernism (1974), Hassocks, The Harvester Press, 1978, p. 23). 13 Cfr. K.D. BRACHER, Zeit der Ideologien cit., pp. 123-124 che individua proprio nell’antiliberalismo “il vero punto di cristallizzazione”, delle polemiche intellettuali tra le due guerre. Questo dibattito, in realtà, sarebbe continuato anche per tutti gli anni successivi, sino alla fine degli gli anni ‘50, analizzando le ragioni e le cause dell’affermarsi dei totalitarismi. 14 O. SPENGLER, Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der 12
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Per capire i caratteri di quell’anticiclone che avrebbe caratterizzato il clima intellettuale in questo lungo periodo, si deve obbligatoriamente partire dalla grande guerra, perché senza di essa non è possibile neppure concepire quel dibattito che stiamo cercando di ricostruire. François Furet ha scritto che “la guerra del 1914 ha nella storia del XX secolo lo stesso carattere di matrice che la rivoluzione francese ha avuto per il XIX”; da essa non a caso, scaturirono le esperienze di Lenin, Mussolini ed il primo fallimento di Hitler15. Il conflitto fu fondamentale perché portò a termine l’opera di mobilitazione totale del cittadino, oramai catapultato al centro della politica di massa. Questa fu anche la percezione di Musil, in linea con l’opinione di molti altri intellettuali, e cioè che la guerra fosse stata una vera e propria rivolta di massa contro la civiltà, contraddistinta dal crollo di tutte le tradizioni ideologiche precedenti, dal cristianesimo al marxismo, ma soprattutto dal declino irreversibile della cultura liberale individualista, della ragione e del progresso16. Quest’ultima, per Musil, si era resa rea di aver trasformato l’Europa in una terra dove la religione era lettera morta, dove l’arte e la scienza rappresentavano unicamente “un’occasione esoterica”, dove la famiglia era solo un luogo di tedio inserito all’interno di un mondo pervaso da una noia mortale. Questa la ragione per cui, anche per chi non aveva mai creduto prima, la guerra si era trasformata in una sorta di “esperienza religiosa”17. Weltgeschichte (1918-22), München, Beck, 1963; Erich FROMM, The Fear of Freedom(1941), New York, Avon Books, 1965, pp. 265-266, 233 (trad. it., Fuga dalla libertà, Milano, Comunità, 1970, pp. 207, 183). 15 F. FURET, Le passé d’une illusion, Paris, Laffont, 1995, p. 194 (trad. it., Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, Milano, Mondadori, 2001, p. 190). 16 “Guerra come crisi di questa nient’altro-che-civilizzazione. Diventa insopportabile udirne rendere responsabile sempre e soltanto l’imperialismo capitalistico. Capitalista, Bolscevico sono soltanto vecchissime, quasi invisibili diversità del recente tipo d’uomo” (R. MUSIL, Tagebücher, Heft 19, 1919-1921, Reinbek, Rowholt, 1976, p. 530; trad. it., Diari, Torino, Einaudi, vol.II, p. 789). 17 R. MUSIL, Das Ende des Krieges (Ohne titel-1918), in Id., Gesammelte Werke cit., vol. II, pp. 1343-1344. Cfr. D. LUFT, Robert Musil and the Crisis of European Culture cit., pp. 121, 129, 1, 99.
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Gli eventi che si sarebbero susseguiti tra il 1917 e il 1929, ha scritto Robert Wohl, avrebbero recato il colpo di grazia ad ambizioni ed ansie di rinnovamento di quella generazione di intellettuali, nata nell’ultimo ventennio dell’800 e gettatasi con ardore nella guerra. Essi infatti sarebbero usciti dalle jüngeriane “Tempeste d’acciaio” radicati nella convinzione “che il mondo della loro infanzia era morto e che ne stava per nascere uno nuovo”, nonché attanagliati da quella sensazione di incertezza che invadeva gli animi quando si viveva, usando le parole di Ernst Fischer, “nell’abisso fra due epoche”18. Scrittori di provenienza, sensibilità e temperamento molto diversi avrebbero così sottolineato, nel bene o nel male, la frattura epocale, il trapasso tra mondi estranei e distanti; avrebbero dato il là a quel generale pessimismo che pervase l’occidente per tutti gli anni Venti e oltre. Come avrebbe ricordato, nel 1923, l’ex capo del governo italiano, Francesco Saverio Nitti (ma tale sensazione era stata ampiamente condivisa nelle opinioni pubbliche dei paesi belligeranti), si era affrontato il conflitto con “ardore mistico”, credendo “non solo di lottare per la (...) patria, ma per la civiltà”19. Due anni prima, sempre Nitti, aveva constatato amaramente come trenta milioni di morti avessero diviso per sempre l’Europa di ieri da quella di oggi e l’avessero definitivamente convinto del fatto di aver “vissuto due epoche storiche, non due periodi differenti: l’Europa che era lieta e prospera, dopo la immensa guerra, [era] minacciata da una decadenza e da un abbrutimento, che [faceva] ricordare la caduta dell’impero romano”20. In questa cupa atmosfera di decadenza anche Ferdinand Tönnies, nel 1920, nella prefazione alla ristampa della sua opera più famosa, aveva sentenziato seccamente: “tra la seconda e la terza edi18 R. WOHL, The Generation of 1914, London, Weidenfeld and Nicolson, 1980, pp. 226, 229 (trad. it., 1914. Storia di una generazione, Milano, Jaca Book, 1984, pp. 374, 379). 19 F.S. NITTI, L’Europa senza pace (1923), in Id., Scritti politici, Bari, Laterza, 1976, vol. I, p. 15. 20 F.S. NITTI, La tragedia dell’Europa (1921), in Id., Scritti politici cit., vol. I, p. 471.
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zione di questo lavoro si pone la catastrofe della civiltà europea, specialmente tedesca”21. Se dunque era stata catastrofe, in primis lo fu in quanto tedesca, ed è proprio nello scontro tra Kultur e Zivilisation, affondante le sue origini sin nella Germania del Settecento, che rinveniamo la prima e più solida origine di quella forma di antilluminismo che avrebbe innervato tutto il periodo preso in esame in questo capitolo. Fondamentale diviene dunque stabilire il collegamento Illuminismo-civilizzazione, e per ben capirlo si rivela importante il libro di Thomas Mann Betrachtungen eines Unpolitischen, scritto durante la guerra e pubblicato nel 1918, opera che, secondo Marianello Marianelli, “ha aperto, in questo secolo”, “il discorso infinito sulla crisi dell’illuminismo, progressivo o regressivo, corrotto o corretto”, se pur “nel modo peggiore, quasi privando della cittadinanza nella cultura tedesca l’illuminismo per combatterlo meglio con un assalto frontale e sfrontato, ma non del tutto datato”22. Mann, già nei Pensieri di guerra del 1914, era stato chiaro ed esplicito sulla distinzione tra cultura e civilizzazione, esse erano due cose opposte: mentre l’una rappresentava “una certa organizzazione spirituale del mondo” che contemplava sì “unità, stile, forma, compostezza, gusto” ma, al tempo stesso, prefigurando un universo “avventuroso, scurrile, selvaggio, sanguinoso, pauroso”, poteva anche comprendere “l’oracolo, la magia, la pederastia, messe nere, cannibalismo, culti orgiastici, l’inquisizione l’autodafé, il ballo di san Vito, processi alle streghe, fiorir di venèfici e delle più varie atrocità”, l’altra invece non stava che a significare “ragione, illumi21 F. TÖNNIES, Gemainschaft und Gesellschaft (1887), prefazione alla terza edizione del 1920, trad. it., Comunità e società, Milano, Comunità, 1979, p. 29. 22 T. MANN, Betrachtungen eines Unpolitischen (1918), Frankfurt am Main, Fischer Verlag, 1956. M. MARIANELLI, postfazione alla trad. it., Considerazioni di un impolitico, Milano, Adelphi, 1997, p. 610. Nonostante la posteriore evoluzione del suo pensiero politico, nel 1952 Mann avrebbe confessato di non essersela “mai sentita di rompere davvero con le Considerazioni”, mentre l’anno prima era già convinto della possibilità che “la critica fatta dalle Considerazioni alla democrazia occidentale [sarebbe sopravvissuta] a tutte le successive mie benignità nei suoi confronti” (anche questi stralci di lettere sono riportati nella postfazione, in ibid.; trad. it. cit., pp. 591, 603).
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nismo, distensione, ritegno, compostezza, scetticismo, chiarificazione... spirito”23. Nelle successive Considerazioni dunque, Mann avrebbe continuato a dipanare le sue riflessioni intorno a questa dicotomia: la Germania assediata dalle forze dell’intesa, alleate con l’America, non era che l’ennesimo episodio, l’ennesima ripetizione di un copione già messo in scena varie volte nella storia e che aveva sempre visto lo stato tedesco “protestare” contro l’“idea unificatrice romana”, contro lo “spirito occidentale”, adesso incarnatosi nell’“ultima forma” dell’“impero della civilizzazione”. “La germanicità”, era per Mann, “cultura, anima, libertà, arte e non civilizzazione, società, diritto di voto, letteratura”24. Nel titolo del libro vi era già implicita la chiave di lettura principale: l’“impolicità” vantata da Mann era di fatto l’incapacità sua e del popolo tedesco di amare la “politica”, quando si intendeva con questa un alias della democrazia di origine rousseauviana; “non si è politico «democratico» o politico «conservatore»: si è politici o non si è. E quando si è, si è democratici. L’atteggiamento spirituale del politico è in sé democratico; la fede nella politica è fede nella democrazia, nel Contrat social. Da più di un secolo e mezzo tutto quello che in senso più propriamente spirituale si intende per politica, risale a Jean-Jacques Rousseau: è lui il padre della democrazia, per il fatto che è il padre dello spirito politico stesso, dell’umanità politica” 25. Il “nuovo pathos” democratico si era dunque presentato a Mann come “illuminismo politico” “miglioreggiante”, come “rivoluzionaria filantropia della felicità”; esso minacciava inoltre di radicarsi interiormente come “politicizzazione dello spirito”, e quindi anche di estendersi geograficamente al mondo intero. Il suo ideale umano era “il borghese”, un “uomo antifanatico e tollerante, ma anche non più spiritualmente condizionato e insieme protetto, bensì emanci23 T. MANN, Gedanken im Kriege (1914), in Id., Essays II, 1914-1926, Frankfurt am Main, Fischer Verlag, 2002, p. 27 (trad. it., Scritti storici e politici, Milano, Mondadori, 1957, p. 35). 24 T. MANN, Betrachtungen eines Unpolitischen cit., pp. 44, 40, 41, 56-57, 22, 24 (trad. it. cit., pp. 72, 67, 70, 83, 50, 51). 25 Ibid., p. 21 (trad. it. cit., p. 49).
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pato e isolato nella sua individualità”. La Germania ovviamente avrebbe dovuto rifuggire assolutamente da tale processo di democratizzazione, perché fomentava “l’odio inestinguibile, mortale (...) contro le nostre strutture statali, il nostro militarismo spirituale, il nostro spirito dell’ordine, dell’autorità e del dovere...”26. Mann, nella sua foga antilluminista, aveva usato note e toni burkeani e romantici in una partitura sostanzialmente nietzscheana; come per Nietzsche infatti, l’illuminismo (quello falso) veniva considerato la rielaborazione francese delle idee moderne nate in Inghilterra. Riecheggiando Burke e Goethe, Mann condannava quella “filantropolitica” che, “col suo concetto della dignità umana [era] riuscita a guastare del tutto e dappertutto l’istinto della nobile, cavalleresca servitù”, ed ora si accingeva a demolire i suoi ultimi “ruderi più pittoreschi” rimasti in Germania. Il discendente e sostenitore di questa politica, di questo “spirito borghese”, che in nome “dell’illuminismo, della ragione, del progresso, della «filosofia»” si era schierato “contro i signori, contro l’autorità, la tradizione, la storia, il «potere,» la monarchia e la chiesa”, il vero avversario della “Kultur” e del “Mito”, cioè a dire l’odierno illuminista o “democratico rampollo della rivoluzione”, era lo Zivilisationsliterat, che si era incarnato in figure come il fratello Heinrich o lo scrittore francese Romain Rolland27, e che Mann avrebbe poi stilizzato ironicamente in uno dei protagonisti de La montagna incantata, quel Settembrini “che, per quante difficoltà [avesse potuto] rappresentare la parola «progresso umano» (ndr: Menschheitfortschritt) alla sua lingua mediterranea”, ne era comunque un fervente ed ingenuo sostenitore28. Mann ammetteva persino che il progresso potesse considerarsi “inevitabile e ineluttabile”, ma non per questo sentiva il dovere di farne il panegirico; l’uomo infatti non aveva mai considerato “la civilizzazione, il progresso e la sicurezza come il non plus ultra degli Ibid., pp. 31-33, 487-488, 23-24, 28 (trad. it. cit., pp. 59-60, 497, 51, 56). Ibid., pp. 491, 502-503, 48, 51, 74-75, 394, 422, 43-44 (trad. it. cit., pp. 500, 510-511, 75-76, 78, 99, 405, 433, 483, 71-72). 28 T. MANN, Der Zauberberg (1924), Berlin, Fischer Verlag, 1971, vol. I, p. 258 (trad. it., La montagna incantata, Milano, Dall’Oglio, vol. I, p. 268). 26 27
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ideali”, anzi in lui aveva sempre albergato “un elemento eroico-primitivo, una bramosia del terrificante”. La democrazia d’altrocanto avrebbe permesso una suddivisione della società solo tra “mercanti e letterati” rinunciando di fatto al “guerriero” e alla guerra come mezzo di conquiste spirituali; per tale ragione Mann si era sentito in dovere di contrastare il progresso “assumendo una certa posizione conservatrice...” Ed essendo appunto questo un “progresso dalla musica alla democrazia”, intendendo la prima, nell’accezione wagneriana, come potente dissolvitrice della civilizzazione, in questo suo compito di resistenza non c’era strumento migliore dell’arte, “la più forte tra le forze conservatrici”, l’unica che alimentava ancora “in sé certe possibilità dell’anima che, senza di lei, forse, si [sarebbero estinte] per sempre”. Di fronte perciò alla tirannia, già paventata da Nietzsche, della “triplice equazione della saggezza democratica per cui «ragione=virtù=felicità»”, l’arte si sarebbe rivelata l’unico baluardo dell’irrazionalità al completo dominio di tale equazione. In questo lungo passo, che vale la pena ci citare per esteso, sono riassunti tutti i temi della polemica antilluministica di Thomas Mann: “Lasciate pure che si compia ogni utopia del progresso, la redenzione della terra in forza della ragione, ogni sogno di eudemonismo sociale, che diventi realtà il mondo rappacificato dell’esperanto, fate che gli autobus dell’aria sorvolini rombando una «umanità» biancovestita, piamente razionale, apolide e integrata, dotata di un’unica lingua, giunta ai supremi trionfi della tecnica, alla visione a distanza per forza di elettricità: bene, l’arte vivrà ancora, costituirà ancora un elemento di insicurezza, serbando la possibilità, la pensabilità della ricaduta. Ci parlerà ancora di passione e di non-ragione, rappresenterà, alimenterà, celebrerà la passione e la non-ragione, terrà in onore i pensieri e gli impulsi del profondo, li terrà svegli o con impeto grande gli sveglierà, per esempio il pensiero e l’istinto della guerra...Né la si potrà proibire, perché sarebbe contro la libertà. O vivrà l’«uman genere» sotto l’assolutismo, la triplice tirannia della ragione, della virtù e della felicità? Allora è tanto più verosimile che l’arte finisca tutta all’opposizione, e che
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tutto quello che si trovi all’opposizione contro quest’ultima tirannia si attacchi all’arte disperatamente. Allora l’arte assumerà la guida di quel partito che miri a rovesciare la tirannia della virtù – e l’arte è una condottiera affascinante. Insomma, a farla breve: la guerra, l’eroismo di tipo reazionario, ogni stortura dell’irrazionale saranno sempre pensabili e dunque possibili sulla terra finché esisterà l’arte, la cui vita dura quanto l’«umanità» e finisce con lei”29. Questa dunque la polemica conservatrice ed antilluminista di Mann, ma in quel periodo, sganciati dal contesto tedesco, alcuni dei temi da lui evocati si potevano rinvenire, in abiti diversi o con differenti sfumature, in molti dei pamphlet e dei libri che apparvero in Europa contemporaneamente alle Considerazioni, o subito successivamente. Tra i primi a capire l’entità della svolta epocale in atto fu senza dubbio Guglielmo Ferrero. Nell’incipit del primo saggio della sua raccolta del 1918, egli era sembrato voler ricapitolare semplicemente quello che era stato, negli anni immediatamente precedenti, lo scontro tra le opinioni pubbliche e gli intelletti più in vista dei vari paesi belligeranti, cui aveva preso parte anche Mann, opinioni pubbliche ed intelletti intenti a legittimare e sostenere, in termini culturali, l’immane sforzo delle proprie nazioni: “Da tre anni un grande processo si discute innanzi al mondo, per scoprire chi è colpevole di aver assassinato la civiltà europea”. Ma il problema in realtà era per Ferrero molto più profondo, non era questa una faccenda che si potesse confinare ai capi di stato ed alle classi dirigenti, si era davvero in una fase cruciale nella transizione tra la nuova e la vecchia Europa. Da una parte cioè stavano la giovane Europa post-rivoluzione francese e la civiltà americana, che consideravano la grande industria, e quindi la sua capacità di soddisfare i bisogni sempre in aumento, “essere la misura del progresso e la pietra di paragone dei popoli e delle virtù”, dall’altra vi era invece l’Europa dell’antico regime, in compagnia di tutte le altre civiltà che l’avevano preceduta, 29 T. MANN, Betrachtungen eines Unpolitischen pp. 389-391, 455-456, 452-453, 59, 31-32 (trad. it. cit., pp. 400-402, 465, 462-463, 85, 59).
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e che giudicavano tali aspetti quali “sintomi di decadenza”. L’Europa aveva viaggiato per secoli in un mare disseminato di boe che rendevano sicura la navigazione, non aveva mai voluto né troppo armarsi né troppo arricchirsi, ma nel XIX secolo la grande industria e le idee democratiche l’avevano “ringiovanita”. Tutte quelle boe furono così spazzate via perché “sbarravano l’orizzonte, limitavano la libertà, rimpicciolivano il mondo”; per la prima volta nella storia l’uomo era stato posto “di fronte all’illimitato”, ed essendo egli costantemente guidato “da un’inquieta e sempre insoddisfatta ambizione di procedere oltre”, aveva ormai perso definitivamente il senso del limite30. La giovane Europa era salita su un cocchio fabbricato con vecchi materiali e secondo antichi accorgimenti e si era messa a correre all’impazzata, ma “le martinicche e le briglie erano state costruite in tempi in cui gli uomini preferivano andare a passo lento, piuttosto che a rompicollo”; per un certo tratto, così, pur traballando, il cocchio aveva continuato la corsa perché “i nuovi spiriti di libertà, di progresso di democrazia” avevano convissuto con “un grande numero di princìpi di disciplina morale, intellettuale e politica, che, pur venendo spesso a conflitto con i nuovi principi di iniziativa e di progresso, operarono come martinicca”. La guerra però avrebbe definitivamente rotto i freni e strappato le briglie logore31. Nella prospettiva inquietante di questa corsa impazzita tra le distruzioni e le macerie della vecchia Europa, corsa di cui per altro si erano analizzate le ragioni ed indicati i pericoli, Ferrero vedeva comunque rimanere in piedi un’unica istituzione, il suffragio universale, vero e proprio “diritto divino del numero”, perché i governi, dopo aver “estorto alle masse i più terribili tributi di sangue che la storia ricordi”, non avrebbero potuto concedere al popolo altri premi che il riconoscimento della sua volontà come “la sola fonte mistica dell’autorità”32. G. FERRERO, La vecchia Europa e la nuova, Milano, Treves, 1918, pp. 5, 12, 16, 22-25, 29. 31 Ibid., pp. 33-34. 32 Ibid., p. 35. 30
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Anche Paul Valery, riferendosi agli anni della guerra, avrebbe confidato nel 1929 a Georges Duhamel, che si era sentito come “quei monaci del primo medioevo che ascoltavano crollare attorno al loro chiostro l’intero mondo civile e credevan ormai solo alla fine del mondo”33. Tale stato d’animo ci spiega così il perentorio inizio del suo saggio La crise de l’Esprit scritto nel 1919: “Noi, le civiltà, ora sappiamo che siamo mortali”. Valery infatti si era ormai irrevocabilmente reso conto che la civiltà aveva “la stessa fragilità di una vita”. “L’oscillazione della nave” Europa era stata “così forte che anche le lampade meglio appese alla fine [erano] crollate”. Con la potenza dell’ Europa si stava verificando l’inesorabile declino del suo “pensiero”, una mirabile commistione tra il diritto romano, l’interiorità cristiana ed il pensiero geometrico dell’antica Grecia, anche se, in un’altra parte del mondo, tale pensiero, “del quale l’America [era] un prodotto formidabile”, sembrava ancora poter prendere “il sopravvento”34. Valery, non dissimilmente dagli scrittori precedenti, aveva individuato delle potenti tendenze verso la democratizzazione e l’omogeneizzazione della società in tutti sensi ed in tutti campi, la più preoccupante delle quali, per lui, era certamente quella in direzione della cultura. La scienza moderna che aveva acquisito dalla geometria greca “il carattere rigoroso, la scrupolosa economia di «materia», la generalità automatica, la finezza del metodo, e quell’infinita cautela che le permette in realtà le licenze più folli”, una volta che era stata “sperimentata e ricompensata dalle sue applicazioni materiali”, era “diventata veicolo di potere e di dominio concreto, stimolo della ricchezza e apparato di sfruttamento del capitale planetario cessa[ndo] di essere «fine a sé stessa» e quindi un’attività artistica”. Il sapere così si era trasformato in un “valore di 33 P. VALERY, Œuvres, Paris, Gallimard, 1957-1960, vol. I, pp. 1627-1628 (trad. it. in S. AGOSTI, presentazione a P. VALERY, La crisi del pensiero e altri saggi “quasi politici”, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 11). 34 P. VALERY, La crise de l’Esprit (1919), in Id., Œuvres cit., vol. I, pp. 991, 988, 1007-1014 (trad. it., La crisi del pensiero e altri saggi “quasi politici” cit., pp. 30, 27, 48-55).
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scambio”, in una “derrata” da tutti ambita e distribuita nel più ampio modo possibile. Quella disuguaglianza nelle arti, nelle scienze e nelle tecniche che aveva permesso il primeggiare dell’Europa sembrava perciò destinata a sparire. Ma in realtà Valery sperava che esistessero ancora dei margini di libertà “contro questa minacciosa congiunzione delle cose”, contro questo “progresso” che alla fine ci avrebbe fatto “apparire il miracolo di una società animale, un perfetto e definitivo formicaio”; non era in fondo vero che, l’idea dell’uguaglianza delle razze e di una pace perpetua ed universale, erano solo dei “sogni” che si sarebbero infranti “contro i dati e le fatalità etniche”35? Queste preoccupazioni sull’omogeneizzazione culturale, in Nikolaj Trubeckoj, nel 1920, avrebbero assunto la forma di vere e proprie ossessioni. Lo scrittore russo, esule in Bulgaria, avrebbe infatti pure lui notato come la grande guerra e soprattutto la pace che si stava oramai instaurando avessero dappertutto “scosso la fede nell’«umanità civilizzata» e (...) aperto gli occhi a molti”. Egli però si era anche chiesto che cosa fosse in realtà la cosiddetta civiltà, e radunando insieme sotto un’unica insegna tutto l’occidente che si era dilaniato nella guerra, aveva risposto che la civiltà non era altro se non l’elaborazione finale scaturita dall’insieme delle culture dei “popoli romanzi e germanici d’Europa”. Dietro le pretese di universalità, di cosmopolitismo e di progresso di questa civiltà si nascondevano infatti concetti etnografici molto precisi e assai angusti; alla base vi era un vero e proprio “principio anticulturale: l’egocentrismo”, che si era trasformato in una sorta di “sciovinismo romanogermanico”36. Trubeckoj, a prescindere dalla diversità degli ordinamenti dei vari stati o dei sistemi socio-economici, fossero questi capitalisti o socialisti, temeva come un “incubo” l’“ineluttabilità di una europeizzazione universale”, “un male assoluto” contro il quale incitava Ibid., pp. 998-1000, 1003 (trad. it. cit., pp. 38-39, 43). N. TRUBECKOJ, L’europa e l’umanità (1920), Torino, Einaudi, 1982, pp. 6, 10, 12, 15-16, 18-19. 35 36
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alla lotta il resto dell’umanità, non tanto nell’attesa di una grande insurrezione, che riteneva impraticabile, quanto nella speranza che i popoli e le culture che si stavano europeizzando, nella “loro ricezione della cultura europea”, fossero “del tutto capaci di ripulirla dall’egocentrismo”, prendendo a prestito solo quegli elementi a loro più confacenti37. Egli insomma, come avrebbe espresso in alcuni giudizi dopo la pubblicazione della sua opera, auspicava una vera e propria “rivoluzione delle coscienze” che segnasse il “completo superamento dell’egocentrismo e dell’eccentrismo, nel passaggio dall’assolutismo al relativismo”, perché “tutti i popoli e le culture sono equipollenti”, perché “non ci sono né superiori né inferiori”38. Benedetto Croce nel 1919 aveva paragonato Ferrero a Oswald Spengler, accusandoli entrambi di “dilettantismo”39. E lo stesso Mann, pur riconoscendo un comune maestro in Nietzsche, aveva definito Spengler la “sua scimmia astuta”, nient’altro che “un disfattista dell’umanità”, capace soltanto di “profetismo da iena”40. Un giudizio negativo che si poteva accomunare a quello di Musil, che aveva giudicato l’opera di Spengler, fortemente influenzata dalla teoria di Ludwig Klages, e pervasa da assurde pretese scientifiche41. Eppure Ernst Cassirer, quando nel 1945, pubblicando Il Mito dello Stato volle dare nuovo vigore e lustro alle fondamenta illuministiche della nostra società, riprendendo idealmente la sua Filosofia dell’illuminismo degli anni ‘30, avrebbe individuato proprio nello straordinario successo del libro di Spengler, e nella sua “idea di un destino inevitabile, irrevocabile” di declino della nostra civiltà, l’incipit di una moda intellettuale duratura segnata dal pessimismo e dalla perdita di fiducia sulle possibilità “che l’uomo possa avere parte attiva nella costruzione e ricostruzione della propria vita culturaIbid., pp. 65-67, 70. N. TRUBECKOJ, Letters and Notes, Paris, Mouton, 1975, in R. JAKOBSON, prefazione a N. TRUBECKOJ, L’europa e l’umanità cit., p. x. 39 B. CROCE, recensione a O. SPENGLER, Der Untergang des Abendlandes, “La critica,” XVIII (1919), pp. 236-239. 40 In M. MARIANELLI, postfazione alla trad. it. delle Considerazioni cit., p. 600. 41 In T. MALDONADO, introduzione a Id. (a cura di), Tecnica e cultura. Il dibattito tedesco fra Bismarck e Weimar, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 16. 37 38
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le”42. Ugualmente Gennaro Sasso ha sottolineato come il libro di Spengler, prodotto di quella “grande «crisi» di cui anche il conflitto del 1914-1918 fu un aspetto essenziale”, dette “vita al più travolgente e sconcertante «caso» storico-filosofico-letterario del dopoguerra”, ed “ebbe adoratori fanatici (...) e odiatori altrettanto esclusivi ed intransigenti”43. Anche Spengler come Mann avrebbe cavalcato la celebre dicotomia Kultur-Zivilisation, ma estremizzandola e generalizzandola a diade esplicativa della propria morfologia storica oltre il caso tedesco: ogni Kultur veniva così considerata come radicalmente differente da ogni altra, al limite della incomunicabilità. Non si potevano assolutamente concepire “verità universali ed eterne”, lo stesso concetto di umanità era relativo, “l’anima occidentale” era semplicemente “diversa, per esempio, da quella classica o indù”. La civilizzazione, cioè a dire “una demolizione metodica di forme divenute anorganiche e morte”, era invece la fase terminale di ogni Kultur, il suo “compimento e sbocco”, la sua “conseguenza logica ed organica”, e nel caso specifico a Spengler contemporaneo, lo stadio finale di quell’“unica civiltà (ndr. Kultur) che oggi sta realizzandosi nel nostro pianeta, la civiltà euro-occidentale e americana”. Nel mondo antico questo trapasso si era avuto nel IV secolo e per quanto riguarda il mondo moderno si doveva guardare al XIX ed al XX secolo, “presunte culminazioni di una storia mondiale linearmente evolutiva”, che aveva causato l’affermarsi di “un ottimismo sfrenato” nei confronti “di una qualche «ulteriore evoluzione» lineare e meravigliosa” dell’umanità”, e “incurante di ogni dato dell’esperienza sia storica che organica”. Tale evoluzione non era però garantita, per Spengler, da alcuna analisi scientifica, ma solo da un pio desiderio, perché, scriveva in perfetta armonia con Nietzsche, “«l’umanità» non ha alcuno scopo, alcuna idea, alcun piano, così come non lo ha E. CASSIRER, The Myth of the State cit., pp. 289-292 (trad. it., Il mito dello stato, Milano, Longanesi, 1971, 490-496). 43 G. SASSO, Tramonto di un mito. L’idea di «progresso» tra Ottocento e Novecento, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 31, 16, 23, 28. 42
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la specie delle farfalle o quella delle orchidee. «Umanità» è o un concetto zoologico o un vuoto nome”. Anche Nietzsche però aveva commesso un errore, quello di aver inserito “i suoi concetti di decadenza, di nichilismo, di revisione di tutti i valori, di potenza”, che pure Spengler riteneva pertinenti a spiegare la “sostanza della civilizzazione occidentale”, nel paradigma antichità-medioevo-era moderna, senza mai superare “simili orizzonti”. Spengler infatti voleva andare oltre la prospettiva particolare dell’ideologo, dell’uomo di partito o del moralista, nelle sue intenzioni bisognava elevarsi ad “un altezza temporale” tale che “lo sguardo” potesse rivolgersi “al mondo storico delle forme di millenni, se si [voleva] davvero capire la grande crisi dell’era presente”44. Tale fase non era altro, dal punto di vista culturale, che il naturale sbocco della trasformazione in senso intellettualistico e scientifico dell’opera di Gioacchino da Fiore, o per usare un termine utilizzato poi da Voegelin, della “secolarizzazione” delle sue vedute a partire dal XVII secolo in una concezione della storia che andava affermando “la sovranità della ragione, l’umanitarismo, la felicità dei più, l’evoluzione economica, l’illuminismo, la libertà dei popoli, l’assoggettamento della natura, la pace mondiale e via dicendo”. In quel secolo infatti si era avuto il trionfo della concezione umanistica e del materialismo, di quel razionalismo che nato dal puritanesimo e sviluppato poi da Locke sarebbe esploso con Hume: “L’illuminismo è la parola d’ordine di questo periodo”, si chiedeva Spengler, “il sole sorge – ma che cosa è che passa nel cielo della coscienza critica”? Il razionalismo infatti non stava a significare altro che “la fede esclusiva nei risultati dell’intelligenza critica, dell’«intelletto»”, e poteva penetrare nel mondo “solo fin dove la divinità lo permette[va]”, solo finché non trovava di fronte “il concetto dell’irrazionale”, nato “da una calma irritazione”45. O. SPENGLER, Der Untergang des Abendlandes cit., pp. 64, 57, 44, 43, 3, 54, 28, 32, 47 (trad. it., Il tramonto dell’occidente, Parma, Guanda, 1991, pp. 81, 73, 58, 57, 13, 69, 39-40, 44, 61). 45 Ibid., pp. 27, 934, 938, e più estesamente pp. 927-948 (trad. it. cit., pp. 38, 44
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I secoli dell’illuminismo avevano dunque segnato, da una parte l’“ascesa della democrazia”, e con essa dell’era dei partiti che avevano sostituito le caste e avevano esercitato “sulle masse cittadine” un’influenza che poteva intendersi “quasi nei termini di una nuova rivelazione”: “Noi viviamo in un’epoca di fiducia illimitata nell’onnipotenza della ragione”, aveva scritto Spengler, “le grandi idee universali di libertà, di diritto, di umanità, di progresso sono sacre. Le grandi teorie sono dei vangeli”. E queste teorie, figlie appunto dell’illuminismo, erano state i due sistemi del liberalismo e del socialismo, pienamente maturati tra il 1750 e il 1850 ed ormai volgenti “verso la fine”: “Quello di Marx ha oggi quasi un secolo di vita ed è l’ultimo rimasto. Con la sua concezione materialistica della storia esso rappresenta, interiormente, l’estrema conseguenza del razionalismo epperò anche una fine. Ma come la fede nei diritti dell’uomo banditi da Rousseau perdette la sua forza col 1848, del pari la fede di Marx ha perduto la sua con la guerra mondiale”46. L’idea democratica moderna, di origine rousseauviana, agli inizi aveva avuto qualcosa di eroico e spirituale: “non vi è nulla di più nobile e puro della seduta notturna del 4 agosto 1789 e del giuramento della pallacorda o dei sentimenti che animarono gli uomini raccolti nella chiesa di San Paolo a Francoforte, dove, avendo nelle mani il potere, essi indugiarono in discussioni su verità universali fino a che le forze della realtà ebbero il tempo di raccogliersi e di avere ragione dei sognatori”. Adesso, in realtà, l’idea democratica si era trasformata in un’istituzione puramente fittizia: “quanto più il suffragio si fa universale, tanto minore è il potere effettivo della massa elettorale”. Prendendo spunto dalla teoria delle élites e dall’esempio americano, Spengler vedeva come ineluttabile la formazione di gruppi dirigenti organizzati nella gestione del denaro necessario per le elezioni e, una volta costituitesi tali minoranze, avrebbero svuotato di significato le stesse elezioni e condannato le masse al 1100, 1104, 1092-1116). 46 Ibid., pp. 1118, 1122, 1128-1130 (trad it. cit. pp. 1314, 1319-1320, 13261328).
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“non aver più influenza di sorta”. Il tanto conclamato diritto di eleggere i propri rappresentanti rimaneva così solo sulla carta, “giacché in realtà ogni organizzazione sufficientemente sviluppata si dà da sé i propri capi”. Fittizia era anche la concorrenza tra due partiti, perché quelle “potenze” che erano sorte con il sistema del suffragio, andavano “a controllare mediante il danaro tutti gli strumenti intellettuali offerti dalla parola e dalla stampa tanto da dirigere a loro piacimento l’opinione dei singoli circa i partiti, mentre esse, disponendo di cariche, di influenze e di leggi educa[va]no un gruppo a loro completa disposizione, (...) il caucus, il quale soppianta[va] tutti gli altri facendoli cadere in una inerzia elettorale tale, che alla fine non [poteva] venir più superata nemmeno nelle grandi crisi”47. Sempre con l’illuminismo, soprattutto con le teorie di Hume e Smith, si era avuta la nascita dell’economia politica, cioè a dire una forma di economia “indipendente”, “in sé conchiusa e che sta in un qualche rapporto causale con la politica e la religione concepite parimenti come domìni a sé”. Un’economia che, nell’ultimo secolo e mezzo, aveva “preso uno sviluppo fantastico, pericoloso e alla fine quasi disperato, sviluppo esclusivamente occidentale e dinamico e per nulla proprio all’umanità in genere”, e che aveva fatto tramontare qualsiasi altra considerazione spirituale, per cui, ormai, “il senso della vita” era rappresentato solo dalla comodità; il benessere e la felicità dei più, dal “panem et circenses”48. “Dal freddo intellettualismo borghese del diciottesimo secolo”, erano dunque derivati per Spengler sia il capitalismo che il socialismo, sistemi economici comunque incentrati sul “meccanicismo e l’industrialismo, ignoti a tutte le altre civiltà”, con l’unica differenza che Marx aveva “cercato di spostare agli oggetti dell’economia i vantaggi goduti dai suoi soggetti”. Il dinamismo e la vitalità della forma moderna di economia si erano moltiplicati proprio grazie all’invenzione della prima macchina a vapore, che conteneva in nuce 47 48
Ibid., pp. 1131-1132 (trad. it. cit., pp. 1329-1330). Ibid., pp. 1146-1147, 1149-1150 (trad. it. cit. pp. 1344-1345, 1349).
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quell’“idea della macchina” nata nel medioevo e concepita come un “piccolo cosmos” che obbediva “esclusivamente alla volontà dell’uomo”. Con l’industria meccanica, scriveva Spengler non senza stupore ed ammirazione, l’uomo aveva creato “un sistema fantastico di mezzi di comunicazione che ci fa attraversare i continenti in pochi giorni, che ci porta con città galleggianti di là da ogni oceano, che trafora montagne e lancia convogli a velocità pazze nei labirinti delle ferrovie sotterranee; e dalla vecchia macchina a vapore, da tempo esaurita nelle sue possibilità, si è passati ai motori a gas per infine staccarsi dalle vie e dalle rotaie ed elevarsi negli spazi. Così la parola parlata in un attimo può essere inviata oltre ogni mare; prorompe il piacere per records di ogni specie e per le dimensioni inaudite, ambienti giganteschi vengono costruiti per macchine titaniche, navi enormi e ponti ad incredibile gettata, costruzioni pazzesche che raggiungono le nubi, forze meravigliose incatenate in un punto in modo tale che basta la mano di un bambino per metterle in movimento, opere di cristallo e di acciaio che vibrano nel frastuono di ogni specie di meccanismi nelle quali l’uomo, questo essere minuscolo, si muove come un signore assoluto sentendo finalmente sotto di sè la natura”49. Tutto ciò era stato conseguente al graduale imporsi di quella che Spengler aveva definito “la tecnica faustiana”, ed il cui scopo non era stato appunto altro che il dominio sulla natura, la sua “interrogazione violenta per mezzo di leve e di viti”, là dove il tradizionale approccio in uso nell’antichità ed in altre civiltà aveva previsto invece la pura contemplazione o il metodo degli alchimisti, intenti a scoprire la pietra filosofale, in virtù della quale avremmo potuto “possedere senza fatica i tesori della natura”. L’anima faustiana della tecnica nascondeva un aspetto “diabolico”, essa significava “la detronizzazione di Dio”, e prefigurava un uomo che alla fine sarebbe “divenuto schiavo della sua creazione”, sospinto in direzioni non
49 Ibid., pp. 1147, 1146, 1187-1190 (trad. it. cit., 1346, 1344, 1345, 1389-1390, 1392).
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volute, dove non ci si poteva più fermare, né avere la “possibilità di tornare indietro”50. I due strumenti, dei simboli a tutti gli effetti, con cui si manifestava la potenza della civilizzazione erano la “metropoli” ed il “danaro”. Mentre la prima significava “cosmopolitismo in luogo della «patria», il freddo senso pratico in luogo del rispetto per quanto è stato tramandato ed è maturato, l’irreligiosità scientista come dissoluzione del precedente fervore religioso, la «società» in luogo dello Stato, i diritti naturali in luogo di quelli acquisiti”, il secondo era “una grandezza astratta, inorganica, priva di ogni relazione col senso di una terra fertile e coi valori originari di una economia domestica”51. Con l’illuminismo la civiltà occidentale nel suo complesso avrebbe acquisito “caratteri intellettualistici e da grande città”, ed anche il danaro avrebbe assunto nuovi tratti, divenendo “faustianodinamico-relazionale”, abbandonando il dato corporeo ed apollineo della moneta metallica coniata, per quello della mera “funzione”; sarebbe divenuto sempre più astratto andando “a penetrare, ad intellettualizzare e a dominare le correnti dei beni”. Le stesse parole “guadagno, profitto, speculazione”, non alluderebbero altro per Spengler che “ad un saccheggio su base intellettuale”. Il risultato non avrebbe potuto perciò essere che un’economia mondiale contemporanea “fatta di valori astratti, liquidi, del tutto disgiunti dal suolo”, disgiunti anche dalla stessa industria in quanto “legata alla terra”, con “le sue sedi, i suoi impianti, le sue sorgenti di energia vincolate al suolo”, un’economia dominata dall’“alta finanza (...) completamente libera, completamente inafferrabile”, ed in cui “il pensiero finanziario genera il danaro”52. Questa descrizione prefigurava quindi nel “danaro” l’emergere di una potenza più grande della stessa “macchina”, la “vera sovrana del secolo”, che era ormai in procinto di essere rovesciata. “Le poIbid., pp. 1187-1188, 1190 (trad it. cit. pp. 1388-1389, 1393). Ibid., pp. 45-46 (trad it. cit., p. 60). 52 Ibid., pp. 958, 1156, 1165, 1167, 1192, 1177 (trad it. cit., pp. 1128, 1357, 1366, 1369, 1395, 1379). 50 51
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tenze private dell’economia”, infatti, volevano “avere le mani libere per la conquista delle grandi fortune”, a costo di sbarazzarsi di qualsiasi impedimento legale, servendosi, alla bisogna, dei partiti da essi foraggiati. A questo punto non c’erano più dubbi, la democrazia implicava l’“identità perfetta fra danaro e potere politico”. È qui dunque che, nell’“onda cosmica in perenne circolazione” si profilava l’ennesimo scontro tra il “sangue” e il denaro, “la lotta che l’ anima, che la tradizione di una razza avente le sue radici nella terra, combatte contro lo spirito del danaro”. Solo “la vita, la razza, il trionfo della volontà di potenza”, potevano avere la meglio sul “trionfo della verità, delle invenzioni o del danaro”. Per questo Spengler prefigurava l’avvento di un cesarismo che avrebbe spezzato “la dittatura del danaro e della sua arma politica, la democrazia”, utilizzando quegli stessi mezzi parlamentaristici, le elezioni e la stampa, tanto disprezzati, e di cui bisognava “rendersene signori”. Qui venivano delineati i precisi contorni del “socialismo prussiano” di Spengler, distante dalle potenze del danaro e dal capitalismo, come dal socialismo di Marx, un socialismo che implicava invece “la volontà di dar vita ad un forte ordinamento politico-economico di là da ogni interesse di classe, ad un sistema compenetrato da una preoccupazione aristocratica e da un sentimento di dovere”53. Emblematico per la nostra narrazione e per gli ulteriori sviluppi che la polemica antilluminista assunse fino alla seconda guerra mondiale, è dunque l’ atteggiamento ambiguo tenuto da Spengler nei confronti della tecnica, emblematico cioè di quel rapporto strumentale che molti autori di destra (a sinistra già si era percorsa questa strada) avrebbero sviluppato nei riguardi della modernità. L’impostazione di questo problema in Spengler, ed in seguito in altri autori54, ma ne abbiamo già incontrato una significativa anticipazione 53 Ibid., pp. 1193-1195, 1167, 1119 (trad it. cit. pp. 1396-97, 1369, 1398, 1397, 1315). A questo tentativo di unire lo spirito prussiano con i valori del socialismo emendato dai suoi residui illuministici Spengler aveva dedicato il libro Preussentum und Sozialismus, München, Beck, 1919. 54 Nell’opuscolo “L’uomo e la tecnica” pubblicato nel 1931 Spengler, pur nella consapevolezza dell’ineluttabile scomparsa della faustiana “tecnica meccaniz-
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nel rapporto che Sorel mantenne nei confronti del capitalismo, avrebbe esercitato una certa influenza sul fascismo nascente e sul nazismo, nonché in una prospettiva che arriva sino ai nostri giorni, tale visione sarebbe stata all’origine dell’odierna mitologia, diffusa tra molti antilluministi contemporanei, e riguardante i caratteri della modernizzazione del Giappone e i cosiddetti “valori asiatici”. In precedenza abbiamo visto in che modo si era potuti passare dall’odio viscerale verso la democrazia ed il suffragio universale, alla successiva manipolazione per renderli innocui privandoli della loro essenza liberale. Così sarebbe accaduto anche per la “tecnica”, il termine con il quale si indicava il sistema socio-economico del capitalismo industriale nel suo complesso. Spengler, ha scritto Jeffrey Herf, “integrando la tecnica nella rivolta culturale tedesca contro l’illuminismo, andava al di là delle sue stesse funeree conclusioni. I suoi scritti politici promuoveranno l’appropriazione nazionalista delle idee di socialismo e di rivoluzione. Collegando la tecnica alle idee romantiche e irrazionaliste, alla volontà, alla lotta, alla forma, all’anima, al destino e al sangue, egli contribuiva ad annettere la tecnologia al territorio della Kultur”55. zata”, invitava a cavalcarla coraggiosamente perché “il tempo non può essere fermato: non esistono né una saggia inversione di marcia, né una giudiziosa rinuncia. Soltanto i sognatori credono ancora ad una via d’uscita. L’ottimismo è vigliaccheria” (O. SPENGLER, Der Mensch und die Technik -1931- trad. it., L’uomo e la tecnica, Parma, Guanda, 1992, p. 100). Non dobbiamo dimenticare che fu Werner Sombart tra i primi, da destra, a cambiare opinione sull’essenza e sul ruolo della tecnica. Nella sua famosa opera Il borghese del 1913 aveva notato come nel suo sviluppo il razionalismo economico progredisse autonomamente, parallelamente a quanto era accaduto per la tecnica, facendogli temere un inevitabile danno per gli interessi vitali dell’uomo. Appena due anni dopo però nel pieno dello sforzo bellico, in Händler und Helden queste paure sarebbero scomparse in nome del superiore interesse nazionale tedesco (W. SOMBART, Der Bourgeois, München-Leipzig, Duncker & Humblot, 1913, pp. 446-447 (trad it., Il borghese, Milano, Longanesi, 1978, p. 276), Id., Händler und Helden. Patriotische Besinnungen, München, Duncker & Humblot, 1915, p. 125). 55 J. HERF, Reactionary Modernism. Technology, Culture, and Politics in Weimar and the Third Reich (1984), Cambridge, Cambridge University Press, 1986, p. 68 (trad. it., Il modernismo reazionario. Tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 110).
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Questa descritta da Herf risultò essere, in definitiva, la funzione culturale che assunsero anche altri autori, oltre Spengler e Sombart, come Ernst Jünger o Carl Schmitt, da lui definiti quali “modernisti reazionari”. Tutti questi intellettuali, ma potremmo aggiungerne altri tra cui Karl Jaspers ad esempio, furono partecipi, soprattutto dopo la grande guerra, di quel mutamento di clima intellettuale, descritto da Ferenc Feher56, che in parte contribuì a denervare l’ostilità romantica preconcetta nei confronti “della disumanizzazione prodotta dalle macchine”, e a cui senza dubbio non era stata estranea la lezione anteguerra del futurismo italiano e successivamente di quello russo, cioè in sintesi di quella “poesia tutta moderna delle macchine, dell’energia e della velocità” da cui sarebbe stata ispirata nel 1923 anche la celebre Pacific 231 di Arthur Honegger57. Insomma il progresso tecnico e la massificazione della società, per autori di diversa estrazione, avevano davvero inaugurato un’epoca nuova. Questa, in ogni caso, aveva mostrato dei risvolti negativi per la vita e per la storia dell’uomo, aspetti che dovevano essere stigmatizzati, sia che li si respingesse demonizzandoli, sia che gli si accettasse come ineliminabili elementi della vita moderna, sperando di emendarli nel solco del liberalismo, o invece, decidendo di cavalcarli e dominarli, prefigurando le nuove soluzioni politiche totalitarie. Hermann von Keyserling, ne I presagi di un mondo nuovo del 1926, un’opera che all’epoca riscontrò un discreto successo, aveva individuato, oltre l’analisi di Spengler, la rovina di tutte le culture tradizionali che avevano avuto “il loro centro di gravità nel distretto dell’irrazionale” (e non solo quindi di quella occidentale), proprio nella “marcia trionfale della tecnica”. Questa in fondo era legata alla moderna concezione di progresso, “sempre più predominante dal secolo XVII”, concezione che aveva ridotto “il senso della vita alla miglioria delle condizioni materiali, morali e intellettuali della esistenza”. Con essa si era avuta una generale intellettualizzazione del56 57
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Ibid., pp. 3, 13, 16, 38, 40, 42 (trad. it. cit., pp. 29, 39, 42, 69, 71, 73). M. MILA, Breve storia della musica, Torino, Einaudi, 1963, p. 368.
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la società ed un conseguente imbarbarimento, perché privilegiare ciò che è intellegibile significava abbattere “tutte le barriere” in nome della comprensione e della massima eguaglianza e quindi creare una società massificata e insensata. “Il prototipo di quest’èra delle masse”, si era perciò rivelato “l’autista”, ovvero “il primitivo tecnicizzato”, che storicamente si era incarnato nel tipo fascista ed in quello bolscevico. Paradossalmente, verrebbe da dire, per Keyserling il prototipo non era l’America perché, pur essendo le uniche arti significative per l’“autista”, la pittura futurista ed il jazz, nei cui balli moderni si sprigionava “l’elemento primitivo negroide”, in America in realtà ancora si preservavano “molti elementi irrazionali, da noi rimossi”. I sistemi fascista e bolscevico invece implicavano il rinascere di nuovi ordini aristocratici e segnavano inesorabilmente il tramonto dell’èra democratica, che non sarebbe tardato anche in America, e addirittura avremmo assistito “a una rinascita dell’antica idea indiana di casta”58. Anche Keyserling comunque non sembrava serbare rimpianti nostalgici: “non è certo un «regresso» che conduce al di là del «progresso»”, avrebbe scritto, il rinnovamento dello spirito, la possibile “sopraelevazione culturale” dal tipo dell’autista, dai “bolscevichi mefistofelici”, sarebbe avvenuta tramite l’educazione di un nuovo tipo culturale in Europa, il quale avrebbe avuto la responsabilità di “custodire in mezzo alla novella trasmigrazione dei popoli il fuoco sacro dello spirito metafisico e religioso, come lo fecero i conventi all’epoca delle prime invasioni”. Keyserling, a questo proposito, aveva però parlato di un radicale cambiamento nella concezione del sapere e della cultura, sottolineando l’importanza che aveva ormai acquisito l’ odierna “tecnica giornalistica” che, privilegiando la coincisione, la brevità e la chiarezza a discapito dei prolissi “mattoni” su cui si era fondata l’età scientifico-teorica in declino, aveva diG.H. VON KEYSERLING, Die neuentststehende Welt, Darmstadt, Otto Reichl Verlag, 1926, pp 11, 17, 19-29, 42, 45-46, 67-69, 94-97(trad. it., Presagi di un mondo nuovo, Milano, Comunità, 1949, pp. 16, 25, 27-40, 58, 63, 92-94, 128132). Tre anni dopo egli avrebbe comunque rilevato molteplici affinità tra la Russia bolscevica e l’America, accomunate dal medesimo spirito socialista. 58
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mostrato tutta la sua efficacia. Quello che assolutamente non sembrava intuire o semplicemente vedere Keyserling era il fatto che di lì a poco i sistemi da lui evocati della nuova barbarie avrebbero cancellato qualsiasi isola di libertà culturale, in primis proprio quelle legate alla propaganda di massa; cultura di cui invece i barbari medioevali, avevano permesso comunque la sopravvivenza59. I temi affrontati da Keyserling sarebbero stati al centro anche del celebre La ribellione delle masse scritto dal conservatore José Ortega Y Gasset nel 1930, quando si cominciavano a percepire gli effetti della grande crisi economica. Per Ortega il predominio dell’“uomo massa”, “la sovranità dell’individuo senza qualifica”, oramai in grado di maneggiare qualsiasi tipo di tecnica, era l’“assoluta novità nella storia della nostra civiltà” e, come Keyserling, egli pensava che questo tipo di uomo fosse un “primitivo civilizzato”, un “bimbo viziato”, un “signorino soddisfatto”, un “nuovissimo barbaro (...) prodotto automatico della civiltà moderna”, di cui l’America ci aveva già dato saggio, e la cui più perfetta rappresentazione la si poteva riscontrare ora nel fascismo e nel bolscevismo60. L’uomo-massa, ovviamente, era caratterizzato dalla “libera espansione dei suoi desideri vitali”, senza che questa condizione, inusitata nella storia, gli facesse provare almeno gratitudine per ciò che aveva ottenuto; esso era pervaso da quell’egoismo, di tocquevilleana memoria, che non gli faceva riconoscere alcuna norma “al di là di sé stesso, superiore a lui”, e lo condannava ad una vita all’insegna della volgarità. Per queste ragioni la civiltà era in pericolo, poiché per Ortega la società umana era stata “aristocratica sempre, voglia o non voglia per la sua stessa essenza”. Le masse infatti da sole erano
59 Ibid., pp. 99-100, 102-103, 114, 118-122 (trad. it. cit., pp. 135-137, 140, 155, 161-165, 170-171, 183). 60 J. ORTEGA Y GASSET, La rebelión de las masas (1930), Madrid, Castalia, 1998, pp. 137, 140-143, 159-160, 163, 166-167, 184-185, 191-193, 197, 201, 203-204, 207-209 (trad. it., La ribellione delle masse, Bologna, Il Mulino, 1962, pp. 19, 2225, 43, 46, 50, 66-67, 73-75, 79, 85, 90-91, 94-96).
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incapaci di agire, tutt’al più si potevano dedicare al “linciaggio”, avevano cioè bisogno di una minoranza che le dirigesse61. Da dove derivava questa condizione? Ortega aveva rivolto il suo sguardo al XIX secolo, dove aveva individuato la miscela esplosiva nell’unione tra la democrazia liberale e la tecnica, intendendo quest’ultima quale frutto del binomio capitalismo-scienza sperimentale. Questa unione aveva scatenato l’esplosione demografica, generato il benessere e l’ abbondanza, creato un mondo che ormai per ognuno di noi cominciava ad acquistare una dimensione globale, come se di colpo fosse grandemente “cresciuto”. Era difficile tenere il passo di questi cambiamenti, di questo progresso; la scienza tendeva a parcellizzarsi, rischiava anch’essa la “meccanizzazione”, e produceva la figura del “saggio-ignorante” che, estremamente specializzato in un determinato settore, acquisiva una presunzione tale da condurlo a far valere la propria superiorità anche fuori del suo orticello, comportandosi di conseguenza nelle “questioni che ignora[va], non già come un ignorante, bensì con tutta la petulanza di chi nei suoi problemi speciali è un saggio”. E in fondo l’uomo di scienza, così concepito, non era per Ortega che “il prototipo dell’uomo massa”62. Ortega però, a differenza dei critici più radicali della civiltà, era stato chiaro, le possibilità del futuro, per l’uomo moderno alla deriva “smarrito nella sua abbondanza”, erano aperte sia verso l’impossibile che verso la barbarie, ma le cassandre sulla decadenza dell’occidente che avevano “pullulato nell’aria dell’ultimo decennio”, avevano trascurato lo straordinario innalzamento “del suo progresso quantitativo o potenziale”, e questo di fatto rendeva “suicida ogni ritorno a forme di vita inferiori a quella del secolo XIX”. La posizione di Ortega rivelava qui bene il suo doppio volto liberal-conservatore. Per lui, infatti, sbagliava chi, da una parte, come Spengler, credeva che la tecnica si nutrisse di sé, dimenticando che le condi61
175)
62
Ibid., pp. 171-183, 206-223, 286-288 (trad. it. cit., pp. 54-65, 93-110, 173Ibid., pp. 154-180, 193-232 (trad. it. cit., pp. 37- 83, 101-20).
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zioni che l’avevano resa possibile erano quelle che avevano permesso la “pura ricerca scientifica”, dimenticando cioè che “la democrazia liberale e la tecnica sono implicite l’una nell’altra e si presuppongono reciprocamente” e che, se si voleva andare oltre, non si potevano proporre soluzioni antiliberali, perché il liberalismo rimaneva, “in ultima istanza, qualcosa di ineludibile, di inesorabile”. Ma errava anche chi dall’altra parte, continuava Ortega, partendo dagli stessi presupposti, si faceva fautore di un americanismo più spinto e pensava che la scienza avrebbe potuto durare “finché si hanno dollari”, che una volta sparita l’Europa l’America avrebbe potuto prendere il suo testimone, perché trascurava il fatto che la scienza si era potuta sviluppare solamente in determinate condizioni storiche “nel breve quadrilatero compreso fra Londra, Berlino, Vienna e Parigi”, e soprattutto che allo sviluppo della tecnica dovevano presiedere certi “principi culturali” ultimi cui appellarsi; in fondo poi quei principi che avevano permesso ad ogni civiltà, ad ogni comunità di esistere, e che valevano anche nel caso specifico della democrazia-liberale, quella “forma che nella politica ha rappresentato la più alta volontà di convivenza”63. Mentre dunque Ortega aveva spinto la sua teoria ai limiti estremi del conservatorismo puro, un altro grande liberale come John Dewey nello stesso contesto di crisi, pensava di tramutare il liberalismo, qui tradendo la profondità dell’attacco all’illuminismo allora in atto, in una sorta di socialismo cogestito, con molte assonanze con le diverse soluzioni teoriche quali il socialismo gildista inglese o le altre forme di corporativismo, che andavano alla ricerca di una terza via tra capitalismo e collettivismo. Era certamente vero che Dewey aveva difeso l’“americanismo” dall’attacco dei suoi critici. Questo, come abbiamo già accennato, era diventato per i suoi detrattori, fossero essi liberali, fascisti o comunisti, l’emblema stesso dei mali della modernità. Dal libro di André Siegfried, al saggio di Julius Evola, all’opera a due mani di Robert Aron e Arnaud Dandieu, usando la parole di questi ultimi, “il 63
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Ibid., pp. 158-166, 184-194, 204-211 (trad. it. cit., pp. 42-49, 66-77, 91-98).
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cancro americano” veniva considerato “prima di tutto un cancro spirituale”, quella impressionante serie “di disastri contenuti nel mito della produzione e della prosperità”64. Dewey aveva notato come l’“americanismo”, inteso “come una particolare forma di civiltà”, non fosse che una creazione postbellica dell’“aristocrazia intellettuale d’Europa”, che la considerava “una nuova forma di barbarie”. Quali le caratteristiche negative imputate dai suoi avversari? La superficialità, la mancanza di personalità, di una propria “unità interiore”. “Le note e i segni di questo «spersonificarsi» dell’anima umana” erano “la quantificazione della vita, con il conseguente trascurar la qualità; il suo meccanizzarsi e l’abitudine quasi generalmente invalsa di pregiar la tecnica come fine, non come mezzo (...), la riduzione di ogni cosa a uno standard, a modello o tipo”. La conseguenza di tutto ciò era che trascurando “le differenze e le distinzioni”, alla fine si tendeva verso “l’uniformità”, data anche l’“assenza” generalizzata del “pensiero critico”. Infine, rilevava ancora Dewey, “il nostro tratto dominante è la suggestionabilità delle masse. (...) Il pensar tutti e sentir tutti allo stesso modo è diventato un ideale”65. Egli riconosceva tranquillamente che in tutto questo vi fosse una “qualche profonda manchevolezza” della propria cultura, ma in realtà l’“Americanizzazione” era un problema che interessava tutto il mondo; se era vero che “tecnica meccanica” e “industrialismo” andavano espandendosi ovunque, essi in tal modo non facevano che riproporre l’eterno quesito del rapporto tra uomo e natura, tra spirito e materia. I critici europei dell’americanismo e quelli autoctoni, in fuga da un industrialismo “antiestetico e brutale”, che avevano cercato rifugio a Parigi o Firenze, oppure “nella loro fantasia fino in India, ad Atene, nel medioevo, o all’epoca americana di Emerson, 64 R. ARON, A. DANDIEU, Le cancer américain, Paris, Rieder, 1931, pp. 239, 243. Vedi anche André SIEGFRIED, Les États Unis d’aujourd’hui, Paris, Colin, 1927, J. EVOLA, Americanismo e bolscevismo, “Nuova Antologia,” 1929, n. 10. 65 J. DEWEY, Individualism Old and New, New York, Minton-Belch & Company, 1930, pp 19, 22-24 (trad. it, Individualismo vecchio e nuovo, Firenze, La nuova Italia, 1948, pp. 11, 14-15).
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Thoreau e Melville”, condannando il materialismo tout court non erano riusciti ad afferrare il problema nella sua complessità; quello che ci voleva, infatti, era la “trasformazione” dell’“età meccanica in un nuovo significativo abito mentale ed un nuovo sentimento”; non si poteva “«frenare» o far retrocedere la rivoluzione industriale e le sue conseguenze”, come il “rilassamento dei codici morali tradizionali”, ma si doveva far sì che l’“elemento materiale” divenisse “strumento attivo nella creazione della vita delle idee e dell’arte”. La concezione spirituale dei critici dell’americanismo, così come la forma di individualismo che alcuni di loro sostenevano, era sostanzialmente “aristocratica”; in realtà se si voleva “che una società profondamente industrializzata raggiung[esse] un’alta e diffusa spiritualità”, dovevamo far sì che i “moltissimi” non fossero “esclusi da ogni possibilità di far uso del proprio pensiero e dei loro sentimenti nel lavoro a cui attend[eva]no ogni giorno”, la tecnica doveva perciò trasformarsi in strumento di “emancipazione” individuale nella forma più estesa possibile66. Per Dewey quel tipo di “individualismo aristocratico” era quello caratteristico delle prime forme di capitalismo, individualismo che aveva cercato un tempo “di liberare dagli impedimenti giuridici i bisogni dell’uomo e i suoi sforzi per soddisfare quei bisogni”, e che si era adesso ridotto “a utilizzare scienza e tecnica per fini di guadagno pecuniario”. A molti critici, occupandosi solo di “sintomi ed effetti”, era sfuggito il senso di questo passaggio. Si viveva infatti, ormai, “nell’era del denaro”, dove “il culto e i riti” di questo erano “dominanti”. Qui dunque, nell’idea che “la nostra tecnica e la nostra tecnologia” fossero “dominate dall’interesse al profitto privato”, stava “il vizio grave e fondamentale della nostra civiltà, la fonte di quei mali secondari e derivati a cui si presta[va] tanta attenzione”. Insomma per Dewey non era “l’individualismo di coloro che cercano il loro utile economico”, “la causa motrice” che aveva creato la “prosperità materiale”, bensì “l’acume scientifico che si è
66
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Ibid., pp. 124-158, 27-68 (trad. it. cit., pp. 102-131, 18-54).
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tradotto nella tecnica meccanica”, l’individualismo, tutt’al più si era a questi “aggiunto, spesso in modo parassitario”67. Tale opinione rivelava alla radice l’incomprensione di Dewey che lo portava persino a lodare l’esperienza comunista. Egli prudentemente scriveva: “Io non posso ricavare un soddisfacimento intellettuale, morale o estetico dalla filosofia ufficiale che anima la Russia bolscevica. Ma son certo che lo storico futuro dei nostri tempi esprimerà ammirazione per coloro che ebbero tanta fantasia da vedere per primi che le risorse della tecnica potevano essere indirizzate a servire fini prescelti, e nello stesso tempo esprimerà il suo stupore per l’ottusità intellettuale e morale di altri popoli che tecnicamente erano tanto più progrediti”. Dunque bisognava “mettersi costruttivamente e liberamente per la strada sulla quale la Russia sovietica procede[va] fra tante distruzioni e tanta costrizione”, anche perché la “socializzazione” dell’economia era una conseguenza implicita negli stessi “metodi di produzione di massa”, atti perfino a fabbricare ogni genere di “sentimento” in una società che ormai era “formata e diretta da fattori associativi e collettivistici, verso fini collettivistici”. Ma l’unica via che evitasse lo scoglio autoritario e le sabbie mobili dell’egoistico profitto, salvando “lo spirito della vita americana” che voleva che qualsiasi tentativo “fosse intrapreso per accordo e sforzo spontaneo e non per costrizione da parte del governo”, era quella che prospettava una sorta di soluzione corporativistica che in qualche modo prefigurasse il New Deal, cioè quella di “un consiglio che coordinasse e dirigesse” l’economia, “dove capitani dell’industria e della finanza s’incontrassero con rappresentanti
Ibid., pp. 76-77, 98-100, 9, 31-32 (trad. it. cit., pp. 61, 80-81, 1, 21). Pochi anni dopo Lewis Mumford avrebbe fatto notare che senza l’incentivo del profitto “la macchina non sarebbe stata inventata rapidamente, e sviluppata con altrettanto zelo” (L. MUMFORD, Technics and Civilization, London, Routledge & sons, 1934, p. 26 (trad. it., Tecnica e cultura, Milano, Il Saggiatore, 1961, p. 41). Anche Mumford però era dell’idea che “un progresso unilaterale, senza scopi e senza limiti, sembra[va] forse l’aspetto più angusto di un secolo angusto” (Ibid., p. 429; trad. it. cit., p. 432). 67
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degli operai e con impiegati statali per disegnare e regolare l’attività industriale”68. In Germania, colpita drammaticamente più di altre nazioni dalla crisi economica e finanziaria, le risposte che molti intellettuali fornirono furono proprio quelle di cavalcare la tigre della tecnica e del progresso: Da Die Geistige Situation der Zeit del 1931 dove anche Karl Jaspers aveva ritenuto ineludibile la sfida proposta dalla tecnica che andava affrontata e superata – la sua analisi era perfettamente in linea con quella degli autori che abbiamo appena visto, ed anch’egli aveva sottolineato la radicale rottura dell’epoca presente con il passato, epoca caratterizzata dal predominio della massa e della tecnica che facevano tendere la società ad una semplificazione dei rapporti e quindi ad una omogeneizzazione spersonalizzante verso il basso, al limite della regressione primitiva – all’ultima opera di Ferdinand Tönnies Geist der Neuzeit del 1935, nella quale si auspicava che le forze dissolutrici del capitalismo e del progresso si sarebbero ricomposte in una nuova Kultur-epoche, che tanto assomigliava nella sua essenza alla vecchia concezione di Gemainschaft, ritenuta il fondamento di ogni consesso civile69. 68 J. DEWEY, Individualism Old and New cit., pp. 94-95, 118, 134-135, 48-49, 43 (trad. it. cit., pp. 76-77, 97, 110-11, 37, 32-33). Non sarebbe stato dunque certo un caso che anche l’ex ministro delle corporazioni dell’Italia mussoliniana, Giuseppe Bottai, nel 1935, lodasse la politica di Roosevelt proprio per una sorta di comunità di intenti con il corporativismo fascista (cfr. F. AMORE BIANCO, Un laboratorio per progettare la «nuova economia fascista», “Nuova Storia Contemporanea”, 2002, n. 6, p. 51). Anche Karl Mannheim, consapevole di essere seduto sul cratere di un vulcano, e memore di come i principi del laissez-faire avessero portato al caos ed alla rovina la repubblica di Weimar, fu portato a pensare che “una qualunque forma di pianificazione” fosse “inevitabile”. Una pianificazione, però, che nei suoi intendimenti doveva essere “democratica”, basandosi “sulle tendenze creatrici della società”, e controllando “le forze vitali senza sopprimerle” (K. MANNHEIM, Man and Society. In an Age of Reconstruction, 1935-40, London, Routledge and Kegan Paul, 1951, pp. 4-5, 14; trad. it., L’uomo e la società in un’età di ricostruzione, Milano, Comunità, 1959, pp. 4-5, 14). 69 K. JASPERS, Die Geistige Situation der Zeit, Berlin, De Gruyter, 1931, pp. 3031, 45, 72, 108, 214-215. F. TÖNNIES, Geist der Neuzeit, Leipzig, H. Buske, 1935, p. 210. Vedi anche di Tönnies la prefazione alla quarta e quinta edizione, e le aggiunte del 1922 a Comunità e società cit., pp. 32, 248.
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Sulla stessa linea si sarebbero mossi anche autori come Schmitt e Jünger, quasi fornendo una sorta di cornice teorica introduttiva all’irrompere del nazismo. Schmitt, apertamente, aveva invitato da una parte a scrollarsi da dosso “il lamento romantico” contro la mancanza d’anima della tecnica, contro il suo “spirito maligno e diabolico”, e dall’altra a “penetrare” in quella “cupa religione del tecnicismo”, che aveva portato “alla fede di massa in un attivismo religioso dell’aldiqua”, nella speranza della creazione di “un paradiso umano”. Questa religione del progresso tecnico aveva avuto la sua origine nel XVII secolo “nell’età eroica del razionalismo occidentale”, i cui risultati sarebbero stati poi ampiamente volgarizzati con l’illuminismo; nell’Ottocento infine ci sarebbe stato il definitivo intreccio tra “l’elemento tecnico” e l’economia sotto la bandiera dell’“industrialismo”, che avrebbe portato a rapidi mutamenti ed a “sconvolgenti scoperte e conquiste”, che sarebbero state alla radice dell’attuale fede magica nella tecnica70. Questo processo andava però inscritto in una evoluzione più ampia, attraverso le cui fasi, si era “sviluppato lo spirito europeo negli ultimi quattro secoli”, cercando il proprio “centro” nel succedersi dei passaggi “dal teologico al metafisico, da questo al moraleumanitario e infine all’economico”. Avendo ogni “epoca culturale (...) il suo proprio concetto di civiltà”, i termini di questo “centro” erano mutati di conseguenza, mentre perciò l’idea di progresso nel XVIII aveva significato “progresso nell’illuminazione (Aufklärung)” e “nell’educazione (Bildung)”, nell’epoca della tecnica esso doveva intendersi principalmente come progresso economico e quindi quello morale-umanitario solamente come un suo “prodotto accessorio”. Questi passaggi avevano segnato ogni volta la “neutralizzazione e spoliticizzazione” dei centri di riferimento spirituale, così ad esempio nel XVII secolo si era cercato nella scienza un terreno neutrale dove venissero meno “le dispute e le lotte teologiche”, nel C. SCHMITT, Das Zeitalter der Neutralierungen und Entpolitisierungen (1929), in Id., Der Begriff des Politischen (1932), Berlin, Duncker & Humblot, 1991, pp. 92-95, 82-84 (trad. it., Le categorie del “politico”, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 180-183, 170-172). 70
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progressivo slittamento dei terreni di contesa si era quindi pensato che proprio con la tecnica si fosse raggiunto finalmente un campo “assolutamente e definitivamente neutrale”. In realtà la neutralità della tecnica, per Schmitt, era ben diversa da quella degli altri “centri”: “La tecnica è sempre soltanto strumento ed arma, e proprio per il fatto che serve a tutti non è neutrale. Dall’immanenza del dato tecnico non deriva nessuna decisione umana e spirituale unica, men che meno quella nel senso della neutralità”. Le scoperte tecniche potevano dunque essere impiegate da qualsiasi popolo, civiltà, religione perché “culturalmente” cieche, soprattutto allora che potevano rivelarsi “strumento di un tremendo dominio di massa”, come recentemente il monopolio radiofonico e la censura filmica avevano dimostrato. E Schmitt, ovviamente, invitava i tedeschi a farlo, ad andare oltre il pessimismo culturale, a non trincerarsi dietro le false antitesi meccanico-organico, morte-vita, per rinunciare alla lotta71. Ancor più esplicito sarebbe stato Ernst Jünger nel suo libro L’operaio. Dominio e forma, dell’autunno del 1932. Trent’anni dopo la sua pubblicazione, egli pur non potendo, “con rammarico, (...) approvare una simile interpretazione”, non senza velato compiacimento avrebbe comunque fatto notare che la sua opera era apparsa “poco prima di una delle grandi svolte; e non mancarono voci che gli attribuirono un’influenza sugli eventi”. In effetti Jünger, in quel libro, aveva chiaramente avvertito come in Germania, “dietro quelle marionette che sulle tribune pubbliche già in demolizione logorano i luoghi comuni del liberalismo fino a renderli sottili come un foglio di carta velina, spiriti più fini e più esperti si [stessero] prepara[ndo] a mutare lo scenario”72. E lo scenario stava davvero cambiando poiché si stava entrando nell’epoca della totale mobilmachung, come già aveva egli stesso pre71
179).
Ibid., pp. 80-81, 85, 87-88, 89-91 (trad. it. cit., pp. 168-169, 173, 175, 177-
E. JÜNGER, Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt (1932), in Id., Sämtliche Werke, Stuttgart, Klett-Cotta, 1981, vol. VIII, pp. 11, 252 (trad. it., L’operaio. Dominio e forma, Parma, Guanda, 1991, pp. 7, 218). 72
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annunciato in un celeberrimo saggio del 1930, un’ epoca questa caratterizzata dalla presenza di un “nuovo tipo umano”, “l’operaio”. L’uomo borghese infatti, e con lui il liberalismo e la democrazia nazionale, basate sul ruolo dei partiti, sul suffragio, sull’istruzione universale, sul servizio militare obbligatorio, l’individualismo, l’era delle folle e delle masse disunite, avendo “connaturato un carattere di puro movimento privo di forma e quindi privo di autentico ordine”, dovevano segnare il passo; essi rappresentavano ormai solo “una piattaforma su cui comincia ad innalzarsi un livello di altra natura”. Tutti i mezzi della democrazia borghese infatti, “i parlamenti, la stampa liberale, l’opinione pubblica, l’ideale di umanità”, erano stati mobilitati e furono decisivi per la guerra, ma non avrebbero mai potuto raggiungere l’intensità massima. Questa in fondo la differenza fondamentale tra “la Mobilitazione totale ed una mera tecnicizzazione”73. Dopo aver così constatato che la guerra aveva tracciato un “largo e rosso frego conclusivo sull’ultima pagina di quest’epoca” borghese e bottegaia, causando veramente “il rovesciamento dei valori”, Jünger, riprendeva le stesse tematiche di Schmitt, e invitava a sbarazzarsi anche della retorica “sul cammino vittorioso della tecnica” e sulla sua presunta essenza e neutralità, in quanto entrambe “residuo della terminologia illuministica”. Che spettacolo infatti si sarebbe proposto di fronte all’“ebreo errante” del 1933 che, si era chiesto Jünger, catapultato nel mezzo di una grande metropoli, avesse poi cercato di capire il senso e la legittimità di ciò che gli passava davanti? Egli avrebbe assistito ad “un movimento sempre più intenso che procede con impersonale durezza. Questo movimento è minaccioso e uniforme; esso sospinge l’una dopo l’altra, in catena di montaggio, masse meccaniche il cui flusso sempre uguale si regola mediante segnali costituiti da rumori e da accensioni di luci. Un ordine meticoloso grava su questo meccanismo d’ingranaggi slittanti e rotanti che ricorda il moto di un orologio o di un mulino, e imprime in esso il marchio della coscienza, del lavoro ra73
Ibid., pp. 105-123, 254-305, 44 (trad. it. cit., pp. 92-107, 221-264, 37).
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zionale eseguito con precisione. Eppure, l’insieme ha qualcosa del gioco: somiglia, in qualche modo, a un passatempo automatico”74. Sarebbe stato dunque l’operaio, per Jünger, a dare una nuova anima a tutto questo, a portare a termine “la legittimazione dei mezzi tecnici dai quali il mondo viene mobilitato, cioè posto in una condizione di interminabile movimento”. Egli avrebbe instaurato una nuova “democrazia del lavoro” che si sarebbe sottratta alle regole della politica liberale e del libero scambio: “progetto, piano, programma”, sarebbero state le parole d’ordine, perfettamente in sintonia con una stato d’animo ampiamente diffuso in tutto il mondo dopo la grande crisi del ’29, che Jünger agitava auspicando da parte dell’operaio la “costruzione organica del paesaggio progettuale”, “di masse e di energie in moto inarrestabile”. Quest’epoca sarebbe apparsa come una di “quelle grandi rivoluzioni di contenuto” che nella storia avevano coinciso “con l’entrata in scena di razze capaci di padroneggiare la magia di nuovi mezzi come il bronzo, il ferro, il cavallo, la vela. Come il cavallo acquista significato grazie al cavaliere, il ferro grazie al fabbro, la nave grazie al «petto corazzato con cerchi di metallo», così il senso profondo, la metafisica dello strumentario tecnico si rivela solo quando la razza dell’operaio si rivela come la grandezza ad esso coordinata”75. Questa breve rassegna ci fa capire come alla base della questione della tecnica ci fosse una discussione acerrima sull’accettazione o meno dei suoi presupposti illuministici. Il modernismo reazionario, come ha osservato Domenico Settembrini, si rivelò certamente utile a Hitler per non farsi irretire nel “nostalgismo romantico”, e lo rese adepto di un progresso tecnico che scaturiva dall’indole tedesca, ma gli impedì altresì di vedere fino a che punto questo dipendesse, in realtà, da un progresso scientifico “il quale a sua volta dipende dalla concorrenza liberale delle idee e delle scuole di pensiero, cioè, in definitiva, dall’odiato individualismo borghese”76. Ma Ibid., pp. 59, 80, 102 (trad. it. cit., pp. 51, 69, 89). Ibid., pp. 287-290, 309 (trad. it. cit., pp. 248-250, 267). 76 D. SETTEMBRINI, Dal predominio dell’ideologia alla progettazione sociale cit., p. 246. 74 75
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come abbiamo visto, tanto teneri nei confronti di questo individualismo, non erano stati neppure autori così diversi come Ortega e Dewey. Quello del “modernismo reazionario” fu forse uno degli attacchi più insidiosi mossi all’illuminismo in questo periodo, ma il colpo più incisivo fu ancora quello sferrato dagli eredi dei grandi controrivoluzionari, da coloro cioè che volevano scalzare la modernità sin nella sua culla storica come i tradizionalisti René Guénon e Julius Evola. Evola nell’introduzione all’edizione italiana del 1972 de La crise du monde moderne di Guénon, retrospettivamente si era reso conto che, nella pletora degli studi sulla crisi e la decadenza della civiltà pullulanti tra le due guerre, quello del francese aveva rappresentato certamente la critica più radicale. Infatti tra tutti gli altri autori, si chiamassero questi “Spengler o Massis, Keyserling o Benda, Rops o Ortega Y Gasset o Huizinga”, non si potevano che trovare “reazioni confuse e parziali”, perché tali scrittori “apparten[eva]no spiritualmente al mondo stesso che critica[va]no, al «mondo moderno»” ed ignoravano o volutamente evitavano certe “posizioni assolute” per paura di essere accusati “di reazionarismo e di anacronismo”77. Guénon, come Evola d’altronde, aveva visto l’origine dei “dogmi laici” contemporanei come l’eguaglianza, il progresso tecnicoscientifico, ecc.. in quel XVIII secolo illuministico, che aveva portato a compimento i principi della Riforma protestante, dell’umanesimo rinascimentale e del razionalismo di Cartesio. Ma dietro a tutti questi avvenimenti e a queste teorie stava come sempre la bestia nera dell’ individualismo, che Guénon descriveva come “la negazione di ogni principio superiore all’individualità e quindi la riduzione della civiltà, in ogni suo dominio, ai suoi soli elementi puramente umani”. La sua origine, e qui si poteva misurare la profondità dell’attacco, andava rintracciata nella nascita stessa della filosofia greca, 77 J. EVOLA, introduzione a R. GUÉNON, La crisi del mondo moderno, Roma, Edizioni Mediterranee, 1972, pp. 7-8.
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un tipo di “sapienza puramente umana, quindi d’ordine semplicemente razionale”, che nel VI secolo a.C. era andata a sostituire la “vera sapienza tradizionale, superrazionale e «non umana»”. Con la filosofia perciò era apparso “qualcosa di mai visto prima”, che avrebbe esercitato “in seguito una influenza nefasta su tutto il mondo occidentale”78. Guénon ed Evola, pur avendo il medesimo intento e cioè quello di privare di qualsiasi legittimità le istituzioni e la cultura liberali, non avevano messo in campo un’operazione di analitica e sistematica distruzione delle fondamenta filosofiche dell’illuminismo come avrebbe fatto invece Martin Heidegger, attuando uno smantellamento dei pilastri del soggettivismo e dell’umanesimo, che sarebbe stato destinato ad avere grande fortuna negli ambienti accademici sino ai nostri giorni. Heidegger, in sostanza, pensava di riprendere il lavoro critico svolto da Nietzsche, anch’egli però andava considerato come l’ultima vittima di un lungo errore, quello della tradizione metafisicoscientifica, dell’ontologia dell’essere, che da Platone ed Aristotele si era perpetuato ed aveva trovato il proprio compimento proprio nella metafisica e nel nichilismo nietzscheano. Sin dalle sue origini infatti la filosofia greca sembrava essere stata sottoposta ad un “processo di imprigionamento e di alienazione dell’originaria essenza”, che si era protratto attraverso l’epoca romana, il cristianesimo, il medioevo, e la filosofia moderna fino ai nostri giorni; l’uomo era ormai caduto da gran tempo “fuori dall’essere”, e la fatale incomprensione era provenuta proprio dal suo graduale “oblio”. Questa la causa più profonda dell’accecamento moderno, della “desolante frenesia della tecnica scatenata e dell’organizzazione senza radici dell’uomo massificato”, che incarnate dall’America e dalla Russia, avrebbero condotto alla distruzione della terra. La contrapposizione tra “natura materiale” e “spirituale”, tra “fisico” e “psichico” era R. GUÉNON, La crise du monde moderne (1927), Paris, Gallimard, 1973, pp. 101, 126, 76, 37-38, 29-33 (trad. it. cit., pp. 83, 103, 65, 37, 31-33). Cfr. J. EVOLA, Rivolta contro il mondo moderno (1934), Roma, Edizioni Mediterranee, 1969, pp. 377-380, 386-395, 318-321. 78
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però percepita così nettamente solo ai nostri tempi; non era stato sempre così e nell’antica Grecia il significato di fisis si era invece rivelato mediante un’esperienza poetica. Saltando così le incrostazioni e i sedimenti del tempo si doveva “riconquistare l’indistruttibile forza evocativa della lingua e della parola”, perché era solo in esse che le cose divenivano ed erano. “Si tratta[va], oltrepassando il mero significato, di giungere alle cose stesse”79. Scrittori come Schmitt, Jünger, Heidegger, Guénon o Evola avrebbero potuto benissimo essere inseriti in quella categoria di intellettuali che Juliend Benda descrisse, nel 1927, nel suo famoso La trahison des clercs. Nel libro, Benda aveva avvertito sui rischi di una “guerra politica” che proprio in quel tempo si stava trasformando in una “guerra delle culture”, indicando il pericoloso montare delle passioni e degli odi politici organizzati e dotati “di apparati ideologici mediante i quali rivendicano per sè, in nome della scienza il supremo valore della loro azione e della sua necessità storica”. Addirittura si stava assistendo ad una “divinizzazione” delle passioni politiche che sembrava far regredire la società europea al tempo delle guerre di religione. E la causa principale di tutto ciò era stata proprio il tradimento, da parte di molti intellettuali, del tradizionale ruolo svolto dai “chierici”, cioè quello di opposizione al “realismo delle masse”, ruolo che certo non aveva impedito ai laici di perpetrare nella storia i loro massacri ma, quantomeno, aveva “impedito loro di avere il culto di queste azioni”. Il venir meno della classica funzione dei chierici, avrebbe potuto significare mettere a repentaglio la stessa “civiltà”, che nella storia dell’umanità poteva considerarsi come una conquista contingente, per niente dovuta, un “«miracolo» greco”, sbocciato tremila anni fa, ed il cui razionalismo, in 79 M. HEIDEGGER, Sein und Zeit (1927), Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 1979, § 38, pp. 175-180; Id., Einführung in die Metaphysik (1935), Frankfurt am Main, Vittorio Klosterman, 1983, pp. 39-42, 15-19, 24-29, 93-94 (trad. it., Introduzione alla metafisica, Milano, Mursia, 1968, pp. 47-49, 25-27, 33-36, 97); Id., Überwindung der Metaphysik (1936-1946), in Vorträge und Aufsätze, Tübingen, Günther Neske Pfullingen, 1954, pp. 77-84 (trad. it., Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1991, pp. 50-54).
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fondo, aveva “illuminato il mondo solo per settecento anni”. La civiltà adesso era di nuovo in grave pericolo, ed infatti Benda preconizzava che l’umanità si stesse avviando verso “la guerra più perfetta e più totale mai vista al mondo”, verso un nuovo medioevo “molto più barbaro del primo”80. “Per riconoscere che i chierici”, allora avevano esercitato “le passioni politiche con tutte le caratteristiche della passione”, eludendo la propria naturale missione, bastava citare “i nomi di Mommsen, Treitschke, Ostwald, Brunetière, Barrès, Lemaître, Péguy, Maurras, D’Annunzio, Kipling”, per non parlare poi di Sorel, esaltato “da tutta una pleiade di apostoli dell’anima moderna”. Benda aveva sottolineato inoltre come, dovunque si registrasse la predominanza del “chierico nazionalista”, “essenzialmente un’invenzione tedesca”, dato che tale nazione era quella che, da cinquant’anni a questa parte, aveva letteralmente dominato il mondo nel campo dello spirito. Ed era proprio questo tipo di chierici che aveva esaltato “il culto del particolare ed il disprezzo dell’universale”, ed aveva affermato il ruolo dello stato forte; erano sempre loro che, a differenza di Machiavelli, si potevano considerare “dei moralisti del realismo”, poiché il male, che talvolta il politico si vedeva costretto ad utilizzare, con loro di fatto “cessa di essere male e diventa bene”. Erano ancora loro che avevano inneggiato alla vita guerriera ed all’apologia della violenza, che avevano proclamato “il primato dell’istinto, dell’inconscio, dell’intuizione, della volontà”, e del mito, che avevano pensato perciò di elevare l’uomo al rango di Dio, perchè era riuscito a fabbricarsi degli strumenti che lo avevano reso “padrone della materia”. Questi i “maestri del pensiero moderno” che in definitiva, da cinquant’anni, avevano sputato, con sprezzo aristocratico, sulle “istituzioni democratiche”, sul liberalismo, sull’uma-
J. BENDA, La trahison des clercs, Paris, Grasset, 1927, pp. 16, 33, 41-43, 4850, 53-57, 112-113, 172, 223, 235, 237-238, 241, 244 (trad. it., Il tradimento dei chierici, Torino, Einaudi, 1976, pp. 75, 84, 88-89, 92-93, 95-97, 127, 157-158, 184, 191-192, 194-195). 80
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nitarismo, ed erano costantemente “in rivolta” contro “l’insegnamento del XVIII secolo”81. Mentre Benda aveva efficacemente illustrato i pericoli insiti nell’“epoca del politico”, Sigmund Freud aveva preso di mira tutti i detrattori della concezione illuministica di progresso, in special modo di quelli che sostenevano che “gran parte della colpa della nostra miseria”, dovesse essere addossata “alla nostra civiltà”, per cui saremmo stati molto più felici se vi avessimo rinunciato per trovare “la via del ritorno a condizioni primitive”. Questo tipo di reazione contro la civiltà si era verificato altre volte nel corso della storia, come quando si era consumato il trionfo del cristianesimo sulle religioni pagane, oppure all’epoca delle grandi esplorazioni geografiche, quando l’uomo europeo entrò di nuovo in contatto con popolazioni primitive82. Non era forse vero, scriveva Freud riassumendo il nocciolo imperituro di queste critiche, che l’“assoggettamento delle forze della natura” da parte della tecnica, non ci aveva affatto resi più “felici”? A tali domande veniva naturale rispondere in questo modo: “non è un guadagno positivo di piacere, un aumento indubbio del sentimento di felicità, poter ascoltare tutte le volte che io lo desidero la voce di un bambino che vive centinaia di chilometri lontano da me, o apprendere da un amico, subito dopo lo sbarco, che ha portato felicemente a termine un lungo e faticoso viaggio? Non conta nulla che la medicina sia riuscita non solo a ridurre enormemente la mortalità infantile e i pericoli d’infezione delle partorienti, ma anche a prolungare di un numero considerevole di anni la durata media della vita dell’uomo civile”? Certo i detrattori avrebbero comunque potuto rispondere che alcune di quelle situazioni a cui il progresso aveva recato sollievo in realtà erano state generate ab imis proprio dallo stesso progresso, e poi ancora ci si poteva chiedere che cosa Ibid., pp. 71-72, 120-166, 185-190, 207-208, 244 (trad. it. cit., pp. 105, 131167, 176, 196). 82 S. FREUD, Das Unbehagen in der Kultur (1929), Frankfurt am Main und Hamburg, Fischer Bückerei, 1965, p. 83 (trad. it. in, Il disagio della civiltà e altri saggi, Torino, Boringhieri, 1977, pp. 222-223). 81
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ne avremmo fatto di una vita più lunga se questa era gravata continuamente dei più vari tormenti83? Anche con queste obiezioni i termini del problema non sembravano cambiare affatto, per Freud avremmo dovuto semplicemente indirizzarci verso la stessa “essenza di questa civiltà”, per verificare la possibilità o meno della sua reale esistenza nel contrasto tra Eros e Tanatos. L’incivilimento, e Freud, come già aveva scritto ne L’avvenire di un’ illusione si rifiutava “di distinguere tra civiltà (ndr: Kultur) e civilizzazione (ndr: Zivilisation)”84, era un inconsapevole “processo al servizio dell’Eros, che mira[va] a raccogliere prima individui sporadici, poi famiglie, poi stirpi, popoli, nazioni, in una grande unità: il genere umano”, questi raggruppamenti, ovviamente, erano tenuti insieme da un legame libidico perché la sola necessità od utilità non sarebbe bastata. A tale “programma della civiltà” si contrapponeva però “la naturale pulsione aggressiva dell’uomo, (...) figlia e massima rappresentante della pulsione di morte”, che insieme all’Eros aveva condiviso “il dominio sul mondo”. Le rinunce pulsionali nei confronti dell’ autorità esterna e di quella morale interiore avrebbero generato “un senso di colpa”, che le religioni avrebbero chiamato “peccato” promettendone la redenzione. Questo era in pratica il “prezzo pagato in termini di infelicità”, man mano che il senso di colpa aumentava; in verità però, pur essendo un prodotto della civiltà, esso poteva anche non essere “riconosciuto come tale”, rimanendo “in gran parte inconscio” o venendo alla “luce come un disagio”85. Il bersaglio di Freud erano stati naturalmente i comunisti, che abolendo la proprietà privata avevano sperato di cancellare il male dal mondo; questo tentativo però si era rivelato una mera “illusione”, come illusione, sarebbe stato qualsiasi tentativo di forgiare Ibid., pp. 84-85 (trad. it. cit., pp. 224-225). S. FREUD, Die Zukunft einer Illusion (1927), Frankfurt am Main und Hamburg, Fischer Bückerei, 1967, pp. 85-86 (trad it. in, Il disagio della civiltà e altri saggi cit., p. 146). 85 S. FREUD, Das Unbehagen in der Kultur cit., pp. 110, 115, 118, 120-121 (trad. it. cit., pp. 257, 263, 267, 270-271). 83 84
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l’uomo nuovo, perché l’aggressività umana e la bestia nera dell’individualismo, avrebbe avuto modo di irrompere nuovamente nelle faccende di prestigio e potere, nelle relazioni sessuali ed in qualunque altra evoluzione che avrebbe assunto la società86. Alla metà degli anni Trenta appariva ormai con nitidezza il profilo della minaccia hitleriana. L’Europa più che mai sembrava nuovamente essere sull’orlo di un baratro. Le ansie, in due grandi scrittori conservatori come l’olandese J. Huizinga e l’inglese Thomas S. Eliot, si facevano ancora più acute e pervase da un intenso afflato religioso. Perfino nel mezzo del furore bellico poi, grandi economisti come Joseph A. Schumpeter e Karl Polanyi, in questa onda lunga di pessimismo, non si sarebbero sottratti dal pronosticare “autodistruzioni” da parte dei sistemi capitalistici delle liberal-democrazie. Nel 1935 Huizinga ci lasciava una nitida fotografia dell’atmosfera intellettuale del tempo; più che negli anni precedenti la sensazione di un “dissolversi della civiltà” moderna era “diventata generale” specie dopo la crisi del ‘29, e la stessa parola “progresso” sembrava caduta completamente in disuso. Essa, annotava sconsolato Huizinga, era “retaggio di quell’affascinante secolo di ottimismo intellettuale, morale e sentimentale che fu il Settecento”, ma in realtà non era affatto vero che da “ogni nuova scoperta” e da “ogni perfezionamento dei mezzi” ci si dovesse aspettare una maggiore felicità. La crisi attuale ne era la chiara dimostrazione, ed essa era veramente senza precedenti storici; la caduta dell’Impero romano, infatti, offriva “troppo pochi punti di contatto con l’epoca nostra” e la stessa rivoluzione francese che, ad opera della “demenza dei filosofi” e del “furore della plebaglia” aveva causato la rovina del “primo stato d’Europa”, era ben poca cosa in confronto alle trasformazioni che si erano succedute “dal 1914 in qua”. Dal punto di vista economico i grandi fallimenti del capitalismo nel passato non avevano causato mai quel “ristagno spasmodico degli scambi commerciali mondiali”, e quelle “pazze oscillazioni del cambio dei nostri dì”. Persino la 86
Ibid., pp. 102-104 (trad. it. cit., pp. 247-249).
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“jattura degli assegnati nel periodo dopo il 1793”, poteva essere considerata “un rosolio in confronto alla perdurante anormalità monetaria del tempo nostro”87. Anche Huizinga sembrava così accodarsi alla serie di lamentele che abbiamo passato in rassegna, segnalando, anche lui, come “il principio del rendimento tecnico” dominasse “sempre più incontrastato”, come si fosse oramai affermato “un ideale di benessere, di potenza, di sicurezza”, e questo perché l’umanità non aveva fatto che guardarsi “innanzi e avanzare verso ignote lontananze”, da quando con Cartesio e Bacone aveva smesso di pensare alla “perfezione antica”. Eravamo però adesso in una situazione paradossale, giunti infatti “all’estrema perfezione e specializzazione”, del nostro “macchinario”, producevamo in gran quantità oggetti inutili od inutilizzabili, rischiando così di perdere quel tradizionale “equilibrio tra valori spirituali e materiali” che era poi quella “cultura” su cui si era fondata qualsiasi civiltà. Da qui derivava un’“imbarbarimento”, cioè a dire, in altre parole, questo accadeva quando “una situazione spirituale d’alto valore” veniva “a poco a poco soffocata e ricacciata indietro da elementi di più basso livello”. Di tale regressione ne avevamo diverse prove che si potevano raccogliere insieme “sotto la denominazione di «indebolimento del raziocinio»”, e la moderna cultura di massa, caratterizzata dalla sua varietà ma al tempo stesso dalla sua superficialità, ne era l’esempio più vistoso. Il carattere meccanico che questa aveva assunto era legato strettamente alla crescita dell’“elemento passivo” a discapito di quello “attivo”, avvicendamento che si poteva ben esemplificare confrontando teatro e cinema. Nell’andare dall’una forma di rappresentazione all’altra si poteva riscontrare infatti il “passaggio dall’assistere ad uno spettacolo, all’assistere all’ombra di uno spettacolo. Parole e azione non sono più azione viva, ma solo riproduzione. La voce che l’etere ci porta non è più che un’eco”. Inoltre nei giovani, che venivano educati allo J. HUIZINGA, In de scaduwen van morgen. Een diagnose van het geestelijk lijden van onzen tijd door (1935), Haarlem, Tjeenk Willink & Zoon, 1936, pp. 1-5, 209-210, 41-42, 21, 14-15, 17-18 (trad. it., La crisi della civiltà, Torino, Einaudi, 1938, pp. 11-14, 139, 37, 25, 21, 23). 87
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“sguardo cinematografico”, si verificava “l’atrofia di intere serie di funzioni intellettuali”, e la “suggestibilità visiva” in genere, era divenuta il tallone d’Achille che la pubblicità prendeva di mira per colpire “l’uomo moderno (...) nel lato debole della sua diminuita capacità di giudicare”. Anche la radio, per certi versi, aveva significato “regredire a una forma inadeguata di pensiero”. Non solo perché talvolta essa era frivola e chiaccherona, ma soprattutto perché sostituendo la “parola parlata” a quella “scritta” si era rivelata “una maniera attardata e limitata di apprendere la verità scientifica”. Questi erano due chiari esempi dove si poteva facilmente intuire come la “barbarie” potesse “associarsi ad un’alta perfezione tecnica”, ma purtroppo era stato sin troppo evidente come tale barbarie si fosse già potuta unire anche all’“insegnamento scolastico diffuso a tutti quanti”, perché la mediocrità delle conoscenze, anche se ampiamente distribuite, non garantiva affatto “il possesso di una cultura”88. A fianco del predominio della tecnica Huizinga vedeva però, come già aveva avvertito Benda, anche un torrente impetuoso di “antintellettualismo sistematico filosofico e pratico” che, partito dalla fine del secolo, aveva segnato l’invasione della “filosofia vitalistica” in tutte le discipline artistiche causando un serio allontanamento dei principi estetici da qualsiasi comprensione logica, e aveva trovato in Sorel un vero e proprio elemento catalizzatore dal punto di vista pratico-politico, un Sorel descritto senza mezzi termini come “il padre spirituale degli odierni regimi totalitari”. La montante ondata di irrazionalismo aveva infatti portato ad affermare al di sopra della ragione concetti come “volontà di potenza”, “autonomia della vita politica che si svolge sull’antitesi amico-nemico”, “autonomia morale dello stato”, “spazio vitale”, “sangue e suolo”, tutte idee che si potevano desumere anche dalle opere di autori come Spengler, Schmitt, Hans Freyer, per non parlare della “bellicosa” “tesi razzistica”, che unita alla “dottrina dello stato-potenza”, faceva temere ad Huizinga che il mondo ormai fosse “insanabilmente
88
Ibid., pp. 20-37, 55-65, 202-207 (trad. it. cit., pp. 24-34, 45-51, 135-137).
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minacciato dalla furia della guerra annientatrice, che porta nel suo seno un nuovo e più triste imbarbarimento”89. Il pericolo più serio per la civiltà veniva dunque da questo attacco congiunto “dell’irrazionalizzazione della cultura”, insieme al dominio tecnico sulla natura, dominio piegato alla soddisfazione dei nostri desideri e alla creazione del nostro benessere. In quale contesto poi questi desideri venivano alla luce, era di secondaria importanza per Huizinga, era cioè indifferente che essi si esprimessero “nella forma mercantile e individualistica”, oppure in quella “socialcollettivistica, o nazionalpolitica”. Tutti questi regimi, infatti, esaltavano “le inumane ed egoistiche tendenze della brama di dominare e di possedere”. Da questa descrizione risultava assai chiaro che la salvezza non sarebbe mai potuta arrivare dal progresso della scienza e della tecnica, né nel quadro del libero mercato e della proprietà privata, che ovunque venivano messi in discussione e sembravano addirittura “vacillare sulle loro basi”, né nel quadro di un’economia di piano. Era sbagliato infatti pensare che il collettivismo escludesse l’egoismo. Se si credeva efficace l’impiego dei “programmi”, si pensava che fosse possibile “meccanizzare a tal punto le funzioni dei processi di produzione, dello scambio e del consumo, da eliminare il perturbamento dovuto all’opera degli impulsi umani”. Per cui era certamente vero che saremmo arrivati a bandire l’egoismo individuale, ma questo si sarebbe poi trasformato “in un amorfo egoismo di gruppo”90. Huizinga nel solco classico dell’interpretazione conservatrice, di impronta burkeana, vedeva le origini della dissoluzione della morale fin nel Settecento ad opera di “reagenti estetici e sentimentali”, a questi erano seguiti “l’immoralismo filosofico” limitato nei suoi effetti, ma soprattutto il relativismo morale, insegnato “sia dal sistema scientifico del materialismo storico, come dai sistemi psicologici che derivano da Freud”. Come Ortega, dunque, anche Huizinga reclamava un indispensabile ritorno ai principi superiori della “cul89 90
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Ibid., pp. 74-115, 140-188, , 224 (trad. it. cit., pp. 57-97, 124-138, 148). Ibid., pp. 197-198, 215-220 (trad. it. cit., pp. 131-132, 142-145).
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tura”, intesa come baluardo difensivo nei confronti dei progressi della scienza e della tecnica, perché la prima, quando non è “retta da un principio superiore, cede senza resistenza i suoi segreti alla tecnica smisuratamente cresciuta e animata da spirito commerciale”. E la seconda, ancor meno limitata, cerca di soddisfare tutti i bisogni della società, tutti quelli che un “organismo inteso a potenza” può chiederle, compresi i mezzi di distruzione. Se tutti i sistemi allora in campo avevano fallito, se eravamo nel baratro di una grande crisi di civiltà, ci voleva allora “uno spirito nuovo”, un ritorno “ai supremi valori etici e metafisici”, una ventata di “religiosità” che portasse alla compenetrazione di tutte le fedi cristiane in un abbraccio ecumenico con la “schiettezza islamica e la profondità orientale”. Oramai, insomma, la ragione doveva “cercare uno scampo nella fede”91. Quando venne pubblicato l’opuscolo di Thomas S. Eliot, L’idea di una società cristiana che raccoglie i testi di tre conferenze pronunciate a Cambridge nel marzo del 1939, non erano solamente i tamburi di guerra a risuonare in Europa. Eliot, avrebbe ricordato in appendice al libro, come lo spunto per le conferenze gli fosse venuto da una lettera spedita al “Times” nell’ottobre del 1938, nella quale si sosteneva che i sistemi totalitari che si stavano affermando nel continente non erano altro che “convulsi” tentativi di fermare il cancro che stava minando le basi spirituali della civiltà occidentale92. Qual era questo cancro se non il liberalismo? Esso aveva distrutto “le tradizioni sociali di un popolo”, aveva dissolto “in fattori individuali la naturale coscienza collettiva”, aveva concesso la “libertà alle opinioni più sciocche”, aveva sostituito “l’istruzione all’educazione, incoraggiando l’abilità piuttosto che la saggezza, gli «arrivisti» a preferenza dei qualificati”, aveva introdotto “il principio del «farsi strada» come unica alternativa ad una apatia senza speranza”. Certo Eliot si era premurato di precisare che non era sua intenIbid., pp. 118-123, 202, 55-56, 80-81, 220-221, 99 (trad. it. cit., pp. 85-87, 134, 45, 61-62, 145-146, 73). 92 T.S. ELIOT, The Idea of a Christian Society (1939), London, Faber and Faber, 1948, pp. 85-86 (trad. it., L’idea di una società cristiana, Milano, Comunità, 1948, pp. 109-110). 91
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zione che uditori e lettori considerassero il liberalismo “come qualcosa da rifiutare e da estirpare”; in fin dei conti era sempre “un elemento negativo necessario”, ma era proprio questo sistema che aveva aperto le porte al totalitarismo, al “controllo artificiale meccanico e brutale che è il disperato rimedio al suo caos”. Anzi si poteva dire addirittura che la democrazia autoritaria era la “fine naturale” del liberalismo, i cui “atteggiamenti e (...) credenze” erano destinati a sparire e, nei fatti, stavano “già scomparendo”; e verso la democrazia autoritaria, con passo diverso, erano diretti immancabilmente tutti i paesi liberali. Quegli atteggiamenti e quelle credenze, tipici del liberalismo, appartenevano infatti “ad un’epoca morta di libero sfruttamento”, ed il vero pericolo era proprio che noi identificassimo il liberalismo solo con il disordine ed il caos che avevamo ereditato, anziché con “il valore permanente dell’elemento negativo”93. Stava perciò proprio nell’ efficienza che il totalitarismo aveva dimostrato nel ripristinare l’ordine infranto, l’origine della nostra “buona dose d’ammirazione” nei suoi confronti, al di là di ogni disprezzo. Addirittura per Eliot la censura imposta da questi stati poteva rivelarsi anche meno “insidiosa” di quella “costante silenziosa influenza che si esercita in ogni società di massa imperniata sul profitto, e che conduce all’abbassamento del livello artistico e culturale”94. Le società liberali e quelle totalitarie erano caratterizzate dalla medesima “efficienza materialistica” e dal medesimo “paganesimo”. Erano entrambe sostanzialmente “anticristiane”. Anche perciò Eliot vagheggiava una via d’uscita che partisse da una rielaborazione di stampo conservatore della sfera culturale, con la creazione di un’élite che accettasse il cristianesimo “non semplicemente come fede e guida nell’azione”, ma anche “come il sistema entro il cui ambito” si doveva governare, in modo che il popolo l’avrebbe accettato “come modo di vita e come costume”. Questa élite, questa “comunità di cristiani”, assomigliava molto alla Clerisy di Coleridge 93 94
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Ibid., pp. 15-18 (trad. it. cit., pp. 22-25). Ibid., pp. 9, 25, 39 (trad. it. cit., pp. 14, 33, 52).
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riadattata ad un nuovo contesto, nonostante il parere contrario di Eliot, e poteva definirsi come “un corpo senza contorni ben definiti, composto di ecclesiastici e di laici, degli uomini che, di entrambe le classi sono i più coscienti e i più preparati spiritualmente ed intellettualmente”. Un corpo che avrebbe dovuto “formare collettivamente la mentalità e la coscienza della nazione”, in sintonia con una Chiesa organizzata gerarchicamente, la quale, egli sperava, non rinunciasse ad una futura “riunione con la Chiesa di Roma”95. Non dissimilmente da altri tentativi a cui abbiamo accennato anche Eliot era alla ricerca di una terza via, di una società cristiana costruita su nuove basi, che non fosse un utopico ritorno al medioevo come si poteva desumere dalle idee “neo-ruskiniane” del gildista A.J. Penty, e neppure il tentativo di adattare gli ideali sociali cristiani al “mondo moderno com’è”. Ma che la sua soluzione fosse saldamente inserita nel solco dell’antimodernismo lo dimostrava la palesata necessità di vagliare “secondo principi cristiani” i “caratteri d’una società commercializzata”, e cioè a dire “l’assurgere del profitto individuale a ideale sociale, la distinzione fra l’uso delle risorse naturali ed il loro sfruttamento, il profitto eccessivo del commerciante in confronto a quello del produttore, l’indirizzo errato dato alla macchina finanziaria, l’iniquità dell’usura”96. Che il fuoco antilluminista fosse concentrato sulle dinamiche del capitalismo lo dimostravano non solo le ricorrenti denuncie, come quella di Ezra Pound, contro l’usura, il profitto, la finanza internazionale ed il parassitismo industriale, ma anche l’attenzione preoccupata che gli rivolsero autori come Schumpeter e Polanyi durante la guerra. Se era vero che Marx, in effetti, fu tra i primi a stigmatizzare il ruolo spersonalizzante del capitale che aveva ridotto i rapporti tra gli uomini alle sole relazioni di mercato e di danaro, egli però non aveva fatto altro che raccogliere un lamento che si era già elevato tra le fila dei conservatori, i quali sin dall’opera di Ed95
62).
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Ibid., pp. 20, 22, 35-38, 42, 58, 47 (trad. it. cit., pp. 27-28, 30, 46-50, 56, 74, Ibid., pp. 32-33 (trad. it. cit., pp. 42-43).
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mund Burke avevano temuto che le dinamiche rivoluzionarie del capitalismo avrebbero finito per spazzare via quei capisaldi culturali sui quali si manteneva in piedi ogni società. Questa ipotesi aveva preoccupato tanto Coleridge, Carlyle e Mattew Arnold, quanto, come abbiamo visto, Sombart. Schumpeter, in Capitalismo, Socialismo e Democrazia del 1942, focalizzò l’attenzione proprio sulle cause prettamente culturali e sociali che avrebbero potuto portare persino alla fine dello stesso capitalismo. Il processo capitalistico infatti con la propria incessante rivoluzione scatenata dalle continue innovazioni economiche che finivano per instaurare un rapporto meramente strumentale nei riguardi della società, avrebbe certamente travolto i resti di qualsiasi tradizione e generato ostilità verso di esso. Ma il capitalismo non avrebbe distrutto solo l’impalcatura pre-capitalistica della società con le sue barriere ed i suoi sostegni, esso alla fine avrebbe distrutto anche la propria. In che modo? Da una parte minando “per logica ineluttabile la base economica su cui si sorregge la piccola impresa industriale e commerciale” e, dall’altra smantellando “la propria intelaiatura istituzionale”97. L’atteggiamento razionalista cui il capitalismo aveva dato nuovo slancio infatti, non si sarebbe fermato al vecchio ordine e avrebbe promosso in modo permanente l’inquietudine sociale. Alla fine, una volta che tutti avessero imparato la lezione dell’utilitarismo, saremmo arrivati alla disintegrazione della stessa famiglia borghese. Non appena uomini e donne, aveva scritto Schumpeter, “introducono nella propria vita privata una specie di sistema inespresso di calcolo dei costi-, essi non possono non accorgersi dei gravi sacrifici personali che i vincoli familiari e soprattutto, la paternità e la maternità implicano nelle condizioni di vita moderna e del fatto che nello stesso tempo, salvo nel caso dei contadini in genere, i figli cessano di rappresentare, dal punto di vista economico, un attivo”98. J.A. SCHUMPETER, Capitalism Socialism and Democracy (1942), New York, Harper, 1950, pp. 140-141, 139, 146 (trad. it., Capitalismo, socialismo e democrazia, Milano, Edizioni di Comunità, 1964, pp. 135-136, 134-135, 141). 98 Ibid., p. 157 (trad. it. cit., p. 152). Come ha notato Dante Argeri, “si coglie 97
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Per Schumpeter il processo capitalistico avrebbe creato anche i presupposti per la nascita di una civiltà socialista; esso infatti avrebbe determinato la razionalizzazione di ogni aspetto della vita andando a minare la posizione stessa della borghesia e le proprie basi economiche e sociali. La funzione sociale dell’imprenditore avrebbe gradatamente perso di importanza accomunando in tale destino il ruolo della borghesia che da esso dipendeva. Tutto ciò era dovuto al fatto che il progresso tecnologico si era e si sarebbe spersonalizzato ed automatizzato sempre di più, divenendo “opera di teams di specialisti che producono quanto è richiesto e lo fanno funzionare in modi prevedibili e controllabili”. Non solo, l’innovazione si sarebbe ridotta a semplice routine e l’impresa capitalistica, ormai concentrata in unità industriali giganti, si sarebbe perfettamente burocratizzata99. Le dinamiche autodistruttive del capitalismo sarebbero state l’oggetto principale anche del libro di Karl Polanyi “La grande trasformazione”. Che cosa sosteneva Polanyi? Semplicemente che l’idea di un mercato autoregolato era una grossa utopia che avrebbe finito per distruggere l’uomo e trasformare l’ambiente in un deserto100. Il controllo totale del sistema economico da parte del mercato avrebbe implicato una conduzione della società come accessoria rispetto al mercato stesso. L’economia così non sarebbe più stata inserita nei rapporti sociali ma viceversa sarebbero stati quest’ultimi ad essere inseriti nel sistema economico. Polanyi avrebbe scritto che “normalmente il sistema economico era assorbito nel sistema nella pagina schumpeteriana il ricordo della chiusa di Der Bourgeois” (D. ARGERI, La teoria della democrazia nel pensiero di J. A. Schumpeter, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1988, p. 80, nota). 99 J.A. SCHUMPETER, Capitalism Socialism and Democracy cit., pp. 161-162, 132-133, 134 (trad. it. cit., pp. 156, 128, 130). Vedi anche D. ARGERI, La teoria della democrazia nel pensiero di J. A. Schumpeter cit., pp. 75, 77-79 ed anche Id., La “distruzione creatrice” e il mercato come “esplorazione del nuovo” in Schumpeter e in Hayek, “Modernizzazione e sviluppo”, 1996, nn. 1-2, p. 32. 100 K. POLANYI, The Great Transformation: The Political and Economic Origin of Our Time, New York-Toronto, Rinehart & Company, 1944, pp. 3-4 (trad. it., La grande trasformazione, Torino Einaudi, 1974, p. 6).
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sociale e qualunque principio di comportamento predominasse nell’economia, la presenza del modello di mercato veniva riconosciuta compatibile con esso”101. L’autoregolazione avrebbe significato la mercificazione dei tre aspetti fondamentali della società: lavoro, terra e moneta. Ma lavoro, terra e moneta non sarebbero stati altro che gli esseri umani stessi dei quali è costituita ogni società e l’ambiente naturale nel quale essa esiste. Tutto questo quindi non rappresentava altro che la subordinazione della sostanza stessa della società alle leggi del mercato. E se si permetteva “al meccanismo di mercato di essere l’unico elemento direttivo del destino degli esseri umani e del loro ambiente naturale e persino della quantità e dell’impiego del potere d’acquisto”, concludeva Polanyi, la demolizione della società era inevitabile102. La separazione sempre più netta della sfera economica da quella politica avrebbe comportato la completa trasformazione della struttura della società. Costantemente infatti l’ordine economico aveva sempre rappresentato una funzione dell’ordine sociale nel quale era contenuto. Tutto ciò veniva confermato dalle ricerche storiche ed antropologiche; l’etnografia non registrava alcun tipo di economia regolata solo dal mercato. Anzi il mercato, nelle varie epoche, era stato sempre circondato da un certo numero di difese destinate a proteggere l’organizzazione economica prevalente della società dall’interferenza delle pratiche di mercato. Dunque, continuava Polanyi, regolazione e mercato si sono sempre sviluppate insieme, la pura economia di mercato è invece una struttura istituzionale del nostro tempo e se prendiamo la storia del diciannovesimo secolo vediamo come sia costellata di innumerevoli tentativi di proteggere la società contro la distruzione di un simile meccanismo. Il libero mercato non avrebbe in sé nulla di naturale, nessuna tendenza interna porterebbe alla sua affermazione. Il laissez faire avrebbe potuto essere realizzato solo dallo stato con un continuo interventismo legislativo. Insomma, faceva notare Polanyi, “non ci si rendeva con101 102
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Ibid., pp. 68, 57, 69-71 (trad. it. cit., pp. 88, 74, 89-91). Ibid., pp. 73, 195, 201 (trad. it. cit., pp. 94, 249, 256).
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to che il costituirsi dei mercati in un sistema autoregolantesi di enorme potenza non era il risultato di una tendenza intrinseca dei mercati all’escrescenza, ma piuttosto l’effetto di stimolanti estremamente artificiali somministrati al corpo sociale per far fronte ad una situazione creata dal fenomeno non meno artificiale della macchina”103. Ovviamente per Polanyi la fine di una società di mercato non avrebbe comportato assolutamente la rinuncia al mercato. Egli però aveva scritto il suo libro nel 1944 quando, come reazione al capitalismo, si era già sviluppato da una parte il socialismo, visto come tendenza inerente alla civiltà industriale a superare il mercato autoregolato per subordinarlo ad una società dominante, e dall’altra la soluzione fascista che era riuscita a riformare il mercato ma al prezzo dell’estirpazione delle istituzioni democratiche104. Ibid., pp. 57-58, 44-45, 46, 61-62, 68, 37-38, 40 (trad. it. cit., pp. 75, 59, 61, 80, 88, 51, 54). Sulle limitazioni medioevali al mercato in Inghilterra e sulla sostanziale continuità con queste delle politiche sociali durante la prima rivoluzione industriale, vedi B. MOORE jr, Aspetti morali dello sviluppo economico (1998), Torino, Edizioni di Comunità, 1999, pp. 4-80. 104 K. POLANYI, The Great Transformation cit., pp. 252, 233-234, 237 (trad. it. cit., pp. 315, 294, 297). In questo stesso contesto storico-intellettuale nel quale operavano Schumpeter e Polanyi, aveva scritto anche Wilhelm Röpke, come tanti altri in quel periodo alla ricerca di una terza via tra capitalismo e pianificazione. La natura umana per Röpke non avrebbe potuto sopportare a lungo la tensione che sarebbe scaturita dalla pura economia di concorrenza. Egli aveva scritto: “gli uomini non possono senza profondo danno per sé e per la stabilità sociale, sopportare durevolmente la tensione spirituale nervosa e morale a cui li costringe una economia fondata sulla domanda e sull’offerta, sul mercato e sulla tecnica e tanto meno possono tollerare la insicurezza e la instabilità di tutte le condizioni di vita che un siffatto sistema reca in sé” (W. RÖPKE, Die Gesellschaftskrisis der Gegenwart, Erlenbach-Zürich, Eugen Rentsch Verlag, 1942, p. 187; trad. it. in L. EINAUDI, Economia di concorrenza e capitalismo storico, “Rivista di storia economica”, giugno 1942, p. 66). Quest’opera era stata benevolmente recensita da Luigi Einaudi che aveva elogiato quella che riteneva una fondamentale critica che Röpke aveva avuto il merito di mettere in luce. Il principio dell’economia moderna si poteva salvare “solo riconoscendo la verità del suo opposto, solo restringendo l’operare del mercato di concorrenza e creando territori nei quali esso non è chiamato ad agire, perché la sua azione, estesa al di là di un certo punto, diventa dannosa alla struttura sociale. L’errore catastrofico fu di considerare l’economia di mercato (o di concorrenza) come qualcosa di autonomo, che riposa in sé stes103
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so, come una condizione di natura che non ha bisogno di nessun sussidio in appoggio e difesa, ed è posta all’infuori della sfera dello stato; fu di trascurare la decisiva importanza di un ambiente etico-giuridico-istituzionale adatto ai principi dell’economia medesima. (...) L’economia di concorrenza vive e dura, data l’indole umana, solo se essa non è universale; solo se gli uomini possono, per ampia parte della propria attività, trovare un rifugio, una trincea contro la necessità continua della lotta emulativa, in che consiste la concorrenza. Il paradosso della concorrenza sta in ciò che essa non sopravvive alla sua esclusiva dominazione” (L. EINAUDI, Economia di concorrenza e capitalismo storico cit., pp. 65, 67).
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10. Il fuoco antilluminista sotto la cenere del benessere Il conservatorismo anglo-americano, la scuola di Francoforte, lo strutturalismo francese
Alla fine della seconda guerra mondiale la catastrofe nazifascista aveva ormai gettato nel più profondo discredito autori od ideologie che in qualche modo si potessero ricondurre a quelle esperienze. Il discredito ed il sospetto si estesero più ampiamente a tutta la destra politica, nell’alveo della quale, chi avesse voluto evitare accuse strumentali di fascismo avrebbe dovuto rimarcare con forza le proprie credenziali liberali. Nel 1950 il critico letterario Lionel Trilling aveva affermato che il liberalismo progressista era l’unica famiglia politica allora esistente negli Stati Uniti1. Eppure nell’America e nell’Inghilterra vittoriose, proprio in concomitanza con l’esplodere della guerra fredda, e forse come sua diretta conseguenza, si assisté ad una rinascita dell’ideologia conservatrice, che poté gettare le basi su di una solida eredità burkeana di critica ai Lumi, perpetuata da inizio secolo da scrittori come William Lecky, Lord Acton, Hugh Cecil, John MacCunn e Irving Babbit, ma che fu anche nutrita dalla forte polemica antindividualista ravvivata da uno stuolo di intellettuali, in specie di lingua tedesca, che erano fuggiti dall’Europa. Il rinnovamento degli studi su Burke si ebbe, negli Stati Uniti, con la pubblicazione nello stesso anno, il 1953, di due opere, di Robert Nisbet e Russel Kirk2, i quali, con le parole di quest’ultimo, 1 In G.J. RUSSELLO, Tradizione e invenzione, “Fondazione Liberal”, 2003, n. 20, p. 130. 2 R. NISBET, The Quest for Community, New York, Oxford University Press, 1953, R. KIRK, The Conservative Mind from Burke to Santayana (1953), London, Faber & Faber, 1954. Cfr. C.R. KESLER, The Different Enlightenments: Theory and Practice in the Enlightenment, in W.A. RUSHER (ed.), The Ambiguos Legacy of the Enlightenment, Lanham-New York-London, University Press of America, 1994,
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consideravano il suo pensiero “la vera scuola dei principi conservatori”. Kirk, in linea con il maestro, si era schierato contro la dichiarazione dei diritti dell’uomo3, e quasi trent’anni dopo, Nisbet ancora avrebbe sentito l’esigenza di rimarcare come Burke rappresentasse le vere radici del conservatorismo, facendolo così distinguere dalle teorie individualistiche dei cugini libertari4. In Inghilterra invece erano stati Michael Oakeshott e l’austriaco Friedrich von Hayek i veri successori della critica ai Lumi di stampo burkeano. Entrambi avevano messo in evidenza l’incompatibilità dell’eredità storica delle libertà inglesi con quella francese rivoluzionaria5. Da una parte, infatti, Von Hayek aveva tracciato la propria genealogia intellettuale attraverso Acton e Tocqueville fino a Burke e Smith e giù giù fino ad arrivare a Locke, considerandoli tutti pari esponenti del “vero individualismo”, quello cioè degli scopritori della Political Economy, di cui Burke stesso non era altro che “il più grande rappresentante”6. Von Hayek si era opposto al “falso individualismo”, quello pseudo-razionalista di Rousseau e Bentham, capace solo di disintegrare le comunità in singoli atomi, per poi meglio imporre il potere centrale, coercitivo dello Stato7. Dall'altra parte anche Oakeshott aveva eretto Burke a vessillifero della teoria politica dell'individualismo che aveva le sue origini in Locke8. Un individualismo che riguardava quei soggetti che avevano cominciato a vivere la prop. 105; G. PARABOSCHI, Leo Strauss e la destra americana, Roma, Editori Riuniti, 1993, p. 4. 3 R. KIRK, The Conservative Mind cit., pp. 15, 42, 45, 50-51. 4 R. NISBET, Conservatives and Libertarians: Uneasy Cousins, “Modern Age”, XXIV (1980), ora in G.A. PANICHAS (ed.), Modern Age. The First Twenty-Five Years, Indianapolis, Liberty Press, 1988, pp. 124-127. 5 Cfr. F. VON HAYEK, The Constitution of Liberty (1960), London, Routledge and Kegan, 1976, pp. 54-70. 6 F. VON HAYEK, Individualism and the Economic Order, London, Routledge and Kegan, 1948, p. 4; ; il primo saggio di quest’opera è stato recentemente tradotto con il titolo, Individualismo: quello vero e quello falso, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1997. Gli altri saggi sono già stati tradotti nel volume, Conoscenza, mercato, pianificazione, Bologna, Il Mulino, 1988. 7 F. VON HAYEK, Individualism and the Economic Order cit., pp. 5, 16, 23. 8 M. OAKESHOTT, Morality and Politics in Modern Europe , lezioni tenute ad Harvard nell'aprile 1958, New Haven, Yale University Press, 1993, p. 53.
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pria unicità come esperienza di autodeterminazione e per i quali “il compito del governo è semplicemente quello di dare delle regole” o, per usare uno dei termini preferiti dallo stesso Oakeshott, “di fare da arbitro”, cioè evitare le collisioni tra individui, ognuno in cerca della propria felicità, garantendo sia il diritto di self preservation, che la non intromissione nel determinarne le attività e i desideri9. Oakeshott, come Von Hayek, era contro il razionalismo in politica, cioè la mera assimilazione di quest'ultima a problemi di ingegneria10. Il razionalismo affondava le sue radici fino a Platone e si era prepotentemente affermato con Bacone, Cartesio e, soprattutto, Rousseau, il suo principale esponente11. Burke venne visto proprio come il grande avversario di questa tendenza12. Così Oakeshott descriveva la generale disposizione del ‘Razionalista’: “In fondo egli sostiene (sempre), in tutte le occasioni, l’indipendenza dell’intelletto, il pensiero libero da obblighi verso qualsiasi autorità, eccetto quella della ‘ragione’. La sua condizione nel mondo moderno l’ha reso sprezzante: è il nemico dell’autorità, del pregiudizio, del semplicemente tradizionale, consuetudinario o abituale. Il suo atteggiamento mentale è a un tempo scettico ed ottimistico, perché non c’è opinione, uso, credenza, così saldamente radicata, così ampiamente sostenuta che egli non esiti a mettere in discussione e a giudicare con ciò che egli chiama la sua ‘ragione’; ottimista, perché il Razionalista non dubita mai del potere della sua ‘ragione’ (quanIbid., pp. 49, 70, 72. M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics (1947), in Id., Rationalism in Politics and other Essays, Indianapolis, Liberty Press, 1991, p. 9. 11 Ibid., pp. 22, 84. 12 Ibid., pp. 27-28. Oakeshott ha comunque accusato lo stesso Von Hayek di essere scivolato in questo tranello, perché ha voluto convertire la resistenza a questa tendenza in una ideologia: “Questo è forse il significato principale di “Road to Serfdom” di Hayek, non la forza di persuasione della sua dottrina, ma il fatto stesso che è una dottrina. Un piano per opporsi a tutte le pianificazioni è forse migliore del suo opposto, tuttavia appartiene al medesimo modo di intendere la politica” (Ibid., p. 26). Sulle affinità tra Burke e Oakeshott vedi, R. DEVIGNE, Recasting Conservatisme, New Haven, Yale University Press, 1994, pp. 17-18, 210, H. PITKIN, Inhuman Conduct and Unpolitical Theory, e D. SPITZ, A Rationalist malgre lui, “Political Theory”, 1976, n. 3, pp. 301-320, 335-352. 9
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do applicata propriamente) per determinare il valore di una cosa, la verità di un’opinione o la proprietà di un’azione13”. Come l’autore delle Reflections quindi, Oakeshott pensava che la ragione non potesse sostituirsi alla storia, alla consuetudine, al pregiudizio, la politica infatti nelle nostre società non era che “una conversazione nella quale ognuno, passato, presente e futuro [aveva] una voce”, e le libertà e gli ideali morali erano “un sedimento”, ed avevano perciò un senso preciso solo e fintantoché erano “sospesi in una tradizione religiosa o sociale”14. A questo tipo di attacco al razionalismo si venne quindi ad aggiungere, soprattutto in America, il contributo di alcuni intellettuali tedeschi fuggiti dal nazismo, come Leo Strauss, Eric Voegelin e Annah Arendt, i quali, imbevuti della cultura della crisi che aveva egemonizzato il dibattito teorico tra le due guerre, risultarono determinanti nel far sganciare parte del movimento conservatore dagli ormeggi illuministici15. Dietro questi autori, Holmes ha visto “l’influsso sotterraneo ma ipnotizzante di Martin Heidegger”, con la sua condanna della modernità16. Era stato proprio Heidegger infatti, ha scritto Germana Paraboschi, che alla fine della seconda guerra mondiale aveva stabilito in America i termini del dibattito nascente sulla nuova società mondiale che si veniva delineando, caratterizzata dal predominio della tecnologia, della scienza e del razionalismo17. Le opere di questi autori vanno inserite inoltre nel contesto M. OAKESHOTT, Rationalism in Politics cit., pp. 5-6. Ibid., pp. 28, 41, e, The Political Economy of Freedom (1949), in Id., Rationalism in Politics and other Essays cit., p. 388. 15 T.V. MCALLISTER, Revolt Against Modernity. Leo Strauss, Eric Voegelin and the Search for a Postliberal Order, Lawrence, University Press of Kansas, 1996, pp. 272-273. 16 S. HOLMES, The Anatomy of Antiliberalism cit., p. xi (trad. it. cit., p. xi). 17 G. PARABOSCHI, Leo Strauss e la destra americana cit., p. 71. Vedi anche T.V. MCALLISTER, Revolt Against Modernity cit., pp. 72-73. Voegelin, in una lettera del 1953 ad Alfred Schütz, sottolineava la svolta antiesistenzialista ed antiromantica di Heidegger, che era arrivato a dire “chi non crede non può pensare”. Qui Voegelin vedeva un confortante esempio di ciò che in un’altra lettera aveva definito “sacrificium intellectus”, il quale nel corso della storia aveva condotto a porre dei limiti salutari al ragionamento. Per Heidegger, scriveva Voegelin, “la speculazione 13 14
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del nascente dibattito sul totalitarismo, che sebbene affondasse le sue radici nella letteratura sulla crisi della civiltà, era di nuovo balzato all’ordine del giorno a causa proprio della catastrofe bellica e dell’incipiente guerra fredda. Tutti e tre gli scrittori, nel radicale atto di accusa contro la modernità, avevano volto lo sguardo verso l’antica Grecia, a quella politica ‘virtuosa’ indirizzata nella ricerca del ‘bene comune’18 e, nell’illuminismo, avevano visto, si potrebbe dire, la causa prossima del totalitarismo. Per la Arendt, infatti, i superstiti dei campi di sterminio e gli internati dei campi di concentramento, si erano ormai resi conto che “il loro massimo pericolo” era “l’astratta nudità dell’essere – nient’altro che – uomo”, una concezione che era scaturita direttamente dalla dichiarazione francese dei diritti19. Strauss, invece, aveva descritto il succedersi di tre distinte ondate della modernità che, partite con Machiavelli ed Hobbes, attraverso Rousseau erano giunte allo “storicismo radicale” di Nietzsche, contribuendo a pavimentare la via per l’olocausto e tutti i mali politici e morali del XX secolo: il relativismo ed il nichilismo, l’irrazionalismo individualistico ed il permissivismo democratico, una concezione astratta, costruttivistica e strumentale della tecnologia, immanente sull’essere è giunta a impedire la conoscenza dell’essere stesso, il «razionalismo», come lo chiama, costituisce l’ostacolo al pensiero” (in G.F. LAMI, Introduzione a Eric Voegelin, Milano, Giuffrè, 1993, pp. 293-308). Heidegger aveva espresso esemplarmente la sua posizione in una conferenza tenuta a Monaco nel 1953, sul concetto ed il ruolo della tecnica e di come questa si era venuta sviluppando nella tradizione occidentale. Essa infatti si era affermata in maniera “strumentale”, imponendosi sulla natura, “pro-vocandola”, affinché fornisse energia da accumulare, invece di arrivare ad un “disvelamento” della verità, che per i Greci ed i Romani implicava l’atto della “pro-duzione”, cioè “non solo la fabbricazione artigianale, né solo il portare all’apparire e all’immagine che è proprio dell’artista”, ma anche “il sorgere di-per-sé”. Questo atteggiamento aveva fatto nascere “la moderna scienza esatta” che considerando la natura “come un insieme organizzato di forze calcolabili” aveva tolto dal mondo la poesia e l’arte e fatto trionfare il razionalismo (M. HEIDEGGER, Die Frage nach der Technik -1953-, in Id., Vorträge und Aufsätze cit., pp. 13-44; trad. it., Saggi e discorsi cit., pp. 5-27). 18 Cfr. T.V. MCALLISTER, Revolt Against Modernity cit., 36-43, 239. 19 H. ARENDT, The Origins of Totalitarianism(1951), New York, Harcourt, Brace & World, 1968, vol. II, p. 180 (trad. it., Le origini del totalitarismo, Milano, Comunità, p. 415), e Id., On Revolution (1963), London, Penguin, 1979, pp. 45, 108-109.
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e la moderna tirannia politica20. Voegelin, infine, aveva interpretato il totalitarismo come “la forma conclusiva alla quale approda ogni civiltà votata al culto del progresso”. Quel progresso che egli aveva inteso nel senso di “avanzata dello gnosticismo”, e che aveva causato “la morte dello spirito”. La concezione del progresso, in sostanza, poteva essere ricondotta al “secolarismo”, cioè la radicalizzazione dell’“irradiamento dell’escatologia immanentistica”, che aveva preso piede dal tempo della rottura di Giocchino da Fiore con la teologia agostiniana, la quale, invece, aveva sempre respinto la credenza nel Millennio e nel Chiliasmo. Era stato però “nell’Età della Ragione” che il progresso, con autori come Turgot, Voltaire o Condorcet, aveva cominciato ad esprimere “l’idea di una civiltà unitaria del genere umano”, e Voltaire si era contraddistinto come “il primo moderno che osa scrivere una storia universale in diretta opposizione a Bossuet”21. Fu proprio allora che si affacciarono per la prima volta al mondo quelle politischen religionen, quelle religioni “intramondane”, quei tentativi come il liberalismo, lo scientismo, il comunismo ed il fascismo, che avevano cercato di confondere il cielo con la terra, portando invece terrore, lager e gulag. In Enlightenment and Revolution, un’opera concepita già negli anni ’40, Helvetius, con il suo amour de soi, con il desir du pouvoir venne visto da Voegelin come il fondatore della politica moderna, nella quale, affermare la libertà di pensiero, non voleva dire altro che irresponsabilità; modernità in cui, Voltaire, più di tutti gli altri, venne considerato come colui che aveva fatto “discendere l’oscurità della ragione illuminata nel mondo occidentale”22. 20 L. STRAUSS, The Three Waves of Modenity, in H. GILDIN (ed.), An Introduction to Political Philosophy: Ten Essays by Leo Strauss, Detroit, Wayne State University Press, 1989, pp. 81-98. 21 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, Chicago, The University of Chicago Press, 1952, pp. 131-132, 124-127, 109-111, 184 (trad. it., La nuova scienza politica, Torino, Borla, 1968, pp. 203-204, 195-199, 179-181, 266). 22 E. VOEGELIN, From Enlightenment to Revolution, Durham, Duke University Press, 1975, pp. 28-29, 32, 50; cfr. Id, Science, Politics and Gnosticism, Chicago, University of Chicago Press, 1968. Vedi anche T.V. MCALLISTER, Revolt Against Modernity cit., pp. 121-124.
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Nelle varie distinzioni del conservatorismo, cui abbiamo brevemente accennato, sembrava dunque prevalere soprattutto la critica al razionalismo delle Lumières, e quel tipo di polemica rifletteva inoltre, in gradi diversi, le stesse antinomie che abbiamo individuato nel pensiero di Burke, e che possiamo estendere a tutto il pensiero conservatore, nel senso di rilevare in esso, sin dalle origini, un difficile connubio con il capitalismo. È vero infatti che se dalla nutrita schiera dei suoi teorici sono spesso arrivate, nel corso degli anni, delle critiche acute e penetranti riguardo l’economia del laissez faire, è però indubitabile che dalla fine della prima guerra mondiale in poi e soprattutto dopo la seconda, ci sia stato un sempre più stretto avvicinamento al capitalismo, con la caduta di quelle cautele e quei distinguo che avevano caratterizzato molti dei suoi esponenti. Il conservatorismo inglese ha visto prevalere dalla fine degli anni settanta la nuova destra thatcheriana, che ha sposato indissolubilmente la libera economia di mercato, e la Old Right, che rappresenta lo schieramento conservatore americano a partire dal secondo dopoguerra, diviso nelle due branche dei libertari e dei tradizionalisti, che ha condiviso la difesa della proprietà privata e della libera iniziativa e la fede nella libertà in specie quella economica. In sostanza cioè si è sempre riconosciuto il valore centrale del sistema capitalistico23. Steven Lukes, a questo proposito, ha notato come l’ideologia del conservatorismo americano contemporaneo combini insieme tre tipi di individualismo, quello politico, quello economico e quello religioso24. Eppure, ha sottolineato Charles Taylor, questi conservatori che si atteggiano a difensori delle comunità tradizionali nel momento che si oppongono alla libertà di aborto e alla pornografia, in politica economica “invocano una forma selvaggia di ini23 G. PARABOSCHI, Leo Strauss e la destra americana cit., pp. 5, 8, 11, 13. Anche i neoconservatori di Irving Kristol, affacciatisi nel dibattito politico all’inizio degli anni ‘70, o esponenti della “New Right” populista come Patrick Buchanan hanno sempre ritenuto l’economia di mercato una struttura necessaria ad una società liberale (Ibid., pp. 11, 13). 24 S. LUKES, Individualism, Oxford, Basil Blackwell, 1973, p. 123.
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ziativa capitalistica che più di ogni altra cosa ha contribuito alla dissoluzione delle comunità storiche, che ha incoraggiato l’atomismo, che non conosce né frontiere né vincoli di fedeltà, e che per chiudere in attivo un bilancio è pronta a cancellare una città mineraria o a devastare un habitat forestale”25. È proprio questa la principale contraddizione del pensiero conservatore, il problematico connubio tra individualismo economico e tradizionalismo socio-politico. Michael Freeden lo considera il problema fondamentale del conservatorismo moderno, frutto di diversi incroci culturali, e bene lo illustra a proposito del caso inglese: “è necessario chiedersi come si possa spiegare la grande discrepanza temporale tra le versioni conservatrici di inizio secolo e il cosiddetto thatcherismo o, in senso più ampio, l’accettazione di alcuni principi liberali classici tra i quali in particolare quelli attinenti al libero mercato. Non si tratta forse di due ideologie distinte e anzi inconciliabili?”26. D’altrocanto esponenti e teorici del conservatorismo contemporaneo si sono opposti a questo tipo di rilievi. Per David Willetts, ad esempio, tale connubio non rivestirebbe alcun carattere problematico, anzi egli ha ribadito come lo scopo del moderno conservatorismo inglese consista proprio nel “conciliare i liberi mercati (che portano libertà e prosperità) con il riconoscimento della comunità (che alimenta i nostri valori). Questo non è un progetto nuovo. Che queste idee apparentemente contrastanti stiano insieme è l’intuizione distintiva dei pensatori conservatori inglesi, da Hume a Burke, passando per Powell e Oakeshott”27. Ed anche Bruce Frohnen quando tesse le lodi della virtù conservatrice non la considera estranea a quel progresso che si conquista attraverso il commercio e l’industria28. 25 26
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C. TAYLOR, Il disagio della modernità (1991), Bari, Laterza, 1994, p. 111. M. FREEDEN, Ideologie e teoria politica (1996), Bologna, Il Mulino, 2000, p.
D. WILLETTS, Modern Conservatism, London, Penguin, 1992, p. 92. B. FROHNEN, Virtue and the Promise of Conservatism. The Legacy of Burke and Tocqueville, Lawrence (Kansas), University Press of Kansas, 1993, pp. 33, 36, 37. 27 28
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Uno degli autori che più ha contribuito ad affermare tale contraddizione è stato senza dubbio Friedrich von Hayek sebbene lui stesso non abbia mai voluto saperne di essere considerato un conservatore. I conservatori infatti, nella sua opinione, sarebbero stati sordi alle sirene del progresso e restii a lasciarsi condurre dalle forze equilibratrici spontanee del mercato, quelle forze che avrebbero portato invece il vero liberale (libertario) “ad accettare i cambiamenti senza paura, anche se si ignora come si otterranno i cambiamenti necessari”29. Hayek infatti aveva contribuito ad affermare l’opinione che l’individualismo economico non entrava necessariamente in conflitto con le tradizioni ed i valori comunitari di una società, rilevando come tale dottrina, intesa correttamente, non racchiudesse in sé alcuna potenzialità antisociale. Egli aveva notato come il termine individualismo fosse stato distorto dai suoi nemici al punto da farlo divenire “un’irriconoscibile caricatura”, come venisse utilizzato per descrivere determinati atteggiamenti nei confronti della società che non avevano niente in comune tra di loro e talvolta erano addirittura opposti30. Per Hayek, come abbiamo accennato, esistevano due sostanziali eredità politiche tra loro incompatibili, quella delle libertà inglesi e quella della Francia rivoluzionaria. Entrambe, però, erano andate a confluire nella scuola classica ottocentesca di economia politica, in special modo nell’opera di John Stuart Mill ed Herbert Spencer, determinando la sostanziale ambiguità del concetto di individualismo31. In sostanza Hayek credeva nell’esistenza di due tipi di individualismo, uno vero e buono e l’altro falso e cattivo che si sarebbe rivelato all’origine di tutti i mali della modernità. Quest'ultimo non sarebbe stato altro che l'individualismo razionalista, quello di Voltaire e di Rousseau, che anche Tocqueville aveva condannato come disgregatore di ogni corpo intermedio, di ogni comunità; esso sarebbe stato destinato, secondo Hayek, a svilupparsi inevitabilmente nel suo opposto, l'anarchia od F. VON HAYEK, The Constitution of Liberty cit., pp. 400, 404 (trad. it., La società libera, Roma, Seam, 1998, pp. 490, 494). 30 F. VON HAYEK, Individualism and Economic Order cit., p. 3. 31 Vedi anche VON HAYEK, The Constitution of Liberty cit., pp. 54-56. 29
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il collettivismo32. L’individualismo falso era anche un Giano bifronte, e l’altra faccia era quella dell’individualismo tedesco che aveva sottolineato l’importanza dell’individuo inteso come “personalità originale”, come fonte di scelte coscienti. Si trattava cioè di un vero e proprio culto “dell’individualità distinta e differente” che, nato in Germania, attraverso Goethe e Von Humboldt, si era propagato di gran lunga oltre i suoi confini, andando a influenzare, anch’esso, la teoria di Mill. Tale individualismo, scriveva Hayek, non aveva “niente a che fare con il vero individualismo” e poteva “davvero rivelarsi un grave ostacolo al liscio funzionamento di un sistema individualista”33. Il vero individualismo era dunque per Hayek quello che sosteneva i valori della famiglia, dei piccoli gruppi, delle piccole comunità, che credeva nelle autonomie locali e nelle associazioni volontarie, che riteneva che molto di ciò per cui invocavamo l'intervento dello stato potesse essere invece demandato a queste diverse realtà ed alla collaborazione volontaria. Tale individualismo sarebbe stato nettamente in contrasto con l'altro, quello falso, che intendeva “dissolvere tutti questi gruppi più piccoli in atomi senza coesione, se non quella coercitiva delle regole imposte dallo stato, e che cerca[va] di rendere tutti i legami sociali prescrittivi, anziché servirsi dello stato soprattutto come protezione del singolo dalla pretesa coercizione dei gruppi più piccoli”34. La posizione di Hayek avrebbe voluto essere un’amalgama tra l'individualismo economico smithiano, il cui decisivo contributo, secondo lui, fu quello di dare la spiegazione “di un ordine autogenerantesi che si formava spontaneamente se gli individui erano frenati da un adeguato sistema legislativo”35, ed il conservatorismo alla F. VON HAYEK, Individualism and Economic Order cit., pp. 4, 5, 7, 11. Ibid., pp. 25-26. 34 Ibid., p. 23. 35 F. VON HAYEK, New Studies in Philosophy, Politics, Economics and the History of Ideas, London, Routledge and Kegan, 1978, pp. 124-125. Sebbene Hayek sostenesse che Menger era stato il primo, nei tempi moderni, ad aver resuscitato l’individualismo metodologico di Adam Smith e della sua scuola (VON HAYEK, Individualism and Economic Order cit., p. 9, vedi anche le pp. 4-5) si deve però sottolineare che Menger aveva collocato Smith nella tradizione opposta a quella di 32 33
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Burke del mondo organico della “piccola schiera cui ci troviamo ad appartenere nella società”36. D’altronde il vero individualismo per Hayek era quel sistema che rappresentava un’alternativa al socialismo ed al collettivismo ai quali conduceva inesorabilmente il falso individualismo37. Ma il socialismo, come abbiamo visto, in realtà non aveva utilizzato solo farina del proprio sacco; esso aveva attinto, da S. Simon in poi, a piene mani nell’armamentario ideologico dei pensatori reazionari e conservatori che avrebbero inaugurato una fortunata e coerente tradizione intellettuale di critica all’azione del capitalismo ed ai valori borghesi. A questo punto, abbandonato il campo dei conservatori, più o meno dichiarati, ci rivolgiamo di nuovo all’intellingentsija della sinistra illiberale, la quale, sempre dopo la seconda guerra mondiale, paradossalmente, beneficiò di un certo grado di legittimazione, anche presso le opinioni pubbliche di molti paesi occidentali, in virtù del successo bellico dell’Unione Sovietica. Inoltre, come ha sottolineato Augusto Del Noce, vi era stata una sorta di riscoperta del marxismo filosofico proprio tra il 1930 ed il 1945, che aveva determinato l’affermazione di uno “storicismo” di matrice illuministica a Burke. Egli infatti aveva scritto che “ciò che caratterizza la dottrina di Adam Smith e dei suoi allievi è il liberalismo unilateralmente razionalistico, l’aspirazione non di rado avventata alla rimozione dell’esistente, non sempre sufficientemente compreso, e l’altrettanto avventato impulso alla creazione di qualcosa di nuovo nel campo delle istituzioni politiche, abbastanza spesso senza una sufficiente conoscenza ed esperienza” (C. MENGER, Untersuchungen über die Methode der Socialwissenschaften, und der politischen Ökonomie insbesondere (1883), in Id., Gesammelte Werke, vol. II, 2, Mohr, Tübingen, 1969, p. 207; trad. it., Sul metodo delle scienze sociali, Macerata, Liberilibri, 1996, p. 188). Su questo aspetto vedi R. CUBEDDU, The Philosophy of the Austrian School, London, Routledge, 1993, pp. 30, 60-61 nota 143. Sull’influenza di Burke su Menger, Ibid., pp. 5, 30. 36 E. BURKE, The Writings and Speeches of Edmund Burke cit., vol. VIII, p. 97. Secondo John Gray, Hayek sembrerebbe aver perso quella “prudenza” politica che aveva caratterizzato conservatori come Burke, Disraeli e Salisbury e quello scetticismo che aveva permesso a tutti questi politici di essere sospettosi del progetto illuministico di continuo progresso, basato unicamente su una crescita economica indefinita e su un mercato senza vincoli (J. GRAY, Enlightenment’s Wake. Politics and Culture at the Close of the Modern Age, London, Routledge, 1995, pp. 88-89). 37 F. VON HAYEK, Individualism and Economic Order cit., pp. 3-4.
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discapito di quello tradizionalista o romantico. Addirittura, poiché la società tecnologica stava dimostrando di poter abolire la miseria, disattivando così nei fatti la stessa molla rivoluzionaria del marxismo, si poteva prefigurare perfino una specie di unità illuministica del pensiero laico nell’incontro tra liberalismo e socialismo38. Il socialismo marxista, comunque, era portatore di un’istanza di completamento e di superamento della civiltà illuministica che finiva però per negarla, per cui si può dire che esso raccolse il testimone ideale nella battaglia contro l’illuminismo. In occidente, in particolare, gli autori marxisti, dovettero attrezzarsi per sostenere le sfide teoriche poste dall’affermazione pratica delle liberal-democrazie. Per esempio, possiamo ricordare la sfida che vide di fronte nell’Italia degli anni ‘50, il filosofo Norberto Bobbio e quello comunista Galvano della Volpe, sostenuto dallo stesso segretario del partito comunista più forte d’occidente, Palmiro Togliatti (che prese parte alla tenzone sotto lo pseudonimo di Roderigo). In gioco vi era il concetto stesso di libertà che veniva accusata dai marxisti, in quanto borghese, di astratto formalismo, in nome di una concezione della stessa che doveva andare più nella sostanza per rimuovere quegli ostacoli di vario ordine che impedivano di raggiungere una reale uguaglianza39. A sostenere la posizione di ispirazione marxista più al passo coi tempi nei confronti dell’illuminismo sarebbe stato Lucien Goldmann in un libro del 1967. Dopo aver sostenuto che la critica ed il superamento dell’illuminismo proposto dagli autori della “subbiettività irrazionale” come Bergson, Heidegger e Jaspers non era che un “episodio transitorio che la storia [era] già in procinto di superare”, Goldmann sottolineava come la polemica socialista contro il carattere dissociante del capitalismo fosse fondata sui concetti di “alienazione” (Hegel) e “reificazione” (Marx). Nonostante la fondatezza di tali critiche egli constatava come, non solo già nell’OttoA. DEL NOCE, L’epoca della secolarizzazione, Milano, Giuffré, 1970, pp. 7, 12-15. 39 Cfr. N. BOBBIO, Politica e cultura, Torino, Einaudi, 2005. P. Togliatti, I corsivi di Roderigo, Bari, De Donato, 1976. 38
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cento le società occidentali erano riuscite in parte a realizzare il programma dell’illuminismo, ma addirittura avevano creato “le premesse per la realizzazione completa di questo programma”. La presa d’atto di questo successo andava accoppiata ad un altro aspetto ancora più evidente ed innegabile. Dovunque si era avuta “l’eliminazione dell’economia di mercato costituente il fondamento della società borghese”, ovunque si era “pregiudicata l’esistenza di valori essenziali connessi proprio con questo umanesimo”. Di fronte però alla costruzione di “una società industriale profana e radicalmente desacralizzata”, l’uomo poteva godere sì di libertà sempre più ampie, ma rischiava di scivolare “ogni giorno di più verso un vuoto spirituale”. Qui, per Goldmann, stava dunque la scommessa del socialismo: salvare i valori dell’illuminismo “eguaglianza, libertà, tolleranza”, ancorandoli “nell’autocoscienza di ogni singolo membro della società umana”40. Niente di nuovo quindi da un’ortodossa visione marxista se non uno sforzo ulteriore per riconoscere l’importanza dell’eredità dei Lumi che comunque doveva essere sorpassata. Per questo motivo, se vogliamo capire di cosa si è nutrito gran parte dell’antilluminismo contemporaneo, non possiamo fermarci a posizioni come quelle di Goldmann. In realtà infatti, sempre a sinistra e nell’alveo del marxismo, avrebbe preso corpo una critica radicale nei confronti dell’illuminismo che avrebbe goduto di un’immensa fortuna, una critica che poteva riassumersi nel titolo di una celeberrima opera di Theodor W. Adorno e Max Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo. Nella prefazione alla prima edizione i due autori si erano infatti proposti di cercare di capire quali fossero le dinamiche autodistruttive dell’illuminismo, avevano tentato di comprendere perché l’umanità, a causa del progresso tecno-scientifico, “invece di entrare in uno stato veramente umano” sprofondasse “in un nuovo genere di barbarie”41. L. GOLDMANN, L’illuminismo e la società moderna, Torino, Einaudi, 1967, pp. 99, 102, 107-108, 110-111. 41 M. HORKHEIMER, T.W. ADORNO, Dialektik der Aufklärung (1947), Frankfurt am Main, Fischer Verlag, 1971, p. 1 (trad. it., Dialettica dell’illuminismo, Torino, 40
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Questo tipo di polemica era erede della scuola sociologica di Francoforte e si poteva ricondurre, fatte le dovute tare marxiste, alle analisi della destra conservatrice e reazionaria svolte tra le due guerre e che abbiamo analizzato nel precedente capitolo. Questa contiguità di vedute la possiamo riscontrare, direttamente o indirettamente, in diverse circostanze: dall’uso cioè dei medesimi argomenti, al fatto di doversi differenziare da questi temi partendo comunque dallo stesso milieu. Un esempio di quest’ultima modalità la possiamo rinvenire nel discorso inaugurale dell’“Institut für Sozialforschung” fatto da Carl Grünberg nel 1924, discorso nel quale egli si auspicava che, in quel periodo di crisi e transizione per il mondo occidentale, sulle ceneri del capitalismo alla fine si sarebbe affermato il nuovo ordine socialista, contemporaneamente però egli palesava altresì l’esigenza di prendere le distanze da quei molti e sempre più influenti scrittori che allora stavano blaterando sul declino dell’occidente42. Nonostante Jeffrey Herf abbia negato la tesi di chi sostiene che le idee della teoria critica della scuola di Francoforte, specie sulla tecnica, derivino dagli intellettuali di destra schierati contro la zivilisation, e Martin Jay si sia sforzato di dimostrare che il tipo di rilievi mossi dai francofortesi al razionalismo siano diversi da quelli di stampo reazionario o burkeano43, in realtà la teoria critica, in primis nei suoi rappresentanti più noti come Adorno, Horkheimer ed Herbert Marcuse, è pervasa da un chiaro pregiudizio aristocratico nei confronti della cultura di massa, pregiudizio che affonda le sue radici proprio nel mondo della destra. Due autori che hanno lambito la scuola di Francoforte lasciando il proprio segno riguardo a queste tematiche, in modi diversi ma Einaudi, 1980, p. 3). 42 C. GRÜNBERG, Festrede, gehaltern zur Einweihung des Institut für Sozialforschung, Juni 22, 1924, “Frankfurter Universitätsreden”, XX, (1924), in P. GAY, Weimar Culture. The Outsider as Insider (1968), New York, Harper and Row, 1970, p. 41 (trad. it., La cultura di Weimar, Bari, Dedalo, 1978, pp. 68-69). 43 J. HERF, Reactionary Modernism cit., p. 34, M. JAY, The Dialectical Imagination. A History of the Frankfurt School and the Institute of Social Research, 19231950, Boston - Toronto, Little, Brown and Company, 1973, p. 273.
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sempre incisivamente, sono stati Sigfried Kracauer e Walter Benjamin. Nel primo soprattutto, la cui lezione non sarebbe stata dimenticata da Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’illuminismo, si nota infatti una netta cesura nel suo cammino intellettuale, segnato dal passaggio da “un tipo di critica romantico-pessimistica della civiltà”, ad un altro dai presupposti molto diversi, perché scaturente dall’incontro con il pensiero di Marx44. Ancora nell’articolo Il viaggio e la danza del marzo 1925, come scrive S. Oswald, “Kracauer si presenta nel ruolo di critico della civiltà borghese. Guardando all’immagine ideale di epoche ormai tramontate, egli analizza sulla base di sintomi esteriori la situazione spirituale del suo tempo”45. In questo scritto infatti si punta l’indice contro la “meccanizzazione” della società moderna, che richiede per la propria comprensione il solo “intelletto divenuto autonomo”, “libero dai legami con l’aldilà”, intelletto che “genera la tecnica e tende ad una razionalizzazione che informi la vita alla tecnica”. L’intelletto così mette in atto un dominio sullo spazio e sul tempo, esercita una vera e propria sovranità razionale che cerca di avere “ragione delle cose con la matematica”, a detrimento di ogni comprensione spirituale, fino a che “il fattore tecnico” non “diventa (...) scopo a sé stesso”, in “un mondo che non desidera nient’altro che la massima tecnicizzazione di tutto ciò che accade”. “Radio, telefotografia ed altre invenzioni del genere”, scriveva Kracauer, “questi parti della fantasia razionale, servono tutti a casaccio a quest’unico scopo: alla pervertita onnipresenza in tutte le dimensioni calcolabili”. Ed in un mondo così concepito, la ricerca di surrogati spirituali, faceva acquisire una sorta di significato teologico anche ad attività come il viaggio o la danza, cercate da chi voleva fuggire la routine del lavoro e della vita quotidiana, attività che, “per le figure 44 R. BODEI, “Le manifestazioni della superficie”: Filosofia delle forme sociali in Siegfried Kracauer, in S. KRACAUER, La massa come ornamento (1963), Napoli, Prismi, 1982, p. 15, S. OSWALD, introduzione a S. KRACAUER, La massa come ornamento cit., pp. 30-31. 45 S. OSWALD, introduzione a S. KRACAUER, La massa come ornamento cit., p. 29.
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strette nella morsa della meccanizzazione”, arrivavano addirittura a rappresentare “l’intrinseca possibilità di vivere, pure se in maniera impropria, quella doppia esistenza che è costitutiva della realtà”. Per i viaggiatori il fatto di raggiungere altri luoghi era infatti “l’unico mezzo rimasto loro per mostrare che trascendono le regioni dell’al di qua alle quali sono normalmente assoggettati”. Con la danza invece, si sperimentava una condizione analoga riguardo al tempo, essa rappresentava cioè “una possibilità di cogliere l’eterno” nel “passaggio dal tempo dell’attività profana ad un altro tempo; quello che conta è il ritmo in sé, non ciò che la danza vuol significare”46. Esattamente un anno dopo ne Il culto del divertimento, Kracauer prendeva di mira i grandi cinema di Berlino concepiti per il divertimento di grandi masse, tenute avvinte da un “eccitamento dei sensi” che “si sussegue senza interruzioni” allo scopo di non concedere “spazio per la minima riflessione”47. Era questo un erotismo fittizio alimentato anche dalla grande stampa e dai periodici illustrati per distogliere “l’attenzione” della massa, “dai mali oggettivi della società” fino al punto di far diventare la vita stessa “un’invenzione” di chi godeva della possibilità di usufruire di ampi mezzi materiali, un’invenzione emulata da tutti gli altri “nella maniera più goffa”. I registi, ovviamente, indirizzando l’obiettivo della cinepresa sulla sorte di singoli casi personali, erano dei maestri in quest’opera di mistificazione ed evitavano qualsiasi accenno ad una classe operaia che cercasse di sollevarsi dalla propria condizione per mezzo di strumenti politici. Queste amare constatazioni erano accompagnate dalla consapevolezza che i “lamenti lacrimosi” verso quei cambiamenti che avevano generato “un gusto di massa” erano “ormai tardivi” e non si poteva più “tornare indietro”48. S. KRACAUER, Die Reise und der Tanz (1925), in Id., Das Ornament der Masse. Essays, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1963, pp. 45-47 (trad. it., Il viaggio e la danza, in Id., La massa come ornamento cit., pp. 73-75). 47 S. KRACAUER, Kult der Zerstreuung (1926), in Id., Das Ornament der Masse cit., p. 314 (trad. it., Culto del divertimento, in Id., La massa come ornamento cit., pp. 81-82). 48 S. KRACAUER, Die kleinen Ladenmädchen gehen ins Kino (1927), e Das Ornament der Masse (1927), in Id., Das Ornament der Masse cit., pp. 283-285, 63 46
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Il guado marxista, con questi tre ultimi articoli, era oltrepassato e già si potevano intravedere in fieri le celebri critiche che la Scuola di Francoforte avrebbe rivolto all’industria culturale sostenuta dal capitalismo. L’omogeneizzazione, l’uniformità, l’inquadramento e l’organizzazione razionale delle masse, venivano spiegate come perfettamente congeniali al “processo produttivo capitalistico”, caratterizzato dall’“astrattezza”. La razionalità che questo processo promuoveva era falsa, era “una ragione distorta. A partire da un certo punto abbandona[va] a sé stessa la verità della quale pur partecipa[va]. La «ratio» non comprende[va] l’uomo”. In questa fase del suo percorso intellettuale Kracauer tendeva ancor di più a differenziarsi da coloro che ambivano a restaurare una comunità tradizionale e specificava, secondo la vulgata marxista, che la pecca del capitalismo non era l’eccesso di razionalizzazione: “Esso non razionalizza troppo, ma troppo poco (...), si oppone al compimento della ragione”49. Per quanto riguarda Benjamin, nel suo celebre saggio degli anni ‘30 su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, egli esaminò le conseguenze dell’affermazione della società di massa sull’ultimo baluardo dell’individualità aristocratica che ormai poteva esprimersi solo nell’“unicità dell’opera d’arte”; l’ultimo campo dell’attività umana che ancora sembrava essere circondato da un’“aura” di sacralità, e dove ancora pareva resistere il valore della tradizione e dell’eredità culturale. La riproducibilità tecnica e il dominio dei movimenti di massa erano “strettamente legati”, scriveva Benjamin: “La tecnica della riproduzione (...), sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione. Moltiplicando la riproduzione, essa pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi. E permettendo alla riproduzione di venire incontro a colui che fruisce nella sua particolare situazione, attualizza il riprodotto. Entrambi i processi portano ad un violento procedimento che investe ciò che (trad. it., Le piccole commesse vanno al cinema, e La massa come ornamento, in Id., La massa come ornamento cit., pp. 89-90, 110). 49 S. KRACAUER, Das Ornament der Masse cit., pp. 57-58 (trad. it. cit., p.105).
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viene tramandato – a un rivolgimento della tradizione, che è l’altra faccia della crisi attuale e dell’attuale rinnovamento dell’umanità”50. La riproducibilità tecnica, superando la singolarità dell’opera d’arte, tendeva dunque ad avvicinarla alla massa che aspirava ad “impossessarsi dell’oggetto da una distanza il più possibile ravvicinata nell’immagine, o meglio nell’effige, nella riproduzione”. L’arte che aveva trovato un senso nella tradizione esprimendosi nel “culto”, nell’ambito di un determinato “rituale” all’interno del quale aveva acquisito “il suo primo ed originario valore d’uso”, vedeva adesso cambiare completamente la sua funzione che veniva a “fondarsi sulla politica”. E qui il termine politica per Benjamin, assumeva gli stessi contorni che gli aveva dato Thomas Mann, e non significava altro che “democratizzazione”. Si poteva così tracciare un parallelo tra la crisi degli stati liberali e quella delle arti tradizionali: “Le democrazie espongono colui che governa immediatamente, con la sua persona, e lo espongono di fronte ai rappresentanti del popolo. Il parlamento è il suo pubblico! Con le innovazioni delle apparecchiature di ripresa, che permettono di far sentire, e poco dopo di far vedere l’oratore ad un numero illimitato di spettatori, l’esposizione dell’uomo politico di fronte a queste apparecchiature di ripresa assume un ruolo di primo piano. Si svuotano i parlamenti, contemporaneamente ai teatri. La radio e il cinema modificano non soltanto la funzione dell’interprete professionista ma anche, e allo stesso titolo, quella di coloro che, come i governanti, interpretano sé stessi. L’orientamento di questa modificazione è lo stesso, a parte i diversi compiti particolari, per l’interprete cinematografico e per colui che governa. Esso persegue la produzione di prestazioni verificabili, anzi adottabili, in determinate condizioni sociali. Ciò ha come risultato una nuova selezione, una selezione che avviene di fronte al-
W. BENJAMIN, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen reproduzierbarkeit (1930), dritte fassung, in Id., Gesammelte Schriften, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1991, vol. I, tomo II, pp. 477-479 (trad. it., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1980, pp. 23-25). 50
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l’apparecchiatura; da questa selezione escono vincitori il divo e il dittatore”51. Per Benjamin era il cinema il prototipo più esemplificativo di questo trapasso, da nessun altra parte infatti, tranne che qui, “la reazione dei singoli, la cui somma costituisce la reazione di massa del pubblico, si rivela preliminarmente condizionata dalla loro immediata massificazione”. Il cinema sostituiva l’“aura” con una “personality” artificiosa costruita fuori dagli studi, ed “il capitale cinematografico” promuoveva una sorta di “culto del divo” per cercare “di conservare quella magia della personalità” che era ormai “ridotta alla magia fasulla propria del suo carattere di merce”52. Non dissimilmente dalla critica dei conservatori, Benjamin metteva in risalto il carattere di impoverimento spirituale conseguente all’uso del nuovo mezzo tecnico. Mentre il dipinto poteva essere ammirato da pochi, il cinema poteva accedere al grande pubblico ma rappresentava un decadimento rispetto alla pittura, perché se il primo invitava “l’osservatore alla contemplazione”, e lo lasciava “abbandonarsi al flusso delle delle sue associazioni”, tutto ciò non era possibile di fronte “all’immagine filmica”. Non appena infatti questa veniva percepita “visivamente” in realtà si era “già modificata” e non poteva esser “fissata”. E non vi era solamente un problema di “ricezione nella distrazione” ma addirittura l’“effetto shock” del cinema, scriveva Benjamin, anticipando i più pessimisti critici odierni della televisione, provocava “un approfondimento dell’appercezione su tutto l’arco del mondo della sensibilità ottica, e ora anche di quella acustica”. Benjamin, citando a proprio sostegno le parole di un autore controverso come Georges Duhamel, esemplificava i meccanismi che venivano messi in moto dall’interazione con le immagini, meccanismi che come risultato finale avevano quello di impedire il pensiero stesso. Di fronte alle immagini, aveva infatti scritto l’autore di Scènes de la vie future (1930), “non sono già più in grado di pensare quello che voglio pensare. Le immagini mobili 51 52
Ibid., pp. 480-482, 491-492 (trad. it. cit., pp. 25-27, 53). Ibid., pp. 497, 492 (trad. it. cit., pp. 39, 34-35).
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si sono sistemate al posto del mio pensiero”. Pertanto il cinema che riscuoteva grande successo tra le masse non era altro che “un passatempo per iloti, una distrazione per creature incolte, miserabili, esaurite dal lavoro, dilaniate dalle loro preoccupazioni (...), uno spettacolo che non esige alcuna concentrazione, che non presuppone la facoltà di pensare (...), che non accende nessuna luce nel cuore e non suscita alcuna speranza se non quella ridicola, di diventare un giorno, a Los Angeles, una star”53. Nell’attacco all’illuminismo di Adorno ed Horkheimer dunque, convergevano le rielaborazioni critiche di Kracauer e Benjamin, attraverso la mediazione del marxismo, su temi che, come abbiamo visto, erano cari alla cosiddetta ‘critica della civiltà’ di estrazione conservatrice. Da quel tipo di ‘critica’, formalmente, anche Adorno ed Horkheimer tendevano a dissociarsi, affermando che, a differenza di quanto avevano sostenuto personaggi come Huxley, Jaspers od Ortega, “non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze”54. Che cosa dicevano allora i due autori sulla tecnica? Il suo massimo potere, la sua razionalità, il suo dominio si incarnavano nella ‘standardizzazione’ e nella produzione in serie, promosse dall’industria culturale. Questo processo aveva ormai travalicato le stesse “leggi oggettive del mercato”, ed i suoi “ciechi meccanismi dei prezzi” erano stati sostituiti “dalla decisione consapevole dei direttori generali”, in una “pianificazione generale” che decideva tutto, dalle “merci” ai “valori”, e di cui solo “la sostituibilità” rappresenta53 Ibid., pp. 497-506 (trad. it. cit., pp. 39-46). Della sintonia di Benjamin con le critiche conservatrici costituisce prova anche la circostanza che egli riporti in nota un intero passo di Aldous Huxley. Certo da Huxley Benjamin non poteva non prendere le distanze per il suo “modo di vedere” non “progressista”, ma nel passo citato si faceva proprio riferimento al fatto che la “moltiplicazione illimitata degli scritti e delle immagini” dovuta alla “riproducibilità tecnica” ed alla “stampa in rotocalco”, avesse “portato alla volgarità”, senza che, parallelamente a questi “progressi tecnici”, si fossero sviluppate adeguatamente le sensibilità e i talenti artistici (Ibid., pp. 493-494; trad. it. cit., pp. 53-54). 54 M. HORKHEIMER, T.W. ADORNO, Dialektik der Aufklärung cit., p. 4 (trad. it. cit., p. 7).
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va l’aspetto più importante e diveniva contemporaneamente il segno “del progresso e (...) della regressione”. L’industria culturale addirittura aveva “ereditato la missione civilizzatrice della democrazia della frontiera e della libera iniziativa” ed il suo prodotto principale era “l’amusement”, cioè “il prolungamento del lavoro nell’epoca del tardo capitalismo”, inseguito da chi voleva temporaneamente “sottrarsi al processo lavorativo meccanizzato per essere poi in grado di affrontarlo ed essere alla sua altezza”. Questo modello veniva “inculcato” ai singoli “attraverso le innumerevoli agenzie della produzione di massa e della sua cultura” impegnate ad elaborare le uniche modalità di comportamento considerate “naturali, decoros[e] e ragionevoli”. Ciò che sembrava venirci propinato era quindi una grande libertà ma in realtà questa era solo “apparente”, non c’era infatti tanta scelta al di fuori dei canoni che il modello dominante imponeva, la stessa individualità aveva un mero “carattere fittizio” e le metropoli pullulavano di “individui intimamente distaccati ed indifferenti”. Nel passo seguente si può constatare come nell’affrescare a tinte fosche il triste teatro della vita quotidiana, Adorno ed Horkheimer non avessero nulla da invidiare alle impietose descrizioni della società capitalistica che potevano scaturire dalle penne dei conservatori: “Tutti sono liberi di ballare e di divertirsi, come, a partire dalla neutralizzazione storica della religione, sono liberi di entrare in una delle innumerevoli sette. Ma la libertà nella scelta dell’ideologia, che riflette sempre la costrizione economica, si rivela in tutti i settori come la libertà del sempre uguale. Il modo in cui una ragazza accetta ed assolve il suo date obbligatorio, il tono della voce al telefono e nella situazione più familiare, la scelta delle parole nella conversazione e l’intera vita privata, ordinata secondo i concetti della psicoanalisi volgarizzata, attestano lo sforzo di fare di sé stessi l’apparecchio adatto al successo, conforme, fino ai moti più istintivi, al modello presentato dall’industria culturale. Le reazioni più intime degli uomini sono così perfettamente reificate ai loro stessi occhi che l’idea di ciò che è proprio e peculiare a ciascuno di essi sopravvive solo nella forma più astratta: personality non ha pra-
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ticamente altro senso, per loro, che quello di denti bianchi, bocca fresca e libertà dal sudore e dalle emozioni. È il trionfo della pubblicità nell’industria culturale, l’imitazione coatta, da parte dei consumatori, delle merci culturali pur scrutate nel loro significato”55. Chi era il vero colpevole dell’“estraniazione degli uomini dagli oggetti dominati”, chi il responsabile principale della “reificazione dello spirito”? La risposta era chiara e semplice, come quella fornita dai conservatori, “il soggetto logico dell’illuminismo”, il “borghese” che, “nelle forme successive del proprietario di schiavi, del libero imprenditore, dell’amministratore”, aveva sottomesso la natura, cercando una “soddifazione impossibile” che avrebbe portato, prima o poi, alla stessa “distruzione dell’umanità”. Per dominare il mondo con la tecnica industriale, però, “era prima necessario che i pensieri si rendessero indipendenti dagli oggetti”. Questo era stato il compito precipuo dell’illuminismo, che aveva piegato tutta la realtà ai criteri del calcolo e dell’utilità, illuminismo che era, nella sua essenza, “totalitario”, sia nella versione empirista che in quella razionalista. Esso infatti aveva reso “comparabile l’eterogeneo riducendolo a grandezze astratte”, ed era proprio nell’“astrazione”, fondata sul “distacco del soggetto dall’oggetto” e quindi dalla “cosa”, che si esprimeva il suo “dominio livellatore”. Il prototipo storico del soggetto illuminista era stato il Marchese de Sade che aveva mostrato all’opera l’“intelletto senza la guida di un altro”. Nel suo estremo relativismo morale si poteva cogliere come l’età dei Lumi, erede della metafisica platonica ed aristotelica, avesse, nel suo percorso, alla fine consumato ogni concetto universale. Nonostante le indubbie affinità con la sensibilità reazionaria, Adorno ed Horkheimer, nel condannare l’illuminismo per il suo essere “totalitario più di qualsiasi sistema”, cercavano in tutti i modi di distinguersi dalla critica romantica che aveva sempre contestato la “falsità” dell’illuminismo solo nel suo “metodo analitico”, nella sua “riduzione agli elementi”, nella sua “riflessione dissolvente”. Non era lì che stava la 55 Ibid., pp. 108-109, 150, 28-37, 123, 139-140 (trad. it. cit., pp. 126-128, 181, 35-45, 145, 166-167).
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sua pecca più grave ma la si poteva riscontrare “in ciò che per esso è deciso in anticipo”. Nella pretesa cioè di concepire l’ignoto prima di essere realmente conosciuto, come faceva la matematica che cercava di ridurre in teoremi anche “l’irrisolvibile e l’irrazionale”. Agendo in questo modo, “identificando in anticipo il mondo matematizzato fino in fondo con la verità, l’illuminismo si crede al sicuro dal ritorno del mito”56. Come ha analizzato Martin Jay, Horkheimer aveva condiviso la critica di Vico all’illuminismo, ed in particolare al razionalismo dualistico cartesiano, e durante gli anni ’40 aveva dilatato la sua concezione di illuminismo da manifestazione culturale della borghesia in ascesa politica sino ad “includere l’intero spettro del pensiero occidentale”. L’essenza dell’illuminismo che consisteva appunto in questo dominio sulla natura infatti, avrebbe scritto in Eclipse of Reason (1947), poteva essere “ricondotta ai primi capitoli della genesi”57. Questa la ragione per cui nella Dialettica, i due autori, sin nella premessa avevano potuto sentenziare che “la tendenza all’autodistruzione appartiene fin dall’inizio alla razionalità”58. Ma lo sforzo di Horkheimer, per distinguersi dai conservatori o dalla critica al razionalismo di Michael Oakeshott, lo aveva portato ad ipotizzare l’esistenza di “due concetti di ragione”, uno “oggettivo” che doveva contrapporsi all’altro, quello “soggettivo” e parziale; era stato nella sostituzione delle formule ai concetti che si era creata una divisione insanabile tra il nome e le cose. Un punto di vista questo coincidente con quanto aveva sostenuto anche Benjamin che aveva scritto che la logica formale era ciò che aveva impedito all’uomo di comprendere il linguaggio del paradiso59. 56
62).
Ibid., pp. 75-79, 10-16, 24-28, 51-52 (trad. it. cit., pp. 89-92, 14-21, 32-35,
57 M. HORKHEIMER, Eclipse of Reason, New York, Oxford University Press, 1947, p. 104; M. JAY, The Dialectical Imagination cit., p. 258. 58 M. HORKHEIMER, T.W. Adorno, Dialektik der Aufklärung cit., p. 6 (trad. it. cit., p. 9). 59 M. HORKHEIMER, Eclipse of Reason cit., p. 174. Cfr. M. Jay, The Dialectical Imagination cit., pp. 272, 259-263.
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Herbert Marcuse si aspettava che Horkheimer sviluppasse quelle che riteneva essere le logiche conseguenze desumibili dai suoi argomenti, in particolare quella che considerava la più “inquietante”: “il fatto cioè che la ragione che si capovolge nella manipolazione e nel dominio completo rimane pur sempre ragione, e che quindi il lato veramente spaventoso del sistema sta più nella razionalità che non nell’antiragione”60. In realtà fu proprio il suo contributo che disvelò una nuova dimensione dei temi trattati nella Dialettica, una dialettica che, nella sua opinione, non era riuscita affatto a spiegare perché avvenisse questo capovolgimento. Egli pertanto cercò, in Eros e civiltà, di dare innanzitutto una connotazione positiva all’ illuminismo mostrando come fosse concepibile e realizzabile, anche a dispetto della teoria freudiana, una civiltà senza repressione “addizionale”, nella quale il conflitto tra la vita e la morte si sarebbe ridotto “tanto più quanto più la vita si avvicina allo stato di soddisfazione”. La morte certo rimaneva una necessità contro la quale l’umanità avrebbe combattuto “la sua più lunga battaglia”, ma non stava tanto in questo fatto lo scandalo quanto nella tragica eventualità per cui nel mondo si continuava a morire “in agonia e tra sofferenze”: in ciò stava “il grande atto di accusa contro la civiltà” 61. Marcuse in pratica, con le parole di Jay, aveva tentato l’“integrazione utopica di Marx e Freud”62. Il progresso tecnico aveva senza dubbio rimosso la scarsità e la penuria; la ragione strumentale, il “soggetto contro un oggetto”, aveva dominato e sfruttato la natura sviluppando tutte le potenzialità umane, ma in questo processo il tempo che veniva “dedicato al lavoro alienato assorb[iva] il tempo per i bisogni 60 Lettera di Marcuse ad Horkheimer del 18 luglio 1947, in R. WIGGERSHAUS, Die Frankfurter Schule. Geschichte, theoretische Entwicklung, politische Bedeutung, München-Wien, Carl Hanser Verlag, 1986, p. 390 (trad. it., La scuola di Francoforte. Storia. Sviluppo teorico. Significato politico, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, p. 360). 61 H. MARCUSE, Eros and Civilization. A Philosophical Inquiry into Freud (1955), New York, Vintage Books, 1962, p. 215 (trad. it., Eros e civiltà, Torino, Einaudi, 1967, p. 247). Cfr. R. WIGGERSHAUS, Die Frankfurter Schule cit., pp. 556557. 62 M. JAY, The Dialectical Imagination cit., pp. 109-111.
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individuali – e determina[va] i bisogni stessi”. L’individuo, soverchiato dalle informazioni e dalle comunicazioni di massa, aveva perso coscienza di ciò che stava accadendo intorno a lui, aveva abbandonato gli stessi strumenti razionali per interpretare la realtà: “la prepotenza della macchina dell’educazione e dei divertimenti lo fonde con tutti gli altri in uno stato di anestesia dal quale si tende ad escludere ogni idea sospetta”, uno stato di anestesia che comunque lo rende “felice”63. Ne L’uomo a una dimensione Marcuse avrebbe approfondito e sviluppato tale punto di vista parlando di un sistema il cui apparato produttivo tendeva a divenire “totalitario” perché realizzava non solo ciò che era socialmente necessario ma persino “i bisogni e le aspirazioni individuali”. La società industriale avanzata soffocava proprio quei bisogni che chiedevano “di essere liberati – liberati anche da ciò che è tollerabile e remunerativo e confortevole”. Essa reclamava “l’individuo intero” e lo plasmava a tal punto da far emergere “forme di pensiero e di comportamento ad una dimensione”. Da una parte dunque la “razionalità tecnologica” aveva creato il benessere e dall’altra però questa ricchezza si era saldata insieme ad una “manipolazione” che avveniva attraverso “nuove forme di controllo sociale” che di fatto vanificavano l’esistenza di una vera libertà e fomentavano “il bisogno ossessivo di produrre e consumare lo spreco; il bisogno di lavorare sino all’istupidimento”, anche quando non c’era un reale necessità. La razionalità tecnologica infatti attraverso una “amministrazione totalmente accentrata impone una restrizione sistematica su a) il tempo libero «tecnicamente» disponibile; b) la quantità e la qualità di beni e servizi «tecnicamente» disponibili per i bisogni vitali dell’individuo; c) l’intelligenza (cosciente ed inconscia) capace di comprendere e realizzare le possibilità di autodeterminazione”. Marcuse sottolineava così anche la presenza di un pluralismo fittizio nella società: era certamente vero che i vari poteri, in uno stato democratico, si controbilanciavano l’un l’altro ma 63 H. MARCUSE, Eros and Civilization cit., pp. 99, 101, 94-95 (trad. it. cit., pp. 142, 144, 136-137).
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alla fine essi tendevano sempre a “riunirsi a livello superiore nell’interesse comune” difeso dall’attacco delle varie “alternative storiche” che si presentavano nel proscenio della politica64. Il pluralismo, per Marcuse, veniva svuotato in un senso ancora più profondo; la cultura infatti, nell’epoca delle comunicazioni di massa, era ridotta al suo minimo comun denomunatore, “la forma di merce”. Venivano dunque meno, come avevano già indicato Benjamin, Kracauer e i conservatori, il ruolo e le “sublimazioni dell’alta cultura”, quell’ alta cultura che da sempre si era opposta “in modo irreconciliabile al mondo degli affari” sino a negarlo con personaggi “sovversivi come l’artista, la prostituta, l’adultera, il gran criminale senza patria, il guerriero, il poeta-ribelle, il diavolo, l’idiota – coloro che non lavorano per vivere, almeno in un modo ordinato e normale”. Nell’epoca della riproduzione e del consumo di massa si aveva solamente una quantitativa “democratizzazione della cultura”, ma per quanto riguardava “le opere alienate e alienanti” non cresceva certo il “numero di coloro che sanno apprezzarle e capirle”. Il nuovo totalitarismo “assimilante” svuotava di fatto “la dimensione artistica, assorbendone i contenuti antagonistici”, tanto era vero che anche le nuove avanguardie o i beatnik non facevano che contribuire “ad affermare piuttosto che a negare l’ordine costituito”, semplicemente dividendosi “il compito di divertire senza porre in pericolo la buona coscienza degli uomini di buona volontà”65. Il quadro delineato da Marcuse vedeva perciò nelle nostre società affermarsi contemporaneamente “lo spreco e la limitazione della produttività; il bisogno dell’espansione aggressiva; la minaccia costante della guerra, lo sfruttamento intensificato; la disumanizzazione”, insieme alla presenza di masse indottrinate e incapaci di comprendere e valutare la realtà e quindi di autodeterminarsi. Tutto questo andava a configurare l’“irrazionalità crescente” del sistema, H. MARCUSE, One Dimensional Man. Studies in Ideology of Advanced Industrial Society, London, Routledge and Kegan Paul, 1964, pp. xv, 1, 7-8, 10, 12, 18, 48-51, 123, 146 (trad. it., L’uomo a una dimensione, Torino, Einaudi, 1967, pp. 13, 21, 27-28, 30, 32, 38, 68, 70, 139, 160). 65 Ibid., pp. 56-83 (trad. it. cit., pp. 75-101). 64
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alla quale avrebbe potuto porre rimedio solamente “un Soggetto storico essenzialmente nuovo”, rappresentato da tutti coloro che stavano “al di sotto della base popolare conservatrice (...), il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili”, “gli ospiti delle prigioni e delle case di cura per malattie mentali”. Tutti questi potevano anche sembrarci dei barbari che ai “confini delle società avanzate” minacciavano “l’impero della civiltà”, ma in realtà per Marcuse il vero “secondo periodo di barbarie” non poteva che essere “l’impero ininterrotto della civiltà stessa”66. Parallelamente all’elaborazione della teoria critica operata da Marcuse, in Francia si sarebbe sviluppato un nuovo radicale attacco all’illuminismo, che uno dei suoi maggiori protagonisti, Michel Foucault avrebbe interpretato proprio come continuazione del lavoro svolto dalla Scuola di Francoforte67. Se dunque, come vedremo tra poco, “il postmodernismo” non sarebbe stato pensabile senza la lezione della teoria critica, non lo si può neppure immaginare senza la rivisitazione del pensiero di Nietzsche ed Heidegger compiuta dallo “strutturalismo” francese, diretto erede del radicalismo degli anni ’30; ha scritto infatti Mark Lilla che si può immaginare una linea ideale che inizia con il Koyève, che per primo ha annunciato “la fine della storia e la morte dell’uomo”, e che attraverso Sartre e Merleau-Ponty, arriva ad autori 66
44).
Ibid., pp. 251-252, 256-257, 53, 23-24 (trad. it. cit., pp 260-261, 265, 73,
Foucault, negli ultimi anni della sua produzione, aveva detto di intendere il suo operato come arricchimento di quella tradizione critica che, iniziata con Kant, era arrivata a lui attraverso la Scuola di Francoforte. Nella prima lezione tenuta al Collegio di Francia nel 1983, individuando due linee di pensiero che partivano proprio dalla filosofia di Kant, “la filosofia analitica della verità in generale”, bersaglio della sua polemica, e “l’ ontologia del presente”, filone in cui si era riconosciuto, aveva infatti scritto: “È questa forma di filosofia che, da Hegel, attraverso Nietzsche e Max Weber, fino alla Scuola di Francoforte, ha costituito una tradizione di pensiero nella quale ho cercato di lavorare” (M. FOUCAULT The Art of Telling the Truth -1983-, in Id., Politics, Philosophy, Culture, New York, Routledge, 1988, p. 95). Vedi anche Qu’est-ce que les Lumières? (1984), in Id., Dits et écrits, Paris Gallimard, 1994, vol. IV, p. 562. 67
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come Claude Lévi-Strauss, Roland Barthes, Jacques Lacan, Michel Foucault, Jacques Derrida. Per lo “strutturalismo”, continua Lilla, non avevano senso gli individui autonomi dell’illuminismo, concepiti indipendentemente da determinate “strutture” “linguistiche, simboliche, culturali, psicologiche, ideologiche, «logocentriche», o semplicemente (...) del «potere»”. Molti degli autori citati da Lilla avrebbero rifiutato come “caricaturale” una lettura della loro dottrina in questo senso, non di meno però questo fu il modo in cui furono considerati i loro lavori in Francia, vale a dire come attacchi profondamente politici alla società liberale borghese. In una situazione di crescente benessere, di declino delle classi lavoratrici, di sclerotizzazione del partito comunista francese, di inabissamento di quel mondo politico che era stato prefigurato in passato dal marxismo, “lo strutturalismo sembrò offrire nuove possibilità per la resistenza”68. Dall’inizio degli anni ’60 dunque si sarebbe succeduta una notevole ed impressionante serie di libri volti a cercare una via di fuga dalla tirannia della razionalità scientifica, libri che, ha scritto Charles R. Kesler, “in modi diversi cercarono di rimpiazzare la ragione dialettica con il principio di différance”69. La guerra mossa da parte degli scrittori francesi contro l’individuo autonomo dell’illuminismo e la stessa concezione di umanesimo avrebbe prefigurato, ante litteram, tutti i successivi attacchi. Claude Lévi-Strauss, seguendo Heidegger, aveva duramente criticato l’umanesimo occidentale che aveva cercato un dominio meramente tecnico sulla natura, dominio rivolto unicamente all’accumulo di quantità di energia pro-capite ed alla protezione e prolungamento della sola vita umana. Una distinzione, quella tra essere umano e naturale, che egli già aveva auspicato andasse via via progressivamente attenuandosi70, fino ad arrivare agli ultimi saggi pubM. LILLA, The Legitimacy of the Liberal Age cit., pp. 12-13. C.R. KESLER, The Different Enlightenments: Theory and Practice in the Enlightenment, in W.A. RUSHER (ed.), The Ambiguos Legacy of the Enlightenment, Lanham-New York-London, University Press of America, 1994, p. 105. 70 Cfr. C. LÉVI-STRAUSS, Race et histoire (1952), in Id., Anthropologie structurale deux, Paris, Plon, 1973, pp. 379-398. 68 69
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blicati, dove, ancora ribadendo la problematicità del rapporto tra l’uomo e le altre specie viventi a seguito del suo isolamento sin dalla creazione, decretato dalla tradizione occidentale, concludeva che gli esseri umani dovevano rientrare nei ranghi e diluire i propri diritti nel più vasto diritto generale degli esseri viventi71. Michel Foucault, ne Le parole e le cose, ricordava che Nietzsche non aveva voluto tanto proclamare la morte di Dio “quanto la fine dell’uomo”. Lo psicologo e l’etnologo potevano ormai fare a meno del concetto di “natura umana”, perché nelle loro discipline “l’uomo” non poteva che dissolversi. In fondo, ribadiva Foucault, esso “non è che un’invenzione recente, una figura che non ha nemmeno due secoli, una semplice piega nel nostro sapere, e che sparirà non appena questo abbia trovato una nuova forma”72 . Jacques Lacan, nel momento in cui gli psicoanalisti si prodigavano a stabilire “una psicoanalisi il cui coronamento” fosse “il poema sociologico dell’ io autonomo”73, scrostava il sottile strato che manteneva superficialmente l’equilibrio psicologico dell’individuo, per mostrare l’impellenza “della lettera dell’inconscio” e seminare così il germe dell’incertezza sul tanto vantato dominio razionale: “Non si tratta di sapere se parlo di me in modo conforme a ciò che sono, ma se, quando ne parlo, sono lo stesso che colui di cui parlo”. Lacan concludeva apoditticamente ribaltando l’assunto cartesiano: “Penso dove non sono, dunque sono dove non penso”74. Dopo la seconda guerra mondiale il fronte che si era schierato contro la concezione illuministica dell’io era stato però più vario ed Cfr. C. LÉVI-STRAUSS, Le regard éloigné, Paris, Plon, 1983, pp. 45-48, 374. Vedi anche T. TODOROV, Nous et les autres cit., pp. 81-109. 72 M. FOUCAULT, Les mots et les choses. Une archéologie des sciences humaines, Paris, Gallimard, 1966, pp. 396-397, 390-391, 14-15 (trad. it., Le parole e le cose, Milano, Rizzoli, 1967, pp. 411-412, 405-406, 13). 73 J. LACAN, L’istance de la lettre dans l’inconscient ou la raison depui Freud, in Id., Écrits, Paris, Seuil, 1966, p. 523 (trad. it., Scritti, Torino, Einaudi, 1974, vol. I, p. 518). Scriveva Lacan: “il cogito filosofico è nel punto focale di quel miraggio che rende l’uomo moderno così certo di essere sé nella sua incertezza su sé stesso, o attraverso la diffidenza che da tempo ha potuto imparare a praticare nei confronti delle insidie dell’amor proprio” (Ibid., p. 517; trad. it. cit., p. 512). 74 Ibid., p. 517 (trad. it. cit., p. 512). 71
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articolato. Importante fu il contributo sia della filosofia analitica che di quella ermeneutica. Anche Gilbert Ryle aveva indicato in Cartesio uno dei maggiori responsabili di tale visione. Cartesio aveva commesso il grave errore di trasferire dai corpi alle menti la teoria meccanicistica di Galileo, ma le menti non erano “fantasmi bardati da macchine”, l’uomo non era un “robot”. Bisognava invece riconsiderare una delle fondamentali verità del Freud antilluminista e cioè che la gente in realtà era agita dagli impulsi, faceva quello che non voleva, ignorava fatti della propria vita mentale che per la teoria dovevano altresì essere patenti75. Sullo stesso tema Hans Georg Gadamer, difendendo i pregiudizi dal discredito ad essi inferto dall’illuminismo storicistico, universalista e radicale affermava che “la soggettività è solo uno specchio frammentario”, che “l’autoriflessione dell’individuo non è che un barlume nel compatto fluire della vita storica”. La ragione infatti doveva essere concepita come “reale a storica”, poiché non era “padrona di sé stessa, ma resta sempre subordinata alle situazioni date entro le quali agisce”. Noi eravamo profondamente immersi nella storia ed in quanto appartenenti ad una famiglia, ad una società, ad uno stato, ci comportavamo in modo irriflesso, di qui l’importanza costitutiva della nostra realtà da parte dei pregiudizi a discapito dei giudizi76. Alain Touraine ha comunque scritto che, a partire dalla Scuola di Francoforte, “l’assalto più intelligente e più ardito” contro l’idea di soggetto è stato quello di Michel Foucault77. Nonostante qualcuno abbia visto la sua filosofia come alternativa alla teoria critica, c’è però chi ha considerato particolarmente significativi gli aspetti che avvicinano i due approcci78. Vicinanza di vedute non ci sarebbe sola75 76
325).
G. RYLE, The Concept of Mind, London, Hutchinson, 1949, pp. 20-21, 14. H.G. GADAMER, Wahreit und Methode cit., pp. 260-261 (trad. it. cit., pp. 324-
A. TOURAINE, Critique de la modernité, Paris, Fayard, 1992, p. 201 (trad. it., Critica della modernità, Piacenza, EST, 1997, p. 205). Touraine unisce Foucault ai francofortesi per il disprezzo esternato da entrambi nei riguardi della società di massa (Ibid., p. 207). 78 Cfr. J. BROCKLESBY - S. CUMMINGS, Foucault Plays Habermas: An Alternative 77
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mente nella critica alla soggettività autonoma cartesiana, ma soprattutto nella critica alla “ragione impura”, nella valutazione della razionalità che si è affermata nella società moderna come un potenziale strumento per estendere il nostro potere sulla natura e sullo spirito, una razionalità fatta “di tecnica e calcolo, di regolamentazione ed amministrazione, in cerca di sempre più efficaci forme di dominio”79. Forme di dominio che, secondo James Schmidt, Foucault, seguendo un’idea di Nietzsche, riteneva essere conseguenza di ogni progresso, di ogni avanzamento dell’illuminismo80. Per lui infatti nelle società moderne il potere era venuto elaborando tecniche di irregimentazione e controllo sempre più sofisticate, capillari e minuziose, tanto che quella che le istituzioni e gli apparati erano riusciti a mettere in gioco poteva ben definirsi come “microfisica del potere”. In tale concezione l’uomo, senza per questo ricorrere necessariamente ai mezzi della violenza o dell’ideologia, diveniva “contemporaneamente corpo produttivo e corpo assoggettato”. L’assoggettamento pertanto poteva “assai bene essere diretto, fisico, giocare della forza contro la forza, fissarsi su elementi materiali, e tuttavia non essere violento”; poteva “essere calcolato, organizzato, indirizzato tecnicamente”, poteva “essere sottile, non fare uso Philosophical Underpinning for Critical Systems Thinking, “Journal of the Operational Research Society”, 1996, n. 47, pp. 748-753 e T. MCCARTHY, The Critique of Impure Reason: Foucault and the Frankfurt School, “Political Theory”, 1990, n. 3, pp. 441, 437. 79 T. MCCARTHY, The Critique of Impure Reason cit., pp. 438, 440. Entrambe queste critiche trovano origine, per McCarthy, nel concetto weberiano di “gabbia di ferro” (Ibid.). Richard J. Bernstein aveva già esposto e sviluppato questo argomento in un famoso saggio del 1986, accostando La dialettica di Horkheimer ed Adorno, alle previsioni “di impietramento della meccanizzazione” fatte da Weber ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Bernstein infatti aveva sostenuto che il sociologo di Erfurt era al contempo un erede dell’illuminismo ed uno dei sui “più aspri e devastanti critici” (R.J. BERNSTEIN, The Rage Against Reason, “Philosophy and Literature”, 1986, n. 10, pp. 190-191. Per i passi di Weber a cui si fa riferimento vedi Id., Die protestantische Ethik -1922-, Gütersloh, Gütersloher Verl.-Haus Monh, 1991, pp. 188-190; trad. it., Firenze, Sansoni, 1979, pp. 305308). 80 J. SCHMIDT, What is Enlightenment? A Question, its Context and Some Consequences cit., p. 26.
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né di armi né del terrore, e tuttavia rimanere di ordine fisico”. Il potere che veniva esercitato andava dunque inteso non più come “proprietà” ma come “strategia”, come “rete di relazioni sempre tese, sempre in attività”, relazioni che penetravano “profondamente nello spessore della società”, che andavano oltre il normale rapporto tra cittadino e stato81. Era stato nel corso del XVIII secolo che il potere aveva iniziato a rivolgersi al corpo in modi differenti cercando di disciplinarlo e manipolarlo. “Il grande libro dell’Uomo-macchina venne scritto simultaneamente su due registri: quello anatomo-metafisico, di cui Descartes aveva scritto le prime pagine e che medici e filosofi continuarono; quello tecnico-politico, costituito da tutto un insieme di regolamenti militari, scolastici, ospedalieri e da processi empirici e ponderati per controllare o correggere le operazioni del corpo”82. L’inquietante metafora della modernità era il Panopticon di Bentham che, permettendo l’analisi e la sperimentazione sul comportamento degli uomini, rendeva di fatto possibile il perfetto esercizio del potere. Il panopticon era per Foucault “il diagramma di un meccanismo di potere ricondotto alla sua forma ideale, il suo funzionamento, astratto da ogni ostacolo, resistenza o attrito, [poteva] semplicemente essere rappresentato come un puro sistema architettonico e ottico. [Era] in effetti una figura di tecnologia politica che si [poteva] e si [doveva] staccare da ogni uso specifico”83. Questa modalità di esercizio del potere non era perciò il “prolungamento diretto delle grandi stutture giuridico-politiche di una società; tuttavia non ne [era] del tutto indipendente”. Il processo infatti che aveva portato all’ascesa politica della borghesia nel corso del XVIII secolo aveva trovato protezione “dietro la messa a punto di un quadro giuridico esplicito, codificato, formalmente egalitario, e attraverso l’organizzazione di un regime parlamentare e rappresentativo”. In sostanza il processo di “accumulazione” del caM. FOUCAULT, Surveiller et punir (1975), Paris, Gallimard, 1998, pp. 34-36 (trad. it., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1993, pp. 29-31). 82 Ibid., p. 160 (trad. it. cit., p. 148). 83 Ibid., p. 239 (trad. it. cit., p. 224). 81
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pitale si era svolto parallelamente a quello degli uomini; alla crescita dell’apparato di produzione e della divisione del lavoro era corrisposto un intensificarsi dei procedimenti disciplinari: “ciascuno di essi ha reso l’altro possibile, e necessario; ciascuno di essi ha servito di modello all’altro. La piramide disciplinare ha costituito la piccola cellula di potere all’interno della quale la separazione, la coordinazione ed il controllo sono stati imposti e resi efficaci; e l’incasellamento analitico del tempo, dei gesti, delle forze, dei corpi, ha costituito uno schema operativo che è stato possibile trasferire facilmente dai gruppi da sottomettere ai meccanismi della produzione, la produzione massiva dei metodi militari sull’organizzazione industriale è stata un esempio di questo modellarsi della divisione del lavoro su schemi di potere”84. Leggendo queste pagine appare subito evidente come la polemica di Foucault sia un approfondimento della critica alla società di massa che abbiamo analizzato nel precedente capitolo, nel senso quasi di essere una precisa anatomia storico-genetica dei mali della nostra società. Le analogie evocate dall’autore di Sorvegliare e punire non sono forse le stesse tratteggiate nel celebre film di René Clair, A nous la liberté del 1931? Nella pellicola del regista francese le immagini di una sinuosa fila di detenuti che marciavano cantando verso le loro celle si susseguivano a quelle che vedevano teorie di operai irregimentati alla catena di montaggio ed all’inquadratura di una scuola dove il maestro, insieme agli alunni incasellati tra i lunghi banchi, intonava il canto “il lavoro è libertà”. Per Foucault, a questo punto, era facile collegare queste analogie al fascismo ed allo stalinismo, “due fratelli” che non avevano che utilizzato ed esteso “meccanismi” già presenti nella società, essi infatti oltre “la follia interna loro propria”, non avevano fatto altro che usare “in larga misura le idee e i dispositivi della nostra razionalità politica”85. Ibid., pp. 257-258 (trad. it. cit., pp. 240-242). M. FOUCAULT, Qu’est-ce que la critique? [Critique et Aufklärung] (1978), “Bulletin de la société française de philosophie”, 1990, n. 2, p. 45 (trad. it., Illuminismo e critica, Roma, Donzelli, 1997, p. 48), e Id., The Subject and Power, in H.L. DREYFUS, P. RABINOW (eds), Michel Foucault: Beyond Structuralism and 84 85
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È chiaro dunque che l’illuminismo sui generis a cui pensava Foucault doveva sbarazzarsi non solo di questa razionalità, ma come abbiamo sopra accennato, doveva anche abbandonare quell’umanesimo, strumentalizzato tanto da marxisti e fascisti quanto da liberali e cattolici, che voleva imporre “una certa forma di etica come modello universale per ogni forma di libertà”. Quell’umanesimo che in realtà si era sviluppato negli ultimi due secoli “attraverso (...) pratiche psicologiche, mediche, carcerarie, pedagogiche”, fondanti “una certa idea di umanità (...) ritenuta universale”, ma che invece andava circoscritto “a una ben determinata situazione”86. Fra Aufklärung ed umanesimo, avrebbe scritto Foucault, non c’era affatto identità, bensì tensione, e confondere i due termini non poteva essere che “pericoloso”. Ciò che si doveva salvare assolutamente era “il principio di una critica e di una creazione permanente di noi stessi nella nostra autonomia”; come aveva insegnato Baudelaire l’uomo moderno non era colui che partiva “alla scoperta di sé stesso, dei suoi segreti e della sua verità nascosta” ma colui che cercava “d’inventare sé stesso”. Questa era una visione certamente estetizzante e relativista che gli faceva considerare la ricerca di una qualsiasi forma di moralità accettabile da tutti come “catastrofica”. Nonostante ciò egli pensava che lasciare fluttuare il relitto dell’umanesimo non comportasse necessariamente l’addio a “quelli che chiamiamo diritti umani” o al “concetto di libertà”87. La contradditorietà di tale posizione scaturisce lampante dall’esegesi di un suo compagno di avventure intellettuali, Gilles Deleuze che in un libro a lui dedicato, lo aveva difeso da chi, opponendosi alle sue teorie, andava invocando proprio “la coscienza eterna ed universale dei diritti umani”, diritti di cui, per Deleuze, non c’era Hermeneutics, Chicago, The University of Chicago Press, 1983, p. 209 (trad. it., Poteri e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, Milano, Mimesis, 1994, p. 105). 86 M. FOUCAULT, Vérité, pouvoir et soi (1982), in Id., Dits et écrits cit., pp. 782783 (trad. it., Tecnologie del sé, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, pp. 9-10). 87 M. FOUCAULT, Qu’est-ce que les Lumières? cit., pp. 572-573, 570-571 (trad. it. cit., pp. 227, 225), The Concern for Truth (1984), in Id., Politics, Philosophy, Culture cit., p. 253 e Vérité, pouvoir et soi cit., p. 782 (trad. it. cit., p. 9).
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assolutamente bisogno per resistere alle prevaricazioni del potere. Ma se, come fanno notare Luc Ferry ed Alain Renaut, abbandoniamo quei pilastri e seguendo Foucault consideriamo che il potere è dappertutto e chi si oppone non è mai in una posizione esteriore rispetto ad esso, in che modo possiamo riconoscere una resistenza legittima ad un potere ingiusto da una che invece è essa stessa espressione di quel potere? “Come possiamo giudicare, per esempio, che la resistenza alle leggi razziali è legittima e quella dei gruppi di terroristi contro le democrazie occidentali illegittima”88?
88 L. FERRY e A. RENAUT, Foucault, in M. LILLA (ed.), New French Thought cit., pp. 54-61.
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Nonostante “la definizione di postmoderno non [sia] stata mai accettata né discussa da Foucault”, Margherita Ganeri ha fatto risalire la genesi del dibattito sul postmodernismo proprio al milieu intellettuale francese degli anni sessanta e settanta di cui Foucault fu l’indubbio protagonista1, ed Ernst Gellner, d’altrocanto, ha mostrato come questo dibattito si fosse inserito nella via tracciata “dai vecchi marxisti e dai filosofi di Francoforte”, senza peraltro che i fautori del postmoderno enfatizzassero troppo i legami con queste scuole2. È infatti proprio dalla fine degli anni ’50 che ha preso piede la riflessione critica sull’enorme sviluppo del capitalismo post-bellico, riflessione che, in qualche modo, possiamo considerare il preludio degli studi attuali sulla globalizzazione. Diversi studiosi, infatti, segnalarono come il capitalismo fosse andato decisamente allargando i propri confini sia in senso geografico, sia nel senso di una vera e propria invasione di alcuni aspetti culturali e spirituali dell’uomo che fino a quel momento erano sembrati esser risparmiati dalla mercificazione imperante. Di questo enorme sviluppo del capitalismo, ovviamente, si individuarono le origini nell’Europa illuministica del XVIII secolo. Reinhart Koselleck, nel 1959, aveva scritto, che la conquista del globo, operata dalla società borghese, aveva le proprie radici nella filosofia settecentesca che mirava ad unire il mondo: “Dappertutto si sperimenta l’immane capovolgimento, la rivoluzione che trasforma lo spirito, i costumi, la cultura, l’economia, insomma tutti i settori della vita umana, che conferisce un aspetto nuovo a tutta la terra, al globo”3. Di egual tenore Fritz Valjavec, il M. GANERI, Postmodernismo, Milano, Editrice Bibliografica, 1998, pp. 23-27. E. GELLNER, Postmodernism, Reason and Religion cit., pp. 34-35. 3 R. KOSELLECK, Critica illuministica e crisi della società borghese (1959), Bolo1 2
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quale denunciava il persistere “di un’alleanza tra i residui illuministici e la civiltà tecnologica del nostro tempo” che ravvicinava “popoli e civiltà della terra” “in una misura mai realizzata finora nella storia”4. Il sociologo francese Edgar Morin, nel 1962, in un famoso saggio sull’industria culturale aveva sottolineato come mai nel passato il sistema produttivo fosse riuscito, in tal misura, a far penetrare l’anima umana, la cultura e la vita privata nel circuito commerciale. Questi tipi di produzione, cultura e comunicazione di massa, nati negli USA negli anni 1930-36, ma dalla forte vocazione planetaria, avevano un predominante carattere sincretistico ed omogeneizzante perché fondati sulla ricerca dell’“anthropos comune”. Proprio per tale ragione non potevano che portare ad una nuova forma di “arcaismo”, ad una mondializzazione verso il basso5. Pochi anni più tardi, Guy Debord, in quello che sarebbe divenuto un libro ‘cult’ della critica televisiva contemporanea, avrebbe affermato, riecheggiando il Manifesto, che la forza omogeneizzante e globalizzante del capitalismo che unificava il mondo aveva fatto “cadere tutte le muraglie della Cina”. Il capitale infatti era giunto ad un tal grado di accumulazione che era divenuto “immagine”, “spettacolo”, intendendo quest’ultimo come il momento in cui la potenza economica, estesa “sotto forma di merce”, raggiungeva il suo culmine con l’“occupazione totale della vita sociale”. Lo “spettacolo” infatti non era che “l’autoritratto del potere all’epoca della sua gegna, Il Mulino, 1972, pp. 7, 9, 245 nota. 4 F. VALJAVEC, Geschichte der Abendländischen Aufklärung, Wien-München, Verlag Herold, 1961, pp. 360, 363 (trad. it., Storia dell’illuminismo, Bologna, Il Mulino, 1973, pp. 380, 384). 5 E. MORIN, L’esprit du temps (1962), Paris, Grasset, 1983, pp. 11-12, 14-15, 37, 67-68, 71, 90, 101, 187-190 (trad. it., L’industria culturale, Bologna, Il Mulino, 1963, pp. 9, 12, 33, 61-62, 65, 84, 93, 175-178). Pensiamo anche alla famosa opera di Marshall McLuhan che paventava l’imminente entrata “in una fase di terrori panici, assolutamente appropriata ad un piccolo mondo di tamburi tribali, di totale interdipendenza e di coesistenza imposta dall’alto” (M. MCLUHAN, The Gutenberg Galaxy. The making of Typographic Man -1962-, London, Routledge & Kegan Paul, 1971, p. 32; trad. it., La galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico, Roma, Armando, 1976, p. 60).
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stione totalitaria delle condizioni d’esistenza”. In pratica ci si trovava di fronte ad una nuova “illusione religiosa” che rappresentava “il cattivo sogno della moderna società incatenata”. L’economia contemporanea, oramai resasi autonoma, tendeva a svilupparsi in modo infinito e rimpiazzava il soddisfacimento dei bisogni umani primari con la “fabbricazione ininterrotta di pseudo-bisogni” che, come unica giustificazione, avevano quella di perpetuare “il mantenimento del suo regno”. Alle masse, sfruttate da questa “dittatura”, che creava solamente un’unità fittizia sotto la quale allignava la divisione di classe, non veniva lasciato “nessun margine di scelta degno di nota”. La necessità inoltre di pianificare la produzione ed il consumo richiedeva l’integrazione ed il controllo dei lavoratori che andavano perciò considerati come “individui isolati in quanto individui isolati insieme”, sia nelle fabbriche, come nelle grandi periferie o nei “villaggi-vacanza”6. Sarebbero stati, però, i saggi di Alain Touraine e Daniel Bell sulle società ‘post-industriali’ fondate sui nuovi mezzi di comunicazione di massa, a delimitare il perimetro entro il quale si sarebbe sviluppato il dibattito sul ‘postmoderno’7. In particolare Bell, in The Cultural Contradictions of Capitalism, avrebbe notato la contemporanea presenza di tipi e aspetti diversi della modernità che potevano entrare in conflitto insanabile tra di loro e le contraddizioni del capitalismo stavano proprio in quei principi sotterranei che minavano la stabilità della struttura tecno-economica, politica e culturale della società, cioè in quella democratizzazione della cultura per cui ogni individuo, cercando di realizzare sé stesso ed il pro-
G. DEBORD, La Société du spectacle (1967), Paris, Gallimard, 2005, pp. 163, 144-145, 32, 37-39, 24-26, 43-46, 59, 65-66, 166-167 (trad. it., La società dello spettacolo, Bari, De Donato, 1968, pp. 135, 123, 22, 26-27, 15-16, 31, 33, 43, 49, 138). 7 A. TOURAINE, La société postindustrielle, Paris, Denoël, 1969, D. BELL, The Coming of Post-Industrial Society (1973), London, Heinemann, 1974. Cfr. J.F. LYOTARD, La condition postmoderne, Paris, Minuit, 1979, p. 11, e D. HARVEY, The Condition of Postmodernity. An Enquiry into the Origins of Cultural Change, Oxford, Blackwell, 1990, p. 49. 6
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prio potenziale, entrava in conflitto con l’ordine tecno-economico8. Per Bell infatti il capitalismo era contraddistinto dai caratteri dell’ascetismo, enfatizzato da Max Weber nel suo rapporto con l’etica calvinista, e dell’ aquisitiveness, nell’accezione di Werner Sombart, cioè dal prudente e borghese spirito di calcolo e dall’impulso faustiano verso una frontiera senza limiti. Questi due aspetti miravano congiunti alla completa trasformazione della natura. All’ascetismo, che potrebbe essere considerato una campana sotto la quale il capitalismo si era sviluppato senza disturbo, aveva mosso un duro colpo Jeremy Bentham, quel Bentham “utilitarista” il quale vedeva gli uomini governati da un edonismo naturale che li conduceva alla ricerca del piacere e alla fuga da ogni sofferenza fino a che la stessa nozione di “bene comune” si sarebbe dissolta nelle preferenze individuali9. Ciò che distingueva il capitalismo adesso era infatti la sua “dinamica”, il suo essere senza confini sospinto dalla forza della tecnologia, il non aver limiti alla propria crescita: “niente era sacro. Cambiare diveniva la regola”10. L’esito paradossale delle due tendenze parallele della modernità era stato proprio questo: la società borghese aveva introdotto l’individualismo radicale in economia e la volontà di frantumare tutte le relazioni sociali tradizionali, ma nello stesso tempo essa temeva l’esperimento dell’individualismo modernista nella cultura11. Bell, pur definendosi come un socialista in economia ed un liberale in politica, paradossalmente, per quanto riguarda la cultura aveva affermato di volersi considerare un conservatore12. Egli fece notare come nessun filosofo morale da Aristotele a Tommaso, da Locke a Smith avesse mai separato l’economia da alcuni stabili criteri etici necessari per vivere in modo virtuoso, come nessuno mai avesse considerato la produzione di ricchezza un fine in sé; per questi 8 D. BELL, The Cultural Contradictions of Capitalism, London, Heinemann, 1976, p. xvii. 9 Ibid., pp. xviii-xx. 10 Ibid., p. xx. 11 Ibid., p. 18. 12 Ibid., p. xi.
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motivi, scriveva Bell, “ciò che in ultima analisi fornisce una direzione all’economia è il sistema di valori della cultura in cui l’economia stessa è inserita”13. Egli dunque si definiva conservatore per il rispetto dovuto alla tradizione, perché riteneva necessario il principio d’autorità nel giudizio sul valore dell’esperienza, dell’arte e dell’educazione14. Alle analisi di Bell si sarebbero affiancate, ha scritto David Harvey, quelle di autori marxisti come D. Crimp, R. Hewison e F. Jameson, secondo i quali il “postmodernismo” non sarebbe stato “altro che la logica estensione del potere del mercato su tutta la gamma della produzione culturale”15. Per Fredric Jameson, indubbiamente il più influente dei tre, per andare in profondità nel tentativo di capire il “postmoderno” infatti, non ci si sarebbe dovuti perdere dietro a superficiali questioni di “stile”, ma avremmo dovuto interpretare tale fenomeno cercando di individuare la sua “dominante culturale”. In questa ottica esso non era che una “terza originale fase di espansione del capitalismo nel mondo”, capitalismo alla ricerca di nuovi spazi di appropriazione; una terza fase che, in sostanza, non contraddiceva affatto Marx: seguendo infatti l’analisi di Ernst Mandel, questa nuova forma pura di capitalismo si sarebbe espansa in “aree fino ad oggi non mercificate”, eliminando tutte “le enclaves dell’organizzazione precapitalistica che aveva finora tollerate e sfruttate tributariamente”, per arrivare infine ad un’originale colonizzazione “della natura e dell’inconscio”. Questa la ragione per cui si era avuta un’integrazione sempre più massiccia tra la produzione estetica e la produzione in generale: “La frenetica necessità economica di produrre nuove linee di beni dall’aspetto sempre più inconsueto (dal vestiario agli aereoplani), con un giro d’affari sempre più grande, assegna[va] all’innovazione e alla sperimentazione 13 Ibid., p. xii. Sui rapporti tra economia ed etica dal punto di vista analitico vedi A. Sen, Etica ed economia (1987), Bari, Laterza, 1988. 14 D. BELL, The Cultural Contradictions of Capitalism cit., p. xv. 15 D. HARVEY, The Condition of Postmodernity cit., pp. 62-63 (trad. it., La crisi della modernità, Milano, Il Saggiatore, 1993, pp. 84-85). Cfr. anche M. Ganeri, Postmodernismo cit., pp. 31-37.
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estetiche una funzione e una posizione sempre più essenziali”. In una cultura che ormai aveva perso il senso dello stesso concetto di valore d’uso perché sostituito da quello di scambio, in perfetto stile francofortese, Jameson si immaginava che fossero “dirigenti senza volto” a continuare a tenere in mano “le fila delle strategie economiche in cui è costretta la nostra esistenza” 16. Anche un recente libro di Jeremy Rifkin, ha ribadito la tesi di Jameson, secondo cui staremmo assistendo ad un cambiamento di lungo periodo che sta portando alla sostituzione della produzione industriale con quella culturale. Il nuovo nucleo del capitalismo, sostiene Rifkin, sarà dunque l’accesso alle esperienze culturali. Mentre l’era industriale era stata caratterizzata dalla mercificazione del lavoro, “l’era dell’accesso” si distinguerà “per la mercificazione del divertimento, ovvero per la commercializzazione di risorse culturali”. La sfera culturale, insomma, sarà sempre più sospinta nel campo di quella economica grazie anche alle nuove tecnologie di comunicazione17. Scrive Rifkin: “il viaggio del capitalismo, cominciato con la mercificazione dello spazio e della materia, terminerà con la mercificazione del tempo e della durata della vita”18. Mentre nell’economia di mercato lo scambio era un fenomeno eminentemente periodico che durava il tempo della negoziazione di beni e servizi, nella nuova economia tutto il nostro tempo sarà mercificato ma “quando l’intera vita è un’esperienza a pagamento, la cultura si atrofizza e muore, lasciando i soli legami economici a tenere insieme la civiltà. Questa è la crisi della postmodernità”19. Rifkin si chiede allora se la civiltà riuscirà a sopravvivere quando sfera statale e culturale saranno ridotte ai minimi termini. Anch’egli F. JAMESON, Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism (19841991), London-New York, Verso, 1991, pp. 4, 49, 35-36, 48-49, 45, 18, 17, 37-38 (trad. it. parz., Il Postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, Milano, Garzanti, 1989, pp. 13, 93, 68-69, 91-92, 14, 38-39, 36, 72-73). 17 J. RIFKIN, The Age og Access, New York, Putnam, 2000, pp. 7, 96-97, 111, 137-138 (trad. it., L’era dell’accesso. La rivoluzione della New Economy, Milano, Mondadori, 2000, pp. 10, 11, 131-32, 151, 183-184). 18 Ibid., p. 9 (trad. it. cit., p. 13). 19 Ibid., p. 10 (trad. it. cit., p. 14). Vedi anche le pp. 98-99, 111-112. 16
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infatti non può che constatare come nel corso della storia la cultura abbia sempre avuto la precedenza sul mercato. Solo questa infatti stabilendo norme di comportamento condivise può rendere l’ambiente adatto affinché commercio e scambi possano aver luogo20. Il mercato è infatti un’istituzione secondaria, derivata, che può esistere solo se esistono determinate regole di fiducia create dalla cultura, il luogo dove si praticano appunto i valori condivisi. Anche Rifkin, come aveva fatto Burke, capovolge il paradigma dell’illuminismo scozzese che lodava le virtù civilizzatrici del commercio: “sebbene molti neoliberali e neoconservatori, oltre a uno stuolo di liberisti, continuino a proclamare che economie sane generano società solide e vitali, in realtà è più spesso vero il contrario: una comunità forte è il prerequisito di una economia sana, dal momento che è l’elemento generatore della fiducia sociale”21. Il rischio è che la cultura, sempre più assorbita dal capitalismo, si atrofizzi e non produca più il necessario capitale sociale generante empatia e fiducia. Così facendo il capitalismo genera i presupposti della sua distruzione perché i mercati e le reti non possono reggersi da soli. La diversità culturale è infatti necessaria come la biodiversità; se questa viene indebolita o eliminata, mercato e civiltà sono a repentaglio. Da qui scaturisce il principale compito della politica che è quello di riportare economia e cultura nell’ambito di un’ecologia bilanciata22. Risulta abbastanza chiaro dall’analisi di questi autori sulla società postmoderna di come la maggior parte dei temi sollevati vadano a saldarsi, senza soluzione di continuità, con molte delle odierne tematiche ‘no global’, ed era lo stesso Jameson, nell’edizione del 1991 del suo libro, che rimarcava il carattere “totalizzante” della logica del capitalismo, il quale aveva creato un’unica storia “globale” un unico “orizzonte omogeneo”23. Non è quindi certamente un caso Ibid., pp. 10-12, 111-113. Ibid., pp. 243-245 (trad. it. cit., pp. 323-325). 22 Ibid., pp. 245, 247-248, 252, 258, 265. 23 F. JAMESON, Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism cit., p. 380. Per la nostra mente e per la nostra immaginazione sarebbe stato inoltre 20 21
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che critici e avversari della globalizzazione abbiano stigmatizzato le sue radici illuministiche, perché, come ha scritto il vescovo ortodosso Gregorios, essa non sarebbe che “un sistema universale di scienza, tecnologia, comunicazione, informazione ed istituzioni” il quale ambirebbe ad “unire il mondo in un unico flusso storico”, attestando inequivocabilmente che “la febbre dell’illuminismo” non è ancora finita24. Per le caratteristiche stesse intrinseche al “postmodernismo”, non si può individuare un pensiero ‘ortodosso’ ed un vero ‘Papa’, ed anzi, secondo Harvey, la critica “postmodernista” sarebbe contraddistinta proprio dall’essere “una miniera di nozioni tra loro in conflitto”25. Diversi autori hanno fatto però notare come il “postmodernismo” abbia costruito la propria identità in opposizione non solo alla ragione strumentale ma in aperta polemica con ciò che esso definisce globalmente “il progetto illuminista”26. Terry Eagleton, a questo proposito, ha ben sintezzizato i contenuti di tale critica scrivendo che “la Postmodernità è uno stile di pensiero che è sospettoso delle classiche nozioni di verità, ragione, identità, oggettività, dell’idea di progresso e di emancipazione universale, di singole cornici, grandi narrazioni o principi ultimi di spiegazione. Contro queste norme dell’illuminismo, essa vede il mondo come contingente, senza significato, diverso, instabile, indeterminato, una serie di culture ed interpretazioni disunite che fomentano scetticismo sull’oggettività della verità, della storia e delle leggi, sulla natura come dato non questionabile e sulla coerenza delle identità”27. A estremamente difficile afferrare questo “intero nuovo network globale decentrato”, di cui, in fondo, la tecnologia delle comunicazioni ci fornirebbe solamente un’“immagine distorta”. 24 P. M. GREGORIOS, A Light too Bright. The Enlightenment Today cit., pp. 31, 29. 25 D. HARVEY, The Condition of Postmodernity cit., p. viii (trad. it. cit., p. 10). 26 Ibid., pp. 21, 26-29. Vedi anche R. S. RUDERMAN, Odysseus and the Possibility of Enlightenment, “American Journal of Political Science”, 1999, n. 1, p. 138, A. VAN DEN BERG, Liberalism Without Reason?, “Contemporary Sociology”, 1996, n. 1, pp. 19-22. Per Margherita Ganeri il “postmodernismo” sarebbe un fenomeno ormai in declino (M. GANERI, Postmodernismo cit., p. 10). 27 T. EAGLETON, The Illusions of Postmodernism, Oxford, Blackwell, 1996, p.
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questo proposito, secondo Gellner, la sintonia con i francofortesi riguarderebbe proprio il comune ripudio dell’eccessiva enfasi sui fatti estrinseci “ritenuti erroneamente le pietre del sentiero che conduce alla comprensione della realtà sociale”. I postmoderni, però, farebbero un passo ulteriore, andrebbero decisamente oltre tale posizione, negando la possibilità stessa di sentieri alternativi e rifiutando non “l’oggettività superficiale, ma l’oggettività in sé”28. Celebre, su questo tema, la definizione che ne dette Jean-François Lyotard nel 1979, secondo cui la condizione “postmoderna” consisterebbe, in sintesi, nell’“incredulità nei confronti delle metanarrazioni”. Da tale semplice constatazione deriverebbero poi, sempre secondo Lyotard, il problema dei fondamenti di legittimità dei legami sociali e della giustizia, ma anche l’inutilità di “lamentarsi della «perdita di senso»”, essendo ormai il declino delle grandi narrazioni “un effetto del decollo delle tecniche e della tecnologia a partire dalla seconda guerra mondiale”. Queste infatti sono divenute così importanti per gli esiti del sapere scientifico, che si può prefigurare una sua forma di “legittimazione attraverso la potenza”29. Anche per Axel Van den Berg il postmodernismo sarebbe caratterizzato, più che dalla critica al capitalismo od al colonialismo, dalla rivolta contro l’oppressione culturale esercitata dalle basi epistemologiche illuministiche che sostengono la modernità, perché in realtà non esisterebbero fondamenti ultimi che giustifichino una verità e la sua distinzione dall’errore30. Per questo motivo Gellner ha sostenuto che il postmodernismo non è che “un’effimera moda culturale” che desta in lui interesse solo “in quanto esempio vivo e contemporaneo del relativismo”, ultima manifestazione di quel lungo sentiero intellettuale, partito dall’inizio del Novecento, che ha portato, con autori come Wittgestein, Heidegger, Rorty ed altri, ma vii.
E. GELLNER, Postmodernism, Reason and Religion cit., pp. 34-35 (trad. it. cit., pp. 55-56). 29 J.F. LYOTARD, La condition postmoderne cit., pp. 7, 47, 63, 11, 76-77 (trad.it., La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1981, pp. 6-7, 51, 69, 9, 85-86). 30 A. VAN DEN BERG, Liberalism Without Reason? cit., pp. 20-21. 28
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anche Foucault o l’antropologo Clifford Geertz, al superamento dell’epistemologia31. Se pure accettassimo quest’ultimo giudizio di Gellner non possiamo però non riscontrare come il discredito gettato dal postmodernismo sul progetto illuminista sia tutt’altro che superficiale e transeunte ed a riprova di questa affermazione basti passare in rassegna una sequela di influenti scrittori che, pur cercando di distinguersi, pur provando a non essere appiattiti sulla critica postmodernista, hanno comunque mostrato disagio ed insofferenza nei riguardi della tradizione dei Lumi. Questo il motivo che ha portato a coniare espressioni come “seconda” (Ulrick Beck) o “tarda” (Anthony Giddens) modernità32. Giddens, per esempio, ha scritto che “modernità non equivale più a illuminismo: questo è chiaro quasi a tutti. Il compito adesso è quello di cogliere le implicazioni di questa separazione senza cadere nelle aporie del postmodernismo”33. Similmente Beck ha accolto la sentenza di morte pronunciata dai filoE. GELLNER, Postmodernism, Reason and Religion cit., pp. 24, 72-73, 37-39, 49-60 (trad. it. cit., pp. 43, 103-104, 58, 60, 69, 74, 79-87). Vedi anche M. Ganeri, Postmodernismo cit., pp. 8-9. Il relativismo, per aspetti e tematiche diverse, è stato addebitato, nella storia del pensiero politico e filosofico, ad autori spesso molto distanti gli uni dagli altri, sia nel tempo che nell’atteggiamento di fondo. Nietzsche è senza dubbio la fonte più citata, ma risalendo nella storia moderna troviamo anche Schopenauer ed Herder come Hume ed Helvetius, per non dimenticare Vico e Montaigne. Cfr. J. GRAY, Post-Liberalism. Studies in Political Thought (1993), London, Routledge, 1996, pp. 65-66, 296, L. KOLAKOWSKI, Modernity on Endless Trial cit., p. 29, T. TODOROV, Nous et les autres cit., p. 51-109, I. BERLIN, The Crooked Timber of Humanity cit., 76-77, A. CAILLÉ, Per un universalismo relativista. Al di là del razionalismo e del relativismo, “Trasgressioni”, 1993, n. 16, p. 32, C. GEERTZ, Distinguishes Lecture: Anti Anti-Relativism, “American Anthropologist”, 1984, n. 2, pp. 263, 276, J. HILLMAN, Oltre l’umanismo, Bergamo, Moretti e Vitali, 1996, p. 33. 32 U. BECK, Risikogesellschaft, Frankfurt am Mein, Suhrkamp, 1982; Id., Was ist Globalisierung?, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1997, p. 131, A. GIDDENS, Modernity and Self-Identity (1991), Cambridge, Polity Press, 1994, pp. 10-34. 33 A. GIDDENS, Commentary on the Reviews, “Theory, Culture and Society”, 1992, n. 2, p. 174, cfr. anche Id., Beyond Left and Right, Cambridge, Polity Press, 1994, p. 10 e p. 79 dove si sostiene che “un ritiro dalle ambizioni dell’illuminismo è certamente necessario”. Sempre su questo tema, ma più estesamente, vedi ancora di GIDDENS, The Consequences of Modernity (1994), Cambridge, Polity Press, 1997, pp. 45-53. 31
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sofi del postmoderno: “Ciò che si spaccia per universalismo occidentale dell’illuminismo e dei diritti dell’uomo non è nient’altro che la voce dei «morti, vecchi uomini bianchi» che reprimono i diritti delle minoranze etniche, religiose e sessuali, ponendo come assoluta la loro «metanarrazione» di parte”, ed ha invitato i suoi lettori a ridiscutere i fondamenti della prima modernità, come la tolleranza ed i diritti umani o quell’alleanza tra economia di mercato, stato sociale e democrazia, fondamenti che fino ad allora avevano legittimato lo stato-nazione. Questa operazione andrebbe fatta proprio nell’intento di compiere “il passaggio ad una seconda modernità” e cioè “il passaggio di esistenze caratterizzate dalla monogamia di luogo alla poligamia di luogo”34. Anche Alain Touraine, in opere recenti, ha sostenuto che è ormai “diventato impossibile difendere il punto di vista dell’individualismo universalistico della filosofia dei Lumi (...), divenuto sempre più antidemocratico, elitario e persino repressivo quando identifica una nazione, una classe sociale, un’età della vita o un genere con la ragione, giustificando così il suo dominio su altre categorie”35. È inutile aggrapparsi all’anima di una modernità che è lungi dal veder trionfare la ragione e che ha fallito proprio nel suo tentativo di “concepire una società razionalizzata”, preparando invece il terreno alla violenza del potere, un terreno incapace di accogliere “la diversità dei bisogni”. Non si può che abbandonare una modernità che è diventata essa stessa “antiumanista”36. Infine, per terminare questa breve rassegna, vale la pena ricordare che, lo stesso Jürgen Habermas, uno degli eredi della scuola di Francoforte, pur pensando che il progetto illuminista sia lungi dall’essere esaurito, e debba piuttosto essere ancora portato a compimento, ciò nonostante si è messo alla ricerca di un nuovo e vago 34 U. BECK, Was ist Globalisierung? cit., pp. 24, 36, 131 (trad. it., Che cos’è la globalizazione, Roma, Carocci, 1999, pp. 21, 31, 97). 35 A. TOURAINE, Eguaglianza e diversità. I nuovi compiti della democrazia, Bari, Laterza, 1997, pp. 55, 77. 36 A. TOURAINE, Critique de la modernité cit., pp. 46-47, 391-392 (trad. it. cit., pp. 44-45, 395).
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orizzonte universalista per combattere le teorie dei postmoderni, accusati di confondere “la modernizzazione” con “l’azione razionale”. Queste le premesse che gli hanno fatto ritenere indispensabile la sostituzione della “ragione soggettocentrica”, risalente a Cartesio e macchiata da una razionalità strumentale, con una “ragione comunicativa” indirizzata invece nella ricerca di un discorso volto alla mutua comprensione37. Le analisi delle società postmoderne e le critiche svolte dai postmodernisti hanno condizionato anche il terreno sul quale si sono sviluppati altri diversi tipi di critica alle liberal democrazie occidentali, critiche che gli studiosi hanno spesso marcato con il prefisso post; per cui si è scritto e parlato di postliberalismo o poststrutturalismo come di postmarxismo o postfascismo. In comune queste teorie condividono la condanna, spesso in contraddizione con il sostegno ad altre idee moderne, di alcuni aspetti della complessa eredità dei Lumi. James Schmidt, cercando di ordinare le odierne accuse all’ illuminismo, ha notato come ad esso venga imputato, sia di mostrare scetticismo nei confronti dei valori assoluti e quindi di iniettare nella cultura moderna il nichilismo ed un individualismo relativista che, adagiandosi sulle preferenze dei singoli, non permette di costruire una filosofia morale e quindi porta alla distruzione della comunità, sia, invece, di esser esso stesso il fondamento filosofico oppressivo dalla vocazione totalitaria delle società liberali, incapace per sua costituzione di tollerare le nuove diversità, al punto da sra37 J. HABERMAS, Der philosophische Diskurs der Moderne. Zwölf Vorlesungen, Frankurt am Main, Suhrkamp, 1985, pp. 344-379. Che l’illuminismo sia lo scomodo ospite che ostacola il dialogo di Habermas con il postmodernismo e che per tale ragione, per essere presentabile, debba essere rivestito di nuovo, malgrado la sua puzza continui a disturbare il padrone di casa, lo si percepisce chiaramente in diversi saggi del libro di H. KUNNEMAN e H. de VRIES (eds), Enlightenments: Encounters between Critical Theory and Contemporary French Thought, Kampen, Kok Pharos, 1993. Un altro epigono della scuola di Francoforte, Albrecht Wellmer, in uno dei contributi a questo volume, Wahrheit, Kontingentz, Moderne (pp. 25-44), pare aprire ancora di più, il modello di Habermas, agli spunti critici del postmodernismo.
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dicare persino ogni traccia di individualità38. Una divisione questa che non sembra riconducibile interamente, come fa Charles Kesler39, alla semplice dicotomia destra-sinistra, perché il travaso dalle due tipologie di critica, da un settore all’altro, avviene costantemente ed è sempre avvenuto sin dalle origini. Per Harvey queste posizioni, se pur inconciliabili, sembrano coesistere nella condizione postmoderna, come dimostrano le opposte visioni di Bell e Lyotard. Se infatti il secondo non troverebbe difficile, con le parole di Huyssen, accettare “le molteplici forme della diversità che emergono dalle differenze di soggettività, sesso e sessualità, razza e classe, posizioni e spostamenti geografici temporali (configurazioni di sensibilità) e spaziali”, un “neoconservatore tradizionale” come Bell avrebbe invece paura della “sintonia” di questi aspetti del postmoderno “con l’individualismo, il mercantilismo e l’imprenditorialismo”, e certamente non apprezzerebbe l’affermazione di Lyotard per cui “il contratto temporaneo soppianta praticamente le istituzioni permanenti in campo professionale, emotivo, sessuale, culturale, familiare e internazionale oltre che nella politica”40. Seguendo la dicotomia indicata da Schmidt, il tentativo più chiaro di attaccare le fondamenta filosofiche oppressive dell’illuminismo, cercando nel contempo di salvare l’individualismo, è stato certamente quello di Richard Rorty. Nella prima metà degli anni ‘80 egli definì la sua posizione quale quella di un liberale borghese e postmoderno e citando Lyotard si diceva pronto ad “abbandonare le metanarrazioni”41. Negli ultimi tempi, invece, Rorty, pur manteJ. SCHMIDT, What is Enlightenment? A Question, its Context and Some Consequences cit., p. 1. Simili rilievi erano già stati mossi sia da Peter GAY (The Party of Humanity. Essays in the French Enlightenment cit., pp. 284-285) che da Alasdair MACINTYRE (Three Rival Versions of Moral Enquiry, Notre Dame, University of Notre Dame Press, 1990, pp. 32-57, 170-215). 39 C.R. KESLER, The Different Enlightenments cit., pp. 102-103. 40 D. HARVEY, The Condition of Postmodernity cit., p. 113 (trad. it. cit., p. 143). A. Huyssen, Mapping the Post-Modern, “New German Critique”, 1984, n. 33, p. 50. 41 R. RORTY, Cosmopolitanism without Emancipation: A Response to JeanFrançois Lyotard (1985), e Postmodernist Bourgeois Liberalism (1983), in Id., Objectivity, Relativism and Truth, Cambridge, Cambridge University Press, 1991, 38
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nendo la sua idiosincrasia nei confronti del progetto illuminista, ha mostrato sempre maggior scetticismo nei confronti del termine ‘postmoderno’, essendo stato talmente abusato da creare più impicci che un reale aiuto42. Questo perché, chi si riconosceva in una politica targata con quel nome, essendo fortemente influenzato da un antiumanesimo di derivazione heideggeriana e foucaultiana aveva deciso di mettersi fuori dal recinto dei valori borghesi 43. Quella scelta rifletteva il pessimismo degli intellettuali europei ed americani, questi ultimi oramai predominanti nella sinistra accademica del suo paese, che avevano rinunciato al socialismo ed a Marx, per sostituirlo con Nietzsche, senza però abbracciare il capitalismo44. Come avrebbe dichiarato in un convegno su illuminismo e postmodernità: “I sostenitori di questa politica, a mio avviso, non propongono altro che sfiducia nei confronti delle iniziative tradizionali, borghesi e liberali e nei confronti di qualcosa chiamato «umanesimo» dal quale si suppone che tali iniziative siano corrotte. Da buon liberale borghese, e come uomo che non riesce ad immaginare cosa possa esserci di sbagliato nel concetto di «umanesimo», trovo incomprensibile questo nuovo atteggiamento di sfiducia”45. Nonostante questa presa di distanze, nello stesso convegno, Rorty tornava a ribadire la necessità di distinguere un illuminismo filosofico, definitivamente fallito, da quello politico che “procedeva a singhiozzo” essendo indispensabile, per il benessere del secondo “l’abbandono del razionalismo occidentale”, poiché questo abbandono, in fin dei conti, “non aveva implicazioni politiche scoraggian-
pp. 212, 197-202. 42 R. RORTY, Essays on Heidegger and Others: Philosofical Papers, vol. II, Cambridge, Cambridge University Press, 1991, p. 1. 43 R. RORTY, Postmodernist Bourgeois Liberalism cit., p. 199. 44 R. RORTY, Philosophers, Novelists, and Intercultural Comparisons: Heidegger, Kundera e Dickens (1989), in A.N. BALSLEV, Cultural Otherness. Correspondence with Richard Rorty (1991), Atlanta, Scholars Press, 1999, pp. 104-105, e R. RORTY, Achieving Our Country, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1999. 45 R. RORTY, Dove hanno fallito Foucault e Derrida, “La Repubblica”, 7 giugno 1997.
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ti”46. In sostanza, come egli aveva sempre sostenuto, sulla scia di Dewey e Oakeshott, si potevano benissimo preservare le istituzioni liberali, sganciandole dalla loro base kantiana47. Tutta la cultura del Novecento infatti, secondo lui, aveva portato al “collasso della giustificazione filosofica che l’illuminismo gli [aveva] fornito”, prima cancellando la concezione dell’io che aveva accomunato metafisica greca, teologia cristiana e razionalismo, ed in seguito facendo venir meno la stessa “idea di «diritti»”48. Questa operazione di salvataggio che prevedeva di sfrondare la terminologia illuminista dalle istituzioni liberali, mantenendo però “i vantaggi pratici” che queste garantivano e la possibilità del loro progresso, senza affossarsi nel cercare di definire improbabili “metanarrazioni”, era il difficile compito che Rorty si era prefissato49. Non esistevano infatti delle “virtù tipiche dell’occidente democratico” valide per tutto il globo, né “un vocabolario morale” comune od un punto di vista ad esso esterno che permettese di giudicarlo50. Con affermazioni come queste Rorty non poteva non venir accusato di relativismo culturale51; per questa ragione egli si era difeso scrivendo che vi era una notevole “differenza fra il dire che ogni comunità è valida quanto qualunque altra e il dire che dobbiamo costruire a partire dalle reti che siamo, dalle comunità con cui attualmente ci identifichiamo”: non si poteva infatti mettere “la cultura Ibid. R. RORTY, Postmodernist Bourgeois Liberalism cit., p. 197; Id., Contingency, Irony, and Solidarity, Cambridge, Cambridge University Press, 1989, pp. 57, 5960. 48 R. RORTY, The Priority of Democracy to Philosophy (1984), in Id., Objectivity, Relativism and Truth cit., pp. 176-177. Vedi anche Id., Contingency, Irony, and Solidarity cit., p. 52. 49 R. RORTY, On Ethnocentrism: A Reply to Clifford Geertz (1985), in Id., Objectivity, Relativism and Truth cit., p. 209, Postmodernist Bourgeois Liberalism cit., pp. 198-199, e Contingency, Irony, and Solidarity cit., p. 44. 50 R. RORTY, Lettera ad A. N. Balslev del 12 agosto 1990, in A.N. BALSLEV, Cultural Otherness cit., p. 69. Sempre di Rorty cfr. The Priority of Democracy to Philosophy cit., p. 190 e Contingency, Irony, and Solidarity cit., p. 48. 51 Cfr. ad esempio S. CANEY, Liberalism and Communitarianism: a Misconceived Debate, “Political Studies”, 1992, n. 2, pp. 285-289. 46 47
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della democrazia liberale occidentale (...) «sullo stesso piano» di quella dei Vandali e degli Ik”52. Non accettando però altri obblighi da quelli derivanti dalle “«intenzioni-noi» della comunità con cui ci identifichiamo”, ed essendo impossibile un’identificazione con “l’umanità in quanto tale”53, come si può, secondo Rorty, riconoscere quei minimi requisiti comuni che permettono il dialogo tra comunità diverse e non permettono di fornire una giustificazione a qualsiasi tipo di sopraffazione tra i popoli e ad una violenza indiscriminata sui singoli54? Tornando alla tipologia di critiche ai Lumi indicata da Schmidt, sempre Rorty ci viene in aiuto per entrare più nel dettaglio delle posizioni assunte dai difensori delle comunità contro gli attacchi dell’individualismo relativista. Egli infatti aveva detto, proprio in riferimento a due esponenti del “comunitarismo” come Alasdair MacIntyre e Robert Bellah, che vedevano “qualcosa di profondamente sbagliato” nell’odierna vita americana, e questo “qualcosa” aveva a che “fare con l’individualismo” che Rorty invece continuava a difendere55. Questo tipo di diagnosi che, ovviamente, si accostava benissimo a quella di Bell, era contestuale ad una vera e propria insorgenza intellettuale contro i Lumi che ha avuto come teatro gli Stati Uniti d’America e come terreno di coltura il variegato mondo del conservatorismo post-bellico che abbiamo analizzato nel capitolo precedente. I protagonisti di questa insorgenza, provenienti non solo dalle fila dei conservatori ma anche da ambienti liberali e dalla sinistra marxista, erano infatti giunti a conclusioni fortemente ostili a quell’ ‘io edonista’ che, secondo Laurent, aveva accompagnato il trionfo della società dei consumi tra il 1960 e il 197056, e lo aveva riR. RORTY, Postmodernist Bourgeois Liberalism cit., p. 202, e On Ethnocentrism: A Reply to Clifford Geertz cit., p. 203. 53 R. RORTY, Contingency, Irony, and Solidarity cit., p. 198. 54 Cfr. F. SAVATER, L’universalità e i sui nemici, “MicroMega”, 1995, n. 2, pp. 133-134. 55 Mi permetto di rimandare a M. LENCI, Multiculturalismo e individualismo liberale, “Biblioteca della libertà”, 1995, n. 128, p. 120 (nota). 56 Cfr. A. LAURENT, Histoire de l’individualisme cit., p. 110. 52
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tenuto il principale responsabile di tutti i mali della società americana. Il timore esternato da Bell per l’azione devastatrice esercitata dall’“io senza restrizioni nella cultura”, paura a cui si potevano avvicinare le ansie espresse da Robert Unger, ed a cui si sarebbero unite, nel corso del tempo, quelle di Bruce Ackermann e Benjamin Barber57, era stato preceduto da una vera e propria rinascita storiografica del repubblicanesimo, in relazione alla rivoluzione americana, per opera di autori come B. Baylin e G. Wood58, ma soprattutto, in questa nuova messe di studi nella storia del pensiero politico, era stato per merito del libro di J.G.A. Pocock, The Machiavellian Moment, che la trama che aveva intrecciato i fili della fortuna repubblicana tra l’Europa e le colonie inglesi fu resa visibile in controluce rispetto all’eredità individualistica lockeana59. Questa tradizione, secondo Christopher Lasch60, era stata messa in ombra proprio da “quella dominante di derivazione illuministica” e, tramite un autore come Michael Sandel, si poteva raccordare perfettamente all’attacco che, filosofi ‘comunitari’ come MacIntyre o Charles Taylor61, o studiosi come Steven Lukes62, stavano muovendo al liberalismo ed alla sua concezione dei diritti individuali. Lo stesso Lasch, in un fortunato libro del 1978, aveva utilizzato il termine “narcisismo” per R. UNGER, Knowledge and Politics, New York, Free Press, 1975, p. 76; Bruce ACKERMANN, Social Justice in the Liberal State, New Haven, Yale University Press, 1980, p. 49; B. BARBER, The Conquest of Politics, Princeton, Princeton University Press, 1988, p. 18. 58 B. BAYLIN, The Ideological Origins of the American Revolution, Cambridge (Mass.), Belknap, 1967; Id., The Origins of American Politics, New York, Vintage Books, 1970; G. WOOD, The Creation of the American Republic 1776-1787 (1969), New York, Norton & Company, 1972. 59 J.G.A. POCOCK, The Machiavellian Moment cit., pp. 551-552. 60 C. LASCH, The True and only Heaven cit., p. 170 (trad. it. cit., p. 158). 61 Per Michelangelo Bovero questa “nuova armata filosofica” si poteva considerare “come l’ultima epifania dell’anti-illuminismo perenne” (Difendersi dalla comunità, prefazione a E. Vitale, Liberalismo e multiculturalismo. Una sfida per il pensiero democratico, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. vii). 62 Cfr. S. LUKES, Individualism cit.; Id., Five Fables about Human Rights, in S. SHUTE, S. HURLEY (eds), On Human Rights, New York, Basic Books, 1993, pp. 19-40. 57
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identificare una cultura che aveva ridotto la ragione a puro calcolo, ed aveva spinto l’individualismo, nella ricerca della felicità, ai suoi limiti estremi, sino, appunto, alla preoccupazione narcisitica di sé ed al ritiro dalla politica. L’etica “terapeutica” aveva rappresentato la naturale successione di quella “utilitaristica” del XIX secolo ed aveva fatto considerare il narcisismo la più alta conquista dell’ illuminismo spirituale63. L’anno successivo al libro di Lasch, Taylor, su fondamenta hegeliane, aveva profondamente criticato l’“atomismo” della società americana e la pretesa dei liberali di anteporre l’individuo e i suoi diritti a quelli della società64. L’atomismo, segnato dal trionfo della ragione strumentale e “disincarnata” di Cartesio, non era che il progressivo slittamento individualistico di quella cultura dell’autenticità che si era sviluppata nell’Europa colta del Seicento, ed il principale colpevole della perdita di “senso” e di libertà nella società moderna65. M. Sandel, in un simile quadro, ritenendo la comunità necessaria per l’identità dell’individuo, aveva considerato il repubblicanesimo, con il suo appello alla virtù civica ed al bene comune, fondamentale nell’esperienza del suo paese66. A queste stesse conclusioni sarebbero giunte anche le indagini sociologiche curate da Robert Bellah: la paura cioè che l’individualismo, già descritto da Tocqueville, ormai predominante nella società americana, avrebbe distrutto il tessuto sociale e minacciato la libertà67. C. LASCH, The Culture of narcissism. American Life in an Age of Diminishing Expectations, New York, Norton & Company, 1978, pp. xv, 68-70, 4-5, 166, 234236. 64 C. TAYLOR, Atomism, in A. Kontos (ed.), Powers, Possessions and Freedom. Essays in Honour of C.B. Macpherson, Toronto, Toronto University Press, 1979, pp. 39-61. 65 C. TAYLOR, Il disagio della modernità cit., pp. 4, 7, 14, 22, 68, 75, 96, 99, 119. Vedi anche Id., Sources of the Self. The Making of the Modern Identity, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1989, cap. xiii. 66 M. SANDEL, Liberalism and the Limits of Justice, Cambridge, Cambridge University Press, 1982, p. 150; Id., Democracy’s Discontent. America in Search of a Public Philosophy, Cambridge (Mass.), Belknap, 1996, pp. 5-6. Anche Luca Baccelli considera, quello di Sandel, “il tentativo più sviluppato di elaborare una critica repubblicano-comunitaristica della filosofia politica liberale” (L. BACCELLI, Critica del repubblicanesimo, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 5). 67 R. BELLAH (ed.), Habits of the Heart. Individualism and Commitment in 63
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Il colpo più deciso sferrato all’illuminismo tra i filosofi communitarian, e destinato a maggior fortuna, è stato però quello di Alasdair MacIntyre. Nella conclusione della sua opera più famosa, Dopo la virtù, egli paragonava il periodo odierno al declino dell'impero romano. Un mondo si stava sgretolando davanti ai nostri occhi, saliva impellente la necessità di una svolta morale. Dovevamo ripartire da zero, dal basso, da piccole aggregazioni, come in quei lontani secoli avevano fatto i seguaci di San Benedetto che si erano aggregati in piccole comunità nell’intento di preservare la civiltà dall’incalzare delle orde barbariche68. Noi stavamo ormai vivendo dopo la virtù. Che cosa era successo? Chi era il principale responsabile della degenerazione morale dell’occidente? Chi erano i nuovi barbari? MacIntyre ripercorreva l’intera storia della filosofia occidentale per cercare di capire le radici della crisi della modernità, le ragioni dell’attuale perdita di senso morale. La nostra tradizione, quella greco-cristiana, era stata frantumata dal dispiegarsi del progetto illuminista e razionalista di fondazione di una morale universale. L’illuminismo, con la sua pretesa di universalizzare un unico modello di ragione, era dunque il principale colpevole del graduale tramonto del concetto di “telos”, concetto che aveva caratterizzato l’opera di Aristotele e che, trasposto in un ordine trascendentale, aveva pervaso l’intera filosofia medioevale. Con l’illuminismo inoltre si era avuta anche la separazione definitiva tra ragione e tradizione, tra morale e comunità. L’etica era diventata ormai un sapere astratto, completamente separato da quella storia di cui aveva fatto parte. Per MacIntyre infatti “i conAmerican Life (1985), New York, Harper and Row, 1986, p. vii. Seguendo l’analisi di Bellah l’individualismo veniva declinato nel libro sia come “utilitarista” che come “espressivo”, due modalità comunque profondamente alleate tra di loro. Esse erano emerse nella storia americana proprio nell’ambito delle tradizioni “repubblicana” e “puritana” per contrastare l’autorità monarchica ed aristocratica, ma avevano abbandonato la virtù civica e quella religiosa a cui erano legate per decretare nel sé la principale forma di realtà. Martin Luther King era stato uno degli ultimi uomini pubblici in cui i due virtuosi filoni, biblico e repubblicano, si erano fusi tra di loro (Ibid., pp. 27, 48, 142-144, 251-252, 292). 68 A. MACINTYRE, After Virtue cit., p. 263.
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cetti morali cambiano come muta la vita sociale”, essi sono “parzialmente costituiti e incarnati nelle forme di vita sociale”69. Il processo di secolarizzazione, accelerato dall’illuminismo, aveva portato alla nascita di molteplici teorie morali alternative, ognuna caratterizzata dalla pretesa di superiorità razionale. Il linguaggio della morale, come quello delle scienze naturali, era così caduto, da allora, in uno stato di “grave disordine”. Rimanevano solamente dei “simulacri di morale”, cioè a dire che, pur continuando ad usare “espressioni fondamentali”, in realtà avevamo perso “in grandissima parte se non del tutto, la nostra comprensione, sia teoretica sia pratica della morale”70. Il dibattito filosofico attuale era perciò contraddistinto, per MacIntyre, da una natura conflittuale che non aveva mai rivestito in precedenza. Le tradizioni razionali che ci avevano preceduto, infatti, erano segnate da un conflitto che avremmo potuto definire altrimenti come creativo. Per mettere in luce questa fondamentale differenza con il passato MacIntyre analizzava tre spinose tematiche del nostro tempo, quella del pacifismo, quella dell’aborto e quella della giustizia sociale, individuando come si potessero sostenere posizioni diverse ed opposte ma tutte vantanti eguali pretese di superiorità razionale. La logicità, pertanto, significava che le conclusioni seguivano effettivamente dalle premesse, ma ciascuna premessa faceva “uso di alcuni concetti assiologici o normativi assai diversi da quelli degli altri”. Questi concetti assiologici non erano altro che l’espressione delle preferenze personali e quindi non potevano essere comparabili. Di qui scaturiva “l’incommensurabilità concettuale degli argomenti antagonisti”71. L’illuminismo aveva dunque preparato il campo all’emergere ed al prevalere della teoria filosofica dell’“emotivismo”, cioè quella “dottrina secondo cui tutti i giudizi di valore, e più specificamente tutti i giudizi morali, non sono altro che espressioni di una preferenA. MACINTYRE, A Short History of Ethics, New York, Macmillan, 1966, p. 1. A. MACINTYRE, After Virtue cit., p. 2 (trad. it. cit., p. 13). 71 Ibid., p. 8 (trad. it. cit., p. 19). 69 70
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za, espressioni di un atteggiamento o di un sentimento, e appunto in questo consiste il loro carattere di giudizi morali o di valore”72. L’“io emotivista” era il frutto dello sradicamento dal proprio tessuto sociale, un “io” incapace di scegliere secondo il proprio “ruolo”. Un “io”, dunque, scisso che aveva perso il senso della storia e che si trovava a suo agio in una cultura pluralistica che faceva della società un terreno di scontro. Tutta la storia della filosofia dopo l’illuminismo poteva essere interpretata come la storia delle varie sembianze assunte dall’emotivismo. “Questo io democratizzato che non ha alcun contenuto sociale necessario e alcuna identità sociale necessaria può dunque essere qualsiasi cosa, assumere qualsiasi ruolo o punto di vista perché in sé e per sé non è nulla”73. MacIntyre si domandava allora se fosse possibile nella situazione attuale stabilire qualche criterio di razionalità comune, se fosse possibile scegliere tra opposte teorie della giustizia, tra valori incommensurabili. In realtà non esisteva una sola razionalità e una sola giustizia ma tante. Per MacIntyre infatti la razionalità poteva essere interna solo ad una determinata tradizione e poteva essere individuata soltanto seguendo determinati criteri: ogni tradizione cioè, per essere razionale, doveva essere capace di trovare una spiegazione ed una via d’uscita a quei problemi che ne avevano causato la “crisi epistemologica”. Nel compiere questo delicato compito, nel superare questa impasse, inoltre, ad una tradizione non era permesso mutare completamente il proprio percorso. Se non avesse dovuto riuscirci, tale tradizione doveva arrendersi alla superiorità razionale di un’altra ed all’accettazione di nuovi strumenti74. In realtà MacIntyre era alla ricerca di una terza via tra il relativismo assoluto, che secondo lui si poteva identificare con il prospettivismo di origine nietzscheana, e la razionalità universale espressa dall’illuminismo. Ibid., pp. 11-12 (trad. it. cit., p. 24). Ibid., pp. 31-32 (trad. it. cit., pp. 46-47). 74 A. MACINTYRE, Whose Justice? Which Rationality? Notre Dame, University of Notre Dame, 1988, pp. 9, 362-364. 72 73
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Da una parte dunque, pur ribadendo l’importanza di Nietzsche, il vero “filosofo morale della nostra epoca”, perché aveva portato a termine un’opera di demistificazione, scoprendo come le enunciazioni morali potessero essere usate per fornire “una possibile maschera praticamente per qualsiasi volto”, egli non poteva certo sposare la teoria del superuomo, teoria descritta come “fantasia insieme assurda e pericolosa”75. Dall’altra c’era l’illuminismo che si era incarnato nella tradizione del liberalismo, quindi anch’esso una tradizione, ma una tradizione del tutto anomala che aveva cercato di fondare una moralità per individui fuori da ogni tradizione76. Per MacIntyre dovevamo perciò andare oltre, perché le due posizioni estreme erano l’una lo specchio dell’altra, il relativismo prospettivistico non era altro che la controparte negativa dell’illuminismo. “Non è perciò sorprendente”, scriveva MacIntyre, “che ciò che rimaneva invisibile per i pensatori dell’illuminismo rimanga egualmente invisibile per quei relativisti e prospettivisti post-moderni che si considerano i nemici dell’illuminismo mentre in realtà sono in gran parte e senza rendersene conto i suoi eredi. Ciò che non sono stati e non sono in grado di riconoscere è il tipo di razionalità posseduta dalle tradizioni”77. Questo tipo di razionalità era certamente diverso dalle “spiegazioni cartesiane ed hegeliane della razionalità”. Era anticartesiana perché “prende[va] l’avvio dalla contingenza e dalla positività di un certo numero di credenze consolidate”, ed era antihegeliana perché non c’era implicitamente la “concezione di una verità finale”, non c’era uno “stato razionale finale” che dovesse essere condiviso con altri movimenti di pensiero78. Una tradizione non poteva però valere l’altra, così affermando infatti MacIntyre si sarebbe esposto all’accusa di relativismo. Non solo una qualsiasi pretesa di neutralità sarebbe stata illusoria, ma pretendere di “stare fuori da tutte le tradizioni significa essere A. MACINTYRE, After Virtue cit., pp. 110-115 (trad. it. cit., 137, 140-41). A. MACINTYRE, Whose Justice? Which Rationality? cit., p. 345. 77 Ibid., p. 353. 78 Ibid., pp. 360-61. 75 76
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estraneo alla ricerca; significa permanere in uno stato di destituzione intellettuale dal quale è impossibile rispondere alla sfida relativista”79. Si doveva dunque fare una scelta ed ecco che egli riproponeva una tradizione da lui considerata superiore alle altre, quella del tomismo, l’unica capace di rendere possibile un dialogo tra più tradizioni come aveva fatto lo stesso Tommaso unendo la tradizione aristotelica a quella agostiniana. Perché in fondo un dialogo era possibile (infatti il fenomeno dell’incommensurabilità era solo un’illusione), e come era possibile tradurre linguaggi diversi così potevamo appropriarci del linguaggio etico di altre tradizioni80. Scriveva MacIntyre a questo proposito: “Gli aderenti ad una tradizione che sia adesso in uno stato di fondamentale e radicale crisi possono a questo punto incontrare in un nuovo modo le pretese di qualche particolare tradizione rivale, forse una con cui essi hanno per un certo periodo coesistito, forse una che essi stanno adesso incontrando per la prima volta; essi giungono ora, o sono già giunti a capire le credenze e il modo di vita di quest’altra tradizione aliena, e facendo così essi devono o hanno dovuto imparare (...) il linguaggio di una tradizione estranea come un nuovo e secondo primo linguaggio”81. Arrivato a questa soluzione MacIntyre non poteva non attirare una serie di interventi ed analisi volti a mettere in luce le aporie di un approdo che non si decideva a scegliere tra una verità che trascendesse le tradizioni ed una razionalità identificantesi in toto con le diverse tradizioni82. La critica comunitario-repubblicana nonostante le evidenti assonanze conservatrici, non di meno avrebbe sedotto uno dei cervelli dell’amministrazione Clinton, come William Galston, consigliere del presidente per la politica interna, il quale avrebbe manifestato chiaramente i suoi sospetti nei confronti dell’autonomia liberale, leIbid., p. 367. A. MACINTYRE, Three Rival Versions of Moral Enquiry, Notre Dame, University of Notre Dame, 1990, pp. 113-114. 81 A. MACINTYRE, Whose Justice? Which Rationality? cit., p. 364. 82 Cfr. J. HORTON, S. MENDUS, After MacIntyre. Critical Perspectives on the Work of Alasdair MacIntyre, Oxford, Polity Press, 1994, p. 105. 79 80
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gata al progetto illuminista, considerandola solo “una delle possibili modalità di esistenza” nella democrazia americana83 e, paradossalmente, avrebbe fornito l’armamentario ideologico anche per quella sinistra che andava sostenendo il progetto ‘multiculturalista’, che in fondo non auspicava altro che una società frammentata tra diverse ‘culture’, fornite di ‘diritti collettivi’. Cioè a dire, usando un efficace ossimoro di Marco Tarchi, una vera e propria “società di comunità”: “una società organizzata intorno ad una molteplicità di raggruppamenti, ognuno dei quali dotato di un proprio senso e di una propria specificità”84. Gli argomenti dei communitarian avrebbero avuto comunque ampia fortuna anche in Europa. In Italia ed in Francia queste idee furono accolte nella nuova destra post-fascista, sia nella cosìddetta versione différenzialiste di Alain de Benoist, che in quella di una comunità tradizionalista cattolica quale emerge, per esempio, dai libri di Marcello Veneziani85. Come avrebbe però segnalato Gianni VattiW. GALSTON, Two Concepts of Liberalism, “Ethics”, 1995, n. 3, pp. 524, 526. M. TARCHI, Identità, razzismo e intolleranza, “Diorama Letterario”, 1993, n. 173, p. 42. 85 Marcello Veneziani vede infatti delinearsi in modo sempre più netto un antagonismo tra liberal e comunitari. Comunitario sarebbe colui che “assegna valore all’identità, alla provenienza, dunque all’origine, e alle vie che conducono alle radici come le tradizioni”. Non che questi valori siano stati trascurati dai liberali, ma la differenza starebbe “nella scala delle priorità”: non esisterebbero solo i diritti degli individui, “ma anche i diritti dei popoli e delle nazioni, come ricorda Giovanni Paolo II, e dunque non c’è ragione di sacrificare i diritti della comunità ai diritti del singolo”. In un mondo che, anche per Veneziani, sarebbe ormai caratterizzato dal “pensiero unico”, cioè dal “nesso inscindibile tra razionalità, tecnica, progresso, modernità, democrazia e scelta liberale”, si invocano quegli argini che deriverebbero da una “visione comunitaria” e che eviterebbero “gli sconfinamenti del mercato in ambiti extraeconomici e le sue ricadute, sociali, civili, culturali” (M. VENEZIANI, Comunitari o liberal. La prossima alternativa? Bari, Laterza, 1999, pp. 11, 7, 50, 14, 32-33, 23). Ed invocare una democrazia comunitaria in Italia significa richiamarsi ad una tradizione nazionale, cattolica, popolare, ad un vero e proprio “patriottismo della nazione”, significa “riconoscere il primato pubblico alla tradizione che rispecchi il comune sentire di un popolo” (M. VENEZIANI, Di padre in figlio. Elogio della tradizione, Bari, Laterza, 2001, p. 193, vedi anche Id., Comunitari o liberal cit., pp. 45-46). E la partecipazione, per Veneziani, dovrebbe estendersi “anche a livello sociale ed economico, prevedendo nuovi sistemi di corresponsabilizzazione nella gestione e negli utili delle 83 84
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mo in una intervista a “ La Repubblica” nel 1994, le idee antidemocratiche del francese in Italia si potevano ritrovare anche nell’estrema sinistra: “Oggi certe sue idee le puoi leggere sul «Manifesto» ...”86. In Francia, parimenti, Charles Champetier, parlando di “rivoluzione multiculturale”, non solo faceva riferimento agli autori americani, ma evocava il Gotha della sinistra intellettuale transalpina, autori come Guattari, Derrida, Lyotard, Baudrillard, Foucault, Deleuze, intorno ai quali era esploso uno straordinario interesse per temi come la différence, l’autenticità, la cultura, la storia, la costruzione dialogica dell’identità87. In Germania il dibattito, iniziato in ambito accademico, si sarebbe particolarmente acceso quando lo scrittore Botho Strauß, in imprese”; essa, richiamando Charles Taylor, segnerebbe “il tentativo di risvegliare un’identità comunitaria dopo le lacerazioni e i disagi prodotti dalla modernità”. In teoria questa comunità dovrebbe superare il vecchio organicismo comunitario, alla Tönnies, e il modello di stato etico-pedagogico di derivazione hegeliana, fallito nell’esperienza del fascismo e dei totalitarismi: “La comunità partecipativa del nostro tempo può ritrovare la dimensione del noi non calandola dall’alto di un’auctoritas che monopolizza forzosamente l’etica, ma ritrovandola nel comune sentire e nel comune bisogno di un legame sociale”. Il nemico principale, ancora una volta, sarebbe l’individualismo illuminista, che congiunto al “dominio del denaro”, causerebbe una vera e propria condizione di schiavitù in questa società: l’alienazione, l’esatto contrario del radicamento; alienazione che dovrebbe intendersi “come perdita della propria identità, come estraneazione dall’ambiente in cui si vive, come spaesamento, nel senso heideggeriano; alienazione come sfruttamento e dunque espropriazione del lavoro, come riduzione dell’uomo da fine a mezzo, a strumento”. Veneziani ci prefigurerebbe quindi una sorta di democrazia degli antichi, telematizzata: “oggi la tecnologia può consentire di realizzare anche in società vaste e complesse il modello partecipativo della polis greca e sistemi comunitari più estesi ed interattivi: si pensi alle potenzialità partecipative che serba la rivoluzione telematica, le possibilità di una consultazione intensa e costante dei cittadini, di un flusso reciproco di informazioni e di opinioni nel quadro della «democrazia elettronica»”. Ma una democrazia che sarebbe anche delineata da chiari contorni populisti e illiberali, dove alla fine conterebbe solo la tradizione prevalente o la maggioranza con cui si esprime: “Se dunque la tradizione e la maggioranza di un paese concordano sulla necessità della pena capitale, non ci può essere altra autorità che decida al loro posto” (M. VENEZIANI, Comunitari o liberal cit., pp. 47-48, 51-52, 54, 70). 86 Intervista a Gianni Vattimo, su “La Repubblica”, 31 maggio 1994. 87 C. CHAMPETIER, Multiculturalisme. La force des différences, “Éléments”, 1998, n. 91, p. 15.
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un articolo apparso per “Der Spiegel” nel febbraio del 1993, avrebbe attaccato i luoghi comuni della sinistra su xenofobia e razzismo, suscitando vivaci polemiche88. Si sarebbe accusato allora Strauß, al quale veniva affiancato un esponente politico di spicco come Wolfgang Schäuble, di essere alla testa di una rinata “rivoluzione conservatrice”, ed anche da parte liberale, si sarebbe visto nel comunitarismo, usando le parole di Herzinger e Stein, nient’altro che “un’esaltazione regressiva della comunità chiusa”89. In Inghilterra le idee americane avrebbero trovato una sponda, da una parte in quel tipo di conservatorismo che si voleva distinguere dal predominio ideologico Thatcheriano90 (Roger Scruton, infatti, aveva condannato l’uso libero e indiscriminato della ragione, per uno stile di vita che seguisse “i precetti di una scelta «autonoma» o persino «autentica»”, come aveva argomentato Kant, ed aveva invocato addirittura il grande inquisitore di Dostoevsky per mettere in luce i difetti della “quintessenza della concezione dell’uomo dell’illuminismo”, cioè a dire la libertà come unico fine91), dall’altra il comunitarismo avrebbe esercitato un certo fascino anche tra gli intellettuali del nuovo partito laburista, al punto che, la sua deriva ‘multiculturalista’ con la politica delle ‘identità’, aveva fatto ritenere al grande storico Eric Hobsbawn che ormai per la sinistra inglese si fosse compiuto “il declino dei grandi slogan universalistici dell’illuminismo”92, e parallelamente aveva convinto Quentin Skinner della 88 B. STRAUSS, Anscwellender Bocksgesang, “Der Spiegel”, feb. 1993. Cfr. L. PROBST, Kommunitarismus und Gemeinsinn. Schnittpunkte und Divergenzen eines deutch-amerikanischen Themas (1997), “Ifkud. Deutschlandstudien”, rivista online all’indirizzo http://www.deutschlandstudien.uni-bremen.de; C. ZAHLMANN (hg.), Kommunitarismus in der Diskussion, Berlin, Rotbuch Verlag, 1994; M. BRUMLIK, H. BRUNKHORST (hg.), Gemeinschaft und gerechtigkeit, Frankfurt, 1993. 89 R. HERZINGER, H. STEIN, Endzeit Propheten oder die Offensive der Antiwestler. Fundamentalismus, Antiamerikanismus und Neue Recht, Reinbek, Rowohlt, 1995, p. 218. 90 J. GRAY, Post-Liberalism. Studies in Political Thought, London, Routledge, 1993, p. 262. 91 R. SCRUTON, The Meaning of Conservatism (1980), South Bend (Indiana), St. Augustine’s Press, 2002, p. 65. 92 E. HOBSBAWN, Identity, Politics and the Left, “New Left Review”, 1996, n.
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necessità di sottrarre il repubblicanesimo dal suo mortale abbraccio comunitario, conseguenza della lettura che Pocock e Sandel gli avevano dato93. Di questa vasta ricezione europea meritano un approfondimento le rielaborazioni originali delle idee comunitariste svolte dal francese Alain De Benoist e dall’inglese John Gray. In questi due autori, infatti, al di là della notevole diversità ideologica, confluiscono gran parte delle polemiche antilluministe che sono state sin qui esaminate. Alain de Benoist aveva avallato le tesi dei filosofi americani in un articolo apparso nel 1994 sulla rivista “Trasgressioni”94. In quel saggio, prima di entrare nel merito, egli aveva chiamato a raccolta tutte le polemiche antilluministe contemporanee, da quella di Gadamer a quella di Derrida, invocando la fenomenologia di Husserl, con Wittgestein, Kuhn, Foucault o l’antropologia culturale, citando la critica al progresso di Lasch ed il rifiuto di Habermas della nozione di ragione trascendentale95. Ed in effetti de Benoist sembrava davvero catalizzare i più svariati antilluminismi: partito da un neopaganesimo nietzscheano con frequenti richiami alla konservative revolution ed ai fascismi eretici, in un’intervista rilasciata alla rivista americana “Telos”, aveva riconosciuto tra le proprie fonti, oltre agli autori sopracitati, anche scrittori come Heidegger, Adorno, Horkheimer ed il politeismo di James Hillman96. Quando de Benoist auspica la fine delle categorie destra-sinistra, in realtà pensa, seguendo Serge Latouche, che quella divisione 217, p. 45. Sulla presenza delle tematiche comunitarie nella politica laburista vedi C. ANNESLEY, Americanised and Europeanised: UK Social Policy since 1997, “The British Journal of Politics and International Relations”, 2003, n. 2 e S. DRIVER, L. MARTELL, New Labour’s Communitaniarisms, “Critical Social Policy”, 1997, n. 52. 93 Q. SKINNER, L’ideale repubblicano di libertà politica (1990), in Id., La libertà prima del liberalismo, Torino, Einaudi, 2001, pp. 79-100. 94 A. DE BENOIST, I comunitaristi americani, “Trasgressioni”, XIX (1994), ora in Id., Le sfide della postmodernità, Bologna, Arianna Editrice, 2003. 95 Ibid., pp. 101-105. 96 Intervista ad Alain de Benoist, “Diorama Letterario”, 1997, n. 206, pp. 22, 26, 29.
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non abbia più senso, perché le aspettative che sono legate a quel binomio prevedono, da ambo le parti, la realizzazione del programma dei Lumi, il quale essendosi ormai completato, fa perdere senso a tale distinzione, e richiede invece che la politica si articoli su altre discriminanti, come appunto quella tra liberali e comunitari97. Nelle sue opere precedenti de Benoist aveva rappresentato la società liberale come “la peggiore che sia mai esistita (...) come nessun altra lo è stata in passato”98; il liberalismo veniva visto come il figlio della laicizzazione dei valori cristiani dell’individualismo, dell’egalitarismo e dell’universalismo, compiuta dall’illuminismo, e la dottrina di Marx, più che esserne il ‘superamento’ rappresentava invece il suo “rovescio”. L’individualismo poi, ormai presente solo “sotto l’aspetto di un edonismo allo stato puro (desiderio di godimento e ricerca della «felicità»)”, e divenuto perciò distruttore di senso e favorevole al “fiorire anarchico delle soggettività a detrimento dei valori vissuti collettivamente”, era l’ultimo “stadio” a cui era giunto l’illuminismo99. L’individualismo, scriveva de Benoist, insieme al potere corrosivo del denaro contribuiva allo “slabbramento del tessuto sociale”, e di conseguenza, “emarginazione dei «nuovi poveri», instabilità del sistema monetario internazionale, fallimento dello «sviluppo», crisi ecologica, risveglio delle nazionalità e delle religioni”, sarebbero state le ricadute devastanti, già da allora prevedibili nel breve termine100. Questo era solo un aspetto della malattia delle società liberali, la quale nascondeva un risvolto totalitario ancora più inquietante. Sul modello di Tocqueville, con accenti che richiamavano i toni critici della scuola di Francoforte o le analisi di Foucault, de Benoist leggeva il totalitarismo come diretta conseA. DE BENOIST, Destra-sinistra: verso la fine di una divisione? “Società Libera La Rivista”, 2002, n. 0, pp. 24-25. Cfr. S. Latouche, Le MAUSS est-il apolitique?, “La revue du Mauss”, 1991, n. 3, pp. 70-71. 98 A. DE BENOIST, Verso nuove convergenze, “Diorama Letterario”, 1986, n. 93, p. 36. 99 A. DE BENOIST, Il nemico principale. Considerazioni per anni decisivi (1982), Firenze, La Roccia di Erec, 1983, pp. 43-45, 58. 100 A. DE BENOIST, Il ritorno della storia, “Diorama Letterario”, 1989, n. 132, p. 9. 97
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guenza dell’egalitarismo, del tentativo di ridurre il molteplice all’identico, all’unico. Il totalitarismo rappresentava la “standardizzazione”: da una parte quella coattiva creata dai gulag stalinisti, dall’altra quella “dolce”, contraffatta come libertà, che falsamente veniva inoculata dal liberalismo, coadiuvato, nell’indoramento della pillola, dalla frenetica attesa consumistica; una libertà che noi, in teoria, avremmo dovuto possedere, ma che in realtà non serviva a niente, nel momento in cui veniva privata dei suoi effetti. Quel che era peggio, era che noi non riuscivamo neppure a capire di essere le vittime di un’ oppressione ancora più tremenda di quella a cui si era sottoposti nelle vecchie dittature dell’Europa orientale: “c'è qualcosa di peggio della repressione di tipo classico: l'interneutralizzazione delle informazioni e la spirale del silenzio; il fatto che un avvenimento di cui i media non rendono conto è un evento non avvenuto; (...) ad occidente non c'è bisogno di uccidere; è sufficiente tagliare il filo del microfono. Uccidere attraverso il silenzio è una forma di omicidio molto elegante, che giunge praticamente allo stesso risultato dell'assassinio e, in più, consente di mantenere la coscienza a posto (cosa di cui non si deve trascurare l'importanza: sono rari coloro che imprigionano od uccidono per il piacere di farlo)”101. Era questo il quadro futuro prospettato per la nostra società: un inferno climatizzato popolato da robots felici, vigilati dall' “occhio freddo delle telecamere di sorveglianza dell'ipermercato mondiale”102, un mondo dove sarebbero scomparse tutte le culture, tutte le nazioni, dove ogni essere o cosa avrebbe ribollito in un enorme “melting pot”, un quadro degno di un romanzo di Aldous Huxley, o del film “Brazil” di Terry Gilliam. Per de Benoist erano due i “modi principali di rappresentarsi l'uomo e la società. O il valore principale viene posto nell'individuo (e, di conseguenza nell'umanità, formata dalla somma di tutti gli individui): è l'idea cristiana, borghese, liberale e socialista. Oppure il valore fondamentale è costituito dai popoli e dalle culture, nozioni 101 102
A. DE BENOIST, Il nemico principale cit., p. 64, A. DE BENOIST, Oltre l’occidente, Firenze, La roccia di Erec, 1986, p. 89.
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eminentemente plurali che fondano un approccio «olistico» della società. Nell'un caso, l'umanità, somma di tutti gli individui, è ugualmente «contenuta» in ciascun essere umano particolare: si è prima di tutto un «uomo», e solo secondariamente, come per caso, membro di una cultura o di un popolo. Nell'altro, l'umanità non è che l'insieme delle culture e delle comunità popolari: il fondamento che situa l'uomo nella sua umanità è costituito dalle sue appartenenze organiche”103. L'uomo, quindi, non aveva un'esistenza autentica in quanto “uomo”, ma solo nel momento in cui veniva inserito nel contesto di una cultura specifica. Il popolo, solo il popolo, rappresentava il “valore” essenziale e, “una democrazia che non fosse fondata né con riferimento all'individuo – senza – appartenenze né all'umanità, bensì con riferimento al popolo come un organismo collettivo e come l'attore privilegiato di ogni destino storico”, avrebbe potuto essere definita “democrazia organica”104. De Benoist aveva preso come modello di questa concezione proprio l'antica democrazia greca, caratterizzata da una profonda coesione culturale e da un radicato sentimento di appartenenza, come lo stesso suicidio di Socrate, che preferì morire davanti alla tragica alternativa dell'esilio, ci sta in qualche modo a dimostrare. La vera democrazia, secondo De Benoist, era caratterizzata sì dall'uguaglianza, ma non certo di quella delle anime di fronte al creatore, bensì di quella che si acquistava con il diritto di cittadinanza. Due erano le concezioni possibili dell'eguaglianza: “in un caso abbiamo l'eguaglianza aritmetica, che corrisponde alla semplice legge del numero, nell'altro l'eguaglianza geometrica che conserva l'idea di proporzione”105; e lo stesso poteva dirsi per il concetto di libertà, da una parte vi era la libertà-autonomia delle democrazie liberali, dall'altra la libertà-appartenenza, propria di una società organica. In sostanza l'uomo acquisiva dei diritti solo in quanto apparteneva “ad una data sfera storica, etnica o culturale – diritti indissociabili dai A. DE BENOIST, Il nemico principale cit., p. 40. A. DE BENOIST, Democrazia il problema, Firenze, Arnaud, 1985, pp. 94-95. 105 Ibid., p. 40. 103 104
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valori e dalle caratteristiche proprie a questa sfera”, quindi non ci potevano essere “più contraddizioni tra i diritti individuali ed i diritti collettivi di quanto contraddizione non vi [fosse] tra l'individuo stesso ed il popolo al quale appart[eneva]”106. Il principio di maggioranza veniva considerato, in pratica, solamente un meccanismo per adottare delle decisioni, ma non poteva mai essere considerato un criterio di verità, essendo la scelta dei valori un fatto indimostrabile, e “la prova che il principio di maggioranza non dice il vero [era] il diritto concesso alle minoranze” dalle nostre democrazie (Si dimentica, però, che nella democrazia degli antichi non c'era il diritto della minoranza !). Era il popolo l'unico detentore del potere all'interno dello Stato, e la sovranità di esso non poteva essere in alcun modo limitata: se questa avesse dovuto entrare in conflitto con le stesse regole del gioco democratico, sarebbe stata la sovranità che alla fine avrebbe dovuto risultare prevalente. De Benoist considerava il popolo un organismo collettivo, riferendosi direttamente a Jean Jacques Rousseau, e la democrazia da lui prospettata implicava “(...) il potere del popolo, (...) il potere di una collettività organica cui la storia [aveva] dato forma all'interno di una o più unità politiche date: città, nazione, impero, ecc. Laddove non vi [era] un popolo, ma una semplice pluralità di atomi sociali individuali, non [poteva] dunque esservi democrazia. Ogni sistema politico la cui messa in opera comporta[va] la disgregazione o l'appiattimento delle diversificazioni dei popoli, o anche l'impoverimento della coscienza popolare nel senso di una coscienza di appartenenza a quell'entità organica che [era] il popolo, [doveva] essere considerato un sistema non democratico”107. Riassumendo: questa concezione democratica, basata su un principio di natura olista, su una fantomatica e non ben definita eguaglianza geometrica che rispetterebbe le proporzioni, tesa nel “cercare di porre in opera procedure qualitative, e non più sempliA. DE BENOIST, La religione dei diritti dell'uomo, “Diorama Letterario”, 1989, n. 127, p. 5. 107 A. DE BENOIST, Democrazia il problema cit., pp. 45, 100. 106
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cemente quantitative di consenso” (Queste, a dire il vero, non vengono mai specificate!), postulava, infine, una distinzione tra il pluralismo dei valori, “che è un fermento di disgregazione della società, dal momento che un valore vale solo rispetto ad un altro, non è possibile metterli tutti su uno stesso piede”, e il pluralismo delle opinioni, “che è una normale conseguenza delle diversità umane”. A questo punto la libertà di espressione si poteva arrestare, là dove si fosse mostrata “in contraddizione con l'interesse generale, vale a dire con la possibilità, per la comunità popolare di avere un destino conforme ai propri valori fondanti”108. Una democrazia, dunque, in cui il pluralismo trovava “il proprio limite nella subordinazione al bene comune”109, ma de Benoist non ci diceva quale doveva essere l'autorità che poteva decidere ciò che era ammesso e ciò che non è ammesso, non ci diceva chi era la persona che doveva essere incaricata di individuare il bene comune, e in che modo e con quali procedure poteva realmente accertarsene. Questa nozione di bene comune, certamente, assomigliava in modo sospetto a quella volontà generale di Rousseau, verso il quale, il nostro, richiamava una maggiore attenzione da parte della propria area politica, un bene comune, una volontà generale che avrebbero avuto bisogno di un nuovo Robespierre? Per De Benoist il concetto di bene comune presupponeva “l'esistenza di una comunità (etnica, storica, culturale, ecc.) di membri della società, condizione prima di una percezione di ciò che vi può essere di comune”110, ed è proprio qui che l'appello al radicamento nella propria cultura, alla scoperta delle appartenenze, si univa con l'appello rivolto al terzo mondo, vera miniera di comunità politiche. Era un appello già allora indirizzato contro l'omogeneizzazione indotta dalle moderne società liberali, era un appello per contrastare la imperversante “teoria del mondo unificato” (one worldism): “c'è Ibid., pp. 91, 64. Ibid., p. 99. 110 A. DE BENOIST, Verso una revisione della tipologia politica liberale, in A più mani, Le forme del politico. Idee della nuova destra, Firenze, La roccia di Erec, 1984, p. 151. 108 109
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necessità urgente necessità, per tutti i popoli, tutte le razze, tutte le culture ancora coscienti di sé, di unirsi contro il loro solo nemico comune: coloro che vogliono distruggerle tutte, per imporre, a tutte, un medesimo modo di esistenza, un medesimo ritmo, un medesimo standard di vita, una medesima pseudo civiltà impoverente e distruttiva. C'è necessità, urgente necessità, di creare una nuova cultura”111. Per de Benoist, infatti, “l'universo è un caos, ed il compito che l'uomo può intraprendere è di dargli una forma”. Questo perché non esiste un ordine naturale prestabilito cui riferirsi, ma, invece, “esiste una relatività generale di costumi, degli ideali, delle regole morali, delle aspirazioni estetiche, ecc...”112. In sostanza egli affermava che “ogni concezione antiegualitaria del mondo è fondamentalmente nominalista”113, e con questa parola sembrava ricomparire la vecchia disputa medioevale sugli “Universali”. Si riteneva infatti che qualsiasi corrente politica fosse attraversata da una corrente nominalista, e da una universalista, ma, mentre l'atteggiamento della prima era tollerante, la seconda, sostanzialmente intrisa di utopismo, avrebbe portato necessariamente al totalitarismo assimilante ed al razzismo114. Premettendo tutto ciò, sorge, adesso, il problema A. DE BENOIST, L'equivoco del razzismo. Per una critica differenzialista, “Trasgressioni”, 1988, n. 7, p. 30. 112 A. DE BENOIST, Visto da destra (1977), Napoli, Akropolis, 1981, pp. 111112. 113 A. DE BENOIST, Le idee a posto (1980), Napoli, Akropolis, 1983, p. 33. 114 In coerenza con l'atteggiamento nominalista, de Benoist professa anche il proprio paganesimo, in dispregio al monoteismo biblico, che è visto nascere “dalla separazione e dal rifiuto di una civiltà circostante assunti, verso il XVIII secolo prima della nostra era, ad Ur, nel paese dei Sumeri, da un insieme di tribù nomadi che la tradizione orale pone sotto la guida di Abramo”. Esso ha portato, nel culto dell'unico Dio Jahvè a discapito di tutti gli altri idoli, a spezzare il legame per il quale l'uomo poteva innalzarsi a Dio. Il paganesimo, per i cui valori “si sono generalmente indicate alcune caratteristiche quali : una concezione eminentemente aristocratica della persona umana, un'etica fondata sull'onore (l' «onta» piuttosto che il «peccato»), un'attitudine eroica di fronte alle sfide dell'esistenza, l'esaltazione e la sacralizzazione del mondo, della bellezza, del corpo, della forza e della salute, il rifiuto degli «inframondi», l'inseparabilità dell'estetica dalla morale, ecc...”, è considerato come l'unica religione veramente tollerante, poiché “un si111
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di capire come De Benoist, che era partito, appunto, da basi nominaliste, riuscisse a conciliare la condanna verso un qualsiasi principio universale al di sopra dei popoli, quale forma di un nuovo neocolonialismo, con l'affermazione dell'uguaglianza nella differenza tra le culture ed i popoli, e con il richiamo all’“urgenza di un nuovo terzomondismo fondato non sul rifiuto della cultura europea, ma sul riconoscimento della personalità e della legittimità di tutte le culture” quale posizione che “costituisce il fondamento della tolleranza, della coesistenza e del dialogo”115. Noi non riusciamo a capire bene, tra chi, in realtà, dovrebbe avvenire questo dialogo: è questo forse un principio di dialogo tra i popoli? Se sì, allora altro non è che un vituperato principio universale che si pone al di là della sfera d'azione di un singolo popolo. Nelle intenzioni dell'autore la critica all'etnocentrismo dovrebbe portare alla vera fratellanza, ma noi ci domandiamo: che accadrebbe di questa fratellanza, se, il bene comune della propria collettività, per ironia della sorte, si identificasse con la neutralizzazione e l'ingoblamento delle comunità limitrofe? Qual è allora la novità della soluzione debenostiana? Per Settembrini, “si tratta in fondo del ritorno, vantato come una scoperta geniale perché esteso dalle specificità confessionali a tutte le altre, etniche e ideologiche comprese, al principio del cuius regio eius et religio”, ma questa costruzione non può stare in piedi se non si ancora ad un principio universale superiore delle singole entità collettive “almeno nei casi in cui il perseguimento del proprio bene particolare condurrebbe a calpestare il bene costitutivo delle altre: la loro identità”116. In Inghilterra, come abbiamo accennato, le tematiche antilluministe postmoderne, anti-global e comunitarie sono state rielaborate stema che ammette un numero illimitato di dei ammette nello stesso tempo non solo la pluralità dei culti che loro sono resi, ma anche e soprattutto la pluralità dei costumi, di sistemi politici e sociali, di concezioni del mondo di cui gli dei sono soltanto espressioni sublimate” (A. DE BENOIST, Come si puo' essere pagani? (1981), Roma, Basaia, 1984, pp. 29, 116, 128). 115 A. DE BENOIST, Oltre l’occidente cit., p. 45. 116 D. SETTEMBRINI, La società liberaldemocratica e i suoi nemici, “MondOperaio”, 1989, n. 8, p. 106.
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in modo originale ed insidioso da un autore come John Gray, difficilmente collocabile ma assimilabile alla tradizione conservatrice e fortemente influenzato da Oakeshott e Berlin. Non è facile muoversi tra le sue repentine ed inaspettate evoluzioni teoriche, seguire il filo rosso che sottende ogni nuovo spostamento, il continuo aggiustamento del tiro117. Partito da una posizione di liberalismo classico (così si è definito), ecco che lo vediamo transitare per un liberal-conservatorismo “post-moderno” che loda le virtù della società civile e del “pluralismo oggettivo”, per poi arrivare ad un ulteriore pluralismo, questa volta strong value, che abbandona come superflue anche le istituzioni centrali della società civile occidentale. In questo cammino ci sono fendenti per tutti, per i neoliberali, per i conservatori, per i socialdemocratici. Le idee di John Gray paiono sempre percorrere una via di confine, sembrano sempre essere in bilico tra due reami. Da una parte, per esempio, si declina il primato delle forme culturali sull’individuo, si strizza l’occhio ai communitarian, dall’altra non si vuol sentir parlare di “comunità organiche”, di improbabili ricostruzioni artificiali di tessuti comunitari. Su registri ambivalenti come questi Gray modula le sue note: sì alla condizione postmoderna, no alla decostruzione dell’individuo, sì al capitalismo, no all’individualismo, sì alla inevitabile globalizzazione tecnologica, no al predominio della scienza. È però la feroce critica dell’illuminismo che accomuna Gray ad autori come MacIntyre e De Benoist. Come MacIntyre, infatti, Gray individua nel fallimento del pensiero filosofico di fondare razionalmente un’etica, la causa del dilemma centrale della moderna teoria morale che da una parte vede l’individuo sovrano, dotato di autonomia morale, vezzeggiare l’emotivismo ed il soggettivismo e dall’altra le stesse norme morali oggettive che hanno ormai perso il loro carattere teleologico e la loro giustificazione divina. La conseSulle “migrazioni” intellettuali di John Gray vedi D. KLEIN, The Ways of John Gray. A Libertarian Commentary, “The Indipendent Review”, 1999, n. 1, pp. 63-89. Nonostante queste piroette Alan Ryan pensa che nel suo pensiero ci sia “un grado elevato di coerenza” (A. RYAN, Live and Let Live, “The New York Review”, 2001, n. 8, p. 55). 117
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guenza di tutto questo, è che noi non possediamo più “un vocabolario morale coerente, qualsiasi specificazione del bene umano o della virtù in base alla quale possa procedere un ragionamento morale”: l’esito finale dell’illuminismo si situa così nel pensiero di Nietzsche118. Il progetto illuministico è infatti, per Gray, il dispiegarsi della moralità razionale e critica che vuole sostituire tutte le forme di fede trascendente ed ogni tipo di moralità derivante dalla tradizione o dal costume per costruire una civiltà universale. Promuovendo la ragione autonoma ed accordando alla scienza uno status privilegiato nei confronti delle altre forme di sapere umano, esso ci ha lasciato in eredità solo il disincanto ed il nichilismo119. Il progetto illuministico è adesso incarnato nel liberalismo ma noi, nella frammentata realtà postmoderna, non possiamo più appellarci ad una visione universale della natura umana, se vogliamo dirimere gli odierni conflitti morali e sociali. Che cosa allora rende l’illuminismo così pericoloso? È la sua pretesa di voler espandere universalmente una conquista come l’individualità liberale, uno dei frutti più preziosi della particolare esperienza storica moderna dell’occidente, di voler estendere universalmente l’astratta concezione dei diritti dell’uomo120. Questo non sarebbe altro che fondamentalismo o dottrinarismo: individualismo, universalismo, egalitarismo e progressismo non sarebbero altro che meri aspetti teorici che una vera filosofia politica dovrebbe abbandonare se volesse essere davvero una chiara guida per la prassi121. Tali elementi di dottrinarismo sono profondamente sbagliati perché contrastano con dei dati ineludibili della realtà che smentiscono platealmente i fondamenti epistemologici ed antropologici che starebbero alla base del liberalismo; questi dati ineludibili non sarebbero altro che la radicale incommensurabilità dei valori e la presenza del male nel mondo. A dare il colpo di grazia all’illuminismo c’è stato per Gray il lavoro di Isaiah Berlin; 118
121.
J. GRAY, Enlightenment’s Wake cit., pp. 148-150 e Id., Post-Liberalism cit., p.
J. GRAY, Enlightenment’s Wake cit., pp. 123, 145. J. GRAY, Post-Liberalism cit., pp. 259, 327. 121 Ibid., pp. 284, 321. 119 120
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egli infatti ha affermato che i valori ultimi sono, senza dubbio, oggettivi e conoscibili e quindi universali, ma ha anche rilevato come essi entrino in conflitto gli uni con gli altri: l’opposizione degli stessi concetti di libertà ed eguaglianza lo dimostrerebbe chiaramente122. C’è inoltre, come accennato, la completa falsità dell’antropologia filosofica dell’illuminismo che concepisce non solo le differenze culturali come effimere in nome di un generico senso di umanità, ma anche l’idea dell’esistenza di un indefinito ed ottimistico progresso123. In realtà, scrive Gray, “le conquiste tecnologiche e scientifiche, non hanno e non possono diminuire il reame di mistero e tragedia nel quale è nostro destino agitarci”124. Negata in tal modo qualsiasi autorità ad una supposta “natura umana”, la liberal-democrazia non viene affatto considerata l’unica forma di regime politico che possa venir sanzionata dalla ragione, e ancor meno l’unica indispensabile per il successo della moderna economia125. Il progetto illuministico è ormai riuscito ad affermarsi per l’assoluta mancanza di alternative teoriche ed è riuscito a trasformare irreversibilmente le culture non occidentali126. Il libero Ibid., pp. 287, 65. J. GRAY, Enlightenment’s Wake cit., pp. 65, 125. 124 J. GRAY, Beyond the New Right. Markets, Government and the Common Environment, London, Routledge, 1993, p. 49. Questa antropologia negativa trae la propria origine da Thomas Hobbes al quale Gray direttamente si collega, vedi Ibid., pp. 47-48. 125 J. GRAY, Post-Liberalism cit., p. 246 e Id., Enlightenment’s Wake cit., p. viii. 126 Per John Gray la globalizzazione non è altro che la banalizzazione e diffusione planetaria delle moderne tecnologie di produzione e di comunicazione e l’interconnessione di tutte le economie attraverso flussi di informazioni, commercio e capitali, in pratica un destino storico a cui non ci possiamo sottrarre. Un destino storico che si può far risalire all’espandersi del potere europeo nel resto del mondo dopo il 1500. L’idea di globalizzazione che invece Gray rifiuta decisamente è quella di un libero mercato mondiale, idea che egli definisce utopica al punto che potrebbe costare in termini umani più delle sofferenze inflitte dall’ideologia comunista. Spesso, ribadisce Gray, nei dibattiti attuali le due globalizzazioni vengono confuse, viene cioè confuso il “processo storico in corso da secoli, con l’effimero progetto politico di un libero mercato mondiale”. Infatti la modernizzazione, inevitabile, non implicherebbe una medesima modernizzazione economica, anzi favorirebbe lo svilupparsi di tipi diversi di capitalismo insieme a nuovi tipi di regime. La crescita dell’economia mondiale non starebbe affatto fa122 123
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mercato mondiale, in questo senso, non sarebbe altro che l’ultima metamorfosi dell’ ideale illuministico di una civiltà universale Questo progetto però avrebbe ormai esaurito tutte le sue possibilità sia nella versione liberale che in quella marxista. Il miraggio dei neo-liberali dà infatti per assodato che una società possa essere tenuta insieme solo dal mezzo impersonale degli scambi di mercato. L’idea dell’ordine spontaneo generato dal mercato invece, per Gray, va bene solo finché ci illumina sui modi in cui questo possa meglio coordinare le attività umane di qualsiasi idea di pianificazione “ma è completamente sfuorviante se ci suggerisce che la cornice istituzionale del processo di mercato ci venga data come un fatto naturale, o possa essere dedotta da qualsiasi semplice teoria”. Il mercato è infatti un complesso artificio che può cambiare in relazione alle diversità delle varie culture economiche127. I teorici del Laissez-faire non hanno capito ed hanno respinto il ruolo della “cultura comune” nel sostenere il mercato, non hanno capito che le istituzioni di mercato sono stabili e durature solo finché sono immerse in una data “cultura”, ed esistono per soddisfare i bisogni di questa128. La tesi centrale vorendo “la diffusione universale della democrazia liberale occidentale”; credere perciò che la prosperità trascini con sé la liberal-democrazia “è un atto di fede” che non tiene conto, prima di tutto, della complessa realtà asiatica, di esperienze come quelle della Cina popolare, di Taiwan, della Malesia o di Singapore. Tra le necessità manifestate da queste popolazioni asiatiche, quella di possedere delle istituzioni democratiche non campeggia certo in cima alla lista. Il bisogno di controllare il rischio economico, la necessità di protezione dal crimine e dalla corruzione, la richiesta di istituzioni che veicolino il senso di appartenenza e di partecipazione alla società, certamente sono prioritarie e solo “i regimi che soddisferanno questi bisogni saranno legittimi, democratici o meno che siano, mentre i regimi che non li soddisferanno saranno deboli ed instabili, per quanto democratici possano essere” (J. GRAY, Alba bugiarda. Il mito del capitalismo globale e il suo fallimento, Milano, Ponte alle Grazie, 1998, pp. 9, 11, 29, 32, 69, 223-224, 250). 127 J. GRAY, Beyond the New Right cit., pp. 82-83. 128 J. GRAY, Enlightenment’s Wake cit., p. 92. Gray, che nel suo libro Liberalism del 1986 aveva tributato un omaggio a Friedrich von Hayek come il rinnovatore della tradizione del liberalismo classico, un Hayek che aveva ripudiato ogni teoria del valore oggettivo ed il concetto di equilibrio generale della macroeconomia, un Hayek che aveva tracciato la fondamentale distinzione tra economia e catallassi ed aveva messo in luce gli errori della pianificazione centralizzata sovietica, sottolineando l’impossibilità epistemologica dell’interventismo economico, adesso
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di Gray, sulla scia delle argomentazioni del Polanyi della Grande Trasformazione, ribalta dunque completamente le conclusioni della nuova destra economica: il mercato non avrebbe in sé niente di “naturale”, non sarebbe mai stato realmente “libero”, non lo è stato neppure nell’Inghilterra della seconda metà dell’ Ottocento; persino in quel periodo d’oro esso poteva considerarsi come “un prodotto artificiale del potere e della politica”. Il libero mercato globale non è dunque “una ferrea legge di sviluppo storico, bensì un progetto politico”. Che esso fosse autoregolantesi era una pia illusione alimentata dai liberali classici tra le due guerre, “il laissez faire dev’essere pianificato centralmente; i mercati regolati esistono e basta”. Siamo dunque ben lontani dalla “mano invisibile” e dalle teorie della scuola austriaca. Il liberalismo, quindi, non sarebbe altro che un esperimento di razionalismo economico come lo era stato il comunismo, non sarebbe altro che un’utopia post-totalitaria129. La vicinanza teorica con i filosofi communitarian non finisce però qui, con MacIntyre vi è infatti un’identità di vedute nella “condivisa percezione delle limitazioni all’individualità liberale”130. Gray pertanto si unisce al coro delle critiche all’individualismo: esso “non è mai la parola ultima su ciò che ha valore. Ciò che ha valore (nel mondo umano) è la forma di vita – persino se, paradossalmente, essa è una forma di vita individualistica”131. Ecco perché, nel sistema pluralistico che Gray prospetta, non c’è bisogno di un ordine legale individualista, in cui le persone risultino essere i principali soggetti di diritto. I principali soggetti di diritto devono infatti essere le comunità, completamente trascurate dal liberalismo astratto132. Utilizzando l’idioma dei communitarians, scrive Gray, “siamo nati in famiglia, intralciati senza il nostro consenso da obblighi a cui non possiamo rinunciare per scelta volontaria”, non siamo certo, era diventato la fonte del principale errore dei neo-liberali (John GRAY, Liberalism cit., pp. 39-41, 68-70, vedi anche Id., Beyond the New Right cit., pp. 35, 52). 129 J. GRAY, Alba bugiarda cit., p. 166. 130 J. GRAY, Enlightenment’s Wake cit., p. 125. 131 J. GRAY, Post-Liberalism cit., p. 311. 132 Ibid., pp. 258-259 e Id., Enlightenment’s Wake cit., p. 138.
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come credeva John Stuart Mill, dei soggetti autonomi e sovrani133. Non è certo vero che una vita autonoma sia necessariamente la miglior forma di vita per gli esseri umani, per molte persone infatti la sicurezza contro il rischio vale più di qualsiasi possibilità di scelta134. A questo punto, però, nel suo caratteristico argomentare, Gray, prende le distanze dai “communitarians”, egli non se la sente di sposare sino in fondo la loro soluzione o quella dei conservatori schietti; non è né con Michael Sandel né con Roger Scruton135. Queste due soluzioni si assomigliano perché entrambe concepiscono la vera vita umana come costituentesi dall’appartenenza ad una singola esclusiva comunità, perché concepiscono i singoli come “radically situated selves”136. In realtà, scrive Gray, la maggior parte di noi è membro contemporaneamente di diverse comunità, a volte in conflitto137. A questo punto pare quindi che venga accettata come inevitabile una condizione postmoderna, fatta di prospettive plurali e provvisorie, condizione dovuta al venir meno di una visione unificante del mondo, fosse essa razionale o divina, invece Gray respinge anche la critica dei teorici postmoderni all’individualismo. Questa critica, infatti, cercherebbe di fare della frammentazione culturale dell’occidente una condizione universale e in realtà non sarebbe altro che un rinnovato progetto moderno di autocreazione che procede attraverso la decostruzione dell’individualità138. La critica all’individualismo, la critica alla stessa soggettività umana rimane comunque radicale. Per questo c’è un richiamo esplicito anche all’ultimo Heidegger, l’Heidegger che ammoniva a non prendere proprio la soggettività umana come la misura di tutte le cose, che ammoniva l’occidente a non cercare di trasformare l’amJ. GRAY, Beyond the New Right cit., p. 52. J. GRAY, Enlightenment’s Wake cit., pp. 9, 89. 135 Ibid., p. 109. 136 J.GRAY, Post-Liberalism cit., pp. 261, 311 e Id., Beyond the New Right cit., p. 57. 137 J. GRAY, Beyond the New Right cit., p. 57. 138 J. GRAY, Enlightenment’s Wake cit., p. 157 e Id., Post-Liberalism cit., p. 259. 133 134
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biente secondo i propri scopi e lo invitava a lasciare le cose al proprio posto139. Si deve abbandonare l’idea che esista un metodo scientifico unitario, una vera e propria visione del mondo scientifica; la scienza non è assolutamente una forma privilegiata di conoscenza140. Anche Gray arriva così a rigettare l’idea di umanità come luogo privilegiato della verità, concezione questa che si poteva far risalire al pensiero socratico, poi al cristianesimo e quindi all’illuminismo. In realtà la concezione umanista non può vantare privilegi di sorta sulle altre forme di vita della terra141.
J. GRAY, Enlightenment’s Wake cit., p. 153. Ibid., p. 154. Gray, sulla scia di Heidegger, propone di riannodare il filo sino ai presocratici per scorgervi la vera essenza della tecnica (Ibid., p. 158). 141 Ibid., pp. 155, 182. 139 140
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Carlo Augusto Viano commentando il libro di Eugenio Scalfari sull’illuminismo ha notato come quest’ultimo sia sempre stato impopolare e non sia mai stato amato dalla cultura dominante. In seguito, continua Viano, “i «post» di tutte le specie (postmoderni, postmarxisti, cattolici postconciliari ecc…) lo hanno guardato con disprezzo, riprendendo le vecchie accuse inventate dai romantici”1. Infatti, aveva già scritto Umberto Eco più di vent’anni prima, tutte le volte che si parlava male dell’illuminismo non si faceva altro che discutere su “un fantasma costruito dagli antilluministi” stessi2, eppure quel fantasma, ovvero ciò che lo ha generato, sembra aleggiare tra di noi se ancora pare inquietare i sonni di molti scrittori e viene additato come il responsabile di tutti i mali della nostra società. Quel fantasma che molti quindi vorrebbero agonizzante, in realtà gode di buona salute perché, come ha sottolineato Robert Darnton, non ci sarebbe ragione di frustare i cadaveri3. Dopo che i sogni utopici di società perfette si sono sgretolati insieme al muro di Berlino, a tenere il campo è rimasto solo il modello liberaldemocratico nelle sue varie espressioni, ed oggi, per la prima volta nella storia si può dire che tale modello è quello maggiormente diffuso4. Ma Giovanni Sartori avverte che se è vero che la democrazia si sta estendendo “quantomeno pro tempore (nello spazio)” essa, in realtà “non avanza (nella sostanza)”, cioè (questo il 1 2
42.
C. A. VIANO, Laici in ginocchio, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 27. U. ECO, Ecco perché fanno ancora paura, “L’Espresso”, 19, 8, 1979, n. 33, p.
R. DARNTON, George Washington’s False Teeth, New York-London, Norton & Company, 2003, p. 12. 4 Ha scritto Michael Ignatieff: “Per la prima volta nella storia, la maggior parte dei popoli della terra vive in democrazia” (M. IGNATIEFF, L’impero dei diritti dell’uomo, “Corriere della Sera”, 24, 1, 2005). 3
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vero timore di Sartori) la democrazia “può restare un guscio, un involucro svuotato di sostanza e nella sostanza”; di qui la previsione che “il suo futuro sia a rischio”, nonostante essa, come principio di legittimità politica, non abbia alternative5. Secondo Sartori il vero punto debole della democrazia è “l’indebolimento delle idee, la caduta verticale del sapere a tutti i livelli” 6, ma secondo Ernesto Galli della Loggia è stato anche il tramonto delle ideologie e di quei regimi che tentarono di realizzarle che ha contribuito a lasciare questo vuoto enorme che è in attesa di essere riempito; ora, le due uniche agenzie cognitive in grado di farlo, rimaste in piedi tra le macerie di quelle ideologie, sono la Chiesa e la scienza7. Ambedue le istituzioni però hanno avuto un rapporto ambiguo con l’illuminismo: la scienza pretende di esserne l’erede ma quando la ricerca si distacca dalla prassi e diventa indifferente alla vita civile, ha scritto Furio Diaz, si allontana dallo spirito dei Lumi che invece cercava di coniugare il progresso scientifico con quello civile nella generale “«renovatio» della società secondo libertà e ragionevolezza”8. La scienza non è più erede dell’illuminismo quando diventa scientismo, ideologia essa stessa, quando, ad esempio, con le biotecnologie o l’ingegneria genetica si pretende di cambiare l’esG. SARTORI, La democrazia rischia lo svuotamento. Perché assistiamo ad una caduta delle idee, Conclusioni della conferenza tenuta al Teatro Regio di Torino nell’ambito del ciclo di “lezioni Norberto Bobbio”, 5 ottobre 2004, ora in Id., Mala Costituzione e altri malanni, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 144-145. Sul trionfo ideologico della democrazia rappresentativa quale forma di legittimazione del potere politico vedi J. DUNN, Il mito degli uguali. La lunga storia della democrazia (2005), Milano, Università Bocconi Editore, 2006, pp. 3, 172, 176-177, 195-196. 6 G. SARTORI, La democrazia rischia lo svuotamento cit., p. 145. Questi timori sono già stati espressi dallo storico Giuseppe Are per il quale è ridivenuto centrale il problema della riforma dell’istruzione e dell’educazione come possibili argini di una globalizzazione che sta annientando la cultura umanistica (G. ARE, Il nuovo nemico del capitalismo: il capitalismo sregolato, in L. PELLICANI (a cura di), La storia tra passato e presente, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001, pp. 260-266, 272273, 276, 300-301). 7 E. GALLI DELLA LOGGIA, Religione e scienza: tramonta il secolo lungo, “Il Corriere della sera”, 31, 10, 2005. 8 F. DIAZ, Fu vera luce?, “L’Espresso”, 19, 8, 1979, n. 33, p. 41. 5
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senza stessa della natura dell’uomo9. La Chiesa invece fa spesso appello al “vero”, all’“autentico” illuminismo ma in realtà nei secoli passati ne è stata il costante alter ego: prima lo ha espulso dal suo grembo, di esso poi si è nutrita ed è cambiata, in un rapporto che sembra contrassegnato da odio e amore. Sebbene essa, con il magistero di Giovanni Paolo II, abbia fortemente contribuito al successo nella guerra fredda, proprio in coincidenza dello sgretolamento dell’Unione Sovietica vi è stato un ritorno di fiamma antilluministico nelle vesti di un rinnovato attacco alle liberal-democrazie, attacco che merita qui un maggiore approfondimento per le ripercussioni che esso ha avuto nell’odierno dibattito sui caratteri fondanti delle nostre democrazie. Nell’enciclica Centesimus Annus del 1991 Woytila aveva dettato le linee principali di questa offensiva: il capitalismo diveniva inaccettabile quale unico modello di sviluppo socioeconomico, la democrazia apprezzabile ma soltanto finché sosteneva determinati valori. Alla base di questo giudizio c’era l’amara constatazione che la società dei consumi, portando all’eccesso i valori utilitaristici, aveva completamente escluso la sfera spirituale dall’orizzonte umano riducendo l’uomo al solo movente economico. Per l’ennesima volta la causa più profonda di questo vuoto spirituale veniva rinvenuta nell’ateismo così come si era sviluppato in seguito alla concezione meccanicistica fomentata proprio dal razionalismo illuministico10. Queste direttrici avrebbero marcato tutto il pontificato woytiliano e sono rinvenibili sin nell’ultimo libro pubblicato pochi mesi prima della morte, nel quale si invitava a non cedere alle lusinghe dell’illuminismo, il quale allontanando la visione trascendentale della storia si era rivelato come il germe originario che aveva portato alle catastrofi totalitarie del XX secolo. Senza Dio, infatti, l’uomo aveva po9 Cfr. F. FUKUYAMA, Biotecnologia. La fine dell’uomo, “Corriere della Sera”, 10, 2, 2005, vedi anche quello del 10, 10, 2005. 10 GIOVANNI PAOLO II, Centesimus Annus, lettera enciclica del 5/1/1991, all’indirizzo elettronico http://vatican.va/holy-father/john-paul-ii/encyclicals/documents, § 35 p. 22, § 46 p. 29, § 29 p. 18, § 19 p. 13, § 36 p. 23, § 13 p. 9, § 38 p. 24.
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tuto decidere anche l’annientamento dei suoi simili, senza Dio, infine, risultavano essere le radici di un postilluminismo che faceva leva solo sulle libertà utili11. La vera libertà pertanto, come già aveva scritto in Centesimus Annus, non poteva essere sottratta alla verità12. L’attuale pontificato di Benedetto XVI non fa che sviluppare questi temi13, tanto è vero che a Regensburg, a dispetto delle pretestuose polemiche suscitate nel mondo islamico, il vero bersaglio del pontefice è stata proprio la cultura della ragione che esclude il divino14. Un problema questo su cui Ratzinger aveva costantemente insistito negli anni in cui era stato il custode della dottrina ufficiale della Chiesa: da una lontana conferenza del 1984 su cristianesimo e democrazia pluralista dove aveva infatti detto che “la ragione ha bisogno di una rivelazione per poter operare efficacemente come ra-
GIOVANNI PAOLO II, Memoria e identità. Conversazioni a cavallo dei Millenni, Milano, Rizzoli, 2005, pp. 63-64, 136, 181, 21-23, 48. 12 GIOVANNI PAOLO II, Centesimus Annus cit., § 4 p. 3, § 17 p. 11, § 46 p. 29. 13 Enzo Pace aveva addirittura scritto che era proprio l’idea ratzingeriana “della restaurazione cattolica in Europa (presentata con la formula più edulcorata della riscoperta delle radici cristiane dell’Europa stessa)” che aveva rappresentato “il cuore stesso della predicazione itinerante di Giovanni Paolo II nei paesi del vecchio continente” (E. PACE, Le possibili basi del fondamentalismo cattolico, in E. PACE, R. GUOLO, I fondamentalismi, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 77). 14 BENEDETTO XVI, Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni, discorso tenuto all’Università di Regensburg il 12/ 9/ 2006, all’indirizzo elettronico http://vatican.va/holy-father/benedict-xvi/speeches/2006, p. 5. Anche Eugenio Scalfari si è chiesto se in quel discorso ci sia stato un significativo cambiamento rispetto al solito copione stabilito per i laici: “Si tratta di vera apertura? D' una innovazione rilevante della cultura cattolica rispetto a quella laica e all'autonomia della scienza? Questa supposta apertura è difesa da una muraglia di aggettivi che vanno tenuti nella debita considerazione. Si parla nel documento di Ratisbona, come del resto si è sempre parlato nel linguaggio della gerarchia episcopale, di "buona laicità", di "ragione ragionevole", di "sincera adesione" della ricerca scientifica ai postulati delle leggi naturali; così anche per l'etica, la quale ha nel diritto naturale il suo imprescindibile ancoraggio. Infine l'obiettivo della razionalità, dell'autonomia delle coscienze, del libero arbitrio, dell'approccio scientifico alla conoscenza della natura, resta il raggiungimento del Bene, naturalmente nella visione cristiana illuminata dalla fede” (E. SCALFARI, I rischiosi enigmi di Benedetto a Ratisbona, “La Repubblica”, 17 settembre 2006). 11
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gione”15, sino a quella tenuta a Subiaco nell’aprile 2005 poco prima di salire sulla cattedra di Pietro, nella quale si era domandato se la filosofia illuministica fosse davvero l’ultima parola sulla ragione16. L’attuale posizione critica della Chiesa nei confronti delle democrazie di origine illuministica è sottile e profonda e senza dubbio non priva di ragioni. Essa, come ha messo in luce Gian Enrico Rusconi si rifà alle tesi del teologo Ernst-Wolfgang Böckenförde, secondo cui lo stato liberale non può vivere di presupposti che non può garantire, la Chiesa cioè metterebbe a disposizione quell’ ethos condiviso che manca alla società secolarizzata lacerata dal relativismo17. Ratzinger, proprio nella conferenza del 1984 sopra citata, aveva richiamato esplicitamente questa tesi per riconfermarne la validità, specificando che lo stesso ethos illuministico che teneva ancora insieme i nostri stati viveva proprio dell’ eredità del cristianesimo, il quale gli aveva fornito i fondamenti della sua razionalità e della sua coesione più profonda. Quando la base cristiana veniva spazzata via, concludeva l’allora cardinale, niente poteva più stare insieme18. Per Nico Berti dalla fine della guerra fredda stiamo assistendo “ad una lotta mortale tra laicità e religione” poiché siamo tutt’ora inseriti nell’onda lunga della secolarizzazione iniziata nel 1789, anzi J. RATZINGER, Christliche Orientierung in der pluralistichen Demokratie? Uber die Unverzichtbarkeit des Christentums in der modernen Welt, in H. SHAMBECK (hrsg.), Pro Fide et Justitia. Festschrift fur Agostino Kardinal Casaroli zum 70. Geburstag, Berlin, Duncker § Humblot, 1984, p. 760. 16 Cfr. Ratzinger: la mia proposta di pace ai laici, “Corriere della sera”, 16 giugno 2005. 17 G. E. RUSCONI, Come se Dio non ci fosse. I laici, i cattolici e la democrazia, Torino, Einaudi, 2000, pp. 121-122, e Id., Laicità ed etica pubblica, in G. BONIOLO (a cura di), Laicità. Una geografia delle nostre radici, Torino, Einaudi, 2006, p. 53. Cfr. E.-W. BÖCKENFÖRDE, Die Entsehung des Staates als Vorgang der Säkularisation (1967), in Id., Recht, Staat, Freiheit. Studien zur Rechtsphilosophie, Staatstheorie und Verfassungsgeschichtee, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1991, pp. 92-114, e Id., Staat-Gesellschaft-Kirche, in BOCKLE-KAUFMANN e altri, Christlicher Glaube in moderner Gesellschaft, Friburg, 1982, vol. XV, p. 67. 18 J. RATZINGER, Christliche Orientierung in der pluralistichen Demokratie? cit., passim. 15
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addirittura saremmo arrivati al suo acme19. Nonostante Berti pensi principalmente al pericolo rappresentato dal fondamentalismo islamico, il problema delle basi etiche della democrazia è certamente un tema che da tempo assilla studiosi di varia estrazione ed i liberali più sensibili. Già nel lontano 1947, quando la democrazia da poco aveva fatto il suo ingresso trionfale sul carro dei vincitori americani, Arnold Toynbee aveva pronosticato che di fronte al prevedibile futuro collasso della tecnologica civiltà occidentale l’unica salvezza sarebbe stata rappresentata dalla “ima roccia della religione”. Il passato, infatti, aveva mostrato inequivocabilmente come le ferite incurabili che avevano minato l’esistenza delle varie civiltà, erano proprio quelle dello spirito. La nostra civiltà laica era per Toynbee “di un ordine morale simile a quello della civiltà greco-romana precristiana”, e la democrazia era destinata ad essere “svuotata del suo significato” quando le veniva “tolto il suo contenuto cristiano”20. Dopo più di vent’anni di crescita e progresso, il filosofo tradizionalista Augusto del Noce rimarcava come alla società del benessere fosse necessario un supplemento d’anima che solo la religione avrebbe potuto fornirle21. Altri vent’anni ancora ed in un convegno tenuto a Pisa nel 1994 sul tema “Quale democrazia?”, dopo che da più parti si era lanciato l’allarme sulla corrosione delle credenze, sullo “scadimento dei valori civici e religiosi derivati dalla tradizione” ed oramai non più sopperiti dalla crescita economica22, il filoso19 N. BERTI, I paradossi del relativismo culturale, “MondOperaio”, 2002, n. 3, pp. 97-98. Diversa l’opinione dello scrittore e giornalista Armando Torno, espressa nel libro Quel che resta di Dio (Milano, Mondadori, 2006), opinione secondo cui l’esigenza metafisica non sarebbe mai stata soppressa definitivamente e si sarebbe sempre ripresentata sotto altre vesti. Ad essere giunta al termine sarebbe invece l’esperienza dell’ateismo. Contrariamente, per il filosofo Emanuele Severino, “il bisogno di una divinità [è] solo un’increspatura del grande oceano” e non cambia “la tendenza generale ad una sua scomparsa” (in D. FERTILIO, L’ateismo è morto. Si torna a cercare Dio, “Corriere della Sera”, 8, 11, 2005). 20 A. J. TOYNBEE, Civiltà al paragone (1947), Milano, Bompiani, 1998, pp. 130, 58, 193, 324, 331. 21 A. DEL NOCE, L’epoca della secolarizzazione cit., p. 84. 22 G. ARE, Crisi attuale delle democrazie nella prospettiva della storia, ora in A. PALAZZO (a cura di), Quale democrazia?, Pisa-Roma, IEPI, 1998, p. 22, cfr. D.
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fo Giuliano Marini riscontrava l’insufficienza del relativismo quale base della democrazia e riteneva invece necessaria una sua “fondazione «trascendentale»” nel segno della kantiana libertà a priori, una democrazia politica di cui si riteneva indispensabile il “fondamento religioso (…) portato nella storia dal messaggio cristiano”23. A queste sirene, comunque riconducibili alla posizione cattolica, non è rimasto sordo neppure lo stesso Habermas che in un dialogo instaurato proprio con il cardinale Ratzinger, aveva rimarcato come la società civile vivesse di risorse pre-politiche, quanto più necessarie in una modernità che tendeva a rendere friabili i vincoli sociali24. Altrove poi Habermas aveva invitato a non escludere in modo scorretto la religione dalla sfera pubblica, perché ciò significava privarsi di importanti risorse nella fondazione di un senso25. Dello stesso tenore il recentissimo libro di Vivarelli nel quale l’illustre storico della Scuola Normale di Pisa, anche lui segnalando la profonda malattia morale del nostro tempo, caratterizzato da forze impersonali che vanno per conto proprio, lamentava il netto distacco tra le istituzioni liberal-democratiche ed i valori ed i principi su cui queste hanno sempre poggiato, e concludeva presagendo l’ineluttabile morte del liberalismo una volta che questo si fosse definitivamente separato dal suo orizzonte celeste26. Non a caso anche Vivarelli individuava la causa di tutto questo con la solita accusa di un illuminismo segnato da un forte progresso economico-sociale ma dalla totale assenza di quello morale27. Voltaire, in sostanza, era stato reo di aver accettato i frutti di Erasmo recidendone le radici e
SETTEMBRINI, Etica e democrazia, in ibid., p. 116. 23 G. MARINI, Considerazioni in margine alla relazione di Domenico Settembrini, ora in A. PALAZZO (a cura di), Quale democrazia? cit., pp. 123, 126. 24 J. HABERMAS, I fondamenti morali prepolitici dello stato liberale, “Humanitas”, 2004, n. 2, pp. 241-244 25 J. HABERMAS, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale (2001), Torino, Einaudi, 2002, pp. 106-107. 26 R. VIVARELLI, I caratteri dell’età contemporanea cit., pp. 200, 207-208, 210211, 214, 278-280. 27 Ibid., pp. 43-44, 214, 279-280.
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negando la concezione cristiana come unità di misura28. Quale diversità in queste parole dall’invettiva lanciata più di un quarto di secolo fa da un acerrimo avversario dell’illuminismo come Guido Ceronetti? Egli infatti aveva scritto che “la rivoluzione che si stava compiendo, nel grande anfiteatro dei Lumi, consisteva appunto nel far volare il corpo e nell’incatenare l’anima in un ergastolo”29. Oggi dunque, come tante altre volte in passato, si evoca una crisi dei valori, la crisi della civiltà occidentale minacciata da un progresso tecno-scientifico senza limiti o remore, e assediata dalle forti rivendicazioni identitarie delle altre culture e religioni. Di queste paure si è fatto interprete ultimamente Marcello Pera lamentando di essere rimasto inascoltato persino nel proprio partito quando ha parlato di “crisi spirituale e morale dell’Europa”30 e ha posto tale problema all’ordine del giorno. Pera è senza dubbio il rappresentante politico più in vista a sostenere apertamente che la dottrina liberale per sopravvivere deve di nuovo abbeverarsi alle sue fonti religiose sull’esempio del neoconservatorismo americano; questa la ragione per cui può legittimamente essere considerato il capofila del cosiddetto movimento “Teocon”31. Legittimità acquisita da Pera anche per merito del dialogo pubblico da lui instaurato con il cardinale Ratzinger del quale ha voluto riprendere l’invito a vivere “come se Dio esistesse”, teorizzando la necessità di ripristinare una religione civile cristiana32. Ibid., pp. 221-228. G. CERONETTI, Diffida dei Lumi se non c’è l’abatjour, “L’Espresso”, 19, 8, 1979, n. 33, p. 43. 30 M. PERA, I liberali non abbiano paura della tradizione, intervista a Marcello Pera di Giovanni Orsina, “Ideazione”, 2005, n. 5. Poco più di dieci anni fa Norberto Bobbio si era in realtà chiesto quale fosse quell’epoca in cui non si era parlato di crisi (N. BOBBIO, Elogio della mitezza ed altri scritti morali, Milano, Linea d’Ombra, 1994, pp. 167-168). 31 C. MANCINA, Laicità e politica, in G. BONIOLO (a cura di), Laicità. Una geografia delle nostre radici cit., pp. 11-12, G. QUAGLIARIELLO, Cattolici, pacifisti, Teocon. Chiesa e politica in Italia dopo la caduta del muro, Milano, Mondadori, 2006, pp. 56, 122, C. A. VIANO, Laici in ginocchio cit., pp. 112-113, M. TEODORI, Laici. L’imbroglio italiano, Venezia, Marsilio, 2006, pp. 14-15, 160-163. 32 M. PERA, Lettera a Joseph Ratzinger, in M. PERA, J. RATZINGER, Senza radici. 28 29
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Il liberale studioso di Popper fa dunque un passo indietro, sostiene anch’egli che la società aperta così com’è non va bene, che si deve “riparare il liberalismo”. Ed essendo ormai la secolarizzazione nella fase discendente, si invita a cercare un terreno comune tra liberali e credenti nel segno dell’identità cristiana e del primato assiologico della persona. Esplicito è pure il suo riferimento alla dottrina neoconservatrice, alla scelta dei popoli dettata dalla tradizione, e soprattutto alla possibile compatibilità tra tale dottrina ed il liberalismo una volta che vengano abbandonati i vecchi schemi illuministici33. Nonostante alcuni vedano in questo tipo di posizione una sorta di liberalismo che tende a scivolare verso il comunitarismo34, colui che è stato definito lo “spin doctor” di Pera, Gaetano Quagliariello difende tale linea nel segno della distinzione dei due liberalismi fatta da Hayek, quello continentale e quello anglosassone: “in modo schematico, si può affermare che il primo trova nella tradizione dei Lumi il suo riferimento primario e, perciò, mira alla costruzione della libertà sulla base di precetti positivi, incurante della tradizione e dell’ordine sociale costituito. Il secondo considera la libertà una condizione che, per il possibile, deve scaturire dalla storia e dall’ordine spontaneo della società”35. Partendo da questa distinzione Quagliariello individua, dopo l’11 settembre, una vera e propria frattura tra liberali storicisti e liberali relativisti, gli uni intenti “a stringere un rapporto con l’elemento religioso”, ed a conservare ciò che la “tradizione occidentale ha prodotto in termini di libertà indiEuropa, relativismo, cristianesimo, Islam, Milano, Mondadori, 2004, pp. 87, 95. 33 M. PERA, Democrazia e persona, relazione al convegno “Libertà e laicità”, Norcia 15-16 ottobre 2005, all’indirizzo elettronico http://www.magnacarta.it/riforme%20%20garanzie/0099norcia-pera.asp. Gustavo Zagrebelsky giustamente si è chiesto cosa si debba fare una volta che si sia stabilita questa identità: accettarla obtorto collo o scomparire? (G. ZAGREBELSKY, L’identità cristiana e il fantasma dell’assedio, “La Repubblica” 5 ottobre 2005). 34 C. MANCINA, Laicità e politica cit., pp. 11-12, C. A. VIANO, Laici in ginocchio cit., pp. 112-113. 35 G. QUAGLIARIELLO, Cattolici, pacifisti, Teocon cit., p. 169. Cfr. P. OSTELLINO, Un diritto contro l’altro (e poi la solita rissa), “Corriere della sera”, 20 marzo 2006. Cfr. sopra pp. 255-257.
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viduale e di libertà collettiva”, gli altri, “a vocazione illuminista”, portati invece “a rispondere relativizzando la tradizione, nella prospettiva di un suo possibile, progressivo superamento”36. Prospettiva questa che in ultima istanza rimanda ancora una volta alla critica di Burke alla rivoluzione francese ed all’illuminismo, come stanno a dimostrare altri due interventi al primo convegno di Norcia : quello di Roberto de Mattei che ha indicato negli eventi francesi la causa più profonda di divisione nello stesso mondo cattolico, eventi i cui principi sarebbero in contraddizione con quelli della chiesa, e quello di Giovanni Orsina che ha sottolineato come la contraddizione fra liberalismo e tradizione sia “una contraddizione tutta continentale”, che “non appartiene di necessità alla teoria del liberalismo. Basti pensare a Burke”37. Alla fine dunque, anche i teocon, sono soggetti alle stesse aporie che abbiamo visto caratterizzare il conservatorismo di stampo burkeano38, mentre la dottrina della chiesa, da questo punto di vista, rimane sicuramente più coerente nella sua critica ad ogni genere di individualismo. Il problema suscitato da questo tipo di letture è però più grave: il rischio è quello da una parte di venire investiti dagli anatemi e dalle scomuniche del potere religioso assoluto e dall’altra quello di essere accusati di sprofondare negli abissi dell’anarchia, del relativismo, dell’edonismo. Galli della Loggia ha parlato di questo pericolo nell’articolo del “Corriere” sopra citato, ha scritto del superficiale gioco, in voga nei giornali e nel dibattito politico, di schiacciare chiunque sulla posizione della chiesa o dello scientismo: “ma il cattolicesimo e la chiesa non coprono l’intero schieramento incline a riconoscersi nella priorità accordata alla persona ed alla naturalità, allo stesso identico modo che lo scientismo non può esser 36 G. QUAGLIARIELLO, Relazione introduttiva al convegno “Liberalismo, cristianesimo e laicità” tenutosi il 10 dicembre 2004, all’indirizzo elettronico http://www.magna-carta.it/riforme%20%20garanzie/0048-liberalismo.asp. Cfr. Id., Cattolici, pacifisti, Teocon cit., pp. 172, 175. 37 R. DE MATTEI, Un fronte comune tra cattolici e laici , G. ORSINA, Legge e tradizione, relazioni al convegno “Libertà e laicità”, Norcia 15-16 ottobre 2005 cit. 38 Vedi sopra pp. 80-89.
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certo considerato il comun denominatore obbligato di tutti coloro inclini a riconoscersi nella priorità accordata al progresso”39. Raimondo Cubeddu ha ulteriormente mostrato come “un’iniezione di teologismo” potrebbe rivelarsi fatale per le sorti di un liberalismo che per riconoscersi nella “stella polare” dei diritti naturali non ha “affatto bisogno di farli poggiare su una lex naturalis a sua volta fondata su una lex æterna”, tema l’inevitabile “discesa negli inferi del relativismo” 40. L’illuminismo, in conclusione, sembra camminare su uno stretto e franoso sentiero che si inerpica tra le due montagne dell’assolutismo e del relativismo. Domenico Settembrini alcuni anni fa, nel convegno pisano sopra ricordato, si era chiesto se fosse possibile conciliare la fede comune nella polis con la libertà di coscienza, se fosse possibile evitare da una parte il compelle intrare della chiesa medioevale e dall’altro la “più totale Babele religiosa e politica”. Nella storia del pensiero politico occidentale, aveva risposto lo storico marchigiano, si era risolto questo dilemma proprio con l’“appello ad un senso comune o lume naturale”, era questa la posizione dell’illuminismo che da Locke, attraverso Bayle arrivava fino a Constant: “in nessuna delle sue varianti questa respinge l’apporto- lo considera anzi essenziale- che ad una società libera e democratica può venire dalla tradizione cristiana largamente e liberamente intesa”. Premessa di questa posizione, continuava Settembrini, è E. GALLI DELLA LOGGIA, Religione e scienza: tramonta il secolo lungo cit.. R. CUBEDDU, Le istituzioni e la libertà, Macerata, Liberilibri, 2007 (in corso di stampa). Su questo tema vedi anche Id., Come vive il liberalismo in Italia, “Biblioteca della libertà”, 2003, nn. 170-171, pp. 131-139, nel quale si segnala la diffusa tendenza italiana di subordinare i diritti naturali “ad ectoplasmi teorici come ‘utilità sociale’, ‘interesse collettivo’, ‘società giusta’, ‘giustizia sociale’, ‘bene comune’ ”, e si mette in allerta su chi vorrebbe “ridurre i margini di libertà individuali fino a trasformare la società occidentale in una sorta di comunità fondata su un’identità etnico-religiosa”. Zagrebelsky addirittura faceva notare come sulla dottrina dei diritti umani in senso soggettivo sorta dal razionalismo liberale ci fosse stata un’indebita appropriazione della chiesa che per secoli ed ancor oggi nei suoi massimi documenti normativi continua a condannare (G. ZAGREBELSKY, L’identità cristiana e il fantasma dell’assedio cit.). Cfr. S. RODOTÀ, Chi scrive l’agenda politica?, “La Repubblica”, 14 novembre 2005. 39 40
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però, “che la forza spontanea della tradizione, specie a livello intellettuale non basti. Che occorra il lume naturale della ragione il quale, se onestamente interrogato, ci assicura dell’esistenza e della cogenza nelle coscienze dei valori etici di questa tradizione”. Per Settembrini più che di una premessa si poteva addirittura parlare di una petizione di principio; il problema infatti dell’esistenza o meno a livello personale di quei valori morali che avrebbero dovuto informare la democrazia non era “questione teorica, ma fattuale”. D’altronde, nel caso si fossero ritenuti tali valori ormai morenti, il tentativo di mantenerli in vita o di sostituirli con altri “usando come leva principale le armi della politica, [era] in teoria ed in pratica destinato a tradursi nella negazione non solo della democrazia liberale ma di ogni principio e valore- come storia delle idee e storia événementielle dimostra[va]no”41. La tradizione, infatti, per usare un’immagine evocata da Wittgestein, è come la tela di un ragno, una trama sottile e mirabile per il modo in cui si dipana e si regge, ma una volta squarciata diviene impossibile da rammendare42.
D. SETTEMBRINI, Etica e democrazia cit., pp. 105, 112. La riprova dell’impossibilità fattuale di estendere i valori cristiani manu politica all’intera società è data proprio dal comportamento altamente ipocrita di alcuni esponenti cattolici di primo piano che predicano bene ma “razzolano” male, che hanno sempre in bocca altisonanti valori morali e religiosi che vorrebbero imposti agli altri quando invece nella loro vita privata seguono tutt’altre strade, per non dire opposte. 41
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364
Indice dei nomi
Ackermann B. 299 Acton Lord 247 e seg. Adams S. 47 Addison J. 32 e segg. Adorno T.W. 10, 259 e segg., 266 e segg., 277, 309, 348 Albert H. 169 Althaus H. 169 Amendola G. 168 Amore Bianco F. 224 Annesley C. 309 Ansell-Pearson K. 162 Are G. 326, 330 Arendt H. 250 e seg. Argeri D. 242 e seg. Aristotele 57, 286, 301 Arnold M. 108, 242 Aron R. 218 e seg. Aschheim S. 168 e seg. Augusto 29, 35 Böckenförde E.W. 329, 339 Babbit I. 247 Babeuf G. 96, 119 Baccelli L. 300 Bacon F. 29, 54, 123, 127, 249 Baker K.M. 77, 88 e seg. Balslev 296 e seg., 337 Barber B. 299 Barbeyrac J. 39 Barnard F.M. 68 Barrès M. 136, 232 Barruel A. 77 e seg. Barthes R. 274 Baudelaire C. 280 Baudrillard J. 13 e seg., 307 Bayle P. 44, 56, 59, 109, 335 Baylin B. 46, 299
Bazard S.A. 121 Beck U. 292 e seg. Becker C.L. 53 Bèguec G. Le 170 Bell D. 27, 285 e segg., 295, 298 e seg. Bellah R. 11, 298, 300 Benda J. 229, 231 e segg., 237 Benedetto XVI 328, 338 Benjamin W. 261, 263 e segg., 269, 272 Benoist A. De 306, 309 e segg. Benoist C. 170 Bentham J. 106, 108, 143, 248, 278, 286 Bergson H. 168, 173, 180 e seg., 258 Berlin I. 55, 67, 77, 80, 90, 292, 317 e seg., Bernstein E. 174 Bernstein R.J. 156, 277 Berry C.J. 41 Berth E. 175 Berthelot M. 148 Berti N. 339 e seg., 339 Birnbaum P. 170 Blackstone W. 39, 60 Bloom L.D. 33 Bloom E.A. 33 Bobbio N. 258, 326, 332 Bockle F. 327, 338 Bodei R. 261 Boileau N. 142 Bolingbroke Lord 43, 55, 143 Bonald L. De 77, 79 e seg., 133 Bonaparte N. 133 Boniolo G. 329, 332, 340 Bossuet J.B. 15, 57 e seg., 179, 252 Bottai G. 224 Boulanger G. 130
365
Indice dei nomi
Boulanvilliers H. De 44 Bourget P. 162 Bovero M. 299 Bracher K.D. 195 e seg. Bradbury M. 196 Brandes E. 162 Brewer D. 19 Brocklesby J. 277 Brougham H. 99 Browning R. 35 Brumlik M. 308 Brunetière P. 162, 179, 232 Brunkhorst H. 308 Bruun O. 12 Buchanan P. 251 Buffet A. 171 Buonarroti F. 96 e seg., 119 Burgh J. 45 e seg. Burke E. 15, 35, 43, 48, 51, 59, 61, 68, 70, 75, 81 e segg., 87 e segg., 101, 103 e seg., 106, 113, 117, 139 e segg., 148, 201, 242, 247, 249, 253 e seg., 257, 289, 334 Caillè A. 292 Campi A. 170 Campioni G. 131, 136, 149 e seg., 153, 156, 162, 165 Caney S. 297 Canosa A. Principe di 96 Caravaggio 29 Carlyle T. 15, 95, 99, 105 e segg., 117 e seg., 126, 147, 242 Cassirer E. 17, 20, 29, 108, 207 e seg., 341 Castiglione B. 34 Cavazzoli L. 23 Cecil H. 247 Ceronetti G. 332 Chabod F. 130 e seg. Chamberlain H.S. 195 Champetier C. 307 Chaplin C. 193
366
Charzat M. 186 Chateaubriand R. De 91 Cicerone 34, 57 Clair R. 193 Clark J.C.D. 46, 48, 61 Clinton B. 305 Cobban A. 106 Cobbet W. 81, 117 Cochin A. 88 Cochrane E. 34 Coleridge S.T. 15, 95, 99 e segg., 117, 240, 242 Collins A. 43 e seg., 59, 143 Condillac E.B. De 19 Condorcet N. De 51, 120, 179, 252 Constant B. 24, 51, 133, 335 Cookson J.E. 99 Copernico N. 123 Cordie C. 24 Corbeille P. 144 Costa H. 78 Crimp D. 287 Cristofolini P. 56 Croce B. 174, 176 e seg., 183 e segg., 187, 207 Crocker L.G. 18, 21, 53 Cubeddu R. 257, 335, 342 Cummings S. 277 Dandieu A. 220 e seg. Darnton R. 325, 342 De Felice R. 167 De Lolme J.L. 106 De Mattei R. 334 De Staël Madame 91, 124 Debord G. 284 e seg. Defoe D. 42 Del Noce A. 255 e seg., 330 Deleuze G. 281, 307 Della Casa G. monsignor 34 Della Peruta F. 97 Della Volpe G. 258 Dérouléde P. 168
Le metamorfosi dell’antilluminismo
Derrida J. 274, 296, 307, 309 Descartes R. 29, 54, 56 e seg., 123, 144, 145, 162, 179, 249, 276, 278 Deschamps D. 75 Devigne R. 249 Dewey J. 220 e segg., 229, 297 D’Alembert J.B. Le Rond 19, 44, 72 D’Annunzio G. 232 Diaz F. 34, 326 Dickens C. 296 Diderot D. 19, 21, 33 e seg., 44, 69, 108 Digeon C. 136 Disraeli B. 257 Dix O. 192 Dostoevsky F. 308 Douglas J. 99 Dreyfus A. 169, 174, 177 Dreyfus H.L. 280, 344 Driver S. 309 Duhamel G. 205, 265 Dunn J. 22, 40, 46, 326, 342 Duverger M. 132 Eagleton T. 290 Eco U. 325 Einaudi L. 245 Eliot T.S. 235, 239 e segg. Emerson R.W. 221 Emerson R. 38 Engels F. 15, 20, 117 e segg., 126 e segg., 174 Erasmo da Rotterdam 103, 331 Esposito R. 10 Euben R.L. 11 Evola J. 220 e seg., 229 e segg. Feher F. 216 Fénelon F. 44, 145, 152 Ferguson A. 36, 38 Ferrero G. 77, 133, 175, 185, 203 e seg., 207 Ferrone V. 18, 120 e seg. Ferry L. 281
Fertilio D. 330 Fichte J.G. 75, 91, 93, 104, 107 e seg. Fini M. 12, 14 Fink E. 163 e segg. Fischer E. 198 Flaubert G. 131, 135, 162 Flèchier V.E. 144 Fleischmann E. 121 Fletcher A. 42 Fletcher J. 48 Fontana S. 96 Fontenelle B. De 30, 54 Forbes D. 43 Forth C.E. 136, 169 Foucault M. 10, 18 e seg., 273 e segg., 283, 292, 296, 307, 309 e seg. Fouilléè A. 162 Francesconi D. 35 Freeden M. 254 Freud S. 233 e seg., 238, 270, 275 e seg., 344, 352 Freyer H. 237 Frohnen B. 254 Fromm E. 196 e seg. Froude J.A. 112 Fukuyama F. 327 Furet F. 197 Furiozzi G.B. 174 Fustel de Coulanges N.D. 131 e seg., 135 Gabardi W. 18 Gadamer H.G. 90, 276, 309 Gaeta M. 57 Galilei G. 29, 123, 276 Galli C. 79, 90, 96 Galli della Loggia E. 326, 334 e seg. Galston W. 305 e seg. Gambino A. 12 Gammal J. El 131 Ganeri M. 283, 287, 290, 292 Gans E. 122 Gaugin P. 193
367
Indice dei nomi
Gay P. 17 e seg., 53, 64 e seg., 295 Geertz C. 292, 297 e seg. Gellner E. 31, 283, 291 e seg. Gengembre G. 85 Gentile F. 125 Giannone P. 44 Gibbon E. 107, 129, 145 Giddens A. 292 Gildin H. 252 Gilliam T. 311 Giocchino da Fiore 252 Giovanni Paolo II 327 e seg., 345 Giraud V. 135 e seg. Givone S. 10 Gliozzi G. 195 Gobineau A. De 195 Godwin W. 101 Goethe W. 201, 256 Goisis G.L. 173, 180 e seg., 184 e segg., 189 Goldmann L. 120, 258 e seg. Grünberg C. 260 Gramsci A. 88 Gray J. 13, 257, 292, 308 e seg., 317 e segg. Gregorios P.M. 18, 290 Grenouilleau O.P. 126 Grossman H. 118 Grozio U. 21, 32, 38 e seg., 56 Grozs G. 192 Guattari F. 307 Guénon R. 229 e segg. Guerci L. 21, 44 Guglielmo III 103 Guizot F. 134, 151 Guolo R. 11 Gusdorf G. 29 Gutenberg J. 284, 352 Haakonssen H. 22, 32, 41 Habermas J. 277, 293 e seg., 309, 331, 346 Hale D.G. 142
368
Halèvi D. 169 Hamann J.G. 67 e seg. Harrington J. 25, 42 Hartley D. 143 Hartog F. 132, 135, 151 Harvey D. 285, 287, 290, 295 Hayek F. Von 248 e seg., 255 e segg., 320, 333 Hazard P. 29 Hegel G.W.F. 15, 21, 117, 119 e segg., 258, 273 Heidegger M. 10, 230 e seg., 250, 258, 273 e seg., 291, 296, 309, 322 e seg. Helvetius 87, 99, 252, 292 Herder J.G. 15, 26, 67 e segg., 74, 90, 292 Herf J. 215 e seg., 260 Herzinger R. 308 Hewison R. 287 Hexter J.H. 42 Hillman J. 292, 309 Hinchman L. 121 Hirschman A.O. 36 Hitler A. 195, 197, 228 Hobbes T. 21, 25, 30, 54, 56, 108, 251, 319 Hobhouse L.T. 168 Hobsbawn E. 194, 308 Holmes S. 78, 80, 133, 250 Honegger A. 216 Hont I. 20, 23, 36, 38 e seg., 41 Horkheimer M. 10, 259 e segg., 266 e segg., 277, 309, 348 Horton J. 32, 305 Hösle V. 64 Hughes H.S. 129 Huizinga J. 229, 235 e segg. Hulme T. 156 Hume D. 20 e seg., 33, 36 e seg., 43, 99, 107 e seg., 143, 145, 209, 211, 254, 292 Husserl E. 309
Le metamorfosi dell’antilluminismo
Huxley A. 193, 266, 311 Huyssen A. 295 Ignatieff M. 36, 38 e seg., 41, 325 Jacobsen M. 12 Jakobson R. 207 James W. 168, 172 e seg., 181 Jameson F. 287 e segg. Jaspers K. 216, 224, 258, 266 Jaurés J. 175 Jay M. 260, 269 e seg. Jefferson T. 46 Julliard J. 172, 186 Jünger E. 10, 216, 225 e segg., 231 Kant I. 17, 20 e seg., 26, 308 Kaufmann F.X. 329, 340 Kautsky K. 174 Kelly D. 13 Kesler C.R. 247, 274, 295 Keyserling H. Von 216 e segg., 229 Kipling R. 232 Kippis A. 47 Kirk R. 247 e seg. Klages L. 207 Klein L.E. 34 Klein D. 317 Kolakowski L. 23 e seg., 30, 32, 292 Kontos A. 300 Koselleck R. 283 Kojève A. 274 Kracauer S. 261 e segg., 266, 272 Kristol I. 253 Kuhn T.S. 309 Kundera M. 296 La Ferla G. 136, 148, 151 Labriola A. 168 Lacan J. 274 e seg. Lagard P.A. De 195 Lagardelle H. 187 Lamennais F.R. 96, 98 Lami G.F. 251 Landes D. 167 Lang F. 192
Langbehn J. 195 Lasch C. 168, 181, 299 e seg., 309 Latini B. 41 Latouche S. 309 e seg. Lauderdale conte di 106 Laurent A. 24, 298 Le Bon G. 137, 184 Le Maistre de Sacy I.L. 144 Le Play F. 176 Lecky W. 108, 247 Lemaître G. 230 Lenci M. 148, 189, 298 Lenin 174 e segg., 182 e segg., 197 Leone X 29 Leopardi G. 96 Leroux P. 126 Lévi-Strauss C. 274 Lilla M. 18, 56, 95, 274, 281 Lippincott B.E. 108, 115 Locke J. 22, 38 e seg., 43, 46 e seg., 56, 59 e segg., 79, 108, 123, 127, 178, 209, 248, 286, 335 Luft D. 193, 197 Luigi XIV 145, 151 e seg. Luigi XVIII 133 Lukes S. 90, 253, 299 Lutero M. 30 e seg., 58, 103, 123 Luther King M. 301 Luzzatto S. 9 Lyotard J.F. 285, 291, 295, 307 Mably G.B. De 75, 97 Macaulay T.B. 46 MacCunn J. 247 Machiavelli N. 41, 45, 232, 251 MacIntyre A. 11, 14, 32, 295, 298 e seg., 301 e segg., 317, 321 Macpherson C. 300 Maine H. 108 Maistre J. De 77 e segg., 178 Malebranche P. 57 Malthus R. 105 Mancina C. 332 e seg.
369
Indice dei nomi
Mandel E. 287 Mandeville B. De 143 Mann H. 201 Mann T. 191, 194, 199 e segg., 203, 207 e seg., 264 Mannheim K. 92, 117, 224 Marcel G. 101 Marcuse H. 119, 260, 270 e segg. Marianelli M. 199, 207 Marini G. 331 Marino G.B. 29 Marsilio da Padova 41 Marsilio Ficino 56 Martell L. 309 Marx K. 15, 20, 117 e segg., 126 e segg., 173, 187 e seg., 210 e seg., 214, 241, 258, 261, 270, 287, 296, 310 Massis H. 229 Maurras C. 91, 156, 170 e seg., 232 Mazel H. 169 McAllister T.V. 250 e segg. McCarthy T. 277 McFarlane J. 196 McLuhan M. 284 McMahon D. 59 e seg., 76, 80 Meek R. 37 e seg. Melantone F. 58 Melching W. 20 Melville H. 222 Melzer A.M. 64 Memmi A. 195 Mendilow J. 107, 111 e seg. Mendus S. 32, 303 Menger C. 256 Merleau-Ponty M. 274 Mila M. 216 Mill J. 143 Mill J.S. 99, 106, 162, 255, 322 Millar J. 36, 41 Miller C. 56 Miller J.T. 100 Missiroli M. 177, 183 e segg.
370
Mommsen T. 232 Montaigne M. De 292 Montegut E. 135 Montesquieu 33, 36 e seg., 44 e seg., 47, 63, 72, 84, 140 Monti F. 57 Moore jr. B. 243 Morelly E.G. 75, 97 Morin E. 284 Mosse G.L. 167, 195 Moulin L. 126 Möser J. 67 Mumford L. 223 Murnau F.W. 193 Musil R. 191 e segg., 197, 207, 353 Mussolini B. 172, 185, 197 Müller A. 92 e seg. Müntzer T. 103 Naipaul V.S. 13 Newton I. 59, 123, 145 Nietzsche F. 10, 15, 129, 131, 136 e seg., 150, 156 e segg., 168 e seg., 172 e seg., 177, 180 e seg., 195, 201 e seg., 207 e segg., 230, 251, 273, 275, 277, 292, 296, 304, 318 Nisbet R. 247 e seg. Nitti F.S. 198 Novalis 91 e seg. Oakeshott M. 248 e segg., 254, 269, 297, 317 O’Brien C.C. 32 Orsina G. 332, 334 Ortega Y Gasset J. 156, 218 e segg., 229, 238, 266 Osama Bin Laden 11 Ostwald W. 232 Oswald S. 261 Outram D. 18, 24 Panini A. 9 e seg. Paine T. 48, 102 Palazzo A. 330 e seg., 354 Palazzolo C. 106
Le metamorfosi dell’antilluminismo
Pankhurst R.K.P. 99 Paraboschi P. 248, 250, 253 Parekh B. 14 Pascal B. 30, 145, 179 Péguy C. 181, 232 Pellicani L. 326, 354 Penty A.J. 241 Pera M. 332 e seg. Pericle 29 Perrault C. 30, 54 Perry R.B. 168, 181 Pesciarelli E. 38 Pico della Mirandola G. 32, 56 Pitt W. 51 Platone 56 e seg., 249 Plongeron B. 21 e seg. Plotino 56 Pocock J.G.A. 20, 34 e seg., 37, 40 e segg., 48, 61 e seg., 89, 299, 309 Polanyi K. 235, 241, 243 e segg., 321 Popper K.R. 333 Porter R. 20, 24 Pound E. 241 Powell E. 254 Pozzi R. 135, 137, 140 Prévost-Paradol L.A. 135 Prévotat J. 170 Price R. 43, 50, 60 e seg., 86 Priestley J. 47 e segg., 60 e seg., 86 Probst L. 308 Proudhon P.J. 173, 176 e seg., 181 e segg. Pufendorf S. 21, 38 e seg., 56 Quagliariello G. 332 e segg., 356 Qutb S. 11 Röpke W. 245 Rabinow P. 280, 344 Racine J. 142 Ratzinger J. 328 e seg., 331 e seg. Rebell H. 169 Reid T. 108 Remer G. 32
Rémond R. 136 Renan E. 15, 129, 135 e segg., 146 e segg., 162 e segg., 173, 176 Renaut A. 281 Richelieu A.J. Du Plessis De 152 Rifkin J. 288 Rivarol A. De 77 e seg. Robbins C. 46 Robertson W. 36 e seg., 63, 145 Robespierre M. 103, 127, 144, 314 Robinson R. 47 Roche D. 18, 23, 120 e seg. Rodotà S. 335 Rolland R. 201 Roosevelt F.D. 224 Rops D.H. 229 Rorty R. 291, 295 e segg. Roth J. 194 Roth J.J. 174, 180 Rothschild E. 51 Rousseau J.J. 15, 26, 44 e seg., 53, 61 e segg., 68 e seg., 72, 76 e segg., 87, 90, 96, 102 e seg., 119, 122, 136, 139, 146, 152, 159, 161, 178, 184, 200, 210, 248, 251, 255, 313 e seg. Ruderman R.S. 18, 290 Rusconi G.E. 329, 357 Rusher W.A. 247, 274 Ruskin J. 106, 108 Russel B. 194 Russello G.J. 247 Ryan A. 317 Ryle G. 276 Sade D.A.F. De 266 Saint-Amande P. 64 Saint-Just L.A.L. De 127, 144 Saint-Simon C.H. De 15, 98, 117, 120, 122 e segg. Salisbury Lord 257 Samuelson P. 100 San Benedetto da Norcia 301 San Tommaso d’Aquino 286, 305
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Indice dei nomi
Sandel M. 299 e seg., 309, 322 Sandoz E. 46 Santayana G. 245 Sartori G. 14, 325 e seg. Sartre J.P. 274 Sasso G. 208 Savary J. 36 Savater F. 298 Scalfari E. 9 e segg., 325, 328 Schama S. 77 Schäuble W. 308 Schelling 93, 101 Schlegel A.W. 92 Schmidt J. 18, 156, 277, 294 e seg., 298 Schmitt C. 92, 156, 216, 225 e segg., 231, 237, 358 Schopenauer A. 10, 292 Schumpeter J.A. 235, 241 e segg., 245 Schütz A. 250 Scruton R. 308, 322 Segalen V. 160 Selden J. 56 Serra M. 169 Settembrini D. 21, 23, 32, 75, 77, 118, 126 e segg., 167 e seg., 171 e seg., 175, 187, 228, 316, 331, 335 e seg. Severino E. 330 Shaftesbury Terzo Conte di 26, 33 e segg., 106 Shambeck H. 329 Shapiro G. 136, 162 Shklar J. 45 Sidney A. 47 Siegfried A. 220 e seg. Sièyes E.J. 179 Sighele S. 184 Simonetti M. 175, 185 Sirinelli J. 131, 170 Sismondi S. De 118 Skinner Q. 31, 45, 308 e seg. Smith A. 20 e seg., 36 e segg., 51, 98 e seg., 105, 107 e seg., 211, 248, 256, 286
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Smith S.B. 121 Socrate 178, 310 Sombart W. 215 e seg., 242, 286 Sorel G. 15, 167, 169, 172 e segg., 215, 232, 237 Southey R. 98, 100, 106 Spencer H. 255 Spengler O. 156, 196, 207 e segg., 219, 229, 237 Spinoza B. 57 Spitz D. 249 Steele R. 33 e seg. Stein H. 308 Stephen L. 108 Sternhell Z. 18, 23, 30, 63, 130, 136, 156, 167, 169 e seg., 171, 184, 186 Stewart D. 37 Strauß B. 307 e seg. Strauss L. 248, 250, 252 e seg. Swart K.W. 90, 125 Swift J. 53 e segg. Taguieff P.A. 195 Taine H. 15, 129, 135 e segg., 156, 159, 161, 173, 176, 178 e seg., 186 Talleyrand 132 e seg. Talmon J. 24 Tamburini P. 22 Tarchi M. 306 Tassoni A. 29 Taylor C. 11, 14, 64, 121, 253 e seg., 299 e seg., 307 Teich N. 20 Teodori M. 332, 361 Thoreau H.D. 220 Tindal M. 43, 59, 108, 143 Tito Livio 41 Tocqueville A. De 134 e seg., 152, 162, 186, 248, 254 e seg., 300, 310 Todorov T. 64 e seg., 129 e seg., 136, 140, 275, 292 Togliatti P. 258 Toland J. 43, 1109, 143
Le metamorfosi dell’antilluminismo
Torno A. 330, 361 Tortarolo E. 23 Touraine A. 276, 285, 293 Towers J. 47 Toynbee A. 330, 362 Tönnies F. 198 e seg., 224 Treitschke H. Von 232 Trenchard J. 42 Trilling L. 247 Triomphe R. 78 Troeltsch E. 17 e seg. Trubeckoj N. 206 e seg. Tucker J. 53, 60 e segg. Turgot A.R.J. 63, 252 Unger R. 299 Valema W. 20 Valery P. 205 Valjavec F. 283 e seg. Valla L. 56 Van den Berg A. 290 e seg. Vattimo G. 10, 307 Veneziani M. 10, 306 Ventura G. 96 Venturi F. 19 e seg., 41 e segg., 67 Vernière P. 29 Verri P. 25 Verucci G. 96 Viano C.A. 325, 332 e seg., 362 Vico G. 53, 55 e segg., 67, 269, 292 Vidor K. 192 Vierhaus R. 18 Vignet des Etoles Barone 80 Viroli M. 66
Vitale E. 299 Vittorio Amedeo III 78 Vivarelli R. 9, 180, 331 Voegelin E. 209, 250, 252 Volpi F. 10 Voltaire 19, 33, 44, 59, 63, 72, 87, 99, 103, 108 e seg., 123, 136, 139, 145, 160, 252, 255, 331 Von Humboldt W. 256 Wade I. 17 Wagar W. 129 Wagner R. 195 Walpole R. 43, 55 Washington G. 46, 325, 342 Weber M. 273, 277, 286 Wei-Ming T. 13 Weinbrot K.W. 35 Wiggershaus R. 270 Willetts D. 254 Williams E. 46 Williams R. 107, 109, 117 Winch D. 99, 106 Wittgestein L. 291, 309, 336 Wohl R. 198 Wokler R. 32 Wolin S.S. 64 Wood G. 299 Woytila K. 327 Wrigley E.A. 100 Yew L.K. 12 e seg. Zagrebelsky G. 333, 335 Zahlmann C. 308 Zakaria F. 13
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