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LUDOVICO
GEYMONAT
Storia del pensiero filosofico e scientifico VOLUME
UNDICESIMO
Il Novecento (5) A cura di Enrico Bellone e Corrado Mangione Con specifici contributi di Carlo Bernardini, Piero Bertolini, Paolo Bisogno, Andrea Bonomi, Gianni Carchia, Ugo Fabietti, Edgardo Macorini, Riccardo Massa, Luciano Mecacci, Mauro Macchi, Carlo Montaleone, Francesco Remotti, Giorgio Rodano, Carlo Sini, André Tosel, Salvatore Veca, Serena Vicari
GARZANTI
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r edizione: giugno 1996
ISBN 88-11-25061-7 © Garzanti Editore S.p.A., 1996 Printed in Italy
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Il Novecento (5)
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CAPITOLO
PRIMO
I nuovz scenari filosofici DI
I
·
DAI
CARLO
FRANCOFORTESI
SINI
ALL'ERMENEUTICA
La ricerca teorica degli ultimi trent'anni ha segnato indubbi e sostanziali mutamenti rispetto al periodo precedente, caratterizzato dalla ripresa della collaborazione internazionale seguita al concludersi della seconda guerra mondiale. Nell'immediato dopoguerra esistenzialismo, neopositivismo, fenomenologia e marxismo avevano costituito i principali punti di riferimento del dibattito filosofico, in realtà assai più variegato e complesso sia all'interno sia all'esterno delle quattro correnti di pensiero testé citate. A cominciare dagli anni cinquanta si mise in moto un processo di differenziazione che, per fare solo qualche esempio, condusse alla crisi del pensiero neopositivistico classico e alla « liberalizzazione » delle sue tesi più radicali; analogamente, il marxismo ortodosso conobbe un travagliato processo di autocritica che diede vita a una interpretazione « umanistica » di Marx (soprattutto .con la ripresa delle opere giovanili, precedenti Il capitale) e per altro verso a una interpretazione «strutturalistica»; quanto alla fenomenologia e all'esistenzialismo, correnti dapprima confuse e assimilate a causa della loro comune matrice, esse vennero svolgendosi separatamente e spesso in polemica tra loro; al che va aggiunto l'esplicito rifiuto di Heidegger, considerato l'iniziatore dell'esistenzialismo, a riconoscersi tale, in diretta polemica con l'esistenzialismo sartriano. 1 Nel contempo la ricerca scientifica, nel suo progressivo autonomizzarsi dalla filosofia (emblematico è al riguardo il caso della pedagogia), determina contraccolpi importanti sul profilo teoretico delle idee. L'epistemologia, per esempio, muta profondamente la sua fisionomia sotto l'influsso della storia della scienza; e altrettanto è da dire delle scienze umane sotto l'influsso della linguistica da un lato e della psicoanalisi dall'altro. E la stessa storia della filosofia acquista più complessi e raffinati contorni a causa del necessario confronto con la cosiddetta « storia delle idee», che scardina vecchie illusioni disciplinari e denuncia l'arbitraria proiezione all'indietro dei nostri presupposti teorici e dei nostri pregiudizi istituzionali e metodologici. 1 Si veda di Heidegger la celebre Lettera sul· l'umanismo del 1946, che è in pratica una sconfes-
sione delle note tesi avanzate nello stesso anno da Sartre nel saggio I:esistenzialismo è un umanismo.
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I nuovi scenari filosofici
1) La scuola di Franco/orte
Si diceva del mutamento di clima instauratosi intorno e all'inizio degli anni cinquanta; orbene, questa è anche la data in cui l'Istituto per la ricerca sociale, universalmente noto come la scuola di Francoforte, tornò alla sua sede originaria, dopo diciassette anni di esilio americano conseguenti all'avvento del nazismo in Germania. Come ha scritto Giuseppe Bedeschi, « la maggior parte degli studi sulla scuola di Francoforte è apparsa nella seconda metà degli anni sessanta e nella prima metà degli anni settanta: fu quello, infatti, il periodo d'oro del "recupero" di autori come Horkheimer, Adorno, Marcuse ». Periodo che appunto compete alla nostra esposizione. Gli autori sopra citati, e poi Benjamin, Fromm e altri ancora, per lo più avevano prodotto i loro scritti principali già negli anni trenta e quaranta, ma la loro fama non aveva oltrepassato l'ambito accademico e specialistico. Solo nel corso degli anni sessanta2 cominciò la sistematica riesumazione e traduzione nelle principali lingue europee delle opere della scuola di Francoforte, le quali divennero i « manifesti filosofici» della nuova sinistra. Il 1968, dice Bedeschi, fu perciò «l'anno magico di questo movimento. Ma esso fu solo l'inizio di un periodo che si sarebbe protratto (almeno per ciò che riguarda i suoi effetti sulla mentalità diffusa) per parecchi anni ancora (grosso modo, per un decennio): il periodo della guerra nel Vietnam, con la profonda impressione che essa esercitò sull'opinione pubblica del mondo intero; delle rivolte studentesche nei campus americani, presto diffusesi anche nell'Europa occidentale; del maggio francese e della "rivoluzione culturale" cinese; del guevarismo, ecc.». Le tesi dei francofortesi che più dovevano incidere sulle speranze, in gran parte utopiche, di rinnovamento e di rivoluzione sociale degli anni sessanta e settanta si possono così sintetizzare. Anzitutto, come dice Bedeschi, «l'equiparazione di fascismo, stalinismo e società unidimensionale », vale a dire la società industriale avanzata, in cui l'individuo è travolto dalla legge ferrea del profitto, dalla logica della trasformazione tecnologica delle pratiche di produzione e di vita, dalla cultura di massa e dell'informazione alienata, dalla mercificazione dell'intera vita spirituale. Le antiche opposizioni ideologiche «democrazia/totalitarismo», «destra/sinistra», «fascismo/marxismo », «conservazione/progresso» non sono più sufficienti o attendibili. In particolare la concezione illuministica del «progresso» e l'esaltazione della scienza e della tecnica come forze liberatorie dell'uomo (temi tipici del marxismo classico) vanno profondamente rivedute: nella ragione illuministica stanno i germi della alienazione contemporanea e la scienza non è affatto uno strumento «neutro» nelle mani dell'uomo, né essa è «innocente» nei confronti della devastazione della vita e della natura. Per questi ultimi temi, come è stato notato, i francofortesi si trovano in una qualche vicinanza con la critica nietzschiana della modernità e con 2 Si pensi per esempio al caso di Marcuse, che assurse alla notorietà mondiale col libro del
1964, I.:uomo a una dimensione.
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le analisi heideggeriane del mondo della tecnica, nonostante la drastica e virulenta condanna da parte di Adorno e di Habermas del pensiero di Heidegger. C'è dunque bisogno di un più profondo processo di liberazione, rispetto alle classiche rivoluzioni dell'età moderna, processo che deve riguardare la rigenerazione dell'individuo, il che spiega l'attenzione rivolta da alcuni francofortesi alla psicoanalisi. Infine bisogna ricordare la riflessione dei francofortesi relativa alla individuazione del nuovo «soggetto rivoluzionario»: questo non può più essere rappresentato dalla classe operaia, sempre più integrata al sistema capitalistico e sempre meno incisiva (e perciò meno significativa nella contrattazione politico-sindacale) rispetto al processo produttivo altamente tecnicizzato di una società complessa in cui i servizi e la burocrazia crescono in maniera esponenziale. Il nuovo soggetto rivoluzionario viene allora individuato negli emarginati, nei perseguitati per motivi ideologici o razziali, nei popoli del Terzo Mondo e anzitutto negli intellettuali non ancora «addomesticati» e corrotti dal sistema, a cominciare dagli studenti delle università di massa, destinati a una cronica disoccupazione intellettuale ed emarginazione sociale. Il patrimonio di queste idee aveva avuto il suo atto di nascita nel 1922, quando un gruppo di intellettuali marxisti diede vita (grazie alla donazione di un industriale, Hermann Weil, padre di Felix, uno dei fondatori del gruppo) all'Istituto per la ricerca sociale, affiliato all'università di Francoforte. Dopo l'economista Kurt Albert Gerlach, che lo diresse per pochi mesi, l'Istituto ebbe per direttore Karl Gruenberg, che aveva insegnato scienze politiche all'università di Vienna e aveva fondato nel 1910 l'« Archivio per la storia del socialismo e del movimento operaio», al quale avevano collaborato Gyorgy Lukacs e Karl Korsch, entrambi sostenitori dell'importanza della dialettica nel pensiero di Marx, tema che doveva rivelarsi essenziale anche nel lavoro dei francofortesi. L'« Archivio » divenne di fatto, per opera di Gruenberg, l'organo scientifico dell'Istituto, con l'intento dichiarato di mettere la scienza al servizio della «transizione dal capitalismo al socialismo». Tra i suoi collaboratori troviamo i nomi di Max Horkheimer, Friedrich Polloch, Karl August Wittfogel, Franz Borkenau, Henryk Grossmann, seguiti da Leo Lowenthal e Theodor Wiesengrund Adorno. All'inizio degli anni trenta si aggiunsero Herbert Marcuse ed Eric Fromm. Nell'insieme, un gruppo di giovani intellettuali destinati a influire profondamente sulla cultura del nostro secolo. Nel 1930 Horkheimer successe a Gruenberg e fu allora che l'Istituto raggiunse la sua più matura espressione, assumendo quei connotati che poi lo caratterizzeranno universalmente come la scuola di Francoforte. Nel 1932 Horkheimer fonda la celebre rivista ufficiale dell'Istituto (« Zeitschrift fiir Sozialforschung »), ma già nel 1934, dopo un periodo a Ginevra, dove era stata fondata una sede decentrata dell'Istituto, Horkheimer si trasferisce, con molti collaboratori, negli Stati Uniti. Qui cominciano ad apparire gli Studi sull'autorità e la famiglia (1936), curati da Horkheimer con la collaborazione, tra gli altri, di Marcuse, di Fromm e di Adorno, che nel 1938, dopo un periodo trascorso in Inghilterra, raggiunge a New York i compagni dell'Istituto. Nel 1941 Horkheimer e
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Adorno si trasferiscono a Los Angeles (in questo periodo cade la celebre collaborazione intellettuale tra Adorno e Thomas Mann, che sta scrivendo, in esilio volontario, il Doktor Faustus). Nel 1950 il già ricordato ritorno: Horkheimer e Adorno ricostituiscono a Francoforte l'Istituto per la ricerca sociale. a) Max Horkheimer. La produzione matura di Horkheimer (1895-1973) è contrassegnata da un lato dalla raccolta del lavoro, in larga parte disperso e introvabile, dei decenni precedenti; da un altro lato dalla revisione della sua «teoria critica», che assume in ultimo toni profondamente pessimistici. Horkheimer era partito dallo studio della Critica del giudizio di Kant, cui si era aggiunta l'influenza decisiva di Hegel, Marx e Freud. Di qui l'elaborazione di quella teoria critica che risente anche delle tesi di Storia e coscienza di classe (1923) di Lukacs. L'idea centrale è il rapporto scienza-società. Il mondo moderno è caduto preda della alienazione del sapere la cui origine è già in Descartes, alienazione consistente nel separare la scienza dalla sua genesi e dal suo uso sociali. Di qui la polemica durissima di Horkheimer (e di Adorno) contro il neopositivismo, la logica formale e la stessa scienza della natura: questi sa peri sono in larga misura l'espressione ideologica della società capitalistica e le scienze umane, che ne imitano i metodi empiristicamente e positivisticamente, generano solo la obiettivazione dell'uomo e perciò la sua sottomissione all'autoritarismo palese e nascosto del mondo industriale. La teoria critica assume invece il modello del sapere dialettico· hegelomarxista, integrato dalla psicoanalisi freudiana, la quale ultima è particolarmente efficace per comprendere sia i fenomeni dell'autoritarismo che si generano nella famiglia borghese in sintonia con gli interessi di classe, sia i fenomeni del pregiudizio antisemita e della discriminazione sociale3 , sia infine il fenomeno della accettazione conformistica da parte del proletariato dei modi di vita e dei miti della società borghese e capitalistica, contro il suo stesso interesse di classe. I numerosi saggi fondatori della teoria critica vennero raccolti in due volumi da Horkheimer nel 1968 (Teoria critica), cui si aggiunsero nel 1972 gli Studi di filosofia della società. Di notevole interesse è anche il libro Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, apparso in edizione inglese nel 1947 (il testo nasce da un ciclo di lezioni tenute alla Columbia University nel '44) e in edizione tedesca nel 1967. La «ragione strumentale» è, secondo Horkheimer, il concetto di razionalità che sta alla base della cultura industriale contemporanea. Sua tipica espressione è da un lato il pragmatismo, nella sua pretesa di tradurre ogni idea in azione; dall'altro il neop-ositivismo e la logica formale, nel loro chiudersi in una ragione formalizzata che si astiene dall'azione. Questa ragione è, dice Horkheimer, « soggettiva»: essa ha perso la ragione oggettiva che congiungeva organicamente mezzi e 3 A questa indagine, col titolo Studi sul pregiudizio, l'Istituto dedicò ben cinque volumi nella
fase finale del suo periodo americano.
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fini. «Così com'è intesa e messa in pratica nella nostra civiltà, la razionalità progressista tende a distruggere la sostanza stessa della ragione, in nome della quale si difende la causa del progresso»; ecco perché «la denuncia di ciò che attualmente viene chiamato ragione è il massimo servigio che la ragione possa rendere». Il tono di Eclisse della ragione è prevalentemente retorico, sebbene non cada mai (ma anzi la condanni esplicitamente) in quella resa all'irrazionalismo che è propria del pensiero nostalgico nei confronti dei valori del passato, in cui per esempio incorrono, secondo Horkheimer, il neotomismo o le filosofie vitalistiche. Nondimeno il libro non presenta soluzioni positive, al di là della denuncia; esso è prevalentemente una esposizione divulgativa delle idee che erano state ampiamente espresse e illustrate in quello che è forse il capolavoro della scuola di Francoforte, cioè il celebre Dialettica dell'illuminismo, scritto in collaborazione con Adorno negli anni dell'esilio e apparso nel 1947. Qui la ragione occidentale tenta la propria radicale autocritica, cogliendo metaforicamente la radice della sua dissoluzione nel suo stesso momento inaugurale, raffigurato dall'incontro di Ulisse con le sirene. In realtà, pretendendo di sottomettere la natura alla ragione calcolante, l'uomo occidentale è caduto preda del ritorno del mito e della barbarie; il « rischiaramento » diviene così oscurantismo della violenza e del potere dell'uomo sull'uomo. Sia Adorno sia Horkheimer erano consapevoli che questa critica non poteva significare un ingenuo ritorno al rapporto diretto, se mai vi è stato, dell'uomo con la natura. Di qui il loro riferirsi a un pensiero dialettico aperto, problematico e aporetico. Ma l'ultimo Horkheimer (si vedano i saggi raccolti in La società di transizione, 1972) sembra aver perso gran parte della sua fiducia nel compito della ragione critica e della ragione dialettica, per abbracciare piuttosto un pessimismo che ha toni schopenhaueriani. Di fronte alla società tedesca opulenta degli anni sessanta e settanta, indifferente e dimentica del suo recente passato, Horkheimer giudica storicamente superato, o comunque insufficiente, il lavoro dei primi decenni dell'Istituto. Il fatto è che egli vede venir meno progressivamente, nelle nuove generazioni, la personalità psichica e morale dell'individuo borghese classico e quindi i motivi ideali e materiali della lotta rivoluzionaria teorica e pratica. Il suo stesso pensiero, nella nuova dimensione e nel nuovo costume sociale, rischia la continua strumentalizzazione politica, sicché Horkheimer è in ultimo tentato da una condanna senza appello dell'intera funzione della politica nel mondo contemporaneo, alla quale oppone un ritiro solitario del pensiero in un pessimismo radicale. b) Theodor Adorno e Walter Benjamin. Molto più laboriosa la fase matura e finale della produzione di Adorno (1903-69), del quale è importante ricordare qui l'amicizia con Walter Benjamin (1892-1940), morto suicida mentre tentava di riparare in Spagna per sfuggire ai nazisti. Come e più di altri intellettuali vicini alla scuola di Francoforte, la fortuna di Benjamin è iniziata negli anni sessanta e settanta, in Italia con la raccolta di saggi Angelus novus (1962) e con Avanguardia e
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rivoluzione. Saggi sulla letteratura (1973), entrambi pubblicati da Einaudi che ne viene curando l'opera completa. Tolti i primi scritti significativi (Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, 1920; Il dramma barocco tedesco, 1928), tutto il resto della produzione di Benjamin è apparso postumo (Infanzia berlinese, 1950; Immagini di città, 1963; L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, 1963). Influenzato da giovane dalla mistica ebraica, trasmessagli da G. Scholem, Benjamin si è poi avvicinato al marxismo, grazie all'amicizia con Bloch e con Bertold Brecht e alla lettura di Storia e coscienza di classe di Lukacs. La sua adesione al marxismo, come del resto alle tesi dei francofortesi, fu però sempre caratterizzata da una contemporanea estraneità, conseguente alla originalità spiccata della personalità intellettuale di Benjamin, che è certo una delle figure più singolari del nostro secolo (non a caso il suo libro sul dramma barocco in Germania, presentato nel 1925 come tesi di libera docenza all'università di Francoforte, venne rifiutato in quanto non pertinente ad alcuna disciplina accademica definita). I suoi primi interessi sono rivolti al linguaggio (in particolare nei saggi Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini, 1916 e Il compito del traduttore, 1923). La lingua originaria, in cui la corrispondenza della parola alla cosa è perfetta, appartiene solo a Dio. Con la caduta conseguente al peccato l'uomo perde la memoria di questa lingua paradisiaca che « conosce in modo perfetto» e precipita nella confusione dei linguaggi storici. Di qui il compito critico del traduttore che, rapportando le lingue tra loro, insieme allude alla loro implicita direzione verso la lingua originaria, mai attingibile e però sempre evocata. Il tradurre si assimila così alla funzione più profonda dell'arte, a quel «ricomporre l'infranto» che non è accessibile al concetto e al giudizio, e nemmeno all'intuizione, ma che è attingibile solo per via enigmatica dall'opera d'arte. È a questa enigmaticità che il filosofo deve rivolgersi nella sua ricerca della «lingua sacra». Ma l'opera d'arte moderna (di cui la ricerca sul dramma barocco costituisce un'esemplarità a suo modo emblematica e paradossale: testimonianza della predilezione di Benjamin per i fenomeni minimi, marginali e trascurati della storia) va poi distinta dall'arte antica, fondata sul simbolo e cioè sulla fiducia di poter rappresentare l'intero. L'arte moderna privilegia invece l'allegoria, che rivive la tentazione di attingere la lingua sacra, sempre però ricadendo nella insormontabile nostalgia e malinconia dello scacco connesso a questa impresa disperata. Di qui l'attenzione di Benjamin verso le avanguardie artistiche, tema che lo avvicina a Adorno e che insieme lo allontana da lui. Decisive al riguardo sono le tesi del saggio del '36 (L} opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica). Nata da un contesto magico e rituale, connessa all'espressione sacrale, l'opera d'arte è vissuta sempre della sua «aura», che comporta la presenza nella distanza, l'assenza misteriosa nella « parousia ». Ma con l'avvento dei mezzi tecnici di riproduzione l'arte perde ogni distanza e ogni aura, diviene fenomeno della cultura di massa accessibile a tutti, con un valore puramente espositivo o di esibizione: mero oggetto di consumo. Ma se Adorno legge tale trasformazione in modo prevalentemente, per non dire esclusivamente, negativo, Benjamin 8
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al contrario vi ravvisa la possibilità della nascita di una nuova ricettività artistica, di una nuova esperienza estetica non più aristocraticamente limitata, e di una nuova dimensione dialettica dell'espressione artistica, capace comunque di negare l'esistente in funzione di un futuro redentivo. A questo tema della redenzione («Erlosung »: termine tratto dal lessico di Franz Rosenzweig, autore di Hegel e lo stato, 1920, e La stella della redenzione, 1921) Benjamin ha dedicato le sue oggi celebri Tesi di filosofia della storia, in cui la sua adesione alla concezione marxista e cioè materialistica della storia ha intenzioni e sviluppi singolari. Al centro dell'interesse di Benjamin è in realtà la critica dello storicismo e del concetto di progresso. Si tratta per Benjamin di far «saltare il continuum della storia», il suo tempo concepito dal punto di vista della universalità anonima secondo la logica di potere del «vincitore»: tutto il razionalismo storicistico non è che una apologia del presente e una mistificazione sistematica. Come Rosenzweig, Benjamin rivendica invece gli individui, i soggetti emarginati, la cui esistenza la borghesia capitalistica ha ridotto alla stregua della circolazione delle merci. Ma soprattutto rivendica un'altra nozione di tempo e di presente: il tempo-ora (]etzt-Zeit) in cui il passato, rifiutato nella sua sottomissione al dominio, si ricompone come attesa di redenzione, come recupero della fede messianica. « Svolta copernicana della visione storica» che si incentra sulla nozione di «risveglio» (Benjamin sottolinea in proposito un suo debito nei confronti di Proust): balenare del ricordo in cui la promessa messianica si coniuga ambiguamente con la mancanza di fede del filosofo materialista, pessimisticamente consapevole della assenza nella realtà di una soggettività capace di effettiva liberazione dalla logica storica del dominio. L'opera più organica composta da Adorno dopo il ritorno a Francoforte è Dialettica negativa (1966) la cui introduzione definisce l'essenza del pensare filosofico come esperienza e come « antisistema » e la cui conclusione celebra appunto la negazione pensante. Se è vero che dopo Auschwitz non è più possibile scrivere una poesia, così come è difficile vivere per coloro che sono sopravvissuti, resta nondimeno un compito al pensiero: « se la dialettica negativa esige l' autorif1essione del pensiero, allora implica palpabilmente che il pensiero deve pensare anche contro se stesso, per essere vero, almeno oggi. Se esso non si commisura all'estremo, che è sfuggito al concetto, è in partenza della stessa marca della musica d'accompagnamento con cui le SS amavano coprire le grida delle loro vittime». Pensando contro se stesso, il pensiero dialettico-negativo mette sotto accusa l'intera tradizione e soprattutto le recenti versioni dell'antologia heideggeriana, della fenomenologia husserliana, della morale kantiana, dello storicismo hegeliano, del materialismo dialettico di quei marxisti che vaneggiano o danno a intendere «di possedere la fotografia dell'oggettività». I toni polemici sono parte essenziale dello stile di Adorno, talvolta a detrimento dell'equilibrio e della lucidità, con eccessi di malevolenza di cui sono esempi emblematici scritti sostanzialmente infelici e improduttivi come Sulla metacritica della conoscenza (1956; contro Husserl e la scuola fenomenologica), Il gergo dell'autenticità 9
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(r 9 6 4 ; contro Heidegger), nonché il fazioso Saggio su Wagner (1952), e così via. La dialettica negativa di Adorno è da un lato l'accoglimento del concetto (non si può filosofare senza passare di lì) nella sua versione «antitetica» modellata sulla dialettica hegeliana; dall'altro è il rifiuto di chiudere la negazione in una sintesi pacificatrice e assimilatrice. La pretesa di totalità della filosofia è nel profondo una vocazione all'identità, in cui tutto viene appiattito con «zelo prosaico»; identità mortuaria di cui Auschwitz è la tragica conferma e conclusione storica. Si tratta dunque di salvare le differenze nella loro natura inassimilabile al concetto, istituendo una sorta di « ragione seconda » che sfugga ai limiti della ragione strumentale. Di qui l'importanza del riferimento all'arte per la riflessione filosofica, in quanto l'arte incarna al massimo grado la negazione dell'esistente. Allievo a Vienna di Alban Berg nei suoi anni giovanili e studioso della dodecafonia di Schoenberg, sotto la cui ispirazione si è cimentato egli stesso come compositore, Adorno ha dedicato gran parte della sua vasta produzione estetica alla musica (Filosofia della musica moderna, 1949; Dissonanze, 1956; Mahler. Un pro/ilo musicale, 1959; Introduzione alla sociologia della musica, 1962; Il fido maestro sostituto. Scritti sulla pratica musicale, 1963; Momenti musicali, 1964; Berg, 1968 e altri minon). Nella Teoria estetica (1970), l'ultimo lavoro di Adorno apparso postumo, opera incompiuta e nondimeno così ampia da costituire una sorta di testamento spirituale, i temi del rapporto tra arte, società ed estetica vengono di nuovo caratterizzati in riferimento al valore utopico dell'opera d'arte: la sua peculiare manifestazione è una testimonianza del possibile in opposizione al reale. Costitutivamente irreale e menzognera, l'arte frequenta la verità al futuro, nel senso che essa testimonia l'immane sofferenza del passato, l'umano sacrificio nelle contraddizioni della storia, e urge così verso un riscatto. In particolare l'arte dell' avanguardia novecentesca, nella sua distruzione della categoria del bello estetico, documenta l'orrore della distruzione e della violenza e l'insanabile frattura che caratterizza la vita dell'uomo contemporaneo. Dalle contraddizioni sociali, del resto, l'arte è essa stessa affetta nella sua teoria e nella sua pratica, come testimonia emblematicamente la dodecafonia schoenberghiana: metodo compositivo che dissolve ogni tradizionale relazione gerarchica tra i suoni della scala musicale e che nel contempo si confina in un sistema rigidamente chiuso in modo intellettualistico e formale. In tal modo l'arte contemporanea sembra a suo modo confermare la celebre profezia· hegeliana della morte dell'arte nel tempo della modernità: l'opera d'arte, in senso estetico, non sarebbe che una cosa del passato (si vedano le Note sulla letteratura, in 4 volumi, 1958-74). In parallelo alla riflessione estetica corre in Adorno la riflessione sulla società e l'analisi minuziosa dei costumi della vita quotidiana nella società dei consumi di massa, con le sue ideologie e le sue contraddizioni (Minima moralia, 1951). c) Herbert Marcuse. Con la morte di Adorno, seguita da quella di Pollock (1970) e poi di Horkheimer, la scuola di Francoforte ha di fatto chiuso la sua fase storica IO
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produttiva. Marcuse, rimasto negli Stati Uniti, ha infatti svolto indipendentemente il suo cammino di pensiero negli anni maturi, come ora vedremo, e Habermas si è dedicato per diversi anni al Max Planck Institut di Amburgo, collaborando con Weizsacker. Herbert Marcuse (1898-1979) aveva studiato a Friburgo con Heidegger, sotto la cui guida compose la sua tesi di dottorato, pubblicata in volume nel 1932 (L'antologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità). Si tratta in realtà di un'opera di notevole importanza, forse il contributo di Marcuse più solido, in senso strettamente filosofico. Le sue tesi principali riguardano il concetto di prassi e di storicità in Hegel. « Nella filosofia occidentale, scrive Marcuse, sin dall' antichità, mai la vita nel suo agire e il mondo della vita come opera e pragma erano stati posti così al centro dell'antologia. » Hegel rappresenta dunque, nella storia del pensiero, un evento ben più rivoluzionario della cosiddetta rivoluzione copernicana di Kant, che resta ancorata alle intellettualistiche divisioni di soggetto e oggetto, fenomeno e cosa in sé, realtà e trascendenza. Con Hegel la vita umana stessa, nella sua concretezza, emerge al pensiero e la vita è prassi che, come tale, fonda sempre di nuovo una storicità. Così va letto lo «spirito» (Geist) hegeliano. È indubbia, in questa lettura, l'influenza dei concetti heideggeriani di esistenza e di storia dell'essere; ma a queste influenze va aggiunta poi la conoscenza di Lukacs e il conseguente awicinamento di Marcuse al pensiero di Marx, che egli intende come continuazione, e non rottura, della rivoluzione intrapresa da Hegel. Nel libro del 1941, Ragione e rivoluzione. Hegel e il sorgere della «teoria sociale», è in primo piano l'influenza delle idee della scuola di Francoforte (sin dal 1932 Marcuse collabora con Horkheimer); viene perciò sottolineato il ruolo della dialettica hegeliana, in quanto momento negativo-creativo, superamento della pura immediatezza e perciò istanza di libertà; viene invece respinta la totalizzazione hegeliana, la chiusura della dialettica nella sistematicità concettuale dell'assoluto. La funzione storica del marxismo è consistita appunto nella liberalizzazione della dialettica hegeliana e nella sua traduzione in progetto politico di liberazione storico-sociale (proprio per questo Marcuse criticherà duramente nel 1958 la degenerazione del marxismo in dottrina dogmatico-positivistica: Marxismo sovietico). Ma è con Eros e civiltà, del 1955, che il pensiero di Marcuse assume quei tratti che lo avrebbero reso popolare negli anni sessanta e settanta. Decisivo diviene qui il riferimento a Freud (in particolare al Freud del «disagio della civiltà» e della duplicità istintuale di eros e thanatos). Partendo dalla equiparazione freudiana tra civiltà e repressione, Marcuse si chiede: «il conflitto tra principio del piacere e principio della realtà è inconciliabile al punto da rendere necessaria la trasformazione in senso repressivo della struttura istintuale dell'uomo? O consente invece il concetto di una civiltà non repressiva, basata su un'esperienza dell'essere fondamentalmente diversa, su un rapporto fondamentalmente diverso tra uomo e natura, e su relazioni esistenziali fondamentalmente diverse?» Di qui la critica della società industriale, basata sul principio di prestazione e sulla logica del puro rendimento, e l'ipotesi, largamente utopica, di una II
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società futura in cui il lavoro si concili con il gioco e l'esistenza si concili con la dimensione estetica e con i bisogni pulsionali della fantasia. Queste idee, unitamente alla critica spietata della società tecnologica americana contenuta nel libro L'uomo a una dimensione. I:ideologia della società industriale avanzata, che apparve nel 1964 ed ebbe risonanza mondiale, furono alla base dei movimenti studenteschi del '68 e più in generale del costume giovanile di quegli anni. Le analisi più originali sono qui quelle volte a delineare la società industriale in quanto caratterizzata dalla « tolleranza repressiva », donde si genera un totale livellamento conformistico. Contro questa forma di subdolo dominio delle coscienze non è la rivoluzione ·violenta il modo di opposizione efficace, quanto una sorta di strategia del rifiuto e del disimpegno, i cui soggetti non vanno più individuati nella classe operaia (da tempo assimilata al sistema tramite un sindacalismo a sua volta tollerante e repressivo e che in pratica condivide totalmente la logica produttiva e il principio di prestazione), ma nelle frange emarginate che sopravvivono con ogni espediente entro la società tecnologica opulenta. I tratti di questa azione protestataria vengono ancor più direttamente delineati nel Saggio sulla liberazione (1969) che predica apertamente il ritorno all'utopia e nel contempo preannuncia un tipo di sovversione che comporta il mutamento stesso della natura dell'uomo, cioè una trasformazione biologico-culturale delle basi istintuali, nel senso di « quella libertà che la lunga storia della società di classe ha bloccato». «È concepibile - scrive Marcuse - un simile cambiamento della "natura" dell'uomo? Io credo di sì, poiché il progresso tecnico è giunto a un livello in cui non è più necessario che la realtà sia caratterizzata dalla debilitante competizione per la sopravvivenza e l'avanzamento sociali. » Analisi e previsione che i recenti anni si sono incaricati di smentire rudemente. In realtà si potrebbe forse dire che il connubio marcusiano di psicoanalisi e marxismo, sebbene suggestivo e brillantemente argomentato, non ha infine reso giustizia né alla prima né al secondo, né è stato utile alla comprensione profonda del loro sforzo di smascherare alla radice la complessità e la contraddittorietà della natura umana e della storia. d) Marxismo e utopia: Ernst Bloch. Sul dichiarato principio dell'utopia s1 e basato anche il marxismo di Ernst Bloch (1885-1977), seguendo però una direzione contraria a quella di Marcuse: non dal marxismo all'utopia ma viceversa. Allievo di Simmel, Bloch si avvicinerà negli anni venti a Lukacs, Benjamin e Adorno. Nel 1918 pubblica la sua prima opera importante, Spirito dell'utopia, che contiene già tutte le premesse del suo capolavoro maturo (Il principio speranza, 3 voli., 1954-59). Tuttavia tra l'edizione del 'r8 e la seconda del '23 del suo primo libro è evidente la progressiva assimilazione delle tesi giovanili, influenzate dal profetismo ebraico e dalla filosofia della vita di Simmel, con il marxismo e con la dialettica hegeliana, ora preferita al « dover essere» kantiano. Sebbene anche Bloch rifiuti la conciliazione hegeliana, nondimeno egli ravvisa nella dialettica una premessa per poter lavorare per un futuro che concretamente si avvicini a realizzare la speranza umana in 12
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un mondo più felice e più giusto. Autore di opere di grande respiro storico e critico, come l'affresco dedicato alla guerra dei contadini del I 52 5, che è insieme una critica della burocratizzazione istituzionale della Chiesa e l'acuta intuizione dello sfondo teologico che ancora vive nel marxismo, inteso come «scienza della speranza» (Thomas Muenzer teologo della rivoluzione, 1921), Bloch dovette lasciare la Germania all'avvento del nazismo. Nel 1949 venne chiamato all'università di Lipsia, ma le sue critiche sempre più decise alla degenerazione del marxismo sovietico lo costrinsero nel 1961, durante la costruzione del muro di Berlino, a riparare in Occidente, dove insegnò ancora a Tubinga, pubblicando altre significative opere come Diritto naturale e dignità umana (196!); Ateismo nel cristianesimo. Per la religione dell'Esodo e del Regno (1968); Il problema del materialismo: storia e sostanza (1972); Experimentum mundi (1975). È da ricordare infine Tracce (1959), opera volutamente eccentrica, che frequenta, accanto alla riflessione filosofica, lo stile aforistico e narrativo, introducendo dialoghi, apologhi, aneddoti, fiabe, leggende, secondo l'idea di un «pensiero affabulante » che riporti la filosofia di fronte allo stupore originario nei confronti dell'esistente. Il capolavoro di Bloch (il già citato Il principio speranza) è d'altronde una immensa fenomenologia delle figure utopiche della coscienza, dei suoi miti e dei suoi sogni, in cui l'esempio dell'arte, come forma di« coscienza anticipante», rivolta al futuro possibile, occupa gran parte. Bloch rifiuta la tradizione filosofica contemplativa e anamnestica nei confronti dell'essere e dell'esistente. A essa oppone un pensiero orientato verso il futuro. La mera cronologia dello storiagrafismo non può pertanto cogliere né la forza vivificante delle « immagini-desiderio», che sono radice dell'utopia, né la pluralità delle dimensioni temporali. Questa complessità è piuttosto affidata all'« attimo oscuro» dell'ora-presente concretamente vissuto. Va infine ricordato come la blochiana «antologia del non ancora» abbia esercitato un'influenza anche sul pensiero teologico contemporaneo, protestante e cattolico, a cominciare da J. Moltmann. 4 e) ]iirgen Habermas, l'ultimo /ranco/ortese. Ultimo grande rappresentante ed erede della Scuola di Francoforte è unanimemente considerato Jiirgen Habermas (n. 1929). Dopo gli studi giovanili su Schelling e sul concetto di opinione pubblica, Habermas si è venuto formando attraverso la lettura di Marx, di Lukacs e della Dialettica dell'illuminismo di Adorno e Horkheimer. Docente di sociologia e filosofia a Francoforte dal 1964, dal 1971 al 1983 ha diretto, con Weizsiicker, l'Istituto Max Planck di Starnberg. Tra i suoi numerosissimi scritti ricordiamo: Storia e critica dell'opinione pubblica (1962); Teoria e prassi nella società tecnologica (1968); Conoscenza e interesse (1968); Agire comunicativo e logica delle scienze sociali (197o); Prassi politica e teoria critica della società (1971); Teoria della società o tecnologia sociale 4 Per un approfondimento del pensiero di Bloch si veda la trattazione sul marxismo al capi-
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del presente volume.
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(1971); La crisi della razionalità nel capitalismo maturo (1973); Cultura e critica (1973); Per la ricostruzione del materialimso storico (1976); Teoria dell'agire comunicativo (1981); Etica del discorso (1983); Il discorso filosofico della modernità (1985); Teoria della morale (1991); Testi filoso/ici e contesti storici (1993). Nell'insieme il lavoro di Habermas si può ricondurre a due fasi. Nella prima prevale l'adesione alla fondazione dialettica di una teoria critica della società quale era stata elaborata da Adorno e Horkheimer; nella seconda fase (tra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta) si verifica l'abbandono del modello dialettico a favore di un'originale proposta critico-fondativa che ha in Teoria dell'agire comunicativo (l'opera più importante di Habermas) la sua espressione sistematica. Resta nondimeno costante l'impegno a fornire una teoria critica complessiva della società e una comprensione razionale della evoluzione storica dell'umanità. I contributi più originali che caratterizzano la prima fase della riflessione di Habermas riguardano il rapporto tra sapere scientifico e potere politico, nonché i meccanismi di formazione del consenso democratico nel sistema tardocapitalistico. Questi ultimi si erano formati, all'inizio dell'età moderna, in opposizione all' assolutismo monarchico, dando vita allo Stato liberale. Ma il progredire della organizzazione capitalistica risulta alla lunga inconciliabile con l'esigenza della libera formazione democratica della volontà politica dei cittadini. Nel tardo capitalismo il processo del consenso subisce una serie di trasformazioni strutturali per le quali la pubblica opinione viene sistematicamente manipolata e condizionata. Ne deriva una sostanziale depoliticizzazione della società e la riduzione della vita democratica a formule demagogiche e a rituali retorici puramente formali. Per quanto concerne il rapporto tra sapere scientifico e potere politico Habermas critica le due opposte soluzioni del decisionismo e della tecnocrazia: il primo subordina la scienza, ridotta a funzioni meramente strumentali, alla politica; la seconda riduce la politica a semplice esecutrice dei mandati dell'intelligenza tecnologica. Anche qui le esigenze del capitalismo maturo stravolgono l'uso e le finalità del sapere sociale, in quanto esse si modellano sulla pianificazione della espansione economica e del profitto; esigenze che vengono sottratte a una reale scelta e discussione democratica e piuttosto rese plausibili e in tal modo imposte con un uso spregiudicato e improprio della informazione. Habermas propugna invece, nel rapporto tra scienza e politica, un «modello pragmatico », in virtù del quale è ribadita l'esigenza critica di derivazione francofortese, ma in base ad alcune modificazioni metodologiche che preludono alla fase matura del suo pensiero. Questa si fa strada già nel saggio iniziale, che dà il nome alla raccolta, di Teoria e prassi nella società tecnologica, dove Habermas ripercorre le linee generali della teoria politica nell'età classica e nell'età moderna. In Aristotele la politica si subordina all'etica e ogni agire produttivo si subordina alla argomentazione comunicativa di tipo retorico (non scientifico). In Machiavelli, Tommaso Moro e Hobbes l'etica e la politica fanno divorzio e la politica si connota come tecnica per ottenere il controllo del potere e per espandere l'organizzazione sociale
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in modi non argomentativi ma rigorosamente scientifici. A questi due modelli Habermas oppone una soluzione complementare che da un lato mantenga l'istanza della scelta etica, dall'altro l'esigenza scientifica; soluzione che Habermas vede parzialmente anticipata in Vico, in quanto oppone la retorica o la dialettica alla nuova scienza politica, e poi in Hegel e in Marx. Ma questo ricorso al tradizionale impianto critico-dialettico francofortese comincia a vacillare nel momento in cui Habermas affianca al concetto marxiano di lavoro il concetto di « interazione »: la prassi non è solo un agire tecnico secondo scelte razionali, ma è anche un agire comunicativo mediato dalle strutture simboliche del comportamento e dalle «norme vigenti» della organizzazione sociale. Emerge allora la questione centrale del linguaggio per la quale Habermas si apre a tutta una serie di influenze che vanno dal neopositivismo a Wittgenstein e dall'ermeneutica di Gadamer allo strutturalismo di Piaget e agli atti discorsivi di Austin e di Searle. Costante è in Habermas il rifiuto del metodo positivistico in sociologia e così pure il rifiuto dell'epistemologia analitica di Popper e di Albert: contro questi indebiti riduzionismi della complessità della realtà sociale e dell'esperienza conoscitiva vale sempre per lui la concezione critica adorniana. L'analisi sociale deve mirare a un «interesse emancipativo » (si dice in Conoscenza e interesse) che rivendichi la possibilità di una concreta razionalità storica. Ma la razionalità si configura ora, non più come ricorso fondativo-dialettico a una coscienza trascendentale hegelianamente, marxianamente o anche husserlianamente concepita, bensì come un agire comunicativo che abbia valore critico-normativa nei confronti della società. La messa a punto di questo nuovo modello interpretativo ha comportato una serie di acquisizioni e insieme di discussioni nei confronti di autori come Gadamer, Apel, Luhmann, discussioni che hanno assunto via via vasta risonanza e ampia documentazione. In generale Habermas si oppone alla mera analisi logica del linguaggio (come si trova per esempio delineata in Carnap). Al linguaggio infatti egli affianca il discorso, per le cui espressioni è richiesto al locutore assai più della competenza grammaticale e sintattica. C'è qui tutta una sfera di atti che delineano una « pragmatica » del discorso, per la quale, anziché alle banalità semiotico-empiristiche di Morris, Habermas si appella piuttosto a Peirce, a Mead e ai già citati Austin e Searle. Nella pragmatica del discorso è posta in atto una «funzione interattiva » per la quale le condizioni di vita (la husserliana Lebenswelt), i ruoli sociali, le funzioni istituzionali e le simbolizzazioni linguistiche si fondono in modo da distinguere l'essere dal dover essere, la conoscenza tecnico-funzionale dalla scelta razionale dei fini. Il linguaggio è per Habermas il medium universale della vita. Nel discorso esso rivela il suo fine comunicativo, cioè il suo mirare all'intesa e al consenso. Tale fine si esplica in base a quattro istanze: la comprensibilità (il locutore si esprime correttamente secondo le regole grammaticali interne della lingua), la verità (il locutore si riferisce correttamente a realtà extralinguistiche come un'esperienza o un fatto), la veridicità (il locutore riferisce esattamente le proprie intenzioni), la conformità o 15
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adeguatezza (il locutore dà a vita ad atti discorsivi secondo norme sociali o modelli riconosciuti). L'osservanza di questi quattro criteri delimita l'area degli atti discorsivi che mirano a produrre il consenso; in caso contrario si verificano modi discorsivi disturbati. Per esempio il locutore non riferisce esattamente le proprie intenzioni; l'istanza di veridicità risulta allora sospesa in favore di atti discorsivi strategici. Oppure il locutore distorce sistematicamente la sua azione discorsiva e al criterio della conformità si sostituisce un'istanza ideologica. Al di sopra dei quattro criteri sopra elencati Habermas pone poi l'istanza critica. Seguendo i quattro criteri il locutore permane in un atteggiamento naturale o dossastico: segue delle regole ma non ne mette in questione la fondatezza e la validità. Tale messa in questione può avvenire solo nell'atteggiamento filosofico o epistemico. Qui il discorso non rimane più al semplice livello illocutivo (Rede), ma accede a una forma argomentativa (Diskurs) in cui si tematizzano criticamente le pretese di validità e le regole della interazione illocutiva ordinaria. All'interesse per i normali fini che reggono l'agire e la sua espressione discorsiva si sostituisce un interesse per la pura intesa razionale dei soggetti. Questa comporta il riconoscimento intersoggettivo del miglior argomento come fattore vincente della comunicazione e perciò comporta infine una fondazione consensuale della verità. Il Diskurs è così una comunicazione virtuale o «irreale», poiché concerne non soltanto gli eventuali interlocutori reali, ma tutti gli interlocutori potenziali; il che comporta una «situazione discorsiva ideale», nella quale a tutti gli interlocutori venga data una identica possibilità di partecipazione e di ruolo illocutivo. Si tratta insomma più di un criterio normativo o regolativo che non di una situazione concretamente realizzabile, il che ha dato luogo a non poche obiezioni da parte dei critici di Habermas. Bisogna tuttavia riconoscere, come ha scritto Franco Volpi (in ]urgen Habermas, «Belfagor », 1983), «che il pensiero habermasiano rappresenta uno dei maggiori tentativi contemporanei di analizzare e di difendere un'idea integrale di razionalità e di connetterla, in maniera vincolante, nel suo valore orientativo, all'agire dell'uomo nella storia e alla possibilità della sua emancipazione. Al di là delle forme e delle modalità particolari in cui tale impresa teorica è compiuta, va riconosciuto a essa il merito di essere potenzialmente in grado di neutralizzare, se non addirittura di intaccare e di sconfiggere, le reiterate negazioni contemporanee degli spazi della ragione, riempiendo in parte quel vuoto che la cosiddetta crisi della ragione classica sembra avere aperto. Perché legare e affidare l'emancipazione del genere umano non più all'idea di una classe o di un soggetto storico che si faccia portatore della rivoluzione, bensì alle strutture razionali del linguaggio quale medium universale della vita, conferisce al pensiero di Habermas quella dimensione di universalità che lo promuove, nella considerazione generale, ben al di là del peraltro ampio orizzonte neomarxista nel quale in origine esso si era affermato. Perché ciò lo eleva forse, sia pure nella vaga forma di una risonanza smorzata per la differente esecuzione, al rango di sostenitore di quell'idea universale manifestatasi nell'idea greca del logos r6
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che, come unità di ragione e di linguaggio, connota l'uomo in quanto animale politico». Il giudizio positivo espresso da Volpi mostra peraltro da sé il limite intrinseco che lo caratterizza, limite che Habermas non è in grado di avvertire: quello di riferirsi appunto a una concezione storicamente definita del linguaggio e della ragione (la concezione greca, insorta con l'imporsi della pratica della scrittura alfabetica e con la conseguente nascita dell'uomo« epistemico»); sicché l'universalità del discorso risulta tautologicamente infondata e infondabile: si tratta cioè di quell'universale che è il particolare modo di concepire la verità e la realtà caratterizzante la ragione metafisica europea. Estendere tale universale-particolare all'intera umanità (questa «superstizione» dell'Occidente, direbbe Feyerabend) e intenderlo come « emancipazione», celandone il tratto di imposizione e di violenza che gli è intrinseco, è allora proprio un esempio di quella comunicazione distorta che Habermas chiama «ideologia». D'altra parte Habermas, appellandosi all'istanza filosofica o epistemica, cioè alla fondazione metodologicamente autocritica del discorso, non mostra di essere davvero in grado di porre in questione i fondamenti del suo stesso discorso. È quanto emergerebbe da un'analisi approfondita della Teoria morale del '91 e del suo tentativo, largamente velleitario, di fornire una «fondazione post-metafisica dei costumi» due secoli dopo la fondazione della metafisica dei costumi di Kant. È quanto emerge da un libro come Il discorso filosofico della modernità, in cui Habermas, come già il suo maestro Adorno, manifesta tutta la sua incapacità di intendere adeguatamente l'ambito problematico di esperienze di pensiero come quelle di Heidegger o di Derrida: qui come altrove la vis polemica fa velo al genuino interesse per la verità. Ma già nella polemica contro Marx è possibile ravvisare il limite metodologico della operazione habermasiana. Questa ha indubbiamente il merito di mettere in questione sia il nesso fra struttura e sovrastruttura, sia la riduzione della struttura a una concezione rigidamente economicistica che si traduce nei famosi cinque modi di produzione che avrebbero guidato il processo storico dell'umanità (il comunismo naturale primitivo, il modo di produzione antico, feudale, capitalistico e infine socialistico o comunistico, ai quali si è poi aggiunto il modo di produzione asiatico, come transizione dalla fase primitiva a quella antica). Habermas ha ragione di sostituire al nesso causale fra struttura e sovrastruttura una corrispondenza a sua volta « strutturale » molto più elastica e sfumata. È solo nei momenti di crisi, egli sostiene acutamente, nei quali si transita da un modo di produzione a un altro, che la base economica rivela una diretta influenza causale. Per di più tale dipendenza ha senso in una società capitalistica, ma non ne ha nessuno, o ne ha meno, in società primitive, che organizzano la produzione sulla base delle relazioni di parentela, o in società antiche nelle quali è il sistema politico a determinare l'accesso ai mezzi di produzione. Analogamente Habermas ha ragione nel rilevare che la riduzione del divenire storico-sociale umano ai cinque modi di produzione sopra ricordati presuppone l'idea che il genere umano si sviluppi in modo unilineare, necessario, inin17
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terrotto e progressivo. C'è qui un teleologismo « hegeliano » indebito, vincolato a una filosofia della storia cumulativa e relativa a un macrosoggetto storico immaginario. A questa concezione, che Habermas rifiuta in modo efficace e convincente, non è però opposta una critica reale delle basi metafisiche sulle quali essa si incentra. Piuttosto le viene opposta una visione «tecnico-cognitiva» della organizzazione sociale e delle sue competenze comunicative la quale non è che il riflesso delle pratiche produttive e scientifiche della società industriale avanzata nella quale viviamo. Habermas, cioè, non si interroga mai sui limiti di validità delle sue pratiche teoriche e delle pratiche teoriche (linguistiche, sociologiche, antropologiche ecc.) alle quali si appoggia, quasi che queste pratiche, anziché derivare da contingenti situazioni storiche e di fatto, frequentino non si sa quale orizzonte e privilegio di verità universale, valida per comprendere il presente come il passato e idonea a ispirare un sapere pratico-morale futuro. 5 f) Habermas e Luhmann. Abbiamo fatto cenno alle interessanti discussioni che hanno coinvolto Habermas con un sociologo come Niklas Luhmann (n. 1927) o con filosofi come Apel e Gadamer. Luhmann, dopo aver studiato giurisprudenza a Friburgo in Brisgovia, seguì a Harvard i corsi di sociologia di T. Parsons dal cui funzionalismo venne profondamente influenzato. Professore di sociologia nell'università di Bielefeld dal 1968, Luhmann è autore di numerose opere delle quali ricordiamo: Illuminismo sociologico (1970); Stato di diritto e sistema sociale (1971); Sociologia del diritto (1972); Potere e complessità sociale (1975); Struttura della società semantica (198o); Teoria politica nello stato del benessere (1981); Come è possibile l'ordine sociale? (1981); Potere e codice politico (1982). Luhmann rifiuta lo storicismo sociologico di Marx e di Weber. A esso oppone una teoria dei sistemi sociali che sostituisce alla tradizionale nozione di causa una concezione funzionalistico-strutturale della società. Non è vero, in altre parole, che alcuni fattori essenziali determinino causalisticamente l'organizzazione sociale. In particolare ciò non è assolutamente vero nelle società complesse nate dalla rivoluzione industriale. Qui le differenti strutture sociali interagiscono in modi funzionali interscambiabili. In particolare il potere è da intendere, nella società contemporanea, come un sistema aperto, a differenza di come sinora si è fatto. Alla base stanno processi di comunicazione il cui fine è quello della costante riduzione della complessità. Da questo punto di vista appare allora evidente che il potere dispone di un'informazione insufficiente rispetto a coloro che ricoprono ruoli gerarchicamente inferiori, il che del resto è vero anche per la società presa nel suo complesso nei confronti della complessità dell'ambiente. Il problema è sempre quello di una corretta riduzione della discordanza tra le informazioni delle quali si dispone e la complessità infinita che ci si trova ad affrontare, sia nelle fun5 Su Habermas si vedano anche il cap. VI, dedicato al marxismo negli ultimi trent'anni, e il
cap. x, dedicato agli sviluppi recenti della sociologia, del presente volume.
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zioni e nei ruoli interni alla socteta, potere compreso, sia nella capacità di previsione e di azione trasformativa della società presa nel suo insieme finito. 6 È evidente come le idee di Luhmann abbiano contribuito a indurre Habermas ad abbandonare il modello dialettico della teoria sociale critica per assumere il punto di vista di una teoria della competenza comunicativa o pragmatica universale. Nel contempo però egli oppone a Luhmann (sin dallo scritto del 1971 Teoria della società o tecnologia sociale e in altri successivi) l'esigenza di una teoria complessiva della razionalità che non mortifichi la ragione a puro funzionalismo tecnologico e le restituisca il compito di ricondurre a unità teoria e prassi, elaborazione teoretica e scelta morale in senso progressivo. Per parte sua Luhmann (e così Albert) ha risposto accusando la pragmatica di Habermas di mera astrazione formalistica, critica che è stata analogamente rivolta alle tesi di Apel, le quali rivelano infatti più di un punto di contatto con la posizione habermasiana, a cominciare dal comune riferimento al pragmatismo di Peirce. 2) La filosofia tedesca dopo la scuola di Franco/orte
a) Karl Otto Ape!: fra esistenzialismo e filosofia analitica. Karl Otto Apel (n. 1922) si è formato a partire dalla problematica diltheyana delle scienze dello spirito rivisitata alla luce della filosofia esistenziale di Heidegger (del 1950 è la dissertazione Esserci e conoscere. Una interpretazione teoretico-conoscitiva della filosofia di M. Heidegger) e della successiva ermeneutica di Gadamer. Centrale diviene sin dall'inizio per Apel la questione del linguaggio al quale egli riferisce ben presto un compito trascendentale in senso kantiano. Già Hamann, Herder e Humboldt avevano tratto questa conseguenza in relazione allo stesso Kanr:7 se c'è un apriori razionale concreto, questo è l'« apriori linguistico». S'intende che tale apriori non può più avere quel significato vincolante nei confronti della conoscenza scientifica che Kant attribuiva alle categorie dell'intelletto. Il linguaggio è un fenomeno storico affetto da costitutiva finitudine e oscurità. Nondimeno esso rappresenta una soglia preliminare e indispensabile per ogni parlante e quindi una funzione trascendentale fondativa in ogni atto comunicativo. Apel ha così cominciato a studiare l'idea di linguaggio nella tradizione umanistica europea (I.:idea di linguaggio in Nicola Cusano, 1955; I.:idea di lingua nella tradizione dell'umanesimo da Dante a Vico, 1963). Mentre svolge il suo insegnamento nelle università di Kiel e di Saarbriicken, e in seguito presso la Goethe-Universitat di Francoforte, Apel viene maturando l'originale progetto di porre a confronto l'eredità del pensiero esistenzialistico ed ermeneutico con l'eredità del pensiero analitico, facendoli interagire intorno al concetto di interpretazione. Di qui gli studi comparativi su Heidegger e Wittgenstein e poi lo studio approfon-
6 Per un approfondimento sul modello luhmanniano si veda il cap. x del presente volume. 7 Si veda in proposito il saggio apeliano del
1975, La concezione trascendentale della comunicazione linguistica e l'idea della filosofia prima.
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dito del pragmatismo e della semiotica di Peirce (della cui conoscenza in Germania Apel è la più autorevole fonte). Peirce viene acutamente letto da Apel come colui che ha trasformato l'apriori logico kantiano in un apriori semiotico, rendendo così possibile la ricomprensione della logica entro l'ambito delle scienze normative e più in particolare dell'etica. Questi studi trovano la loro organica collocazione nei due volumi Trasformazione della filosofia (1973), che è l'opera maggiore di Apel (parzialmente tradotta in Italia col titolo Comunità e comunicazione, 1977 ). Dei successivi numerosi scritti di Apel si possono ricordare: Il cammino di pensiero di C.S. Peirce. Una introduzione al pragmatismo (1975); Spiegare e comprendere (1979); nonché i saggi: La controversia tra spiegare e comprendere nella filosofia delle scienze naturali e umane (1982); Il problema di una teoria filosofica dei tipi razionali (1984); La razionalità della comunicazione umana nella prospettiva trascendentalpragmatica, (1985); I: etica della responsabilità nell'era della scienza (1985); Spiegare e comprendere: la distinzione diltheyana e le possibilità di mediazione (1985). L'intento primo di Apel, come egli ha scritto nel 1984, è quello di opporsi alla « autoeliminazione "terapeutica" della pretesa universale che è propria del discorso filosofico in favore di un uso funzionale del linguaggio relativo a contingenti "forme di vita"». Il bersaglio polemico è qui, non tanto il secondo Wittgenstein, quanto l'uso relativistico che di esso viene fatto. Analogamente Apel si oppone alla lettura irrazionalistica di Heidegger, all'anarchismo epistemologico di Feyerabend, alla riduzione sociologistica e antropologistica della razionalità occidentale e insomma a tutte le numerose tendenze contemporanee che fanno della « crisi della ragione» il loro credo e il motivo del loro sostanziale scetticismo. Se c'è una crisi della nozione tradizionale di razionalità, ciò che occorre fare non è passar oltre, in base a non si sa quale coerenza o fondamento; occorre invece fare i conti col problema e tentarne una nuova soluzione concettuale. È significativo che tale tentativo si delinei, in Apel, come una ripresa critica del pensiero dei due più grandi e universali filosofi « fondatori » della tradizione occidentale: Aristotele e Cartesio. In tale cammino è significativa la polemica che ha opposto Apel a Hans Albert (n. 1921), professore all'università di Mannheim, seguace del razionalismo critico di Popper e teorico sottile del principio del fallibilismo (si vedano in proposito Per un razionalismo critico, 1969; Di/esa del razionalismo critico, 1971; Ragione critica e prassi umana, 1977; Scienza e ragione critica, 1982). La tesi di Albert è, in sintesi, che un enunciato può essere fondato nella sua validità solo in base a un altro enunciato. Ma ciò comporta sia un regresso all'infinito, sia un circolo vizioso logico, sia infine (come di fatto accade) l'interruzione del procedimento fondativo e l'abbandono a una decisione immotivata e quindi dubitabile. Ciò che resta alla fine possibile è solo una strategia critica che ipotizzi la fallibilità di qualsivoglia enunciato. A queste tesi Apel ribatte: dubitare di tutti gli enunciati implica il non dubitare dell'atto dubitativo. Il fallibilismo è una dottrina «suicida» (come avrebbe detto Peirce): essa non può neppure enunciarsi senza 20
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incorrere nel classico paradosso del mentitore (Epimenide cretese che afferma: tutti i cretesi mentono; e così il fallibilista, che afferma: tutte le asserzioni sono fallibili; tranne, evidentemente, la sua). Difendendo l'indubitabilità dell'atto dubitativo Apel in realtà intende riportarsi alla difesa aristotelica del principio di non contraddizione, interpretato esaltandone l'aspetto « performativo »: se si afferma o si nega qualcosa, si compie un atto argomentativo e nell'esercizio di questo atto non si può negare ciò che lo rende possibile e che lo caratterizza. Con le parole di Apel: « Se io non posso contestare qualcosa senza contraddirmi, e non posso fondarlo deduttivamente senza commettere una petizione di principio logico-formale, allora questo qualcosa appartiene precisamente a quei presupposti pragmatico-trascendentali dell'argomentazione che devono essere già da sempre riconosciuti se il gioco linguistico dell'argomentazione deve conservare il suo senso.» Apel si appella dunque alla «situazione argomentativa», intesa sia, wittgensteinianamente, come un gioco linguistico, di valore però trascendentale, sia, alla Searle, come un atto illocutivo. Ora, in ogni atto illocutivo, diceva Searle, bisogna distinguere la parte « performativa » da quella « proposizionale », ed è proprio la prima a non poter essere negata o revocata in dubbio nel mentre la si compie. Affermare, negare, domandare, dubitare sono azioni linguistiche che presuppongono il carattere specifico della loro linguisticità. Sia quello che si vuole ciò che viene affermato o negato: resta il fatto che tali atti si appellano ad alcune condizioni che Apel definisce trascendentali rispetto alla situazione argomentativa stessa. Una di queste condizioni è l'esistenza del soggetto enunciante o dell'« io». Qui Apel si riporta a Cartesio, accogliendo la reinterpretazione che della indubitabilità del cogito cartesiano ha fornito Jaakko Hintikka (n. r929), professore all'università di Helsinki e poi alla Stanford University (si veda Cogito ergo sum: inferenza o azione performativa?, r962; e inoltre: Logica, giochi linguistici e informazione. Temi kantiani nella filosofia della logica, r973; Induzione, accettazione, informazione, r974; Indagine su Wittgenstein, r986). Se affermo «io non esisto», dice Hintikka, questo enunciato è inconsistente, poiché comporta che io che compio l'enunciato non esisto. Negando questo enunciato, in quanto inconsistente, allora io di fatto affermo un enunciato autoverificantesi, cioè un enunciato garantito nella sua verità dal fatto stesso che lo si pronuncia; e questo era ciò che intendeva Cartesio quando affermava che «la proposizione "io esisto" è necessariamente vera tutte le volte che la pronuncio o che la concepisco nel mio spirito». Apel riprende questo argomento e vede nella certezza autoevidente del soggetto che argomenta una possibilità pragmatico-trascendentale della argomentazione in generale. Ciò che importa è il carattere di «azione» che è implicato nell'argomento del cogito, il che peraltro è vero per tutto l'insieme delle condizioni pragmatico-trascendentali che Apel enuclea allo scopo di mostrare, con un esplicito e puntuale riferimento al pragmatismo di Peirce, la natura ultimativamente «etica» di ogni argomentazione razionale. L'appello al soggetto, insomma, non ha niente a che vedere con l'evidenza «soggettiva» di tipo psicolo2I
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gico o più in generale coscienzialistico (per esempio alla Husserl). Ciò che importa è l'atto argomentativo-interpretante che non può non venir compiuto nel momento in cui si argomenta. Ma questo appello al campo dell'« interpretante» (come diceva Peirce) porta con sé ulteriori implicazioni trascendentali che aprono appunto a quella che Apel chiama «etica della comunicazione». È evidente infatti che la comunicazione umana presuppone un universo di segni che, per una comunità reale di soggetti che comunicano tra loro, rimanda a un universo di significati e cioè di cose reali. È proprio questa necessaria partecipazione a una comunità in dialogo il tratto trascendentale che nessun dialogante potrebbe negare (già lo affermerebbe nell'atto stesso di negarlo, se questo atto deve mantenere il suo senso). Ma ciò comporta altresì la mutua accettazione delle regole della interpretazione dei segni e della loro comunicazione argomentativa, nonché la veridicità dell'intenzione argomentativa, il rispetto delle convenzioni consensualmente accolte e così via. Apel si giova qui del concetto peirceano della verità «pubblica», nonché delle analisi che Wittgenstein aveva condotto relativamente alla impossibilità di un linguaggio «privato». Di qui la ripresa dell'idea peirceana di «una comunità senza limiti definiti e capace di un definito accrescimento della conoscenza». Ma più che alla conoscenza Apel pensa all'accordo « etico »: ogni azione, per essere etica, deve appellarsi a una « comunità ideale dell'argomentazione», in cui sono esplicitamente accolte quelle condizioni trascendentali che rendono possibile l'argomentazione stessa. Si creerebbe così qualcosa di simile alla situazione discorsiva ideale di cui parlava Habermas. Apel per esempio scrive: «Tutti gli esseri capaci di comunicazione linguistica debbono essere riconosciuti come persone, poiché essi sono, in tutte le loro azioni e manifestazioni, partner virtuali della discussione e la giustificazione illimitata del pensiero non può rinunciare ad alcun partner della discussione, né ad alcuno dei suoi virtuali contributi alla discussione». Dal che discende una sorta di imperativo etico così formulato: «Agisci soltanto in base a quella massima che ti mette nella condizione o di partecipare alla fondazione discorsiva di quelle norme le cui conseguenze suscitino il consenso di tutti gli interessati, o di decidere, da solo o in collaborazione con altri, nello spirito dei possibili risultati del discorso pratico ideale. » Naturalmente, e come si è detto, si è obiettato ad Apel (come già a Habermas) che il suo appello a una comunità ideale della comunicazione pecca di astrattismo: non solo tale comunità è non più di un ideale regolativo del tutto immaginario (che inoltre, hanno osservato alcuni, se venisse davvero realizzato cancellerebbe ogni necessità di comunicazione e quindi vanificherebbe la trascendentalità originaria dell'atto linguistico sul quale pretende di fondarsi); ma poi tale riferimento alla comunità ideale non fornisce alcun concreto criterio d'azione, essendo l'azione, come del resto ogni contenuto linguistico, sempre rivolta a situazioni contingenti e a comunità ristrette e reali, non universalmente ideali. Apel ha cercato di rispondere a queste obbiezioni sottolineando che l'azione morale deve anzitutto mirare 22
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alla realizzazione sempre più completa di una prassi comunicativa etico-razionale nel senso sopra delineato; e quindi alla realizzazione di una comunità discorsiva ad hoc, e perciò anche alla concreta instaurazione di quelle strutture sociali e istituzionali che tale realizzazione favoriscano (per esempio il metodo democratico in politica). E infine bisogna di volta in volta decidere quali regole, nelle situazioni storiche concrete, è opportuno assumere in vista del fine ideale ultimo, poiché non è sufficiente assumere il fine ultimo come unico fattore determinante la scelta della azione contingente attuale. Non sarebbe eticamente accettabile, per esempio, una lotta rivoluzionaria che si svincolasse da qualsiasi limite morale pur di ottenere l'efficace realizzazione di una comunità paritetica di persone in grado di decidere razionalmente e cioè liberamente del loro destino. Ma al di là di queste argomentazioni e di questi dibattiti, il punto vero da discutere sembra piuttosto un altro. Esso emerge se, per esempio, si tiene conto del rifiuto di Apel di aderire alla tesi wittgensteiniana secondo la quale i giochi linguistici sono incommensurabili e infondabili. L'argomentazione è un modo di agire «infondato» (come ogni altro modo di agire o gioco linguistico). Ap el invece pretende che l'agire « razionale » caratterizzato come argomentazione rivesta un carattere «trascendentale» e fondante rispetto a ogni altro agire. Ma questa non è infine che una tautologia. Apel non riesce a distinguere ciò che è universalmente valido in quanto contenuto interno di una prassi linguistica universalizzante dall'evento di tale prassi stessa, evento che è un fatto storico contingente e non un significato universale (anche se esso è appunto l'evento del significato universale del discorso reso possibile dalla pratica del logos argomentativo greco e, ancor prima, dalla prassi della scrittura alfabetica, che ha consentito la decontestualizzazione e la idealizzazione dei contenuti discorsivi della pratica dell' oralità). L'esito, involontario quanto inconsapevole, dell'etica della comunicazione è così singolarmente segnato dalla violenza: questa etica, che aspira a riconoscere i diritti delle «persone», cioè di tutti gli uomini, impone nel contempo a tutti le regole di una pratica di discorso determinata. Tutti sono di principio accolti nella comunità della comunicazione, ma, come direbbe oggi Derrida, a patto che accettino le regole dell'ospitante, cioè il suo modo di ragionare, di pensare e di scrivere, la sua morale «umanitaria» e la sua logica « universalistica ». A tutti è dato «esprimere» i loro bisogni e desideri, ma a condizione che questi bisogni e desideri assumano la veste « decente » e « accettabile » della argomentazione razionale, cioè a patto che passino la dogana della ragione, cessando ovviamente di essere quello che sono. In pratica Apel invita tutti gli uomini a esprimere la loro particolarità, ma li costringe nel contempo a farlo argomentando nel modo «occidentale» della universalità, entro il quale modo allora ogni particolarità «non razionalmente fondata» va a fondo. Ciò che Apel non intende è quella «gravezza delle pratiche», intrise di storica contingenza e di ingiustificabile accidentalità, che sono invece comprese per esempio da Foucault o dal secondo Wittgenstein. In quanto anche la « ragione » risale a pratiche definite e ne è un effetto, allora ogni procedimento 23
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razionale (argomentativo, dimostrativo o che altro) non può trovare nel suo tratto di «razionalità» una qualche fondazione autoevidente, ed è con questa crisi di legittimità che la ragione filosofica si trova oggi a dover fare i conti. b) La scuola di Budapest: Agnes Heller. Rilievi critici molto simili nella sostanza si potrebbero sollevare a proposito della teoria dei bisogni radicali elaborata da Agnes Heller (n. 1929), allieva di Luk:ics ed esponente più nota della scuola di Budapest (M. Vajda, G. Markus, G. Bence, J. Kis). La scuola divenne operante nel nuovo Istituto di filosofia a partire dal 1957, nel clima di una molto parziale liberalizzazione politica seguita agli anni duri della guerra fredda. Heller e i suoi compagni si ispiravano ai Manoscritti economico-filoso/ici di Marx, alla fenomenologia e naturalmente all'opera complessiva di Lukacs per allargare all'intera vita della società, anche nei suoi aspetti quotidiani e privati, la marxiana critica dell'alienazione. L'economicismo marxiano veniva così trasferito e trasfigurato su un piano antropologico ed etico universale con esiti politici che miravano a una democrazia effettiva e diretta. Questa «rivoluzione sociale totale» suscitò la reazione delle autorità politiche e la prevedibile critica di umanismo piccolo borghese, con la conseguente espulsione dei membri della scuola dalle università ungheresi, sicché essi ripararono all'estero. La Heller aveva partecipato, già nel 1956, alla riunione di Berlino promossa da E. Bloch per il rinnovamento della filosofia e del marxismo nei paesi dell'Est europeo, mostrando le sue simpatie per la sociologia critica di Adorno, nonché di E. Fromm e di Ch.W. Milis, e sostenendo la legittimità di una pluralità di posizioni marxiste. Di qui le sue prime originali opere: La teoria dei bisogni di Marx (1968); Sociologia della vita quotidiana (1970); Per una teoria marxiana del valore (1974). Nel 1973, a seguito della condanna ufficiale delle sue opere, si trasferisce in Australia, dove la sua ricerca accentua quei caratteri e interessi antropologici che già si annunciano nei primi scritti (Istinto e aggressività, 1976; Teoria dei sentimenti, 1978; Teoria della storia, 1981). In seguito la Heller trova ospitalità negli Stati Uniti, dove tuttora insegna sulla cattedra intitolata a Hannah Arendt nella New School for Social Research di New York. Qui il suo lavoro si rivolge decisamente al tema della « ragione pratica», entrando in sintonia e anche in critico confronto con le tesi di Habermas e di Apel (La filosofia radicale, 1978; Il potere della vergogna, 1983; Al di là della giustizia, 1987; Etica generale, 1989; Filosofia della morale, 1990). Soprattutto nelle ultime opere, risentendo del clima culturale americano, la Heller entra in discussione con R. Rorty, A. Maclntyre, J. Rawls. L'intento generale è quello di pervenire a un'« etica prescrittiva» che tenga conto dell'intera evoluzione antropologica del genere umano relativamente alla produzione dei beni materiali e spirituali della vita sociale. Il punto essenziale è il rapporto della vita dell'individuo con l'insieme globale delle risorse disponibili, insieme che non viene più ricondotto alla sola categoria marxiana del lavoro e della produzione economica, ma allargato alle componenti sociali della comunicazione messe in luce da Habermas e per altro verso 24
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teorizzate da Apel. Qui la Heller appare ormai lontana dalla antologia sociale di ispirazione lukiicsiana intorno alla quale ancora gravitavano le sue prime opere. In generale va sottolineata l'originalità tematica della ricerca helleriana e la sua suggestiva capacità di sollevare esigenze critiche profonde relativamente alla vita individuale e istituzionale delle società a capitalismo avanzato, prendendo le misure delle sue considerazioni etiche a partire da una veduta straordinariamente ampia in senso antropologico e morale. Resta però il fatto che la rivendicazione dei bisogni viene alla fine sottomessa al ristretto criterio della sua proposizione razionalmente motivata, sicché il ricorso all'antropologia dei bisogni manifesta una acritica accettazione di modelli scientistici fatti reagire sulle culture che si vorrebbero «oggettivamente» recuperare e comprendere. La filosofia della Heller è così assai meno «radicale» di quanto pretenda. Anche la sua fondazione del valore e dell'etica, resa autonoma rispetto alla teoria e alla scienza, ricorda assai da vicino la teoria crociana dei distinti, peraltro a un livello di superficialità filosofica, rispetto al modello crociano, che non può non colpire sfavorevolmente il lettore italiano esperto di cose filosofiche. c) Hannah Arendt. Il problema etico-politico è al centro anche dell'itinerario di Hannah Arendt (r9o6-75) la cui formazione a Marburgo, Friburgo e Heidelberg si svolge sotto il magistero di Bultmann, Heidegger, Husserl e Jaspers, col quale si laurea nel 1928 con la dissertazione Il concetto di amore in Agostino (r929). Già attiva nel movimento sionistico prima del 1933, in quell'anno si rifugia in Francia per evitare la persecuzione nazista contro gli ebrei. Internata nel 1940 al Velodrome d'hiver di Parigi, riesce a fuggire negli Stati Uniti, dove insegna teoria politica alla New School for Social Research di New York. La fama pubblica di questa pensatrice atipica è soprattutto legata alle polemiche che hanno accompagnato il suo scritto La banalità del male (r963), dedicato al caso Eichmann, e alle prese di posizione della Arendt nei confronti del movimento sionistico, dal quale si dissociò accusandolo sia di indebito nazionalismo, sia di non aver inteso la natura specifica dell' antisemitismo contemporaneo e la novità storica dell'Olocausto, legato ai destini totalitaristici della società politica contemporanea. Di qui la peculiarità esemplare della condizione dell'ebreo moderno, diviso tra aspirazione all'integrazione sociale e fuga nell'interiorità, che è a sua volta un esito della elisione della sfera politica pubblica nel mondo moderno. Esemplare è al riguardo il secondo libro della Arendt, dedicato alla biografia di Rachel Varnhagen, una colta ebrea legata alle vicende del romanticismo berlinese (r958). La Arendt viene così sempre più rivendicando la sua natura ebraica, costitutivamente caratterizzata dalla condizione della diversità, dell'esilio, della emarginazione. Ma a ciò si lega il tema principale della sua ricerca filosofico-politica che in anni recenti ha cominciato a trovare adeguato ascolto negli Stati Uniti e in Europa. Il concetto sul quale ha più profondamente lavorato la Arendt è quello della «azione», intesa come quell'« essere con gli altri» che definisce la natura profonda 25
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dell'essere umano. È qui evidente un nesso con la tema ti ca heideggeriana di Essere e tempo, svolta però in modo personale e originale. « Agendo e parlando - scrive la Arendt - gli uomini mostrano chi sono, rivelando attivamente l'unicità della loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano. » Il mondo umano è caratterizzato dalla sfera pubblica, tematizzato in Vita activa. La condizione umana (1958). Nell'agire comunitario l'uomo mostra agli altri «chi è», e non soltanto «che cosa è». Ciò non significa che lo mostri a se stesso. Il «chi» appare in modo chiaro e inconfondibile agli occhi degli altri, ma rimane nascosto alla persona stessa, come quel daimon di cui parlavano i greci, che sta alle spalle dell'uomo per tutta la vita e che è visibile a coloro con i quali entra in rapporto, restando invisibile a lui. D'altra parte questo rivelarsi nella vita pubblica comporta anche un celarsi nel segreto della vita privata, sicché la trasparenza comunicativa è sempre parziale. Con queste suggestive analisi la Arendt intendeva tra l'altro assumere un atteggiamento critico nei confronti degli intellettuali contemporanei, e in particolare dei filosofi, chiusi nelle loro astrazioni teoreticistiche e incapaci di una effettiva azione pubblica, nonché di sincerità autentica nella vita privata. Ma il tema dell'azione intende soprattutto denunciare l'alienazione della vita politica moderna, critica che si era messa in moto sin dal libro del 1951 Le origini del totalitarismo. Qui la Arendt individua nella progressiva spoliticizzazione della vita pubblica la radice dei drammi contemporanei, culminati nelle due guerre mondiali, nella ascesa delle dittature, nell'imperialismo, nell'antisemitismo e infine nella degenerazione demagogica e formalistica delle democrazie occidentali. Questa spoliticizzazione è messa a fuoco in Vita activa attraverso il confronto con il modello ideale della democrazia ateniese al tempo di Pericle: elogio della politeia che non è a sua volta privo di echi heideggeriani. Esso definisce uno spazio politico nel quale l'agire non è astrattamente sottomesso alla teoria, ma si esprime in una partecipazione diretta che rende possibile, pur nelle differenze sociali tra i cittadini, una concreta eguaglianza politica o isonomia. Tutto ciò viene meno con l'età moderna, in cui la mente e il corpo, la scienza e l'azione fanno cartesianamente divorzio. La politica viene allora espropriata nella gestione istituzionale e nella amministrazione burocratica, dove pochi decidono per molti, sino alla sua totale alienazione nella società di massa, di cui le grandi dittature nazista e stalinista sono la conseguenza. Conseguenza ancora aperta ai pericoli delle democrazie plebiscitarie: si vedano in particolare i saggi raccolti in Sulla rivoluzione (1963), dove la Arendt analizza le degenerazioni statalistiche delle rivoluzioni francese e americana, e Tra passato e futuro (1961), dove la critica coinvolge il rapporto della modernità con la storia e la tradizione; infine Ebraismo e modernità, apparso postumo nel 1978. Con la svolta cartesiana muta la storicità stessa della vita pubblica. Nel mondo greco essa è caratterizzata dalla ricerca umana della virtù (arete), che si svolge al cospetto di un mondo naturale eterno e immutabile e si tramanda nei racconti, dando luogo alla immortalità della fama. Nel mondo moderno la storia viene invece concepita
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come processo di trasformazione che coinvolge la stessa natura e che dà luogo all'idea di progresso. Dalla comunità umana la verità passa a una figura « soggettiva» in cui l'azione diventa imprevedibile. La Arendt riprende qui le critiche di Jaspers a Cartesio, il cui cogito motiva la nascita di un soggetto svincolato dal mondo nella sua astratta autonomia pensante. Si tratta allora, per la Arendt, di ritornare a un agire che restituisca il pensiero al mondo e liberi la cultura dalla sua alienazione teoreticistica; quella alienazione per la quale artisti e filosofi agiscono da tempo in campi separati dalla vita attiva e dalla concreta politica dell'esistenza. La crisi contemporanea non ha il suo ultimo fondamento nel lavoro e nella sfera dei bisogni; né si tratta di una crisi della creatività spirituale. La crisi è interamente politica, cioè si radica nella attualmente impossibile integrazione della azione dei singoli entro un agire comunitario concreto. Per questo al puro contemplare teorico la Arendt oppone (per esempio nelle Lezioni sulla filosofia politica di Kant, apparse postume nel 1982) la facoltà del giudizio riflettente, che interviene direttamente sul presente e sui molteplici aspetti e affari dell'esistenza umana. Il tratto più originale della riflessione della Arendt concerne però il concetto di tradizione, o più esattamente di «interruzione della tradizione». Questa accade proprio con lo spirito storico moderno e con l'imporsi di una tradizione «scritta». Contrariamente all'ermeneutica classica, che si incentra sulla nozione di testo, sia in senso profano, sia religioso, la Arendt sottolinea la peculiarità della tradizione orale e discorsiva. È qui evidente il peso della saggezza talmudica, caratterizzata dallo snodarsi millenario del commento orale alla Torah. Venendo meno quei discorsi pubblici che agiscono nella concreta prassi politica della comunità, anche la memoria della tradizione viene meno, sostituita dalla astratta e oggettivata memoria della scrittura, che è sempre discosta dalla verità della vita vissuta. È così che l'individuo moderno, ormai essenzialmente privo di memoria, sperimenta la sua impossibilità di agire nel mondo e la sua strutturale incompiutezza; non in un senso esistenzialistico, ma in quanto nelle società moderne non vi è più continuità tra gli individui e la vita pubblica, ritiratasi nella anonimia delle istituzioni. L'esistenza individuale non può più compiersi attivamente nel mondo, ma deve piuttosto ritirarsi « coscienzialisticamente » in se stessa; col che la stessa percezione del tempo muta: l'esistenza si ritrova privata del presente e gettata nel passato della propria identità privata e nel futuro del tempo lavorativo socialmente imposto. Degli altri scritti della Arendt, oltre all'importante Epistolario (1985) tenuto con Jaspers per tutta la vita, si possono ricordare: Sulla violenza (1970); Politica e menzogna (1972); Il futuro alle spalle (1981); La disobbedienza civile e altri saggi (1985); e soprattutto La vita della mente, rimasto incompiuto e apparso postumo nel 1978. Qui la Arendt distingue la vita spirituale nei suoi tre momenti del pensare, del volere e del giudicare e in parte attenua la sua critica alla dimensione teoretica del filosofare, rivalutata come «sogno della ragione». Resta l'appello al ruolo preminente dell'agire e alla vita attiva della parola concretamente narrante e giudicante, ma a esso si accompagna anche un evi-
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dente pessimismo nei confronti delle possibilità future di una trasformazione della politica nel senso auspicato dalla Arendt. d) Hans ]onas. Come la Arendt, anche Hans Jonas (1903-93) è stato allievo di Husserl, Heidegger e Bultmann. Rifugiatosi in Inghilterra all'avvento del nazismo, nel 1935 si è trasferito in Palestina, insegnando in seguito anche in Canada e negli Stati Uniti. I suoi studi sono caratterizzati dall'originale intento di rileggere lo gnosticismo antico alla luce dell'esistenzialismo contemporaneo (Gnosi e spirito tardo antico, vol. I, 1934, vol. II, 1954; La sintesi gnostica, 1958). I due fenomeni sono accomunati dalla esperienza della separatezza rispetto all'unità dell'ordine cosmico, nel primo caso, e rispetto alla natura, obiettivata dalla scienza moderna, nel secondo (Saggi filoso/ici. Dalla fede antica all'uomo tecnologico, 1974). Peraltro questo dualizzarsi del reale è ricondotto da Jonas a una tendenza insita nel mondo organico. Di qui una filosofia della vita che critica l'antropocentrismo che caratterizzerebbe tutto il pensiero moderno, l'idealismo come lo stesso esistenzialismo, e così pure il pensiero scientifico materialistico (Il fenomeno della vita: verso una biologia filosofica, 1966; Tecnica, medicina ed etica, 1985; Il concetto di Dio dopo Auschwitz, 1978; Materia, spirito e creazione, 1988). La tendenza della vita alla libertà (per esempio alla libertà della materia rispetto alla forma) culmina nondimeno nell'uomo, al quale viene affidato il compito etico della salvaguardia della natura, minacciata dapprima dalla sua stessa tendenza separatistica alla libertà e poi dalla irruzione tecnologica umana. La filosofia della biologia si trasforma così in una rivendicazione etica che è espressa nel libro più famoso di Jonas, Il principio di responsabilità (1979). Si tratta di metter capo a un'etica che sia all'altezza dell'età della tecnica planetaria. Per far ciò l'etica deve estendere il suo dominio al di là dei rapporti umani e investire l'intero mondo della biosfera; essa inoltre deve comportare una assunzione di responsabilità che travalichi la coscienza individuale per divenire un abito collettivo universale. Bisogna dire che se la prima parte del Principio di responsabilità presenta analisi quanto mai suggestive e convincenti relative alla attuale condizione della vita sulla terra e alla impossibilità di un indefinito progresso tecnologico secondo le direttive di sviluppo che tuttora lo governano, la seconda parte, che presenta la proposta etica di Jonas, non va al di là di generiche indicazioni ed esortazioni di tipo retorico e moralistico, le quali non sembrano le più idonee alla comprensione effettiva del problema e della sua soluzione, le cui radici restano sostanzialmente inindagate. Più promettenti sono, sempre in campo etico, le recenti ricerche di Manfred Riedel (1936), allievo di Loewith e professore nella università di Erlangen, il quale viene delineando una prospettiva filosofica della politica e del diritto che da un lato tiene conto della fine della metafisica e dall'altro entra in polemica con le tendenze restauratrici neoaristoteliche delle quali si avrà occasione di parlare più avanti (Hegel fra tradizione e rivoluzione, 1969; Metafisica e metapolitica, 1975; Norma e giudizio di valore. Problemi fondamentali dell'etica, 1979; Lineamenti di etica comu-
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nicativa. Elementi e principi di una teoria del discorso morale, 198o; Per un'altra filosofia, 1988). e) Eugen Fink e Hans Blumenberg. Prima di concludere il presente paragrafo con l'esame dell'ermeneutica di Gadamer bisogna fare almeno un cenno ad altre due figure di spicco della cultura filosofica tedesca, la prima delle quali concerne solo in parte il periodo qui esaminato. Si tratta di Eugen Fink (1905-75), assistente di Husserl e poi professore a Friburgo dal 1948. L'originalità della ricerca di Fink (che è anche uno dei più acuti interpreti dell'opera di Nietzsche: La filosofia di Nietzsche, 1960) consiste nel tentativo di interpretare l'intenzionalità della coscienza secondo Husserl e l'essere-nel-mondo da parte dell'uomo secondo Heidegger alla luce di una sintesi cosmologica che si incentra sul concetto di gioco, dove è evidente anche la reminiscenza del concetto di gioco cosmico eracliteo secondo l'interpretazione nietzschiana (Oasi della gioia. Idee per una antologia del gioco, 1957; Essere, verità, mondo, 1958; Il gioco come simbolo del mondo, 1960; Metafisica e morte, 1969; Essere e uomo, 1977). La cosmologia finkiana mostra la irriducibilità del mondo ai concetti e alle categorie della metafisica. Le relazioni infinite che attraversano e intrecciano l'uomo e il cosmo sono piuttosto esprimibili simbolicamente. La dimensione simbolica del gioco mostra appunto il carattere aleatorio e non finalistico della realtà cosmologica. A suo modo anche Hans Blumenberg (n. 1920), la seconda delle figure che qui si vogliono ricordare, tenta un cammino comprensivo che oltrepassi il concetto· e ne ravvisi le radici in un terreno simbolico che per Blumenberg si precisa più esattamente come metaforico. Professore nell'università di Muenster, Blumenberg è dapprima influenzato dalla filosofia delle forme simboliche di Cassirer e dalla fenomenologia del mondo della vita di Husserl. Nel 1960 pubblica i Paradigmi di una meta/orologia, di fatto inaugurando un nuovo campo di ricerca destinato ad ampi sviluppi successivi (basti qui ricordare le opere di M. Black, Modellz; archetipi e meta/ore, 1962 e di H. White, Retorica e storia, 1973). L'idea base di Blumenberg è che un corpo di metafore fondamentali guida la comprensione del mondo da parte dell'uomo. L'analisi comparatistica e fenomenologica di come le «grandi famiglie di metafore assolute» vengano sviluppandosi nel tempo, dando vita a un florilegio di miti, porta alla conclusione che anche il concetto filosofico non è che una trascrizione meno immaginifica delle metafore fondamentali, delle quali ripete la funzione, che è quella di «nominare l'ignoto» e così tentare di controllarlo. Ancora analoga è poi la funzione della concettualizzazione scientifica, con la quale emerge però una forma conflittuale di controllo della natura. C'è dunque una profonda e sotterranea continuità tra mito, metafisica e scienza ed è la base metaforica a rendercene edotti. La sua comprensione dovrebbe altresì indurci ad abbandonare l'ingenua e utopica idea di poter porre sotto controllo totale i fenomeni dell'universo, rinunciando alle pericolose manipolazioni della tecnica contemporanea (La genesi del mondo coper29
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nicano, 1975; La caduta del proto/iloso/o o la comicità della teoria pura, 1976; Naufragio con spettatore, 1979; Elaborazione del mito, 1979; La leggibilità del mondo. Il libro come meta/ora della natura, 1981; Il riso della donna di Tracia, 1987; L'ansia si specchia sul fondo, 1987). Questo non significa che Blumenberg sia ostile alla cultura moderna. Ha avuto infatti risonanza la sua polemica con Loewith, sostenitore del concetto di secolarizzazione come intima natura del moderno, in difesa del carattere di novità introdotto dalla cultura della modernità (La legittimità dell'epoca moderna, 1966). n tanto criticato concetto di progresso non è una mera traduzione secolarizzata della filosofia della storia cristologico-agostiniana; esso incarna invece, secondo Blumenberg, una svolta profonda rispetto alla escatologia cristiana, legata a un piano trascendente che governa deterministicamente la storia. lnterpretandosi alla luce del progresso l'uomo moderno diviene padrone e responsabile del suo presente, pensato ora come causa reale di un futuro non teologicamente predeterminato. 3) I; ermeneutica di Gadamer
La proposta gadameriana di una filosofia ermeneutica si è venuta via via imponendo a partire dagli anni sessanta, sino a costituire un punto di vista privilegiato nel dibattito contemporaneo, delineando, come è stato detto, quella «koiné» ermeneutica che soffre forse oggi dei risvolti e dei limiti del suo stesso successo: un eccesso di genericità e di superficialità che rende sempre meno incisive e produttive, sul piano di un'autentica teoria, le sue tesi di partenza. Queste ultime sono strettamente legate all'itinerado personale 'di Hans Georg Gadamer (1900) la cui prima formazione è neokantiana. Si laurea infatti con Natorp a Marburgo nel 1922, ma proprio qui accade l'incontro decisivo
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sommato, abbastanza modesta e però destinata a uno straordinario successo di diffusione e di attenzione che forse si può intendere come un segno dell'attuale declino della ricerca teorica e della sua sostituzione con un argomentare urbano, colto, raffinato (qual è infatti quello dei vari rappresentanti internazionali della koiné ermeneutica), inusitatamente amplificato dal sistema dell'editoria e dell'informazione di massa, e dal conformismo culturale che ne deriva, e perciò destinato a piacere a un pubblico assai vasto di «interessati» ai problemi filosofici, ma anche di incompetenti della reale portata e consistenza dei medesimi. Il bersaglio più evidente di Verità e metodo è la pretesa, propria delle scienze della natura ma poi anche, a loro modo, delle scienze dello spirito, di sottomettere la verità al metodo. Alla base vi è soprattutto una ripresa di alcuni temi fondamentali di Essere e tempo di Heidegger, coniugati con ispirazioni e tematiche che vengono prevalentemente da Dilthey e da Hegel. Da Heidegger viene anzitutto la convinzione che il mondo è dato all'uomo solo tramite l'interpretazione e la comprensione; in secondo luogo che ogni comprensione è sempre storicamente «finita». Gadamer si avvale degli esempi dell'opera d'arte (la cui vita accade all'interno di una esecuzione e di un'interpretazione) e del sapere storico (il dato storico non è un in sé «oggettivo» al quale si aggiungerebbe l'interpretazione «soggettiva»; esso piuttosto vive in una continuità o in una tradizione interpretativa). Anche le scienze della natura, del resto, sebbene abbiano le loro ragioni per fondarsi su procedimenti metodici obiettivanti, non possono fare a meno del momento interpretativo o ermeneutico. Per questo aspetto del problema Gadamer si è recentemente e giustamente riferito all'opera di un epistemologo come Kuhn. In linea generale anche lo scienziato naturalista predispone le sue sperimentazioni metodiche all'interno di una storicità sociale che gli suggerisce un orizzonte di problemi e di interessi; e d'altra parte lui stesso è un uomo storico che non si espone «nudo» ai dati dell'esperienza: questi supposti dati sono sempre assunti entro modelli interpretativi che sono latamente « culturali», essendo a sua volta «culturale» l'orizzonte stesso delle scienze della natura. Non c'è naturalmente nulla di nuovo in tutto ciò rispetto a quello che Husserl aveva ampiamente spiegato e chiarito nella sua ultima opera, la Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, e del resto Gadamer ogni tanto fa uso del concetto di «mondo della vita», sebbene la sua ricezione della fenomenologia husserliana, mediata com'è da Heidegger, appaia largamente insufficiente e incomprensiva. Bisogna però rilevare la nota originale che Gadamer introduce nel concetto di «esperienza», in polemica con ogni riduzionismo empiristico e facendo leva su un'ispirazione in parte anche hegeliana: «la dialettica dell'esperienza non ha il suo compimento in un sapere, ma in quell'apertura all'esperienza che è prodotta dall'esperienza stessa». Il progetto ermeneutico mira dunque essenzialmente, come ha detto Gadamer, a «far valere il punto di partenza filosofico di Heidegger anche per le scienze dello spirito, compito cui io stesso ho cercato di contribuire. Ciò che tuttavia mi impor31
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tava era di non affidare la linguisticità dell'uomo soltanto alla soggettività della coscienza (per esempio la coscienza estetica o la coscienza storica) e alla capacità linguistica in essa situata, come ancora accade nell'idealismo tedesco e in Humboldt. Piuttosto io ho posto il dialogo al centro dell'ermeneutica». Torneremo tra breve su questo concetto del dialogo, che lega Gadamer alle ricerche di Habermas e di Apel e che motiva le ripetute discussioni intercorse tra questi tre filosofi (così come motiva, secondo Gadamer, il fallimento del suo recente tentativo di dialogare con Derrida, che egli accusa appunto di «non saper dialogare», cioè di non saper ravvisare l'autentica importanza del momento dialogico in filosofia). Anzitutto notiamo come Gadamer da un lato si riporti alla grande tradizione romantica; già Schleiermacher, Friedrich Schlegel e poi naturalmente Dilthey sostenevano che ogni comprensione è sempre interpretazione e che il comprendere non mira al linguaggio, ma si compie nel linguaggio. Ma Heidegger poi ha collegato l'interpretazione con il problema dell'essere (cioè dell'essere nel mondo da parte dell'uomo) e ha fatto del comprendere un «esistenziale», vale a dire un struttura fondamentale dell'essere nel mondo e quindi dello stesso mondo che si incontra nell'esperienza. A partire da questa svolta va inteso il lavoro di Gadamer. « Io - egli ha scritto - non ho esteso i metodi dell'originaria ermeneutica teologica e giuridica ad altre discipline, per assicurare così al concetto di metodo la necessaria ampiezza di applicazione- come in qualche modo ha fatto Betti nel suo confronto con Croce e Gentile - , bensì ho cercato di mostrare che il concetto di metodo è inadeguato come istanza di legittimazione delle scienze dello spirito. Non ne va, qui, della trattazione di un ambito di oggetti attraverso il nostro comportamento. Le scienze dello spirito, per le quali spezzo una lancia offrendo loro una giustificazione teoretica più adeguata, appartengono piuttosto allo stesso patrimonio della filosofia. Esse si differenziano dalle scienze della natura non solo per il loro modo di procedere, bensì anche per il loro riferimento processuale alle cose, per il loro prender parte alla tradizione, che esse fanno sempre di nuovo parlare per noi. Per questa ragione ho proposto di integrare l'ideale della conoscenza obiettiva, che domina i nostri concetti di sapere, scienza e verità, con l'ideale del prender parte, della partecipazione. [. .. ] In ogni scienza dello spirito c'è la filosofia, che non può mai giungere totalmente al concetto.» (C. Dutt, Dialogando con Gadamer, 1995). Questo ideale della partecipazione è più propriamente ciò che, nell'atto ermeneutico, Gadamer chiama« applicazione», riprendendo acutamente la classica distinzione tra subtilitas intelligendi e subtilitas explicandi. Non si· tratta, come qualcuno ha equivocato, di un momento pratico-applicativo successivo al comprendere. Si tratta del fatto per cui in ogni comprendere è in gioco anche l'essere dell'interpretante (e che il comprendere abbia la natura del «gioco», come libera posizione di regole, è a sua volta un aspetto del problema ermeneutico studiato da Gadamer). Il comprendere, insomma, «si applica» a colui stesso che comprende, rendendolo ogni volta diverso proprio per il fatto che ha compreso. Questo è in effetti uno
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degli apporti più significativi della riflessione gadameriana. «Per chi cerca di comprendere l'applicazione è la sola vera comprensione della cosa. In ogni comprendere accade un'applicazione, così che chi comprende si trova egli stesso nel senso che viene compreso, appartiene alla cosa che viene da lui compresa. [ .. .] L'applicazione è un momento implicito in ogni comprendere. [. .. ] Chiunque comprenda qualche cosa, comprende se stesso in essa.» {Ibidem). Di qui deriva il più noto concetto introdotto da Gadamer nell'ermeneutica: quello della «fusione degli orizzonti». Esso mira a «distruggere il fantasma di una verità separata dalla posizione di chi comprende». Il comprendere è sempre un incontro di orizzonti che interagiscono e si modificano reciprocamente. «La comprensione- dice Gadamer- non è mai, in realtà, un "capir meglio", né nel senso del sapere meglio le cose in base a concetti più chiari, né nel senso della superiorità che possiederebbe la consapevolezza rispetto al carattere inconscio della produzione. È sufficiente dire che, quando in generale si comprende, si comprende diversamente. » Il che comporta il peso particolare che la tradizione e il «pregiudizio» rivestono entro l'atto interpretativo. Anche qui i critici (e tra questi anche Habermas) hanno sovente frainteso il senso dell'appello gadameriano al «pregiudizio» e all'autorità della tradizione, confondendolo magari con certi tratti nostalgici del pensiero antropologico di Gehlen. Gadamer non intende avvalorare il principio di autorità contro lo spirito critico, ma intende semplicemente rilevare come l'atto interpretativo non possa mai accadere fuori da una tradizione già operante e come il comprendere metta inevitabilmente in gioco la «situazione» di colui che comprende. Questo non è altro che il «circolo ermeneutico» di cui parlava Heidegger (o, in altro contesto culturale, la semiosi infinita di Peirce: per interpretare bisogna aver già interpretato). In questo senso il «pregiudizio» di cui parla Gadamer non è un rifiuto volontario o involontario a cambiare idea e a esporsi all'esperienza dell'incontro con l'altro e col diverso; è invece il riconoscimento che solo a partire dalla propria situazione finita, storicamente determinata, è possibile interpretare e quindi esporsi al mutamento, al divenire diversi tramite l'incontro con l'altro, a sua volta reso altro dal suo incontro con noi. Ogni comprensione implica un orizzonte e dunque qualcosa di limitato e di definito, qualcosa di chiuso; questa però è appunto la condizione in base alla quale l'orizzonte può sempre di nuovo venire aperto e allargato. Queste ultime osservazioni mostrano da sole perché Gadamer intenda l'incontro con l'altro, e in generale con la tradizione, come un «dialogo». Può sembrare indebito fare della tradizione un soggetto dialogante, ma Gadamer intende dire che la tradizione, in quanto ci pone problemi, in quanto suscita in noi interrogativi, allora esige una risposta. E questa risposta non può che coinvolgere il linguaggio. «L'inizio dell'interpretazione - ha scritto Gadamer - appare come un momento "tetico", ma in realtà è già una risposta e, come ogni risposta, il senso di un'interpretazione si definisce in base alla domanda che viene posta. La dialettica di 33
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domanda e risposta precede dunque sempre la dialettica dell'interpretazione. È essa che determina il carattere di evento della comprensione» (Ibidem). Il che peraltro significa anche che la comprensione non può che avvenire nel linguaggio e come linguaggio. La tradizione, dice Gadamer, è sempre una storia degli effetti (una Wirkungsgeschichte: altro tipico concetto della ermeneutica gadameriana). C'è una andata e un ritorno (ciò per cui «un pensiero autenticamente storico deve essere consapevole anche della propria storicità »), una domanda e una risposta, per cui è pur sempre dentro la tradizione che accade la continuità e insieme il differenziarsi della tradizione stessa. Ma il «luogo» (il «mezzo») di questo movimento è poi il linguaggio. L'insistenza di Gadamer sul linguaggio ha conseguito una grande popolarità, inducendo anche involontari effetti paralizzanti sul pensiero, con conseguenze banalmente « relativistiche » in vari « gadameriani » soprattutto italiani. « L'essere che può venir compreso è linguaggio», ha detto Gadamer. E anche: «Chi ha linguaggio ha il mondo»: frasi che sono apparse molto profonde. Posto che lo siano (e che non siano mere tautologie), non dicono certo né più né meglio delle analoghe posizioni espresse da Wittgenstein, da Heidegger o da Peirce. In realtà Gadamer è più concreto e più modesto. Egli intende qui rivendicare il carattere dialettico del filosofare, cioè la sua derivazione dal dialogo socratico-platonico. Per esempio egli nota che già i romantici «riconobbero che ogni comprendere è interpretare, che la comprensione è legata al linguaggio». La terza parte di Verità e metodo è dedicata a questo problema della linguisticità del comprendere. «Quando parlo di un dialogo ermeneutico con la tradizione, non parlo in modo metaforico, come cerco di mostrare in questa parte del libro, bensì descrivo esattamente la comprensione della tradizione così come si compie nel "mezzo" del linguaggio. Il linguaggio non è un supplemento della comprensione. Il comprendere e l'interpretare sono sempre già intrecciati l'uno all'altro. L'interpretazione linguistica porta la comprensione a una dichiarazione espressiva, è la concrezione del senso che viene compreso con l'incontro con la tradizione. La tesi secondo cui ciò accade sempre in una situazione determinata dalla storia degli effetti, secondo cui la tradizione pone domande e indica risposte, non significa in alcun modo che la tradizione sia un ipersoggetto. Il dialogo con la tradizione è un dialogo autentico, al quale partecipa attivamente chi viene colpito dalla sua parola. Poiché il linguaggio interpretante è il linguaggio di chi viene colpito» (Ibidem). Se però si volesse chiedere a Gadamer che cosa intende per linguaggio, e per storia e per evento e così via, si resterebbe delusi. Il pensare gadameriano procede per linee orizzontali; «constata» che vi è sempre intepretazione e tradizione, ma che cosa siano l'una e l'altra (e che significhi «constatarlo») non è mai chiesto in modo «verticale», cioè filosofico in senso profondo. Presentare l'ermeneutica gadameriana come una prosecuzione della domanda heideggeriana relativa al circolo ermeneutico, come sovente si fa, è in realtà una semplice sciocchezza. Essa è piuttosto una applicazione molto parziale di temi heideggeriani a taluni aspetti della vita culturale e sociale. Bisogna dire che Gadamer, per 34
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parte sua, non si è mai presentato come un pensatore che avrebbe proseguito il cammino intrapreso dal suo maestro. Più modestamente e con quella lealtà e generosità che caratterizzano la sua awincente personalità umana, ha preferito parlare di «talenti diversi». Sicché, da un punto di vista teoretico, il lavoro di Gadamer è piuttosto un passo indietro, e non un passo avanti, rispetto alle questioni che Heidegger (e così Wittgenstein) ha sollevato al pensiero. Gadamer, è stato detto, ha recuperato una possibilità dopo lo scacco a cui il pensare filosofico era pervenuto con i cammini di Wittgenstein, di Heidegger, e, oggi, di Derrida. In effetti ha « riciclato » un certo Hegel o un certo Platone entro il dibattito cultural-filosofico, ma solo al prezzo di passare sotto silenzio le domande autentiche del filosofare contemporaneo. Seguendo la sua inclinazione naturale di grande studioso umanista e di uomo sollecito della cultura del suo tempo, Gadamer ha dato il meglio di sé più nelle conseguenze pratiche, o etiche, della sua ermeneutica, che non in una rigorosa riflessione teorica sul senso e sui confini della ermeneutica medesima. Seguendo anche qui una suggestione heideggeriana relativa all'importanza ancora attuale dell'Etica nicomachea, Gadamer ha fruttuosamente rivalutato e riproposto il concetto aristotelico di /ronesis, inteso come l'espressione di una razionalità pratica e concreta, di una «saggezza» che è al tempo stesso una guida per la prassi e un costume etico in cammino. «La nostra prassi - dice Gadamer - è la nostra forma di vita». Più esattamente è la forma di vita nella quale ognuno si trova a dover decidere e giudicare, e quindi a dover interpretare. Il che comporta sempre l'interpretazione degli altri (presenti, passati e futuri). «L'ermeneutica è l'arte dell'intesa [ .. .] e questa intesa sulle nostre situazioni pratiche e sul da farsi in esse non è una faccenda monologica, bensì ha il carattere del dialogo. Si ha a che fare gli uni con gli altri. La nostra forma di vita ha il carattere dell'Io-Tu, dell'Io-Noi e del Noi-Noi. Nelle nostre cose pratiche dipendiamo dall'intesa. E l'intesa accade nel dialogo» (Ibidem). D'altra parte, «come diceva Kant, non esistono regole che insegnino ad applicare correttamente le regole». E così non esistono regole o «metodi» che ci guidino nelle scelte applicative relative alle scienze della natura e alle nuove tecnologie. L'ermeneutica è, per Gadamer, un modo civile, democratico, urbano e razionale di farsi carico di tali problemi eticamente e socialmente incombenti. Egli per esempio ha scritto: <
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dominio" e tuttavia non è meno importante. Qualcosa che chiamiamo abitualmente "cultura"» (Ibidem). E in effetti l'ermeneutica gadameriana è essenzialmente una teoria e una pratica della cultura, con tutti i meriti e con tutti i limiti che una siffatta formula comporta. Che tale ermeneutica sia perciò anche una «filosofia» dipende dalla estensione e dalla comprensione che si intende dare al termine «filosofia». II
·
GLI
APPORTI
DAL
POST-STRUTTURALISMO
TEORICI
DELLA
CULTURA
AL
FRANCESE:
POST-MODERNISMO
Le radici del panorama teorico francese dei nostri giorni affondano in modo evidente nella grande rivoluzione strutturalistica degli anni sessanta, della quale si è ampiamente occupato il volume VII di quest'opera. Come capita sovente, un po' alla volta quelli che erano stati i protagonisti della svolta strutturalistica presero le distanze da questo movimento, divenuto ai loro occhi troppo generico e troppo ristretto, troppo compromesso con tesi che non si sentivano più di condividere o che forse non avevano mai condiviso, e rivendicarono una loro autonomia di ispirazione e di percorso. 1) Miche! Foucault Il più illustre di questi casi fu quello di Miche! Foucault (1926-84). In un'intervista del 1968, riprodotta in italiano nel libro del 1971, Due risposte sulla epistemologia. Archeologia delle scienze e critica della ragione storica, Foucault chiedeva: «È ancora necessario precisare che io non sono quel che si chiama uno "strutturalista"?» Non si può però dimenticare che nelle prime sue fortunate opere Foucault non disdegnava affatto di inserire la sua ricerca entro l'alveo del fronte strutturalista. Nella Storia della follia nell'età classica (1961), per esempio, leggiamo che intento del lavoro è quello di mettere a nudo «la struttura dell'esperienza della follia». Nella Nascita della clinica. Il ruolo della medicina nella costituzione delle scienze umane (1963) si parla espressamente di uno «studio strutturale». Solo nell'Archeologia del sapere (1969), il testo più espressamente teorico che Foucault abbia scritto, viene indicato con maggiore precisione e rigore sino a che punto le indagini strutturalistiche e quelle «archeologiche» procedano su un terreno relativamente comune e da quale momento in poi, invece, esse divergano. Il rischio, come già si diceva nella Nascita della clinica, era quello che «il ricorso, più volte tentato, all'analisi strutturale, minacciasse di eludere la specificità del problema posto». Questa specificità era quella dello statuto archeologico-evenemenziale degli enunciati, problema che si era imposto in tutta la sua pregnanza solo nel libro Le parole e le cose. Un'archeologia delle scienze umane (1966), che resta l'opera più affascinante e più significativa dell'intera produzione foucaultiana. Il fatto è che non è nemmeno facile precisare l'ambito disciplinare del lavoro di Foucault, il quale, per parte sua, ha sovente rifiutato l'etichetta di «filosofo», rivendicando la sua «archeologia», che grosso modo frequenta quella che oggi si chiama la «storia delle idee», ma in evidente
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polemica nei confronti delle tradizionali metodologie storiografiche e filologiche. E bisogna aggiungere che se Foucault aveva ragione nel difendere la specificità, per non dire unicità, del suo lavoro, che ha infatti il merito di inaugurare un nuovo sguardo sul passato e sui saperi e di collocarsi pertanto al di fuori delle classiche distinzioni disciplinari, per altro verso il suo sfuggire alla qualificazione filosofica era anche un vezzo e un modo per trarsi d'impaccio di fronte a critiche e a problemi di difficile risoluzione. Foucault aveva studiato con Hyppolite all'Ecole Normale Supérieure di Parigi, addottorandosi nel 1960 in filosofia. Di qui la sua evidente familiarità con Hegel, Husserl, Heidegger e soprattutto Nietzsche (Foucault sarà uno dei protagonisti della rinascita nietzschiana in Francia degli anni sessanta). Ma evidente è anche la familiarità di Foucault con la grande tradizione francese dell'illuminismo e del positivismo, sicché la sua archeologia è una originale sintesi di epistemologia positivistica e di genealogia nietzschiana. Dopo anni di insegnamento della filosofia, della storia e della psicologia in Francia e all'estero, accompagnati dalla memorabile collaborazione a riviste come «Critique » e «Te! Quel», Foucault è infine approdato, nel 1970, al Collège de France, sulla cattedra di Storia dei sistemi di pensiero. In quella occasione pronunciò la prolusione !!ordine del discorso. I meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola (1970), testo molto significativo che, a metà del cammino dell'autore, ne riassume e ne reinterpreta gli inizi e ne prospetta gli itinerari futuri, che solo parzialmente Foucault sarà in grado di realizzare. Al centro della prolusione è la questione del discorso «nella sua materialità di cosa pronunciata o scritta». Anziché provenire dal soggetto ed esserne l'espressione intenzionale, il discorso ha una realtà, una vita e un tempo propri, entro i quali il soggetto «si accomoda», più come una lacuna, una mancanza, che non una presenza a sé. «Ma che c'è dunque di tanto pericoloso nel fatto che la gente parla e che i suoi discorsi proliferano indefinitamente? Dov'è dunque il pericolo?», chiede Foucault. La risposta è che nel discorso sono in gioco il desiderio e il potere, donde gli innumerevoli meccanismi di controllo, le procedure di garanzia e di divieto che accompagnano storicamente il discorso e che così facendo disegnano variamente lo statuto dei soggetti. Sessualità e politica, ragione e follia, discorso vero e discorso falso vengono indicati come i campi entro i quali inseguire le peripezie del discorso. Particolarmente significativo il terzo, nel quale prende corpo quella «volontà di verità» che caratterizza l'impresa filosofico-scientifica dalle sue origini greche sino ai nostri giorni e che Nietzsche per primo sottopose all'istanza genealogica del sospetto. Sospetto verso quel discorso della verità che si pone come giustificazione ultima e fondazione di tutti i discorsi. Proprio di questa verità, infatti, è ciò di cui si parla meno, « come se per noi la volontà di verità e le sue peripezie fossero mascherate dalla verità stessa nel suo necessario svolgimento. E la ragione è forse questa: se il discorso vero non è più in effetti, dai greci, quello che risponde al desiderio o quello che esercita il potere, che cos'è dunque in gioco nella volontà di verità, nella volontà di 37
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dirlo, questo discorso vero, se non il desiderio e il potere? Il discorso vero, che la necessità della sua forma affranca dal desiderio e libera dal potere, non può riconoscere la volontà di verità che lo attraversa; e la volontà di verità, quella che si è imposta a noi da moltissimo tempo, è siffatta che la verità ch'essa vuole non può non mascherarla » (I: ordine del discorso). Di qui il progetto di studiare quella partizione storica che, a partire dai sofisti, ha dato nascita alla filosofia, partizione che «ha senza dubbio dato la forma generale che le è propria alla nostra volontà di sapere». La natura di questa partizione ha colpito il discorso in modo che ciò che era e faceva il discorso è divenuto secondario rispetto a ciò che esso diceva: «un giorno è venuto in cui la verità si è spostata dall'atto ritualizzato, efficace e giusto, d'enunciazione, verso l'enunciato stesso: verso il suo senso, la sua forma, il suo oggetto, il rapporto con la sua referenza. Tra Esiodo e Platone si è stabilita una certa partizione che ha separato il discorso vero e il discorso falso; partizione nuova perché ormai il discorso vero non è più il discorso prezioso e desiderabile, poiché non è più il discorso legato al potere. Il sofista è cacciato» (Ibidem). Ora, non è senza importanza notare che proprio questo progetto di ricerca è quello che Foucault ha disatteso e lasciato completamente nel silenzio. Apparentemente per il sovrapporsi contingente di altri interessi; in realtà perché di fronte al tema della verità l'intero procedimento archeologico foucaultiano non può che naufragare e mettere a nudo la sua intima, e peraltro feconda, contraddizione. Rivelando quegli eventi di discontinuità che fanno sorgere i discorsi e li rendono «storici» (ciò per cui, come disse significativamente Foucault, «non ogni cosa può venir detta in ogni tempo»), resta da chiarire a quale evento è connessa la pratica di questa rivelazione stessa, la pratica archeologica: ciò che appunto un discorso non può dire senza uscire da sé e diventare un altro discorso. Sicché la verità e il senso del discorso foucaultiano infine si sottraggono: non è possibile dire in che modo esso sarebbe «più vero» di un altro discorso (per esempio di quello storiografico o di quello filosofico); o, se non «vero», in che consista la sua produttività di senso. A tutto ciò Foucault non era in grado, e nemmeno desideroso, di rispondere. Avrebbe dovuto approfondire quegli aspetti ermeneutici del pensiero contemporaneo dai quali si tenne ben lontano (di qui la sua difficoltà a rispondere alle critiche di Derrida); avrebbe dovuto comprendere che la nascita del « discorso vero», legato al contenuto del suo dire e non alla materialità sociale del suo evento, dipendeva a sua volta dalla materialità dell'avvento della decontestualizzazione della parola orale resa possibile dalla trascrizione alfabetica, laddove l'intero impianto della teoria foucaultiana degli enunciati è condotto in modo da trascurare la differenza tra discorso orale e discorso scritto. Questi rilievi critici non tolgono naturalmente nulla alla straordinaria novità e geniale fecondità delle indagini foucaultiane, il cui significativo atto di nascita è rappresentato dalla lunga Introduzione del 1954 al libro di Binswanger Il sogno e l'esistenza. Qui il tema del sogno, e più in generale dell'immaginario, costituisce il primo
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luogo di partizione rispetto alla ragione e alla storia: spazio originario di differenza che è nel contempo, come poi tutti gli altri «a priori» foucaultiani, empirico e trascendentale. Empirico perché caratterizzato dalla gravezza materiale del suo evento. Trascendentale perché è solo a partire dalla sua rimozione che la luce della ragione e della storia si stabiliscono, impongono il dominio della loro realtà, scavata «in assenza», cioè sulla vanificazione dell'immaginario, ridotto al non reale e al «vano». Di qui la critica della psicoanalisi e della fenomenologia: entrambe dicono, a loro modo, la verità del sogno, ma non dicono e non possono dire la verità dal sogno. La ragione non può dire ciò che è vero o non vero del sogno, poiché può affermarlo solo a partire dal sogno, cioè dal momento in cui l'esperienza dell'immaginario viene assunta appunto come esperienza del fantastico, dell'irreale, dell'onirico, e cioè del non vero. È questo gesto di esclusione e insieme di instaurazione il grande tema archeologico di Foucault, inseguito nella Storia della follia attraverso il binomio ragione-sragione. A partire dal Rinascimento, Foucault riesuma e documenta, attraverso una sagace indagine documentaria, la progressiva emarginazione, istituzionalizzazione e patologicizzazione della follia, un tempo connessa all'esperienza del sacro e alla divina mania. La sragione viene ridotta al silenzio dalla parola della ragione e l'intento di Foucault è appunto quello di «fare l'archeologia di questo silenzio». Più in generale il suò scopo è quello di denunciare gli aspetti coercitivi, violenti, autoritari della ragione moderna. Il suo lavoro è per questo aspetto vicino, come è stato notato, alla critica dell'Illuminismo avanzata dalla scuola di Francoforte. Nella Nascita della clinica è la medicalizzazione del corpo umano e delle sue patologie a divenire oggetto di indagine archeologica, mentre in Sorvegliare e punire (1975) il tema è quello della nascita delle istituzioni carcerarie. Tutte queste indagini hanno al centro la costituzione dell'uomo come oggetto recente del sapere e come « invenzione » delle scienze umane che Le parole e le cose indagano nella loro genesi, articolata attraverso la costituzione correlativa dei saperi dell'economia, della biologia, della linguistica e dell'antropologia. Né l'uomo, né la vita, né il lavoro o il linguaggio, dice Foucault, esistevano nel XVII e nel XVIII secolo; la loro esistenza epistemica comincia quando essi divengono oggetti da sapere e da normalizzare; ed è probabile che l'archeologia, rendendosene oggi conto, preannunci una « morte dell'uomo» prossima e ventura. In seguito l'interesse di Foucault per il problema del potere si incentra sempre più sul suo aspetto politico (Micro/isica del potere. Interventi politici, I9?I-?6). L'originalità della sua indagine sta qui nell'accantonare i luoghi tradizionali che sono oggetto della riflessione politica, per snidare la costituzione delle pratiche di potere nelle sue microstrutture; cioè in quella rete di strategie (di discorso e di connesse pratiche materiali che sempre si annodano negli enunciati caratterizzanti ogni tempo storico concreto) «che nei fatti attraversa i corpi, produce delle cose, induce del piacere, forma del sapere, produce discorsi». Il potere non è più confinato nelle grandi astrazioni generalizzanti delle istituzioni o della volontà repressiva di individui o classi sociali; sin dall'inizio, del resto, Foucault si 39
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era mosso in palese opposizione al marxismo umanistico e fenomenologico di Sartre, in fondo per rivendicare un tipo di materialismo non umanistico e non storicistico che ha ancora in Marx un suo elemento di ispirazione. Il potere è una prassi anonima che invade i corpi e le relazioni degli individui, a qualunque livello della scala sociale e in ogni contesto pubblico e privato della vita di relazione. Anche i facchini vogliono i loro ammiratori, diceva Nietzsche, e Foucault non se ne è dimenticato. Infine l'ultimo lavoro di Foucault si concentra sulla sessualità, con un'indagine abbozzata, ma non terminata, in una grande trilogia (Storia della sessualità: vol. I, La volontà di sapere, 1976; vol. II, I.:uso dei piaceri, 1984; vol. III, La cura di sé, 1984). Qui il tema viene trattato sulla base dell'etica antica e con l'intento, tra gli altri, di sfatare gli ingenui miti contemporanei della «liberazione» sessuale e della non violenza. Invero la ricerca sulla sessualità, proprio per l'uso molto discutibile delle fonti antiche che mal si prestano a un trattamento «archeologico» di tipo foucaultiano, ha suscitato non poche perplessità. Essa resta come testimonianza della inesausta domanda di Foucault relativa alla genealogia della soggettività e al suo intreccio costitutivo con l'esperienza del corpo e con i saperi che da sempre in vario modo lo «normalizzano». Al fondo emerge l'esigenza «ideologica», se così si può dire, di «promuovere nuove forme di soggettività, rifiutando il tipo di individualità che ci è stato imposto per tanti secoli». L'esigenza, cioè, di testimoniare a favore del «diverso», di ciò che è stato emarginato dalla ragione trionfante e dai suoi miti fondatori (la natura, la storia, la coscienza, il lavoro, ecc.), esigenza che non ha smesso di sollecitare, dall'inizio alla fine, la ricerca di Foucault. 2) Il pensiero della dz//erenza
L'intero ambito del contributo che Foucault ha di fatto offerto alle idee filosofiche degli ultimi decenni può essere legittimamente caratterizzato dal tema della « differenza», tema centrale per il pensiero del nostro secolo, che lo ha ereditato dall'entrata in crisi della metafisica sin dal tempo di Kant e di Hegel (la differenza tra fenomeni e cose in sé, poi dialettizzata dall'idealismo classico come differenza tra spirito e natura) e sin dal tempo di Nietzsche, che si può considerare come il primo pensato re che consapevolmente iscrive la differenza in un pensiero dell' assenza, della rimozione, della scomparsa di ogni possibile originario e di ogni possibile istanza fondatrice. Di qui lo deriva Heidegger, che, nell'età contemporanea, è il massimo rappresentante di un pensiero della differenza (a cominciare dalla fondamentale «differenza ontologica » tra essere ed ente che caratterizza la «gettatezza » esistenziale dell'essere nel mondo da parte dell'uomo). Nella cultura francese il pensiero della differenza si impone a partire dalle lezioni famose di Kojève sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel, letta in chiave esistenzialistica, lezioni che, come si sa, ebbero quali uditori molti futuri protagonisti della cultura francese (Bataille, Lacan, Queneau, Merleau-Ponty, Caillois, Blanchot e altri ancora). Ora, entro la cifra del pensiero della differenza, alla quale abbiamo ricondotto testé Fou-
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cault, si sono mossi altri quattro esponenti di massimo rilievo del pensiero degli ultimi decenni: Blanchot e Deleuze, e poi Lévinas e Derrida, nei quali l'origine ebraica è fonte di non secondaria ispirazione. Di essi è Blanchot, in certo modo, il motore nascosto di molte vicende del recente pensiero, l'ispiratore di molte strade e avventure la cui origine è per lo più rimasta nascosta agli occhi del grande pubblico e anche della storiografia specialistica, ma i cui esiti hanno camminato a fondo e a lungo attraverso l'opera degli amici e degli interlocutori privati di questo singolare personaggio. Il che è accaduto principalmente per due motivi. Anzitutto per la natura particolare dell'opera di Blanchot, divisa tra letteratura, saggistica e filosofia, in un intreccio spesso indefinibile e indiscernibile secondo il tradizionale criterio di divisione dei generi letterari; Blanchot, perciò, è rimasto molto più consegnato alla qualifica di «scrittore» che non a quella di filosofo (cosa che, in ultima analisi, non deve essergli spiaciuta affatto). In secondo luogo perché Blanchot si è sempre rifiutato di assumere incarichi di insegnamento o altri impegni istituzionali, esiliandosi da sé da ogni rapporto diretto con le università e preferendo vivere isolato, il che naturalmente non ha favorito la sua fama e diffusione accademica. Resta il fatto che gli itinerari di pensiero di Blanchot sono tra i più originali del nostro tempo e che molte delle idee che i più ritengono una personale conquista di Derrida e di Lévinas hanno in Blanchot il loro primo formulatore e ispiratore. a) Maurice Blanchot. Nato nel 1907, Blanchot esordisce come scrittore a partire dall'esperienza surrealista, per poi avvicinarsi alle tema ti che dell'esistenzialismo, e si impone come saggista con l'opera Lo spazio letterario (1955). Questo spazio non è nulla di estetico, nella sua origine. Il suo riferimento è piuttosto alla esperienza paradossale della pratica di scrittura e della soggettività dello scrittore. La scrittura è pensata da Blanchot come il rimosso del pensiero filosofico, che l'ha camuffata e ridotta a puro strumento e mezzo del pensiero interiore e della voce autoriflessa. In quanto rimosso, essa non sta però sullo stesso piano del suo antagonista (la voce, la parola parlata e consapevole); il suo luogo è appunto quello che Foucault disegnava per i suoi a priori. C'è qui una disuguaglianza e una differenza essenziale che è insieme la differenza rispetto al pensiero dialettico di Hegel (e prima ancora di Platone). In Hegel gli opposti si oppongono entro un'unità implicita che li comprende (e che il cammino del concetto renderà esplicita, «risolvendo» la contraddizione). Invece tra ragione e sragione non vi può essere, diceva Foucault, né unità né continuità, perché il primo termine si afferma attraverso la riduzione del secondo al silenzio, riduzione che si ottiene subordinandolo alla propria unità di misura. Questa dialettica della differenza irriducibile è appunto ciò che caratterizza lo spazio letterario in Blanchot: non qualcosa che si oppone dialetticamente al discorso parlato, alla sua « positività », ma una zona impossibile, impensabile, impraticabile, e però sempre attraversata come esperienza-limite dall'atto stesso di scrittura, il quale dissocia l'io dello scrittore dal proprio sé. Nella traccia della scrittura emerge una 41
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soggett1v1ta senza soggetto, un « io » senza « me » che esperisce in sé la sua stessa differenza e alterità. Questa esperienza-limite è ciò che Blanchot chiama il « neutro» e che tematizza sia in forma filosoficamente riflessiva, sia letterariamente creativa. Il neutro è l'opaca presenza innominabile; è ciò che «c'è» prima di ogni rappresentazione e interpretazione; è l'essere anonimo del quale non ci si può mai liberare, dal quale non si può uscire o sfuggire: maledizione e condanna di una sorta di eternità dell'esistere, senza liberazione e senza scampo, poiché ogni liberazione comunque lo presuppone. Il neutro è quell'immediato che, dal punto di vista del concetto e del senso, Hegel dichiarava essere insensato e vuoto, sicché di esso non c'è nulla da dire e niente da pensare. E che però è indispensabile al pensiero. Il neutro, dice Blanchot, è « ciò che non rientra in alcun genere: il non generico, il non particolare»; perciò è l'indefinibile e l'esterno rispetto a ogni categoria. Esso, ha scritto Rocco Ronchi, «è ciò che precede l'apparizione del senso, ciò che il senso per costituirsi ha dovuto "uccidere" e che, come tutti i morti di morte violenta, ritorna fantasmaticamente a funestare i vivi, a disfare le loro opere. Non semplice notte, dunque, ma incubo che agita la notte, insonnia che disfa il "lavoro" del sonno, escludendo ogni possibilità di riposo. [. .. ] La grandezza del pensiero freudiano consiste proprio, per Blanchot, nell'aver colto questo movimento di rimozione e di ritorno fantasmatico del rimosso come costitutivo della vita dell'io». Sulla base di questa traccia Blanchot costruisce le sue raffinate raccolte saggistiche (Il libro a venire, 1959; I.:amicizia, 1971; La scrittura del disastro, 198o; La comunità incon/essabile, 1983), sino a quello che è il suo capolavoro: L'infinito intrattenimento. Scritti sull'insensato gioco di scrivere (1969). Qui Blanchot, sotto un'evidente ispirazione nietzschiana, rivisita i miti fondatori dell'Occidente (Edipo e la sfinge, Apollo e Admeto) e muove al pensiero dialogico della filosofia un'abbiezione radicale e inquietante, che purtroppo né Apel, né Habermas, né Gadamer, né quanti altri si affidano oggi al dialogo per fondarvi la verità logica o morale, hanno avuto la ventura di comprendere o di conoscere. Anzitutto, dice Blanchot, il dialogo, questo espediente col quale Socrate tentò di cancellare e dominare la differenza, presuppone la trasparenza della parola e l'uguaglianza dei parlanti: «paradiso dell'idealismo dignitoso». In realtà il dialogo è una struttura di potere, il suo statuto è «politico» (è l' obbiezione rivolta da molti ad Apel, a Habermas, ecc. ed è, come sappiamo, una direzione essenziale del lavoro di Foucault); nella realtà si dialoga sempre a partire da una differenza e da una disuguaglianza di fatto (sapiente-ignorante, vecchio-giovane, uomo-donna, ricco-povero, maestro-discepolo e così via). Ma il punto essenziale non è questo. Il punto è che alla parola dialogica mancherebbe in ogni caso qualche cosa di essenziale, poiché essa nasconde la differenza. Quale differenza? Non la differenza tra i parlanti. Rispondere in questo modo e porre questo problema significa aver già cancellato o nascosto quella differenza originaria che rende possibile sia il dialogo, sia la differenza tra i parlanti: quella differenza che rende parlanti i parlanti, quella differenza che «accade» tra loro ponendoli in comu42
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nicazione nella loro differenza relativa. «Una differenza - scrive Blanchot - che nulla deve significare, nulla può livellare e che da sola misteriosamente rende parlanti le due parole, tenendole separate e mantenendole insieme solo con questa separazione». Differenza della parola dal suo evento, che è insieme il suo neutro, il suo innominabile, il suo «che c'è» non ulteriormente «addomesticabile». E proprio di questo, del resto, si tratta nel mito di Edipo, che crede di poter ridurre l'enigma della sfinge a una questione di «sapere» (sapere «antropologico» che definisce l'uomo come quell'animale che da bambino cammina a quattro zampe, da adulto con due e da vecchio con tre). La riposta di Edipo è «esatta»; ciò che è destinato a perderlo non è il suo contenuto, ma l'atto stesso dell'aver risposto, dell'aver creduto di poter accogliere l'istanza pre-umana, «bestiale», della sfinge entro la parola e il dialogo e lì di risolverla, come se il desiderio si lasciasse normalizzare dal discorso e placare dalla instaurazione del politico. È così che Edipo, uccisa la sfinge (lo stato di natura), entra trionfalmente nella città (fonda la cultura e la civiltà), seminandovi inconsapevolmente la peste (il politico): poiché ora il bestiale, il mostruoso, che la risposta ha rimosso, egli lo cela entro di sé. La domanda della sfinge, scrive Blanchot, «è scomparsa nell'uomo che la porta e in quella stessa parola - l'uomo che costituisce la risposta. Con la sua risposta umana, Edipo ha attirato nella domanda dell'uomo l'orrore stesso a cui voleva metter fine. Ha saputo rispondere, certo, ma questo sapere non fa che riaffermare la sua ignoranza di se stesso, anzi è stato reso possibile solo da questa profonda ignoranza. Edipo conosce l'uomo come domanda d'insieme perché ignora - ignorando di ignorarlo - l'uomo come domanda profonda. Da una parte raggiunge la chiarezza astratta, quella dello spirito, ma dall' altra concretamente sprofonda nell'abominevole ignoranza della sua profondità. Più tardi, troppo tardi, per tentare di riconciliare chiarezza e oscurità, sapere e ignoranza, .visibile e non visibile, le due regioni avverse della domanda, si strapperà gli occhi» (l} infinito intrattenimento. Scritti sull'insensato gioco di scrivere). b) Gilles Deleuze. Se c'è stato nel nostro tempo un pensatore della differenza nel senso più «puro» del termine, questi è certamente Gilles Deleuze (1925-95), sebbene i suoi percorsi, il suo tipico « nomadismo » (come è stato più volte definito), presentino contaminazioni molto «impure» della filosofia con il cinema, la pittura, la letteratura, la psicoanalisi e altro ancora. Allievo alla Sorbona di F. Alquié, G. Canguilhelm e J. Hyppolite e poi amico di Foucault, cui succede nel 1969 sulla cattedra di Paris-Vincennes, Deleuze ha tratto da Nietzsche le più estreme e coerenti conseguenze teoretiche. In questo senso si può dire che il libro del 1962 Nietzsche e la filosofia costituisce la via di accesso più diretta e più intima per penetrare nel pensiero di Deleuze. Il centro di questo libro è senza dubbio l'analisi dedicata al corpo e alle forze attive e reattive. Vi compaiono subito altri due autori che hanno segnato profondamente la ricerca deleuziana, Spinoza e Freud. Scrive Deleuze: « Spinoza apriva alle scienze e alla filosofia una nuova strada, quando osservava che 43
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noi non sappiamo nemmeno quale sia il potere del corpo. Parliamo della coscienza e dello spirito, facciamo tante chiacchiere su tutto questo, e non sappiamo di che sia capace un corpo, quali forze possieda e che cosa esse preparino. Nietzsche sa che è giunta l'ora: "Noi siamo al punto che la coscienza diventa cosa modesta ... forse in ogni sviluppo dello spirito si tratta unicamente del corpo". Che cos'è la coscienza? Come Freud, Nietzsche pensa che la coscienza sia la regione dell'io a contatto col mondo esteriore. [ ... ] La coscienza non è mai coscienza di sé, ma coscienza di un io in rapporto a un sé che non è cosciente. Essa non è coscienza del padrone, bensì coscienza dello schiavo in rapporto a un padrone che non ha da essere cosciente». Ora, rispetto a questo «padrone» non si tratta, per Deleuze, né di convertirlo, né di negarlo, né di « superarlo ». Sino a quando la filosofia è «presa di coscienza dialettica», essa permane sotto il segno del platonismo, e di quella sua versione «popolare», come diceva Nietzsche, che è il cristianesimo. Poco importa che la negazione conduca a una prospettiva spiritualistica piuttosto che materialistica, oppure viceversa: siamo sempre nell'ambito di quel dualismo cartesiano che Spinoza ci ha insegnato a rifiutare. Analogamente poco importa essere hegeliani di destra o di sinistra. Il messaggio di Nietzsche è al di là di queste partizioni. Il problema rivoluzionario, disse una volta Deleuze, del quale sono note le simpatie per il maggio francese, è quello di come riuscire a fare a meno dell' apparato di partito e di ogni altra dispotica macchina da guerra pur continuando a condurre una lotta contro lo stato e la sua burocrazia. Nietzsche, proseguiva Deleuze, ha fatto del pensiero «una potenza nomade ... dobbiamo chiederci quali sono oggi i nostri nomadi, chi sono veramente i nostri nietzschiani ». Fare del pensiero una potenza nomade significa anzitutto rifiutare la filosofia come pensiero della rappresentazione, della dualità risolta nella unità dialettica del concetto (nel senso di Platone e di Hegel), aprendo invece la strada a un effettivo pensiero della differenza. È in tale prospettiva che vanno letti i contributi « storiagrafici» di Deleuze (Empirismo e soggettività. Saggio sulla natura umana secondo Hume, 1953; La filosofia critica di Kant, 1963; Il bergsonismo, 1966; Spinoza e il problema dell'espressione, 1968; Spinoza. Filosofia pratica, 1970; La piega. Leibniz e il Barocco, 1988). In tutti questi studi, è stato osservato, Deleuze «si infiltra nella storia della filosofia per seminare disordine. Le opere che egli studia, i filosofi che indaga alla sua maniera, prendono una luce inattesa, al tempo stesso fedele e deformata». Movente essenziale, per Deleuze, è quello di denunciare il carattere nichilistico della filosofia, in quanto essa perviene al positivo solo tramite la negazione. Negazione e negazione della negazione: ecco, da Platone in poi, la legge dello spirito e del concetto, i quali allora non possono che terminare in una negazione della vita e del reale, come aveva compreso Nietzsche. Per questo Deleuze privilegia, nelle sue ricostruzioni storiche, il materialismo (Lucrezio), il panteismo (Spinoza), l'empirismo (Hume), il molteplice delle facoltà irriducibili all'unità (Kant), il vitalismo (Bergson) e così via. In ogni caso si tratta di rivendicare il movimento, il divenire 44
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nella sua innocenza, il pluralismo e la dispersione delle sostanze, il differire senza legge e senza origine; si potrebbe dire, parafrasando Hegel alla rovescia, «l'immane potenza del positivo». Il fuoco teoretico di tutti questi percorsi trova la sua trattazione esemplare in Differenza e ripetizione (1968), il capolavoro di Deleuze e una delle opere teoriche più acute del nostro secolo, e in Logica del senso (1969), dove la prima opera procede secondo la forma ancora tradizionale del trattato, mentre la seconda si snoda molto più liberamente in una serie di percorsi, di «serie», che disegnano un mosaico idealmente convergente verso un punto invisibile e ineffabile. «Immaginiamo - ha scritto Foucault nella Introduzione di Differenza e ripetizione - un'antologia in cui l'essere si dica, nello stesso modo, di tutte le differenze, e solo delle differenze; allora le cose non sarebbero tutte ricoperte, come in Duns Scoto, dalla grande astrazione monocolore dell'essere, e i modi spinoziani non girerebbero attorno all'unità sostanziale; le differenze girerebbero a loro volta, l'essere dicendosi, nello stesso modo, di tutte, in quanto l'essere non è affatto l'unità che le guida e le distribuisce, ma la loro ripetizione come differenze». li riferimento di Deleuze al pensiero nietzschiano dell'eterno ritorno è qui evidente: nel ritorno «eterno» la differenza si sottrae all'origine, non ha origine (non ha capo né coda), non ha principi primi né ultimi, e si afferma solo in quanto il suo ripetersi è il suo continuare a differire. «Il primato dell'identità - scrive Deleuze - definisce il mondo della rappresentazione. Ma il pensiero moderno nasce dal fallimento della rappresentazione, come dalla perdita delle identità, e dalla scoperta di tutte le forze che agiscono sotto la rappresentazione dell'identico. Il mondo moderno è il mondo dei simulacri. In esso l'uomo non sopravvive a Dio, l'identità del soggetto non sopravvive a quella della sostanza. Tutte le identità non sono che simulate, prodotte come un effetto "ottico", attraverso un gioco più profondo che è quello della differenza e della ripetizione. Noi vogliamo pensare la differenza in sé, e il rapporto del differente col differente, indipendentemente dalle forme della rappresentazione che li riconducono allo Stesso e li fanno passare per il negativo». E ancora: «Il nostro problema riguarda l'essenza della ripetizione. Si tratta di sapere perché la ripetizione non si lascia spiegare con la forma di identità nel concetto o nella rappresentazione, in che senso essa esiga un principio "positivo" superiore», cioè una «forza» espressa nella sua «volontà di potenza». Principio positivo che peraltro non si lascia dire, come è evidente, dal concetto, ma al più alludere. Venuta meno l'analogia dell'essere, in base alla quale gli essenti sono predicati e detti, sono piuttosto essi a ripartirsi « nomadicamente » e « anarchicamente » in uno spazio dell'essere aperto a ogni forma e solo in tal senso «univoco». Ma a tale univocità è lecito riferirsi «soltanto là dove si è raggiunto il punto estremo della differenza. Solo allora è possibile una sola e stessa voce per tutto il multiplo delle infinite vie, un solo e stesso Oceano per tutte le gocce, un solo clamore dell'Essere per tutti gli essenti. Ma occorre che per ogni essente, per ogni goccia e in ogni via, si sia toccato lo stato di eccesso, cioè la dif45
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ferenza che li sposta e traveste, e li fa tornare, ruotando sulla sua mobile estremità». Proprio questo movimento è al centro di Logica del senso che si organizza in 34 percorsi o serie, seguiti da tre appendici, tutti indirizzati alla denuncia della paradossalità irresolubile del pensiero dialettico e di ogni opposizione. Per esempio Deleuze mostra, come già intuirono gli stoici, che l'attributo «non designa nessuna qualità reale. Al contrario è sempre espresso da un verbo; e ciò vuoi dire che è non un essere bensì una maniera di essere che si trova in qualche modo al limite, alla superficie dell'essere di cui non può cambiare la natura. Maniera di essere né attiva né passiva; la passività infatti supporrebbe una natura corporea che subisse un'azione. Essa è quindi puramente e semplicemente un risultato, un effetto che non è da classificare tra gli esseri». Abbiamo così due piani dell'essere: «da un lato l'essere profondo e reale, la forza; dall'altro il piano dei fatti che avvengono alla superficie dell'essere e costituiscono una molteplicità senza fine di esseri incorporei». In Platone, dice Deleuze, l'opposizione tra i due piani dell'essere generava un oscuro conflitto che avveniva nella profondità delle cose, nella profondità della terra, tra ciò che si sottometteva all'azione dell'idea e ciò che si sottraeva a tale azione, come copia e simulacro. «In Platone però questo qualcosa non era mai abbastanza sepolto, rimosso, respinto nella profondità dei corpi, annegato nell'oceano. Ecco ora che tutto risale alla superficie [ ... ] negli stoici il divenire-folle, il divenire-illimitato non è più un fondo che brontola, risale alla superficie delle cose e diviene impassibile». Attraverso il riferimento agli stoici Deleuze mette a fuoco quei meri «effetti di superficie» che egli definisce simulacri. I simulacri «cessano di essere questi ribelli sotterranei, fanno valere i loro effetti». Ciò che era sepolto «diviene il più manifesto» e allora «i vecchi paradossi del divenire devono riprendere figura in una nuova giovinezza-trasmutazione ». L'evento dell'essere diviene perciò uno e infinitamente divisibile; gli effetti tolgono la causa divenendo essi stessi quasi-cause; passato e futuro dividono all'infinito ogni presente fornendo due letture simultanee del tempo. Già in Logica del senso la psicoanalisi è resa oggetto di una critica radicale. Nel 1969 l'incontro di Deleuze con lo psichiatra e psicoanalista Félix Guattari apre la via a una fruttuosa collaborazione che mette capo a I.:anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (1972), seguito da Kafka. Per una letteratura minore (1975) e Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, 2 voli., (1980). I due autori mirano al cuore della teoria psicoanalitica dell'inconscio, letto non come un effetto di repressione a partire dalla Legge (la legge del padre in quanto proibizione di desiderare la madre), ma come un'istanza in sé affermativa. Il desiderio non è più interpretato come un effetto della sua interdizione, ma come affermazione positiva in se stessa, « macchina desiderante». Ne deriva che l'operazione freudiana viene interpretata e criticata come una istanza parallela e solidale all'opera sociale e familiare di canalizzazione del desiderio, opera il cui fine è quello di spogliare il desiderio di ogni forza sovvertitrice. Nella critica a Freud vengono così coinvolti i tentativi di coniugare marxismo e psi-
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coanalisi (Reich, Fromm, Marcuse), nonché la lettura strutturalistica della legge del significante intrapresa da Lacan, e infine alcuni aspetti dell' antipsichiatria contemporanea che, anziché criticare alla radice la repressione familiare, immagina una famiglia universale allargata, confortevole e protettiva. Questa blanda opposizione al capitalismo non giunge a individuare e a definire la schizofrenia che è propria di una società capitalisticamente organizzata. Il tema ritorna in Mille piani, dove alla critica alla psicoanalisi subentra un tentativo di proposta positiva che ha nella nozione di « rizoma » il suo tratto caratteristico. «Un rizoma - scrivono gli autori - può essere rotto, spezzato in un punto qualsiasi, riprende seguendo questa o quella delle sue linee e seguendo altre linee. Non è mai finita con le formiche, perché formano un rizoma animale di cui la maggior parte può essere distrutta senza che esso smetta di ricostituirsi. Ogni rizoma comprende linee di segmentarità a partire dalle quali è stratificato, territorializzato, organizzato, significato, attribuito, ecc.; ma anche linee di deterritorializzazione per mezzo delle quali sfugge incessantemente. Vi è rottura nel rizoma ogni volta che linee segmentarie esplodono in una linea di fuga, ma la linea di fuga fa parte del rizoma. Queste linee continuano a rinviare le une alle altre. Per questo non può mai darsi un dualismo o una dicotomia, anche sotto la forma rudimentale del buono e del cattivo. Si produce una rottura, si traccia una linea di fuga, ma si rischia di ritrovare su di essa organizzazioni che ristratificano l'insieme, formazioni che ridiano il potere a un significante, attribuzioni che ricostituiscano un soggetto - tutto ciò che si vuole, dalle risorgenze edipiche fino alle concrezioni fasciste. I gruppi e gli individui contengono microfascismi che chiedono solo di cristallizzare. Sì la gramigna è anche rizoma. Il buono e il cattivo non possono essere che il prodotto di una selezione attiva e temporanea, da ricominciare» (Mille piani, 1982). È evidente qui la vicinanza di Deleuze alla microfisica del potere elaborata da Foucault. Restano da ricordare i tentativi acuti e originali di Deleuze volti a «scrivere la pittura» (Francis Bacon: logique de la sensation, 2 voll., 1981) e a descrivere l'« immagine-movimento» che caratterizza il cinema e il suo «rendere il pensiero immanente all'immagine» (Cinema l. I: immagine-movimento, 1983; Cinema 2. L'immagine-tempo, 1985); nonché il contributo di Deleuze alla letteratura interrogata a partire dallo sguardo problematico della filosofia (Marcel Proust e i segni, 1964; Presentazione di Sacher-Masoch, 1967; Pourparlers, 1990). E infine il ritratto dedicato a Foucault (1986) e l'ultima collaborazione con Guattari (Che cos'è la filosofia?, 1991), che ha l'ambizione di una sostanziale chiusura di conti con la tradizione e insieme di una nuova apertura del pensiero. c) Emmanuel Lévinas. Se Deleuze porta il tema della differenza entro le radici stesse del pensiero metafisica, così da « sterrarle » (come diceva Nietzsche) e da metterle a nudo in tutti i loro paradossi, Emmanuel Lévinas (1905-95) porta la differenza decisamente al di là della metafisica e di tutta la tradizione filosofica occi47
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dentale, opponendo all'« antologia», da Aristotele a Hegel e a Heidegger, un'etica radicale in cui l'ispirazione della tradizione ebraica è palese e dichiarata. Originario della Lituania, ma naturalizzato francese nel 1930, a partire dal 1928 Lévinas segue i corsi di Heidegger a Friburgo e studia Husserl, il cui pensiero ha il merito di essere tra i primi a diffondere in Francia. Internato, durante la guerra, in. un campo di concentramento, collabora in seguito con Jean Wahl e col suo «Collegio filosofico» e dirige la Scuola Normale Israelita, per insegnare poi all'università di Parigi-Nanterre e, dal 1973, alla Sorbona. La fama di Lévinas ha messo parecchio tempo a diffondersi al di là della ristretta cerchia degli specialisti e degli studiosi della fenomenologia. Sino alla pubblicazione di Totalità e infinito (1961), che, assieme ad Altrimenti che essere o al di là dell'essenza (197 4), è la sua opera teorica più importante, Lévinas era noto solo nell'ambito degli studi fenomenologici per il libro di trent'anni prima La teoria dell'intuizione nella fenomenologia di Husserl (1930); libro effettivamente pionieristico che ha segnato gli studi husserliani in Francia, così come il successivo Scoprire l'esistenza con Husserl e Heidegger (1949). Tuttavia Lévinas aveva cominciato a esprimere il suo personale modo di trarre ispirazione dagli studi fenomenologici ed esistenzialistici per seguire un proprio originale cammino di ricerca già nei libri Dall'esistenza all'esistente (1947) e Il tempo e l'altro (1949). Ciò che Lévinas cercava nella fenomenologia di Husserl era una «via concreta», e non soltanto teorica, per la soluzione del problema dell'esistenza. Concreto appariva a Lévinas l'invito husserliano di «tornare alle cose stesse» tramite un'intuizione vivente che sormontasse sia il procedere astrattamente analitico della scienza, sia le totalizzazioni intellettualistiche del pensiero dialettico hegelomarxiano. Come ha notato Pier Aldo Rovatti, è evidente nel primo Lévinas l'influenza di Bergson, che è stata effettivamente più profonda di quanto si creda o si sappia. Ma accanto a ciò è certo ancora più decisiva l'influenza di Heidegger. Lévinas ha incarnato in modo emblematico quel momento delicato di passaggio dalla fenomenologia all'esistenzialismo che poi è stato codificato come un fatto evidente e indiscutibile. In realtà tra la fine degli anni venti e l'inizio degli anni trenta Heidegger era semplicemente l'allievo prediletto di Husserl e Essere e tempo un contributo fenomenologico che Husserl aveva fatto stampare nella collana da lui diretta. Si andava a Friburgo per studiare con Husserl e con Heidegger, che aveva ereditato la cattedra del maestro quando questi era andato in pensione. Ciò che si chiamò in seguito esistenzialismo venne dapprima percepito come una variante della fenomenologia, come una sua applicazione originale che in qualche punto si discostava palesemente dalla impostazione canonica e ortodossa della fenomenologia, senza peraltro rinnegarla, sicché si continuò ancora a lungo (in particolare e per esempio negli Stati Uniti) a richiamarsi alla fenomenologia e all'esistenzialismo come alla filosofia di Husserl e Heidegger. Lévinas (come del resto Sartre e Merleau-Ponty) attraversò personalmente il travaglio del distacco critico dell'esistenzialismo dalla fenomenologia e in sostanza fece sue alcune delle critiche che Heidegger veniva sollevando a Husserl,
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seppure sempre in modo indiretto, poiché non ci fu mai una polemica pubblica e palese tra i due filosofi. Lévinas condivide il rifiuto heideggeriano della dottrina husserliana della sospensione del giudizio o epoché. Si tratta infatti di un gesto e di una decisione interamente teorici, e perciò astratti, e non di qualcosa che si radichi nella concreta esperienza esistenziale e storica del filosofo. La pretesa fenomenologica di assumere un punto di vista distaccato e «puro» a partire dal quale descrivere «oggettivamente» l'esperienza («così come essa si dà e nei limiti entro i quali si dà», diceva Husserl) cade, agli occhi di Lévinas, nell'errore che caratterizza tutta la metafisica: l'errore di assumere il rapporto soggetto-oggetto, la loro duplicazione e contrapposizione intellettualistica, come terreno adeguato per intendere il senso dell'esperienza esistenziale. Analoga e conseguente critica Lévinas muove alla descrizione intutiva fenomenologicamente atteggiata. Essa vorrebbe cogliere la «cosa stessa» sospendendo ogni teoria preconcetta che la riguardi dall'esterno e vorrebbe assumerla invece nel suo concreto apparire; in tal modo però l'apparire resta confinato nella rappresentazione del soggetto (nel suo «flusso di coscienza», diceva Husserl), cioè in un luogo niente affatto originario, ma astrattamente concepito in opposizione all'oggetto. Bisogna invece risalire, come Heidegger mostra, all'esperienza emozionale primaria che apre il mondo, con tutti i suoi connotati esistenziali e storici che nessuna epoché può o deve sospendere. Proprio a questo punto, però, la via di Lévinas e quella di Heidegger divergono radicalmente, anche per l'influenza di fatti esterni drammatici e traumatizzanti, coma la scandalosa adesione di Heidegger al nazismo e l'esperienza della guerra e del campo di concentramento che riportano Lévinas a un continuo approfondimento relativo a quella sua origine ebraica che invero non aveva mai dimenticato (si vedano in particolare Difficile libertà. Saggio sul giudaismo, 1963; Quattro letture talmudiche, 1968; Umanismo dell'altro uomo, 1972; Nomi propri, 1976; Dal sacro al santo, 1977; Di dio che viene dall'idea, 1982; Al di là del versetto, 1982; Etica e infinito, 1984). Quando nel 1947, in un clima culturale profondamente influenzato dalle tematiche esistenzialistiche, Lévinas pubblica Dall'esistenza all'esistente, la sua critica radicale all' Òflt0f6gìa va certamente contro corrente. Egli prende qui le distanze proprio dalla questione dell'essere che Heidegger aveva sollevato come l'impensato della metafisica; la meditazione heideggeriana sull'essere gli sembra invece ribadire la condizione di sudditanza del pensiero rispetto a ogni anonimo e astratto «esser là» dell'essere e del mondo (come diceva Blanchot). 8 Da questo momento Lévinas prende decisamente partito per una trascendenza che è «altrimenti che essere» (come suona il titolo del libro del 1974) e che entra in rotta di collisione con tutta la tradizione filosofica occidentale, per opporle la via alternativa della meditazione etica, esemplificata per Lévinas dall'ebraismo. Ogni soggetto è iscritto nella sua tradizione. «Il soggetto 8 Si veda in proposito lo studio lévinasiano Su Maurice Blanchot, 1975; ma si pensi anche a
Merleau-Ponty.
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- dice Lévinas - non è libero come il vento, è già un destino, destino che non riceve da un passato o da un futuro, ma dal proprio presente. » La filosofia pensa il passato e il futuro come una trama necessaria, sottomessa alla cifra dell'incombenza antologica dell'essere (sia esso il mondo oppure il Dio della metafisica e dell'idea platonica in seguito mutuato dalla tradizione cristiana). In questo modo la filosofia elide il presente, cioè la natura trascendente della presenza, entro la quale l'uomo si confronta con ciò che è il suo «Altro». Tutto lo sforzo « razionalistico » della filosofia consiste nella volontà di dominare il presente, cancellandone il carattere di novità sconvolgente e di trascendenza. Così facendo la filosofia obiettiva il tempo, il che non può che metter capo a una visione imperialistica e violenta della storia e della cultura, visione nella quale l'« altro», il diverso, la differenza vengono programmaticamente esclusi. Si tratta allora, per Lévinas, di ritrovare «la traccia dell'altro», mettendo in diretta opposizione non religione e filosofia, ma tradizione biblica e filosofia. «Al mito di Ulisse che ritorna a Itaca, egli ha scritto, vorremmo contrapporre la storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora sconosciuta.» Si tratta dunque di un doppio esodo: quello che libera l'io dall'intrigo dell'essere e poi quello che lo fa evadere anche da se stesso per dirigersi verso l'Altro: «via che porta dall'esistenza all'esistente e dall'esistente all'Altro». Ma come accade l'esperienza dell'Altro? Tutta la filosofia, e poi la scienza, è impegnata a negare questa esperienza, riconducendola invariabilmente al segno del medesimo. Persino l'intersoggettività husserliana nega l'Altro, poiché lo riduce all'« alter ego». Ma l'Altro è proprio ciò che sfugge alla coscienza della intersoggettività, che sfugge al sapere della coscienza. L'Altro è anzitutto, non ciò che anch'io sono, ma ciò che non sono; per esempio il debole, se io sono il forte, oppure il povero se sono il ricco, lo straniero o ancora il nemico. L'Altro è ciò che rende asimmetrico lo spazio intersoggettivo. Eccedenza etica che costituisce nel profondo la soggettività. Essa infatti accade solo« al cospetto del volto dell'altro». L'etica lévinasiana sostituisce all'umanesimo dell'essere un umanesimo dell'altro uomo, in quanto la presenza dell'altro uomo non si lascia mai totalmente ricondurre all'essere anonimo della natura e della storia. L'altro uomo non è mai riassumibile ed esauribile in una totalità, sia essa religiosa, politica o filosofica; non si risolve in un' appartenenza, ma apre appunto a un «esodo», a un uscire da sé andando verso l'ignoto, verso il soggetto sconosciuto; l'altro uomo non è esprimibile come caso o esempio della umanità del genere o generica. Per questo Lévinas, a differenza di Buber, non ravvisa nel dialogo l'incontro profondo con l'altro. Non un linguaggio denominativo pone davvero in relazione all'altro; piuttosto quel dire che è invocazione, discorso che articola un vocativo, sicché « ciò che è nominato è, nel contempo, ciò che è interpellato». Tutto questo è compreso in ciò che Lévinas chiama esperienza del volto dell'altro: rivelazione di una trascendenza che infinitamente sopravanza l'essere e il mio stesso essere; trascendenza che mi pone in causa e che ancor prima mi costituisce come soggetto. In questo modo il volto dell'altro è la traccia di
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quell'« Altro » che non si può né nominare né raffigurare, come vuole la tradizione ebraica, e che però, proprio per questa assenza, è condizione di possibilità dell'etica. L'etica infatti, nella sua normatività, non può mai essere immanente, ma deve essere «eccentrica». L'azione etica ha il suo baricentro in un'eteronomia trascendente: si tratta di corrispondere alla Legge e di riconoscere la propria responsabilità, non di rivendicare la propria libertà. Perché non è l'uomo che possiede, inventa o ricerca la verità; è la verità che «suscita e possiede l'uomo». Conclusione sulla quale lo Heidegger di Sull'essenza della verità potrebbe convenire, ma che in realtà è lontanissima, se non antipodale, rispetto al percorso heideggeriano. Infatti la verità in Lévinas non ha più nulla a che fare con l'essere o con la physis; essa è l'assente che si fa presente nel volto degli altri, che in essi lascia traccia e che così apre all'ascolto della parola dell'altro, che non è mai «voce dell'essere», ma parola umana dell'invocazione, del bisogno e dell'intersoggettività soccorrevole. «Che il rapporto con il divino attraversi il rapporto con gli uomini e coincida con la giustizia sociale - ha scritto Lévinas - ecco tutto lo spirito della Bibbia ebraica. » Non è difficile ravvisare, nel discorso di Lévinas, la presenza di notevoli ambiguità; prima fra tutte quella di servirsi della cultura occidentale e dell'argomentazione filosofica per condurre al di là di esse. E anche la critica di Lévinas a Heidegger (come del resto a Hegel o ad Aristotele e a tutta la tradizione metafisica) è sovente faziosa e frutto talora di forzature e anche di grossolani fraintendimenti. La versione « popolarizzata » del pensiero di Lévinas ha poi generato, soprattutto in Italia, altri fraintendimenti. La questione lévinasiana della trascendenza è stata letta come una generica difesa della religione e magari sbrigativamente assimilata alla morale cattolica. Ma nell'etica di Lévinas lo «scandalo» della trascendenza dell'altro ha il fine di mostrare che l'io ha senso solo come «essere per altri» e come «responsabilità» verso gli altri. Il che significa che non c'è nessuna« essenza immortale» nell'io, nessuna «sostanza metafisica» del soggetto: l'essere del soggetto è una «condizione di ostaggio» in cui ogni io, in quanto «risponde» per l'altro, non è più illusoriamente riparato entro le universalità generiche del popolo, dello stato, della religione, ma è in cammino nel deserto senza manna dell'utopia: utopia, dice Lévinas, «per il poco di umanità che orna la terra». Questo soggetto lévinasiano si è lasciato alle spalle le rivelazioni e le patrie dell'essere e con esse ogni autoaffermazione eroica e bellicosa. Esso si configura piuttosto come estrema «passività», disponibilità ad accogliere l'altro e a essere interscambiabile con lui. Non si tratta di un «impegno», né di una qualche « decisione» o «testimonianza»; si tratta di una «responsabilità illimitata» che precede la libertà dell'agente: «la responsabilità per altri è il luogo in cui si pone il non-luogo della soggettività». Proprio per questo anche tutti i nomi e tutti i verbi che designano l'essenza divina devono essere abbandonati, in quanto pretese di definire la trascendenza e di appropriarsene; bisogna restringersi, dice Lévinas, a un semplice pro-nome: sigillo silenzioso che segna tutto ciò che può portare un nome. 51
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In definitiva, nella relazione faccia a faccia del volto viene meno l'illusione di poter conseguire quella visione panoramica e totalizzante sulla quale basano la loro pretesa di verità la filosofia e la scienza non meno della teologia e della morale. Solo la relazione « etica » di trascendenza del volto al volto, cioè la infinità non totalizzabile del loro rapporto, può dar vita a una società che sia davvero pluralistica e che proceda davvero nella pace. Non la pace del vincitore, dice Lévinas, con i suoi cimiteri e imperi universali; non la pace per consunzione dei belligeranti; ma quella pace che è il semplice corrispondersi della pluralità e che solo in questo corrispondersi trova un'unità. Non si tratta di forzare i soggetti che costituiscono la pluralità a una coerenza che è loro esterna; si tratta di accettare l'eccentricità della trascendenza di cui l'altro è sempre portatore. Conclusione, come tra breve vedremo, che avvicina il percorso di Lévinas alle recenti riflessioni di Derrida sul tema dell' amicizia e sulla figura dell'ospite. d) Jacques Derrida: la decostruzione. Allievo di Hyppolite all'Ecole Normale, Jacques Derrida (n. r930) dal r983 è direttore degli studi all'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi. Nel r967 pubblica una trilogia di eccezionale originalità e profondità, nella quale si compendia tuttora il meglio della sua produzione e che basterebbe a qualificarlo come uno dei pensatori più importanti del nostro tempo (La voce e il fenomeno; Della grammatologia; La scrittura e la differenza). La fama di Derrida ha però messo un certo tempo a imporsi e solo in anni recenti egli ha ottenuto un successo di portata mondiale, a cominciare dall'influenza che il suo pensiero ha esercitato negli Stati Uniti, ispirando originali applicazioni nella critica letteraria e nelle analisi testuali. Nominato dottore honoris causa alla Columbia University, attualmente divide il suo insegnamento tra Parigi e la Yale University. Principale riferimento per il cammino di Derrida è la fenomenologia di Busseri, cui si affiancano Hegel, Nietzsche, Heidegger, oltre a Freud e De Saussure. In questo senso è molto significativa la lunga Introduzione che Derrida scrive alla traduzione francese dell'Origine della geometria di Husserl (r962), che è, come si sa, una delle appendici della Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, nella quale emerge il tema della scrittura come strumento di conservazione e di trasmissione delle scoperte filosofiche e scientifiche. Derrida individua qui l'ambiguità della nozione di «origine». In principio, dice Husserl, stanno la presenza vivente e l'evidenza. Questo principio, tuttavia, non è mai attingibile o riattingibile. Esso emerge, come già diceva Hegel (ma ancor prima Aristotele), solo alla fine: è la teleologia che rende possibile l'archeologia. Da un punto di vista psicologico ciò significa che il vissuto della coscienza si conserva solo in quel suo altro che è la parola, la quale a sua volta può sormontare l'istantaneità del /latus vocis solo esteriorizzandosi nello scritto. In questo movimento, che mira al « compimento» della tradizione, secondo la « teleologia » della intenzionalità della coscienza (del suo «voler 52
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dire»), è dunque letteralmente «iscritta» la possibilità della rimemorazione dell'origine. La quale però non può mai essere attinta se non nella differenza del suo altro (la voce, la parola, la scrittura). Di qui l'ambiguità della verità che la metafisica da sempre persegue. Vera in senso assoluto sarebbe l'intuizione dello spirito presente a se stesso (atto puro o pensiero di pensiero, diceva Aristotele): questa presenza a sé è insieme la condizione trascendentale di ogni altra presenza empirica, come diceva Kant. Ma ciò che è presente non è mai questa «purezza» autosufficiente, bensì ciò che la traduce nel suo «altro», nella sua « differenza», di cui invano la metafisica cerca di liberarsi con un atto di rimozione e di subordinazione: la voce e la parola non sarebbero che mezzi empirici al servizio della «espressione» libera e cosciente dello spirito; e la scrittura poi (questo segno di segno, cioè segno di quel segno dell'anima che già sarebbe la voce, come diceva Aristotele) viene abbassata a mero mezzo estrinseco al servizio del pensiero. Senonché, poiché l'ultimo è il primo e poiché è nel compimento che si rivelano le radici (come diceva Nietzsche), sorge il sospetto che proprio la scrittura detenga il segreto dello spirito e dell'intera strategia metafisica. È quanto Derrida mette infatti in luce nella Voce e il fenomeno, in diretta polemica con Husserl. «La forma più generale della nostra domanda - egli scrive - è così delineata: la necessità fenomenologica, il rigore e la sottigliezza dell'analisi husserliana, le esigenze alle quali essa risponde e che dobbiamo anzitutto riconoscere, non nascondono tuttavia una presupposizione metafisica? Non nascondono un'aderenza dogmatica o speculativa che, più che trattenere la critica fenomenologica fuori di se stessa, ed essere un residuo inavvertito di ingenuità, costituirebbe piuttosto la fenomenologia nel suo "di dentro", in ciò che essa riconoscerà presto come la sorgente e la garanzia di ogni valore, il "principio dei principi", cioè l'evidenza offerente originaria, il presente, o la presenza del senso a un'intuizione piena e originaria? » In tal caso la «vigilanza critica» della fenomenologia non sarebbe altro «che il progetto metafisica stesso nel suo compimento storico e nella purezza puramente restaurata della sua origine» (che è poi quanto anche Heidegger, a suo modo, era arrivato a pensare). Ciò significherebbe allora che nel più profondo della presenza vivente fenomenologicamente intesa permane «una non-presenza irriducibile, e con essa una non-vita o una non-presenza o nonappartenenza a sé del presente vivente, una mai sradicabile non-originarietà ». Nascondendo a se stessa tale situazione, la fenomenologia non farebbe che ripetere il gesto inaugurale della metafisica (parmenidea e platonica), il quale mira a rimuovere, in sostanza, la morte, cancellandone il segno; cioè cancellando il segno, e in particolare la « lettera morta » della scrittura, col subordinarlo al soffio soprasensibile della voce piena che parla a se stessa e con se stessa. Di qui il « privilegio della phoné» che regge tutto il « logocentrismo » della filosofia e il progetto del sapere occidentale. La voce, che affetta il parlante e lo rende consapevole di sé, è la coscienza, dice Derrida (ripetendo inconsapevolmente le analisi di G.H. Mead risalenti agli anni trenta). Ma che in tal caso il soggetto non debba «passar fuori di sé per essere 53
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immediatamente investito dalla sua attività di espressione», che non debba uscire dalla sua «interiorità» (come diceva Agostino), fuori dal suo respiro, dalla sua vivente presenza non minacciata da alcuna esteriorità, tutto questo non è che l'« illusione trascendentale» della filosofia. In realtà la voce è sin dall'inizio affetta da una « spaziatura » e, per così dire, da una scrittura: è la sua «traccia» empirica che consente, tramite la rimozione della medesima, l'edificazione della idealità pura, come dice Husserl ripetendo Platone. È insomma togliendosi gli occhi che la metafisica può costituire una visione « soprasensibile » (la visione della «teoria», dirà Husserl), la quale diviene condizione di ogni visibilità empirica e di quelle partizioni dualistiche (anima e corpo, spirito e natura, eternità e storia e via dicendo) che reggono l'intera struttura enciclopedica del sapere. Al di sotto della voce spirituale si dà allora a vedere una possibilità di scrittura che « abitava il di dentro della parola e che era, essa stessa, al lavoro nell'intimità del pensiero». Di questa scrittura è soprattutto la Grammatologia a tracciare un profilo. Non si tratta ovviamente di una « scienza della scrittura » intesa come trascrizione fonetica della voce al servizio della medesima: questa è la scrittura metafisicamente «ridotta» alla quale ci ha abituati il logocentrismo occidentale. Si tratta di quella spaziatura, di quella traccia che è già all'opera in ogni parola, sia essa orale o scritta. E poiché ogni spaziaura e ogni traccia, in quanto fenomeno empirico così e così identificabile, è già un prodotto della parola e della scrittura, non di una semplice traccia si tratta, ma piuttosto di «un'architraccia» e perciò di un'«archiscrittura»: luoghi del differire della parola e della scrittura, della voce e del segno. Qualcosa che non può essere obiettivato o reso visibile e che non può entrare quindi nell'ordine di alcun sapere, empirico o trascendentale. Qualcosa che, come tale, sta ai margini della filosofia e dell'intera scienza occidentale. Derrida ha qui buon gioco nel riferirsi alla linguistica saussuriana e alla sua fondamentale distinzione tra significante (il suono della parola, la traccia visibile della scrittura) e significato (il contenuto ideale dei segni del linguaggio parlato e scritto). De Saussure indicava con una barra (S/s) il rapporto tra significante e significato, intesi come le due facce congruenti del segno linguistico; ma che è mai questa barra? Non un significato, poiché esso è la traccia che consente l'« incorporazione » del significato e la sua esibizione fuori di sé; ma neppure un significante, poiché appunto esso non ha significato, non veicola un significato, ma delimita la differenza tra significante e significato. Siamo così di fronte a una differenza non pensabile e non esprimibile, non dicibile e non udibile: quella differenza che Derrida ha tematizzato in una conferenza straordinaria e famosa del 1968 (poi riprodotta in Margini della filosofia, 1972), coniando, per la sua «cosa» e per il suo titolo, una parola inesistente: La dz//érance. Vi è qui una «a», al posto della «e» della parola corretta (dz//érence), che però resta inavvertita all'orecchio (essendo le due pronunce della parola identiche e indistinguibili in francese); essa è così un effetto di scrittura «sotto» la parola, effetto che allude all'opera inavvertita e indicibile dell'archi traccia, dell' archiscrittura 54
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dietro ogni segno della voce e traccia della scrittura. Dif-ferenza (o differanza, come si è soliti tradurre in italiano) che è insieme un differimento del senso, ovvero il segno del suo essere rinviato a una dimensione inaugurale che resta fuori portata, che non può venire né pensata né detta, essendo il limite stesso del dire e del pensare, o il limite del linguaggio, come potrebbe dire Wittgenstein. La « grammatologia» è così un'impresa impossibile la cui edificazione è piuttosto « decostruttiva » che non costruttiva: non può darsi scienza del « gramma », della traccia originaria, perché ogni originario vi si è già perduto, in una differenza che sprofonda in se stessa; si può invece mostrare come gli ordini e le gerarchie del sapere poggino su tale differenza, ne derivino e ne dipendano, e come proprio per ciò la celino, nello sforzo di imporre la propria volontà di potenza e di rimozione. A questo lavoro decostruttivo Derrida si dedica da più di vent'anni, con esiti senza dubbio suggestivi (La disseminazione, 1972; Posizioni, 1972; Sproni, 1975; Glas, 1975; Il /attore della verità, 1975; La verità in pittura, 1978; Sopra-vivere, 1979; La carta postale, 1980; Dello spirito. Heidegger e la questione, 1987; Psyché. Invenzione dell'altro, 1987; Signéponge, 1988; La mano di Heidegger, 1991; Spettri di Marx, 1993; Politiche dell'amicizia, 1994; Mal d'archivio, 1995) e però, per altro verso, progressivamente sempre più deludenti, ripetitivi e, da ultimo, anche un po' prolissi e farraginosi. La decostruzione è in sostanza una strategia che prende atto della intrascendibilità del gesto metafisica. Ogni «critica» rivolta alla filosofia opera già con le sue parole e con i suoi segni, è già presa entro la logica del rapporto significante/significato. Lo stesso Heidegger, secondo Derrida, non è riuscito a sfuggire del tuito alla cattura del logocentrismo, pur essendone nel contempo il critico più profondo e avvertito. Derrida si imbatte qui nello stesso «silenzio» che ha caratterizzato la conclusione dei percorsi wittgensteiniani e heideggeriani. Tuttavia la sua posizione si giova della originale tematizzazione del segno e della scrittura, che per certi versi lo avvicina a Peirce (come già anche Apel); questo gli consente un lavoro di analisi sul « corpo» della filosofia ridotta a una successione di «testi» all'interno dei quali scrutare e denunciare il gioco dei segni e delle spaziature, gli effetti di senso e le pretese subordinatrici. L'intento si estende poi a tutti i testi in generale, e infine a una nozione così allargata di testo e di scrittura da comprendere ogni « somatizzazione » psicologica e sociale. Lavoro a tratti mirabile, con effetti di fruttuoso sconvolgimento; 9 ma anche lavoro teoreticamente votato a una asfitticità e inconcludenza che in larga misura dipende da una inconsapevole sopravvalutazione della teoria tradizionale del segno, quale si è venuta codificando da Aristotele a De Saussure. Il riferimento a Peirce avrebbe potuto aiutare Derrida a comprendere che 9 Come, per esempio, la lettura della carta costituzionale americana: caso emblematico della infondabilità «razionale>> di qualsivoglia regime politico, compresa la democrazia, in cui è in gioco una volontà popolare che presuppone l'esistenza
di un «popolo>>, di un soggetto di quella volontà, laddove essi sono invece l'effetto dell'atto di volontà, inevitabilmente arbitrario e <
>, che li costituisce.
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la riduzione del segno a un fenomeno di relazione binaria (significante/significato), anziché ternaria come infatti è in Peirce (segno, oggetto, interpretante), è la non secondaria causa di molte delle difficoltà che Derrida (e prima di lui Husserl e Heidegger) incontra nel suo cammino, e non qualcosa di strutturalmente legato al fenomeno della espressione. Così Derrida si immagina che dietro l'operazione «logica » platonico-aristotelica non vi sia altro che l'abisso dell'archi traccia, sicché la cultura occidentale sarebbe una sorta di barriera oltre la quale non è possibile in alcun modo andare col pensiero (che starebbe già sempre al di qua della barriera stessa). In questo senso molto più gli sarebbe giovata la conoscenza dell'analisi dei « grammata » avanzata da Vico, che non le ipotesi rousseauiane sull'origine delle lingue, delle quali àmpiamente si occupa. Inoltre un approfondimento realmente speculativo del concetto di scrittura, quale è ricavabile da Havelock, da Ong e in generale dalla scuola « oralista », lo avrebbe reso avvertito del fatto, tanto semplice quanto incontestabile, per cui la «voce» della quale Derrida parla è essa stessa un prodotto della scrittura alfabetica e della sua pratica idealizzante; sicché il fatto di contrapporre problematicamente « voce » e « scrittura » non perviene davvero a mettere in aporia le fondamenta del discorso metafisica, come Derrida crede, poiché non riesce a evitare di replicarne e utilizzarne inconsapevolmente le oggettualità; sicché è di questa aporia che la decostruzione dovrebbe farsi carico, mettendo anzitutto in scacco se stessa, anziché esercitarsi interminabilmente in forma retorica. Da tempo però Derrida ha perso interesse per un pensiero autenticamente «teoretico» (convinto com'è della sua impossibilità di principio e di fatto) e si è invece dedicato a questioni di indole, oltreché testuale, politica e morale, peraltro offrendo anche qui contributi di indubbia originalità e pregnanza. Ne è un esempio significativo la sua recente riflessione sui concetti di amicizia e di ospitalità, riflessione tanto più sollecitante in un tempo, quale è il nostro, in cui l'ostilità e il pregiudizio razziale non smettono di ripresentarsi, aggiungendosi e legandosi al problema di una capillare ma costante emigrazione delle popolazioni povere del pianeta verso i paesi ricchi. In Politiche dell'amicizia, riferendosi al concetto di fraternità fatto valere dall'amico Blanchot nei confronti degli ebrei (la persecuzione nazista, dice Blanchot, ci fece comprendere che «gli ebrei erano nostri fratelli e l'ebraismo qualcosa di più che una cultura, e anzi più che una religione, ma il fondamento delle nostre relazioni con altri») e riferendosi nel contempo a Lévinas (che riconosce l'umanità fraterna di un religioso cristiano, da lui conosciuto in campo di concentramento), Derrida si chiede: «che cosa si vuoi dire quando si dice "fratello", quando si chiama qualcuno "fratello", e quando vi si riassume o sussume l'umanità dell'uomo, al pari dell' alterità dell'altro? ». Analoga domanda egli rivolge alla nozione di amico o di ospite. Offrendo ed estendendo l'« ospitalità», l'altro è infatti invitato a «fare come a casa sua»; il che però significa implicitamente: a fare come me, ovvero a diventare come me, nel che già si insinua una sottile violenza. La quale peraltro sarebbe ancora più evidente, se l'altro, lo straniero, l'ospite, pretendesse di imporre la sua diversità in
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casa mia. Nell'uno e nell'altro caso l'identità dei soggetti viene scossa e resa problematica: condizione che caratterizza e sempre più, presumibilmente, caratterizzerà l'esperienza futura di una umanità« priva di patria», come diceva Heidegger, ovvero priva di una «scrittura» che consenta di tracciare e di rintracciare il luogo proprio del senso e la parola appropriata della verità. 3) Pau! Ricoeur e Vladimir Jankélévitch
Se a Husserl Derrida, come ha esplicitamente riconosciuto, è rimasto debitore del fondamento stesso del lavoro decostruttivo, che come tale presuppone un testo e un pensiero primi sui quali esercitare il pensiero secondo della decostruzione, alla fenomenologia è legato, sin dall'inizio della sua ricerca, anche un altro esponente di primo piano della cultura francese come Paul Ricoeur (n. 1913). Egli cominciò a studiare Husserl in un campo di concentramento tedesco, nel corso della seconda guerra mondiale. Nel 1950 presentò in Francia la sua traduzione del primo volume delle Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, sicché da allora Ricoeur è considerato uno dei maestri della fenomenologia contemporanea. Bisogna però aggiungere che sin dall'inizio è operante in Ricoeur anche l'ispirazione esistenzialistica, attraverso J aspers e Marcel, ai quali dedica i suoi primi libri (Gabriel Marcel e Karl ]aspers, 1947; e, in collaborazione con M. Dufrenne, Karl Jaspers e la filosofia dell'esistenza, 1947). Professore a Strasburgo dal 1950 al '55, insegna in seguito alla Sorbona e, dal 1966, a Nanterre, dove diviene direttore del Centro di ricerche fenomenologiche ed ermeneutiche. Nel contempo insegna anche nell'università di Chicago. Notevole eco riscossero le sue ricerche fenomenologiche sulla volontà (Il volontario e l'involontario, 1950; Finitudine e colpa, 196o; La simbolica del male, 1960) che già testimoniano della peculiarità e della complessità del lavoro fenomenologico di Ricoeur. Esso si caratterizza anzitutto come una fenomenologia del senso che prende in esame più la molteplicità dei fenomeni espressivi che non il loro nucleo teoretico-conoscitivo, come accadeva in Husserl. Mosso da profondi interessi religiosi, Ricoeur tende a negare la trasparenza e la fondamentalità del cogito husserliano: non è il mondo che è nel cogito, ma è piuttosto il cogito che è nel mondo. lnvero tali tematiche, che avvalorano l'influenza delle intenzionalità corporee all'interno della coscienza, Ricoeur le ha anche tratte dal secondo volume husserliano delle Idee, ma altrettanto evidente è l'influenza di Marcel o della sua «filosofia del mistero», come la definì Ricoeur, e di Jaspers o della sua «filosofia del paradosso». Tutto questo cammino preparava Ricoeur all'incontro con Heidegger e con l'ermeneutica e quindi col problema del linguaggio e della interpretazione. Il suo intento è quello di trovare una via di mediazione tra Husserl e Heidegger, dal momento che ogni ermeneutica presuppone il problema intenzionale del senso, e che ogni fenomenologia del senso non può a sua volta non metter capo a una teoria e a una pratica dell'interpretazione. È poi di quest'ultima che Ricoeur si è prevalentemente occupato, con una vastità di riferimenti culturali senz' altro impressionante e con una 57
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fecondità di scrittura non comune, ma anche, bisogna aggiungere, con una non proporzionale incisività e originalità degli apporti teorici. Certamente significativi sono Della interpretazione. Saggio su Freud (1965), Il conflitto delle interpretazioni (1969), La sfida semiologica (1974), libri che documentano il fondamentale interesse di Ricoeur per il problema del simbolo. Opponendosi, spesso con lunghe e minuziose analisi, alle linguistiche e alle semiologie che riducono il linguaggio alla sua funzione comunicativa «pubblica», Ricoeur studia le funzioni del linguaggio che travalicano il senso letterale (ricerca che del resto si era già avviata sul piano della «simbolica del male e della colpa») e mostra come il soggetto, più che essere la fonte delle sue interpretazioni, sia sempre un risultato dei segni che lo abitano e lo plasmano a livello di molteplici espressioni simbolizzatrici. L'intera topica dell'inconscio in senso freudiano viene così brillantemente riletta alla luce di una ermeneutica del simbolo. La quale poi si allarga a comprendere la funzione della metafora, intesa, come già in Cassirer, non come mero travestimento o come ornato retorico del discorso letterale, ma come capacità inventiva autonoma che investe il mondo di nuovi sensi e apre nuove dimensioni dell'esperienza (La meta/ora viva, 1975). La parola della poesia, del mito, della religione offrono ampio materiale per suggestive analisi di ciò che Ricoeur chiama «il linguaggio in festa», ossia il linguaggio creativo dell'umano cui viene affidato un senso ontologico profondo, volto a rivalutare l'area delle espressioni simboliche nei confronti del linguaggio scientifico (che non può a sua volta prescinderne del tutto). Come peraltro vada intesa tale « ontologia » correlativa alla « referenza metaforica » rimane più alluso che davvero pensato, dal momento che Ricoeur (non diversamente da U. Eco, M. Black, R.R. Boyle, M. Hesse e dagli altri studiosi contemporanei della metafora, con le sole eccezioni di ]. Sinnreich: La teoria aristotelica della meta/ora, 1969 e A. Cazzullo, La verità della parola. Ricerca sui fondamenti filoso/ici della meta/ora in Aristotele e nei contemporanei, 1987) non pone mai davvero in questione il senso della distinzione aristotelica tra linguaggio letterale e linguaggio figurato. Quest'ultimo, infatti, assume il suo carattere unicamente per differenza dal primo e in quanto pensato a partire dal linguaggio proprio o dal concetto, laddove i teorici della metafora sembrano credere in una valenza ontologica «in sé» della parola metaforica o simbolica. In altre parole, è l'instaurazione del concetto che pone contemporaneamente, come suo altro o come sua ombra, la metafora e il simbolo. Sicché contestare il concetto a partire dal simbolico e dal metaforico genera più confusioni e paradossi che non apporti filosoficamente costruttivi. Di ciò si era accorto Wittgenstein quando, nel Tractatus, poneva in questione l'intero ambito della «logica della raffigurazione», cioè poneva in generale il problema dell'immagine, fosse essa logica in senso stretto o di qualsivoglia altra natura. Ampia attenzione hanno suscitato anche le più recenti opere di Ricoeur (i tre volumi di Tempo e racconto, 1983-85; Dal testo all'azione, 1986; Se stesso come un altro, 1990), nelle quali l'indagine si allarga a considerare la forma del racconto come
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luogo, per dir così, trascendentale del costituirsi del soggetto e della sua referenza al mondo. Al centro dell'analisi è il carattere temporale dell'esperienza umana, carattere che è nel contempo uno dei luoghi più problematici dell'intera tradizione filosofica, da Aristotele ad Agostino, a Husserl e a Heidegger. In particolare tale problematicità oggi si esprime nella inconciliabilità fra tempo cosmologico oggettivo, studiato dalle scienze naturali, e tempo vissuto, fenomenologicamente inteso. L' ambizione di Ricoeur è quella di fornire, tramite l'analisi delle pratiche narrative, una mediazione tra scienze dello spiegare e scienze del comprendere, cioè tra scienze della natura e scienze dello spirito. Nella parola narrativa, sia in senso storico, sia in senso letterario, si viene infatti ordinando l'esperienza, altrimenti muta e caotica, dell'uomo. Gli insiemi temporali del racconto «configurano il tempo» e rendono abitabile il mondo continuamente « rifigurandolo ». La messe delle testimonianze, antiche e moderne, che Ricoeur convoca a sostegno della sua tesi è senza dubbio imponente quanto stimolante. Esse, nondimeno, si rivelano impotenti quanto alla soluzione delle aporie filosofiche e fenomenologiche relative al tempo e al soggetto; il loro merito è piuttosto quello di suggerire un allargamento dei comuni riferimenti e di indicare nuovi terreni e nuovi oggetti di riflessione per la filosofia e per le scienze. In tempi recenti l'opera di un altro maestro della filosofia francese di questo secolo, Vladimir Jankélévitch (1903-85), ha conosciuto un ritorno di interesse. Nato da una famiglia ebrea di emigrati russi, venne allontanato dall'insegnamento nell'università di Tolosa nel 1940 a seguito della promulgazione delle leggi razziali del governo di Vichy. Dopo aver partecipato al movimento della resistenza, nel dopoguerra divenne professore di filosofia morale alla Sorbona, dove i suoi corsi, brillanti e indipendenti dalle mode culturali, ottennero un certo successo. La sua formazione risente soprattutto della influenza di Bergson (al quale Jankélévitch dedicò una celebre monografia negli anni trenta), di Simmel e anche dell'ultimo Schelling, ma si caratterizza sin dalla tesi di dottorato come indagine morale (La cattiva coscienza, 1933) che culmina nel Trattato delle virtù, apparso nel 1949 e poi ripresentato in nuova edizione nel 1971. L'indagine morale non è intesa da Jankélévitch come una applicazione disciplinare della filosofia, ma come una vera e propria alternativa all'intellettualismo conoscitivo e teoretico. Questa insistenza sull'etica come fondamento ultimo del pensare è appunto quel tratto che rende attuale una filosofia come quella di Jankélévitch, in altri tempi respinta come vitalismo e irrazionalismo. Ma la sua virtù principale consiste, non nella aderenza a queste etichette, ma nella estrema vivacità e concretezza delle sue analisi che si avvalgono per di più di un costante e suggestivo riferimento alla musica, alla quale J ankélévitch ha dedicato molte delle sue opere (la più importante delle quali è La musica e l'ineffabile, 1961). L'ineffabile è il carattere profondo dell'esperienza che, nella sua «durata» sempre mobile e polimorfa, sfugge alla univocità del concetto. «Il non-so-che e il quasi-niente» dell'opera omonima del 1957 alludono appunto a quell'indefinibile che forse solo la 59
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musica riesce a esprimere, sia pure in forma paradossale. L'esperienza pone l'uomo di fronte a un divenire irreversibile e inarrestabile; la musica, si potrebbe dire, mima questo movimento perenne e proprio così, paradossalmente, lo affranca dalla delusione del desiderio, trasfigurandolo in forma pura. D'altra parte il carattere istantaneo della trama vitale è anche l'occasione per la scelta morale, il cui culmine è la dedizione totale dell'amore. Anche in essa l'uomo si confronta con un paradosso irresolubile, poiché amare significa scontare una «contraddizione segreta» e affrontare una impossibilità-necessaria: quella di negare il proprio essere finito per amore dell'altro, sino al rischio della propria morte (« vivere per te fino a morirne »). Il soggetto attinge qui la sua massima dignità trascendente, sebbene sempre di nuovo debba accettare lo scacco della incompiutezza dell'amore, per poter sopravvivere. Analoga contraddizione soggiace all'esperienza della morte (Pensare la morte, 1966), poiché, contrariamente a ciò che la filosofia tradizionalmente insegna, non c'è modo di «imparare a morire», così come non c'è modo di imparare a volere o di imparare ad amare. Questi eventi accadono nella loro autonomia e il soggetto può solo imparare ad accettarli nella loro paradossalità «etica», a viverli consapevolmente nella loro integrità coinvolgente e nel loro <<presque rien » (Il perdono, 1967; Perdonare?, 1971; I.;irreversibile e la nostalgia, 1974; Il paradosso della morale, 1981; La presenza lontana, 1983). 4) Il post-moderno: ]ean Baudrillard e ]ean-François Lyotard
Concludiamo l'esame dei principali apporti teorici della cultura francese degli ultimi trent'anni con il riferimento a quattro figure delle quali le prime due risalgono alla generazione degli anni venti e le seconde alla generazione degli anni quaranta, il che, come vedremo, non è solo un dato cronologico, ma anche il segno di un sensibile mutamento di prospettiva. Per i primi due protagonisti intendiamo riferirei a Baudrillard e a Lyotard; per i secondi a Marion e a Nancy. Jean Baudrillard (n. 1929) in realtà non è un filosofo, ma un sociologo le cui analisi hanno via via raggiunto un campo sempre più ampio di interessi e di fenomeni e coinvolto un uditorio via via più universale. Professore a Nanterre e poi in varie università americane, Baudrillard ha compiuto tutto il tragitto dallo strutturalismo e dalle varie semiologie degli anni sessanta alle tesi « postmoderne » degli anni ottanta, delle quali è stato appunto un esponente non banale. Con Il sistema degli oggetti (1972) Baudrillard propone una decisa revisione della teoria marxiana dei bisogni: nelle società opulente del capitalismo maturo, o, come poi si preferì dire, nelle società postcapitalistiche, là dove si suppone che i bisogni primari siano largamente soddisfatti, alla nozione classica di bisogno e al valore d'uso delle merci si sostituisce la nozione di consumo. Ciò comporta da un lato la progressiva « smaterializzazione » degli oggetti, la cui «sostanza» diviene secondaria rispetto al loro servire da supporto a un sistema di segni funzionali alle regole sociali del consumismo; dall'altro il paradosso per il quale la produzione economica si orienta preferibilmente verso beni 6o
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superflui, mentre strati consistenti della società e della popolazione mondiale vivono tuttora in condizioni di indigenza; beni superflui che sono però funzionali alla segnalazione dello «status » sociale dei possessori e quindi alla mentalità diffusa in una società governata dalle leggi della comunicazione. Altra contraddizione è la standardizzazione dei consumi di massa cui si accompagna la «personalizzazione» ossessiva di differenze marginali nei prodotti e nei consumi (secondo la formula della pubblicità che rivolge a tutti un messaggio che nel contempo si dice riservato a pochi intenditori). Baudrillard ha studiato con acume i modelli di comunicazione simbolica che caratterizzano le odierne società capitalistiche (La società dei consumi, 1970; Per una critica dell'economia politica del segno, 1972; Lo specchio della produzione, 1973; Lo scambio simbolico e la morte, 1976), utilizzando la nozione di scambio simbolico che egli in parte ricava dallo studio della funzione del « dono » nelle società primitive svolto da Marcel Mauss sin dalla prima metà degli anni venti, ma reso noto solo nel 1950 da Lévi-Strauss. Al centro di tali analisi svolge una funzione teorica importante la nozione di «simulacro», non più pensata in riferimento ai tradizionali problemi filosofici della rappresentazione (come ancora accade in Deleuze), ma come nozione « positiva », cioè piattamente propositiva, in cui si condensa appunto la smaterializzazione degli oggetti. Ridotto alla sua funzione superficialmente comunicativa (nel senso in cui, si potrebbe dire, già Nietzsche parlava di una superficie nella quale si risolve ogni contenuto del «profondo»), il simulacro cancella le classiche opposizioni tra vero e falso, immagine e cosa, realtà e apparenza. Di qui quella «strategia della seduzione» e quella funzione del «femminile» nei comportamenti sociali e nelle immagini pubblicitarie che li supportano e che li innescano entro le psicologie degli individui-massa che da ultimo Baudrillard è venuto studiando (Dimenticare Foucault, 1977; All'ombra delle maggioranze silenziose, 1978; Della seduzione, 1979; Le strategie fatali, 1983; La sinistra divina, 1984; Simulacri e simulazione, 1985; America, 1987 ). Proprio la nozione di postmoderno è la «specialità» di Jean-François Lyotard (n. 1924), professore a Vincennes e nell'università della California. In Discorso, figura, del 1971, Lyotard, ispirandosi da un lato a Merleau-Ponty e dall'altro a Freud, contesta quel primato del discorso che caratterizza il pensiero occidentale sin da Platone. Lo «spazio figurale», in quanto dimensione più direttamente corporea e pulsionale, manifesta una sua « opacità immaginativa » che è intraducibile nella logica del discorso e della comunicazione, mentre è più agevolmente esprimibile nella espressione artistica. Ne deriva una posizione critica nei confronti di tutti i tentativi di fondare un'etica mondiale sulla base del dialogo e una giustificazione argomentativa dei bisogni, quali abbiamo trovato e illustrato a suo tempo in Habermas, Apel, Heller e altri ancora. Ma soprattutto Lyotard polemizza con Marx. Egli è stato infatti uno degli esponenti del gruppo « Socialisme ou barbarie», caratterizzato da un antimarxismo un po' viscerale e da espressioni di pubblica denuncia molto clamorosamente « alla francese » e di facile presa popolare. Le argomentazioni di Lyo-
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tard sono peraltro molto più fini (A partire da Marx e Freud. Decostruzione ed economia dell'opera, 1973; Economia libidinale, 1974); esse prendono di mira l'economicismo marxiano e la sua critica dell'alienazione capitalistica per rivendicare i diritti del desiderio, sulla scorta del concetto freudiano di «lavoro onirico ». L'« economia libidinale » mostrerebbe, secondo Lyotard, che non si tratta di indirizzarsi a una logica alternativa a quella della produzione capitalistica, quanto invece di mostrare il desiderio all'opera al di sotto di quella e di promuoverne la liberazione in una società non repressiva. Ma è con il libro La condizione postmoderna (1979) che le concezioni di Lyotard ottengono una largo successo di pubblico e una diffusa attenzione. La condizione postmoderna sarebbe caratterizzata dalla incompatibilità e inconciliabilità tra sapere narrativo e sapere denotativo o scientifico. Il primo è anzitutto quel sapere caratterizzato dai racconti popolari e dai miti nel quale ogni genere di enunciati sono confusamente e inconsapevolmente all'opera (enunciati denotativi, deontici, prescrittivi, ecc.). In secondo luogo è narrativo anche il sapere inaugurato dalla filosofia: esso è in pratica un metadiscorso che ha lo scopo di legittimare il sapere vero e l'agire giusto, cioè la scienza e la politica. Tutte le filosofie sono, da Platone in avanti, metanarrazioni entro le quali teoria scientifica e prassi politica acquistano senso e valore di verità. Ma con l'età moderna sempre più si afferma e si affranca, rivendicando una sua autonomia dal metadiscorso filosofico, il discorso schiettamente scientifico; esso, diversamente dal sapere narrativo che ricava la sua forza dalla tradizione, si rivolge a una obiettività esterna rispetto ai locutori, sicché «un enunciato scientifico non trae alcuna validità dal fatto di essere riferito». Di qui la progressiva crisi della metafisica, in quanto ogni discorso narrativo viene considerato dalla scienza come prodotto di una mentalità selvaggia, primitiva, superstiziosa o ideologica, cioè come un effetto dell'ignoranza e del pregiudizio. Ovviamente il discorso scientifico perde allora ogni possibile «senso», ma è vano lamentarsene. Il fatto è che discorso narrativo e discorso denotativo sono strategie differenti e imparagonabili: il primo fornisce orizzonti di senso e di valore; il secondo mere abilità « performative », cioè tecnicamente rivolte al successo pratico dell'azione. Al filosofo si affianca infatti il tecnico, l'esperto, che, a differenza del primo, ben conosce i limiti di ciò che può sapere. Il filosofo interroga, il tecnico conclude. Questi due diversi giochi linguistici non possono reciprocamente giudicarsi e in particolare non saranno le lamentele sollevate a partire dalle esigenze «narrative» del senso a fermare o a impedire il trionfo attuale delle verità performative della scienza. Naturalmente sarebbe facile chiedere a Lyotard che razza di discorso sia mai il suo, se performativo, narrativo o altro ancora, e come possa attribuirsi un qualche valore di verità e di che tipo. Il fatto è che le analisi di Lyotard sono superficialmente brillanti e apparentemente persuasive, ma non reggono a una critica appena più approfondita. È per esempio del tutto arbitrario sostenere che la scienza si basa su proposizioni denotative, poiché ciò è vero solo per una parte molto ristretta delle
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sue asserzioni. E d'altra parte non è nemmeno vero che gli scienziati possano in generale fare a meno di saperi narrativi. Questi saperi, al contrario, reggono, spesso inconsapevolmente o aproblematicamente, ogni possibilità di ipotesi e di sperimentazione in cosmologia, in biologia, nella linguistica e via dicendo. n fatto è che gli scienziati hanno per così dire in testa una loro idea di cosa sarebbe la realtà, di come debba essere il mondo e la posizione dell'uomo nel mondo, cioè frequentano quadri di riferimento molto generali che sono in gran parte «narrazioni» di qualche genere (come la teoria dell'evoluzione o la teoria delle migrazioni indoeuropee). Non resta che concludere che l'idea che Lyotard si fa del discorso scientifico in quanto esso sarebbe non narrativo è un'idea inesatta e del tutto superficiale: anche la scienza è una grande narrazione, un grande mito sui generis, come direbbe Feyerabend e ancor prima aveva detto Wittgenstein. Peraltro Lyotard utilizza abbondantemente la scienza per formulare le sue idee relative alla molteplicità irriducibile dei «giochi linguistici» che caratterizzerebbero la condizione dell'uomo postmoderno. Col venir meno delle ultime grandi narrazioni (delle ultime ideologie, come l'illuminismo, l'idealismo, il marxismo), resta aperto il problema della legittimazione sociale e della fondazione dei valori. A questo problema Lyotard crede di poter rispondere sia recuperando (come già Gadamer) taluni tratti dell'etica aristotelica, fondata sul concetto di fronesis o saggezza pratica; sia il concetto kantiano di sentimento estetico, formulato nel giudizio riflettente della terza «Critica» (si veda Il dissidio, 1983); o ancora le nozioni di entusiasmo e di sublime (I.:entusiasmo, 1986; Heidegger e «gli ebrei», 1988; I.:inumano, 1988; Lezioni sull'analitica del sublime, 1991). L'idea è quella di fornire una analisi critica dell'individuale che non lo cancelli in formulazioni universali e che ne rispetti l'irriducibilità e la intraducibilità, pur cogliendone il senso. Il ricorso al modello « estetico » dovrebbe altresì servire a costituire un terreno di incontro tra giochi linguistici diversi, accolti nella loro «località» irriducibile e nondimeno avvicinati in aree di senso compatibili. Ma queste ultime opere di Lyotard non hanno ripetuto il successo delle tesi della «condizione postmoderna » e delle numerose «chiacchiere» culturali che ne sono seguite. 5) Differenza, trascendenza, distanza: Jean-Luc Nancy, Jean-Luc Marion
A Lyotard, ma anche e più a Merleau-Ponty, a Bataille, a Blanchot e a Derrida, si ispira Jean-Luc Nancy (n. 1940), professore all'università di Strasburgo dal 1988. Egli rilegge il problema della dissoluzione del soggetto (l'eredità più inquietante della fine della metafisica) su due fronti: come questione del corpo e come questione dell'essere in comune. Riflettere sul corpo, facendo tesoro delle analisi di Merleau-Ponty, significa mostrare l'esistenza nel suo essere carnale, vale a dire nella sua esposizione infinitamente rinnovata e nella sua estensione singolarmente plasmata. Questo filone di ricerca culmina nel libro del 1990 Un pensiero finito. In esso si prende atto della fine della filosofia intesa come pensiero rivolto a significati universali: le cose sono eventi irriducibilmente singolari scritti in una lingua
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propria. Il pensiero deve così orientarsi verso una «antologia dell'essere finito» che è per molti aspetti al di là del confine della tradizione occidentale. Ciò che si esige è sostanzialmente un'« etica della responsabilità» che sappia accogliere il muto non senso delle cose e del mondo per confrontarvisi e ravvisare in esso la possibilità del «nostro senso». «L'esistenza - scrive Nancy - non è da sacrificare e non la si può sacrificare. La si può solamente distruggere o condividere. È l'esistenza insacrificabile e finita che è offerta da con-dividere.» La «con-divisione (partage)» di cui parla Nancy è accoglimento del limite e rispetto dell'insacrificabile. «Cancellazione del sacrificio, - egli continua - cancellazione della comunione, cancellazione dell'Occidente: il che non significa che l'Occidente ritornerebbe a quel che lo ha preceduto, né che il sacrificio occidentale tornerebbe ai riti che si riteneva dovesse spiritualizzare. Questo vorrebbe dire che noi siamo sull'orlo di un'altra comunità, di un'altra metessi, in cui la mimesi della con-divisione cancellerebbe la mimica sacrificale di un'appropriazione dell'Altro.» Questa comunità altra è al centro dell'altro libro più noto di Nancy, La comunità inoperosa (1986). Qui Nancy mostra come ogni nostra definizione ed esperienza della comunità non sia che una estensione della concezione onto-teo-logica del soggetto: soggetto concepito come produttore della sua essenza attraverso il suo lavoro e la sua opera. Ma proprio questa concezione origina il fallimento della nostra esperienza della comunità. Il soggetto così inteso non è che l'atomo astratto e impotente nella sua pretesa di dar ragione e di stabilire un rapporto. L'esperienza di questa lacerazione contribuisce però a capovolgere i termini del problema e a dissolvere la tesi classica di un individuo assoluto. Capovolgimento che accade attraverso l'esperienza dell'« estasi»: l'individuo esce letteralmente fuori di sé, sperimentando l'impossibilità antologica e gnoseologica di un' immanenza assoluta e di una pura totalità collettiva. Ciò che emerge è allora la comunità estatica ovvero l'essere estatico dell'essere stesso. Questa emergenza è il comparire insieme del mondo nel comparire insieme degli uni agli altri; comparire insieme che non consente più, nella sua intima trascendenza estatica, la concezione di una natura o di un'essenza dell'essere in comune. Tutte le problematiche tradizionali della socialità e dell'intersoggettività si trovano poste in questione al cospetto di questa originaria estaticità dell'essere in comune; lo stesso spazio della filosofia diviene domanda relativa alla possibilità di continuare a filosofare. «La comunità - scrive Nancy - ci è data con l'essere e come l'essere, ben al di qua di tutti i nostri progetti, volontà e tentativi. In fondo, perderla ci è impossibile. Anche se la società è il meno comunitario possibile, non è possibile che nel deserto sociale non ci sia, infima o addirittura inaccessibile, comunità. Noi non possiamo non com-parire. Soltanto, al limite, la massa fascista tende ad annientare la comunità nel delirio di una comunità incarnata. E analogamente il campo di concentramento - e di sterminio, il campo di concentramento dello sterminio - è, nella sua essenza, volontà di distruggere la comunità. Ma mai, nemmeno nel campo di concentramento, la comunità cessa completamente di resistere a questa volontà.
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Essa è in un certo senso la resistenza stessa, la resistenza all'immanenza. La comunità, quindi, è la trascendenza; ma la "trascendenza" che cessa di avere un significato "sacro" non significa appunto nient'altro che la resistenza all'immanenza. [. .. ] La comunità ci è data - o noi siamo dati e abbandonati secondo la comunità: non è un'opera da fare, ma un dono da rinnovare, da comunicare. È piuttosto un compito, un compito infinito nel cuore della finitezza.» Si vedano inoltre di Nancy: La condivisione della voce, 1982; I; imperativo categorico, 1983; L'oblio della filosofia, 1986; I; esperienza della libertà, 1988; I luoghi divini, 1987; Corpus, 1992. La differenza, la trascendenza e la distanza sono anche i temi centrali di JeanLuc Marion (n. 1946), professore a Parigi-Nanterre, il cui cammino di pensiero è profondamente influenzato dalla religiosità cristiana. Molto noti sono i suoi originali saggi dedicati a Cartesio (Sull'antologia grigia di Cartesio, 1975; Sulla teologia bianca di Cartesio, 1981; Sul prisma metafisica di Cartesio, 1986). In generale Marion pone a confronto il pensiero contemporaneo (Nietzsche, Heidegger, Lévinas, Derrida) con pensatori cristiani come Dionigi l'Aeropagita, Massimo il Confessore o Urs von Balthasar. Non si tratta, egli dice, di criticare dei pensieri che si suppongono eterodossi, poiché la loro grandezza non si lascia mai ridurre alla piatta eterodossia; e non si tratta neppure di battezzarli per forza, il che «oltre all'indecenza, tradisce la poca fede dell' officiante ». Si tratta di lasciarsi istruire da quei pensieri relativamente al problema della distanza. Problema che è al centro del primo dei due libri più famosi di Marion: J;idolo e la distanza, 1977. La distanza riguarda l'essere nascosto di Dio. Nascondimento al quale corrispondono due opposte strategie: quella dell'idolo, che è il tentativo di ridurre la distanza attraverso un'immagine umana che catturi la figura di Dio e in qualche modo colmi la distanza; e quella dell'icona che, nel suo sforzo di fornire un'immagine sensibile dell'ultrasensibile, unisce senza fonderli visibile e invisibile. L'idolo è una strategia idolatrica che di fatto misconosce l'alterità assoluta e la distanza in colmabile di Dio; l'icona invece è un'adeguata testimonianza di quel fondo che la sorregge e che essa non può né esaurire né compiutamente rivelare. Ma se ora passiamo alla possibilità del discorso, e in particolare del discorso filosofico, ciò che dobbiamo chiederci è se il concetto abbia fatalmente la natura dell'idolo o se esso possa assumere in sé la funzione dell'icona. Questa interrogazione prosegue in Dio senza essere, 1982. Ogni rappresentazione concettuale di Dio rischia effettivamente di cadere nell'idolatria, sia che essa pretenda di cogliere positivamente l'essenza divina nella forma metafisica dell'ente supremo; sia che essa si apra alla forma negativa della «morte di Dio». Ciò significa che il pensiero di Dio deve liberarsi dalla sua iscrizione nel problema dell'essere così come è inteso dalla tradizione speculativa della metafisica. Si tratta invece di leggere nella metafisica il tentativo di pensare, come dice Heidegger, la differenza ontologica tra essere ed ente. L'essere è allora guardato come manifestazione della trascendenza e della distanza. E soprattutto è esperito in questa sua valenza attraverso esperienze come quelle della malinconia (che apre alla distanza e che apre la
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distanza), del dono (che implica un abbandonarsi all'essere piuttosto che un fissarsi su di esso) e infine della carità (la questione più oscura e « temibile »). «Con il titolo Dio senza essere - ha scritto Marion - non intendiamo insinuare che Dio non sia, né che Dio non sia veramente Dio. Noi cerchiamo di meditare ciò che Schelling chiamava: "la libertà di Dio a riguardo della sua propria esistenza". » III
·
IL
NEOPRAGMATISMO
ANGLOSASSONE
Al decostruzionismo che, in una o altra forma, ha preso piede in Europa e che ripete il suo ambito problematico dal tema della differenza, corrisponde negli Stati Uniti una rinascita del pragmatismo dal terreno stesso della filosofia analitica. Rinascita che finisce per incontrarsi in vari punti con le tematiche del decostruzionismo. r) Donald Davidson
Il più anziano esponente della ripresa di temi pragmatistici all'interno della tradizione della filosofia analitica, che è, come si sa, l'indirizzo tuttora prevalente nelle università americane, è Donald Davidson (n. 1917). Formatosi a Harvard sotto la guida del vecchio Whitehead (dal quale invero non sembra aver pn~so nulla) e soprattutto di Quine, Davidson ha insegnato a Princeton, New York, Chicago, Londra e infine nella Berkeley University di California. I suoi saggi più importanti sono raccolti nei volumi Azioni ed eventi (1980) e Ricerche su verità e interpretazione (1984). Tutto il lavoro di Davidson ruota intorno ai due nuclei problematici della verità e dell'azione. Quanto alla verità Davidson segue dapprima la tesi della filosofia analitica secondo la quale il significato di un enunciato è dato dalle sue condizioni di verità, per esempio al modo di Tarski (si veda Verità e significato, 1967); inoltre egli condivide la posizione « olistica » di Quine, secondo cui solo l'intera teoria semantica della verità può sottoporsi a controllo e non le sue singole clausole. Tuttavia Davidson non condivide la distinzione quiniana tra schema concettuale e contenuto empirico, che considera un dogma empiristico. In generale egli cerca di mostrare che una teoria semantica è un teoria «empirica» nella quale sono essenziali i comportamenti linguistici e non linguistici dei parlanti. Sin dall'inizio, infatti, Davidson ha assunto il problema dell'azione e del significato in un'ottica connessa al problema del linguaggio. Il linguaggio non è un sistema pubblico di convenzioni alle quali i singoli parlanti avrebbero accesso, ma è un processo di adattamento comportamentale che mette capo a teorie provvisorie e in corso di continua revisione. Una teoria semantica è perciò una teoria della «interpretazione radicale», la quale procede come un parlante che raccolga e identifichi tutte le informazioni possibili e necessarie a comprendere una lingua all'inizio sconosciuta. A ciò Davidson aggiunge un «principio di carità» che suggerisce di favorire l'accordo con l'interlocutore attribuendogli il maggior numero possibile di credenze vere. Ne deriva una concezione del significato che lo mostra sempre preso in un intreccio di credenze 66
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e intenzioni variamente articolate. Così, per esempio, la concezione causale dell'azione non è la medesima della sua spiegazione psicologica, sicché spiegare causalisticamente il comportamento non significa limitare la libertà umana; l'agire non può infatti mai ridursi a leggi naturali. In generale Davidson mira a liberarsi da ogni dipendenza dal concetto di una realtà esterna a ogni schema intepretativo, cioè da una sorta di realtà non interpretata, senza per questo rinunciare al carattere oggettivo della verità. È solo il dogma dualistico che divide lo schema interpretativo dalla realtà a metter capo a un relativismo concettuale; se rinunciamo a questo dogma anche ogni relativismo viene meno. È vero che la verità degli enunciati resta relativa al linguaggio, ma questa è appunto l'oggettività e tutta l'oggettività che si può ottenere e pretendere. Abbandonare il dualismo di schema e mondo non significa abbandonare il mondo, ma anzi ristabilire un contatto immediato con gli oggetti familiari e con quei comportamenti che, nel loro intreccio, rendono veri e falsi i nostri enunciati e le nostre opinioni. 2) Hilary Putnam
Lo sforzo di conciliare oggettività e interpretazione è anche al centro dei più recenti lavori di Hilary Putnam (n. 1926), del quale si è già variamente occupato il volume settimo della presente opera. Qui ci limitiamo a qualche integrazione. Putnam ha studiato dapprima con i neoempiristi Reichenbach e Carnap ed è stato in seguito allievo di Quine. Professore di matematica e di filosofia a Harvard, si è occupato di teoria del significato, anche in relazione ai problemi linguistici del « riferimento diretto» (si veda in particolare il saggio Il significato di «significato», 1975), e dei problemi della «filosofia della mente». In questo ambito egli si è reso assertore di una teoria funzionalistica che rifiuta ogni riduzionismo neurobiologico. L'ambito del «mentale» rivela un'autonomia che lo sottrae al riduzionismo fisico-chimico. Con queste idee Putnam contribuì alla messa a punto di un programma di ricerca interdisciplinare che va sotto il nome di « scienza cognitiva». Da esso si è tuttavia allontanato in seguito (si veda Rappresentazione e realtà, 1987), rendendosi conto che le credenze di un soggetto e gli atti proposizionali che le significano non possono a loro volta confinarsi « dentro la testa » e perciò negli stati funzionali dei soggetti. Decisiva è infatti l'influenza dell'ambiente fisico-sociale. Ma come intendere allora il rapporto mente-realtà? Anche qui Putnam è passato da una sorta di « realismo metafisica » (« Il mondo consiste di una totalità determinata di oggetti indipendenti dalla mente. C'è una e una sola descrizione vera e completa di come il mondo è») a una posizione molto più sfumata e però sempre decisamente polemica nei confronti di ogni relativismo (dove il bersaglio principale della sua critica è R. Rorty, di cui parleremo tra breve). Tappe principali di questo cammino, che Putnam riassume nella formula di «realismo interno», sono Ragione, verità e storia Ù981); La sfida del realismo Ù987); Un realismo dal volto umano (1990); Il pragmatismo: una questione aperta (1992). «Ci sono "fatti esterni" - dice Putnam -
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e noi possiamo dire come sono. Ciò che non possiamo dire, perché non ha senso, è quello che i fatti sono indipendentemente da ogni scelta concettuale.» Non è vero che tutto è linguaggio, come sostengono i relativisti (Putnam pensa a Foucault, Gadamer, Derrida, Rorty): «Ci sono alcuni fatti, non costituiti da noi, da scoprire. Ma lo possiamo dire solo dopo aver adottato un modo di parlare, un linguaggio, uno schema concettuale. » Ciò comporta che «là fuori» si debba ammettere una realtà complessa e plastica, la quale consente molti tipi di descrizioni, tutte a loro modo legittime. Possiamo parlare di tavoli e sedie, oppure di atomi, molecole ed elettroni. Ciò dipende in ultima analisi dai nostri «interessi», ovvero da bisogni vitali ed etici volta a volta definiti. Col che Putnam mostra il suo completo allineamento con le tesi di W James, come riconosce infatti nel libro citato del 1990. Questo è del resto un tratto comune del neopragmatismo americano, che ignora completamente la versione peirceana del pragmatismo (sebbene talora la citi superficialmente) e soprattutto ignora le critiche stringenti che Peirce ha rivolto alla posizione di James, mostrandone la totale inconsistenza e il fondamentale irrazionalismo. Di questa inconsistenza soffre conseguentemente anche il «realismo interno» di Putnam, il quale non potrebbe trovare risposta convincente alla domanda relativa agli invocati «interessi»: che cosa sono essi mai? Come «li abbiamo»? Non è forse un «fatto esterno» che noi ci troviamo costituiti da certi interessi? Se è così, non ha senso parlare del mondo come un fatto esterno rispetto ai nostri interessi, misteriosamente assunti come un «fatto interno». L'accadere dei fatti del mondo comporta e comprende anche l'accadere dei nostri interessi, il che rende inevitabile una conclusione relativistica. Il punto è che l'esperienza (e più in generale la vita) non è una partita a dadi tra gli interessi, che se ne stanno da una parte del tavolo come le puntate di un giocatore, e il mondo che se ne sta dall'altra parte e riveste la funzione del giudice «oggettivo», scoprendo la carta del banco e decidendo se abbiamo puntato bene o male. Queste ingenue metafore evoluzionistiche (che tanto piacevano anche a J ames) sono solo espressione di pregiudizi teorici e si rivelano del tutto insufficienti a pensare, come Putnam vorrebbe, che la mente e il mondo « si costituiscono insieme». Ed è in base alla medesima ingenuità che Putnam crede di poter discutere criticamente in modo efficace i problemi dell'ermeneutica e della interpretazione alla luce del suo «realismo interno». 3) Richard Rorty
Più che a James il neopragmatismo di Richard Rorty (n. 1931) si ispira a Dewey, che è un coerente riferimento per uscire da quella formazione analitica che Rorty condivise con Davidson e Putnam. Bisogna soprattutto tenere presente questo sfondo per comprendere il peso che l'operazione culturale di Rorty ha svolto negli Stati Uniti, cioè in un ambiente profondamente compenetrato dal neopositivismo e dalla logica formale, contro le quali tendenze giudicate !imitatrici già si era appunto battuto Dewey a Chicago negli anni trenta e quaranta. Che poi Rorty abbia via via 68
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ottenuto ampio ascolto anche in Europa è probabilmente un fatto in gran parte legato a fenomeni di conformismo culturale, nonché una conseguenza dei peso della informazione massificata dei media. Infatti le proposte teoriche di Rorty sono di per sé abbastanza irrilevanti e inconsistenti, anche se si deve riconoscere la vivacità e l'originalità del loro stile espressivo, che le rendono appunto appetibili a un pubblico vasto di lettori, e una certa foga provocatoria e scandalistica, secondo lo stile americano dei ribelli da salotto che spaventano le signore con le loro audacie verbali. Rorty ha insegnato a Princeton e poi nella università della Virginia. Il primo lavoro significativo di Rorty è l'antologia da lui curata su La svolta linguistica (1967), a proposito della quale Rorty è tornato a scrivere a due riprese, dieci e venticinque anni dopo. I tre interventi sono stati raccolti e tradotti in Italia nel 1994 da D. Marconi in un volume, omonimo all'antologia, che documenta in modo efficace le tappe del cammino di Rorty. Il cui punto di partenza è la riflessione sulla presa di posizione anti-idealistica di Moore e di Russell, sulla nascita del neovo;;iuvismo e sugli sviluppi wittgensteiniani del problema del linguaggio. È all'interno dell'orizzonte della filosofia analitica che Rorty conduce dapprima la sua efficace critica, delimitando l'ambito di validità di tale orizzonte e smontandone le pretese di verità oggettiva e universale. Da qui Rorty passa a proporre una sua prospettiva che trae ispirazione dalla fusione di tre principali componenti: il linguaggio ordinario, l'ermeneutica e il pragmatismo (La filosofia e lo specchio della natura, 1979; Conseguenze del pragmatismo, 1982; Contingenza, ironia e solidarietà, 1989; Oggettività, relativismo e verità, 1991; Saggi su Heidegger e altri scritti, 1991). L'intero impianto della filosofia viene messo da Rorty in questione, in quanto egli mostra l'illusorietà di perseguire l'idea della filosofia come scienza rigorosa (idea che accomuna per esempio neopositivismo e fenomenologia). La pretesa epistemologica di tutto il pensiero moderno, cioè la pretesa di una teoria universale che spieghi e fondi la conoscenza e il rapporto della mente col mondo, ricavandone un paradigma di razionalità oggettiva sul quale impiantare l'intera cultura teoretica e pratica, etica ed estetica, religiosa e politica, mette capo, al più, a proposte « opzionali », cioè contingenti e per nulla universali. La scienza stessa è un'impresa storicamente e socialmente condizionata, come ha mostrato Dewey, le cui basi sono ancora « metafisiche », come ha sostenuto Heidegger. Queste basi sono iscritte poi in un irresolubile paradosso, come il lavoro decostruttivo di Derrida (ma ancor prima la « distruzione » esercitata da Heidegger) esemplifica efficacemente. Ne deriva la necessità, per la filosofia, di voltar pagina. Essa deve abbandonare le sue pretese fondative, la sua volontà di verità, come diceva Nietzsche, e deve piuttosto badare a tradursi in un'azione «edificante» e in un compito di « socializzazione ». Il suo scopo non è più la scoperta di verità oggettive, quanto invece «il mantenimento della conversazione». La peculiarità del suo discorso non è più che uno stile di parola e di scrittura (del quale fu Platone l'iniziatore), come la letteratura e la poesia, alle quali è ormai più affine che non alle scienze. Questa « urbanizzazione » della filosofia, che ha qualche tratto di somi-
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glianza con l'ermeneutica gadameriana, corrisponde del resto, secondo Rorty, alle nuove esigenze della «società post-filosofica », in cui ogni possibilità e anche ogni esigenza di «fondazione ultima» dei valori sono venute meno. Un po' come accadde alla scienza moderna, che decise progressivamente di fare a meno di una fondazione metafisica delle sue prassi, accade oggi nei confronti della filosofia e della religione per ciò che concerne il discorso comune: esso procede per suo conto, senza troppe pretese ma anche supportato dai mezzi di comunicazione di massa. Il fatto che non sia più possibile chiedere alla filosofia, alla religione e nemmeno alla scienza una garanzia oggettiva e un'indicazione unitaria relativa al senso della vita non comporta peraltro un pericolo sostanziale di disgregazione sociale. L'unità, sia pure relativa e contingente, della vita associata è garantita dal sentimento morale della simpatia, da una sempre più diffusa ricerca della felicità individuale e dal sentimento universalmente condiviso di indignazione e di reazione di fronte alla violenza autoritaria, alla crudeltà, alle limitazioni della libertà di condotta e di opinione e insomma dalla condivisione di quegli ideali genericamente democratici (la democrazia, dice Rorty, ha una «priorità sulla filosofia») dei quali gli Stati Uniti sono, o si ritengono, i primi rappresentanti e custodi nel pianeta e che essi identificano senz' altro con la «civiltà». Di essa sarebbe espressione «l'uomo post-filosofico », «ironico» e « liberale». Ironico perché convinto della contingenza delle sue credenze, dei suoi progetti e dei suoi desideri; liberale perché spera di contribuire a diminuire la violenza, la sofferenza e «l'umiliazione subita da alcuni esseri umani a causa di altri esseri umani». Chi oserebbe contestare così nobili propositi? E tuttavia il discorso «urbano» di Rorty, al di là della sua incoerenza dichiarata (che non diviene meno incoerente per il fatto di essere dichiarata, cioè di essere la convinzione della impossibilità delle convinzioni), si presenta come una totale adesione (fondazione?) all'esistente così com'è, accettato in tutti i suoi pregiudizi e utopie: in pratica una legittimazione retorica delle cose come sono. Per di più esso cela in sé, al di là delle buone intenzioni, una sottile violenza: si dichiara pluralista a parole, ma di fatto legittima i comportamenti «urbani», i propositi, i costumi e le idiosincrasie di una ristretta minoranza umana che ha di fatto la forza e il potere di imporli all'intero pianeta. Non avrai altra aria condizionata fuori di me. 4) Alasdair Maclntyre
Esattamente all'opposto dell'individualismo liberale di Rorty si pone la riflessione morale del filosofo scozzese Alasdair Maclntyre (n. 1929). 10 Dopo aver studiato a Manchester e a Oxford e aver insegnato in varie università inglesi, nel 1969 Maclntyre si è trasferito negli Stati Uniti, dove insegna all'università di Notre Dame nell'Indiana. Autore di alcune opere già significative (Marxismo e cristianesimo, 1954; ro Per un approfondimento del pensiero di Maclntyre si veda il cap. n su <
e il paradigma della giustizia>> del presente volume.
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Breve storia dell'etica, 1966; Secolarizzazione e mutamento morale, 1967; Contro le immagini di sé del nostro tempo, 1971), nel 1981 Maclntyre ha dato alle stampe il suo libro più famoso, che ha innescato una discussione assai ampia e tuttora in corso (Dopo la virtù. Saggio di teoria morale). In esso egli denuncia il totale fallimento della morale laica, nata con l'età moderna e con l'Illuminismo. Questa morale è caratterizzata dal corrispondersi di principi del tutto astratti e formali, privati di ogni concreto contenuto etico, e di individui a loro volta sradicati da qualsiasi rapporto comunitario formativo. Ossessionata dal problema della protezione dell'individuo dalla prepotenza del potere assoluto, la morale moderna non ha fatto che procedere sul piano delle garanzie formali negative, le quali si sono fatalmente concluse in una completa anomia e nel nichilismo più sfrenato. L'individualismo etico e politico che ne è derivato non ha ottenuto per nulla quella « liberazione » che prometteva, ma anzi l'asservimento a potenze anonime, e ha perso nel contempo ogni riferimento a finalità e a valori etici percepibili e condivisibili nella concreta prassi sociale. Questo giudizio negativo non riguarda soltanto la tradizione liberale, ma più in generale tutta la morale moderna, anche nelle sue espressioni antiliberali e in particolare nel marxismo. «La conclusione a cui sono giunto - scrive Maclntyre - è che i difetti e i fallimenti morali del marxismo derivano dalla misura in cui esso, come l'individualismo liberale, fa proprio l'ethos di un mondo tipicamente moderno e in via di ulteriore modernizzazione, e che soltanto il rifiuto di gran parte di questo ethos ci fornirà un punto di vista razionalmente e moralmente sostenibile da cui giudicare e agire, e in base a cui valutare i vari schemi morali antagonistici ed eterogenei che si contendono la nostra devozione.» Non c'è dubbio che la critica da Maclntyre rivolta all'etica della modernità, dove audacemente sono accomunati nella condanna utilitarismo e imperativi kantiani, liberismo e socialismo, e così via, è straordinariamente ricca di argomenti e di esempi efficaci. Meno convincente e meno coerentemente delineata è invece la via risolutiva che viene proposta. Essa consiste in un ritorno alle virtù antiche (ignorate dal formalismo morale moderno), in particolare in un ritorno all'etica aristotelica, che sarebbe congrua rispetto a una morale della comunità (non dell'individuo astratto e isolato) da Maclntyre auspicata. La comunità è concepita da lui come un fenomeno prevalentemente locale e di ristrette dimensioni entro il quale la vita sociale fluisce all' ombra di una tradizione concreta, di concreti bisogni e beni comuni. Ne deriva l'idea di un'etica pluralistica agganciata a modelli di vita buona perseguiti in pratiche sociali che vengono definite da valori condivisi e da un comune destino. Fondamento della morale torna a essere, come dicevano appunto gli antichi, l'ethos, cioè un costume che alimenta le relazioni interindividuali, le quali hanno lo scopo sovraindividuale di promuovere il bene materiale e spirituale della comunità, secondo modelli concreti da imitare e non secondo norme astratte o divieti cui obbedire. In Giustizia di chi? Quale razionalità? (1988) Mclntyre dichiara poi la sua personale adesione alla tradizione cattolica, unico rimedio, a suo giudizio, per il relativismo morale del 71
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nostro tempo. Questa tradizione egli giudica anche come la più «razionale». Invero, Maclntyre si trova nella difficoltà di accordare questa esplicita scelta con la sua idea di assoluta autonomia delle comunità locali (che peraltro ribadisce). È proprio il cristianesimo infatti, nella sua adesione alla razionalità metafisica («aristotelica»), ad aver promosso quell'universalismo astratto, o addirittura quella «desacralizzazione» e quindi de-eticizzazione della vita, come molti ritengono a cominciare da Nietzsche, che è proprio il tratto della modernità che Maclntyre per altro verso critica e rifiuta. 5) Robert Nozick
Se Maclntyre sembra l'opposto di Rorty, Robert Nozick (n. 1938), 11 professore a Harvard, appare a sua volta in totale rotta di collisione con le tesi del filosofo morale scozzese. Nozick è un liberale come Rorty, ma le sue idee, soprattutto in diretta polemica col famoso libro di John Rawls, Teoria della giustizia (1971), su cui si veda il cap. II del presente volume, mettono capo a una radicalizzazione totale del liberalismo, secondo quella vocazione libertaria che ha avuto negli Stati Uniti una tradizione tenace e suggestiva. E così, se Maclntyre ha a cuore la comunità, Nozick guarda esclusivamente all'individuo. L'unica forma di Stato che è per lui ammissibile è quella che riduce al minimo la propria ingerenza, limitandosi a garantire il rispetto dei diritti di ciascuno. Analogamente la giustizia è per Nozick nulla di più della garanzia secondo la quale il possesso dei beni e le posizioni di potere degli individui sono conseguiti da azioni che non hanno leso i diritti di nessuno. Queste tesi radicali sono esposte nel libro Anarchia, stato e utopia del 1974. A esso sono seguiti Spiegazioni filosofiche (1981); La vita pensata (1990) e La natura della razionalità (1993), nei quali Nozick affronta alcuni problemi tradizionali del pensiero sulla base della filosofia del senso comune, ma con l'ambizione di cominciare a delineare una nuova teoria della razionalità e dell'agire razionale. Esigenza che deriva dal successo medesimo che la razionalità moderna ha conseguito, « plasmando il mondo ex nova», come disse Max Weber. Esito che però mortifica sempre più le ragioni individuali, sottomettendole a una ragione burocratica e impersonale. La sfida della ragione che sta davanti a noi è appunto quella di risolvere questa sua intima contraddizione. 6) fohn Roger Searle
Nel quadro della ripresa americana del pragmatismo va infine ricordata l'interessante opera di John Roger Searle (n. 1932), 12 professore a Berkeley in California dal 1959. Formatosi a Oxford, alla scuola degli analisti del linguaggio come H.P. 12 Su Searle si veda anche il capitolo III, dedicato alla filosofia del linguaggio del presente volume.
n Per un approfondimento del pensiero di Nozick si veda il cap. 11 su «La teoria politica e il paradigma della giustizia>> del presente volume.
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Grice, P.F. Strawson e J.L. Austin, è soprattutto di quest'ultimo che Searle ha continuato il lavoro, sviluppandone la teoria degli atti linguistici (Atti linguistici, 1969). Gli atti linguistici descrivono l'attività concreta del linguaggio o ciò che «si fa» quando si parla. Searle distingue quattro tipi di atti (enunciativi, proposizionali, illocutivi, perlocutivi), ma la sua attenzione si rivolge particolarmente agli atti illocutivi, cioè all'atto che si compie «nel» dire la frase che si dice, per esempio un comando, una promessa e simili (mentre gli atti perlocutivi riguardano gli effetti dell'azione di parola sull'interlocutore). In generale Searle tende a ricondurre l'intero problema del linguaggio alla sua funzione illocutiva e a connettere quest'ultima col problema della conoscenza. Si tratta infatti di indagare, tramite gli atti illocutivi, le nostre operazioni mentali nel loro riferirsi agli oggetti. Di qui la ripresa da parte di Searle della teoria dell'« intenzionalità »: « l'intenzionalità - egli dice - è quella proprietà di molti stati ed eventi mentali tramite la quale essi sono direzionati verso, o sono relativi a oggetti e stati di cose del mondo» (Dell'intenzionalità, 1983). Su questa base Searle sviluppa una peculiare pragmatica del linguaggio, che egli non intende però distinguere, come fanno altri sostenitori della moderna pragmatica, dalla semantica o teoria del significato. In ciò Searle manifesta la sua genuina comprensione del pragmatismo, il cui cuore consiste appunto nella completa riduzione del significato all'azione significativa (Fondamenti della logica illocutiva, in collab. con D. Vanderveken, 1985). Notevole anche il contributo dato da Searle allo studio dell'intelligenza artificiale. Egli sostiene la capacità delle «macchine intelligenti» di manipolare sintatticamente i simboli, il che non implica però il comprenderli; quest'ultima capacità è esclusivamente propria della mente umana. Famoso, e molto discusso, è divenuto al riguardo l'esempio detto della «camera cinese» in cui un uomo riceve degli ideogrammi, dei quali, ignorando il cinese, non comprende il significato, e delle regole nella sua lingua per connetterli tra loro. L'uomo è in grado di compiere correttamente l'operazione, ma non di accorgersi, per esempio, che le coppie di ideogrammi posti in relazione sono delle domande con le rispettive risposte. In modo analogo si comporta il computer: manipola correttamente i simboli, ma non per questo è lecito dire che li pensa (Menti, cervelli e programmi, 1980). Per l'ulteriore polemica, tuttora in corso, di Searle contro i cognitivisti della «filosofia della mente» si vedano Menti, cervello e scienza (1984) e La riscoperta della mente (1992).
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CAPITOLO
SECONDO
La teoria politica e il paradigma della giustizia DI
I
SALVATORE VECA
·
INTRODUZIONE
« La giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero. Una teoria, per quanto semplice ed elegante, deve essere abbandonata o modificata se non è vera. Allo stesso modo, leggi e istituzioni, non importa quanto efficienti e ben congegnate, devono essere riformate o abolite se sono ingiuste. » 1 Così John Rawls (n. 1921), nelle prime pagine di Una teoria della giustizia, formula la tesi che è al centro del nuovo paradigma della filosofia politica degli ultimi decenni. Il paradigma è quello inaugurato appunto dall'opera del filosofo di Harvard che, dopo una gestazione più che decennale, viene pubblicata nel 1971. A partire da quella data, la ricerca filosofica e il confronto delle idee si mettono a fuoco nell'ambito di una qualche teoria della giustizia. La discussione, che dapprima ha coinvolto comunità scientifiche di lingua inglese in cui prevalente è il riferimento condiviso alla tradizione analitica, si è estesa negli anni ottanta con crescente vivacità alle comunità più caratterizzate dal riferimento alle tradizioni continentali. Il nuovo paradigma delle teorie della giustizia impegna nel confronto non solo i filosofi ma anche gli scienziati politici e sociali, gli economisti e i giuristi, i sociologi e i politologi, gli storici e gli antropologi. L'affermarsi del nuovo paradigma ha coinciso con il cosiddetto revival della filosofia pratica o, come dovremo precisare, della teoria normativa o prescrittiva in ambiti di ricerca che sono propri delle teorie sociali e politiche positive, esplicative o descrittive. In qualche modo si può dire che il paradigma delle teorie della giustizia mira all'identificazione razionale o ragionevole dei criteri del giudizio politico riflessivo. La questione saliente per le teorie della giustizia è quella delle ragioni che sostengono la giustificazione di un certo assetto delle istituzioni politiche e sociali, alla luce degli effetti che un tale assetto ha sui prospetti di vita di chi fa parte di una determinata società, modellata da quelle istituzioni. Così, il problema normativa si specifica come il problema dei criteri di giustificazione di una società bene ordi-
I
Rawls,
1971,
trad. it., p.
21.
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nata, stabile nel tempo. Una società giusta non è altro che una società le cui istituzioni fondamentali superino un test di giustificazione - specificato dalla teoria - accettabile o ragionevolmente non rifiutabile per tutti coloro che sono membri della polis. Una teoria della giustizia mira a fornire i criteri di giudizio, a differenti livelli di generalità e astrazione, per valutare tanto le istituzioni fondamentali quanto i provvedimenti politici, tanto la «politica» quanto le «politiche», ossia le scelte collettive o pubbliche cui pervengono i processi politici di deliberazione. In quanto teoria normativa, una teoria della giustizia si distingue dalla famiglia delle teorie descrittive o esplicative della politica e delle politiche. Mentre negli anni cinquanta e sessanta si è assistito a una intensa proliferazione di modelli, paradigmi e teorie miranti a descrivere o spiegare i sistemi e i processi politico-sociali, dagli anni settanta in poi una crescita di analoga intensità ha interessato le teorie miranti a valutare sistemi e processi politici e sociali. In questo senso si può dire che il paradigma delle teorie della giustizia consiste essenzialmente nella riabilitazione degli impegni normativi della teoria politica. Avere riabilitato il ruolo della ragione nella ricerca di risposte alle domande di giustificazione delle istituzioni politiche e sociali è probabilmente il merito più significativo dell'impresa di Rawls. Il suo lavoro del 1971 ha così aperto lo spazio per un confronto fra concezioni alternative di quali siano i criteri di giustificazione delle istituzioni politiche e delle pratiche sociali, una vera e propria controversia filosofica sui requisiti di una «società giusta». Il termine paradigma introdotto poco sopra rinvia naturalmente all'ormai classica opera di Thomas Kuhn sulla struttura delle rivoluzioni scientifiche. È noto che l'uso del termine è appropriato quando esso rende conto della «scienza normale» in una comunità scientifica. Quando la scienza normale comincia a stagnare e si presentano ripetuti casi di anomalie, sembrano essere rintracciabili i sintomi di un possibile cambiamento concettuale, un riorientamento gestaltico o una «rivoluzione». Viene così da chiedersi quale tipo di scienza normale sia quella che precede la rottura che dà luogo al paradigma delle teorie della giustizia nelle ricerche intorno alla politica e alle politiche. La risposta è semplice: il paradigma dominante in alternativa al quale Rawls costruisce la sua teoria della giustizia prevede l'adesione a una delle versioni dell'utilitarismo. È impossibile comprendere la posizione di Rawls se non si hanno presenti le tesi centrali, gli impegni e le caratteristiche salienti della teoria rivale. È quindi dall'utilitarismo come teoria della giustizia che è opportuno prendere le mosse. II
·
UTILITARISMO
Vi è un nucleo comune condiviso da qualsiasi versione dell'utilitarismo. Esso consiste nell'idea che il criterio di valutazione morale deve essere sensibile alle conseguenze delle scelte o dei corsi di azione, valutate nei termini della utilità o disutilità che esse generano sui prospetti di vita individuali. In una comunità politica 75
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pertinente la giustizia consiste nella massimizzazione dell'utilità collettiva, l'ingiustizia nello spreco di «felicità pubblica». Questo nucleo è rinvenibile nelle formulazioni pionieristiche di Jeremy Bentham o di Cesare Beccaria e permane nella grande varietà di riformulazioni dell'utilitarismo contemporaneo, da Richard Hare a J ohn Harsanyi. Presenterò sommariamente la proposta di teoria della giustizia elaborata da quest'ultimo nei termini dell'utilitarismo della preferenza. Giova tuttavia premettere e illustrare alcune proposizioni elementari che esprimono caratteristiche di fondo del programma utilitaristico e che, per convenzione, chiamerò «proposizioni benthamiane », dato che è possibile ritrovarle quasi tutte nella celebre Introductz'on to the prz'nàples o/ morals and legz'slatz'on del 1789. La prima proposizione benthamiana afferma che vi è un fatto cui è rispondente il principio dell'utilitarismo: piacere e pena «governano la nostra condotta, ci dicono che cosa dobbiamo fare, ci danno il criterio del giusto e dell'ingiusto ». 2 Il principio dell'utilitarismo riconosce tale fatto e lo assume come fondamento di «quel sistema il cui scopo è costruire con la ragione (non con il capriccio) la fabbrica della felicità». La seconda proposizione benthamiana specifica che con l'espressione « principio di utilità» si deve intendere «il principio che approva o disapprova qualsiasi azione, quale che sia, sulla base della tendenza che essa sembra avere di aumentare o diminuire la felicità della parte il cui interesse è in questione». A sua volta, come mostra la terza proposizione, l'utilità consiste nella «proprietà di ogni oggetto, con cui o grazie a cui esso tende a produrre benefici, vantaggi, piacere, bene o felicità». E la quarta proposizione precisa che può trattarsi dell'utilità collettiva tanto quanto dell'utilità individuale, a seconda della «popolazione» pertinente di chi è incluso fra i clienti dell'etica. La quinta proposizione benthamiana chiarisce come si debba intendere un'espressione importante nel lessico politico quale interesse collettivo: esso è la somma degli interessi dei membri che compongono una determinata comunità o collettività, quale che sia. Che cosa prescriva il principio di utilità è spiegato dalla sesta proposizione benthamiana: un'azione «è detta conforme al principio di utilità quando la sua tendenza ad aumentare la felicità di una comunità è maggiore di quella a diminuirla. Un provvedimento politico - che non è altro che un tipo particolare di azione, compiuto da una persona o da persone particolari - è conforme quando la sua tendenza ad aumentare la felicità della comunità è maggiore della sua tendenza inversa». Se ci chiediamo ora in che senso si connettano propriamente il principio di utilità e una teoria della giustizia, la settima proposizione risponde che termini come «dovere», «giusto» o «ingiusto» hanno senso solo in rapporto all'esito dell'applicazione del principio di utilità. « Se no, non ne hanno alcuno. » Che il principio 2 I brani citati di An introduction to the principles o/ morals and legislation di Bentham sono
tratti dall'edizione inglese del 1982.
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di utilità sia l'unico principio meramente razionale è quanto afferma la ottava proposizione benthamiana: «gli altri principi sono principi del capriccio, arbitrari». Infine, il calcolo sociale della felicità pubblica va eseguito nel modo prescritto dalla nona proposizione: « somma tutti i valori di tutti i piaceri da un lato e di tutte le pene dall'altro. Il saldo a vantaggio dei piaceri è il bene dell'individuo. Prendi ora conto del numero di persone i cui interessi sono implicati. Ripeti il processo di prima rispetto a ciascuno. Somma i numeri che esprimono i gradi di bene. Avrai il saldo del numero totale o della comunità». Le nove proposizioni benthamiane sembrano dare un resoconto efficace di che cosa voglia dire adottare criteri utilitaristici nel giudizio sulle istituzioni, sull'ordine politico e sulle pratiche sociali. L'utilitarismo non è tuttavia intrinsecamente una teoria politica normativa: esso è piuttosto una teoria morale comprensiva che ha di mira la valutazione morale di qualsivoglia tipo di azione o scelta. Inoltre, quasi tutte le nove proposizioni benthamiane hanno dato luogo, negli sviluppi e nei raffinamenti del programma utilitaristico, a controversie, revisioni e correzioni a volte drastiche. Resta comunque il fatto che le nove proposizioni indicano le caratteristiche essenziali di una teoria della giustizia utilitaristica, quella teoria normativa che, esplicitamente o implicitamente, è stata paradigmatica sino alla proposta critica e alternativa di Rawls, centrata sull'idea della giustizia come equità. Consideriamo le caratteristiche salienti dell'utilitarismo come teoria della giustizia, commentando le proposizioni benthamiane. r) L'idea centrale è quella della massimizzazione di una grandezza sociale, variamente interpretata come utilità aggregata o utilità media o utilità media attesa. La giustizia è così concettualizzata come una sorta di «efficienza sociale». 2) Il criterio di valutazione di istituzioni e scelte politiche è un criterio meramente razionale, indipendente da qualsiasi giudizio intuitivo di giustizia. 3) La teoria è monistica: vi è un solo criterio di giustificazione. 4) La teoria è teleologica nel senso che, data una definizione del bene, considera come giusto ciò che massimizza il bene. 5) L'approccio dell'utilitarismo a questioni di giustizia è essenzialmente aggregativo: ha di mira, per così dire, l'ammontare di utilità totale e non la sua distribuzione, salvo nei casi in cui ciò implichi effetti aggregativamente significativi. 6) La teoria è consequenzialistica nel senso che il criterio di valutazione si applica a stati del mondo, intesi come conseguenze attese di scelte o azioni. 7) La teoria è welfaristica o benesserista nel senso che le conseguenze sono valutate alla luce dell'informazione sull'utilità generata (il monismo vale anche per l'informazione rilevante). 8) La procedura di scelta collettiva adottata dalla teoria è maggioritaria dato che l'esito giusto del calcolo sociale è quello che soddisfa gli interessi o le preferenze o i desideri maggiormente intensi; in caso contrario non si otterrebbe un risultato di massimizzazione e si sprecherebbe utilità collettiva possibile. 9) La teoria incorpora una particolare interpretazione dell'eguaglianza morale: lo spazio focale per l'eguaglianza è quello degli interessi o delle preferenze. Una preferenza vale, a parità di intensità, quanto qualsiasi altra preferenza, quale che sia 77
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e di chiunque sia. Un interesse contribuisce, a pari titolo con gli altri di uguale intensità, a determinare l'esito del calcolo sociale. Se le nove caratteristiche salienti indicate specificano qual è la natura dell'utilitarismo come teoria della giustizia, un resoconto metamorale può sommariamente essere il seguente: l'utilitarismo presuppone una precisa concezione di quale sia il contenuto di una moralità riconoscibile per i singoli individui. Tale contenuto è specificato in termini di benessere, soddisfazione o frustrazione di bisogni, desideri, scopi o aspirazioni (quali che siano). La moralità deve proteggere tutti gli individui che hanno interessi per il semplice fatto che la loro frustrazione è male. Come si usa dire a proposito dell'utilitarismo negativo, l'idea intuitiva è che istituzioni e pratiche sociali o provvedimenti politici giusti sono quelli che puntano a m1mm1zzare la sofferenza socialmente evitabile. Questa idea intuitiva è alla base dei criteri del giudizio politico utilitaristico. Possiamo ora considerare una delle formulazioni più rigorose dell'etica pubblica utilitaristica, dovuta al filosofo ed economista statunitense (ma di origine ungherese) John Harsanyi (n. 1920).3 Si tratta, come ho accennato, dell'utilitarismo della preferenza. Harsanyi rivede alcune delle assunzioni implicite nelle proposizioni benthamiane, mantenendo l'impegno centrale dell'utilitarismo a interpretare o riformulare le questioni di giustizia in termini di massimizzazione del benessere collettivo. L'etica è considerata parte di una più generale teoria del comportamento razionale, che prevede una distinzione fra casi in cui gli individui si trovino a scegliere razionalmente in situazioni individuali e casi in cui gli individui si trovino a scegliere razionalmente in situazioni sociali. Harsanyi connette così etica e teoria delle decisioni o della scelta razionale. Nei casi di scelte individuali in contesti individuali avremo differenti massime di scelta razionale a seconda del tipo di informazione di cui dispone chi deve scegliere: qui la distinzione pertinente è quella fra casi di certezza, incertezza e rischio. Nei casi, invece, di scelte individuali in situazioni o contesti sociali, avremo due campi differenti per la razionalità pratica a seconda che assumiamo che i nostri interessi siano parzialmente o totalmente divergenti o che essi siano, all'inverso, convergenti. Nel caso di parziale o totale divergenza degli interessi, le massime di razionalità per le scelte individuali saranno date, come soluzioni, da una teoria della razionalità strategica o teoria dei giochi. Nel caso in cui consideriamo gli interessi della società come un tutto, la scelta razionale si baserà su un criterio fornito da una teoria etica. In questo senso preciso, l'etica è parte di una teoria della scelta razionale e la massima di razionalità nell'ambito dell'etica è una massima utilitaristica. Vediamo perché ed esaminiamo qual è la versione dell'utilitarismo coerente con questo approccio. 3 Si veda di J. Harsanyi Moralità e teoria del comportamento razionale, in A.K. Sen e B.A.O.
Williams (a cura di), 1982, trad. it., pp. 51-80.
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Harsanyi ci chiede di adottare un semplice modello per i nostri ordinari giudizi di valore morale, quello di considerarli giudizi di preferenza. La preferenza può essere personale o impersonale. Quando ci impegnamo a valutare stati del mondo o situazioni politiche e sociali fra loro alternative, possiamo farlo alla luce delle nostre preferenze personali. Ma possiamo anche adottare una differente prospettiva per valutare stati del mondo alternativi, quella delle nostre preferenze impersonali, che non sono altro che le preferenze etiche o morali di ciascuno di noi. Per rendere conto della natura delle preferenze etiche, è sufficiente introdurre un postolato di equiprobabilità che vincola la informazione sulle nostre preferenze personali. In altri termini, se accettiamo di valutare eticamente (giustificare o meno) istituzioni e pratiche sociali, dobbiamo essere disposti a farlo a prescindere dalle nostre preferenze personali e sapendo di avere la stessa probabilità di essere chiunque nello stato del mondo o nella società di cui valutiamo istituzioni e pratiche. La scelta etica è così una scelta individuale incerta sul mondo sociale. In questo contesto, Harsanyi propone di riformulare il principio di utilità, che abbiamo discusso a proposito delle proposizioni benthamiane, in termini di massimizzazione dell'utilità media attesa. La soluzione di Harsanyi, che è coerente con gli sviluppi dell'economia del benessere e con la ricerca di una soddisfacente funzione del benessere sociale, rappresenta certamente uno degli esiti più significativi dell'utilitarismo contemporaneo nell'ambito della teoria normativa della politica. Essa conferma l'impegno utilitaristico a considerare le questioni di giustizia come questioni di massimizzazione del benessere collettivo e a fornire un criterio meramente razionale per il giudizio politico riflessivo. Alla base dell'utilitarismo della preferenza di Harsanyi, così come alla base della teoria normativa metaetica del filosofo inglese Hare, permane la prima proposizione benthamiana. Come ho accennato, l'utilitarismo non è propriamente una teoria politica. Esso è soprattutto e prioritariamente una dottrina morale comprensiva che prescrive come rispondere nel modo giusto a ciò che ha valore. Questo, da un lato, può rendere conto del perché l'utilitarismo sia stato così a lungo la filosofia implicita di larga parte delle scienze sociali (l'esempio canonico è quello della teoria economica) e, dall'altro, può spiegare in che senso la teoria utilitaristica della giustizia non includa alcun valore propriamente politico come valore intrinseco. Se ci si chiede quale sia la « politica » utilitaristica, quale trattamento sia da riservare a valori politici e sociali quali le libertà, i diritti, l'eguaglianza, piuttosto che lo stato e il mercato, la risposta utilitaristica è naturalmente debitrice nei confronti degli esiti del calcolo sociale. Nessuno di questi termini ha valore se non sulla base di un test di massimizzazione dell'utilità collettiva, che è l'unico valore intrinseco ammesso dalla teoria monistica. L'eco della eloquente denuncia benthamiana dei diritti affermati dalle Dichiarazioni del XVIII secolo come «pomposi nonsensi » ha accompagnato gli sviluppi dell'utilitarismo come teoria normativa della politica. Il mutamento di paradigma avvenuto con la teoria della giustizia di Rawls è stato efficacemente sottolineato da uno 79
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dei più grandi filosofi del diritto della seconda metà del secolo, l'inglese Herbert Hart (n. 1907). Hart ha individuato un «processo di abbandono del vecchio credo un tempo diffusamente accettato che una qualche forma di utilitarismo debba poter cogliere l'essenza della moralità politica purché riusciamo a scoprirne la forma giusta [ .. .] Nuovo credo è che la verità non può trovarsi nella dottrina che considera come fine la massimizzazione del benessere complessivo o medio, ma in una dottrina dei diritti umani fondamentali che proteggono specifici interessi e libertà fondamentali degli individui, che naturalmente superi le ben note classiche obiezioni [ ... ] Fatica e intelligenza che sono state così a lungo spese per far risultare soddisfacente una qualche forma di utilitarismo, vengono ora profuse per elaborare teorie dei diritti fondamentali. 4 Lo slittamento dell'interesse dall'utilità ai diritti, di cui parla Hart, prende le mosse dalla teoria della giustizia che Rawls presenta come alternativa globale e praticabile all'utilitarismo: si tratta della teoria contrattualistica della giustizia come equità. Dobbiamo ora presentare la teoria di Rawls con una certa ampiezza, dato il suo ruolo di terminus a quo degli ultimi decenni di ricerca entro il nuovo paradigma della teoria normativa della politica. Come ha osservato uno dei critici più acuti e penetranti di Una teoria della giustizia, «ora i filosofi politici devono lavorare all'interno della teoria di Rawls, oppure spiegare perché non lo fanno ». 5 III
· CONTRATTUALISMO
Una teoria della giustizia è un libro lungo e complicato, come avverte il suo stesso autore. È articolato in tre parti. Nella prima, Rawls illustra la teoria della giustizia come equità; presenta i contrasti essenziali, da un lato, con l'utilitarismo, dall' altro, con una famiglia di teorie alternative di tipo intuizionistico che hanno elaborato critiche locali a esiti controintuitivi dell'utilitarismo; espone infine una tesi sul metodo della teoria della giustizia basato sull'equilibrio riflessivo. Sono successivamente presentati, in modo intuitivo, i due principi basilari della teoria della giustizia come equità e ne viene argomentata la preferibilità rispetto ad altri criteri del giudizio politico alla luce di un confronto fra differenti tradizioni di credenza e valore politico. Solo a questo punto (nel terzo capitolo della prima parte), Rawls si propone di giustificare analiticamente la scelta dei principi di giustizia. Per far ciò, ricorre a una originale e controversa riformulazione del modello del contratto sociale, presentata congetturalmente per la prima volta in un fondamentale articolo della fine degli anni cinquanta, Giustizia come equità. La teoria della giustizia come equità è contrattualistica in quanto i principi di giustizia sociale sono l'esito di una scelta collettiva unanime o di un « contratto sociale » in una opportuna situazione di scelta.
4 Hart, 1979, trad. it., pp. 1-22.
5 Nozick, 1974, trad. it., p. 194.
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Dopo aver argomentato nella prima parte (Teoria) a favore dei principi della giustizia come equità, nella seconda parte (Istituzioni) Rawls discute il modo in cui i principi possono informare e modellare l'assetto delle istituzioni fondamentali, politiche, sociali ed economiche di una società giusta e, nella terza parte (Fini), esamina come individui che abbiano una vita da vivere in una società giusta, definita dai principi della teoria, potrebbero continuativamente sviluppare e corroborare una comune lealtà e un senso condiviso di giustizia, stabile nella durata. Le caratteristiche salienti dell'impresa di Rawls possono essere chiarite facendo riferimento al contenuto della prima parte della sua opera del '71, la Teoria. Esaminiamo alcune elementari proposizioni rawlsiane. a) È possibile distinguere fra un concetto di giustizia e più concezioni della stessa. n concetto di giustizia è espresso dall'idea di un principio o di più principi di giustificazione dello schema di cooperazione sociale . che ci consentono di riconoscere una società bene ordinata e stabile nel tempo. Tale schema implicherà una certa distribuzione di costi e benefici, oneri e onori, risorse, diritti e opportunità. Differenti possono essere le interpretazioni di quali siano i principi: a un concetto corrispondono più concezioni. L'utilitarismo, per esempio, è una concezione. Una concezione alternativa è quella proposta dalla teoria contrattualistica della giustizia come equità. b) L'oggetto di una teoria della giustizia coincide con l'assetto delle istituzioni fondamentali di una società. Il criterio del giudizio politico riflessivo verte su tale assetto per gli effetti che si assume esso abbia sui prospetti di vita dei membri di quella società. Per istituzioni fondamentali si intendono quelle i cui effetti toccano i piani di vita completi degli individui: si pensi, per esempio, a una determinata distribuzione di diritti civili, politici o sociali. c) L'idea portante della teoria della giustizia come equità consiste in una generalizzazione della tradizione del contratto sociale. Si consideri in proposito il programma del contrattualismo moderno alla Locke, Rousseau o Kant come un programma centrato sull'idea di scelta collettiva per rispondere alla questione ricorrente dell'obbligo politico o della giustificazione dell'autorità (preferenza unanime per lo stato politico rispetto a una situazione iniziale alternativa chiamata « stato di natura» o « anarchia»). L'autorità risulterebbe giustificata se e solo se essa fosse unanimemente preferita allo stato di natura. Si estenda ora questo approccio al caso dei criteri di giustizia distributiva. Si dirà che i principi di giustizia sono quelli che sarebbero unanimemente preferiti ad altri in una opportuna situazione iniziale di scelta che rimpiazza lo stato di natura delle teorie classiche. I principi di giustizia sono l'oggetto di un contratto sociale. Come abbiamo visto, lo stato di natura viene rimpiazzato da una situazione iniziale di scelta e l'interpretazione favorita filosoficamente da Rawls è quella di una «posizione originaria » in cui gli individui si trovano a scegliere principi di giustizia per lo schema di cooperazione sociale essendo al buio su chi sono, sulla loro sorte naturale e sociale,
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sulle loro dotazioni, sul loro sesso e sulla razza, sulla classe così come sulla loro concezione del bene. La scelta collettiva dei principi di giustizia deve avere luogo, come afferma Rawls, sotto un «velo di ignoranza». (Esamineremo più avanti affinità e differenze con il modello dell'equiprobabilità di Harsanyi.) La scelta in posizione originaria è naturalmente una scelta ipotetica: un artificio espositivo o, se si preferisce, un esperimento mentale che mira a una ricostruzione razionale del «senso di giustizia». Perché uno schema di cooperazione sociale superi il test della giustizia distributiva occorre che esso sia valutato dal punto di vista di chiunque, entro quello schema, abbia una vita da vivere in comune con altri. d) I principi della teoria della giustizia come equità sono due. Il primo - un principio di libertà - prescrive che ciascun individuo abbia il massimo sistema di libertà, compatibile con il massimo sistema di libertà per ciascun altro. Il secondo - un principio di differenza - prescrive che ciascun individuo abbia diritto alla stessa quota di beni sociali primari e ammette ineguaglianze nella distribuzione se e solo se esse vanno a vantaggio di chi è più svantaggiato. I due principi sono serialmente ordinati nel senso che non è possibile applicare il secondo se non è prioritariamente applicato il primo (ordinamento lessicale o lessicografico dei principi); ciò implica che non siano ammessi scambi o transazioni fra il sistema delle libertà e altri valori sociali. I due principi sono ottenuti analiticamente grazie alla procedura di scelta razionale entro la posizione originaria. Ma la posizione originaria è un'interpretazione della situazione iniziale di scelta, e quest'ultina dipende dai nostri giudizi intuitivi di giustizia. Si delinea così l'idea di un bilanciamento o di un aggiustamento mutuo fra giudizi intuitivi e principi. La teoria della giustizia deve misurarsi globalmente con i nostri giudizi intuitivi per fornire criteri affidabili del giudizio politico riflessivo, in virtù di una sorta di olismo metodologico alla Quine. e) L'utilitarismo è una teoria teleologica, basata sulla priorità del bene sul giusto (giusto è ciò che massimizza il bene). Al contrario, il contrattualismo è una teoria deontologica, basata su una definizione preliminare del giusto, indipendente dal bene, che vincola le concezioni del bene coerenti con il giusto. L'utilitarismo è centrato sull'idea di estendere il principio di scelta razionale individuale alla scelta collettiva. Così facendo, l'utilitarismo non prende sul serio la distinzione fra le persone e guarda alla società come a un «grande individuo». (Sembra che l'utilitarismo trovi in ciò le ragioni del suo trattare questioni interpersonali nei termini appropriati a questioni intrapersonali.) Al contrario, il contrattualismo è rispondente alla pluralità delle persone e alla natura propriamente collettiva del problema della scelta dei principi di giustizia. L'utilitarismo deve poter ammettere che tutto si scambi con tutto e che l'assetto di istituzioni fondamentali sia modellato dall'esito contingente del calcolo e dell'aggregazione degli interessi sociali. Il contrattualismo, invece, sottrae « costituzionalmente » alle negoziazioni e alle procedure di aggregazione degli 82
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interessi un insieme di diritti fondamentali delle persone, in quanto partner di una comunità democratica di «liberi e uguali», cui è dovuta eguale considerazione e rispetto. Rawls sintetizza in questo modo il contrasto fondamentale fra la teoria della giustizia come equità e la prospettiva utilitaristica: «[. .. ] Noi consideriamo una società bene ordinata uno schema di cooperazione per il reciproco vantaggio, regolato dai principi che gli individui sceglierebbero in una situazione iniziale di scelta equa». Gli utilitaristi ritengono bene ordinata una società quando in essa si dia « un'efficiente amministrazione delle risorse [. .. ], con lo scopo di massimizzare la soddisfazione del sistema dei desideri costruito dall'osservatore imparziale a partire da più sistemi individuali di desideri assunti come dati ». 6 f) L'utilitarismo ha ricevuto una lunga serie di critiche penetranti che hanno via via messo in luce, nelle sue applicazioni, una varietà di esiti moralmente controintuitivi. Si può dire che l'alternativa al criterio del giudizio politico utilitaristico è costituita da una famiglia pluralistica o intuizionistica di criteri. Tuttavia, l'intuizione si fonda sulla convinzione che sia impossibile ordinare costruttivamente i differenti criteri o principi e che la loro validità normativa sia via via determinata dagli specifici contesti (si pensi ai casi classici, esemplificati dai dilemmi fra principi distributivi e principi aggregativi, fra efficienza ed equità e ai vari casi di conflitto fra valori divergenti, tutti egualmente incorporati nel senso di giustizia entro comunità date). La teoria della giustizia come equità, proponendosi come alternativa globale all'utilitarismo, si basa sull'idea di un ordinamento fra principi, generato dalla teoria stessa. L'ordinamento lessi cale fra il principio di libertà e quello di differenza è l'esempio principale di un'applicazione di questa idea. g) Se l'utilitarismo non dà coerentemente alcuno spazio ai giudizi intuitivi e al senso di giustizia degli individui, come mostra chiaramente una delle nove proposizioni benthamiane esaminate poco sopra, l'intuizionismo si basa esclusivamente sul ricorso alle intuizioni morali. Il contrattualismo rifiuta l'idea che sia possibile costruire una plausibile e praticabile teoria della giustizia del tutto indipendente dai giudizi intuitivi in cui si esprime il senso di giustizia di una comunità data; tuttavia riduce lo spazio che è affidato dall'intuizionismo ai giudizi intuitivi individuali. Una teoria della giustizia, nella prospettiva di Rawls, è una sorta di grammatica dei giudizi ordinari sul giusto e sull'ingiusto. I principi della teoria devono essere messi alla prova con i giudizi intuitivi, esaminati e soppesati riflessivamente alla luce della teoria. Si può pensare, come ho accennato; a un processo di mutuo aggiustamento fra principi e giudizi sino a che non si pervenga a un punto di equilibrio, inevitabilmente provvisorio. Questo è quanto suggerisce il metodo dell'equi-
6 Rawls, 1971, trad. it., p. 44·
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librio riflessivo di cui si awale la costruzione della teoria della giustizia come equità. La teoria si propone, in altri termini, di fornire una ricostruzione razionale dei nostri « sentimenti morali» per come essi si esprimono negli ordinari esercizi di competenza normativa a proposito di questioni di giustizia, entro le nostre società. Alcuni commenti alle sette proposizioni rawlsiane ci consentono di mettere in luce caratteristiche salienti del contrattualismo come teoria della giustizia alternativa all'utilitarismo. I) L'idea centrale è quella del contratto o della scelta collettiva dei principi di giustizia; 2) i criteri del giudizio politico sono ricavati da una teoria della scelta razionale (posizione originaria), ma la interpretazione della situazione iniziale di scelta dipende a sua volta da una ricostruzione di alcune assunzioni intuitive che esprimono e specificano il senso di giustizia dei membri di una comunità politica data. 3) La teoria non è monistica. Riconosce il pluralismo dei valori della libertà e dell'equità distributiva e ordina i due principi corrispondenti sulla base di una regola di priorità; 4) la teoria è deontologica; la giustizia deve poter essere definita preliminarmente, rispetto a qualsivoglia concezione del bene. Più precisamente, come vedremo, la convergenza sui principi di giustizia ha luogo in virtù di una concezione solo parziale del bene. Questioni di vita giusta sono distinte da questioni di vita buona e, soprattutto, le prime sono lessicalmente preordinate alle seconde. 5) L'approccio della teoria della giustizia come equità è intrinsecamente distributivo e non aggregativo. I due principi coincidono con criteri per la valutazione di distribuzioni alternative, concettualizzate come effetti del funzionamento di istituzioni politiche, sociali ed economiche fondamentali in una società. 6) Per quanto deontologica, la teoria è in ogni caso consequenzialistica. Dopo tutto, come abbiamo osservato a proposito di (5), i suoi principi ci dicono come valutare istituzioni alla luce degli effetti che il loro funzionamento si presume abbia sugli stati del mondo. 7) L'informazione non è welfaristica, ma concerne una classe particolare di risorse quali i beni sociali primari. 8) La teoria adotta una procedura di scelta unanime. Giusto è ciò che deve poter essere ragionevolmente accettato o ragionevolmente non rifiutato da chiunque. Quando si adotta una procedura che richiede unanimità, è chiaro che si assume che ciascun individuo abbia potere di veto: la giustizia come equità qualifica l'esercizio di tale potere dando priorità all'accettazione e al non rifiuto di chi è più svantaggiato nella distribuzione dei beni sociali primari. 9) Il contrattualismo fornisce una versione dell'eguaglianza morale alternativa a quella proposta dall'utilitarismo. Essa non concerne gli interessi o le preferenze date quanto piuttosto le persone morali libere ed eguali, considerate responsabili dei propri fini e capaci di definirli e ridefinirli autonomamente nel tempo. Come vedremo fra poco, questa controversa definizione del ruolo delle persone morali riguarda di fatto l'idea di eguale cittadinanza democratica. Infine, se ci si chiede quale sia il contenuto della moralità che da un punto di vista metamorale è soggiacente alla prospettiva contrattualistica, si può rispondere che l'idea saliente è quella di un'intesa sui principi destinati a modellare i mutui
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trattamenti fra una pluralità di individui, tali che per ciascuno sia ragionevole accettarli in modo non coatto o per lo meno non rifiutarli. Questo resoconto del contrattualismo rawlsiano ne sottolinea alcuni aspetti lato sensu kantiani (si pensi alle celebri formulazioni di Kant a proposito del « regno dei fini » nella Fondazione della metafisica dei costumi): per così dire, Kant versus Bentham. Possiamo ora esporre l'argomento intuitivo a favore della teoria della giustizia come equità che Rawls presenta, prima di argomentarne la giustificazione entro il contesto della posizione originaria (nella posizione originaria il problema della giustificazione è riformulato come un problema di deliberazione). L'argomento intuitivo riguarda sostanzialmente il secondo principio della teoria, quello destinato a suscitare un'intensa controversia negli sviluppi del paradigma delle teorie della giustizia. Si tratta del principio di differenza, un principio che mira a modellare la distribuzione giusta di risorse, una volta garantita con il primo principio l'ascrizione delle eguali libertà fondamentali a ciascuno. Rawls suggerisce in proposito che pensare nei termini usuali a una tensione o a un contrasto fra libertà ed eguaglianza o equità sia di fatto fuorviante. Il principio di equità distributiva mira in realtà a rendere eguale il diseguale valore delle eguali libertà. In ogni caso, il principio di differenza si può presentare come una interpretazione particolare di un principio distributivo generale. Quest'ultimo prescrive che tutti i valori sociali devono essere distribuiti egualmente a meno che una qualche ineguaglianza nella loro distribuzione non vada a vantaggio di ciascuno, essendo collegata comunque a cariche e posizioni aperte a tutti: «Tutti i valori sociali - libertà e opportunità, ricchezza e reddito, e le basi del rispetto di sé - devono essere distribuiti in modo eguale, a meno che una distribuzione ineguale, di uno o di tutti questi valori, non vada a vantaggio di ciascuno. L'ingiustizia, quindi, coincide semplicemente con le ineguaglianze che non vanno a beneficio di tutti. Naturalmente, questa concezione è estremamente vaga e richiede un'interpretazione. »7 Ora il principio di differenza consiste propriamente in una particolare interpretazione delle clausole vaghe della formulazione del principio generale. Le clausole che devono essere disambiguate sono a) «a vantaggio di ciascuno» e b) «cariche e posizioni aperte a tutti». Sono allora possibili, se si guarda alla tradizione di credenza e giudizio politico, almeno due interpretazioni che non coincidono con quella fornita dal principio di differenza. Diremo per convenzione che la concezione generale può essere interpretata entro un sistema di libertà naturale (per usare la celebre espressione di Adam Smith) o entro il quadro dell'eguaglianza liberale. Il principio di differenza richiede, per contrasto, un'interpretazione entro il quadro dell'eguaglianza democratica. Partiamo dal sistema della libertà naturale. In esso il «vantaggio di ciascuno » è specificato grazie all'applicazione di un principio di efficienza paretiana, mentre 7 ivi, p. 67.
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le «cariche e posizioni aperte a tutti» sono interpretate come carriere formalmente aperte in modo corrispondente ai talenti. Immaginiamo di dover valutare una certa distribuzione di beni sociali che sia stata ottenuta sotto la condizione della eguaglianza formale delle carriere aperte ai talenti. Diremo che essa è a vantaggio di ciascuno se e solo se, scostandoci da quella distribuzione (per esempio, mediante una manovra redistributiva), avremo qualche individuo (almeno uno) avvantaggiato ma qualcun altro (almeno uno) svantaggiato. Questa soluzione non sarebbe in alcun modo interpretabile come a vantaggio di ciascuno perché lo svantaggiato avrebbe diritto di porre il suo veto. Applicare il principio di efficienza paretiana vuol dire proporre questa interpretazione di che cosa sia a vantaggio di ciascuno. Naturalmente, è presumibile che potremo trovarci di fronte a una varietà di distribuzioni molto diverse fra loro ma tutte pareto-efficienti (vi sono più punti di ottimo sulla curva paretiana). Assumiamo che la varietà dipenda in modo significativo dalla varietà delle distribuzioni iniziali di dotazioni naturali e sociali di cui gli individui sono equipaggiati quando perseguono i loro piani di vita imboccando le « porte aperte » delle differenti carriere. Ora, la tesi di Rawls è che l'insieme delle dotazioni iniziali, naturali e sociali, sia moralmente arbitrario. Nessuno merita di nascere in un ceto o con un certo colore della pelle, con un sesso piuttosto che con l'altro, in una famiglia con un certo reddito e ricchezza, con un certo talento naturale, ecc.: questi sono i fatti contingenti della lotteria naturale e sociale. Il sistema della libertà naturale lascia che dotazioni moralmente arbitrarie trasferiscano o scarichino, con i loro effetti, l'arbitrarietà morale sugli esiti distributivi. Ma questo è incoerente con gli scopi di una teoria della giustizia sociale centrata sul valore della scelta individuale e collettiva. Non si può accettare che le istituzioni politiche e le pratiche sociali sanzionino con il loro assetto e con il loro funzionamento l'arbitrarietà morale della sorte naturale e sooiale (vi è qui un'eco del celebre secondo Discorso di Jean-Jacques Rousseau). L'eguaglianza liberale è una prima, insufficiente, risposta al deficit normativo del sistema della libertà naturale: essa reinterpreta la seconda clausola introducendo il principio dell'equa eguaglianza delle opportunità, mantenendo tuttavia l'impegno a interpretare la prima sulla base del principio di efficienza paretiana. L'idea è quella di ridurre, correggere o, al limite, azzerare l'effetto dell'arbitrarietà delle dotazioni iniziali sociali. È facile vedere in che senso la proposta della eguaglianza liberale, centrata sull'eguaglianza delle opportunità, sia da ritenere insufficiente sulla base dell'argomento intuitivo di Rawls sull'arbitrarietà morale dell'insieme delle dotazioni iniziali. L'eguaglianza liberale, infatti, neutralizza gli effetti di tale arbitrarietà nell' ambito delle dotazioni sociali, ma lascia che la varietà, altrettanto arbitraria, delle dotazioni naturali segni il destino delle persone nella vita collettiva. Per questo, Rawls propone di rimpiazzare il principio di efficienza con il principio di differenza, mantenendo l'interpretazione della seconda clausola nei termini dell'equa eguaglianza delle opportunità. Si specifica così l'interpretazione della egua86
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glianza democratica, mentre l'espressione « a vantaggio di ciascuno » risulta reinterpretata sulla base della priorità del punto di vista di chi è più svantaggiato nella distribuzione delle dotazioni iniziali, naturali e sociali. Rawls sostiene che adottare questa prospettiva equivale a guardare alle istituzioni fondamentali e allo schema di cooperazione sociale dal punto di vista della eguale cittadinanza democratica. Ciascuno di noi, come partner di pari dignità della polis, ha diritto a eguale considerazione e rispetto: si esprime qui la « fraternità » democratica, basata su una idea di reciprocità o solidarietà di cittadinanza. Solo sullo sfondo di istituzioni modellate dal principio di libertà e dal principio di differenza è possibile che una società superi il test della giustificazione etica per chi vi ha una vita con gli altri da vivere. Come si è accennato, l'idea di accettabilità unanime di uno schema di cooperazione, che implica una determinata distribuzione di costi e benefici, è esemplificata in una procedura per l'accettazione che dà precedenza a coloro per i quali lo schema è meno accettabile o è più inaccettabile; solo se l'accettazione è ottenuta da chi è più svantaggiato è possibile proseguire il test sino a pervenire a chi è più avvantaggiato. Una società giusta è quindi uno schema di cooperazione, stabile nella durata, modellato da un principio base di reciprocità di cittadinanza. Questa è la conclusione che si può trarre dall'argomento intuitivo a favore della giustizia come equità. Si deve ora considerare l'argomento analitico a favore dei due principi di giustizia. Esso richiede il ricorso alla prospettiva propriamente contrattualistica. I principi di giustizia della concezione rawlsiana devono poter essere oggetto di scelta collettiva unanime da parte di individui che si trovino in una situazione iniziale di scelta del tipo della posizione originaria. Come Rawls chiarirà in una serie di contributi successivi a Una teoria della giustizia, la posizione originaria è ottenuta adottando una strategia costruttivistica. Il terzo capitolo di Una teoria della giustizia è dedicato alla costruzione della posizione originaria. Rawls chiarisce la natura dell'argomento a favore dei due principi: accettare la posizione originaria vuoi dire semplicemente accettare i vincoli della giustificazione etica o impersonale delle istituzioni fondamentali della società. Ora, perché sia possibile pervenire a una scelta unanime dei principi di giustizia è necessario mettere a tacere gli interessi individuali e le preferenze personali e legittimamente autointeressate. La posizione originaria con il suo velo di ignoranza è l' efficace artificio espositivo che mira a ottenere ciò. Fatti contingenti e particolari devono essere neutralizzati per pervenire al mutuo accordo su quanto è collettivamente giusto; a sua volta il mutuo accordo deve dipendere dalla mera razionalità delle parti coinvolte nella procedura di convergenza. La giustizia sociale richiede la virtù dell'impersonalità (mentre gli utilitaristi, secondo Rawls, scambiano l'impersonalità con l'imparzialità). Il velo di ignoranza, vincolando l'informazione sui fatti particolari, su chi siamo, su qual è la nostra posizione rilevante nella società, sulla nostra concezione completa del bene, ci induce a valutare impersonalmente i
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principi di giustizia per regolare la nostra cooperazione nel tempo. Si osservi che, in quanto artificio espositivo, la posizione originaria caratterizza la teoria di Rawls come una sorta di contrattualismo ideale; come tale esso si differenzia rispetto a tentativi di contrattualismo reale che puntano a mostrare come i principi di giustizia possano essere l'esito di processi di contrattazione in cui le parti ricorrono alla razionalità strategica, propria della teoria dei giochi. È importante sottolinare che la teoria del contratto di Rawls non è una teoria della contrattazione. Anzi, è evidente che la posizione originaria è studiata in modo da escludere qualsiasi ricorso alla razionalità strategica per determinare esiti di giustizia. Come abbiamo detto, la posizione originaria è l'interpretazione filosoficamente favorita dalla teoria della giustizia come equità di una situazione iniziale di scelta. Le sue caratteristiche di sfondo dipendono dalle assunzioni intuitive largamente condivise (e quindi deboli) nella cultura pubblica di una società a tradizione democratica e a scarsità moderata. li nostro compito è ora quello di esaminare tali caratteristiche. Cominciamo specificando quale informazione sia disponibile alle parti in posizione originaria (ciascun individuo che accetti i vincoli sulle ragioni a favore di principi di giustizia sociale) perché il problema di scelta collettiva risulti opportunamente determinato. Le parti sono chiamate a scegliere fra principi alternativi di giustizia in una lista finita che include le principali concezioni presenti entro la cultura pubblica di società sufficientemente affini alle nostre. La teoria della giustizia non pretende di essere, per dirla con Leibniz, un'« etica della creazione». La sua validità è tale entro il contesto delle alternative storicamente date in società a tradizione democratica e a scarsità moderata. Le parti conoscono le « circostanze di giustizia», quelle che David Hume ha individuato per rendere conto del ruolo e della portata della virtù artificiale della giustizia. Si tratta di circostanze oggettive (coincidenti con la condizione di scarsità moderata) e soggettive (derivanti dall'esclusione dei casi simmetricamente opposti dell'altruismo o dell'egoismo illimitati). Se non vi fosse scarsità o se essa fosse «assoluta», la giustizia sarebbe o inutile o superflua. Lo stesso varrebbe nel caso di mondi di individui altruisti illimitati o di egoisti parimenti illimitati. Una società che non preveda scarsità né il mix motivazionale abituale fra egoismo e altruismo sarebbe una società, per così dire, «al di là della giustizia » (una società di questo tipo è rinvenibile nella utopia di Marx a proposito di uno schema anarchico di cooperazione altruistica che dovrebbe caratterizzare stabilmente una società alternativa e superiore a quella capitalistica). Le parti conoscono inoltre i vincoli formali al concetto di giusto. In altri termini, esse sanno che, quale che sia la concezione favorita di giustizia, deve soddisfare quanto richiesto dai vincoli della generalità nella formulazione dei suoi principi, della universalità della loro applicazione, della loro pubblicità, della loro capacità di ordinamento delle pretese conflittuali, della loro definitività o inappellabilità. (Si osservi che alcuni di questi vincoli escludono ex ante, come concezioni di giustizia fra cui scegliere, quelle che si basano sul principio di scelta dittatoriale, sul 88
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/ree rider e, soprattutto, quelle che si basano su una qualche teoria della contrattazione: « a ciascuno secondo la sua capacità di minaccia » non è un precetto coerente di giustizia distributiva che possa essere incluso nella lista delle alternative per le parti. Una concezione di giustizia che lo implicasse non soddisferebbe infatti il vincolo formale della capacità di ordinamento.) Vediamo ora quale informazione è bloccata dal velo di ignoranza. Come abbiamo detto, le parti non sono a conoscenza di fatti particolari: non sanno chi sono né quali siano i loro interessi o preferenze, la loro concezione completa del bene o i loro piani di vita, anche se, naturalmente, sanno di avere interessi, preferenze, una concezione completa del bene e un piano di vita. Le parti non sanno in quale fra le posizioni rilevanti in termini di vantaggio o svantaggio sociale esse si trovino, anche se sanno di poter essere in una qualsiasi delle posizioni rilevanti. A differenza di quanto richiesto dalla teoria di Harsanyi, le parti non dispongono di informazione in termini di probabilità soggettiva: sanno di poter essere chiunque nella società, ma non sanno quale probabilità hanno di essere in una qualsiasi delle posizioni rilevanti nella società. Il velo di ignoranza di Rawls è, per così dire, più spesso o fitto di quello richiesto dall'utilitarismo della preferenza. Infine, le parti hanno una concezione parziale del bene: essa è specificata dall'indice dei beni sociali primari, quei beni intesi come mezzi per molti scopi che è razionale assumere chiunque preferisca avere in misura maggiore piuttosto che minore pur essendo al buio sul proprio piano di vita e sui propri scopi completi. Quali che siano i miei particolari scopi, io so che i beni sociali primari sono i mezzi o le risorse senza le quali non riuscirei a perseguire i miei scopi. La preferenza per i beni sociali primari ha così un carattere oggettivo o intersoggettivo, in contrapposizione al carattere soggettivo associato dall'utilitarismo alle preferenze (principio di autonomia delle preferenze). Si osservi, inoltre, che l'indice dei beni primari è quello impiegato per identificare la dimensione del vantaggio o dello svantaggio sociale: le questioni di giustizia, sostiene Rawls, riguardano i bisogni di cittadini e cittadine e i bisogni di cittadinanza si distinguono dai desideri delle persone. Rawls ritiene che le parti in una posizione originaria così caratterizzata convergerebbero unanimemente nella scelta dei due principi di giustizia, preferendoli razionalmente ad altri alternativi, quali il principio dell'utilitarismo classico e quello dell'utilitarismo della preferenza. L'idea è la seguente: è razionale che le parti scelgano nelle condizioni indicate principi che le assicurino contro il rischio o contro i peggiori esiti della lotteria naturale e sociale. Rawls introduce un'analogia con la regola di scelta del maximin per rendere conto della fisionomia del problema di scelta in posizione originaria. Lé parti scelgono il massimo dei minimi: guardano agli esiti peggiori (minimi) e ne scelgono il migliore (massimo). L'analogia suggerita da Rawls ha dato luogo a numerose critiche e confutazioni. Tuttavia, Rawls sembra sostenere semplicemente, anche se in modo non chiaro, che la logica della scelta a favore dei due principi (e, in particolare, del principio di differenza) è affine a quella
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che induce all'adozione, in condizioni speciali, di una regola di maxzmtn. Al buio sulla nostra sorte sociale e naturale, scegliamo quella distribuzione in cui è migliore la condizione di chi sta peggio. Così, una società giusta è una società che punta a migliorare prioritariamente le posizioni relative dei gruppi svantaggiati nella distribuzione di beni sociali primari affinché gli individui possano con pari dignità e rispetto di sé padroneggiare le circostanze e non esserne inesorabilmente e iniquamente sudditi o schiavi. Il contrattualismo come teoria della giustizia, di cui sono state qui illustrate le caratteristiche e le tesi principali, si presenta come una proposta di teoria politica normativa centrata sull'egualitarismo liberale. A differenza dell'utilitarismo, di cui è stata definita la natura di dottrina morale comprensiva, l'impresa di Rawls consiste nel mettere a fuoco una prospettiva basata sui valori politici fondamentali di una società giusta. L'egualitarismo liberale ospita una tesi sugli eguali diritti di cittadinanza che devono essere ascritti e tutelati in forma « costituzionale » e, per questo, sottratti ai variabili esiti del calcolo sociale e ai contingenti esiti di aggregazione degli interessi e delle preferenze date. Questa tesi sui diritti di cittadinanza è naturalmente una tesi sui vincoli ai mercati e alle transazioni: l'idea sottesa è, per così dire, che gli esercizi di massimizzazione miranti a esiti di efficienza sociale sono giustificati se e solo se le massimizzazioni sono vincolate. I vincoli alle massimizzazioni non sono altro che gli eguali diritti dei cittadini e delle cittadine, in quanto partner o socii di pari dignità della polis. Si può anche sostenere, in conclusione, che Una teoria della giustizia incorpori implicitamente una interpretazione particolare del liberalismo politico di cui la teoria fornisce una versione egualitaria. Ma questo aspetto ha a che vedere con gli sviluppi della ricerca di Rawls posteriori alle controversie e alle proposte alternative innescate dal confronto con l'opera del '71 (di cui ci occuperemo nel penultimo paragrafo). È ora necessario esaminare le principali concezioni di giustizia che, dopo Una teoria della giustizia, si sono confrontate entro il paradigma da essa istituito. IV ·
LIBERTARISMO
L'affermazione di Herbert Hart a proposito dello slittamento dall'utilità ai diritti nell'ambito della teoria politica normativa trova una conferma immediata e incisiva se si considera una famiglia di tesi sui diritti individuali che è alla base di una prospettiva libertaria nella teoria della giustizia. Tale prospettiva, nella sua riformulazione dopo Rawls, fa proprie le critiche, già esaminate, rivolte al programma utilitaristico e, in un certo senso, le sviluppa con maggiore radicalità sino a pervenire a esiti normativi contrastanti con la concezione della giustizia come equità. Il contrasto fra libertarismo ed egualitarismo liberale esprime, come si vedrà nel seguito, una delle tensioni essenziali nella prospettiva contemporanea di giudizio e credenza politica in società a tradizione democratica /in de siècle. Il contrasto
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verte su concezioni alternative dei criteri di giustificazione o legittimazione delle istituzioni e dei processi politici, a partire dalla controversia sui confini stessi del dominio del politico in una società data. Le domande pertinenti sono del tipo: quale spazio deve avere il politico entro una società bene ordinata? Che cosa è giusto rientri nell'ambito delle scelte pubbliche? Qual è l'agenda dell'autorità? L'opera che ha formulato nel modo più audace e influente le tesi del libertarismo come teoria della giustizia è senza dubbio Anarchia, stato e utopia (1974) del filosofo statunitense Robert Nozick. 8 Anche se sullo sfondo della teoria libertaria centrata sull'idea di stato minimo e di massima estensione del campo delle scelte individuali è fondamentale il riferimento alla grande e controversa costruzione economica, giuridica ed epistemologica del filosofo austriaco Friedrich A. von Hayek (1899-1992), ci si propone qui di presentare il libertarismo nella versione elaborata da Nozick, dal momento che è questa versione a essere coerente con il paradigma delle teorie della giustizia. Anche l'opera di Nozick, come Una teoria della giustizia, si articola in tre parti. Nella prima viene esposta una serie di argomenti a favore dello stato minimo. La questione normativa saliente è quella della giustificazione di un'agenzia protettiva dominante e monopolistica in una comunità data che può legittimamente imporre obblighi e costi agli individui per prowedere alla fornitura di un bene pubblico come la protezione dei diritti individuali. Nella seconda parte viene formulata una teoria della giustizia coerente con la tesi sui diritti inviolabili degli individui e sono criticate le tesi alternative sulla giustizia distributiva, in particolare di Rawls. La terza parte si propone di mostrare che la prospettiva libertaria dello stato minimo è quella che incorpora al meglio le utopie di valore politico. La teoria libertaria non è solo l'unica moralmente giustificata: delinea anche un modello di vita collettiva attraente. Prima di esporre gli argomenti di Nozick relativi alla giustizia e ai suoi principi, è opportuna una premessa che illustri lo sfondo generale della filosofia politica soggiacente alla sua teoria. Nozick parte da un'assunzione di base che risulta, per così dire, il postulato della teoria: «Gli individui hanno diritti: vi sono cose che nessuna persona o nessun gruppo di persone può far loro (senza violare i loro diritti). Tali diritti sono tanto forti e di così vasta portata, da sollevare il problema di che cosa lo stato e i suoi funzionari possano fare, se qualcosa possono ». 9 Ricorrendo alla terminologia tradizionale della filosofia politica moderna si può parlare di diritti naturali nel senso di John Locke. Immaginiamo allora uno stato di natura e chiediamoci come sia possibile giustificare una preferenza per lo stato politico, sapendo che lo stato politico è legittimo se e solo se la sua insorgenza non implica violazione dei diritti lockiani degli individui. È chiaro che, in questa prospettiva, 8 Su Nozick si veda il cap. I sui <
9 Nozick, 1974, trad. it., p. n.
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qualsiasi tentativo di giustificazione della politica consiste in una risposta che superi positivamente la sfida e l'obiezione anarchica. Nella prima parte del suo libro, Nozick presenta un ricco armamentario di argomenti per mostrare che uno stato può costituirsi senza che i diritti lockiani di alcuno siano violati, ma che questo stato deve essere uno stato minimo (qualsiasi stato più esteso di uno stato minimo non supererebbe il test di giustificazione approntato dalla teoria libertaria). È quindi moralmente condannabile qualsiasi proposta di assetto delle istituzioni politiche che affidi loro agenda miranti a scopi di giustizia distributiva che vadano al di là del provvedere il bene pubblico consistente nella protezione dei diritti. Ogni stato più esteso dello stato minimo è destinato a violare i diritti lockiani degli individui, che sono la base della prospettiva libertaria. Tuttavia Nozick non propone esplicitamente alcun argomento che ci dica perché le cose stanno o devono stare così. Sembra che l'ascrizione agli individui di diritti naturali eguali sia l'unico modo per rendere conto del fatto che essi sono propriamente individui, nel senso che hanno «vite separate», che ciascuno ha pari dignità ed è meritevole di eguale rispetto quanto ciascun altro e che rispettare gli altri vuol dire rispettare lo spazio morale di scelta di ciascuno. Questo spazio è perimetrato dai diritti e questi ultimi sono essenzialmente diritti negativi. Essi non esprimono altro che l'eguale libertà negativa, nel senso canonico di Isaiah Berlin, che una tesi libertaria è tenuta ad ascrivere a ciascun individuo. A sua volta, il fatto che noi siamo negativamente liberi è connesso al fatto che ciascuno di noi, in quanto individuo autonomo, è « proprietario di sé», è uno sceglitore di se stesso. È questa interpretazione in termini di proprietà di sé o di « autoappartenenza » che ha svolto un ruolo importante negli sviluppi del dibattito aperto dalla versione del libertarismo formulata in Anarchia, stato e utopia. In ogni caso, è utile tenere presente la proposizione fondamentale nozickiana - «gli individui hanno diritti» - e la sua interpretazione pertinente in termini di eguale libertà negativa. Una volta che questa proposizione fondamentale sia accettata, essa funziona come un vincolo stringente e severo sulle concezioni di giustizia ammissibili. Se il vincolo dei diritti lockiani viene preso sul serio nel modo in cui Nozick ci dice che deve essere preso sul serio, teorie della giustizia come l'utilitarismo e il contrattualismo sono per ciò stesso inaccettabili. L'unica teoria che risulta coerente è una qualche versione di una teoria libertaria. È opportuno considerare ancora, prima di esporre la concezione di giustizia favorita da Nozick, alcune caratteristiche salienti della teoria libertaria. r) La teoria è incentrata sul singolo valore intrinseco della libertà negativa. 2) La teoria è monistica in quanto l'unico parametro rilevante è quello che concerne la libertà negativa; come è detto in (r), quest'ultima è il valore intrinseco e non strumentale per illibertarismo. 3) La teoria è deontologica: è esclusa qualsiasi informazione relativa a scopi o preferenze o concezioni del bene quando ci chiediamo quali siano i 92
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criteri morali di giustificazione di istituzioni o scelte o provvedimenti. 4) La teoria è anticonsequenzialistica: i diritti, come si usa dire, vanno intesi come vincoli collaterali alle azioni. Noi non applichiamo i criteri di valutazione a cose come conseguenze o stati del mondo; valutiamo propriamente classi di azioni accertando se esse siano ex ante coerenti con il principio della libertà negativa, indipendentemente dalle conseguenze sugli stati del mondo. Non ci interessa, in una teoria politica normativa, come la gente sta, ma che cosa fa. 5) La teoria ricorre a una procedura di scelta unanime nel senso che chiunque ha potere di veto, indipendentemente da considerazioni rawlsiane sulla priorità o sulla precedenza di chi è più svantaggiato (le dimensioni del vantaggio o dello svantaggio non sono pertinenti, dato l'impegno anticonsequenzialistico). 6) Il libertarismo fornisce una sua versione dell'eguaglianza morale, identificandola nello spazio focale della libertà negativa degli individui. Nel loro complesso, queste sei caratteristiche illustrano gli impegni normativi centrali di un approccio libertario nella particolare versione favorita da Nozick. La precisazione è opportuna dato che esiti normativi libertari possono essere ottenuti sulla base di assunzioni differenti: si consideri in proposito il ruolo che a favore dello stato minimo e del mercato ha la tesi epistemologica (e antropologica) sulla limitatezza dell'informazione individuale nella teoria di Hayek. La proposta di Nozick, in altre parole, è una particolare e autorevole versione del libertarismo che assume il suo senso pertinente entro il paradigma delle teorie della giustizia. Per questo ne sono state presentate le caratteristiche salienti in un modo che rende facilmente comparabile la proposta libertaria con le proposte alternative dell'utilitarismo e del contrattualismo. Vediamo ora quale sia la concezione libertaria della giustizia. La teoria libertaria della giustizia è una teoria della giustizia, ma non è una teoria della giustizia distributiva. È la tesi sui diritti lockiani, espressa dalla proposizione fondamentale nozickiana, a escludere che sia coerente un criterio o un insieme di criteri che impegnino a valutare le proprietà di distribuzioni alternative. Come si è visto, utilitarismo e contrattualismo forniscono principi differenti per giustificare distribuzioni di utilità o di beni primari. Nozick sostiene che si tratta, in entrambi i casi, di teorie modellate e a stato finale. Le teorie sono modellate in quanto sostengono un criterio che specifica che la distribuzione deve variare in funzione di una qualche dimensione, di una somma ponderata di dimensioni o di una disposizione lessicale di dimensioni. Non tutti i principi di giustizia distributiva sono a stato finale; ma quelli dell'utilitarismo e del contrattualismo lo sono. Le teorie a stato finale sono quelle che isolano una sezione nel tempo attuale e « sostengono che la giustizia di una distribuzione è determinata dal modo in cui le cose sono distribuite (chi ha e che cosa ha) giudicando secondo un qualche principio strutturale di distribuzione giusta. Un utilitarista che giudica fra due distribuzioni qualsiasi valutando quale abbia la quantità maggiore di utilità e, se le quantità sono pari, applica un certo criterio fisso di eguaglianza per scegliere la distri93
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buzione più equa, sostiene un principio di giustizia che isola una sezione nel tempo attuale ». 10 La dimensione che è esclusa dall'approccio delle teorie modellate a stato finale della giustizia distributiva è quella della storia che ha condotto alla distribuzione che si tratta di giustificare o meno. La teoria della giustizia deve essere una teoria storica: i suoi principi devono specificare i requisiti della storia giusta che è alle spalle di una determinata distribuzione. Se la catena delle azioni che porta a una certa distribuzione è giusta, quella distribuzione è giusta, quale che sia. Più precisamente, la teoria libertaria mira a giustificare non tanto una distribuzione, piuttosto che un'altra alternativa, quanto i possessi o le proprietà di cui individui possono legittimamente disporre, escludendo legittimamente altri dal possesso e dalla proprietà. La teoria deve rispondere alla domanda se gli individui abbiano un titolo valido per possedere ciò che hanno e per disporre di ciò di cui dispongono. Ma per rispondere alla domanda sulla giustizia nella proprietà occorre verificare se il processo con cui si è giunti ad avere ciò che si ha è un processo giusto. D'altra parte, « giustizia » equivale a non violazione dei diritti morali negativi di alcuno. Quindi, si può affermare che la validità del titolo che qualcuno ha su qualcosa dipende dal fatto che non è stato violato il diritto negativo di alcuno nella sequenza temporale di transazioni che ha fatto sì che qualcuno abbia un titolo su qualcosa. Sono tre gli argomenti centrali per una teoria storica della giustizia del titolo valido: un primo argomento riguarda il principio di giustizia nell'acquisizione (una riformulazione del titolo radicale di proprietà di Locke con la nota clausola limitativa interpretata); il secondo argomento concerne la giustizia nel trasferimento; il terzo argomento è invocato solo nei casi di ingiustizia, in tutte quelle circostanze in cui vi sia stata una qualche violazione di quanto prescritto dai principi di giustizia nella acquisizione o nel trasferimento. Se escludiamo i casi ordinari di ingiustizia che, come direbbe Rawls, non sono altro che i casi pertinenti per la parte non ideale della teoria, «la seguente definizione induttiva abbraccerebbe esaustivamente l'argomento della giustizia nella proprietà. I) La persona che acquisisce una proprietà secondo il principio di giustizia nell'acquisizione ha diritto a quella proprietà. 2) La persona che acquisisce una proprietà secondo il principio di giustizia nel trasferimento da qualcun altro avente diritto a quella proprietà ha diritto a quella proprietà. 3) Nessuno ha diritto a una proprietà se non con applicazioni (iterate) di (I) e (2). Il principio completo di giustizia distributiva direbbe semplicemente che una distribuzione è giusta se ciascuno ha diritto di possedere le proprietà che possiede con quella distribuzione ». 11 La giustizia nella proprietà è storica in quanto dipende da ciò che è legittimamente avvenuto. In un mondo in cui vi siano casi di ingiustizia, si deve ricorrere al principio di rettificazione per «ripulire la lavagna storica delle ingiustizie». II
ivi, p.
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Nozick chiarisce così, in conclusione, quali siano le caratteristiche di fondo di una teoria storica della giustizia: « I tratti generali di una teoria della giustizia nella proprietà sono che la proprietà di una persona è giusta se la persona ha diritto a essa in virtù dei principi di giustizia nell'acquisizione o nel trasferimento, o del principio di rettificazione dell'ingiustizia (così com'è specificato dai due primi principi). Se la proprietà di ciascuno è giusta, allora l'insieme totale (la distribuzione) ·della proprietà è giusta. » 12 L'approccio del titolo valido richiede nel modo indicato principi di giustizia storici non modellati né, a fortiori, a stato finale. Nozick si propone di mostrare in che senso chi accetta la tesi sui diritti individuali non può non accettare la tesi sulla giustizia storica non modellata. Viene presentato in proposito un argomento divenuto canonico che mira a illustrare «come la libertà sconvolge i modelli». Immaginiamo di condividere un principio di giustizia distributiva modellato e supponiamo che sia attuata una distribuzione che soddisfi quel principio: la chiamiamo Dl. Supponiamo ora che uno straordinario giocatore di pallacanestro, Wilt Chamberlain, si esibisca in un torneo e, data la sua forte attrattiva sul pubblico, richieda che tutti quelli che vanno a vedere le partite, oltre a pagare il biglietto, versino in un'urna una certa quota per lui. È evidente che al termine del torneo saremo in presenza di una distribuzione D2 che non soddisfa più il criterio distributivo soddisfatto da Dl. Per un verso, siamo tenuti a ritenere ingiusta D2 (le distribuzioni giuste sono quelle che soddisfano il criterio soddisfatto da Dl). Per altro verso, dobbiamo rispondere alla domanda imbarazzante: che cosa c'è che non va nel passaggio da D l a D2? Qual è il luogo dell'ingiustizia? «Se Dl era una distribuzione giusta, e se la gente è passata di sua volontà da Dl a D2, trasferendo parte delle quote a lei assegnate in Dl (a che servivano se non per farne qualcosa?) non sarà giusta anche D2? Se la gente aveva diritto a disporre delle risorse cui aveva diritto (secondo Dl) non era anche compreso il diritto a dare il denaro a Wilt Chamberlain, o a scambiarlo con lui? Può qualsiasi altra persona lamentarsi basandosi sulla giustizia? » 13 Il punto fondamentale della storia di Wilt Chamberlain è che qualsiasi principio modellato di giustizia distributiva o qualsiasi principio a stato finale implica una più o meno ampia violazione dei diritti individuali, che non è in alcun caso giustificabile. Se si accetta la tesi libertaria sui diritti e la proposizione fondamentale nozickiana, l'unico approccio coerente risulta così quello del titolo valido sulla proprietà entro una teoria storica della giustizia. La sua massima potrebbe essere del tipo: «Da ciascun secondo come sceglie, a ciascun secondo come viene scelto» indipendentemente da qualsiasi valutazione delle conseguenze in termini di benessere o di equità degli esiti delle scelte e delle transazioni, in un mercato che deve essere «massimo» per la stessa ragione fondamentale per cui lo stato deve essere «minimo» se entrambe queste istituzioni fondamentali di società, sufficientemente simili alle n ivi, p. 163.
13 ivi, pp. 171-172.
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nostre, devono superare il test della giustificazione o della legittimità morale. n riferimento all'estensione del mercato raccomandata dal libertarismo è appropriato per rendere conto delle implicazioni della tesi sui diritti morali negativi come tesi centrale di una teoria politica normativa. I libertari non si limitano naturalmente a una difesa della libertà negativa e a una critica dell'estensione illegittima della scelta pubblica, riferendosi esclusivamente al mercato. Lo spazio delle scelte individuali è più ampio e inclusivo di quello che ospita le scelte di imprese o consumatori. Tuttavia, anche per illustrare il contrasto essenziale nella teoria politica contemporanea, è opportuno sottolineare la natura dell'argomento a favore del mercato. Si tratta di un argomento intrinsecamente deontologico e coerentemente anticonsequenzialistico: il mercato non è valutato sulla base delle sue conseguenze in termini, per esempio, di esiti di benessere o efficienza. Il mercato è giustificato perché esso è l'unica istituzione economica coerente con la tutela della eguale libertà negativa degli individui. Si tratta, come si usa dire, di una valutazione ex ante, e non ex post, dell'operare del mercato (si è già specificato, in proposito, l'impegno rigorosamente anticonsequenzialistico della tesi libertaria sui diritti di Nozick). Se l'utilitarismo, come dottrina morale comprensiva, non include alcun principio indipendente o intrinseco di valore politico e mette a fuoco gli aspetti di benessere collettivo delle questioni di giustizia sociale, e se il contrattualismo mira a selezionare una classe di bisogni di cittadinanza cui corrisponde l'eguale diritto di ciascuno a una quota equa di beni sociali primari, il libertarismo fa perno sul valore dei diritti negativi individuali e pone l'accento sull'importanza morale della più ampia restrizione possibile di quanto è affidato alla scelta collettiva, per i suoi effetti altrimenti oppressivi sui piani di vita di individui autonomi. Benessere, equità e libertà negativa sembrano così essere i valori distinti e salienti nelle tre concezioni che abbiamo esaminato della giustizia sociale. Dopo Una teoria della giustizia, la teoria politica normativa si è misurata, come abbiamo visto, con la questione dei diritti fondamentali di cui gli individui godono in quanto partner di pari dignità di comunità politiche date e ha espresso interpretazioni differenti e in conflitto tra loro su quali siano questi diritti. La risposta dell'egualitarismo liberale e quella del libertarismo, nella formulazione della teoria contrattualistica di Rawls e nella teoria storica del titolo valido di Nozick, sono e probabilmente restano le due risposte fondamentalmente alternative, ai poli di uno spettro di posizioni che giacciono tutte entro la teoria liberale. Come Nozick riconosce esplicitamente in Anarchia, stato e utopia, l'opposizione resta quella fra il sistema della libertà naturale e l'eguaglianza democratica. Sono state prospettate ed elaborate importanti riformulazioni dell'egualitarismo liberale: fra le più significative e discusse si possono considerare quella sull'eguaglianza delle risorse del filosofo del diritto statunitense Ronald Dworkin (n. 1931) e quella sull'eguaglianza delle capacità dell'economista indiano Amartya Sen (n. 1933). Si tratta tuttavia di sviluppi e raffinamenti della tesi di Rawls sull'equità nella distribuzione dei beni sociali primari. Anche l'approccio
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libertario in termini di diritti e libertà negativa ha conosciuto riformulazioni in una varietà di direzioni: si consideri in proposito la complessa e rigorosa tesi sui diritti elaborata dal filosofo canadese Hillel Steiner (n. 1942). (Si osservi, infine, che il discorso pubblico nelle società a democrazia costituzionale è stato ed è caratterizzato in gran parte da un conflitto catturabile nei termini di una opposizione fra egualitarismo liberale e libertarismo.) È tuttavia importante considerare non solo le differenze e le tensioni fra queste antitetiche concezioni di giustizia: non deve sfuggire che, pur nella loro tensione, questi approcci normativi condividono alcuni punti importanti entro il paradigma delle teorie della giustizia. Utilitarismo, contrattualismo e libertarismo a) si basano, in modi diversi, su un'assunzione di eguaglianza morale; b) implicano che la virtù pubblica della giustizia sia variamente interpretabile grazie a ragioni imparziali o impersonali e, in ogni caso, neutrali rispetto alle particolari persone che siamo o all'identità collettiva che accade sia la nostra. Per quanto riguarda (a), come ha osservato Sen, quello che varia è lo spazio focale dell'eguaglianza (utilità, beni primari, libertà negativa); per quanto riguarda (b), al di là delle ragioni neutrali o impersonali per scegliere e valutare, vi è un'ampia varietà di ragioni che, come ha suggerito il filosofo statunitense Thomas Nagel (n. 1937), possiamo chiamare relative agli agenti. Che le ragioni per la giustificazione debbano essere neutrali rispetto agli agenti è un assunto condiviso da una teoria dell'imparzialità come l'utilitarismo e da teorie dell'impersonalità come il contrattualismo e il libertarismo. È ora opportuno esaminare una famiglia di prospettive che negli anni ottanta sono state formulate, entro il paradigma delle teorie della giustizia, a partire da una critica agli assunti condivisi dalle teorie politiche normative che è stata ricostruita sommariamente in questi paragrafi. Nell'ultimo paragarafo si accennerà a un'ipotesi interpretativa capace di rendere conto dello slittamento, che ha contrassegnato la ricerca nell'ultimo decennio, da questioni distributive, variamente intese, a questioni di identità. V
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Le teorie della giustizia sembrano richiedere l'adozione di un punto di vista «esterno» o, come si usa dire, «archimedeo» rispetto alla società o alla comunità politica pertinente di cui si tratta di valutare razionalmente istituzioni fondamentali e pratiche sociali. In quanto teorie della giustizia distributiva (variamente interpretata), le differenti concezioni mettono a fuoco criteri distinti di distribuzione o ripartizione di costi e benefici della cooperazione sociale. In questo modo esse specificano chi deve avere che cosa, come e quando. Le teorie presuppongono una sorta di metrica omogenea dei valori o dei beni sociali: è come se il problema fosse quello di una pura allocazione dello stesso bene a differenti individui. Il caso dell'utilita97
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risma è il più perspicuo, in proposito. Ma la soluzione non ha natura differente quando si ricorra, come si è accennato, allo spazio dei beni primari o della libertà negativa, come nel caso delle teorie di Rawls e Nozick. In queste caratteristiche si possono riconoscere le ragioni di un sostanziale fraintendimento della natura delle genuine questioni di giustizia distributiva. Noi non ci poniamo questioni di giustizia sociale come osservatori o spettatori del conflitto fra pretese concernenti un singolo bene. Possiamo riconoscere questioni di giustizia solo come osservatori partecipanti, entro il contesto di forme di vita collettiva e di comunità storicamente date. Allo stesso modo, in qualsiasi comunità data risultano essere differenti i beni sociali su cui verte il conflitto. Ogni società è caratterizzata da una varietà di differenti beni sociali che valgono per comunità di uomini e donne che via via aspirano a essi. Definire criteri di giustizia indipendentemente da qualsiasi contesto è una eroica illusione filosofica, ma è un'impresa destinata al fallimento. L'illusione è di tipo universalistico, ma conflitti e interpretazioni alternative dell'idea di società giusta hanno senso solo entro contesti particolari. Il punto di vista archimedeo è il contrassegno di una pretesa normativa i cui esiti sono semplicemente nulli. Allo stesso modo, la convinzione che la pluralità o la varietà dei beni sociali al centro dei conflitti distributivi siano alla fin fine solo una sorta di « qualità secondarie » per la teoria, è una di quelle che condannano la teoria politica normativa alla banalità o al paradosso. Ci si trova infatti nella desolante condizione di prescrivere come è giusto si distribuisca qualcosa (la stessa cosa) fra individui privi di qualsiasi identità determinata. I principi di giustizia sociale non possono valere indipendentemente da contesti dati e devono essere rispondenti alla varietà dei beni sociali che caratterizza una qualsiasi comunità politica data. Una teoria della giustizia, infine, deve rendere conto di ciò che vale entro e per comunità particolari. Non è disponibile né accessibile qualcosa come una prospettiva da nessun luogo: la prospettiva della giustizia è sempre situata, in un qualche luogo (e in un tempo dato). Queste affermazioni esprimono sommariamente le tesi principali che sono state formulate dai critici delle teorie dell'utilitarismo, del contrattualismo e del libertarismo. I critici hanno proposto teorie alter~ative che si basano sul rilievo dato al contesto e alla comunità (variamente interpretata). Si è così aperta una controversia che contrappone le varie teorie normative liberali alle teorie comunitarie. Per convenzione, definiremo questa complessa controversia come quella fra liberalismo e comunitarismo. Nel prossimo paragrafo verranno presentate le tesi principali del comunitarismo. Qui di seguito saranno invece esposte le idee centrali di una prospettiva che, per così dire, sembra situarsi a mezza strada, fra egualitarismo liberale e comunitarismo. Si tratta della teoria pluralistica della giustizia, esposta dal filosofo statunitense Michael Walzer (n. 1935) nel suo libro del 1983, Sfere di giustizia. Quella di Walzer è una difesa di una tesi sull'eguaglianza che adotta una nozione di « eguaglianza complessa».
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Esaminiamo in proposito sei proposizioni walzeriane. 1) I beni sociali sono gli unici beni con cui ha a che fare la giustizia distributiva. Per «bene sociale» si intende un qualche bene il cui significato sia condiviso da comunità di uomini e donne che a esso aspirano entro una particolare società, storicamente determinata. Riconoscere un bene sociale vuol dire riconoscere il significato sociale, stabilmente condiviso, di quel bene. Solo in questo modo è possibile fornire una mappa sociale pertinente per una teoria della giustizia distributiva. 2) Uomini e donne acquistano una identità concreta e determinata per il modo in cui concepiscono, producono, possiedono e usano i beni sociali. « Gli individui sono già in rapporto con un insieme di beni, hanno una storia di transazioni, non solo fra loro, ma anche con il mondo materiale e morale in cui vivono. Senza questa storia, che comincia dalla nascita, non sarebbero uomini e donne in alcun senso accettabile e non avrebbero la minima nozione di come affrontare l'attività di dare, assegnare e scambiare beni. » 14 3) Non esiste qualcosa come un insieme singolo e unico di beni primari e fondamentali per tutti i mondi materiali e morali. I beni sociali sono tali solo entro contesti determinati e particolari. In ogni caso, un eventuale insieme singolo di beni dovrebbe essere concepito in modo così astratto che non determinerebbe in alcun modo distribuzioni specifiche. 4) Il significato dei beni sociali ne determina il movimento. I criteri e gli assetti distributivi non sono intrinseci al bene quanto propriamente al bene sociale. Ogni distribuzione è giusta o ingiusta rispetto ai significati sociali dei beni in gioco. criterio distributivo deve essere rispondente e coerente con il significato sociale stabilmente condiviso di un bene. Data la pluralità dei beni sociali, la teoria dovrà fornire una pluralità di criteri di giustizia corrispondenti ai differenti beni sociali. In questo senso la teoria di Walzer è pluralistica. 5) La natura dei significati sociali è storica. Quindi, cambiano nel tempo o possono cambiare nel tempo le distribuzioni considerate giuste o ingiuste. Non è possibile identificare criteri validi intertemporalmente o universalmente in ogni società possibile. 6) Se i significati sociali condivisi dei beni sono fra loro distinti e diversi, le distribuzioni devono essere fra loro relativamente autonome. « Ogni bene sociale, o insieme di beni sociali, costituisce, per così dire, una sfera distributiva nella quale sono appropriati solo certi criteri e certi assetti. » 15 Non disponiamo, come pretendono le teorie della giustizia sin qui esaminate, di un singolo criterio o di un singolo insieme di criteri, né di un unico metro con cui misurare tutte le distribuzioni. Qualcosa come un metro unico non c'è; si ha piuttosto a che fare con una pluralità di criteri, ciascuno dei quali è appropriato entro una sfera di giustizia in cui si distribuisce un bene sociale.
n.
14 Walzer, 1983, trad. it., pp. 19-20.
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ivi, p.
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Le sei proposizioni walzeriane illustrano il nucleo della proposta pluralistica, basata su una teoria dei beni e delle corrispondenti sfere di giustizia. Consideriamo ora come Walzer articola la sua proposta e avanza la sua tesi sull'eguaglianza complessa. È utile in proposito esaminare la differenza con la tradizione egualitaria che, per ragioni storiche rilevanti, adotta una qualche tesi dell'eguaglianza semplice. L'eguaglianza semplice è richiesta positivamente da una tesi che fa perno sull' ingiustizia o sull'arbitrarietà morale o sull'illegittimità del monopolio e propone di redistribuire egualitariamente il bene monopolizzato. Si consideri che l'egualitarismo moderno è storicamente erede della critica alle società aristocratiche d' ancien régime e che il bene da redistribuire è quello della nascita o del sangue: la familiare nozione, discussa nel paragrafo III, dell'eguaglianza dell'apertura delle carriere ai talenti è debitrice nei confronti di una tesi sull'eguaglianza semplice. Naturalmente, l'eguaglianza semplice presuppone che vi sia un singolo bene o che l'arena del conflitto distributivo sia una sola; ma se si accettano le proposizioni walzeriane, si è tenuti a una soluzione egualitaria che sia coerente con il fatto della pluralità delle arene o sfere sociali. Di qui, l'idea centrale di Walzer secondo cui l'ingiustizia non coincide con il monopolio entro una sfera sociale quanto piuttosto nella dominanza sulle sfere sociali. Assumiamo che in una società caratterizzata da una varietà di sfere, entro le quali vigono criteri distributivi locali, ciascun bene risulti distribuito equamente (il che vuol dire che è stato rispettato in ciascuna sfera il criterio distributivo pertinente). È come se fossimo in presenza di una varietà di distribuzioni modellate, per dirla con Nozick. Potremo avere così monopoli locali e non potremo affermare che vi sia ingiustizia né locale né globale. L'ingiustizia è generata in tutti i casi in cui i detentori legittimi dei beni in una sfera convertono quei beni in beni in altre sfere, finendo così per detenere beni in più sfere, ottenuti in un modo che non è rispondente ai criteri distributivi e che quindi è incoerente con i significati sociali dei beni. L'ingiustizia è propriamente la tirannia (dominanza) dei predatori dei beni sociali che attraversano e violano le frontiere fra le sfere e mirano alla conversione generale di risorse proprie di differenti e distinte arene sociali. Una società giusta è una società a eguaglianza complessa in cui è bloccata la convertibilità universale di beni particolari; «una società in cui vari beni siano monopolizzati [. .. ] ma in cui nessun bene particolare sia convertibile universalmente ». 16 In questo modo, possiamo definire l'eguaglianza complessa come una relazione fra persone, «mediata dai beni che creiamo, condividiamo e spartiamo [. .. ]. Essa richiede una varietà di criteri distributivi che rispecchi la varietà dei beni sociali ». 17 Walzer illustra la sua tesi sull'eguaglianza complessa con due eloquenti passi di Pascal e di Marx. In una delle Pensées Pascal definisce la tirannia nel modo seguente: « La tirannia consiste nel desiderio di dominare: desiderio universale e fuori del suo 16 ivi, p. 28.
I7 ivi, p. 29.
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proprio ordine. Ecco diverse assemblee: di forti, di belli, di intelligenti, di pii; e ciascuno di essi regna nel proprio ordine, e non negli altri. Qualche volta essi si incontrano, e il forte e il bello si battono, stoltamente, per la supremazia dell'uno sull'altro; stoltamente, perché il loro pregio è di diverso genere. Essi non si comprendono, e il loro errore è di voler regnare dappertutto [ ... ] La tirannia sta nel voler ottenere per una via quel che si può avere solo per un'altra. Noi abbiamo diversi doveri verso i differenti pregi: dovere di amore verso la bellezza; dovere di timore verso la forza; dovere di fiducia verso la scienza». In una pagina dei Manoscritti economico-filosofici il giovane Marx annota: « Ma se supponi l'uomo come uomo e il suo rapporto con il mondo come rapporto umano, tu puoi scambiare amore solo contro amore, .fiducia solo contro fiducia, ecc. Se vuoi godere dell'arte, devi essere un uomo colto in fatto di arte; se vuoi esercitare influenza su altri uomini, devi essere un uomo attivo realmente stimolante e trascinante altri uomini [ ... ] Quando tu ami senza provocare amore, quando cioè il tuo amore come amore non produce amore reciproco, e attraverso la tua manifestazione di vita, di uomo che ama, non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è una sventura ». 18 Come teoria politica normativa, il pluralismo di Walzer mette a fuoco una gamma di requisiti che devono essere soddisfatti dalle istituzioni fondamentali, o meglio dalle costitiJ!Zioni di società modellate dal liberalismo politico. n liberalismo viene infatti riformulato da Walzer come «arte della separazione»: il succo del costituzionalismo liberale consiste nella differenziazione e nella disgiunzione fra le differenti arene e risorse sociali. In particolare, l'effetto dell'esercizio dell'arte della separazione è la disgiunzione dell'ambito del politico dalle altre sfere, quali quelle del carisma religioso, del potere militare o del potere economico. L'arte della separazione mira a bloccare l'agglutinamento delle risorse e l'uso improprio delle differenti risorse sociali. Occorre per questo tracciare i confini fra le sfere sociali. Una società in cui la risorsa del carisma religioso può essere impiegata per acquisire la risorsa del potere o dell'autorità politica è una società tirannica in cui non vige o è violato il principio della separazione pluralistica. Lo stesso vale per una società in cui il potere militare è convertito in potere politico o per una in cui il potere economico è convertito in potere politico (o viceversa). Si tratta di casi di dominanza e la dominanza è, nella prospettiva del pluralismo di Walzer, ingiustizia. In questo senso il pluralismo genera esiti normativi che convergono con alcuni punti centrali delliberalismo. Tuttavia, Walzer ottiene i suoi risultati teorici per una via alternativa rispetto alle teorie liberali e, a fortiori, all'utilitarismo. L'eguaglianza complessa è una tesi che deriva da un'interpretazione dei significati sociali di beni condivisi stabilmente entro comunità particolari ed entro contesti dati. Si osservi che Walzer sostiene che una teoria della giustizia non può darsi se non è presupr8 I passi di Pascal e Marx sono citati in Walzer, 1983, trad. it., p. 29.
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posta una mappa data e stabile di pratiche sociali di costruzione sociale dei significati. Come è stato osservato dai critici, è inevitabile chiedersi quale sia la genuina portata normativa della teoria. Possiamo ritenere ingiusta una pratica sociale che implica una certa distribuzione di costi e benefici anche se essa è coerente con il significato sociale condiviso nella sfera distributiva? Come è possibile una critica sociale «interna»? In che senso l'interpretazione contestualistica di pratiche sociali può essere propriamente normativa? I criteri di giustificazione, dipendenti dalle pratiche sociali, non finiscono inevitabilmente per essere criteri di legittimazione delle pratiche particolari date, quali che siano? Walzer ha più volte cercato di rispondere alle obiezioni liberali, mirando a rendere più plausibile e difendibile la sua teoria pluralistica della giustizia sociale, data la sua convergenza su alcuni punti sostanziali del liberalismo politico. È questa convergenza parziale a venir meno nella prospettiva del comunitarismo, di cui si esamineranno ora sommariamente le tesi principali. VI
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COMUNITARISMO
Per quanto sia difficile identificare qualcosa come una teoria comunitaria e si debba piuttosto riconoscere che ci troviamo di fronte a una varietà di proposte « comunitarie » che avanzano critiche alle teorie liberali della giustizia, può essere utile indicare almeno tre argomenti ricorrenti con accenti diversi nel comunitarismo. Il primo argomento riguarda la natura del sé o il concetto di persona che è sotteso alle teorie liberali e implica la critica all'individualismo metodologico o normativa cui esse variamente ricorrono. Il secondo argomento verte sul prevalente impegno deontologico delle teorie liberali e sulla connessa tesi a proposito della « neutralità » della giustizia. Il terzo argomento mette a fuoco il ricorso della filosofia politica liberale a una qualche teoria dei diritti e ne critica l'inadeguatezza normativa. Se si collegano i tre argomenti, distinti ma non indipendenti, si ottiene una tesi di carattere generale che mira a confutare l'assunto su cui si basa il paradigma delle teorie della giustizia, espresso dall' incipit rawlsiano da cui questo capitolo ha preso le mosse: la priorità della giustizia come virtù pubblica di una società bene ordinata. Più precisamente, i tre argomenti critici sul sé, sulla neutralità e sui diritti sono congegnati per mostrare che la priorità della giustizia (la prima virtù delle istituzioni) è l'esito inevitabile di una serie di assunzioni e di presupposti che il liberalismo politico implicitamente o esplicitamente fa propri per generare criteri per il giudizio politico riflessivo. In altri termini, possiamo dire che la giustizia è la prima virtù delle istituzioni se e solo se siamo disposti ad accettare l'immagine soggiacente di società e di individuo che il liberalismo assume. Se, come i comunitari sostengono, questa immagine è fuorviante e sbagliata, allora la priorità della giustizia è destinata a venir meno. A partire dai limiti della giustizia si delinea il ruolo della virtù aristotelica dell'amicizia. Un a società buona è quella in cui ciascuno si rico102
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nosce con ciascun altro nella condivisione di una comune appartenenza a una forma di vita, a una tradizione, a una concezione del bene. L'identità collettiva è espressa dalla condivisione stabile nel tempo del «bene comune». In un libro che nei primi anni ottanta ha segnato l'avvio della critica comunitaria al liberalismo, Il liberalismo e i limiti della giustizia, Michael Sandel ha formulato alcune tesi importanti con lo scopo di confutare la teoria di Rawls (e di Dworkin). San del è convinto che la teoria contrattualistica si basi su una nozione di individuo o persona «vuota». Il soggetto di Rawls è un soggetto « disincarnato». Si considerino l'idea liberale per cui ciascuno di noi può scegliere i propri fini o fare un passo indietro rispetto alle proprie preferenze, l'idea associata per cui è possibile identificare criteri di giustizia in modo antecedente e comunque indipendente rispetto a ciò che per noi è bene (impegno deontologico), l'idea per cui il giusto è neutrale e ha priorità sul bene: queste idee dipendono da una sistematica elisione della dimensione dell'appartenenza a una comunità, in virtù della quale soltanto noi siamo costituiti e possiamo mutuamente riconoscerei come individui che hanno scopi, bisogni e preferenze. Una società, come sostiene Charles Taylor riformulando le classiche tesi di Hegel sull'eticità, non è riducibile alle transazioni fra individui atomisticamente concettualizzati. Sandel riconosce in proposito che nella teoria di Rawls si ricorre ad alcune nozioni di comunità. Tuttavia, la teoria liberale può al massimo disporre di una nozione strumentale o di una nozione sentimentale di comunità. I liberali riconoscono che la cooperazione tra individui e la condivisione di fini collettivi possono dar luogo a «comunità»; ma queste comunità devono la loro natura e la loro stabilità nel tempo solo alle ragioni della lealtà individuale. L'eguaglianza democratica di Rawls è connessa a un'idea di «fraternità» ed esprime il valore condiviso della comunità; ma questo ha a che vedere con una tesi sui sentimenti morali individuali. Quello che sfugge inevitabilmente a Rawls è la nozione costitutiva di comunità. Il liberalismo tratta gli individui di una società, astraendoli dal vincolo o dal legame comunitario e concettualizzandoli come stranieri gli uni agli altri. Per questo, l' accento cade sulla neutralità dei principi di giustizia e sui diritti, intesi come atout di cui gli individui devono disporre per tutelare i loro scopi e le loro preferenze meramente individuali e, in un certo senso, idiosincratiche. La giustizia è la prima virtù delle istituzioni di società in cui individui fra loro stranieri, che non condividono alcuna concezione del bene, devono almeno regolare il loro traffico sulla base della condivisione di principi neutrali e impersonali. Il liberalismo non rende conto del valore del vincolo sociale, del riconoscersi mutuamente degli individui in comunità politiche caratterizzate da forme di vita e tradizioni in comune, del loro essere chi sono (e avere gli scopi che hanno) in virtù di pratiche comuni e di una identità collettiva, stabile nella durata. Il comunitarismo è invece centrato sull'idea che la distinzione canonica fra vita giusta e vita buona e la connessa idea di neutralità liberale dei principi di giustizia o sono pre103
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tese vuote o non sono altro che la ipocrita presentazione in vesti universalistiche e astratte di una particolare forma di vita e tradizione che sono quelle della comunità liberale stessa. In altre parole, la nozione di comunità è ineludibile se si vuole rendere conto dei criteri plausibili del giudizio politico riflessivo. Gli individui non si impegnano nel giudizio politico delle istituzioni e delle pratiche sociali nel vuoto pneumatico o adottando una prospettiva che è esterna rispetto alla società in cui vivono. Fanno ciò entro contesti, forme di vita e tradizioni, comunità determinate e particolari, da un punto di vista inevitabilmente «interno». Sandel conclude così il suo tour de force antiliberale: «Non gli egoisti ma gli estranei, a volte benevoli, sono i cittadini della repubblica deontologica; la giustizia trova la sua occasione perché non possiamo conoscerci reciprocamente, né possiamo conoscere i nostri fini abbastanza bene da governarci in base al bene comune soltanto. Questa condizione non è probabile che svanisca del tutto, e finché non svanisce, la giustizia sarà necessaria. Ma non è neppure garantito che predomini sempre, e finché non predominerà, sarà possibile la comunità, e una presenza precaria della giustizia. Il liberalismo insegna il rispetto per la distanza dell'io e dei fini, e quando questa distanza si perde, siamo sommersi in una circostanza che cessa di essere la nostra. Ma cercando di assicurare questa distanza in maniera troppo completa, il liberalismo mette in pericolo la propria intuizione. Mettendo l'io al di là della portata della politica, esso fa dell'azione umana un articolo di fede anziché un oggetto di continua attenzione e preoccupazione, una premessa della politica anziché la sua precaria conquista. Questo fa perdere il pathos della politica e anche le sue possibilità più ispirate. Trascura il pericolo che quando la politica va male, è probabile che ne risultino non solo delusioni ma anche disastri. E dimentica la possibilità che, quando la politica va bene, possiamo conoscere un bene comune che non possiamo conoscere da soli ». 19 L'alone aristotelico delle ultime battute di Sandel caratterizza in modo più es p licito e intenso anche l'opera forse più suggestiva e controversa che è alla base del comunitarismo, Dopo la virtù (1981) del filosofo scozzese Alasdair Maclntyre. 20 Maclntyre è convinto che il fallimento della teoria politica liberale sia da attribuire al fatto che essa non è altro che l'ultimo esito del moderno progetto dell'illuminismo di costruire un'etica dei principi, universalistica e astratta, del tutto indipendente dalla tradizione delle virtù, intesa appunto in senso vagamente aristotelico. Così, per Maclntyre l'idea della neutralità della giustizia è coerente con una più ampia concezione etica moderna che si può presentare come articolata in cinque punti fondamentali: «Primo, la moralità è costituita da regole a cui ogni persona razionale in certe condizioni ideali darebbe il suo assenso; secondo, queste regole pongono limiti e sono neutrali rispetto a interessi rivali e concorrenti - la mora19 Sandel, 1982, trad it., p. 199. 20
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Su Madntyre si veda anche il cap. r sui
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lità stessa non è espressione di alcun interesse particolare; terzo, queste regole sono anche neutrali rispetto a insiemi di credenze rivali e concorrenti intorno alla migliore maniera di condurre una vita umana; quarto, le unità che forniscono l'oggetto della moralità, così come i suoi attori, sono esseri umani individuali, e nella valutazione morale ciascun individuo deve contare per uno e nessuno per più di uno; e quinto, il punto di vista dell'attore morale, costituito dalla fedeltà a queste regole, è uno e il medesimo per tutti gli attori morali, e in quanto tale indipendente da ogni particolarità sociale ». 21 La visione che Maclntyre contrappone alla moralità liberale ricorre, in modo per certi versi affine alla prospettiva di Walzer, a una teoria contestualistica dei beni e delle pratiche sociali date, entro cui soltanto è possibile riconoscere la fioritura delle virtù: «L .. ] Non si tratta soltanto del fatto che dapprima apprendo le regole della moralità in qualche forma specifica e particolarizzata. Si tratta pure del fatto che anche i beni in riferimento a cui, e ai cui fini, va giustificato ogni insieme di regole, saranno beni che sono socialmente specifici e particolari. Centrale fra questi beni è il godimento di un particolare genere di vita sociale, vissuta attraverso un particolare insieme di relazioni sociali, e quindi ciò di cui godo è il bene di questa particolare vita sociale cui partecipo e la godo per come essa è [ ... ] I miei beni in pratica li incontro qui, fra queste persone particolari, in queste relazioni particolari. Non si incontrano mai dei beni se non particolarizzati in questo modo. Quindi l'astratta tesi generale secondo cui regole di un certo tipo sono giustificate tramite il loro produrre e costituire beni di un certo tipo è vera solo se questi, e questi, e questi insiemi particolari di regole, incarnate nelle pratiche di queste, e queste, e queste comunità particolari, producono o costituiscono questi, e questi, e questi beni particolari goduti in certi luoghi particolari da certi individui specifici ». 22 Ora, se i criteri del giudizio morale e politico sono inevitabilmente interni a forme di vita in comune; se la giustificazione ha un senso determinato solo entro una tradizione particolare e le virtù sono tali solo entro pratiche o culture determinate, sembra che per il comunitarismo una società bene ordinata sia possibile solo se tutti i suoi membri si riconoscono stabilmente nel tempo come parti di una storia più ampia, collettiva e comune (al sé vuoto e al soggetto disincarnato delliberalismo o all'io emotivista Maclntyre contrappone del resto la nozione di un sé narrativo). Non è chiara la distanza fra questa tesi e quella che valuta la società bene ordinata come una società i cui membri condividono una singola e comune concezione del bene o della vita buona («la migliore maniera di vivere una vita umana»). Se quest'ultima fosse la tesi comunitaria, allora essa sarebbe non solo antiliberale ma risolutamente illiberale. Si tratterebbe, in altri termini, di una richiesta normativa che non riconosce il fatto o il valore del pluralismo, inteso precisamente 21 A. Maclntyre, Il patriottismo è una virtù?, trad. it. in Ferrara, 1992, p. 61.
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ivi, pp. 63-64.
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come la varietà delle nostre concezioni divergenti e confliggenti del bene. Il contrasto concettuale fra liberalismo e comunitarismo si può allora presentare nei termini seguenti: il liberalismo è centrato sull'idea della scelta collettiva di principi di giustizia, mentre il comunitarismo è imperniato sull'idea della scoperta delle virtù e dei criteri condivisi entro un contesto o una tradizione o un insieme di pratiche dato. Il contrasto politico dipende piuttosto dal fatto che il comunitarismo, inteso propriamente come teoria politica normativa, dovrebbe coerentemente rinunciare alla neutralità dell'ambito del politico e delle scelte pubbliche e raccomandare che una singola moralità sostanziale modelli e informi il disegno delle istituzioni politiche e orienti l'esercizio dell'autorità entro una società. Si può tuttavia osservare, com'è stato suggerito da Will Kymlicka, che quella comunitaria appare una teoria sociale piuttosto che una teoria politica normativa. Essa risulta allora un tentativo di mettere a fuoco il deficit di integrazione, appartenenza e vincolo sociale, l'erosione e l'incertezza quanto alle identità collettive di cittadinanza che contrassegnano, a vari gradi e con diversa intensità, le società poliarchiche. Il comunitarismo sottolinea che le teorie liberali della giustizia non sembrano ritenere un autentico problema quello della condivisione politica e della sua stabilità nella durata, entro le società e gli ordini politici democratici per cui esse elaborano i loro criteri del giudizio politico riflessivo. Ma il dilemma della condivisione politica e della sua stabilità non è facilmente eludibile. La sua elusione o la sua rimozione minano gli esiti attesi di stabilità della società bene ordinata che sono naturalmente impliciti nel paradigma delle teorie della giustizia. Restando entro tale paradigma, la questione che i comunitari pongono all'ordine del giorno si può riformulare come la questione del rapporto fra la giustizia e la stabilità di istituzioni politiche nella durata. Questo è uno dei motivi che hanno indotto Rawls a una revisione e a una riformulazione delle tesi di Una teoria della giustizia. La questione della stabilità è infatti al centro della proposta di Liberalismo politico (1993). VII
· LIBERALISMO
POLITICO
La revisione cui Rawls ha sottoposto la sua teoria della giustizia nel corso dei ventidue anni che separano l'opera del 1971 dalle otto Lezioni di Liberalismo politico è centrata sul problema della stabilità nel tempo di una società giusta. In Una teoria della giustizia, come si ricorderà, alla questione della stabilità era dedicata la terza parte del libro, quella che verte sui fini degli individui che si trovino a vivere entro istituzioni di base modellate dai principi della giustizia come equità. Quest'ultima, inoltre, era presentata come una dottrina morale comprensiva, che includeva una varietà di valori, politici e non politici. Nella formulazione del '71, la teoria politica normativa risulta una teoria del giusto che non è rispondente al pluralismo distintivo di società a tradizione democratica. Il pluralismo riguarda la varietà 106
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delle concezioni del bene e delle dottrine comprensive, religiose o meno che siano, che è in qualche senso intrinsecamente connessa alla forma di vita democratica. Il primo principio di giustizia è un principio che ascrive e tutela le eguali libertà fondamentali. All'origine di tale principio, come Rawls ribadisce più volte in Liberalismo politico, si ritrovano la soluzione del conflitto religioso europeo e i difficili percorsi verso la virtù pubblica della tolleranza. Se il pluralismo delle dottrine comprensive, cui corrisponde una varietà di lealtà, attaccamenti, devozioni e identificazioni collettive, deve essere preso sul serio, una teoria politica normativa non può basarsi su una dottrina comprensiva di tutto ciò che ha o deve avere valore per i partner della comunità politica liberale. La teoria della giustizia deve allora includere un sottoinsieme di valori specificato dai valori (solo) politici fondamentali che devono modellare il solo ambito del politico. In questo senso illiberalismo che Rawls propone è «politico» e non può essere, per esempio, «etico». Il comunitarismo insiste sulla rilevanza dell'idea di comunità e di condivisione di una moralità sostanziale. Ma la caratteristica non contingente delle società liberali è piuttosto la presenza di più comunità di condivisione di valori e lealtà divergenti: essa è correlata a una varietà di agenzie per l'identità collettiva di cittadini e cittadine. Come tesi politica, quella comunitaria è chiaramente in tensione con il liberalismo politico. Tuttavia, per quest'ultimo il problema della stabilità nel tempo diviene la nuova sfida, come i comunitari con le loro critiche e la loro diagnosi, anche se non con le prognosi offerte, inevitabilmente suggeriscono. Com'è possibile che permanga stabile nella durata la condivisione dei valori politici fondamentali, data la molteplicità delle dottrine comprensive che caratterizza la varietà divergente e mutuamente confliggente delle identità in gioco? Ecco come Rawls presenta la questione nella prima Lezione di Liberalismo politico: «[. ..] Comincerò [. .. ] con una prima domanda fondamentale sulla giustizia politica in una società democratica: qual è la concezione della giustizia più adatta a specificare gli equi termini di una cooperazione sociale, da una generazione all'altra, fra cittadini considerati liberi, eguali e membri pienamente cooperativi per tutta la vita? A questo primo problema fondamentale ne aggiungiamo un secondo: quello della tolleranza, intesa in senso generale. La cultura politica di una società democratica è sempre contraddistinta da una molteplicità di dottrine religiose, filosofiche e morali opposte e inconciliabili. La nostra seconda domanda, dunque, è: quali sono le basi della tolleranza intesa in questo modo, dato il fatto del pluralismo ragionevole come prodotto inevitabile di istituzioni libere? Se combiniamo le due domande otteniamo quest'altra: com'è possibile che permanga continuativamente nel tempo una società giusta e stabile di cittadini liberi ed eguali che restano profondamente divisi da dottrine religiose, filosofiche e morali ragionevoli? ». 23 23 Rawls, 1993, trad. it., p. 23.
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Per rispondere alla domanda conclusiva Rawls introduce l'idea di consenso per intersezione. I principi di giustizia per l'ambito del politico devono giacere, per così dire, nell'insieme di intersezione non vuoto fra gli insiemi delle dottrine comprensive. La condivisione della giustizia come equità si awarrà delle ragioni che ciascuno ha, entro la propria dottrina comprensiva, per aderire ai valori politici fondamentali che la giustizia come equità ordina e specifica. Il consenso per intersezione si contrappone e si distingue nettamente, nella versione di Rawls, da una soluzione negoziale di equilibrio che contrassegna un modus vivendi. Si riformula così il noto contrasto fra la teoria del contratto e la teoria della contrattazione. Un modus vivendi può anche essere stabile, sempre che lo sia; ma non è stabile nel modo pertinente per gli scopi di una teoria politica normativa della giustizia. Chi aderisce a un modus vivendi lo fa per ragioni contingenti e circostanze appropriate ma altrettanto contingenti. Al variare delle circostanze, potrebbe essere razionale defezionare dall'intesa. Il consenso per intersezione sancisce invece la condivisione di una base pubblica per la giustificazione delle istituzioni fondamentali di una società giusta che rende vincolante e, in caso di conflitto, superiore la comune lealtà civile ai valori politici fondamentali rispetto alle altre, molteplici, lealtà, private o associative. In realtà, in Liberalismo politico Rawls chiarisce che i valori politici fondamentali sono quelli che, in una società democratica, possiamo riconoscere come « costituzionali». Essi devono poter essere sottratti ai mutevoli calcoli degli interessi sociali o agli esiti contingenti delle aggregazioni maggioritarie di preferenze politiche: in quanto propriamente costituzionali, i principi di giustizia vincolano lo spazio delle scelte collettive e delle differenti procedure di scelta democratica. La neutralità liberale si riformula così come equità nei confronti della varietà di dottrine comprensive o di prospettive di valore o di concezioni del bene inevitabilmente presenti in una società democratica. E l'originaria tesi dell'egualitarismo liberale (o dell'eguaglianza democratica) di Rawls non viene modificata: viene specificato esplicitamente lo spazio appropriato che essa deve occupare nella teoria normativa di una società giusta. Questo spazio, come si è detto, è lo spazio del politico, termine che in Liberalismo politico è sinonimo di «costituzionale». L'idea è, in conclusione, che i criteri del giudizio politico riflessivo devono orientarci nella valutazione e nella giustificazione, o meno, del quadro o della cornice costituzionale di una forma di vita collettiva democratica, stabile nel tempo. Questo resoconto sommario delle principali idee di Liberalismo politico richiede qualche commento che connetta gli ultimi esiti della ricerca di Rawls allo sfondo del paradigma delle teorie della giustizia da lui inaugurato. La prima osservazione è la seguente: Rawls concede molto (secondo alcuni critici, troppo) alle richieste formulate da pluralisti e comunitari di vincolare la validità dei criteri del giudizio politico al contesto o ai contesti dati. Il ruolo della teoria della scelta razionale e della procedura contrattualistica, centrale in Una teoria della giustizia, è indebolito in Liberalismo politico, le cui tesi sembrano spesso' pretendere validità grazie alla 108
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La teoria politica e il paradigma della giustizia
loro capacità di fornire una più coerente interpretazione della tradizione di credenza e giudizio politico democratico. Inoltre, l'insistenza sulla connessione stretta ed esclusiva fra giustizia come equità e ambito del politico e la interpretazione del «politico » come « costituzionale » richiamano alcuni aspetti messi in luce dalla tesi di Walzer sul liberalismo come ari:e della separazione. Secondo alcuni interpreti, al posto del Kant della Fondazione sembra acquisti peso e influenza lo Hegel della Filosofia del diritto: la teoria della giustizia avrebbe come presupposto essenziale l'insorgenza e la stabilità evolutiva di una qualche Sittlichkeit o di un ethos democratico. Si può, in conclusione, avere l'impressione che il paradigma delle teorie della giustizia, dopo la fioritura degli anni settanta e le intense controversie degli anni ottanta, sia entrato in una fase di stagnazione. Non è tuttavia compito di questo saggio fornire argomenti congetturali su come la teoria politica normativa potrà affrontare le sfide della «ricerca senza fine». Gioverà piuttosto limitarsi a indicare brevemente (e impressionisticamente) alcuni fra i problemi aperti o, per così dire, abbozzare una mappa delle più rilevanti incertezze attuali. È l'incertezza, dopo tutto, a sollecitare risposte che coincidono con le nostre teorie e i nostri, fallibili e provvisori, modelli. VIII
·
OSSERVAZIONI
CONCLUSIVE
Si consideri lo slittamento, nel paradigma delle teorie della giustizia, da questioni lato sensu distributive a questioni lato sensu identitarie. Come si è accennato, una ipotesi di ricostruzione razionale potrebbe essere avanzata, per linee interne, nel modo seguente: l'elaborazione di critèri distributivi è una risposta che la teoria normativa dà all'incertezza socialmente significativa concernente le soluzioni accettabili di un tipo familiare di conflitto. Seguendo un suggerimento di Alessandro Pizzorno, possiamo chiamare tale conflitto «conflitto distributivo». L'esservi conflitto intorno a schemi alternativi di distribuzione di costi e benefici della cooperazione sociale è ciò che è responsabile dell'incertezza circa gli esiti distributivi giusti, o meglio, giustificabili alla luce di un qualche principio o metodo condiviso. È la condivisione, dopotutto, che riduce l'incertezza. Il paradigma delle teorie della giustizia è, nella sua prima fase, coerente con questo aspetto, ossia rispondente all'incertezza che accompagna conflitti reali o virtuali la cui soluzione coincide con uno schema di distribuzione variamente modellato. Osserviamo che la posta in gioco di conflitti distributivi puri non tocca l'identità degli attori in gioco. Ricorrendo di nuovo al ruolo saliente dell'incertezza, diremo che l'incertezza non investe gli attori e la loro identità collettiva quanto piuttosto lo schema di vantaggi e svantaggi per attori la cui identità collettiva è stabile nella durata in quanto è sottratta all'incertezza. In che senso preciso l'identità di attori impegnati in conflitti distributivi del tipo puro è stabile? Essa è assicurata
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La teoria politica e il paradigma della giustizia
dalla stabilità della rete di mutui riconoscimenti. Quest'ultima, nella teoria politica, presuppone il riferimento ai confini dati e, a loro volta, stabili di comunità politiche concettualizzate come sistemi chiusi: qualcosa che ha a che vedere con il versante interno degli stati-nazione, per dirla con David Easton. Tutte le teorie della giustizia presentate in questo capitolo presuppongono, alcune implicitamente, altre esplicitamente, il riferimento alla cornice di sfondo di società che includono stabilmente, nello spazio e nel tempo, popolazioni. L'appartenenza politica pertinente è quella di cittadinanza. Essa è naturalmente basata su una manovra di inclusione dei cives cui corrisponde l'esclusione nei confronti di chi è identificato da altre appartenenze ad altre e distinte comunità politiche «chiuse». I criteri del giudizio politico riflessivo, così come i criteri di giustificazione di schemi alternativi di cooperazione sociale nel tempo, sono in questa prospettiva tutti criteri locali. Si consideri ora quella classe di circostanze in cui la natura del conflitto (e la natura dei nostri modi di guardarlo e riconoscerlo) cambia e ci troviamo piuttosto a concettualizzarlo nei termini di un conflitto identitaria o per il riconoscimento. Passiamo così dal tipo puro del conflitto distributivo a quello del conflitto identitaria. Corrispondentemente, l'incertezza significativa (che vuoi dire: massima in un contesto dato) migra dallo spazio degli interessi allo spazio dell'identità. È il sistema dei mutui riconoscimenti che è ora sottoposto alla pressione dell'incertezza ed è esposto all'instabilità, convertendosi in argomento di conflitto. È naturale, se questa congettura è almeno plausibile, che la teoria normativa debba misurarsi con questioni che in qualche modo sono logicamente prioritarie rispetto a quelle attinenti gli interessi, dato che l'avere una identità è un presupposto dell'avere certi interessi e non altri, certe preferenze e non altre. In altri termini, l'identità è la condizione di possibilità dell'avere interessi. Il lettore può adottare questa congettura interpreta riva e metterla alla prova riconsiderando gli sviluppi, indicati nei paragrafi precedenti, della ricerca e della controversia entro il paradigma delle teorie della giustizia. Sviluppando alcune implicazioni di questa congettura, è possibile tratteggiare una mappa impressionistica delle incertezze significative per la teoria politica normativa /in de siècle. Si consideri, sullo sfondo dello slittamento da interessi a identità, l'opposizione appena abbozzata fra locale e globale entro la teoria della giustizia. Sembra ad alcuni osservatori che, nell'ambito delle scienze sociali, economiche, politiche e storiche, le domande più difficili e contrassegnate dalla massima intensità di incertezza siano quelle generate dai dilemmi o dalle sfide globali. Si formula così il principale rompicapo per chi fa teoria entro il paradigma delle teorie della giustizia: lo chiameremo il rompicapo dell'estensione. Per dilemmi globali si intendono tutti i processi e i fenomeni collettivi che hanno effetti indipendenti dal riferimento ai confini, più o meno stabili, delle comunità politiche che, per convenzione, identifichiamo con gli stati-nazione. Quando si vogliono identificare dilemmi globali, si usa fare riferimento a fenomeni come la globalizzazione dei mercati, le interdipendenze regionali, le nazioni senza ricchezza IlO
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La teoria politica e il paradigma della giustizia
e la povertà senza nazioni, le questioni di genere, le grandi migrazioni, la geopolitica del disordine mondiale, i conflitti « post guerra fredda», il multiculturalismo, le guerre di religione, i conflitti etnici e tribali, gli squilibri economici tra un ristretto club di paesi molto ricchi e un enorme numero di stati molto poveri. Tutti questi, differenti ma non indipendenti, processi e fenomeni collettivi sembrano scompaginare il quadro del «versante interno» e richiedere che la teoria politica normativa affronti il rompicapo dell'estensione. Il problema consiste nel saggiare la possibilità di estendere criteri e ragioni a favore della giustizia dal contesto locale, entro cui quei criteri e quelle ragioni trovano quanto meno origine e un senso pertinente, al contesto globale. Una delle sfide percepite con maggiore intensità nelle comunità scientifiche e di ricerca è quella di globalizzare la giustizia sociale. La questione diviene allora la seguente: è possibile estendere i criteri della giustificazione a istituzioni politiche ed economiche e a pratiche sociali transnazionali e internazionali? È possibile estendere la cosiddetta « analogia domestica » e passare con successo dalla polis alla cosmopolis? E in che modo, se la risposta è affermativa? Sono queste, probabilmente, le sfide in cui più alta è l'incertezza e più onerosa la responsabilità del pensiero scientifico e filosofico. Come dovrà o potrà proseguire la conversazione umana, solo umana, su questioni di giustizia? Rispondere a queste domande difficili e altrettanto ineludibili è il compito più importante e attraente, soprattutto per chi prende sul serio il ruolo della ragione nelle faccende umane e il paradigma delle teorie della giustizia. Ma, come si dice, questa è sicuramente un'altra storia.
III
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CAPITOLO
TERZO
Sviluppi semantici nella filosofia del linguaggio DI
I
·
IL
ANDREA BONOMI
CONCETTO
DI
ANALISI
Nell'esaminare gli sviluppi più recenti della filosofia del linguaggio ci si atterrà a una delimitazione che è ormai corrente nella tradizione anglosassone, identificando tale area disciplinare con quella che sarebbe forse più corretto denominare filosofia analitica del linguaggio. Tuttavia, anche questa delimitazione non è sufficiente a caratterizzare in modo preciso l'insieme dei problemi e delle metodologie che la linguistica da un lato e la logica formale dall'altro hanno contribuito a formulare nell'ambito della riflessione filosofica sul linguaggio. Siccome è di questi argomenti che tratteremo nelle pagine che seguono, sarà dunque più appropriato parlare di indirizzo semantico. Nella prima metà del secolo, soprattutto sulla scorta degli studi di Russell e di Wittgenstein, l'interesse per il linguaggio naturale era subordinato a un atteggiamento filosofico che vedeva nella semantica non tanto un'area di ricerca autonoma, quanto uno strumento di chiarificazione (e, al limite, di dissoluzione) dei problemi filosofici. Si pensava infatti che tali problemi nascessero da un fraintendimento del linguaggio naturale, e che il lavoro di analisi consistesse essenzialmente nel metterne in luce il funzionamento corretto, e in particolare la complessità dei significati delle sue espressioni. Fondamentale, da questo punto di vista, è la distinzione russelliana tra forma grammaticale e forma logica. Tale distinzione si basa infatti sul presupposto che, se vogliamo davvero cogliere il significato degli enunciati del linguaggio naturale, non dobbiamo !imitarci alla considerazione della loro struttura osservabile, spesso fuorviante, ma dobbiamo piuttosto cercare di isolare l'intelaiatura logica sottostante. Affermazioni simili possono forse sembrare generiche, ma in realtà (come ha riconosciuto Ramsey) Russell fornisce un paradigma preciso di questa metodologia con la teoria delle descrizioni. In un famoso saggio del 1905 (Sulla denotazione), Russell cerca di mostrare che molti dei dilemmi antologici dibattuti in filosofia nascono da un fraintendimento delle cosiddette descrizioni definite, ossia di quelle espressioni che nel linguaggio naturale sono introdotte dall'articolo definito, come per esempio «Il presidente della repubblica», «Il numero primo pari», «La cima più alta d'Europa» e così via. Se ci limitassimo a un esame della «superficie» degli enunciati che contengono espresII2
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Sviluppi semantici nella filosofia del linguaggio
sioni simili, saremmo naturalmente portati a non fare alcuna distinzione tra un enunciato come: I) 2 è minore di 15
dove il numerale «2» denota una particolare entità aritmetica e l'enunciato: 2) Il numero primo pari è minore di 15 dove la descrizione «il numero primo pari» sembra funzionare allo stesso modo, designando la stessa entità. Il punto è che, così facendo, ci troveremmo poi in difficoltà di fronte a quest'altro enunciato: 3) Il numero primo pari maggiore di 2 è minore di 15
dal momento che la descrizione usata in questo enunciato non denota alcunché, non esistendo alcun numero primo pari diverso da 2. Secondo Russell, molti filosofi non hanno esitato a dilatare indebitamente l'universo degli esistenti pur di assegnare a tutti i costi una denotazione a espressioni che, come quella in questione, non ne hanno alcuna, dando così luogo a una quantità di pseudo-problemi circa la natura delle nuove entità ammesse. Viceversa, se nonostante le apparenze grammaticali ammettiamo che enunciati come (2) e (3) non hanno la stessa struttura logica dei genuini enunciati soggetto/predicato e che le descrizioni definite, in particolare, non sono gli autentici soggetti logici di tali enunciati, i problemi sollevati dalla non-esistenza delle presunte denotazioni da assegnare alle descrizioni si dissolverebbero. Di conseguenza Russell suggerisce che la «forma logica» di (3) sia in realtà di questo tipo (traducendo il suo formalismo in un linguaggio più discorsivo): 4) C'è un unico numero pari maggiore di 2 e questo numero è minore di 15.
Per le normali leggi logiche, un enunciato di questo genere riceve un valore di verità (il falso, nel caso in questione), senza che si debbano introdurre nell'universo di discorso particolari entità ad hoc, a differenza da quanto succederebbe se ci ostinassimo a trattare le descrizioni definite come gli autentici soggetti logici degli enunciati che le contengono. Benché quello delle descrizioni definite sia un problema apparentemente circoscritto, il carattere paradigmatico della strategia adottata da Russell è un importante punto di riferimento per capire gli sviluppi successivi della filosofia (analitica) del linguaggio. Da un lato (ed è, questo, un elemento di continuità) c'è un uso essenziale dell'apparato della logica formale nella ricostruzione delle proprietà semantiche degli enunciati delle lingue naturali. Tale uso è giustificato dall'idea che, al di là della appaIl3
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Sviluppi semantici nella filosofia del linguaggio
rente imprecisione e opacità della forma grammaticale, questi enunciati siano sistematicamente riconducibili a una struttura logica ideale. D'altro lato, però, questo tipo di analisi logica risponde a una finalità prescrittiva anziché descrittiva. Più che rappresentare uno strumento esplicativo delle regolarità sistematicamente individuabili nella sintassi e nella semantica del linguaggio naturale, il linguaggio logico ideale cui si ricorre costituisce uno strumento per dissolvere i presunti pseudo-problemi di buona parte della tradizione filosofica, come abbiamo visto nel caso delle descrizioni definite. È su queste basi (e con il conforto delle Ricerche Filosofiche di Wittgenstein) che attorno agli anni trenta l'analisi semantica viene concepita essenzialmente come uno strumento « terapeutico » per la dissoluzione dei problemi spuri con cui si misurano spesso i filosofi. In autori come per esempio G. Ryle (r900-76), la chiarificazione del funzionamento del linguaggio naturale serve essenzialmente a mostrare come un uso distorto di questo linguaggio sia il terreno di coltura degli equivoci sorti in ambito filosofico. Va precisato che tale subordinazione dell'analisi linguistica a un progetto che tende a dissolvere, più che a ricostruire, buona parte dei problemi filosofici, non caratterizza l'intera filosofia analitica prima della svolta semantica di cui ci occuperemo qui. Secondo autori come Ch. Morris (1901-79) e J. Austin (anche se da punti di vista diversi), poiché i problemi filosofici nascono nel linguaggio stesso, anziché da un suo uso distorto, è ancora nel linguaggio che dobbiamo cercarne la soluzione, più che la dissoluzione. Di qui un'analisi sistematica non solo degli aspetti semantici classici delle lingue naturali, ma anche dei risvolti pragmatici che sono alla base dell'uso del linguaggio nelle molteplici situazioni contestuali. Del resto, nell'ambito stesso della ricerca logica, comincia a svilupparsi un'analisi sistematica del ruolo che il contesto extralinguistico svolge nella determinazione del significato delle varie espressioni, come dimostrano gli studi di H. Reichenbach 1 e Y. Bar-Hillel sui quali avremo modo di tornare in seguito. Paradossalmente, per capire la reale portata della svolta semantica che è alla base della più recente riflessione sul linguaggio naturale, bisogna richiamarsi ai problemi sollevati da Frege, secondo il quale questo linguaggio, per le sue inevitabili ambiguità e imprecisioni, va sostituito nell'indagine scientifica da una lingua artificiale: proprio come l'occhio umano, egli osserva, va rimpiazzato dal microscopio. Ma il paradosso è solo apparente, dal momento che l'accuratezza delle osservazioni di Frege sui rapporti fra gli aspetti sintattici e quelli semantici del linguaggio (naturale o artificiale che sia), la sua capacità di individuare i nessi sistematici fra i significati delle diverse espressioni delle lingue naturali (eventualmente per segnalarne i limiti) e la finezza delle sue intuizioni nella interpretazione di forme linguistiche empiricamente date, rappresentano un punto di riferimento essenziale per l'analisi semantica nella sua configurazione attuale.
I
Di Reichenbach si vedano, in particolare, i parr. 45, 59 di Elements o/ symbolic logic, 1947.
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Sviluppi semantici nella filosofia del linguaggio II
· LA
SVOLTA
SEMANTICA
Come si è già accennato, il paradigma di filosofia del linguaggio di cui ci occuperemo presenta numerosi elementi di continuità con la tradizione analitica precedente. Il ruolo fondamentale dei problemi interpretativi sollevati dal linguaggio naturale, l'adozione di uno stile argomentativo rigoroso, il ricorso alla strumentazione logica rientrano per esempio fra questi elementi. D'altro lato, non è difficile individuare gli aspetti di peculiarità che caratterizzano il nuovo indirizzo. Sotto questo profilo, fondamentale è l'idea che l'analisi semantica meriti un trattamento autonomo rispetto alle consuete tematiche filosofiche. Abbiamo infatti visto che, nella filosofia analitica sviluppatasi soprattutto a partire dalle Ricerche Filosofiche di Wittgenstein, la riflessione sul significato delle espressioni linguistiche era essenzialmente mirata a una ricostruzione (ed eventualmente a una dissoluzione) di alcuni classici problemi filosofici. Il complesso di questi problemi era dunque la lente attraverso la quale venivano individuati forma e significato delle entità linguistiche. Emblematico, da questo punto di vista, è il quasi totale disinteresse che i filosofi analitici hanno manifestato verso le ricerche dei linguisti. Si pensava infatti che la caratterizzazione eminentemente filosofica dei problemi in gioco potesse prescindere dalle indagini empiriche della linguistica, che sembravano non presentare quei requisiti di sistematicità e universalità che sono propri della sfera filosofica. Inoltre, la cosiddetta filosofia del linguaggio ordinario aveva spesso adottato un analogo scetticismo nei confronti della logica formale, nella convinzione che le tecniche di indagine adottate nel caso dei linguaggi artificiali fossero del tutto inapplicabili all'ambito del linguaggio comune. Tuttavia, preclusioni simili erano destinate a rivelare il loro carattere parzialmente artificioso una volta raggiunta la consapevolezza che i problemi teorici dell'indagine semantica sono tali e tanti da meritare una piena autonomia (che non significa indifferenza) rispetto agli interessi prevalentemente filosofici che erano alla base delle ricerche precedenti. Parallelamente, nell'ambito della linguistica, le tecniche di indagine introdotte dalla grammatica generativa davano prova di una tale capacità di generalizzazioni sistematiche da neutralizzare il sospetto che questa disciplina andasse confinata nell'ambito delle ricerche empiriche sulle lingue particolari. Inoltre, lo sviluppo delle logiche non classiche (e in particolare delle logiche intensionali) permetteva di estendere l'applicazione della logica formale all'analisi delle lingue naturali, contribuendo così a rimuovere quel sostanziale scetticismo che, come si è appena ricordato, ha spesso caratterizzato l'atteggiamento dei filosofi analitici nei confronti della logica formale. La raggiunta autonomia delle indagini semantiche ha permesso, in particolare, di caratterizzare questo tipo di indagini in termini descrittivi anziché prescrittivi. Per esempio, abbiamo visto che, in autori come Russell, Wittgenstein o il primo Carnap, la nozione di forma logica era sostanzialmente intesa in contrapposizione alla struttura grammaticale osservabile degli enunciati del linguaggio ordinario: dipenIl5
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deva cioè dall'assunzione, come modello teorico, di un linguaggio «perfetto» che aveva poco in comune con le lingue storico-naturali. Un simile atteggiamento teorico è bene esemplificato dalla posizione assunta da Carnap nello scritto Sintassi logica del linguaggio: per la loro struttura asistematica e logicamente imperfetta, le lingue naturali sono ritenute incompatibili con i principi di analisi delle lingue artificiali, e «la specificazione delle loro regole di formazione e di trasformazione sarebbe così complicata da essere in pratica difficilmente realizzabile». Tuttavia, l'applicazione dei metodi della logica formale risulta possibile se si procede a un'opportuna idealizzazione, proprio come accade nelle scienze fisiche: « L'analisi diretta di queste [lingue verbali], che è stata fino a oggi prevalente, deve inevitabilmente fallire, proprio come il fisico verrebbe inevitabilmente deluso se cercasse fin dall'inizio di collegare le proprie leggi a cose naturali. In primo luogo il fisico collega le proprie leggi alle più semplici fra le forme costruite; a una sottile leva diritta, a un semplice pendolo, a masse puntiformi, ecc. [. ..] Allo stesso modo, le proprietà sintattiche di un particolare linguaggio verbale, come l'italiano, o di particolari classi di linguaggi verbali [. .. ], sono rappresentate e studiate nel modo migliore per mezzo del confronto con un linguaggio costruito che serve come sistema di riferimento. »2 Non è difficile scorgere, in queste posizioni, un atteggiamento per così dire ambivalente. Da un lato, come si è appena visto, non si nega che le procedure di indagine che valgono nel caso delle lingue artificiali siano in qualche modo trasferibili alle lingue storico-naturali. Ma al tempo stesso si sottolinea la distanza fra il modello teorico, rappresentato dalle prime, e la realtà empirica, rappresentata dalle seconde. Quel modello teorico è dunque in qualche modo imposto dall'esterno, a partire dai risultati conseguiti nell'ambito della sintassi formale delle lingue artificiali, ed è in questo senso che abbiamo parlato della natura prescrittiva della nozione di forma logica così come viene concepita in questa fase della filosofia del linguaggio. Il linguaggio ideale della logica è, in questo caso, il termine di paragone cui vanno rapportate le strutture formali che si riescono a isolare nell'analisi delle lingue n aturali, peraltro caratterizzate da imperfezioni e irregolarità di ogni tipo. Va altresì ricordato che tale atteggiamento nei confronti delle lingue naturali è stato condiviso dalla maggior parte dei logici fino agli anni sessanta. Si comprende allora perché lo sviluppo della semantica delle lingue formalizzate, a partire dagli studi fondamentali di Tarski, abbia sostanzialmente lasciato indifferenti, per un lungo periodo, coloro che si occupavano di semantica delle lingue naturali. Lo stesso Tarski ha più volte ribadito l'inapplicabilità dei metodi della sua semantica a queste lingue. E abbiamo appena constatato come un atteggiamento certo più benevolo, simile a quello assunto dal primo Carnap, si fondi nondimeno sull'assunzione della loro eterogeneità rispetto alle lingue artificiali, e sulla conseguente natura prescrittiva della grammatica logica. 2
R. Carnap, op. cit., 1937, p. 8 (trad. it., pp. 32-33).
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La svolta decisiva si verifica nel momento in cui si fa strada in semantica l'idea che la nozione di forma logica debba agire come principio esplicativo interno all'analisi delle lingue naturali, e che rappresenti il punto di arrivo di un processo di generalizzazione a partire dai dati empirici forniti da queste lingue. Per esempio, quando gli enunciati che contengono espressioni quantificazionali del tipo di « tutti gli uomini», «qualche libro», ecc., vengono associati a formule caratterizzate dalla presenza di opportuni quantificatori logici e descrivibili in base a principi costitutivi comuni, l'esigenza principale non è certo quella di ritradurre gli enunciati del linguaggio naturale in quelli della logica del primo ordine, in modo da permettere gli opportuni confronti. Si tratta invece di mostrare come alle formule in questione siano sistematicamente riconducibili, attraverso un'analisi interna alle lingue naturali, le diverse forme in cui si organizzano le espressioni quantificazionali di queste lingue. Un presupposto fondamentale, in questa ottica, è che simili forme di organizzazione siano tutt'altro che casuali e prive di sistematicità, e che rispecchino invece profonde regolarità nei processi generativi che le determinano. Ne consegue, ovviamente, che lo studio del linguaggio e delle sue modalità di funzionamento acquista un interesse autonomo dal punto di vista semantico, indipendentemente dai compiti ricostruttivi o « riduttivi » assegnatigli dalla tradizione analitica. III
·
UN
PARADIGMA
DI
RICERCA
Si è già accennato al fatto che, per comprendere pienamente il senso e la portata della svolta semantica verificatasi negli anni sessanta, occorre rivolgersi ad alcuni principi fondamentali della filosofia del linguaggio di Frege. Cerchiamo adesso di delinearne i più importanti. Anzitutto, si deve a Frege la formulazione di un principio che svolge ormai il ruolo di criterio regolativo nell'indagine semantica. Alla sua base ci sono le analisi che egli sviluppa nel saggio Le connessioni di pensieri e che possono essere compendiate da questa osservazione: « Le prestazioni della lingua sono veramente sorprendenti: esprimere un immenso numero di pensieri con poche sillabe - o addirittura trovare il modo di dare a un pensiero, che un terrestre ha or ora afferrato per la prima volta, una veste che permetta che un altro, cui esso è del tutto nuovo, lo riconosca. Ciò non sarebbe possibile se non potessimo distinguere nel pensiero delle parti alle quali corrispondono delle parti dell'enunciato, di modo che la costruzione dell'enunciato possa valere come immagine della costruzione del pensiero. [. ..] Se si considera quindi il pensiero come composto da parti semplici e se si fanno inoltre corrispondere a esse certe parti semplici dell'enunciato, diventa comprensibile come si possa costruire una grande molteplicità di enunciati cui corrisponde, di nuovo, una grande molteplicità di pensieri. »3 Questa intuizione ha due impor3 G. Frege, op. cit., 1988 (trad. it., p. 99).
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tanti conseguenze: a) proprio come la sintassi è basata su principi ricorsivi che rendono conto della possibilità di costruire espressioni più complesse a partire da espressioni più semplici (e quindi di generare un numero virtualmente infinito di enunciati), anche la semantica deve basarsi su principi analoghi, che spiegano la capacità, propria dei parlanti di una lingua, di comprendere un numero virtualmente infinito di enunciati (e quindi, in molti casi, di enunciati mai uditi prima); b) in considerazione del parallelismo appena riscontrato, analisi sintattica e analisi semantica devono in qualche modo procedere di pari passo. Dovrebbero essere evidenti le ragioni per cui osservazioni simili sono in qualche modo diventate un criterio regolativo per la filosofia del linguaggio di impostazione semantica. Infatti, l'idea di fondo che esprimono è che l'unico modo di spiegare come un soggetto umano, che dispone ovviamente di mezzi finiti, possa generare e comprendere un numero infinito di enunciati, è quello di individuare dei principi generativi che sono alla base della costruzione di strutture complesse a partire da componenti più semplici. Grazie agli scritti di N. Chomsky (n. 1928), questa idea è ormai familiare nella sintassi delle lingue naturali, ma l'aspetto interessante della originaria formulazione fregeana è che questo modo di vedere le cose è esteso alla semantica. Sulla base delle osservazioni di Frege è infatti possibile enucleare un criterio regolativo che ha ispirato le attuali ricerche semantiche. Si tratta del cosiddetto principio di composizionalità: 5) Il significato di un'espressione è funzione dei significati delle sue parti e del
modo in cui queste parti sono sintatticamente combinate. Dato il carattere molto generale di questo principio, non ci si deve sorprendere se ne sono state fornite interpretazioni (e attuazioni) diverse. Per esempio, R. M. Montague (I930-70) l'ha identificato con la formulazione di un principio di omomorfismo fra sintassi e semantica: a ogni espressione semplice del linguaggio dovrebbe corrispondere un significato semplice, e a ogni regola sintattica di composizione delle espressioni dovrebbe corrispondere una regola di composizione dei significati. Questa interpretazione ha il pregio della semplicità e dell'eleganza, e ha di fatto orientato i primi tentativi di applicazione della semantica intensionale alle lingue naturali. A lungo andare, però, si è rivelata troppo restrittiva, risultando difficile mantenere questa idea di una corrispondenza stretta, «regola per regola», fra sintassi e semantica. D'altra parte, una volta che si sia rinunciato alla formulazione di Montague, sembra impossibile fornirne un'altra egualmente chiara e definita. Ciò che ci rimane è dunque una versione più flessibile, anche se più vaga, del principio, che viene così ricondotto a un criterio metodologico generale, più o meno formulabile in questi termini: nell'attribuzione di un valore semantico alle espressioni della lingua, bisogna muoversi con la maggior sistematicità possibile, cercando di associare classi uniformi di espressioni con principi uniformi di interpretazione. Così n8
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formulato, il criterio di composizionalità risulta del tutto generico, riducendosi dopo tutto alla richiesta di un'analisi «basata su principi». Tuttavia, esso continua ad avere un valore regolativo in semantica, per lo meno nell'escludere teorie manifestamente ad hoc. Un esempio può chiarire meglio questo punto. Si pensa spesso che uno dei compiti essenziali della semantica formale sia quello di associare gli enunciati del linguaggio naturale a formule del linguaggio del primo ordine o di ordine superiore. Ma questo è vero solo in parte. Di per sé, associare singoli enunciati con singole formule non è né particolarmente interessante, né particolarmente complicato. Per esempio, qualsiasi persona che abbia una sufficiente familiarità con il linguaggio predicativo non ha difficoltà a ricostruire il significato di un enunciato come: 6) Leo ha incontrato un ufficiale
nei termini di una struttura quantificazionale di questo tipo: 6') C'è un x tale che (x è un ufficiale e Leo ha incontrato x);
mentre a quest'altro enunciato: 7) Se Leo incontra un ufficiale, lo saluta
verrà associata quest'altra struttura: 8) Per ogni x (se x è un ufficiale e Leo incontra x, allora Leo saluta x).
Così facendo, però, non si è fatto altro che accoppiare frasi con formule in modo poco sistematico ed esplicativo. Si tratta di un esercizio utile per gli studenti di logica elementare, ma poco significativo dal punto di vista semantico, dato che non si capisce perché mai l'espressione del linguaggio naturale « un ufficiale » è messa in corrispondenza, la prima volta, con una quantificazione esistenziale, e la seconda con una quantificazione universale. È vero che queste due formule rispettano i significati intuitivi dei due enunciati, ma la loro individuazione è puramente ad hoc, nel senso che non si vede a quale principio unitario di costruzione siano riconducibili queste due occorrenze dell'articolo indefinito: otterremmo certo una generalizzazione molto più interessante e produttiva se potessimo associare l'articolo indefinito con strutture quantificazionali tali da permettere un trattamento unitario di entrambi i casi. Ed è infatti in questa direzione che si sono orientate le varie teorie che hanno affrontato il problema. L'altro aspetto rispetto al quale sono risultate determinanti le riflessioni di Frege è il ruolo che il concetto di verità è destinato a svolgere in semantica. Se si dovesse
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esprimere in termini molto sintetici questo punto, si potrebbe dire che la seguente tesi rappresenta un altro tratto distintivo della filosofia del linguaggio di orientamento semantico: 9) Il significato di un enunciato dichiarativo coincide con le sue condizioni di verità, cioè con la specificazione degli stati di cose in cui quell'enunciato risulta vero.
Un'idea simile è avanzata da Wittgenstein quando scrive nel Tractatus: «Comprendere una proposizione vuol dire sapere che cosa accade se è vera. »4 Solo che Wittgenstein, come si è già osservato, non aveva in mente il linguaggio naturale, ma piuttosto un linguaggio logicamente perfetto: ed è proprio nel caso del primo che il principio enunciato in (9) può risultare problematico (e, proprio per questo, più interessante). Certo, di primo acchito l'idea che se un parlante conosce il significato di un enunciato allora, almeno idealmente, deve essere in grado di discriminare i casi in cui quell'enunciato sarebbe vero da quelli in cui sarebbe falso risulta del tutto plausibile. Nondimeno, non appena si cerca di precisarla sorgono spontanee numerose obiezioni. Esaminare le risposte a tali obiezioni è un modo interessante per ripercorrere lunghi tratti del corso della filosofia del linguaggio in questi anni. IV ·
PRAGMATICA
Una prima osservazione è dunque la seguente. Assumiamo pure, si dirà, che il significato di un enunciato sia dato dalle sue condizioni di verità, cioè dal modo in cui dovrebbero stare le cose se quell'enunciato fosse vero. Ma come spiegare, allora, tutti quei casi in cui un enunciato ha un significato diverso dal suo significato letterale? Le sole condizioni di verità, si proseguirà, non bastano a rendere conto del vero significato espresso da un enunciato come questo, contenuto in un saggio critico di C.E. Gadda: ro) Il dada si è rivelato un purgante efficace. Il punto è che, in questa affermazione, Gadda sta facendo un uso « metaforico» del predicato «essere un purgante», in modo da poterlo applicare, a differenza dal solito, a un'espressione denotante un'entità astratta qual è un movimento artistico. Si concluderà dunque: le «reali» condizioni di verità di questo enunciato sono qui irrilevanti, dal momento che uno stato di cose in cui un movimento artistico
4 Op. cit., 1922, Propos. 4.024.
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è un purgante non può sussistere, e quindi l'enunciato, sulla base di queste condizioni, risulterebbe o falso o semplicemente privo di senso. Ma in entrambi i casi si perde di vista il significato che Gadda aveva in mente quando ha scritto quelle parole. Questo modo di ragionare, però, è fuorviante per lo meno in un punto. Se davvero le condizioni di verità «letterali» di (w) non fossero rilevanti, non si capirebbe perché mai dovremmo ricorrere all'interpretazione metaforica. È vero invece il contrario: proprio perché cogliamo quelle condizioni di verità e ci rendiamo conto della loro impraticabilità, siamo indotti a operare una conversione nell'interpretazione di alcune parole, dando al predicato un significato tale da poter essere combinato, « composizionalmente », con il significato del sintagma nominale. È questa la ragione per cui interpretiamo (w) come significante che il dada ha avuto effetti depurativi rispetto alla tradizione artistica dominante. Certo, per operare questa conversione nel significato del predicato sono intervenuti dei fattori pragmatici, che sono analizzati sistematicamente nella teoria delle cosiddette implicature conversazionali di P. Grice (1913-88). 5 L'idea essenziale su cui si basano le riflessioni di Grice è che quando si comunica qualcosa a qualcuno occorre rispettare alcuni principi fondamentali, che egli identifica con quattro « massime»: la massima della quantità (non essere reticente né sovrabbondante rispetto alla quantità di informazione richiesta dalla situazione); quella della qualità (non asserire ciò che ritieni essere falso); quella della relazione (sii pertinente); quella del modo (sii perspicuo, evitando ambiguità e oscurità). Grice suggerisce quindi che, quando si viola deliberatamente una di queste massime, non lo si fa per venire meno agli intenti cooperativi che sono alla base di qualsiasi vera conversazione, ma viceversa per ottenere un potenziamento degli effetti comunicativi, determinato da quelle che egli chiama appunto « implicature conversazionali ». Così, nel nostro caso, l'evidente violazione della massima della qualità (dato che è patentemente falso che un movimento artistico possa essere un purgante) innesca una interpretazione sostitutiva del predicato, che dà luogo al cosiddetto significato «metaforico». Ma, per tornare al nostro problema, se non interpretassimo preliminarmente (w) in base al suo significato «letterale», cioè in base alle sue originarie condizioni di verità, verrebbe meno quel tipo di violazione che è appunto alla base della interpretazione metaforica. Il che dimostra appunto che, anche in questo caso, le condizioni di verità originarie sono tutt'altro che irrilevanti. Più in generale, queste considerazioni sembrano suggerire che l'analisi pragmatica stessa non può prescindere da una preliminare analisi semantica. Analisi come quelle di Grice rientrano, come si è già accennato, nella pragmadel linguaggio naturale, secondo una articolazione dei livelli di rappresentazione tica delle espressioni linguistiche dovuta a Ch. Morris. In base a questa distinzione,
5 Si veda in proposito la raccolta di scritti Studies in the way o/ words, 1989.
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ripresa anche da Carnap, lo studio di un sistema di segni consta di tre parti: nella sintassi (che è la componente più astratta) si studiano le relazioni intercorrenti fra i segni in quanto tali, indipendentemente dalla loro interpretazione e dal loro uso; nella semantica si studiano le relazioni fra i segni e la realtà extralinguistica; nella pragmatica, infine, si analizzano i rapporti fra i segni e gli utenti del linguaggio, e quindi, in particolare, le condizioni d'uso delle espressioni rispetto alle finalità perseguite da chi se ne serve. Fra le condizioni d'uso delle espressioni linguistiche di cui si occupa la pragmatica rientrano fondamentalmente due ordini di fattori. Da un lato c'è la componente intenzionale del linguaggio, nel senso che gli atti linguistici si fondano in modo essenziale sulle intenzioni e sulle aspettative dei parlanti. Tali atti possono dunque essere classificati, secondo una tassonomia introdotta da J. L. Austin 6 e poi modificata da J. R. Searle,7 come rappresentativi (è il caso delle asserzioni); direttivi (nel caso degli ordini); commissivi (quando per esempio si fa una promessa); espressivi (se si fanno delle scuse); dichiarativi (nel caso si proceda a una nomina o a una investitura). Da questo punto di vista, più che di condizioni di verità degli enunciati è opportuno parlare in generale, secondo Austin, delle loro condizioni di «opportunità», dato che, a seconda che si verifichino o meno certi requisiti contestuali legati alle intenzioni del parlante, alle aspettative degli interlocutori, e via dicendo, gli enunciati possono risultare più o meno «riusciti». Nel corso della presente esposizione non tratteremo di questa nozione « intenzionale » di contesto. Ci occuperemo invece dell'altro tipo di dipendenza contestuale delle espressioni, che sta per così dire sulla linea di confine fra sintassi e semantica. In particolare, affronteremo i problemi sollevati dalle cosiddette espressioni indicali, ossia quelle espressioni (come «io», «qui», «ora», ecc.) che denotano una persona, un luogo o un intervallo temporale rinviando al contesto della locuzione. Tuttavia, proprio perché questi problemi vengono affrontati con successo in una semantica basata sulla nozione di modello intensionale, dobbiamo delineare preliminarmente questa semantica. V
·
SIGNIFICATO
E
CONDIZIONI
DI
VERITÀ
Quando, negli anni trenta, Tarski pubblica i suoi scritti fondamentali sulla semantica dei linguaggi formalizzati, ben pochi pensano che i principi guida del trattamento formale esposto in questi scritti siano generalizzabili alle lingue naturali. Uno degli ostacoli indicati dallo stesso Tarski è la presunta indeterminatezza sintattica di tali lingue, e cioè l'impossibilità di individuare dei criteri rigorosi di « grammaticalità » nello stesso modo in cui li si individua nel caso delle lingue for6 La tassonomia originale di Austin è esposta nel suo libro Come /are cose con le parole, 1962.
7 Il libro fondamentale di Searle è, sotto questo profilo, Atti linguistici, 1969. Su Searle e Davidson si veda il cap. 1 del presente volume.
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malizzate. Tuttavia, le ricerche di Chomsky hanno rappresentato un'autentica svolta sotto questo profilo, mostrando la possibilità di stabilire delle procedure algoritmiche che delimitano l'insieme delle espressioni «ben formate» di una lingua naturale in modo non dissimile da quanto accade nel caso delle lingue formalizzate. Una volta rimosso questo ostacolo di principio, negli anni sessanta, grazie alle riflessioni filosofiche di D. Davidson e ai lavori di semantica formale di Montague, comincia ad affermarsi l'idea che il metodo indicato da Tarski possa far luce su alcune proprietà semantiche fondamentali delle lingue naturali. Un ruolo fondamentale, in questa area di ricerche, è ricoperto dalla nozione di modello per un linguaggio L, rappresentato, insiemisticamente, da una coppia M = < U, />, dove U è un insieme di individui (l'universo di discorso) e f una funzione (interpretazione) che fa corrispondere alle costanti non logiche di L appropriati valori semantici: individui, nel caso delle costanti individuali, e relazioni fra individui, nel caso dei predicati. Applicando i criteri indicati da Tarski, è poi possibile fornire una definizione induttiva della nozione di verità in un modello, prima per le formule atomiche di L e successivamente per quelle complesse. Infine, sulla base di questa definizione, si definisce la nozione di validità (come verità in tutti i modelli) e la relazione di conseguenza logica fra le formule di L. Si sarà notato che, nella sommaria esposizione appena fatta, abbiamo parlato genericamente di un linguaggio L, e non specificamente di lingua naturale. In realtà, così facendo, ci siamo attenuti a una procedura ormai corrente nella cosiddetta semantica modellistica, una procedura che articola l'interpretazione semantica di una lingua naturale in due passi: prima si traduce quella lingua in un linguaggio intensionale L (vedremo poi perché si parla di linguaggio intensionale) e quindi si interpretano le espressioni di L nei termini delle strutture modello. In particolare, avremo che un enunciato di una lingua naturale è vero in un modello M se e soltanto se lo è la sua traduzione in L. È dunque chiaro che, se si adotta questo modo di procedere, il momento della traduzione in L della lingua data assume qn ruolo cruciale. Da un lato, non è difficile vedere nelle formule di L la prosecuzione naturale del concetto classico di forma logica: è infatti a questo livello che vengono individuate le proprietà logiche degli enunciati della lingua naturale in questione. Dall'altro, è ancora a questo livello che interviene il principio di composizionalità: le modalità di traduzione in L devono essere tali da soddisfare i principi di sistematicità cui abbiamo accennato poco fa; una traduzione caso per caso, e non sorretta da principi, non avrebbe alcun significato da un punto di vista teorico generale. Abbiamo cioè bisogno di regole che abbiano una portata generale e che siano al tempo stesso esplicite e rigorose. Torniamo dunque alle possibili obiezioni che possono essere sollevate rispetto all'identificazione, nella semantica modellistica, del significato di un enunciato e con le sue condizioni di verità. Abbiamo appena constatato che tali condizioni sono date, in realtà, dalla traduzione di quell'enunciato nel linguaggio intensionale L. Sia 123
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e' questa traduzione, per la quale valgono le consuete condizioni di verità tarskiane: sono dunque queste condizioni che, nel tipo di teoria in discussione, rappresentano il significato dell'enunciato e. Prendiamo dunque il caso più semplice, quello in cui e' è un enunciato quantificato, per esempio un enunciato della forma «Per ogni x (se x è P allora x è Q)», dove «P» e «Q» sono predicati monoargomentali. In termini tarskiani avremo allora che e' è vero in M = < U, /> se e solo se di ogni individuo u del dominio U è vero che se u appartiene all'insieme X che il predicato «P» denota in M, allora u appartiene anche all'insieme Y che il predicato «Q» denota in M. Supponiamo adesso che e' sia la traduzione dell'enunciato della lingua naturale «Tutti i corvi sono neri». Come non vedere, è questa l'obiezione, che da un punto di vista puramente modellistico non c'è modo di selezionare il modello «inteso», cioè il modello in cui la parola «corvo» corrisponde effettivamente all'insieme dei corvi, e la parola «nero» corrisponde davvero all'insieme delle cose nere. Nelle condizioni di verità appena enunciate, così prosegue l'obiezione, i predicati in questione sono messi in corrispondenza con insiemi arbitrari, e niente ci impedisce di valutare quell'enunciato rispetto a un modello in cui la parola « corvo » è messa in corrispondenza con l'insieme, diciamo, delle cerbottane e la parola «nero» con l'insieme delle cose che galleggiano. Chiaramente, non è questo il modello che ci interessa, e condizioni di verità che non siano in grado di attuare la discriminazione richiesta possono difficilmente essere ritenute adeguate a esprimere il significato di un enunciato. In realtà, la risposta più sensata a una simile obiezione ne condivide il punto di partenza, riconoscendo cioè che una semantica modellistica non va al di là dell' enunciazione dei requisiti strutturali delle vere e proprie condizioni di verità. Ci dà cioè l'ossatura logica delle condizioni di verità, che coincide con l'apparato ricorsivo della semantica modellistica (più le opportune integrazioni intensionali). Ciò che rimane fuori, da questa cornice teorica, è dunque la dimensione del lessico, dal momento che, come abbiamo visto, la nozione di modello utilizzata qui è troppo astratta per rendere conto degli effettivi significati delle parole della lingua: ossia quei significati che ci permettono di riferirei ai corvi, e non alle cerbottane, quando usiamo la parola «corvo». Come abbiamo anticipato prima, questo è un caso in cui la risposta a un'obiezione sollevata nei confronti dell'identificazione fra significato e condizioni di verità apre una intera dimensione di ricerca, poiché un settore notevole di quelle che oggi vengono chiamate scienze cognitive è indirizzato allo studio della forma e del contenuto del lessico e delle operazioni cognitive su cui si fonda. VI
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I NT E N SIO NALIT À
È facile constatare che la semantica modellistica classica soddisfa il seguente principio di sostitutività: 124
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n) Sia E un'espressione che ha l'espressione A fra i suoi costituenti, e sia E' l'espressione che otteniamo da E sostituendo A con B. Allora, se A e B hanno la stessa denotazione, anche E ed E' hanno la stessa denotazione.
È però altrettanto facile vedere che, se la denotazione è concepita in term1m puramente estensionali, un principio come (n) può risultare problematico. Alcuni esempi classici di possibili violazioni di (n), basati prevalentemente su enunciati esprimenti modalità, sono stati approfonditamente discussi già negli anni cinquanta da autori come Church, Carnap e Quine. Ma la questione si fa particolarmente acuta quando entra in gioco la semantica delle lingue naturali. Infatti, oltre ai problemi classici cui si è appena accennato, e che sono determinati dalla presenza, in queste lingue, di espressioni modali, abbiamo una quantità di altri problemi di questo tipo. Le lingue naturali, lo si è appena ricordato, contengono senz' altro numerose espressioni modali, del tipo di «necessariamente», «è possibile che ... », ecc. Così, se per esempio assumiamo, come si fa nella tradizione della semantica modellistica, che estensionalmente la denotazione di un enunciato sia un valore di verità e la denotazione di un termine singolare sia un individuo, allora sorge il seguente problema, discusso da Quine in un saggio classico. 8 Si consideri l'enunciato vero: 12) Necessariamente 9 è maggiore di 7·
Ora, data la verità di: 13) La denotazione di «9» coincide con la denotazione di «il numero dei pianeti»
ne consegue, in base a (n) e a (rJ), che (12) ha la stessa denotazione di: 14) Necessariamente il numero dei pianeti è maggiore di 7·
Ma questo non è possibile, perché mentre (12) è vero, (14) è falso, e quindi questi due enunciati non possono avere la stessa denotazione. Problemi di questo genere possono sembrare eccessivamente legati alla natura logica degli operatori modali presi in considerazione, ma purtroppo le cose non stanno esattamente così. Una quantità di altre espressioni che hanno un uso frequente e del tutto intuitivo nel linguaggio naturale sollevano problemi analoghi. Si prenda, per esempio, l'avverbiale di tempo «sempre» e si consideri il seguente enunciato:
8
Re/erence and modality, in W. Quine, 1953.
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15) Il presidente della repubblica ha sempre abitato al Quirinale.
Assumendo la verità di (r5), come pure quella di: r6) La denotazione dell'espressione «Il presidente della repubblica» coincide con quella dell'espressione « Oscar Luigi Scalfaro »
otteniamo, in base a (u), ancora un risultato indesiderato, e cioè la possibilità di inferire da (15) (che è vero) l'enunciato: 17) Oscar Luigi Scalfaro ha sempre abitato al Quirinale
che è invece falso. Dove sta dunque il problema? La risposta è abbastanza ovvia, dal momento che non è difficile vedere che la non deducibilità di (14) da (12) dipende dal fatto che è possibile concepire stati di cose in cui il numero dei pianeti è minore di sette, e rispetto ai quali, dunque, la denotazione di «9» e quella della descrizione definita «il numero dei pianeti» non coincidono. Allo stesso modo, venendo al secondo controesempio, non è difficile immaginare una situazione in cui Oscar Luigi Scalfaro non è presidente della repubblica, e rispetto alla quale le espressioni « Oscar Luigi Scalfaro » e «Il presidente della repubblica» hanno pertanto denotazioni diverse. In una situazione simile, è vero che il presidente della repubblica, ma non Oscar Luigi Scalfaro, vive al Quirinale. Così, la morale che ne possiamo ricavare è che una concezione puramente estensionale del significato delle espressioni di una lingua, cioè una concezione che si limiti all'attribuzione di un valore semantico di quelle espressioni rispetto a un singolo modello classico, è inadeguata per affrontare i problemi sollevati dalle lingue naturali. Si ricorderà che Frege aveva già operato una distinzione sistematica fra il livello del senso e quello della denotazione, sostenendo per esempio che, nel caso di un enunciato, il suo senso è rappresentato dal pensiero espresso da quell'enunciato, mentre la sua denotazione è costituita da un valore di verità. Nelle intenzioni di Frege tale distinzione doveva essere sistematica, coinvolgendo tutti i tipi fondamentali di espressioni (enunciati, termini singolari, ecc.). Ma nella pratica non lo era, mancando una precisa individuazione delle entità intensionali chiamate a rendere conto dei vari tipi di sensi. Frege si era infatti limitato, in questo caso, a una caratterizzazione di natura intuitiva, parlando appunto del senso di un enunciato come di un « pensiero » o del senso di un termine singolare come di un « modo di dare un oggetto». Ci si spiega quindi perché, al momento di costruire una semantica rigorosa delle lingue naturali, tale caratterizzazione risultasse inadeguata e si avvertisse il bisogno di sostituirla con una formulazione più precisa. !26
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Un passo fondamentale in questa direzione è stato compiuto da Carnap con Significato e necessità, uno studio del 1947 che, seppur rivolto prevalentemente a una trattazione dei problemi semantici delle lingue artificiali, contiene una indicazione fondamentale per precisare le nozioni di senso e denotazione. Le denotazioni (o, come si esprime Carnap, le estensioni) delle espressioni coincidono con quelle indicate da Frege (tranne che nel caso dei predicati): l'estensione di un termine singolare è un individuo del dominio di discorso, quella di un predicato è un insieme di individui (per i predicati monoargomentali) o una relazione a n posti (per i predicati a n argomenti), mentre quella degli enunciati è un valore di verità. Per quanto riguarda le intensioni, Carnap sottolinea il fatto che queste devono essere caratterizzate rispetto a una pluralità di situazioni o stati di cose possibili, in modo che l'intensione di una espressione di un tipo dato possa essere considerata come una funzione che ha per argomento una situazione possibile s e per valore l'estensione di quell'espressione rispetto a s. Grazie alle successive elaborazioni formali, dovute soprattutto a S. Kripke (n. 1941), ]. Hintikka e allo stesso Montague, questo orientamento metodologico fornisce uno strumento efficace per affrontare i vari problemi sollevati dalle espressioni intensionali. La nozione tradizionale di modello o struttura (coincidente, come abbiamo ricordato, con una coppia ordinata formata da un universo di discorso e una funzione interpretazione), è sostituita da quella di modello o struttura intensionale, rappresentata adesso da una tripla M = dove U è l'universo di discorso, S un insieme di stati di cose possibili e f una funzione interpretazione che a ogni espressione di un dato tipo associa una intensione, cioè una funzione da situazioni possibili a opportune estensioni. Più precisamente, l'intensione che f assegna a un termine singolare sarà una funzione che a ogni stato di cose s fa corrispondere un individuo u (che rappresenta l'estensione di quel termine rispetto a s); l'intensione chef assegna a un predicato sarà una funzione che a ogni stato di cose s fa corrispondere un insieme P o una relazione a n-aria R (che rappresentano l'estensione del predicato rispetto a s, a seconda che si tratti di un predicato monoargomentale o di un predicato a n posti); infine, l'intensione che f assegna a un enunciato si ottiene « composizionalmente » dalle intensioni dei termini singolari e da quelle dei predicati, e sarà costituita da una funzione che a ogni situazione possibile s fa corrispondere un valore di verità (l'estensione dell' enunciato rispetto a s). A partire da questo apparato otteniamo una definizione ricorsiva di verità che, come desiderato, è sempre relativizzata a uno stato di cose s. In particolare, nel caso degli enunciati atomici, avremo (!imitandoci per semplicità ai predicati monoargomentali): 18) «P(a)» è vero rispetto alla situazione possibile s se e soltanto se l'individuo che costituisce l'estensione del termine a in s appartiene all'insieme di oggetti che costituisce l'estensione del predicato P in s.
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Le nozioni modali classiche saranno ricostruite a partire da definizioni di questo tipo (dove A è un qualsiasi enunciato): 19) «Necessariamente A» è vero nel modello M
/> se e soltanto se
A è vero rispetto a ogni situazione possibile s in S. Vale la pena di ricordare che i metodi della semantica intensionale che abbiamo appena delineato possono essere utilizzati non solo per trattare modalità logiche come il possibile e il necessario, ma anche per rendere conto di altri importanti fenomeni del linguaggio naturale. Tipico, sotto questo profilo, è il caso delle determinazioni temporali, che nelle lingue naturali sono espresse dai tempi verbali (oltre che da avverbiali e aggettivi). A partire dalle fondamentali ricerche di A. N. Prior (1914-69), 9 si è infatti potuto mostrare che anche il sistema dei tempi verbali può essere ricondotto a strutture di tipo intensionale. Sostanzialmente, l'idea di Prior è che la valutazione di un enunciato contenente tempi verbali debba essere valutato a istanti o intervalli di tempo variabili. Mentre il presente costituisce una sorta di «grado zero» del tempo verbale, essendo, come dice Prior, «il nucleo più interno di tutte le proposizioni temporali», tempi come il passato e il futuro vengono rappresentati per mezzo di opportuni operatori. Più precisamente: se A rappresenta l'enunciato (al presente) «Leo corre», allora «FA» sta per «Leo correrà» (o meglio: «Si darà il caso che Leo corre») e «PA» sta per «Leo ha corso» (o meglio: «Si è dato il caso che Leo corre»). È poi possibile dare un'interpretazione estremamente naturale di questi operatori in termini di strutture intensionali, assimilando l'insieme degli istanti o intervalli temporali a quello delle situazioni possibili, in modo da ottenere condizioni di verità di questo tipo: 20) «PA» è vero rispetto a un tempo t se e soltanto se esiste un tempo t' precedente t tale che A è vero rispetto a t'.
21) «FA» è vero rispetto a un tempo t se e soltanto se esiste un tempo t' suc-
cessivo a
t
tale che A è vero rispetto a t'. VII
· CRITERI
EMPIRICI
DI
VERIFICABILIT À
Naturalmente, questa presentazione dell'apparato formale è estremamente semplificata e la sua precisazione, nel caso della semantica di un frammento di lingua naturale, comporta una notevole complessità. Si tratta però di una complessità, che, cartesianamente, risulta ben dominabile, essendo costituita dall'applicazione e riap-
9 Si tratta di tre raccolte di scritti del 1957, 1967, 1968 (si veda bibliografia).
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plicazione di concetti intuitivamente semplici e chiari: sostanzialmente, si tratta di nozioni insiemistiche variamente combinate. In particolare, diventa più agevole, in questo tipo di semantica, dare una rappresentazione elegante all'idea che il significato (o, più esattamente, il senso) di un enunciato e sia dato dalle sue condizioni di verità. Infatti, nella cornice teorica delineata sopra, il senso di e non è altro che una intensione, cioè una funzione che fissa il valore di verità di e rispetto a ogni possibile stato di cose. Così, cogliere il senso di un enunciato e non è altro, da questo punto di vista, che essere idealmente in grado di discriminare l'insieme delle situazioni possibili in cui e risulta vero dall'insieme di quelle in cui risulta invece falso. Va sottolineato che l'esplicito riferimento alle situazioni possibili - che, come abbiamo appena visto, caratterizza la semantica intensionale- rende manifesta un'altra peculiarità delle nozioni di significato utilizzate all'interno dell'orientamento teorico che stiamo considerando. Infatti, il significato o senso di un enunciato viene ancora identificato con le sue condizioni di verità, solo che questa volta tali condizioni vengono definite rispetto a una molteplicità di situazioni meramente possibili. Diviene così evidente il fatto che conoscere le condizioni di verità di un enunciato non comporta che si debba disporre di un apparato di strumenti che permettano di appurare empiricamente il valore di verità di quell'enunciato. In realtà un vistoso fraintendimento caratterizza già l'interpretazione data negli ambienti dell'empirismo logico alla proposizione 4.024 del Tractatus menzionata a suo tempo. Per esempio, il primo Carnap sostiene che l'identificazione del significato di un enunciato con le sue condizioni di verità va interpretata nel senso che tali condizioni sono quelle della verificazione empirica o, come egli specifica, del controllo rispetto ai dati dell'esperienza. 10 Tale atteggiamento viene ribadito ancor più chiaramente, seppure in un'ottica diversa, da M. Schlick, che in un celebre passo così definisce il criterio di significanza degli enunciati: «Stabilire il significato di un enunciato equivale a stabilire le regole secondo le quali l'enunciato deve essere usato, e questo, a sua volta, è lo stesso che stabilire il modo in cui esso può essere verificato (o falsificato). Il significato di un enunciato è il metodo della sua verificazione. » 11 Ma è chiaro che una grande quantità di enunciati delle lingue naturali, che saremmo disposti a considerare come perfettamente sensati, risulterebbero problematici se un simile criterio di significanza venisse assunto in modo restrittivo. Si considerino per esempio affermazioni come queste: 22) Le orchidee crescono non solo sulla Terra, ma anche m altre parti dell'u-
niverso 23) Giulio Cesare aveva un neo sulla spalla sinistra.
n In op. cit., 1936.
ro Si veda R. Carnap 1967, p. 28.
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Nessuno metterà in dubbio che i significati di questi enunciati sono del tutto chiari. Eppure, di fronte alla richiesta di fornire un metodo per appurare empiricamente la loro verità o falsità, ci troveremmo di certo in difficoltà. Non è un caso che, di fronte a ovvietà di questo genere, Schlick e altri empiristi logici abbiano cercato di attenuare la rigidità del criterio di significanza proposto, introducendo un elemento di virtualità nel tipo di verificazione richiesto. Ma non è facile capire come questa importante qualificazione (peraltro formulata in termini generici) possa conciliarsi con le restrizioni imposte da un'interpretazione strettamente empiristica. D'altra parte, uno dei vantaggi della semantica intensionale è proprio quello di eliminare alla radice questi problemi. Conoscere il significato di enunciati come (22) e (23) comporta, come si diceva, la facoltà di discriminare gli stati di cose possibili in cui tali enunciati sono veri da quelli in cui sono falsi. Tale discriminazione è perfettamente alla nostra portata anche se non lo sono i metodi pratici per accedere, di volta in volta, agli stati di cose rilevanti e per valutare il valore di verità degli enunciati rispetto a tali situazioni. Per esempio, sappiamo benissimo in quali situazioni possibili accetteremmo come vero l'enunciato (23), anche se, in mancanza di una macchina per viaggiare nel tempo, non disporremo mai di un effettivo metodo di verificazione. VIII
·
POSTULATI
DI
SIGNIFICATO
Occorre altresì notare che l'incremento di semplicità, eleganza e sistemauctta che otteniamo grazie all'uso di nozioni intensionali si verifica pur sempre entro i limiti della semantica modellistica indicati prima, nel senso che questo tipo di semantica può solo determinare le condizioni logico-strutturali dell'interpretazione, lasciando aperto il problema di affrontare l'esatta specificazione del significato delle espressioni elementari che sono alla base dell'intera costruzione, cioè del lessico della lingua data. Infatti, le elaborazioni teoriche del tipo di quella delineata or ora si limitano a definire la nozione formale di modello (di interpretazione) logicamente ammissibile, senza preoccuparsi dei contenuti da attribuire agli elementi del lessico della lingua data: o meglio, preoccupandosi solo di fornirne una caratterizzazione logica generale, parlando di tipi astratti di intensioni. Si tratta, ovviamente, di un'astrazione metodologica del tutto lecita. Ma i limiti che comporta sono segnalati dallo stesso Montague: «L'uso di una lingua comporterebbe idealmente non solo la determinazione della collezione di tutti i modelli (una determinazione sufficiente per le nozioni logiche, cioè verità logica, implicazione logica, equivalenza logica), ma anche la specificazione di un particolare modello attuale: questo sarebbe chiamato in causa nel caratterizzare la verità assoluta (in quanto opposta alla verità rispetto a un modello). »12
12 R.M. Montague, 1974, p. 209.
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Per tornare all'esempio problematico citato prima, occorre riconoscere che, nonostante l'introduzione nella semantica dell'apparato intensionale, le difficoltà generate dall'indeterminatezza lessicale rimangono pressoché invariate. Nel caso della parola «corvo», tutto quello che si dice di più (rispetto al consueto modello estensionale) è che il suo significato è dato da una intensione, cioè una funzione da possibili stati di cose a insiemi di oggetti, ma non si pongono altre sostanziali restrizioni sulla natura esatta di questa intensione. Per esempio, potremmo avere un modello M in cui l'estensione della parola corvo rispetto a una situazione possibile è, come prima, costituita dall'insieme delle cerbottane, il che contrasta ovviamente con la nostra intuizione circa il significato della parola «corvo». Come ricorda Montague nel brano appena citato, il parlante competente di una lingua come l'italiano deve in qualche modo poter fare riferimento alla nozione di modello «inteso», e non solo alla nozione generale di modello, per poter afferrare il significato di enunciati contenenti la parola « corvo». È in questo senso che dai modelli ammissibili si dovrebbero escludere quelli che violano le correnti restrizioni di natura lessicale, permettendo di assegnare indifferentemente alla parola « corvo», in mondi possibili diversi, le estensioni più disparate. Carnap si pone questo problema già in alcuni articoli poi ripresi nell' appendice di Significato e necessità. Per evitare che, nell'analisi semantica, si debba tenere conto di modelli che violano le comuni intuizioni linguistiche, egli suggerisce di ricorrere a un insieme di postulati (da lui denominati postulati di signzficato), la cui funzione è appunto quella di escludere tali modelli. Si tratta, per esempio, di enunciati del tipo di: 24) Per ogni x (se x è un corvo allora x è un uccello).
Postulati del genere intendono rendere conto dei nessi semantici che caratterizzano il lessico di una data lingua, e se disponessimo di un insieme sufficientemente rappresentativo di tali stipulazioni, otterremmo appunto le restrizioni desiderate, escludendo come non ammissibili quei modelli in cui le estensioni del predicato «corvo», rispetto alle diverse situazioni possibili, includono entità che non sono animali, uccelli, e via dicendo. In realtà, le analisi formali del lessico hanno preso strade divergenti rispetto all'originaria impostazione carnapiana, ma il concetto di postulato di significato è tuttora un punto di riferimento essenziale per cogliere questo tipo di problemi, determinati dal significato delle espressioni elementari della lingua. IX
·
GLI
ENUNCIATI
E
I
LORO
COSTITUENTI
Si sarà notato che, fino a questo punto, abbiamo prevalentemente parlato del significato degli enunciati, identificandolo con le loro condizioni di verità. È però
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ovvio che ci sono altri tipi di espressioni il cui significato non è riconducibile, almeno immediatamente, al concetto di condizioni di verità. Per esempio, di termini singolari come «Napoleone Bonaparte» o «L'imperatore francese che fu sconfitto a Waterloo » non ha senso chiedersi quali siano le condizioni di verità, per il semplice fatto che un nome proprio o una descrizione definita non sono né veri né falsi. Al massimo potremmo chiederci se sono o meno adeguati a denotare l'oggetto inteso (in questo caso un personaggio storico). La risposta classica che viene fornita a questo tipo di problemi è, ancora una volta, già anticipata da Frege. Si dice dunque: non ci sono difficoltà ad ammettere che ai termini singolari o ai predicati in quanto tali non si possono attribuire condizioni di verità; quello che si può fare, però, è vedere in che modo i significati di questi tipi di espressioni concorrono alla determinazione delle condizioni di verità degli enunciati. L'indicazione di Frege, da questo punto di vista, è molto precisa: i termini singolari denotano oggetti del dominio di discorso, mentre i predicati (limitandosi qui per semplicità a quelli monoargomentali) denotano funzioni caratteristiche di insiemi (cioè funzioni da individui a valori di verità). Così, se consideriamo un enunciato come «Leo è saggio» possiamo scomporlo essenzialmente in due parti, rappresentate rispettivamente dal termine singolare «Leo» e dal predicato «è saggio », e tale enunciato risulterà vero o falso a seconda che la funzione caratteristica denotata dal predicato dia come valore il vero o il falso quando prende come argomento l'individuo denotato dal termine singolare. In questo modo, i ruoli svolti dai costituenti degli enunciati nel determinare le opportune condizioni di verità sono esplicitamente individuati, facendo riferimento all'articolazione dell'enunciato in una struttura funzione /argomento, chiamata a sostituire la distinzione tradizionale soggetto/predicato. Val la pena di aggiungere che questo modo di presentare le cose costituisce fra l'altro un'ottima illustrazione del principio di composizionalità. Abbiamo infatti specificato, a suo tempo, che alla base di questo principio troviamo l'idea che sintassi e semantica debbano procedere parallelamente, il che è in effetti proprio quello che accade nel semplice esempio appena introdotto. Sintatticamente otteniamo un enunciato combinando il predicato «è saggio» con il termine singolare «Leo», semanticamente otteniamo la denotazione di quell'enunciato (che per Frege è un valore di verità) applicando la denotazione del predicato (che, come abbiamo già ricordato, è una funzione caratteristica) alla denotazione del termine singolare, cioè all'individuo in questione. Generalizzando, possiamo individuare qui un preciso schema di corrispondenza (dove la freccia indica la relazione semantica di denotazione): Sintassi: Semantica:
Predicato j, Funzione caratt.
+ +
Termine sing. = Enunciato j, j, Oggetto = Val. di verità
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Sviluppi semantici nella filosofia del linguaggio X
· TEORIA
DEL
RIFERIMENTO:
LA
NOZIONE
DI
CONTESTO
Abbiamo dunque visto che, anche per quanto riguarda i termini singolari, la loro analisi semantica tende a mettere in evidenza il contributo che tali espressioni danno alla determinazione delle condizioni di verità degli enunciati in cui occorrono. Tuttavia, pur essendo pienamente soddisfacente dal punto di vista logico-strutturale, questa linea di tendenza deve in realtà misurarsi con altri interrogativi, soprattutto per quanto concerne la natura stessa dei termini singolari. Se la loro funzione nell'ambito di una struttura enunciativa è chiara, essendo riconducibile alla loro capacità di rz/erirsi a oggetti, è allora evidente che un compito essenziale della semantica sarà appunto quello di fornire una teoria adeguata del riferimento. La complicazione è rappresentata dal fatto che la classe dei termini singolari è tutt'altro che omogenea da questo punto di vista. Basta pensare alla molteplicità di modi che sono disponibili, nel linguaggio naturale, per designare oggetti. Abbian:..::; già incontrato le descrizioni definite (al centro, come si è visto, di una teoria, elaborata da Russell, che si sarebbe dimostrata cruciale per gli sviluppi della filosofia del linguaggio di orientamento semantico). Abbiamo inoltre ricordato nomi propri come «Napoleone Bonaparte». In entrambi i casi, si tratta idealmente di espressioni la cui denotazione non dipende dal contesto in cui vengono usate. «Il numero primo pari» denota il numero 2 indipendentemente da chi usa questa espressione, da quando la si usa, da dove la si usa, ecc. Un discorso analogo vale (almeno in parte) per i nomi propri. Ma si considerino adesso espressioni come «io», «questo computer», «il tuo libro preferito», ecc. In questo caso, ovviamente, non possiamo più ignorare il contesto in cui vengono usate le espressioni in questione: la denotazione del pronome «io» dipende in modo essenziale da un elemento del contesto, cioè l'identità del locutore, la denotazione di una descrizione contenente l'aggettivo « tuo » dipende dall'identità del destinatario dell'emissione linguistica, così come la denotazione del sintagma dimostrativo «questo computer» dipende dall'insieme degli oggetti circostanti (e, eventualmente, dalla presenza di un gesto indicativo). È, questa, la classe delle cosiddette espressioni indicali, cioè di quelle espressioni la cui denotazione o riferimento dipende, come abbiamo appena visto, dal contesto d'uso dell'enunciato. Il quadro dei termini singolari si presenta dunque più complicato di quanto la semantica modellistica delineata prima lasci sospettare. Anzitutto, abbiamo espressioni come le descrizioni «pure» (cioè prive di termini indicali) che, se denotano qualcosa, lo denotano in virtù della proprietà cui rinviano: come abbiamo appena ricordato, il termine singolare « il numero primo pari » denota il numero 2 in virtù del fatto che questo numero è l'unico a godere, appunto, della proprietà di essere un numero primo pari. Ma se si adotta questo schema esplicativo, non è poi così immediato specificare a quale proprietà rinvia un nome proprio come «Napoleone Bonaparte» per denotare l'oggetto inteso. Infine, nel caso dei termini indicali e delle espressioni che li contengono, si è appena detto che il contesto (extra)linguistico 133
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Sviluppi semantici nella filosofia del linguaggio
svolge un ruolo essenziale nella determinazione del referente inteso. Va detto che, almeno nell'ultimo caso, la semantica intensionale descritta prima è attrezzata, in linea di principio, per rendere conto degli aspetti fondamentali del funzionamento dei termini indicali. Abbiamo infatti visto che al centro di questa semantica è l'idea che un enunciato possa avere valori di verità diversi se valutato rispetto a situazioni possibili diverse. Certo, questa variabilità della denotazione degli enunciati non era di per sé determinata dalla variabilità della denotazione dei termini singolari: per lo meno nei trattamenti classici, un enunciato come «Leo ama le cipolle » risulta vero in certe situazioni possibili e falso in altre non già perché il termine singolare «Leo» denota persone diverse in situazioni diverse, ma semplicemente perché queste situazioni variano di volta in volta e l'individuo in questione si trova ad avere via via proprietà diverse. Il caso della variabilità denotazionale di un enunciato come «Io amo le cipolle» è invece più complicato. Qui, infatti, a differenza del caso degli enunciati non contenenti espressioni indicali, non abbiamo un'unica asserzione, ma, in corrispondenza dei diversi contesti d'uso, una molteplicità di asserzioni diverse. È infatti ovvio che, pronunciato da Socrate, l'enunciato contenente l'espressione «io» esprime l'asserzione che grosso modo potrebbe anche essere espressa dall'enunciato « Socrate ama le cipolle», mentre se viene pronunciato da Cleopatra esprime l'asserzione che potrebbe essere anche espressa dall'enunciato «Cleopatra ama le cipolle». In un saggio classico del 1954, dedicato appunto alle espressioni indi cali, 13 il logico Y. Bar-Hillel propone una linea di analisi a cui faranno riferimento, più o meno esplicitamente, le ricerche successive. Brevemente, l'idea è di isolare il livello delle asserzioni (o, come si esprime Bar-Hillel, dei giudizi) in quanto determinate dai contesti di locuzione: come abbiamo appena visto, lo stesso enunciato, se contiene espressioni indicali, può esprimere asserzioni diverse in contesti diversi, di modo che un'asserzione o giudizio può essere rappresentata come una coppia ordinata <E, c>, dove E è un enunciato e c un contesto (rappresentato da un parlante - che sarà dunque la denotazione di un termine come «io» - , da un intervallo di tempo - che sarà la denotazione di un avverbiale come «ora» - , e via dicendo). A sua volta, l'asserzione può essere associata a valori di verità diversi rispetto a situazioni possibili diverse, dal momento che, pur avendo stabilito che l'enunciato «Io amo le cipolle», in quanto emesso da So erate, esprime grosso modo l'asserzione che Socrate ama le cipolle, rimane pur sempre il fatto che tale asserzione può risultare vera in certe situazioni ma falsa in altre. In conclusione abbiamo dunque due livelli di analisi: i contesti servono in un certo senso a individuare ciò che si dice (il pensiero espresso, avrebbe detto Frege), le situazioni possibili ci servono per valutare la verità o falsità di ciò che si dice, cioè del contenuto espresso dagli enunciati quando sono usati in contesti appropriati. 13 Le espressioni indica/i, 1954.
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Sviluppi semantici nella filosofia del linguaggio XI
·
NOMI
PROPRI
Una volta caratterizzate in questi termini le proprietà semantiche delle espressioni indicali, rimane comunque il problema degli altri termini singolari, e in particolare dei nomi propri. Certo, si potrebbe osservare che anche i nomi propri rivelano un certo grado di dipendenza dal contesto: per esempio, un nome proprio come «Paolo Rossi» potrebbe denotare un attore comico nell'ambiente dello spettacolo e un centravanti nella cronaca sportiva di un giornale. Ma questa considerazione può al massimo servire a rendere conto delle condizioni d'uso che in qualche modo impongono restrizioni (anche importanti) ai meccanismi referenziali dei nomi propri, mentre questi meccanismi rimangono non analizzati. Si noti che i problemi che sorgono a questo punto non riguardano tanto la teoria semantica in sé, quanto la metateoria. Che un nome denoti un individuo, non viene messo in discussione da nessuno (se si escludono quei logici o filosofi che, come Russell, impongono particolari restrizioni sulle entità che costituiscono il dominio di discorso). Ma in virtù di che cosa un nome denoti un individuo rappresenta un problema che ha assillato intere generazioni di filosofi del linguaggio. Per esempio, nel suo Sistema di logica, J. S. Mill contrapponeva le espressioni che denotano un individuo grazie alla «connotazione » che incorporano dalle espressioni che, pur avendo una denotazione, sono invece prive di connotazione. N el novero delle prime rientrano senz' altro quelle che abbiamo chiamato descrizioni definite: un'espressione come «La capitale della Francia» denota Parigi per il semplice fatto che questa città soddisfa la proprietà di essere la capitale della Francia, che è appunto la «connotazione» espressa da tale descrizione. Ma, per venire alla classe delle espressioni denotative e non connotative, non si vede proprio, aggiungeva Mill, quale possa essere la connotazione associata a un nome proprio come « Parigi », che pure denota la città in questione. Per quanto apparentemente convincente, questa osservazione è stata messa in discussione in una tradizione di pensiero che risale a Frege. Una posizione come quella di Mill, si obietta, lascia insoluti per lo meno due tipi di problemi. Anzitutto, se si nega ai nomi propri un qualsiasi contenuto descrittivo o concettuale, non ci si spiega perché mai delle asserzioni di identità in cui occorrono nomi propri possano avere un indubbio valore conoscitivo. Tanto per citare un esempio classico, nessuno può negare che un enunciato come « Espero è Fosforo» sia dotato di valore conoscitivo, nel caso il primo nome sia inteso denotare la stella della sera e il secondo la stella del mattino. Inoltre, per anticipare un problema che tratteremo fra poco, se la caratterizzazione semantica dei nomi propri dovesse limitarsi al concetto di denotazione, ci troveremmo in difficoltà di fronte agli enunciati esprimenti atteggiamenti mentali, il cui trattamento semantico sembra presupporre l' attribuzione ai nomi di un contenuto cognitivo. Una possibile risposta a interrogativi simili consiste nell'attribuire ai nomi propri non soltanto una denotazione, ma anche un senso, assimilando quest'ultimo a 135
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Sviluppi semantici nella filosofia del linguaggio
dei criteri di identificazione del referente inteso. La difficoltà, ovviamente, consiste nel precisare la natura di questi criteri. Per esempio, è abbastanza ovvio che un dato individuo costituisce il referente di una descrizione definita quale « Il filosofo nato a Stagira che fu maestro di Alessandro Magno » proprio in virtù del fatto che soddisfa le proprietà espresse da questa descrizione (essere un filosofo, essere nato a Stagira, ecc.), cosicché il criterio di identificazione associato a questa descrizione può essere fatto coincidere, del tutto naturalmente, con questo insieme di proprietà. Ma quali proprietà si potranno mai associare a un nome proprio come « Aristotele » per dar luogo a un criterio di identificazione del referente altrettanto esplicito e definito? Interpretando indebitamente una nota contenuta in Senso e denotazione di Frege, si è pensato che un nome proprio potesse essere avvicinato a una descrizione definita o a un insieme di descrizioni definite: più precisamente, che il suo senso fosse costituito da una o più descrizioni definite. Per esempio, il senso del nome «Aristotele» potrebbe essere fatto coincidere con quello della descrizione «Il filosofo greco che fu maestro di Alessandro Magno». Ma questa strategia si espone a obiezioni inevitabili, soprattutto alla luce di strutture intensionali che, come abbiamo visto, prevedono una molteplicità di situazioni possibili. Si consideri per esempio un enunciato come: 25) Aristotele potrebbe non essere stato il maestro di Alessandro Magno.
Intuitivamente, questo enunciato è vero, dal momento che è del tutto possibile immaginare una situazione in cui Aristotele non ha avuto Alessandro Magno come discepolo e addirittura non ha mai praticato l'insegnamento, dedicandosi unicamente alle sue speculazioni filosofiche. Eppure, secondo la teoria che stiamo esaminando, (25) dovrebbe addirittura essere contraddittorio, visto che le proprietà in questione sono costitutive del senso del nome. Inoltre, se per esempio si scoprisse che il maestro di Alessandro Magno non è stato Aristotele ma Frisipato, se ne dovrebbe concludere che il nome «Aristotele» non denota più Aristotele, ma Frisipato. Il che è quanto meno problematico, visto che le nostre convinzioni rispetto a questo o quell'individuo possono spesso cambiare, senza che per questo si debbano ogni volta rinominare persone, luoghi, animali, ecc. Obiezioni di questo tipo, formulate da un punto di vista che si richiama alle tesi di Mill, sono contenute in un testo di S. Kripke (Nome e necessità, 1980) che è tuttora al centro del dibattito in logica e filosofia del linguaggio. Sostanzialmente, l'idea di Kripke è di operare una netta distinzione fra il riferimento stesso di un nome e i criteri di identificazione che gli sono associati. Certo, non si può fare a meno di riconoscere che, nell'uso di un nome, si ricorre spesso a una descrizione per spiegare chi sia o cosa sia il portatore di quel nome. Ma questo tipo di contenuto concettuale non è rilevante quando si deve invece spiegare in virtù di che cosa il nome denota quello che denota. Per esempio, la proprietà di essere nato a Stagira, di essere un filosofo, ecc. può certo essere
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utile per illustrare a qualcuno che non ha mai udito il nome «Aristotele» chi sia il referente di questo nome, ma, come abbiamo osservato prima, non può essere parte costitutiva del senso di questo nome, altrimenti ci troveremmo di fronte alle difficoltà discusse poco fa. Il legame fra un nome e il suo referente, secondo Kripke, ha invece origini diverse, ed è sostanzialmente di tipo storico-causale. La ricostruzione ideale che egli fornisce è più o meno questa: in un atto pubblico, all'interno di una comunità di parlanti, un certo oggetto a riceve il nome proprio N; in seguito N viene trasmesso ad altri parlanti (non coinvolti nell'atto di nominazione originario), che lo ricevono con il tacito impegno di continuare a usare quel nome per denotare l'oggetto a, e che a loro volta lo trasmettono ad altri parlanti, e così via. Se ci chiedessimo dunque qual è il referente di N a un certo punto della storia, dovremmo dunque solo prendere in considerazione la catena causale che si è così formata grazie al passaggio del nome di bocca in bocca: idealmente, percorrendo a ritroso i vari anelli di questa catena, risaliremmo all'atto di nominazione originario, nel quale viene appunto fissato il referente del nome. In tutto ciò, i contenuti concettuali che sono di volta in volta associati a quel nome non svolgono alcun ruolo essenziale, dato che gli elementi fondamentali di questa ricostruzione sono, come abbiamo appena visto, l'evento dell'attribuzione del nome e la catena che si è costituita a partire da quell'evento. XII TEORIE
DEL
·
PROBLEMI
SIGNIFICATO
E
APERTI:
ATTEGGIAMENTI
PROPOSIZIONALI
Il dibattito creatosi, all'interno della filosofia del linguaggio contemporanea, sulla natura semantica dei nomi propri rivela una difficoltà di principio che rappresenta tuttora un problema teorico aperto. Abbiamo appena visto che sono essenzialmente considerazioni di natura modale a spingere Kripke verso una distinzione netta fra proprietà semantiche dei nomi (definite in termini puramente referenziali) e qualificazioni di ordine cognitivo, utili per l'identificazione del referente nella pratica quotidiana. Quello che gli interessa, infatti, è salvaguardare l'idea (peraltro intuitiva) che un nome non cambia referente quando si fanno ragionamenti controfattuali: quando per esempio ci si chiede, come abbiamo accennato prima, cosa sarebbe successo se Aristotele non fosse stato il maestro di Alessandro Magno. In casi di questo genere, osserva infatti Kripke, quelle che abbiamo in mente sono situazioni possibili (ma non verificatesi: controfattuali, appunto) che riguardano lo stesso Aristotele, e non altri ipotetici individui che il nome «Aristotele» avrebbe potuto designare in quelle circostanze. E se il nome non presentasse questa rigidità referenziale al variare delle situazioni possibili, mantenendo sempre lo stesso referente, ragionamenti controfattuali del genere risulterebbero impraticabili. È sostanzialmente questa la ragione per la quale Kripke relega fra le caratteristiche pragmatiche, e non semantiche, dei nomi l'apparato descrittivo-concettuale che è spesso associato a un 137
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nome per fissarne il referente. Se l'insieme delle proprietà a cui, nella pratica quotidiana, si ricorre per identificare il portatore di un nome fosse parte del senso di quell'espressione, allora è owio che, in situazioni possibili diverse, al nome potrebbero corrispondere referenti diversi. Come abbiamo visto nell'esempio di prima, al nome proprio «Aristotele» corrisponderebbero, nelle diverse situazioni possibili, coloro che in quelle situazioni soddisfano la proprietà di essere filosofo, maestro di Alessandro Magno, ecc. (assumendo che siano queste le proprietà attribuite al referente del nome). Ciò è esattamente quanto si vuole evitare. Indipendentemente da considerazioni di ordine filosofico generale, questa espulsione del contenuto concettuale o descrittivo dalla semantica dei nomi propri rappresenta un problema particolarmente acuto quando si ha a che fare con enunciati esprimenti i cosiddetti atteggiamenti proposizionali. Si tratta di quegli enunciati che contengono verbi come «credere», «volere», «sapere», ecc. e di fronte ai quali l'applicazione immediata delle comuni tecniche della semantica intensionale risulta problematica. Si consideri un esempio classico, rappresentato dalla seguente coppia di enunciati: 26) Leo crede che Fosforo compaia di mattino 27) Leo crede che Espero compaia di mattino.
Assumendo che Leo non sappia che i due nomi denotano lo stesso corpo celeste, può benissimo accadere che il primo enunciato risulti vero senza che risulti vero il secondo, anche se (27) non è altro che l'enunciato ottenuto da (26) sostituendo un nome con l'altro. Visto che la denotazione dei termini è la stessa, e visto che, per Kripke, questa è l'unica componente presa in considerazione nel caso dei nomi propri, come spiegare l'attribuzione di valori di verità diversi ai due enunciati? In realtà, come lo stesso Kripke ha cercato di argomentare, questo tipo di problemi rappresenta un'autentica difficoltà per l'intera semantica modellistica, dal momento che i comuni strumenti intensionali non sembrano adeguati per rendere conto della caduta del principio di sostitutività nel caso di enunciati esprimenti atteggiamenti proposizionali. Non c'è bisogno di aggiungere che un adeguato trattamento di tali enunciati è d'altra parte essenziale, se lo scopo della teoria semantica è rendere conto della nozione di significato nelle lingue naturali. È infatti naturale pensare che l'entità teorica che, in una data analisi, rappresenta in genere il significato degli enunciati, rappresenti anche l'oggetto di atteggiamenti proposizionali come la credenza, per lo meno in questo senso: quando si afferma che x crede che P, si vuole dire, in qualche modo, che x crede appunto ciò che è espresso da P, e se x è un parlante competente e non crede che Q, allora i significati che nella teoria semantica vengono attribuiti rispettivamente a P e a Q devono essere abbastanza « sottili» da rendere conto della diversità che P e Q manifestano rispetto alle credenze
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di x. È, questo, un compito reso particolarmente attuale dai problemi sollevati da discipline di recente costituzione, come le scienze cognitive e l'intelligenza artificiale, cioè discipline che sembrano sollecitare un'analisi semantica orientata verso modelli interpretativi più flessibili, atti a rendere conto del comportamento linguistico di soggetti che dispongono di conoscenze e competenze limitate.
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CAPITOLO
QUARTO
La rzcerca estetica dal 1970 alla metà degli annt novanta DI
I
GIANNI
·
CARCHIA
INTRODUZIONE
Se si dovesse scegliere una data utile a fungere da spartiacque nella storia dell'estetica degli ultimi decenni, bisognerebbe probabilmente indicare il 1970, anno di pubblicazione della postuma Aesthetische Theorie di Th.W. Adorno. Con l'uscita di questo libro si chiude, infatti, un'epoca; la Teoria estetica è il canto del cigno della « modernità » artistica, vale a dire di quel periodo caratterizzato dalla strenua difesa dell'autonomia dell'opera d'arte nei confronti della società, dalla logica « rivoluzionaria» delle avanguardie, dal rifiuto dell'artista di lasciarsi «integrare» nelle istituzioni e nel mercato. Gran parte della produzione teorica dei decenni successivi si è sviluppata in opposizione alla negatività della teoria critica dell'arte. In concomitanza con l'effettivo prodursi nella realtà di un processo di « estetizzazione » del sociale, con la « spettacolarizzazione » della sfera pubblica e con la trasformazione dell'opera d'arte in «oggetto estetico» nasce una riflessione teorica che si propone di ricomporre la frattura tra arte e società caratteristica della modernità. generale processo di omologazione finisce così, nella temperie culturale che si è autodefinita come « postmodernismo », con l'unificare, all'insegna di un nuovo primato dell'« estetica», gli ambiti più disparati: non solo l'arte e la società, ma anche reciprocamente le diverse arti, i generi teorici (come nella commistione di letteratura e filosofia propria del « decostruzionismo »), le aree linguistiche e culturali. In quella che è stata chiamata la «koiné ermeneutica» del postmoderno (G. Vattirno), perdono progressivamente di significato le tradizionali appartenenze storico-geografiche e si infrangono non solo le barriere fra le discipline, ma anche quelle fra le nazioni. Lo sviluppo impetuoso del confronto culturale ha condotto, addirittura, alla trasmigrazione di dottrine da un continente all'altro e ha reso permeabili confini che parevano un tempo assolutamente intoccabili, come per esempio quelli della filosofia analitica anglosassone. In un panorama di questo tipo, un'esposizione dello sviluppo più recente dell'estetica non può non tenere conto del carattere relativamente marginale che hanno assunto le specifiche tradizioni nazionali; la constatazione di questo dato di fatto impone di inserire i riferimenti al contributo teorico italiano nell'ambito di una discussione filosofica a tutto campo.
Un
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In base a una sia pure approssimativa scansione storico-cronologica, si possono individuare tre differenti momenti nella storia più recente della disciplina. La prima fase, all'incirca identificabile con gli anni settanta, si caratterizza per l'imporsi di una generale teoria «affermativa» dell'estetica, in opposizione a quella critico-negativa precedente. È il periodo contrassegnato dal consolidarsi dell'« estetica della ricezione», dalla rivendicazione di un nuovo primato dell'« esperienza estetica», dal diffondersi di un'idea dell'arte come «compensazione»; in ambito critico-artistico, si impongono le metodologie ispirate agli autori della «scuola del sospetto » (Marx, Nietzsche, Freud), che mettono in crisi l'impianto degli orientamenti critici in precedenza dominanti, il formalismo e lo strutturalismo. La seconda fase, coincidente all'incirca con gli anni ottanta, si caratterizza per l'elaborazione del concetto estetico di postmodernismo, in connessione con l'affermarsi dell'idea di un pensiero « postmetafisico » nelle diverse istanze dell'ermeneutica di derivazione heideggeriana. Sul piano della metodologia critico-artistica, si assiste all'ascesa del « decostruzionismo », mentre la categoria estetica che domina la discussione, con spunti e riflessioni anche dissonanti rispetto al profilo generale dell'epoca, è quella di «sublime». Gli anni più recenti, infine, vedono la rinascita, in seno all'estetica, di un orizzonte in senso lato trascendentale e di tentativi volti all'oltrepassamento di una considerazione storicistica dell'arte, come era ancora quella postmodernistica, in direzione di nuovi paradigmi e soprattutto di un recupero del rapporto dell'arte con la natura e con il mito; questo orientamento è palese nei più significativi sviluppi della nuova estetica «ecologica» e nella crescente affermazione di un'estetica «comparata», che ha ridotto il peso storico delle categorie occidentali. II
· L'ESTETICA
DELLA RICEZIONE
All'inizio degli anni settanta, Hans Robert Jauss (n. 1921), insieme con altri esponenti dell'indirizzo della critica artistico-letteraria che si definisce «scuola di Costanza», ha riepilogato il senso complessivo della propria ricerca storico-letteraria e della metodologia che la sostiene parlando di un'estetica della «ricezione». L'orientamento critico che questa espressione sottende si rivolge, in maniera consapevole e provocatoria, contro uno dei capisaldi dell'estetica di derivazione idealistica e hegeliana. Per quest'ultima, la riflessione filosofica deve dischiudere il contenuto di verità dell'opera d'arte autonoma (emancipata cioè dall'eteronomia del suo vassallaggio feudale) guardando esclusivamente alla totalità chiusa nella sua immanenza e rimettendo lo studio sia delle sue condizioni sia dei suoi effetti alle discipline non filosofiche (psicologia, sociologia, ecc.). Obiettivo più vicino e immediato della polemica di Jauss è l'atteggiamento complessivo dell'estetica tedesca del dopoguerra, alla quale viene rimproverato il suo carattere fondamentalmente essenzialistico e negativo. Secondo la scuola di Costanza, l'attenzione esclusiva portata alla verità interna all'opera - sia questa letta in chiave antologica (Gadamer) oppure
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crtttca (Adorno) - tralasciando come spurie e inessenziali le mediazioni concrete (lettura, pubblico, contesto sociale) attraverso cui nella ricezione si dispiega l'effetto dell'opera, sacrifica sull'altare della verità «immanente» all'opera alcune componenti fondamentali dell'esperienza estetica. La teoria della ricezione di J auss si propone come una riflessione metodologica sorta dalla consapevolezza che è impossibile comprendere l'opera nella sua struttura e l'arte nella sua storia prescindendo completamente dalle correnti ricettive che esse incontrano, trasformano e dalle quali sono trasformate. È importante sottolineare che ciò che è in questione per J auss è propriamente un'estetica, non già una psicologia o una sociologia, della ricezione. Questo significa che le sue determinazioni non riguardano qualcosa che stia « al di fuori» del significato dell'opera e che non abbia attinenza con il suo più intimo contenuto di verità. L'opera d'arte è qui intesa in un'accezione processuale, come qualcosa che vive nella tensione fra il suo accadimento e l'« orizzonte d'attesa » (Koselleck) in cui viene a situarsi. Al centro dell'interesse di Jauss c'è dunque una verità dell'opera come prassi, come risultato della sua interazione con il mondo, che va ricostruita con attenzione fenomenologica. Opera e mondo sono momenti di una più generale esperienza estetica, che deve essere recuperata nella sua interezza, contro la parzialità della concezione idealistica. Muovendosi in questa direzione, Jauss individua tre piani di cui tener conto per una definizione dell'esperienza estetica capace di sottrarla all'unilateralità delle visioni metafisica-negative. I diritti dell'esperienza estetica originaria, afferrata nella sua radice sensibile-immediata, vanno ripristinati in relazione a tre momenti, definiti rispettivamente come poiesis, aisthesis e kcitharsis. Alla spiritualizzazione del bello, che costituisce l'eredità platonico-essenzialistica sopravvissuta nelle estetiche metafisiche, una teoria dell'esperienza estetica sensibile contrappone l'aspetto costruttivo e concreto dell'effettivo produrre artistico, della poiesis studiata secondo le modalità e i problemi del suo realizzarsi. Parimenti, dal lato della ricezione, andranno messi in luce non tanto gli effetti cognitivi, necessariamente astratti, della verità dell' opera, quanto quegli aspetti per i quali si realizza nell'arte, in quanto aisthesis, il recupero di una dimensione precognitiva del mondo, colto nella sua profondità cosmologico-sensibile. Infine, contro lo snobismo estetico che, per sottolinearne la funzione critica, accentua in maniera esasperata la distanza e l'estraneità dell'opera dalla vita, la teoria di Jauss insiste sulla funzione esemplare, catartico-comunicativa, dello stadio originario e preriflessivo dell'esperienza estetica. In esso nasce l' esperienza del piacere, anch'essa sottovalutata dall'ascetismo delle poetiche dell'avanguardia, in quanto possibilità per la coscienza immaginante ricettiva di accedere a sempre nuove identificazioni emozionali con i significati dell'opera. È nel quadro di questo ampliamento dell'orizzonte dell'estetica moderna, che era legata al solipsismo di una fruizione in qualche modo monadica, che J auss elabora la sua proposta di una teoria «dialogica» della letteratura, recuperando spunti e suggerimenti presenti nel pensiero del filosofo russo Michail Bachtin (r895-1975).
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Al centro della teoria jaussiana della letteratura come « comunicazione», che presuppone il carattere sempre dialogico della costituzione del senso e l'intersoggettività del medium estetico, sta una logica ermeneutica che vede, in ogni testo, una dialettica di domanda e risposta. Che le opere d'arte non si riducano, nella deriva della tradizione, a meri relitti del passato, ma abbiano ancora qualcosa da dire alla posterità, non è elemento che si possa attribuire a una presunta atemporalità del fatto artistico, in base a un classicismo per altro ancora implicitamente presente, secondo J auss, nelle estetiche della modernità. L'effetto dell'opera, il fatto che essa non sia muta, ma tramite la sua forma comunichi un significato al di là dei mutamenti del tempo, si deve appunto al processo della ricezione. Ogni testo possiede un implicito carattere di risposta e di domanda, poiché vive solo grazie alle sue continue metamorfosi, grazie cioè alle incessanti sollecitazioni che gli giungono dalla comunità degli interpreti ovvero, più semplicemente, dei lettori. Ciò che giustifica la denominazione riassuntiva di « estetica della ricezione » è proprio il fatto che, per Jauss, il movimento dell'interpretazione procede dal lettore al testo. L'interprete attuale è in grado di trovare un significato nell'opera d'arte del passato, con la quale è entrato in dialogo, solo se è capace di riconoscere la risposta implicita in essa come risposta a una domanda che viene riformulata al presente per suo tramite. Ponendo l'accento sulla dimensione « attiva» della ricezione, l'estetica jaussiana si è proposta anche come correttivo e rielaborazione della teoria ermeneutica di H. G. Gadamer, alla quale muove il rimprovero di coltivare un'idea «passiva» del comprendere e di lasciare al testo «classico» l'iniziativa, vale a dire la capacità di porre le domande e di interpellare il lettore. Grazie anche agli sviluppi fecondi che ha avuto nella fenomenologia della lettura di Wolfgang Iser (n. 1926) e, più in generale, nel lavoro del gruppo denominato « Poetik und Hermeneutik », l'estetica di J auss ha acquisito un posto di rilievo, a partire dagli anni settanta, nel dibattito filosofico-letterario in Germania. Ampia risonanza essa ha suscitato in Francia, per esempio nell'opera di Jean Starobinski (n. 1920), e negli Stati Uniti, dove è entrata in dialogo con l'esercizio· critico-letterario di Paul De Man (1919-83). In Italia, infine, essa è stata accolta con particolare favore dalla scuola bolognese di Luciano Anceschi (19II-95), che ha rilevato analogie e connessioni con gli indirizzi caratteristici della «nuova fenomenologia critica». III
• LA
TEORIA
DELL'ESPERIENZA
ESTETICA
Come risulta evidente dall'esposizione della teoria di Jauss, fra i concetti essenziali della discussione teorica sviluppatasi a partire dagli anni settanta vi è quello di «esperienza estetica», adoperato in diretta polemica con quello tradizionale di «opera d'arte». È merito delle ricerche di Riidiger Bubner (n. 1941) averne chiarito il significato e le implicazioni. In un importante saggio del 1983, Su alcune condizioni del143
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l'estetica contemporanea, poi ripreso nel volume Esperienza estetica del 1989, Bubner sostiene che, nell'ambito estetico, il terreno dell'esperienza è trascurato dalla maggior parte delle tendenze filosofiche contemporanee, le quali continuano in qualche modo a fare dell'arte una mera variante della hegeliana «apparizione sensibile del vero», una semplice «figura» della verità. A questa tradizione essenzialistica vengono ricondotti indirizzi, pur così diversi fra loro, come l'antologia dell'arte di Heidegger, l'ermeneutica di Gadamer, la teoria del rispecchiamento di Lukacs, la filosofia utopica dell'arte di Adorno e di Bloch. Il primo compito di una nuova estetica dovrebbe consistere nello smascherare l'usurpazione esercitata nel Novecento sull'arte dalla meditazione filosofica, che sempre ha tentato di farne una via d'uscita per le difficoltà del pensiero, restando indifferente ai suoi caratteri specifici. Come già in Jauss, la teoria estetica di Adorno viene assunta a esempio di un atteggiamento dogmatico che, anziché offrirsi alle sollecitazioni e agli interrogativi provenienti dalle opere d'arte, fa di queste ultime delle risposte a problemi precostituiti e alle domande irresolubili della teoresi. In contrasto con queste prospettive, i tratti peculiari dell'esperienza estetica, nella ricostruzione che ne ha tentato Bubner, si collocano nell'orizzonte della radicale aconcettualità riconosciuta da Kant al giudizio di gusto. In funzione antihegeliana, l'arte non è più vista come un'incarnazione della verità, bensì come l'effetto di una sospensione della stessa logica predicativa del giudizio. Dominio peculiare dell'arte è la sfera dell'apparenza, dello Schein, che va garantito da ogni pretesa di assimilazione da parte del pensiero. Bisogna salvaguardare l'autonomia dell'apparenza artistica, anziché farne il velo, l'involucro di una verità che la filosofia conosce solo come autotrasparenza del concetto. Alla dissoluzione dello Schein nella verità del concetto, quale si attua nell'essenzialismo filosofico, Bubner contrappone, radicalizzando in senso empiristico l'impostazione kantiana, una dissoluzione dell'intelletto nell'immediatezza intuitiva; viene così recuperata una visione in qualche modo sensualistica dell'estetica, in conformità con il valore originario della aisthesis. Questa impostazione risulta del resto evidente nel privilegio che le sue analisi accordano alle dimensioni dell'esperienza estetica dove più marcata è la presenza di questo substrato sensibile. Il referente sono, infatti, soprattutto quelle arti - dalla pittura alla danza - dove è in primo piano la corporeità ovvero dove è ancora presente l'eco della sensibilità come fondamento antropologico, a scapito delle arti, in qualche modo meno «arcaiche», come quelle verbali, in cui ha maggior rilevanza una componente concettuale. Nella prospettiva di Bubner, l'approfondimento del concetto di esperienza estetica nella direzione del preconcettuale e del sensibile si connette alla crisi del concetto di « opera » verificatasi nella pratica artistica di quegli anni. In altri termini, Bubner lascia intendere che il tradimento dell'esperienza estetica nel suo genuino valore preconcettuale si verifica sempre là dove lo Schein, pur riconosciuto nella sua autonomia, si rapprenda e si feticizzi, per così dire, nell'« opera». Il rinchiudersi plastico dell'opera su se stessa, in contrasto con la realtà eteronoma, viene letto da Bubner 144
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come una minaccia per l'apparenza, che si degraderebbe allora a spoglia di una verità docile alla concettualizzazione. n rinchiudersi dell'apparenza nei confini dell'opera si configura come un sacrificio alle pretese intellettualistiche della filosofia. Per contro, « l'analisi dell'esperienza estetica si attiene strettamente all'effetto che proviene dai fenomeni estetici e nel quale, soltanto, l'"arte" giunge alla coscienza, mentre si astiene di fronte a ipotesi ulteriori.» Tutto ciò ripropone l'attualità dell' estetica kantiana, dal momento che proprio «la rinuncia all' ipostatizzazione dell' opera è espressa nella restrizione critica di Kant, secondo cui del bello non si può fissare alcun concetto propriamente costitutivo di oggetto. » 1 Sempre nel corso degli anni settanta, nell'ambito di una ricerca che si è prolungata anche nei decenni successivi, analoghi tentativi orientati a riabilitare l'impostazione trascendentale di Kant in campo estetico sono stati compiuti dalla scuola romana di Emilio Garroni. In questa prospettiva, l'estetica, concepita come « filosofia non speciale», non si occupa specificamente e soltanto dell'arte, bensì delle condizioni trascendentali della conoscenza e dell'esperienza. In particolare, essa affronta la questione del «senso», vale a dire di ciò che consente di concepire un'espressione di per se stessa materiale, come i diversi tipi di segni, in quanto significato. L'estetica è dunque intesa come filosofia critica che, non più dall'esterno dell' esperienza, ma dal suo interno, ricostruisce l'orizzonte del senso quale condizione instauratrice dei significati. In questo contesto, la particolare attenzione che l'estetica rivolge all'arte si giustifica con il fatto che l'arte è portatrice esemplare di senso, prima che di significati, e ha quindi, specificamente, a che fare con le condizioni della conoscenza e dell'esperienza in generale. IV · L'ESTETICA LA
COME
«COMPENSAZIONE».
«SECOLARIZZAZIONE»
DELL'ESTETICA
Nel dibattito degli anni settanta sul significato dell'estetica in rapporto alla modernità si segnalano gli importanti contributi di Odo Marquard (n. 1928), raccolti nel testo Estetica e anestetica del 1989. Marquard riprende e approfondisce le considerazioni sull'estetica svolte in direzione storico-filosofica dal suo maestro Joachim Ritter (1903-74), il fondatore della «scuola di Miinster ». In un corso di estetica del 1948 e poi, soprattutto, in un saggio del 1963 intitolato Paesaggio. La funzione dell'estetico nella società moderna, Ritter aveva sostenuto che il moderno spazio istituzionale dell'estetica si fonda sulla funzione di compensazione che a essa è stata assegnata in seguito alla netta separazione fra scienza e filosofia provocata dalla dissoluzione dell'ordine medievale e dall'affermazione della nuova soggettività borghese. In un quadro di crisi della metafisica classica, l'estetica viene a ereditare, sia
r Bubner, 1989, trad. it., p. 43·
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pure in forma vicaria e depotenziata, proprio le prerogative della theoria antica. Così la possibilità di contemplare l'universo naturale nella sua totalità, abbandonata dalla scienza in favore di un sapere strumentale e parcellizzato, viene rimessa all'estetica, che sconta con l'ineffettualità la propria pretesa all'universale. «Nel mondo moderno, un processo che non si può impedire, vale a dire il processo di modernizzazione consistente nell'aggettivazione del mondo, ne determina anche il disincanto. Questo disincanto - malum - è una perdita; questa perdita, però, viene compensata - bonum tramite malum - grazie allo sviluppo dell' organo di un nuovo incantesimo, che diventa il precario indennizzo per la perdita di quello antico: tale organo di compensazione, proprio perciò specificamente moderno, è costituito dall'arte estetica. »2 Marquard ha sviluppato e integrato la tesi di Ritter, che inscrive l'estetica in un tipo di svolgimento dei decorsi storici, definito con il termine « compensazione», grazie al quale la nascita del senso storico e della coscienza della tradizione si costituiscono in un contromovimento caratteristico di quella stessa modernità che, per altro verso, esalta la « tabula rasa » della ragione. Questo significato «conservatore» dell'estetica è stato sostenuto da Marquard in opposizione, ancora una volta, alla funzione utopico-escatologica assegnata all'arte dalla «teoria critica» di Adorno. A tale scopo, Marquard ha ampliato l'orizzonte storico-filosofico preso in considerazione da Ritter, parlando dell'« arte estetica» moderna come di una replica storica nei confronti della fine dell'arte voluta già dal cristianesimo chiliastico delle origini e successivamente dalla filosofia della rivoluzione. L'arte estetica compensa non soltanto la moderna aggettivazione del mondo della vita, bensì anche e soprattutto la distruzione del mondo voluta dall' escatologia. Proprio per assolvere questo ruolo conservatore di compensazione, l'arte ha dovuto assumere su di sé l'impegno a trasformarsi in «arte estetica» per divenire quel che non era mai stata nel mondo antico: arte autonoma. Con una formula paradossale, e al tempo stesso carica di umorismo, Marquard ha così parlato, quanto alla modernità, dell'« arte come compensazione della sua fine». Arte che nasce dopo la fine dell'arte, riaffermazione dei diritti del mondo e della sensibilità contro il disincanto razionale e ascetico introdotto dal chiliasmo primitivo, l'« arte estetica», proprio in quanto compensazione, costituisce uno scompenso nei confronti dell'unilinearità del moderno come storia progressiva. Nella logica della « compensazione», in quanto effetto inatteso, sconcertante e dunque in qualche modo comico, l'« arte estetica» è per la modernità lo specifico luogo d'esilio della «serenità», a fronte della cruda serietà di una storia tutta tesa alla ricerca ossessiva di un colpevole dei mali mondani. 3 La difesa marquardiana della modernità va, dunque, nella direzione della leggerezza e dell'« esonero» (Arnold
2 Marquard, 1989, trad. it., pp. 217-218.
3 Si veda il saggio del 197 4 Esili della serenità, in Marquard, 1989.
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Gehlen), nella direzione del gioco, non dell'impegno, al punto che assume un valore positivo anche il parlare dell'arte come di un «surrogato». Il sostegno dato all' autonomia dell'estetica non la investe di compiti salvifici, proprio perché essa è già un modo di fuggire da quei compiti. Sebbene esista già come pratica fin dall'epoca del cristianesimo, che decreta la prima fine dell'arte, l'estetica nasce come concetto nel momento in cui, con il risolversi della teodicea nella filosofia della storia, all'uomo privato di ogni grazia proveniente dalla trascendenza e consegnato alla sua integrale responsabilità non resta altra grazia, vale a dire libertà e leggerezza, fuori dell'oasi dell'arte. Le categorie elaborate dalla scuola di Miinster e, in particolare, il concetto di « secolarizzazione » sviluppato da Hermann Liibbe, sono state dagli anni settanta impiegate in Italia da Gianni Vattimo (n. 1936) in tutt'altro orizzonte di significato. Riprendendo le più interessanti riflessioni novecentesche relative alla crisi del concetto tradizionale di opera d'arte - dall'analisi di Benjamin circa il «declino dell' aura» al discorso di Heidegger sull'opera d'arte come «messa in opera» della verità fino all'attacco mosso da Gadamer contro il privilegio della coscienza estetica - Vattimo ha sviluppato l'idea secondo cui, alla fine della modernità, la secolarizzazione investe anche la sfera estetica. L'estetica non va più concepita, come nella scuola di Miinster, quasi fosse una sorta di baluardo difensivo degli antichi privilegi della theorfa e, dunque, in ultima analisi, della metafisica. Nel mondo contemporaneo si assiste, infatti, a una desublimazione dell'estetica, la quale è venuta via via perdendo ogni solipsistica pretesa al monopolio di una verità privilegiata, dotata, in alternativa alla scienza, dei caratteri dell'eccezionalità, dell'intuitività, della discontinuità, caratteri che si trovano esasperati proprio nelle estetiche idealistiche, «compensative» e reattive, che finiscono con l'affidare al proprio oggetto un compito di risarcimento, in opposizione alla razionalità dominante. Da questo punto di vista, non vi è alcuna vera differenza fra la posizione di Adorno e quella di Marquard. In realtà, il processo di disincanto e di secolarizzazione che ha investito l'estetica, allontanandola da ogni concezione auratica e mistico-solipsistica, conduce secondo Vattimo a una sua rilegittimazione, saldamente garantita dal legame con l'esperienza sensibile e dalla concretezza delle nuove pratiche artistiche. Entro i confini dell'estetica secolarizzata, l'eco antica della theorfa, di cui parlava Ritter, perde definitivamente il tono reattivo e difensivo («compensativo»), che aveva mantenuto per tutta l'epoca moderna. Proprio in forza di questo suo remoto e distorto legame con le pretese universalistiche della filosofia delle origini, operando in base a quella che Vattimo, rifacendosi a Heidegger, chiama logica della Verwindung (distorsione rammemorante), l'estetica finisce con l'acquisire lo statuto esemplare di disciplina del «transito» (tema quest'ultimo sviluppato, in Italia, soprattutto da Perniola). Essa si configura in Vattimo come una sorta di zona di confine dove si attuano la convertibilità e la trasmissibilità dei messaggi più diversi e dove si viene perciò a realizzare un tipo di universalità memore di quella della theorfa antica. Non più territo147
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rio di accesso privilegiato alla verità, non più luogo di compensazione per la sua perdita, l'estetica è piuttosto l'ambito della messa in comune e della transitività dei messaggi, secondo il modello fornito dalla produzione e dalla fruizione sempre più intense delle opere nella società dell'informazione. L'estetica diviene così il paradigma stesso di legittimazione di ogni pratica ermeneutica. Consumatosi qualunque aristocratico privilegio della theorfa, l'estetica è in grado, secondo Vattimo, di porsi come ideale di una comunità del dialogo, alla quale tutti possano partecipare, con la stessa libertà e disponibilità senza riserve manifestate dalle opere d'arte nell'« epoca della loro riproducibilità tecnica» (W. Benjamin). Questo approccio presuppone, d'accordo con Jauss e più in generale con tutti i postulati dell'ermeneutica contemporanea, un nuovo statuto della fruizione, che nella tradizione dell'idealismo era improntata all'ideale passivo della contemplazione solipsistica. A contatto con l'esperienza dell'arte contemporanea, la ricezione estetica acquista una dimensione attiva, recuperando gli effetti dialogici e coinvolgenti caratteristici della catarsi classica. V
·
MODERNISMO
E
POSTMODERNISMO
L'intreccio di estetica ed ermeneutica, già palese nelle riflessioni sull'arte degli anni settanta, si manifesta in tutta la sua forza nel decennio successivo. Gli anni ottanta sono, in ambito estetico, innanzi tutto gli anni della discussione sul concetto di « postmoderno ». Sebbene in talune elaborazioni tale concetto si sia manifestato anche come un teorema di filosofia della storia (per esempio in alcune letture di Heidegger o in quella variante costituita dall'idea di posthistoire di Arnold Gehlen), non c'è dubbio che esso è stato impiegato con piena legittimità soprattutto in rapporto alla sfera artistico-letteraria. Fra i postulati della modernità estetica, quale emerge in età postilluministica, nell'ambito di quella divisione dei poteri che è caratteristica del liberalismo borghese, si trova fra gli altri la rivendicazione dell'autonomia dell'opera d'arte. Si tratta di quell'autonomia sottolineata con forza da Marquard con l'espressione « arte estetica». Nella prima parte di Verità e metodo (1960), il principale teorico dell'ermeneutica contemporanea, Hans Georg Gadamer (n. 1900), aveva già messo in dubbio il diritto di quest'autonomia, criticando il soggettivismo della « coscienza estetica» kantiana e, in generale, l'immanenza artistica caratteristica del moderno. Il concetto ermeneutico di un'arte capace di oltrepassare la monadicità della coscienza estetica è alla base del postmodernismo così come si esprime in quelle manifestazioni artistiche - dall'architettura alla letteratura, dalla pittura alla musica - che implicano una supremazia del contesto sul testo, ponendo fine alla separazione fra autore e lettore (U. Eco, 1979). Questo primato della «comunità estetica», già proposto dall'estetica della ricezione, è il frutto altresì della rinascita, in seno all'ermeneutica, di un iperstoricismo di derivazione romantica, volto appunto a eliminare la separazione fra arte e società, fra vita e finzione.
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Nel postmodernismo, come corrente artistica e movimento teorico, il carattere ibrido dell'opera d'arte e la sua stretta relazione con il contesto vengono enfatizzati in opposizione al concetto di «purezza», all'idea di opera totalmente chiusa nella sua immanenza e nella sua unità compositiva tipica della critica modernista. Abbandonando categorie come identità, unità, purezza, avvertite come proprie di una soggettività di costituzione metafisica, i teorici del postmodernismo hanno insistito sul carattere eterogeneo e ibrido delle opere. L'estetica postmodernista è un'estetica dell'eclettismo, che favorisce il pastiche e la molteplicità degli stili. Sebbene possa sembrare paradossale, le filosofie postmetafisiche della differenza (si veda oltre, il paragrafo vm), connesse anch'esse con il postmodernismo, sono proprio quelle che hanno fatto saltare i confini non solo fra l'arte e il suo contesto, ma anche fra le diverse arti, annullando la stessa separazione fra arte d'élite e arte popolare. E ciò allo scopo, non già di attuare una mediazione e una riconciliazione fra questi diversi aspetti, bensì proprio per evidenziare, non senza intenti ironici, la loro compresenza simultanea. N eli' architettura si troverà, per esempio, la citazione dei modi del vivere quotidiano a fianco di quella delle forme classiche; nella letteratura, l'uso delle forme popolari convivrà con quello degli stili d'avanguardia, come ben documentano i romanzi di Umberto Eco, di Milan Kundera, di Salman Rushdie. Come ha scritto Steven Connor in Postmodernist culture (1989), mentre il moderno pone l'accento sull'istanza dell'arte, il postmoderno sottolinea la sua circostanza. Questo sfrangiarsi dei confini dell'arte in un continuo processo di ibridazione non va nella direzione della wagneriana «opera d'arte totale» o del collage surrealista. La tendenza postmodernistica non è quella a una sintesi del diverso, ma piuttosto quella a un'esposizione quasi teatrale dell'eterogeneo. Nell'opera d'arte moderna il senso dell'unità e dell'identità portava a privilegiare le dimensioni della spazialità e dell'extratemporalità. L'unità stessa era concepita, in qualche modo, estaticamente e la sua fruizione affidata ad attimi privilegiati capaci di coglierla intensivamente: si pensi alla madeleine di Proust, alle «epifanie» di Joyce, ai «momenti di visione» di Virginia Woolf. A questa atemporalità corrispondeva, da parte della critica, il tentativo di cogliere l'unità sincronica dell'opera, dunque un predominio del formalismo in campo teorico, come è evidente nel New Criticism americano e nello strutturalismo. I teorici del postmodernismo, invece, soprattutto negli Stati Uniti, hanno evidenziato, sulle tracce di Heidegger, che il compito della critica è quello di individuare la difettività e la contingenza dell'opera, la sua iscrizione nella temporalità, in corrispondenza con il prevalere, per esempio, nella letteratura, della narratività e di un nuovo epos, che hanno preso il posto del lirismo concentrato, caratteristico della pretesa atemporale dell'opera moderna. L'opera postmoderna è, per eccellenza, transito, deriva, incompiutezza. Per questo, la narrativa assume spesso i modi di un racconto che si pretende storico, nel quale dunque verità e finzione si mescolano in maniera inestricabile. Per converso, la storiografia perde sempre più ogni caratteristica di rendiconto oggettivo per presentarsi, invece, come risultato estetico di 149
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una consapevole scelta artistica e stilistica. Su questi aspetti estetici della conoscenza storica ha insistito, non a caso, in questi stessi anni tutto un filone dell' ermeneutica; basti pensare ai lavori di Paul Ricoeur (n. 1913) e di Hayden White (n. 1928), con la sua ripresa postmoderna di Vico. Un ultimo, ma non meno importante, aspetto del postmodernismo, conseguente alla sua sottolineatura della temporalità dell'opera, riguarda il carattere caduco della forma artistica. In conformità con la tradizione dell'estetica occidentale, fondata in buona misura sui precetti della Poetica di Aristotele, il modernismo aveva sempre posto l'accento, oltre che sulla funzione armonizzatrice dell'opera, sulla sua capacità di trasfigurare l'accidentale e il disordine della vita sublimandolo nella perfezione della forma. Questo presupposto teorico è, per esempio, alla base della difesa che nel 1923 Th.S. Eliot fa di Joyce contro i critici che avevano rifiutato I'Ulysses come opera caotica. Pur ammettendo che I'Ulysses rompe l'ordine tradizionale della forma romanzo, Eliot sostiene che la scrittura di Joyce è solo un altro modo per sottomettere il caos della vita all'ordine della forma: «È semplicemente un modo di controllare, ordinare e dare forma e significato all'immenso panorama di futilità e di anarchia che è la storia contemporanea ». 4 L'obiettivo artistico che il postmodernismo persegue consiste precisamente nel dare voce a ciò che si sottrae a questo tipo di ordine. Più in generale, si può dire che uno dei suoi temi elettivi è proprio l'evocazione dell'incommensurabile, del non spaziale, dell'irrappresentabile. Rientra in quest'ambito la rielaborazione del concetto kantiano di « sublime » proposta, come corollario di considerazioni storico-filosofiche sulla« condizione postmoderna », da J.F. Lyotard (n. 1924). L'analisi lyotardiana va accuratamente distinta da altre trattazioni coeve - il «sublime» è una delle idee cardini dell'estetica degli anni ottanta (si veda oltre, il par. VIII) - proprio per il legame che essa ha con l'idea postmodernistica dell'arte. Secondo Lyotard, solo il postmoderno, con la sua ostilità al senso rassicurante dell'identità soggettiva, rende realmente giustizia al valore originario che il concetto di sublime possiede in Kant, in quanto sentimento della sproporzione fra l'imponenza dell'ideale estetico e la capacità dell'anima di renderlo presente a se stessa. Il postmoderno salvaguarda il dominio dell'irrappresentabile all'interno della rappresentazione stessa, a differenza dell'arte moderna, sempre incline a addomesticarlo e a dargli forma. In una prospettiva di questo tipo, il sublime è ciò che dissolve la torre d'avorio dentro cui si era insediata l'arte autonoma della tradizione moderna. Abolendo le barriere protettive che l'arte aveva posto a difesa della propria sedicente purezza, il sublime apre lo spazio della vera differenza, quella che custodisce l'alterità assoluta dell'irrappresentabile.
4 Th. S. Eliot, Opere I904-I939, trad. it., Milano 1992, p. 646.
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La ricerca estetica dal 1970 alla metà degli anni novanta VI
·
LA
NUOVA
TEORIA
DELL' «ARTE
POPOLARE»
Nell'ambito della rivalutazione dell'esperienza estetica immediata e della aisthesis come medium originario di ogni comunicazione linguistica, avviata dal pensiero postmetafisico negli anni settanta, il postmodernismo realizza anche, nel corso degli anni ottanta, un ribaltamento della condanna tradizionalmente espressa dall'estetica moderna nei confronti della cultura di massa e dell'arte popolare. Vengono rigettate come aristocratiche le posizioni modernistiche che, nel superamento dell'autonomia dell'opera e nell'imporsi di una fruizione universale tramite i media elettronici, avevano visto solo una resa alla mercificazione promossa dal sistema sociale. Ancora una volta, il bersaglio è costituito principalmente dalla « teoria critica » e dal celebre capitolo sull'« industria culturale » contenuto nella Dialettica dell' illuminismo (1947) di Horkheimer (!895-1973) e Adorno (1903-69). In un certo senso, la teoria dell'arte di massa si pone come logico sviluppo, negli anni ottanta, dell'inclinazione propria dell'estetica della ricezione a sottolineare l'esigenza di un'apertura dell'opera alla fruizione. Si tratta di un indirizzo « pragmatico », teso a proporre una teoria positiva dell'opera d'arte, in qualche modo in sintonia con l'empirismo delle teorie « istituzionali » dell'arte (si veda oltre, il par. vn). Una buona sintesi degli argomenti che il postmodernismo ha avanzato in favore dell'arte di massa si trova negli scritti di Richard Shusterman, che ha radicalizzato spunti e proposte teoriche provenienti dall'opera del filosofo americano Stanley Cavell (n. 1926). Quanto al momento estetico della kdtharsis, Shusterman nega innanzitutto che il piacere procurato dalle opere destinate a un consumo di massa (musica rock, cinema) abbia un carattere surrogatorio e che, nella sua qualità «effimera», esso sia realmente diverso da quello procurato dalle opere proprie della tradizione culturale «alta», per altro in origine prodotte e consumate a loro volta come arte popolare (si pensi, per esempio, al teatro greco e a quello elisabettiano). Analogamente, viene negato che l'arte popolare induca nel fruitore semplicemente un atteggiamento di passività e di dipendenza, facendone l'oggetto di una vera e propria manipolazione. L'esempio della danza, con il suo sfondo dionisiaco, è la prova che la fruizione è attiva e partecipe anche nell'arte popolare. Quest'ultima, inoltre, non è affatto priva di complessità e di organizzazione formale: sono i suoi critici a non prestar!e l'attenzione sufficiente a coglierne le stratificazioni. Dal lato opposto, quello della poiesis, Shusterman controbatte la tesi dei critici della cultura di massa secondo cui l'arte popolare, in quanto prodotto della tecnica e della standardizzazione, inibirebbe lo sviluppo dell'individuo e, dunque, della sua creatività. La replica a questi argomenti consiste nell'affermare che, in primo luogo, non vi è arte che non possegga canoni e che, inoltre, la stessa arte colta fa ormai largo impiego della tecnologia. In secondo luogo, creatività e comunità non sono affatto in contraddizione, come mostra appunto la storia di tutta l'arte premoderna (per esempio, la costruzione dei templi greci o delle cattedrali gotiche). L'apologia dell'arte di massa ritorna
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così al punto di partenza dell'intero dibattito, al rimprovero che la sociologia dell'arte - non solo quella di Adorno, ma per esempio anche quella di Pierre Bourdieu (n. 1930) - muove all'arte popolare di non produrre opere autonome. È possibile replicare a questa critica, secondo Shusterman, adoperando gli stessi argomenti di filosofia sociale, dal momento che il concetto di una radicale autonomia dell'arte, affermatosi nella visione ottocentesca e decadente dell'« arte per l'arte», è a sua volta il prodotto di un evento sociale, vale a dire della perdita da parte dell' artista, nella società di mercato, delle forme tradizionali di mecenatismo e di patronato. In Italia, l'analisi della cultura di massa e la riflessione sulla scomparsa dei requisiti tradizionali dell'opera d'arte nel postmodernismo hanno portato a risultati significativi soprattutto nell'opera di Mario Perniola (n. 1941). Sviluppando premesse e suggestioni contenute nella critica alla «società dello spettacolo» realizzata già negli anni sessanta da Guy Debord (1931-94), fondatore dell'« Internazionale situazionista », Perniola è approdato, all'inizio degli anni ottanta, a una teoria dei « simulacri ». Allorché realtà e immagine, modello e ripetizione divengono indistinguibili, come nella società dei media, ecco emergere il concetto di «simulacro», che per definizione sta agli antipodi di ogni originalità e autenticità. A partire dal momento in cui apparenza ed essenza della storia divengono indistinguibili (e, dunque, l'estetica, studio dell'apparenza, diviene un'« estetica generale»), viene meno, in quest'universo nichilistico, la possibilità di attribuire a qualsiasi cosa il significato e il valore del prototipo, dell'esemplare, del principio. VII
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LA
TEORIA
ISTITUZIONALE
DELL'ARTE
Uno dei tratti caratteristici dell'estetica degli anni ottanta è la sua legittimazione « pragmatica » dell'opera d'arte, a prescindere da qualsiasi presupposto di valore. Questo orientamento è evidente già nell'inclinazione ad accettare come legittime le forme dell'arte di massa. Più in generale, l'elemento paradossale di questa situazione consiste nel fatto che l'accentuarsi della vocazione ermeneutica dell'estetica e il proliferare delle interpretazioni e dei commenti sulle opere vanno di pari passo con una visione non paradigmatica dell'arte. Alle teorie essenzialistiche dell' arte si sono sostituite teorie istituzionali o funzionali. Particolarmente interessante è, al riguardo, il modo in cui due teorici come George Dickie (n. 1926) e Arthur C. Danto (n. 1924) hanno reagito, in ambito anglosassone, alla tradizione dell'estetica analitica di derivazione wittgensteiniana. La svolta « pragmatica » nell'estetica degli anni ottanta ha insistito sulla possibilità di dare una definizione positiva dell'opera d'arte contro quei teorici - da Paul Ziff a Morris Weitz - che negli anni cinquanta avevano sostenuto che non vi sono requisiti necessari e sufficienti da soddisfare affinché un qualsiasi oggetto sia un membro della classe costituita dalle opere d'arte. Da questo punto di vista,
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essendo il concetto di opera un concetto aperto, non restava che il ricorso al metodo wittgensteiniano delle «somiglianze di famiglia». Questo metodo, in qualche modo analogico, si fonda però ancora su una visione esemplaristica e paradigmatica dell' opera d'arte. Per sottrarsi alle aporie e alle difficoltà logiche dell'impostazione analitica, George Dickie ha proposto in The art circle del 1984 una teoria «istituzionale» dell'opera d'arte incentrata appunto sull'idea di «circolo». Il circolo dell'arte, non molto differente in fondo dal circolo che definisce lo statuto ermeneutico dell'opera, è una pratica intersoggettiva regolata da ben precise relazioni fra diversi ruoli. Definendo l'opera d'arte, non si dice nulla quanto alla rappresentazione, all'espressione e, più in generale, all'esperienza estetica; semplicemente, si afferma che si chiamerà « opera d'arte un tipo d'artefatto creato per essere presentato a un pubblico che è quello del mondo dell'arte ». 5 Altre quattro definizioni, che stringono l'arte entro una sorta di descrizione tautologica, esauriscono l'idea di « circolo » come istituzione, ovvero come pratica: «È artista chi partecipa consapevolmente alla creazione di un'opera d'arte. Il pubblico è costituito da quelle persone che sono, in qualche misura, in grado di comprendere un oggetto che viene a esse sottoposto. Il mondo dell'arte costituisce la totalità di tutti i sistemi caratteristici del mondo dell'arte. In quanto sistema, il mondo dell'arte è una cornice dentro la quale un'opera d'arte viene presentata da un artista a un pubblico che è quello del mondo dell'arte. »6 La teoria dell'arte sembra qui ridursi alla predisposizione di strumenti concettuali atti a giustificare qualunque tipo di produzione dell' arte contemporanea. Non meno fattuale e pragmatica di questo tipo di definizione «procedurale» dell'opera è la teoria «funzionale» dell'arte che, in alternativa a Dickie, è stata elaborata da Danto. Per questo autore il criterio pragmatico per l'individuazione e la legittimazione dell'opera d'arte è dato dalla costitutiva interpretabilità che distingue l'opera dagli altri oggetti. La differenza fra due oggetti indiscernibili, uno solo dei quali può essere un'opera d'arte, risiede nel fatto che le opere d'arte, a differenza degli oggetti comuni, sono sempre «about the world» ossia rappresentative. Sono interpretazioni soggette esse stesse all'interpretazione. Ciò che distingue l'opera dall'oggetto quotidiano non è più, come nelle estetiche della modernità, l'apparenza estetica, bensì la sua ermeneuticità, che, non molto diversamente che in Dickie, fa tutt'uno in Danto con il possesso di taluni residui cognitivi, vale a dire con la conoscenza di alcune convenzioni teoriche e culturali. Il riferimento è, dunque, ad altre istituzioni, non più sociali, ma storiche.
6 Dickie, 1984, pp. So-82.
5 Dickie, 1984, p. So.
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La ricerca estetica dal 1970 alla metà degli anni novanta VIII
· IL
DECOSTRUZIONISMO
E
LA
TEORIA
DEL
SUBLIME
A questo dissolvimento dell'arte nella teoria, sancito dal nuovo paradigma della sua costitutiva « interpretabilità », ha fatto curiosamente da pendant, negli anni ottanta, un parallelo confondersi della filosofia con la letteratura. L'estetica è stata il campo principale di questo passaggio del «pensiero postmetafisico » (J. Habermas) all'esercizio privilegiato della scrittura. Ne sono un esempio, in Italia, i lavori filosofici di A.G. Gargani (n. 1933). Il predominio dell'estetica come ambito di un diverso sviluppo del pensiero teorico si deve, in ampia misura, all'affermazione del pensiero genealogico e dell'ermeneutica, orientamenti teoretici che hanno indebolito le pretese di validità della filosofia, interpretandone le teorie come sintomi, segni, tracce, apparenze. La teoria si è ridotta così a «testo» di un «contesto» assai più ampio, entro il quale soltanto essa acquista il suo significato. Questa estetizzazione della filosofia, che si è realizzata nello stesso tempo come un'intellettualizzazione dell'arte, ha avuto, negli anni ottanta, il massimo sviluppo nel « decostruzionismo » americano, ispirato al pensiero di J acques Derrida, e nella critica della scuola di Yale. Sebbene sia una pratica interpretativa dei testi, la decostruzione non è un metodo nel senso di essere un procedimento che obbedisca a regole e norme prestabilire. Essa ha le sue lontane radici nello strutturalismo, vale a dire in quell'indirizzo di pensiero dominante in Francia negli anni sessanta, che aveva interpretato le diverse realtà della cultura umana - rapporti di parentela, rapporti economici, linguaggio, ecc. - come un sistema di segni, di differenze in qualche modo trascendentali, operanti al di là della coscienza dei soggetti agenti. Rispetto allo strutturalismo, Jacques Derrida (n. 1930) aveva accentuato, fin dai suoi primi lavori, l'elemento della differenza non riassorbibile entro l'equilibrio complessivo del sistema. Egli aveva posto l'accento su quei punti di scarto e di rottura che costituiscono in qualche modo l'elemento generativo delle strutture. La decostruzione è, da questo punto di vista, la ricerca, entro il sistema, di quegli slittamenti, di quelle assenze, che costituiscono il «differenziale», l'elemento che apre lo spazio del senso e che consente il movimento dell'interpretazione. In ambito estetico, la decostruzione si è configurata come il modo dominante di leggere i testi filosofici e letterari nell'America degli anni ottanta. Il suo primo effetto è stato quello di delegittimare i metodi tradizionali della critica letteraria. Posta l'oscillazione e l'indeterminatezza dei significati, l'interpretazione diviene un'attività rischiosa e avventurosa, non più garantita da nessuna certezza. Anzi, il suo scopo è se mai proprio quello di dissolvere l'illusione della stabilità e dell'univocità dei significati. Talvolta essa può assumere il carattere di un vero e proprio esercizio ludico, fondato sulle arguzie e sui giochi di parole. Ne La verità in pittura del 1978, Derrida traccia il profilo di un interprete il quale si impegni «nella gioiosa affermazione del gioco del mondo e dell'innocenza del divenire in quanto mondo di segni senza colpa, senza verità e senza origine, che si offre a 154
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un'interpretazione attiva.» Lo scopo non è, dunque, un'esplicazione dei testi nel senso tradizionale del termine, bensì una proliferazione del testo su se stesso; dunque, non la riduzione dell'ignoto al già noto, bensì l'estraneazione di ciò che è familiare. Dietro questa concezione della pratica interpretativa, sta la categoria centrale del pensiero di Derrida, quella che lo spinse ad allontanarsi dallo strutturalismo: si tratta dell'idea della différance. Il linguaggio viene concepito come divaricazione essenziale fra significante e significato, come impossibilità di fissare nella voce il reale, il quale è sempre piuttosto «scrittura», vale a dire traccia, rimando, dif/érance appunto. La decostruzione è la ricerca di questo «differire» del senso, ricerca che è e non può non essere interminabile. La decostruzione interroga i testi allo scopo, precisamente, di provocarne l'oscillazione e di impedire che il loro senso si fissi e si reifichi. Per evitare quest'ultimo rischio, Derrida e i suoi discepoli americani hanno fatto ricorso a tutte le risorse dello stile, nonché a espedienti tipografici, come il debordare delle note oltre il testo principale, l'intertestualità, ecc. Tutto deve cooperare affinché si mantenga l'incolmabile differire del significante e l'inconclusività dell'interpretare. In realtà, più che per i suoi aspetti filosofici, il decostruzionismo è divenuto celebre in America e nel mondo 'anglosassone come specifico stile della critica letteraria. Le sue prove più significative sono fornite dai lavori della cosiddetta « scuola di Yale » (Harold Bloom, Geoffrey Hartman, Paul De Man, J. Hillis Miller). In quest'ambito, un apporto teorico è venuto soprattutto da Harold Bloom (n. 1930), che in I.:angoscia dell'influenza del 1973 ha elaborato un'importante teoria della poesia, al cui centro sta la nozione di mis-reading (fraintendimento), destinata a grande fortuna nel decostruzionismo e nell'ermeneutica degli anni ottanta. Il proposito iniziale della teoria di Bloom è, apparentemente, modesto, poiché essa si propone solo come un «correttivo» delle precedenti teorie in un triplice senso. Essa mira a «de-idealizzare le spiegazioni correnti su come un poeta contribuisca a formarne un altro»; in secondo luogo, si propone di «fornire una poetica che promuova una più adeguata pratica critica »; infine, punta ad arricchire i modelli codificati sui quali si fonda la storia letteraria accademica. Più in dettaglio, la teoria della poesia di Bloom analizza il modo in cui, in età moderna, a partire dal movimento romantico, la creazione artistica trae sempre più le proprie radici non dall'imitazione prescritta dalla poetiche tradizionali, né dall'originalità raccomandata dalle poetiche del genio, bensì dall'« agone», dalla tensione che ogni autore instaura con le poesie dei Precursori o Padri poetici. Le opere nascono così nel rimandarsi reciproco dei testi fra di loro, nel reciproco fraintendimento, in uno spazio che è di nuovo quello derridiano della dif/érance. Lo studio dell'« influenza poetica» non ha nulla di storicistico: «Le profondità dell'influenza poetica non si possono ridurre allo studio delle fonti, alla storia delle idee, o alle modalità di costruzione delle immagini. L'influenza poetica ovvero il fraintendimento poetico è per necessità lo studio del ciclo di vita del poeta 155
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in quanto poeta. »7 La ricerca riguarda, quindi, il gioco delle forze dentro il quale ogni poeta può sviluppare la propria energia creativa. Fra i motivi che pongono l'opera di Bloom e degli Yale Critics al centro della scena critico-teorica degli anni ottanta va ricordato ancora l'impiego in un'accezione particolare di quell'idea di «sublime» che sta, come si è già detto, al centro degli interessi estetici dell'epoca. Si tratta in Bloom della tematica specifica del « sublime americano», che ha le sue remote radici nel trascendentalismo di Emerson. L'interesse per il sublime nell'ambito del postmodernismo discende dal fatto che esso è una categoria, si potrebbe dire con Derrida, della differenza, del rinvio, ma anche dell'eccedenza, dell'incommensurabile, dello slittamento. Soprattutto, esso è in qualche modo una categoria « superartistica », che tende a trascendere la sfera dell'arte, come mostra del resto la storia della sua elaborazione da Longino a Kant. « Superartistico » non significa, in questo contesto, tramonto dell'arte in un'« estetica generale », bensì sottolinea il fatto che l'arte possiede anche una dimensione morale. Non si tratta certo più della nozione di «impegno», elaborata dall'esistenzialismo di Sartre negli anni cinquanta in una chiave politica; tuttavia, il concetto di sublime rinvia sempre l'arte al momento della responsabilità e della testimonianza. In linea generale, perciò, quelle che si definiscono « poetiche del sublime » si sono caratterizzate, negli anni ottanta, come un tentativo di connettere l'esperienza estetica a una trascendenza morale o religiosa, riproponendo così alcuni motivi del pensiero esistenzialistico in ambito estetico (da Kierkegaard a Dostoevskij). Nell'ambito di queste teorie del sublime, va ricordata, oltre alla drammaticità della concezione bloomiana, espressa nel saggio Agon. Towards a theory o/ revisionism del 1982, la rinascita del «pensiero tragico» in autori come René Girard (n. 1923) e, in Italia, Massimo Cacciari (n. 1944) e Sergio Givone (n. 1944), che hanno ripreso e svolto autonomamente motivi presenti nell'opera di Luigi Pareyson (198991). Sebbene si sia configurata anch'essa come rifiuto della concezione dell'opera chiusa nella sua autonoma immanenza, la poetica del sublime non può venire confusa con gli altri indirizzi dominanti del periodo. Del resto, non è un caso che i teorici della ricezione e dell'esperienza estetica abbiano trascurato proprio quest'aspetto dell'estetica kantiana. n sublime è, infatti, una dimensione ultrartistica che muove nella direzione non già della società e della storia, bensì della natura e della trascendenza. Per questo, la riscoperta del sublime nell'estetica degli anni ottanta si è svolta nell'orizzonte di un superamento dei temi dell'ermeneutica storicistica e del suo modello estetistico, legato all'idea di «opera d'arte totale» e di riconciliazione fra l'arte e la vita. L'abbandono di questa impostazione ha condotto, fra l'altro, al recupero dell'idea del bello di natura e alla riproposizione del rapporto fra arte e mito, motivi caratteristici della ricerca estetica più recente.
7 Bloom, 1973, trad. it., p. 15.
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La ricerca estetica dal 1970 alla metà degli anni novanta IX ·
IL
RITORNO
DEL
«BELLO»
E
L'ESTETICA
DEL
MITO
L'affermarsi delle poetiche del sublime, sul finire degli anni ottanta, ha costituito una reazione alla stanchezza generata dall'iperriflessività dell'estetica storicistica d'impronta ermeneutica che aveva dominato la scena del postmodernismo. In questo contesto, si è avvertita la necessità di porre un argine al nichilismo autodistruttiva delle più radicali tesi storicistiche. Basti pensare, per esempio, al modo in cui il teorema hegeliano della « fine dell; arte » è stato ripreso, in un contesto ermeneutico, da Arthur C. Danto (si veda supra, par. vn) in The philosophical disen/ranchisement o/ the commonplace del 1986. Posto il carattere autoriflessivo e autointerpretativo dell'arte, dunque integralmente umano, sganciato come già in Hegel da qualunque paradigma naturale, il suo scopo diviene, secondo Danto, quello della autorealizzazione attraverso la propria autocomprensione. Nel corso di questo processo, la ricerca finisce con il mutare le stesse caratteristiche dell'oggetto cui si applica. Le opere d'arte, dal momento che si formano in un ambiente saturo di teoria finiscono con il risultarne influenzate. Si crea, allora, un circuito di autoriflessività tale che, alla fine, tutto ciò che si dà come arte è, in realtà, teoria. L'arte finisce con il dissolversi nella nube del puro pensiero che la circonda. Danto è arrivato così a sostenere, in maniera quasi hegeliana, la tesi di una trasmutazione finale dell'arte nella filosofia. Allo storicismo e alle sue implicazioni nichilistiche nei confronti della realtà dell'opera d'arte, hanno replicato tutte quelle impostazioni - a cominciare dalle poetiche del «sublime» - che hanno tentato di riproporre una qualche normatività del valore estetico nei confronti della fatticità e dell'empiria storico-mondana. Per questo, il territorio di legittimazione dell'esperienza estetica, in molte delle ricerche degli ultimi anni, non è stato più individuato nella storia e nella cultura, ma piuttosto nella natura, nel mito e, iri definitiva, in un'alterità ultra umana. La riconsiderazione del significato del bello di natura, che tanta importanza è venuto poi assumendo nell'ambito della cosiddetta «estetica ambientale» (Environmental aesthetics), è stata avviata da Mary Mothersill in Beauty restored del 1984. La Mothersill ha protestato contro la riduzione antropocentrica del concetto di «bello» attuata dall'estetica idealistica e, in particolare, da Hegel. Questa riduzione, enfatizzando oltre misura il significato dell'« umanità» dell'arte, è all'origine dello svuotamento di qualunque dimensione assiologica delle opere. L'appiattimento sull'empirico spiega il fatto che esse vengano, alla fine, legittimate in termini puramente « istituzionali » o «funzionali». Eppure, afferma la Mothersill, sostenere che solo le opere d'arte siano belle è palesemente assurdo. Analogamente, si dovrebbe allora sostenere che solo le azioni fatte con intenzione malvagia abbiano un esito cattivo. Nel caso di una catastrofe naturale, per esempio di un terremoto, sarebbe assurdo che qualcuno dicesse di non sapere se essa sia un bene o un male prima di accertarsi se essa non sia stata provocata di proposito da qualcuno. 157
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La ricerca estetica dal 1970 alla metà degli anni novanta
Il radicamento cosmico e ultrastorico dell'esperienza estetica è un tema che, in alternativa alle concezioni del postmodernismo, è stato evidenziato soprattutto dalle ricerche, per lo più di matrice fenomenologica, intorno all'immaginazione e al mito in quanto luoghi di una più originaria fondazione dell'arte, ricondotta al terreno della sua genesi profonda, al territorio antropologico della sensibilità corporea e affettiva. È l'ambito esplorato, per esempio, in Inghilterra, dagli importanti lavori di Roger Scruton (n. 1944) e, in Italia, dai contributi della scuola milanese di Dino Formaggio (n. 1914) e, in particolare, da Stefano Zecchi (n. 1945). Questo recupero della dimensione mitico-sensibile dell'arte non va confuso con quello realizzatosi in seno al neoromanticismo degli anni ottanta come affermazione di una ornamentalità barocca e accessoria. Il mito in questione non è un orpello retorico, ma la stessa struttura intima della forma artistica. Contro la prospettiva storicistica, che intellettualizza il bello e svilisce la poiesis, spezzando l'antico vincolo di arte e bellezza, l'estetica più recente sottolinea l'importanza dell'elemento preriflessivo, del substrato naturale delle opere, proprio in rapporto a una rideterminazione del valore dell'arte, «contestualizzata» e messa in crisi dal postmodernismo. Sebbene appaia paradossale, il ritorno a una concezione in qualche modo trascendentale dell'estetica e la riscoperta del «bello» richiedono che l'autonomia dell'opera si fondi non più sul terreno effimero della storia, bensì su quello immortale della natura.
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CAPITOLO
QUINTO
Problemi teorici della ricerca filosofica m Italia DI CARLO
I
·
LA
SINI E
RINASCITA
MAURO
DI
MOCCHI
NIETZSCHE
Tra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta la ricerca filosofica era influenzata in Italia, come negli altri paesi europei e negli Stati Uniti, dalle tumultuose vicende della cosiddetta rivoluzione studentesca del '68. Si trattò, come ha notato Franco Ferrarotti, di un fenomeno del tutto inatteso, se è vero che un'inchiesta negli Stati Uniti, condotta con tutto il rigore della ricerca sociologica e volta a tracciare il profilo dello studente americano medio, era pervenuta, esattamente un anno prima, a delineare l'immagine di un giovane fin troppo legato ai valori e ai costumi tradizionali, tutto dedito al successo professionale ed economico, tranquillamente avviato a formarsi una famiglia e a godere i frutti della « società opulenta » in cui viveva. Immagine quanto mai illusoria. Appena un anno dopo cominciava quella protesta che doveva scardinare il sistema scolastico dell'intero mondo occidentale per tradursi poi in una vasta rivoluzione del costume sociale, soprattutto dei rapporti generazionali e sessuali, e per assumere infine, dilagando per le piazze e nelle fabbriche, connotati decisamente politici, sino a toccare esiti violenti di sovvertimento rivoluzionario. Come è noto, molti fattori contribuirono al verificarsi di questa svolta nella vita dei paesi più industrializzati, i cui effetti, nel bene e nel male, non sono ancora del tutto esauriti. Un ruolo non secondario va senza dubbio assegnato al cammino delle idee e della ricerca teorica: fenomeno strutturalmente elitario e quantitativamente marginale che può facilmente sfuggire alle inchieste sociologiche di massa, ma che, in circostanze opportune, può rivelarsi determinante ed evolvere poi in modi imprevedibili, innescando reazioni imitative e conformismi di massa. Il fattore teorico prevalente fu di certo l'imporsi del pensiero marxista sia entro il tradizionale fronte laico della cultura sia nelle frange del radicalismo cattolico o più in generale cristiano. L'influenza dei maestri nelle università e l'impegno culturale dei partiti marxisti occidentali entro la società civile negli anni della guerra fredda determinarono alla lunga un clima egemonico che supportò, e in qualche caso persino innescò, l'azione di rottura nei confronti della conservazione sia nei paesi capitalistici sia in quelli del cosiddetto socialismo reale. Basti qui ricordare 159
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l'influenza, in particolare sui giovani, di opere come la Critica della ragione dialettica (1960) di Sartre e, in Italia, Funzione delle scienze e significato dell'uomo (1963) di Enzo Paci, 1 entrambe di ispirazione fenomenologica; e ancora, il subentrare al sartrismo del marxismo strutturalistico di Althusser (Per Marx e Leggere «Il Capitale» sono del 1965) e del marxismo « ludico » di Marcuse (I.: uomo a una dimensione e Cultura e società sono rispettivamente del 1964 e '65), mentre in Italia era ancora viva la tradizione della scuola di Della Volpe nell'opera di Lucio Colletti Il marxismo e Hegel, 1969. 2 Il fronte variegato di queste idee si tradusse, negli anni della contestazione studentesca e poi negli «anni di piombo» che videro in Italia la drammatica parabola delle Brigate Rosse, in una riflessione e in un lavoro capillari e settoriali; lavoro che nutriva l'ambizione di applicare alla realtà storico-sociale e ai suoi caratteri particolari e contingenti le categorie esplicative del marxismo, per trame poi non solo ispirazione per l'azione politica concreta, ma anche tattiche e strategie rivoluzionarie. In questa direzione si muoveva l'« operaismo » di Mario Tronti (n. 1931), direttore della rivista «Classe operaia» e autore di Operai e capitale, 1971, e l'indagine sulla formazione dell'ideologia borghese nell'età moderna (Descartes politico o della ragionevole ideologia, 1970) di Antonio Negri (n. 1933), poi rifugiatosi a Parigi per sfuggire all'accusa di connivenza con la rivoluzione armata in Italia. In realtà questa nutrita produzione nell'ambito del pensiero politico si configurava come una negazione critica e programmatica della ricerca teorica pura, considerata astrattamente ideologica e quindi funzionale alla conservazione borghese. Il binomio « cultura borghese »-« cultura proletaria » ha ossessionato, nei primi anni settanta, il dibattito dentro e fuori le università, ma non ha prodotto infine esiti rilevanti. Da un lato la crisi del marxismo reale e l'isolamento in cui si dibattevano i movimenti estremistici, dall'altro il potere fagocitante e stravolgente dei mezzi di comunicazione di massa hanno prodotto il declino irreversibile della sinistra rivoluzionaria. La grande fiammata del sessantotto ha senza dubbio segnato la fine della fortuna del gramscismo « ufficiale » in Italia e più in generale del pensiero hegelomarxista classico. Ma le sue punte rivoluzionarie, sia utopiche come il marcusismo, sia pragmatiche come il maoismo, non hanno prodotto effetti durevoli nella società e nella cultura. Questa premessa aiuta a comprendere perché, nel corso degli anni settanta, la ricerca teorica in Italia poté connotarsi prevalentemente nella forma di un bilancio fallimentare della ragione, della storia e della ragione storica. Emblematico e riassuntivo di questo periodo è al riguardo il volume miscellaneo curato da Giorgio Gargani (n. 1933), Crisi della ragione (1979), che ottenne vasta eco e un largo sue-
I
Di quest'ultimo è da vedere in particolare IX, paragrafo x.
il volume vn, capitolo
2 Si veda in particolare il paragrafo xn e di Nicola Badaloni, Il marxismo italiano degli anni sessanta, 1971.
160
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cesso di pubblico. Lo stesso Gargani aveva pubblicato, quattro anni prima, Il sapere senza fondamenti, un testo che rappresentava la continuazione di un lavoro teorico teso a far penetrare nella cultura italiana il pensiero di Wittgenstein (Introduzione a Wittgenstein, 1973): un autore allora poco noto al pubblico, ma destinato in seguito a notevoli fortune editoriali. Dell'itinerario personale di Gargani diremo più avanti. Qui preme piuttosto ricordare che sin dalla metà degli anni sessanta la casa editrice Adelphi aveva dato inizio alla pubblicazione dell'opera completa di Nietzsche, un'iniziativa culturale ispirata da Giorgio Colli con la collaborazione di Mazzino Montinari. L'impresa si configurò dapprima come il recupero di Nietzsche alle ragioni della sinistra, contro la sua deformazione storica avviata dai « falsi » operati sui manoscritti nietzschiani dalla sorella e continuata in grande stile dal nazismo. In verità questa « trasmutazione » di Nietzsche dall'orizzonte ideologico della destra a quello della sinistra non fu un'operazione tranquilla e pacifica. Nietzsche continuò a essere guardato con sospetto da molti ambienti ed esponenti della sinistra (non a caso l'editore Einaudi rifiutò di far proprio il progetto delle «Opere di Nietzsche », preferendo impegnarsi, per esempio, per l'opera di Benjamin, non estranea a sua volta alla crisi della ragione storica). Quando poi la sinistra perse di fatto la sua egemonia culturale, entrando in un declino che è tuttora evidente, l'interesse per Nietzsche continuò a crescere, al di là di motivazioni e di ragioni ideologiche, e innescò e accompagnò la stagione heideggeriana che si può considerare ancora in corso. Questi due eventi - l'esplosione dell'interesse per Nietzsche e la rinascita di Heidegger dopo la grande stagione dell'esistenzialismo nel primo dopoguerra segnarono nel modo più evidente la fine del marxismo degli anni sessanta e settanta, determinando il clima culturale dominante in Italia nel quarto di secolo successivo. Questo esito « heideggeriano » della rilettura di Nietzsche in Italia era assolutamente estraneo alle intenzioni di Giorgio Colli (1917-79), che del pensiero di Heidegger e in particolare della sua interpretazione di Nietzsche come ultimo pensatore «metafisica» dell'Occidente non fu mai estimatore, ma anzi critico aperto. Personalità originale, indifferente alle mode culturali e intento piuttosto a seguire un proprio interiore progetto e cammino, destinato peraltro a imporsi come espressione di un'alternativa culturale al vuoto lasciato dalla crisi del pensiero dialettico dell'hegelomarxismo, Colli, professore di filosofia antica all'università di Pisa, si affermò dapprima come traduttore filologicamente agguerrito di Aristotele e poi di Kant. Ma sin dal 1948, con La natura ama nascondersi, delineava l'itinerario di una ricerca che si è depositata in modo non sistematico nei successivi scritti (Filosofia dell'espressione, 1969; Dopo Nietzsche, 1974; La nascita della filosofia, 1975; La ragione errabonda, 1982, postumo). L'ispirazione nietzschiana attraversa tutto il lavoro di Colli e ne determina la sostanziale avversione al mondo moderno e al suo progetto conoscitivo razionalmente fondato. Tale progetto si incentra, secondo Colli, sul concetto di rappresenr6r
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Problemi teorici della ricerca filosofica in Italia
razione come elemento mediatore tra il soggetto conoscente e l'oggetto conosciuto, mettendo capo al problema del metodo (l' «organo n» di aristotelica memoria) e alla concezione scientifica del sapere. È in nome di tale concezione che il sapere moderno celebra la sua superiorità sul sapere degli antichi, ritenuto ingenuo, primitivo e superstizioso. Colli rovescia completamente questo giudizio. È il dualismo soggetto-oggetto a essere ingenuo, filosoficamente insostenibile e socialmente pericoloso; ed è la moderna nozione di ragione a essere superficiale e superstiziosamente antropomorfica. Bisogna invece tornare alla grandezza speculativa dei greci, come aveva compreso Nietzsche, per la quale poi, come ancora Nietzsche aveva intuito, non è solo a Platone e ad Aristotele che bisogna guardare, ma anche e più all'età dei sapienti che li avevano preceduti. Di qui le due grandi direttrici del lavoro culturale intrapreso da Colli. Da un lato, l'edizione critica delle opere complete di Nietzsche, svolta in collaborazione con Mazzino Montinari, edizione che ebbe l'onore della pubblicazione contemporanea in Italia, Germania e Francia; dall'altro, l'edizione critica dei frammenti dei sapienti greci delle origini (La sapienza greca, 3 voll., 1977 -8o), rimasta incompiuta per la prematura morte dell'autore. L'edizione critica di Nietzsche mirò a liberare le opere edite e soprattutto gli inediti dai molti arbitrii che avevano contrassegnato le precedenti edizioni. In particolare, documentando le numerose manomissioni, omissioni, forzature operate dalla sorella sul lascito letterario di Nietzsche, Colli e Montinari giunsero alla conclusione che la cosiddetta ultima opera di Nietzsche, la celebre Volontà di potenza, era una pura invenzione editoriale e un falso storico: Nietzsche aveva progettato un libro con quel titolo, ma aveva poi abbandonato l'idea di portarlo a termine. Pertanto, ciò che passa per La volontà di potenza, ultima opera di Nietzsche e suo testamento spirituale (dal quale, va aggiunto, trassero preminente ispirazione gli ideologi nazisti ai quali Elisabeth, la sorella di Nietzsche, non lesinò il proprio interessato favore), testo postumo che racchiuderebbe l'esposizione conclusiva e a suo modo sistematica della «filosofia» di Nietzsche, non è altro che l'arbitrario accorpamento di un gran numero di appunti manoscritti dei quali nessuno è in grado di dire che uso Nietzsche avesse intenzione di fare o avrebbe fatto. La tradizionale interpretazione di Nietzsche pensatore «reazionario», padre spirituale della «destra», se non addirittura fondamento filosofico di ideologie razziste e di politiche guerrafondaie, veniva filologicamente dimostrata incongrua e arbitraria. È vero che di recente la portata della revisione storico-filologica di Nietzsche operata da Colli e Montinari è stata rimessa in discussione; 3 è anche possibile che le malefatte di Elisabeth siano state un po' esagerate; resta il fatto che Colli ci ha restituito un Nietzsche infinitamente più autentico, più profondo e più problematico di quello sino ad allora conosciuto.
3 Si veda la lunga postfazione di Maurizio Ferraris - Storia della volontà di potenza - alla riedizione (1992) della traduzione italiana della Volontà
di potenza secondo l'ordinamento di Peter Gast ed Elisabeth Foerster-Nietzsche.
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Sulla scorta di Nietzsche, Colli ha elaborato il suo personale cammino di ricerca. Egli stesso ha riconosciuto che ciò che Nietzsche aveva tentato per spiegare la nascita della tragedia gli era servito da modello per spiegare la nascita della filosofia. E se Nietzsche aveva sterrato le radici della montagna dell'Olimpo per scoprire il segreto del socratismo e della civiltà greca, e conseguentemente della storia europea, Colli ha fatto altrettanto relativamente a quella forma di sapienza « letteraria » che è la filosofia. Nel dualismo di apollineo e dionisiaco teorizzato da Nietzsche ha però ravvisato un eccesso di « schopenhauerismo ». Il lavoro genealogico che Colli ha tentato per ricostruire la nascita della ragione filosofica ha piuttosto perseguito l'ipotesi di una profonda unità tra le due maschere divine di Apollo e di Dioniso. Esse alludono concordemente a forme di sapere arcaico, profondamente sacrali, che hanno la loro tipica espressione nella follia o mania: immediatamente vitale e orgiastica quella di Dioniso; mediata dalla parola profetica quella di Apollo. La profonda sapienza di questo mondo delle origini è continuamente allusa dal mito, del quale è da rifiutare una lettura banalmente sociologica o psicologica. Ed è dal mito che i grandi sapienti greci vissuti prima di Platone hanno tratto diretta ispirazione. In essi è già evidente un cammino di « umanizzazione » della sapienza religiosa arcaica; la mania profetica si traduce nella forma dell'enigma, che il sapiente deve risolvere e che diventa pròblema nel senso per noi comune della parola (che originariamente significa invece l'« ostacolo » che il Dio, nella sua ambigua e imperscrutabile natura, pone sul cammino dell'uomo desideroso di conoscenza). L'enigma motiva poi la discussione (la ragione è sempre per i greci logos, cioè discorso e dialogo) e cioè la tenzone dialettica oralmente condotta. È a questi discorsi animati dal caratteristico spirito agonale dei greci che i sapienti presocratici, come Parmenide, Eraclito o Empedocle, cercano di conferire norma e regola. Colli descrive minuziosamente un lungo processo evolutivo in cui il sapere arcaico del Dio si traduce lentamente nella parola umana, consapevole della irresolubile contraddittorietà delle esperienze, contraddittorietà tradotta in seguito nella paradossalità « logica » di Zenone e dei sofisti. Questo universo della oralità, entro il quale la scrittura svolge tutt'al più la funzione di strumento mnemonico, come dimostrano anche le origini della pratica retorica, subisce una decisiva trasformazione con Socrate (che Colli interpreta però prevalentemente come un sapiente tradizionale in crisi) e soprattutto con Platone. È solo con quest'ultimo che nasce la «filosofia», cioè una forma di sapienza dichiaratamente inferiore (in quanto « amore del sapere » e non suo possesso, come nella « sofia » delle origini) e per di più affetta dal paradosso della scrittura, che non a caso Platone notoriamente condanna. Su questo punto Colli si trova a condividere in parte le tesi della scuola di Tubinga, ancora oggi molto discusse, volte a rivalutare le dottrine non scritte di Platone. Di fatto la filosofia non sarebbe che l'invenzione platonica di un genere letterario, cioè di una forma di scrittura, che in Platone ancora mima passionalmente il concreto esercizio del sapere entro la contesa del dialogo (ridotto però a discorsi retorici di personaggi cartacei irrigiditi nel
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logos scritto), ma che in Aristotele già assume la forma definitiva del trattato, inaugurando il modello della ragione astrattamente universalizzante, cioè «logica» nel senso scientifico e disciplinare che per noi vale come definitivo. Scrive Colli in La nascita della filosofia: «Così nasce la filosofia, creatura troppo composita e mediata per racchiudere in sé nuove possibilità di vita ascendente. Le spegne la scrittura, essenziale a questa nascita. E l'emozionalità, a un tempo dialettica e retorica, che ancora vibra in Platone, è destinata a disseccarsi in un breve volgere di tempo, a sedimentarsi e a cristallizzarsi nello spirito sistematico.» Ha così inizio quella « decadenza», come diceva Nietzsche, che contraddistingue e affetta tutto il mondo moderno, il quale crede illusoriamente di fondare i suoi saperi su una ragione rappresentativa capace di attingere metodicamente la verità ultima delle cose. Più nel profondo guardavano i greci, consapevoli che il logos è in sé segno, sintomo, cenno che rimanda e allude a una realtà insondabile e inesauribile. quanto drammaticamente enigmatica e ambigua. Per questo Colli oppone alla rappresentazione razionale una filosofia della « espressione »: ricerca di un « nascosto » che orla i margini di un «ignoto definitivo» cui l'espressione allude in forma sempre difettiva e incompleta. In verità, se il percorso di ricerca di Colli è ricco di suggestioni e di fascino, ed è singolarmente nutrito di erudizione e di dottrina filologica indubbiamente originale e feconda anche nelle sue soluzioni più discutibili, la proposta teorica di una filosofia dell'espressione appare invece più abbozzata che veramente compiuta, oltre che fragile e aporetica nei suoi contorni e nelle sue tesi caratteristiche. Non si vede, per esempio, su quale fondamento la pratica della verità affidata all'oralità primordiale del mito e poi della dialettica vivente dei dialoganti possa dichiararsi superiore alla pratica della verità nata dalla scrittura alfabetica (e poi, modernamente, matematica), cioè dalla pratica della filosofia e della scienza. Occorrerebbe, per così dire, un terzo occhio per poterlo stabilire, un occhio il cui commercio con la verità non dipendesse né dalla oralità primordiale, né dalla scrittura, ovvero qualcosa di totalmente inconcepibile. È questa la radice nascosta e involontaria di quell'« ignoto definitivo» di fronte al quale Colli finisce per fare naufragio. D'altra parte le considerazioni che Colli svolge nei confronti dell'antica sofia e poi della filosofia restano contraddittoriamente nell'ambito metodico di quest'ultima; sono cioè considerazioni di un uomo della scrittura, di cui la sapienza filologica e storica, come Nietzsche aveva ben compreso, è parte integrante e costitutiva. Donde quel problema ermeneutico che il Nietzsche finale del « prospettivismo » non aveva ignorato e che Heidegger porrà al centro delle sue meditazioni, ma che a Colli rimane estraneo e incompreso e che perciò suscita la sua, peraltro non sempre immotivata, ostilità all'« heideggerismo ». Restano nondimeno di Colli la confutazione dell'ottimismo razionalistico moderno e la rivalutazione della ricchezza del mondo sapienziale classico: esse rappresentano contributi a loro modo costruttivi rispetto a quella presa di coscienza della « crisi della ragione » che caratterizza in generale il nostro secolo,
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ma soprattutto segna e indirizza la riflessione teorica in Italia dopo il crollo delle illusioni « illuministiche » della ricostruzione postbellica e delle illusioni « rivoluzionarie» della sinistra nel corso degli anni settanta, sino al fatidico crollo del muro di Berlino che in certo modo ha sancito emblematicamente la fine di un'epoca nella nostra contemporaneità. II
• IL
PENSIERO
DEBOLE
È indubbio che una parte rilevante della riflessione teorica in Italia dell'ultimo trentennio si è inscritta nel segno del ritorno a Nietzsche, così come il lavoro filosofico del secondo dopoguerra si era per esempio inscritto nel segno di Gramsci o del ritorno a Husserl e alla fenomenologia dopo la stagione dell'esistenzialismo. Ma Nietzsche è stato anche il terreno di coltura, come si è già accennato, per la riflessione ermeneutica di ispirazione heideggeriana, come, d'altro canto, per l'imporsi delle tesi dello strutturalismo francese. Tra le numerose occasioni di dialogo e di confronto verificatesi in Italia nel corso degli anni settanta non è superfluo ricordare qui gli incontri di Monteripido che si svolsero per un quinquennio, a partire dal 1978, e che coinvolsero vari protagonisti del dibattito e della ricerca degli anni successivi. Monteripido, alla periferia di Perugia, era in quegli anni la sede del Collegium Phaenomenologicum che organizzava (e tuttora organizza) una scuola inter. nazionale estiva prevalentemente frequentata da studenti e laureati statunitensi. Del Comitato organizzatore facevano parte Giuseppina Chiara Moneta, dell'Università del Vermont, e Carlo Sini dell'Università statale di Milano. Da loro partì l'iniziativa di ritagliare, entro l'attività del Collegium, una sezione di lavori riservata alla filosofia italiana. A Sini si associarono Valeria Verra, dell'università di Roma, e Gianni Vattimo dell'università di Torino ed è di fatto dalla loro collaborazione che l'iniziativa prese corpo. Nell'estate del 1978 le «Tre giornate italiane» videro la partecipazione, accanto ai relatori e agli studiosi italiani, di Hans Georg Gadamer e di Werner Marx, nonché dell'americano Thomas Sheehan. Gli atti di quel convegno, in larga prevalenza dedicato a Heidegger, sono ancora oggi un utile osservatorio per comprendere il clima di quegli anni. 4 Successivamente furono ospiti occasionali degli incontri di Monteripido Emanuele Severino e Massimo Cacciari, mentre costante fu la presenza di Alberto Caracciolo, Vincenzo Vitiello, Mario Perniola, Mario Ruggenini, del giovanissimo Franco Volpi e di numerosi altri studiosi. Sebbene ognuno recasse il contributo delle proprie esperienze e della propria scuola d'origine, il riferimento comune e costante fu senza dubbio il pensiero di Heidegger. Le libere discussioni di Monteripido, alla presenza di un nutrito stuolo di studenti che partecipavano agli incontri a proprie spese, provenienti per lo più da Milano, Roma e
4 Gli atti sono stati pubblicati sul n.
1-2.,
anno m, della rivista «L'uomo, un segno>>.
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Torino, ma naturalmente anche da altre università, furono un segno e insieme un crogiuolo non secondario del cambiamento di rotta e di tendenza che stava interessando la ricerca filosofica in Italia. Qui ci occuperemo anzitutto di Vattimo, che di quegli incontri fu uno dei protagonisti più vivaci e più ascoltati, delineando per quanto possibile il profilo del suo percorso e del suo progetto teorico. Nato nel 1936 e allievo di Pareyson a Torino, Vattimo ha studiato anche a Heidelberg con Gadarner, del quale ha fatto poi conoscere in Italia l'opera principale, Verità e metodo, curandone la traduzione (1972). Direttore della «Rivista di estetica», è stato dapprima ordinario di Estetica poi di Filosofia teoretica presso l'università di Torino. Essere, storia e linguaggio in Heidegger (1963), Schleiermacher filoso/o dell'interpretazione (1968) e Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione (1974) sono i tre lavori che hanno dapprima imposto la figura di Vattimo come originale continuatore dell'ermeneutica pareysoniana. Particolare successo ha ottenuto il saggio su Nietzsche, il cui intento era quello di leggere nel filosofo tedesco un pensiero scardinatore della metafisica perché rivolto alla «liberazione» istintuale e individuale. Era una interpretazione dichiaratamente «di sinistra » che si collegava ai movimenti di « liberazione sessuale » e di « autocoscienza » allora fiorenti. Tornando di recente sul suo saggio nietzschiano, Vattimo ha scritto: «n libro che pubblicai nel 1974 [ ... ] aveva al suo centro l'idea che l'oltreuomo di Nietzsche potesse, in molteplici sensi, essere la più autentica realizzazione dell'uomo disalienato di Marx. » 5 I saggi raccolti nel volume del 1980, Le avventure della dz//erenza (il cui sottotitolo suona: «Che cosa significa pensare dopo Nietzsche e Heidegger ») abbandonano invece decisamente questa visione ancora « rivoluzionaria » della filosofia per inaugurare quella «antologia del declino» che sempre più si riassumerà nella formula del «pensiero debole». Qui Vattimo riconosce espressamente « l'insostenibilità di una interpretazione ancora dialettica dell'oltreuomo e della volontà di potenza». Nietzsche, e poi Heidegger, hanno piuttosto «modificato in modo sostanziale la nozione stessa del pensiero, per cui dopo di loro "pensare" assume un significato diverso da prima». È su questa «differenza» che i saggi si concentrano, scandagliandola da più prospettive. La differenza è espressa anzitutto «dalla molteplicità delle apparenze, liberate dalla condanna platonica che ne fa copie di un originale trascendente». L'oltreuomo è così «l'uomo che si è liberato per le differenze e la molteplicità dell'esperienza». Ma questa liberazione resta illusoria se essa è ancora pensata «sul modello del soggetto che è "tornato presso di sé" attraverso gli erramenti sempre nascostamente regolati dall'itinerario dialettico», magari in vista di una liberazione Iudica o « estetica » come in Marcuse. È qui che si inserisce, a integrare Nietzsche, il riferimento a Heidegger, letto come istanza estrema della diffe-
5 Nietzsche I994, in <>, n. 265-266, gennaio-aprile 1995, p. 4·
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renza. Oltrepassando gli enti e ogni presenza sostanziale per l'essere, la differenza heideggeriana non indica alcuna possibile conciliazione tra essenza ed esistenza, ma scopre piuttosto la costitutiva finitudine dell'esistenza medesima. Ogni tentazione « fondativa » del pensiero viene allora meno, sostituita dalla nozione di «sfondamento»: costitutivo dell'essere non è il fondare, «non l'imporsi, ma il dileguare». Di qui quella « ontologia del declino » che non indica «la direzione di una generica visione pessimistica della vita», ma risponde all'esigenza, che sempre più caratterizza l'esperienza moderna, «di un'antologia retta da categorie "deboli"». Le categorie appropriative e «violente» della metafisica (cioè segnate da quella volontà di potenza o di verità di cui la genealogia di Nietzsche ci ha reso consapevoli) « vanno "indebolite" o depotenziate, nel senso in cui per esempio Benjamin parla di "percezione distratta" dell'uomo metropolitano». E così, «proprio là dove sembra che l'oblio della differenza (tra essere ed ente) sia più completo, nell'esperienza dell'uomo metropolitano, l'essere, forse, parla di nuovo, nella sua modalità "debole"». Sempre del 1980 è l'importante saggio Verso un'antologia del declino, raccolto nel volumetto Al di là del soggetto. Nietzsche, Heidegger e l'ermeneutica (1981), che mette ulteriormente a fuoco l'« indebolimento» del pensare filosofico. Qui Vattimo riconosce la vicinanza del suo itinerario al modo in cui Gadamer ha inteso l'ermeneutica, «riducendo» totalmente l'essere a linguaggio. Ma Vattimo rivendica poi a sé il problema delle conseguenze che questa «riduzione» linguistica comporta per la stessa ontologia e per la storia della metafisica. In sintesi, le tesi principali del saggio possono così essere enunciate. La metafisica è la storia dell'essere. Infatti «non c'è, a parte la metafisica, altra storia dell'essere». Questa storia fa tutt'uno con l'Occidente, in quanto «terra del tramonto (dell'essere)», come dice Heidegger. Il che significa che non c'è altro luogo in cui l'essere splende, splendeva o splenderà. E questo tramontare, poi, non è un accidente che capita all'essere, dal quale magari sia lecito sperare di riscattarlo per un suo «ritorno»: la metafisica è il «destino» dell'essere, al quale «conviene» il tramontare. Il tramontare, dunque, non è una semplice assenza, o un tragico venir meno: bisogna leggere «positivamente» questo destino, il che coincide con una trasformazione del pensiero che impara, come diceva Heidegger, a «lasciar perdere l'essere come fondamento». In termini nietzschiani ciò significa accogliere il destino nichilistico dell'Occidente, per il quale «l'uomo, il Dasein, rotola via dal centro verso la X». Più esplicitamente: «un "essere" che, costitutivamente, non è più capace di fondare, un essere debole e depotenziato», equivale a una lettura positiva del nichilismo: «anche contro la lettera dei testi heideggeriani, bisognerà dire che la ricerca cominciata in Sein und Zeit non ci avvia all' oltrepassamento del nichilismo, ma a esperire il nichilismo come l'unica possibile via dell' ontologia ». Questa lettura dell'ermeneutica è d'altronde giustificata sulla base dell'« essere per la morte» rivendicato da Heidegger come senso ultimativo della« totalità» di senso dell'esistere: l'uomo non ha altro progetto« autentico», altra totalità conseguibile, se non la consapevolezza della sua finitudine mor-
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tale, del suo essere storicamente ed esistenzialmente diveniente e dileguante. Questa finitudine esistenziale è la « fondazione ermeneutica » stessa, per la quale «l'essere si carica di una connotazione del tutto estranea alla tradizione metafisica, e proprio questo intende esprimere la formula "ontologia del declino"». Quest'ultima inaugura anche un nuovo modo di considerare il problema della tecnica. Esso, diceva Heidegger, «provoca» e «lampeggia» nell'evento (Ereignis) dell'essere, cioè nel suo «oscillare» sprofondante in in/initum. Anche qui, non bisogna leggere negativamente, o «drammaticamente», l'appiattimento e lo svuotamento che le cose sperimentano nel dominio moderno della tecnica e con esso il tramonto di ogni riferimento storico a un terreno e a una patria d'origine. La tecnica destituisce la storia della sua « autorità», o la riduce a quello storiografismo nichilistico che Nietzsche descriveva polemicamente come un aggirarsi « turistico » tra un deposito di costumi teatrali da prendere o lasciare a piacimento. In realtà, in questo depotenziamento del senso storico è possibile leggere un più libero rapporto sia con la tradizione sia con il presente - vissuti non nel senso di una svalutazione relativistica, ma come universalità provvisoria e precaria - affine al giudizio di gusto della terza critica kantiana e consapevole del carattere finito, mortale, della nostra partecipazione ai messaggi che le generazioni del passato ci lanciano e che noi a nostra volta trasmettiamo al futuro. Giungiamo così al libro collettaneo del 1983, Il pensiero debole, curato da Vattimo in collaborazione con Pier Aldo Rovatti: uno dei libri più fortunati di questi anni, segnato da un singolare successo di pubblico e capace di innescare una vera e propria «moda » culturale che ha avuto echi rilevanti, e non soltanto in Italia, in vari campi del lavoro culturale e nei massmedia. Che poi, come spesso accade con le mode, il riferimento al «pensiero debole» sia stato in molti casi caratterizzato da superficialità, incomprensione o prevalente spirito polemico (sicché se ne parla per dirne male e per assumerlo come termine di confronto negativo, come una volta notò con arguzia, e fors'anche con comprensibile amarezza, lo stesso Vattimo), non toglie affatto il carattere di centralità e di imprescindibilità che la proposta teorica di Vattimo e Rovatti ha rappresentato per la riflessione filosofica italiana. Nel suo contributo Dialettica, differenza, pensiero debole Vattimo mette definitivamente a fuoco la sua proposta teorica, anzitutto chiarendo il rapporto che essa intrattiene con il pensiero dialettico e con il pensiero della differenza: non si tratta di un « superamento » di queste posizioni, ma di un atteggiamento critico che le assume « ermeneuticamente » come orizzonte, come dato di fatto del nostro destino del quale non è possibile non tener conto. Non esiste né può esistere un interpretare «puro», che pretenda di prescindere dalle « condizioni storico-culturali dell'esperienza »; si interpreta in situazione, a partire dall'« innanzi tutto e per lo più quotidiano» (per richiamarsi alla nota formula heideggeriana). Né la critica può sperare di configurarsi come un giudizio assoluto di verità (come un « superamento », appunto); bisogna piuttosto pensare a qualcosa di simile alla « critica letteraria e artistica: discorsi e r68
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valutazioni critiche [che] muovono sempre da un insieme di canoni che sono storicamente costituiti dalla storia delle arti e del gusto». Su questa base Vattimo prende le distanze dal pensiero dialettico-riappropriativo di Sartre, dalla dialettica negativa di Adorno, dall'utopismo di Bloch, dalla rivendicazione «teologica» benjaminiana di ciò che ogni totalizzazione storico-dialettica fatalmente esclude, persino dal vitalismo nietzschiano: tutte queste posizioni conducono il pensiero dialettico alla sua dissoluzione, proprio perché lo radicalizzano; nel contempo però mostrano che «l'approccio dialettico al problema dell'alienazione è ancora profondamente complice dell'alienazione che dovrebbe combattere». È invece dall'antologia heideggeriana che conviene prendere le mosse. Essa insegna che il pensiero dell'essere fraintende l'essere (lo «dimentica») sino a che lo modella sull'ente (sia esso concepito come totalità assoluta o come contingenza e residualità storica). «L'essere piuttosto accade. Noi diciamo essere distinguendolo veramente dagli enti solo quando pensiamo come l'essere l'accadere storico-culturale, l' istituirsi e il trasformarsi degli orizzonti entro cui di volta in volta gli enti divengono accessibili all'uomo e l'uomo a se stesso. » Questa premessa palesemente gadameriana («Il mondo si esperisce in orizzonti che sono costituiti da un serie di echi, di risonanze di linguaggio, di messaggi pro-. venienti dal passato ... ») conduce da un lato ad accogliere il pensiero della differenza (ciò per cui gli enti si costituiscono « trasmettendosi » a partire dalla loro differenza dall'essere) come erede delle tendenze dissolutive del pensiero dialettico; dall'altro a declinare (verwinden) il pensiero della differenza in pensiero debole, che, per esempio, rinuncia alla «possibilità di enunciare che Dio esiste o non esiste» (così andrebbe inteso il senso dell'annuncio nietzschiano della morte di Dio). Ne deriva un'antologia che non incontra l'essere; piuttosto ne prende congedo e lo rammemora come «andato» (così sarebbe da intendere l'invito heideggeriano di lasciare andare l'essere come fondamento): l'essere non è ciò che sta, ma ciò che si tramanda. Vattimo si rende conto che il pensiero debole non può allora che lavorare con le nozioni medesime della metafisica, solo distorcendole e indebolendole nel «ricordo». L'unica differenza è che il pensiero debole toglie a tali categorie la pretesa di valere come vie di accesso all'essere vero: «esse "valgono" ormai solo come monumenti, eredità a cui si porta la pietas che è dovuta alle tracce di ciò che ha vissuto». In ciò è da rawisare una vicinanza con un pensiero «in qualche senso ancora storicista ». Ma il rischio più evidente è che il pensiero debole si configuri come una posizione parassitaria, non più che edificante o estetistica, incapace di una sua forza progettuale e perciò senza base per rivendicare una qualche legittimità di critica e di orientamento nei confronti della prassi; il che equivarrebbe allora a una «accettazione dell'esistente e dei suoi ordini dati». A queste obiezioni Vattimo risponde ribadendo il carattere sostanzialmente « retorico » della verità debole, sulla quale sarebbe possibile impiantare un'etica dei «beni» piuttosto che un'etica
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degli «imperativi», un'etica consapevole del carattere strutturalmente interpretativo, e non metafisica, della verità. Ciò comporterebbe l'impegno verso un'antologia debole capace di «accompagnare l'essere al suo tramonto» e di «preparare così un'umanità ultrametafisica ». Per questa via Vattimo si è avvicinato alle posizioni cosiddette postmoderne che hanno inteso sancire la fine della modernità e del suo progetto imperniato sulle idee forti della evoluzione e del progresso. Nelle arti, ma anche nella religione e nel vivere sociale, il rifiuto delle nozioni di avanguardia e di superamento è andato di pari passo con la elaborazione di una cultura filosofica a sua volta critica nei confronti della modernità (a questi temi è dedicato il libro del 1985 La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura postmoderna, seguito, nel 1989, da Etica dell'interpretazione e da La società trasparente). Vattimo si è trovato così su posizioni assai vicine a quelle del neopragmatismo di Richard Rorty. Bisogna però registrare un successivo tentativo di correzione di rotta, affidato in particolare a Oltre l'interpretazione. Il significato dell'ermeneutica per la filosofia (1994), libro che raccoglie un ciclo di lezioni tenute da Vattimo all'università di Bologna presso la cattedra di Umberto Eco, che era stato tra i collaboratori più brillanti del volume dedicato al «pensiero debole». «Che ogni esperienza di verità sia esperienza interpretativa è quasi una banalità nella cultura di oggi», scrive qui Vattimo rilevando come l'orizzonte ermeneutico sia sempre più divenuto un clima diffuso, un'atmosfera vagamente culturale ma « troppo poco filosoficamente caratterizzata » e perciò dalla apparenza «così accettabile, urbana, innocua». Per evitare questo esito «debole» in senso negativo Vattimo propone di portare il « debolismo » sino in fondo, in pratica decidendosi a far proprie le obiezioni che sin dall'inizio da varie parti gli erano state rivolte. Innanzi tutto riconosce che non ha senso dire che tutto è interpretazione, se non si aggiunge che anche questo dire è un'interpretazione. Ma l'aggiunta (ora Vattimo se ne rende conto) non può semplicemente comportare una « pura filosofia relativistica della molteplicità delle culture » e non può neppure ridursi «a una scelta di gusto», cioè alla «registrazione di uno stato d'animo del tutto inspiegabile (in quanto non argomentabile in alcun modo) a se stessi e agli altri». Che dire allora? Non resta che ritagliare per l'ermeneutica una verità sui generis, tutto sommato dipendente, vicaria e parassitaria rispetto alla verità dello stodeismo, con la sola differenza che lo storicismo non ha dubbi sul carattere universale della sua verità, mentre l'ermeneutica, incapace di fornire autonomamente qualsiasi « prova » della veridicità del proprio discorso, assume la storia come un « fatto » e come una provenienza insieme accidentale e « destinale »/inevitabile per l'ermeneutica medesima. «Ciò che l'ermeneutica offre come "prova" della propria teoria è una storia, sia nel senso di res gestae sia nel senso di historia rerum gestarum ... » Si tratta cioè di «pensare la filosofia dell'interpretazione come l'esito di un corso di eventi», quelli appunto della storia dell'essere, nei termini di Heidegger, e del nichilismo, nei termini di Nietzsche. « Storicismo, dunque? Sì, se si intende che la
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sola possibile argomentazione a favore della verità dell'ermeneutica è una certa interpretazione della vicenda della modernità »; il che equivale ad assumere Hegel e la dialettica (cacciati dalla porta e riammessi dalla finestra) come condizioni imprescindibili della verità del proprio discorso. Ma il punto che sembra più inaccettabile della soluzione proposta da Vattimo non è tanto o soltanto questa resa a uno storicismo «indebolito» al punto da divenire mera sociologia spicciola dell'europeo metropolitano, quanto il non rendersi conto che il problema filosofico dell'ermeneutica sta altrove. Accogliere la « storia » nei suoi due sensi senza sollevare alcuna domanda relativa al « come » della sua costituzione, al funzionamento delle sue categorie interpretative e del suo sguardo, al senso delle sue pratiche e degli abiti che ne derivano equivale a ridurre la riflessione filosofica a una generica « filosofia della cultura» di aspetto facile e accattivante, a una chiacchierata su semplici etichette, il cui principale effetto è l'« impressione» sul lettore (su un lettore a sua volta corrispondentemente « indebolito ») di un pensiero critico che si misurerebbe con i massimi problemi del tempo. In realtà questo pensiero che si dichiara ermeneutico non avverte che assumere come propria premessa una «storia di eventi», che sarebbero dunque «storici», senza che su ciò venga posta alcuna domanda ulteriore, è altrettanto ingenuamente obiettivistico e dogmaticamente acritico di un pensiero che assuma i fatti reali come eventi «naturali», nel senso della ideologia scientistica, dai quali partire per stabilirne la verità. Vattimo dice talora che essenziale nell'ermeneutica è la questione dell'« evento» dell'essere; di fatto però egli si concentra sui significati conseguenti a questo «evento», preoccupandosi di definirne lo statuto (di forza, di debolezza, di relatività, di assolutezza, ecc.); in tal modo la domanda filosofica (e in particolare la domanda sull'evento e sull'evento stesso dell'interpretazione) è già saltata e il discorso fatalmente si riduce a questioni meramente di fatto (come siamo diventati) e di gusto (come ci piacerebbe essere). III
· DAL
«DIZIONARIO» SVILUPPI
DEL
ALL'«ENCICLOPEDIA»: PENSIERO
DEBOLE
Il contributo di Pier Aldo Rovatti (n. 1942) al volume Il pensiero debole (come del resto gli altri che qui non è possibile richiamare) segue vie notevolmente indipendenti rispetto all'itinerario di Vattimo, che abbiamo ritenuto utile per il lettore analizzare in modo più esteso data la vasta notorietà che esso ha di fatto conseguito. Allievo di Enzo Paci e direttore della rivista « Aut Aut » (fondata da Paci nel 1951 e tuttora tra i periodici culturali all'avanguardia in Italia), Rovatti ha esordito con una importante monografia sul relazionismo di Whitehead (Saggio su Whitehead, 1969). In seguito ha attraversato, come altri in quegli anni, una fase di adesione critica al pensiero marxista (Critica e scientificità in Marx, 1973; Bisogni e teoria marxista, 1976). Dopo la già ricordata collaborazione con Vattimo, Rovatti è tornato a riflettere sulla sua originaria formazione fenomenologica, in anni in cui la fortuna 171
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di Husserl in Italia era decisamente in declino rispetto al ritorno «ermeneutico» a Heidegger (La posta in gioco. Heidegger, Husserl, il soggetto, 1987; Intorno a Lévinas, 1988). Di qui ha preso le mosse la sua proposta teorica più recente, che nell'insieme si configura come una ripresa originale di alcuni temi di fondo della fenomenologia (il soggetto, l'esercizio fenomenologico) alla luce delle vicende della filosofia degli ultimi decenni, delle quali Rovatti è stato a sua volta partecipe e attento testimone (Il declino della luce, 1988; Elogio del pudore. Per un pensiero debole, in collaborazione con A. Dal Lago, 1990; !:esercizio del silenzio, 1991; Trasformazioni del soggetto. Un itinerario filosofico, 1992; Per gioco, in collaborazione con A. Dal Lago, 1993; Abitare la distanza, 1994). «Trasformazioni nel corso dell'esperienza» è il titolo del contributo di Rovatti al volume Il pensiero debole. Come già Vattimo, anche Rovatti muove dall'immagine nietzschiana dell'uomo moderno che «rotola via dal centro verso una X», un decentramento che è sinonimo sia di debolezza sia di forza. Per queste nozioni egli si ispira ad alcuni straordinari frammenti postumi di Nietzsche. «L'uomo è ormai abbastanza forte per apparire debole», scrive Rovatti; questa sua debolezza decentrata gli consente, in realtà, di intraprendere «un cammino difficile dentro il nichilismo », cammino in cui «l'uomo acquisisce la capacità di abbandonare le proprie catene», cioè la soggezione ai valori « forti » e assoluti che in passato lo sorreggevano e insieme lo dominavano. Ma l'originalità della proposta di Rovatti sta soprattutto nelle analisi che egli conduce sulle « trasformazioni » che derivano all'esperienza dalla assunzione del pensiero debole. Anziché ragionare per generiche etichette culturali (la metafisica, l'ermeneutica, l'interpretazione, la dialettica e simili), Rovatti, da buon fenomenologo, mostra in atto una « microfisica della normalità » che disegna il profilo del nuovo soggetto, marginale e contingentemente frastagliato, inscritto in un sapere volta a volta «locale», mai generalizzabile o riassumibile in una globalità impossibile. In tal modo, però, se è vero che «il soggetto rimpicciolisce », è altrettanto vero che «si ingrossa l'esperienza». Il pensiero debole esige dunque sia una modificazione dell'oggetto della conoscenza, sia del soggetto di essa. Da un lato bisogna riscattare l'oggetto dalla abitualità dell'esperienza normale che lo accoglie in base a categorie pregiudicate e in questo senso «forti» (è, a ben vedere, il tema husserliano della epoché); dall'altro bisogna fare del soggetto un abito, un « esercizio» di attenzione, una « condotta» che sappia guardare e abitare quella «densità» dell'esperienza che il concetto non riesce a cogliere adeguatamente: qualcosa che sfugge alla « totalizzazione » e ha piuttosto la forma della disseminazione, come direbbe Deleuze, e del frammento. Per questo il sapere « debole» si trova più a suo agio con le «narrazioni» (come dice anche Ricoeur) che non con le dimostrazioni. Sulla complessità frastagliata, locale e contingente dell'esperienza, sulla microfisica dei nostri vissuti, il dire filosofico «ha poca presa». Alla «fondazione» che pretende spiegazioni univoche deve sostituirsi il «racconto» e quindi una forma letteraria del dire. La forma dello Zarathustra di Nietzsche non è pertanto qualcosa 172
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di casuale, così come la decisione heideggeriana di rivolgersi ai poeti non è una mera questione di gusto o una preferenza « estetica». Da queste premesse Rovatti ha sviluppato un'« etica del pensiero debole», dove la parola «etica» allude anzitutto al problema del nuovo luogo da assegnare al soggetto. Luogo che è da ravvisarsi in una necessaria «metafora», cioè in una modificazione delle parole per dire il soggetto, in un trasferimento di senso del linguaggio della soggettività. La « necessità » che è qui evocata è appunto il problema di una responsabilità etica che il soggetto si assume nel tempo della «crisi della ragione» e della consapevole illusorietà in cui è presa ogni pratica veritativa. Tale responsabilità si esprime per esempio nel «pudore» nei confronti di ogni teoria: un passo all'indietro che è l'origine etica stessa dell'atteggiamento filosofico. «Il problema che la filosofia ha tradizionalmente chiamato inizio, scrive Rovatti in Abitare la distanza, la contemporanea fenomenologia ha tentato di ridescriverlo con il termine epoché. Metterei l'accento sul carattere di "esercizio", per dire che questa entrata ci investe da capo a piedi, o - come insisteva Enzo Paci - "in carne e ossa" (traduzione dell'husserliano leibha/t), e insomma non solo come speculazione, contemplazione, meditazione; non metodo né metodo-logica. Si tratta piuttosto di girar pagina, di cambiare vita, e anche Descartes lo sapeva. Scambiare il criterio per l'atteggiamento potrebbe significare starsene fuori, non trovare nessuna entrata. » Un altro modo di frequentare l'« entrata» è quello di abitare il silenzio esercitandolo all'interno stesso della parola filosofica: esercizio di uno scarto tra l'udire e l'ascoltare che «forse si può chiamare un'operazione di pudore nella scrittura». E appunto sul «vedere», sull'« ascoltare» e sullo «scrivere» si concentrano i saggi di Abitare la distanza: non un invito a una sorta di stoica apatia in chiave postmoderna, o a un'equivoca e irresponsabile «leggerezza » di un pensiero che scambi l'esser debole con l'essere evasivo, ma anzi l'assunzione del « peso » di quella distanza che è già insita in ogni atto del soggetto, che è il suo stesso vuoto, la sua «architraccia», come direbbe Derrida. Di qui le analisi dedicate da Rovatti alla pratica stessa della filosofia, secondo percorsi che hanno più di qualche analogia con la ricerca teorica di Carlo Sini (di cui diremo). «Dire che ogni ipotesi filosofica è una pratica testuale è un'ovvietà. Ma se riguardiamo da questo punto di vista il gioco del linguaggio, questa variazione nel modo di dire è tutto ciò - e non è davvero poco - che la filosofia può suggerire alle altre pratiche discorsive e alla nostra esperienza complessiva. Non con la pretesa di organizzare un "dizionario", ma semmai nel tentativo di introdurre pause di percorribilità nell' opacità delle parole. » Questa immagine del «dizionario», sulla quale Rovatti ritorna, è non casualmente al centro del contributo di Umberto Eco al _volume Il pensiero debole. Allievo di Pareyson a Torino, Eco (n. 1932) ha dapprima studiato il pensiero medievale (Il problema estetico in S. Tommaso, 1956) e in seguito, dopo essere stato tra i promotori del Gruppo '63 (Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, 1962), si è dedicato a studi semiotici che gli hanno procurato fama inter173
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nazionale (Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, 1964; La struttura assente, 1968; Le forme del contenuto, 1971; Trattato di semiotica generale, 1975; Lector in fabula, 1979; Semiotica e filosofia del linguaggio, 1984; Sugli specchi e altri saggi, 1985; I limiti dell'interpretazione, 1991, nonché i due romanzi, non privi di sottintesi teorici, Il nome della rosa, 1980 e Il pendolo di Foucault, 1988, che hanno conseguito un successo mondiale). Ispirandosi largamente alla semiotica di Peirce, Eco ha sottolineato le implicazioni pragmatiche insite in ogni sistema semiotico e in ogni comunicazione linguistica. Queste stesse implicazioni gli hanno suggerito la differenza tra una « semantica a dizionario » e una « semantica a enciclopedia »: chiusa e « forte » la prima, aperta e « debole » la seconda (non però così arbitrariamente aperta da consentire le operazioni decostruttive di un'ermeneutica alla Derrida, come Eco ha più volte ribadito nel corso di recenti prese di posizione critiche). Nel saggio I.:antiporfirio, con cui ha collaborato al volume curato da Vattimo e Rovatti, Eco si è proposto di mostrare «che l'idea teorica di un dizionario è irrealizzabile e che ogni dizionario rigoroso contiene elementi di enciclopedia che ne minano la purezza. In tal senso appare irrealizzabile l'idea di un pensiero forte del linguaggio». Con acume e arguzia Eco muove dall'immagine porfiriana, o di ispirazione porfiriana, dell'albero che rappresenterebbe lo schema aristotelico della definizione: riconduzione della specie sotto il suo genere attraverso la differenza specifica. In realtà già Abelardo osservava che « generi e specie sono semplici nomi che etichettano gruppi di differenze». La differenza così esplode. Scrive Eco: «Generi e specie sono fantasmi verbali che coprono la vera natura dell' albero e dell'universo che esso rappresenta, un universo di pure differenze. » Ma così l'albero definitorio si trasforma da dizionario in enciclopedia, cioè in un insieme di descrizioni sempre aperte, a seconda dei punti di vista e dei contesti. « L'enciclopedia è dominata dal principio peirciano della interpretazione e quindi della semiosi illimitata. Ogni pensiero che il linguaggio esprime non è mai a fondo pensiero "forte" ... » Esso è piuttosto sintomo, indizio, segno che innesca una «fuga di interpretanti» che interagiscono nel mondo come abiti, diceva Peirce; i quali abiti innescano a loro volta «il circolo della semiosi, che si apre continuamente al di fuori di se stesso, continuamente su se stesso si richiude ». L'enciclopedia è quindi una sorta di labirinto pensato (già dagli enciclopedisti del XVIII secolo) come una rete di relazioni meramente congetturali e in continua evoluzione. Il pensiero del labirinto, owero dell'enciclopedia, non è fondato su una ragione forte e globalizzante; esso ispira piuttosto il modello di una «ragionevolezza» diffusa, ma senza dar luogo a un esito irrazionalistico o solipsistico, poiché le sue ipotesi consentono un controllo intersoggettivo. La sua ragionevolezza consiste proprio nel non aspirare alla globalità. La sua debolezza poi è (come osservava anche Rovatti) apparente. È una ragione debole « come è debole il lottatore orientale che fa proprio l'impeto dell' awersario, e inclina a cedervi, per poi trovare nella situazione che l'altro ha creato i modi (congetturali) per rispondere vittoriosamente». 174
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Come è naturale e strutturale per un pensiero che, in un modo o in un altro, ha deciso di qualificarsi «debole», esso non può dismettere l'abito del confronto (con il pensiero «forte»), della contesa, della replica agonica e insomma della retorica ideologica in cui il problema filosofico viene eluso, frainteso o travestito. E così capita di ridurre anche la semiosi illimitata di Peirce a una sorta di strumento empirico, buono per la classificazione prowisoria dei segni e la elaborazione di una semiotica «disciplinare» che garantirebbe i suoi propri criteri di verifica intersoggettiva, dimenticando che è la nascita stessa dell'abito intersoggettivo e la sua connessione con ciò che si intende per reale e vero il problema filosofico preliminare di qualsivoglia semiotica, così come Peirce appunto la intese. Sicché bisogna dire che parlare di «ragionevolezza» nel senso di Eco sarebbe, dal punto di vista di Peirce, la cosa più irragionevole e logicamente inconsistente che si possa immaginare; qualcosa di simile alla riduzione del pragmatismo alla superficiale versione irrazionalistica di James, che è infatti l'unica che Rorty, Putnam e gli altri esponenti del neopragmatismo contemporaneo si dimostrino in grado di comprendere davvero. IV
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DALL'ESSERE
AL
LINGUAGGIO
Nel panorama filosofico contemporaneo risulta del tutto solitaria e particolare la posizione di Emanuele Severino, che si colloca agli antipodi delle filosofie ermeneutiche e relativistiche. Non sarebbe tuttavia equo definirla una posizione «forte», poiché ciò significherebbe assimilarla alle vacue etichette giornalistiche della cultura di massa. In realtà l'itinerario di pensiero di Severino prende le mosse da una profonda meditazione teoretica, condotta c~n esemplare rigore. I suoi esiti (il tutto è eterno, dunque ogni ente è eterno; la morte è un'apparenza ingannevole; la concezione occidentale della vita, inclusa la concezione cristiana, è segno di un estremo nichilismo e di una radicata follia, al di là della quale si estende l'orizzonte della necessità dell'essere e la possibile esperienza della eternità della gioia), dopo un non breve periodo di quasi completa ignoranza da parte del pubblico, hanno ottenuto improwisa e sempre più vasta notorietà, owiamente più per l'originalità e provocatorietà delle tesi, che non per una meditata comprensione delle argomentazioni severiniane. Nei loro motivi fondamentali queste sono già delineate nel volume del 1958, La struttura originaria, che - ha scritto l'autore - «rimane ancora oggi il terreno dove tutti i miei scritti ricevono il senso che è loro proprio». Severino (n. 1929) è stato allievo di Gustavo Bontadini all'Università Cattolica di Milano, dove giovanissimo (1963) ha iniziato l'insegnamento universitario. Da Bontadini ha tratto quegli echi della filosofia gentiliana e postgentiliana che restano presenti in tutto il suo pensiero (si veda il lavoro del 1950 Note sul problematicismo italiano). Espulso dalla Cattolica, per la inconciliabilità delle sue idee filosofiche con la dottrina della Chiesa, è passato nel 1970 all'università di Venezia, dove insegna Filosofia teoretica. 175
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Tra le sue numerose opere hanno particolare rilevanza filosofica: Studi di filosofia della prassi (1962), Essenza del nichilismo (1972), Gli abitatori del tempo (1978), Legge e caso (1979), Techne. Le radici della violenza (1979), Destino della necessità (r98o), Il parricidio mancato (1985), Il giogo (1989), Oltre il linguaggio (1992), Heidegger e la metafisica (1994). In realtà quest'ultimo libro riprende un saggio delr950, seguito, come Severino ha fatto per altre sue opere giovanili, da una revisione critica alla luce della posizione matura del suo pensiero. Punto di partenza della ricerca severiniana è la rivendicazione della metafisica contrapposta da Bontadini al pensiero moderno e contemporaneo. Heidegger e Gentile costituiscono per Severino la frontiera estrema della metafisica, con marcati tratti di affinità e insieme di differenza. Con La struttura originaria ha luogo la svolta decisiva: il ritorno alla metafisica non ha il senso di una confutazione e di un superamento del nichilismo, ma è anzi il riconoscimento che la metafisica è, sin dalle sue origini, la matrice stessa di «quel pensiero dominante dell'Occidente» che è il nichilismo. In esso si manifesta la « follia estrema » che ha nell'età della tecnica la sua espressione totalizzante e compiuta. Sbaglierebbe chi traesse da queste formulazioni l'idea di un allineamento di Severino sulle posizioni del nichilismo nietzschiano e della interpretazione « apocalittica » heideggeriana circa il destino della tecnica moderna. Nonostante indubbie analogie, Severino sottolinea la sua estrema lontananza da Nietzsche e da Heidegger, i quali anzi gli appaiono come i più rappresentativi pensatori del nichilismo, in quanto entrambi tendono alla completa assimilazione dell'essere con il nulla. La «struttura originaria» della quale Severino parla è la in controvertibile e indistruttibile verità dell'essere, in quanto apertura che regge nascostamente l'intera storia dell'Occidente. Cogliere il senso di tale verità significa, per Severino, mettere a nudo il più profondo sottosuolo che governa il modo di pensare dell'uomo occidentale, «un sottosuolo essenzialmente più profondo di quello esplorato da Hegel, dal marxismo, dalla psicoanalisi, dalla linea ermeneutica Nietzsche-Heidegger, dallo strutturalismo». La verità messa a nudo è efficacemente espressa nel saggio, divenuto celebre, Ritornare a Parmenide (in Essenza del nichilismo). La formulazione verbale di questa verità (l'essere è, il non essere non è) vieta di pensare il non essere come essente. Ma già da Platone la filosofia tenta quella mediazione «logica » tra essere e non essere (il non essere è l'articolarsi del « diverso » nell'essere, sicché gli enti « divengono » passando dal non essere all'essere e dall'essere al non essere) che poi governa l'intera prassi politica (l'Occidente, dice Severino, è la «Repubblica» di Platone) e tutti i saperi. Questi, secondo Severino, sono infatti basati sulla convinzione che le cose nascano dal niente e nel niente ritornino. La «volontà» che guida l'uomo occidentale ha così la pretesa sia di proteggersi dalla minaccia del niente tramite l'elaborazione immaginaria di una serie di «immutabili» (riassumibili da ultimo nel concetto del Dio cristiano) che garantirebbero e affrancherebbero l'individuo dalla morte; sia di prendere possesso direttamente della « oscillazione » degli enti tra l'essere e
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il niente (in pratica sostituendosi al vecchio Dio nel tempo, come diceva Nietzsche, della sua morte) garantendosene la completa controllabilità e riproducibilità «tecnica» in forza del sapere scientifico. Ma queste strategie di salvezza sono il contrario di ciò che credono di essere: esse finiscono con il testimoniare la convinzione che l'ente sia infine niente, sicché la volontà occidentale è intimamente affetta dalla violenza nichilistica della distruzione. Essa infatti è dimentica della verità dell'essere, la quale, come già Parmenide aveva intuito, mostra che credere nella realtà del divenire, e perciò nella storicità delle cose e nella mortalità e distruttibilità degli enti, è puro non senso: non è infatti possibile pensare, senza immediatamente contraddirsi, che ciò che è venga dal niente o che al niente possa ridursi, cioè che possa insieme essere e non essere. Su questo punto l'efficacia dialettica di Severino si è variamente ripetuta, declinandosi nelle interpretazioni della filosofia greca e moderna, nelle analisi della tragedia antica e della stessa struttura della lingua greca e infine applicandosi alle vicende politiche e sociali della nostra attualità. Le sue conclusioni, che qui non è possibile esaminare e valutare in forma più analitica e adeguatamente tecnica, non cessano di far discutere: se dell'ente, di cui noi diciamo che finisce e che muore, in realtà si deve dire soltanto che esce dal cerchio dell'apparire, permanendo però nell'orizzonte complessivo dell'essere, come dobbiamo pensare questo apparire e scomparire? È esso conseguenza di un «errore» umano (la «follia» di un pensiero che prende per vero il divenire, nonostante la contraddizione logica che un tale prender per vero comporta), oppure è conseguenza di un «destino» in cui la terra è coinvolta con i suoi «abitatori», in quanto «abitatori del tempo», ovvero di una «destinata» e a suo modo necessaria illusione? E come pensare allora una via di liberazione che sia insieme un cammino di affrancamento dalla follia (e dalla connessa alienazione tecnica che minaccia oggi l'uomo) e un cammino che ripristini (o per dir meglio che inauguri, poiché neppure l'uomo del mito ha di certo evitato le illusioni del divenire e della morte), con la verità dell'essere, l'eterna gioia del vivere degli enti, non più perduti nel loro incubo di separatezza, ma redenti nell'unità con il tutto, dal quale invero e peraltro mai si sono separati né potevano separarsi? E come valutare infine la parola stessa di Severino, il suo evento, in quanto «testimonianza» del «destino della necessità» (come lui stesso dice)? Sono domande che Severino a sua volta si pone e sulle quali instancabilmente ritorna con innegabile efficacia e originalità argomentativa, ma anche, bisogna aggiungere, senza ottenere un apprezzabile effetto di convincimento nei suoi lettori, indubbiamente affascinati (oppure, secondo il caso, irritati o addirittura scandalizzati) dalle sue tesi e però e comunque irriducibilmente affezionati a quella testimonianza del divenire che secondo Severino è parte costitutiva della nostra epocale «follia». L'insegnamento di Severino a Venezia ha fatto scuola e tra i suoi allievi si contano alcuni protagonisti della cultura filosofica contemporanea italiana. Alloro lavoro, che è in pieno sviluppo, non è possibile fare qui più di un accenno. Mario Ruggenini (n. 1940) insegna Ermeneutica filosofica all'università di Venezia. Il nesso tec177
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nica-nichilismo e il problema del soggetto sono al centro dei suoi primi lavori (Verità e soggettività, 1974; Il soggetto e la tecnica, 1978; Volontà e interpretazione, 1984; ];uomo e la differenza, 1989). Nel libro del 1992 I fenomeni e le parole. La verità finita dell'ermeneutica la posizione di Ruggenini appare ormai sensibilmente lontana dagli esiti del pensiero severiniano, sebbene ne condivida tuttora alcune importanti premesse, a cominciare dalla ~alutazione seria e approfondita della tradizione metafisica della quale il recente relativismo e « debolismo » crede a torto di potersi sbarazzare con superficiale disinvoltura. Al centro dell'interesse di Ruggenini è ciò che, in riferimento sia positivo sia critico a Heidegger, egli chiama la « differenza ermeneutica» e che la filosofia ha sempre tematizzato sin dai suoi esordi platonici. Ciò significa che la filosofia è sempre stata in qualche modo consapevole del fatto che il rapporto con la verità è costitutivamente ermeneutico, cioè legato all'interpretazione; il che testimonia incontestabilmente il carattere « finito » della esistenza umana, del pensiero e del pensiero filosofico in particolare. E così la metafisica, proprio perché pone l'esigenza dell'assoluto, della verità in sé e per sé, distinta da ogni relazione ermeneutica, custodisce il segreto della finitezza. Come può confrontarsi il pensiero con questo segreto? Sollevando la questione dell'essere, cioè della sua differenza «antologica» dall'ente, Heidegger ha riproposto al pensiero contemporaneo il problema che come tale coinvolge l'intera storia della metafisica e perciò l'intera storia dell'Occidente. L'ermeneutica postheideggeriana ha perlopiù ritenuto che la questione della finitezza dell'uomo, ancora così drammaticamente al centro della meditazione heideggeriana O' essere per la morte, l'angoscia della ek-sistenza), potesse risolversi in una sorta di accettazione aproblematicamente « positiva » del finito: se l'uomo è solo sulla terra, ciò significa che dovrà decidere da sé del proprio destino e dei propri valori. In realtà, obietta Ruggenini, non ha senso parlare di finitezza se non in relazione a una « alterità » che la trascende: « L'esistenza che perde il rapporto con l'alterità non è più finita. » Ma il punto essenziale è che questo rapporto implica originariamente il linguaggio (per questo la differenza è «ermeneutica»), come ha compreso Gadamer. È nell'esperienza stessa del linguaggio e del discorso, nel suo dar ragione (come esigeva Aristotele), nel suo domandare e rispondere attraverso il colloquio, che la filosofia può oggi tener fermo al suo rapporto inalienabile con la verità, e insieme riconoscerne la finitezza ermeneutica, donde le deriva l'esperienza mai conclusa delle ragioni del discorso. I temi del linguaggio e dell'interpretazione sono al centro anche del lavoro di Salvatore Natoli (n. 1942), docente di Filosofia teoretica all'università di Bari. Più che a Gadamer, Natoli, che è a sua volta partito da uno studio profondo della tradizione metafisica (Soggetto e fondamento, 1979), si ispira a Nietzsche, Wittgenstein e Foucault (Ermeneutica e genealogia. Filosofia e metodo in Nietzsche, Heidegger e Foucault, 1981; Vita buona, vita felice. Scritti di etica e politica, 1990). Di ogni interpretazione è essenziale il codice, il quale è a sua volta caratterizzato dalla finitudine delle pratiche linguistiche e non linguistiche che lo mettono in opera. La verità, per-
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tanto, è presa entro la varietà dei «giochi linguistici», come diceva Wittgenstein, che la significano e le danno figura, e non è nulla fuori di questi giochi. In Teatro filosofico. Gli scenari del sapere tra linguaggio e storia (1991) Natoli scrive: «Omnia in figura: tutto ci giunge in figura, ma a differenza di quanto ha creduto l'antica teologia e la più recente filosofia, nessuna verità si cela dietro le figure, ma è il tempo che assegna a ognuna di esse il suo peso di verità a fronte dell'imponderabile. » Di questo peso del tempo, scandagliato attraverso le esperienze storiche del dolore e della gioia e le loro essenziali differenze tra mondo pagano e mondo cristiano, Natoli ha fatto il tema di due suoi libri molto fortunati (L'esperienza del dolore. Le /orme del patire nella cultura occidentale, 1986; La felicità. Saggio di teoria degli al/etti, 1994). A essi ha fatto seguito I nuovi pagani. Neopaganesimo: una nuova etica per forzare le inerzie del tempo, 1995, in cui Natoli contrappone alla finitudine cristiana, che si modella sull'idea di creazione divina, la finitudine contemporanea, conseguente alla morte di Dio. L'etica di Natoli sembra muoversi pertanto in direzione opposta a quella di Ruggenini: proprio il finito che accetta se stesso come autosufficiente e come degno di esistere, secondo il modello pagano dei greci, può superare sia l'angoscia disperata della perdita di Dio e di ogni stabile fondamento, sia la tracotante volontà dell'uomo della tecnica che vorrebbe sostituirsi a Dio. Queste indicazioni etiche trovano fondamento, come si è accennato, nel modo in cui Natoli intende l'ermeneutica. Di questo approccio è ulteriore espressione il libro L'incessante meraviglia. Filosofia, espressione, verità (1993). La meraviglia è indubbiamente quello stupore nei confronti dell'esistente che innesca la domanda filosofica; ma è anche lo stupore di fronte al riaprirsi continuo dei «giochi della verità», in quanto connessi ai giochi del linguaggio che sempre di nuovo alimentano l'interpretazione. La pretesa metafisica di una esperienza della verità orientata verso il «trovare» dà così sempre più luogo a una esperienza della verità che si configura piuttosto come un «cercare». Nel cercare il mondo si modella attraverso i segni del linguaggio e si trasmette nelle narrazioni: discorsi che generano discorsi entro i quali la verità, sempre di nuovo, è messa in gioco. Di Natoli va infine ricordata la monografia del 1989, Giovanni Gentile filoso/o europeo; a essa va il merito di aver proposto un'acuta rilettura dell'attualismo alla luce dell'intera vicenda filosofico-politica europea, segnata dalla crisi di una concezione forte della storia che nell'idealismo e nel marxismo ha avuto la sua ultima frontiera. Gentile e la filosofia italiana del primo Novecento vengono così recuperati a una dimensione tutt'altro che secondaria nel paesaggio della filosofia contemporanea. Un analogo riconoscimento è stato avanzato nel libro del giovane studioso Francesco Saverio Chesi, Gentile e Heidegger. Al di là del pensiero, 1992: la posizione filosofica di Gentile, nonostante una terminologia oggi obsoleta, è per molti versi analoga a quella, divenuta molto « di moda », di Heidegger; entrambi frequentano, con pari profondità teoretica, i confini estremi della «storia della metafisica». Umberto Galimberti (n. 1942) insegna Filosofia della storia all'università di Vene179
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zia. Il suo itinerario di pensiero ha preso le mosse da Heidegger e J aspers, autore quest'ultimo di cui Galimberti ha fornito una delle più acute e originali interpretazioni.6 Proprio lo studio di Jaspers ha ispirato a Galimberti un originale cammino di ricerca che da un lato si è caratterizzato come confronto tra filosofia, psicologia e psichiatria (Psichiatria e fenomenologia, 1979), dall'altro, sotto la prevalente ispirazione di Jung, ha suggerito l'analisi delle nozioni di simbolo, di corpo, di anima come luoghi di confine tra ragione e follia, analisi concretatasi in libri di notevole fascino e vigore espositivo oltre che di largo successo (Il corpo, 1983; La terra senza
il male, 1984; Gli equivoci dell'anima, 1987; Il gioco delle opinioni, 1989; Idee: il catalogo è questo, 1992; Parole nomadi, 1994; Galimberti è inoltre autore di un Dizionario di psicologia, 1992). Il procedimento metodico delle analisi di Galimberti si
richiama alla genealogia nietzschiana, ma tiene anche presente la lezione di Severino. La verità dell'interpretare ha infatti la sua radice in quel «rimedio», come Nietzsche diceva, che la filosofia oppone alla esperienza tragica del vivere. Rimedio, si dice in Idee: il catalogo è questo, che segue i precedenti, ma in se stessi fragili, rimedi del mito, della poesia e in generale della credenza negli Dei. « Il passaggio dall'arte alla filosofia, e poi dalla filosofia alla scienza, segue il bisogno di trovare figure di stabilità sempre più solide, forme eternizzanti sottratte al flusso del divenire per difendersi dalla lucida visione del tragico. » Ma il tentativo di costruire, come dice Severino, degli immutabili si scontra con l'esperienza contemporanea della morte di Dio, alla cui luce si snoda « il metodo genealogico inaugurato da Nietzsche », che «smobilita tutte le impalcature logiche che si offrono sotto il segno della durata eterna». Proprio questa esperienza consente di tornare a nozioni come quelle di simbolo o di anima liberi da superstiziose pretese di verità assolute o più profonde, e disponibili invece a vedere in esse luoghi di confine nei quali le verità della ragione prendono coscienza sia della loro precarietà, sia dell'ombra che sempre accompagna ogni cerchio di luce dell'interpretare. «La morte di Dio - scrive Galimberti negli Equivoci dell'anima - dilata i confini dell'anima restituendola a ciò che è: incondizionata apertura al senso. Questa apertura è orientata a un significato che consente al senso di esprimersi di volta in volta in un certo senso. Ma questo senso, nel momento in cui è esposto, è messo in gioco da altri sensi. L'anima allora è quel campo di gioco che, nel momento stesso in cui inaugura un significato, lo espone alla sua erosione. » V
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ICONE
DEL
POLITICO
Il riferimento a Nietzsche e il suo collegamento con Wittgenstein e con la cultura viennese di fine secolo è il tratto originale della proposta teorica di Massimo 6 Si vedano, in particolare, i due volumi Heidegger, Jaspers e il tramonto dell'Occidente, 1975
e Linguaggio e civiltà, 1977.
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Cacciari ed è ciò che rese in breve tempo famoso il suo libro giovanile Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein (1976). Nato nel 1944, Cacciari è stato condirettore di «Angelus Novus », di « Contropiano », di « Laboratorio politico» e ha collaborato con altre riviste come «Classe» e «Nuova Corrente». I suoi interessi culturali da sempre vanno uniti all'impegno politico che lo ha condotto, prima all'elezione a deputato nell'area degli indipendenti di sinistra, quindi alla carica di sindaco di Venezia, la sua città. Negli anni settanta suscitò scalpore che un giovane e brillante esponente della sinistra legata al PCI osasse denunciare spregiudicatamente i limiti e le illusioni del socialismo teorico e reale, propugnando, anche su una stampa tradizionalmente legata alle categorie e all'impostazione del marxismo e del gramscismo, un'apertura a pensatori «borghesi», se non addirittura «reazionari», come Wittgenstein e soprattutto Nietzsche. Questa apertura, già di fatto in corso, appariva alla sinistra ufficiale italiana oggettivamente rivoluzionaria e destabilizzante. 7 La ricerca di Cacciari ha infatti alla base una meditata presa di coscienza della crisi del pensiero dialettico (hegelomarxista), crisi che a suo giudizio non si risolve né nel sogno utopico di nuovi ordini rivoluzionari o di nuovi stati con inedite libertà e verità, né nelle superficiali astrazioni pseudoliberatorie e « avanguardistiche » (« ... né liberazione dalla Legge, né rizomatica follia»). Di qui il compito positivo (niente affatto distruttivo o irrazionalistico) del «pensiero negativo». Con il suo fallimento il pensiero dialettico innesca, accompagna e supporta il pensiero negativo; quest'ultimo però non è un « superamento » di quello (proprio perché ogni logica della hegeliana Au/hebung è dissolta). Così, se Hegel mostrava l'unico possibile concetto «razionale» di libertà (la libertà dalla volontà singola nello stato), il pensiero negativo non indica un altro concetto di libertà; piuttosto vive, senza false illusioni, la dissoluzione di quello, nel tempo in cui la libertà diviene nichilisticamente libertà anarchica della volontà. «Il soggetto, scrive Cacciari in Dialettica e critica del politico (1978), concepisce Libertà, oggi, soltanto attraverso le dialettiche dell'uso, della proprietà - della universale alienazione. Il soggetto - ed è a questo punto ridondante aggiungere moderno - vuole Libertà della Volontà non dalla Volontà. È la deduzione di tale Libertà l'arcano che Hegel affronta. Se esiste Libertà, essa è soltanto cast' deducibile. Ma appunto ciò è impossibile. Non un nuovo metodo della liberazione indica allora il pensiero negativo - ma l'irrisolvibile contraddizione dell'idea di Libertà, in quanto Libertà della Volontà -l'impossibilità di riscattare-revocare l'alienazione nichilistica. » In questo senso va letta la cosiddetta «grande politica» dell'ultimo Nietzsche, che non è liberazione dal politico (come nel pessimismo ateo o religioso di Schopenhauer e di Kierkegaard): «La grande Politica è anzitutto una decisione di rinunzia. Decisione è rinunzia. Decidere
7 Si veda, per esempio, il breve ma significativo saggio del 1978, Dialettica e critica del politico. Saggio su Hegel, che è una sorta di appendice
a Krisis, e anche il libro del 1977, Pensiero negativo e razionalizzazione.
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è dividersi dalla possibilità di rappresentare il tutto. La grande Politica decide cioè rinunzia a valere come forma anni-rappresentativa- rinunzia a esibire un télos, in grado di produrre l'armonia, la conciliazione dei soggetti - rinunzia a ogni pretesa di fondazione onto-teo-teleologica. » Così la politica che consegue dal lavoro del pensiero negativo «è per chi rinunzia, e non si consola della rinunzia». Queste ultime parole ci sembrano una chiave decisiva per comprendere sia l'azione e l'evoluzione politica di Cacciari, sia i successivi orientamenti del suo pensiero, che impropriamente è stato spesso letto come un passaggio e un cedimento a istanze irrazionalistiche di tipo religioso. Dopo Dallo Steinho/f Prospettive viennesi del primo Novecento (1980), libro in cui Cacciari rivela il meglio della sua abilità saggistica nel mostrare la compresenza nella cultura viennese (nei suoi uomini «postumi», per usare una espressione di Nietzsche) di un'inguaribile angoscia e di una limpida consapevolezza della fine e delle ragioni della fine, la trilogia che si apre con Icone della legge (1985), prosegue con L'Angelo necessario (1986) e si conclude con il trattato Dell'Inizio (1990), vera e propria « summa » del pensiero cacciariano e opera tra le più significative degli ultimi anni sul piano teorico, sintetizza, nei tratti generali, l'evoluzione di C acciari dal pensiero negativo a una più personale proposta. Al centro di Icone della legge è la figura di Kafka, alla quale il libro dedica pagine memorabili. Con Kafka si chiude, secondo Cacciari, l'epoca della « interpretazione edificante e consolante come perpetuazione-conservazione del senso del testo, della originarietà del testo, l'interpretazione come ripresentazione dell'origine». L'origine, la «Legge», ha una necessità che è estranea alla verità logica. Coloro che continuano a interpretare «non vedono che il gioco delle interpretazioni non può essere interpretato come tradizione del Vero. Esso prescinde da questi rapporti di corrispondenza, che dominano, appunto, invece, nella forma logica del giudizio». Sicché «il gioco di traduzionetradizione-tradimento che domina la storia e il destino dell'interpretare nulla ha a che fare con il Testo. O meglio: il disperare del Testo produce il vortice delle interpretazioni - in ciò consiste l'unico rapporto tra l'inalterabile, improducibile, nascosta dimensione del Testo e l'esserci dell'interpretazione». Da questa tematica di ispirazione kafkiana il percorso del libro si allarga a tessere corrispondenze e opposizioni preziose e illuminanti (Schmitt, Rosenzweig, Malevic, Mondrian, Klee) che disegnano «l'idea di un universo come rete, composta da fibre infinite, innervata da una trama di rapporti impercettibilmente prossimi l'un l'altro, da nessuno intessuta, universale modello senza Creatore e senza Legislatore o Mente che lo regoli, ma organismo che opera secondo un ordine proprio, da nessuno impartito». È a partire da questo sfondo che emerge la figura «necessaria» dell'angelo, metafora di un ordine indicibile proprio perché circonda, wittgensteinianamente, il mondo del dicibile, emblema dell'altrove del deserto e dal deserto (a Rosenzweig si affianca qui Benjamin). «L'angelo, scrive Cacciari, testimonia il mistero in quanto mistero, trasmette l'invisibile in quanto invisibile, non lo "tradisce" per i sensi.» È con Dell'i!82
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nizio, infine, che tutte le molteplici avventure, tutti gli incontri del peregrinare speculativo di Cacciari trovano il loro fuoco risolutore in un'opera dalle inconsuete ambizioni che qui non è possibile analizzare a fondo. Basti ricordare che il libro, affrontando il tema dell'origine e della legge nella forma della più tradizionale e fondamentale domanda filosofica, quella relativa appunto all'inizio, al cominciamento, si impegna nel contempo a uno svolgimento parallelo secondo il modello delle tre forme espressive classiche della filosofia: il dialogo, il trattato e l'aforisma. Con questo calcolato arcaismo Cacciari manifesta la sua peraltro comprensibile e condivisibile disistima nei confronti di troppo facili « superamenti » della tradizione filosofica, superamenti che in realtà quella tradizione non hanno mai veramente inteso o adeguatamente frequentato. Per altro verso il « come pensare » messo in atto qui da Cacciari abbandona, dopo un lungo corpo a corpo, quel « lavoro del concetto » che ha nella logica di Hegel il suo culmine, per recuperare e riproporre una tradizione di stampo platonico e neoplatonico, in cui, si potrebbe dire, si conclude e si completa il pensare negativo degli anni giovanili. La tradizione platonica evocata da Cacciari muove dai paradossi del Parmenide di Platone per ripercorrere una linea di discendenza attraverso autori come Proclo, Damascio, Scoto Eriugena, Eckhart, Cusano, Schelling. In tal modo l'interrogazione e interpretazione filosofica viene vigorosamente condotta a riconfrontarsi non soltanto con la metafisica, ma anche con la teologia, nella impossibilità di affrancare i temi dell'origine e dell'inizio dalla ipoteca teologica, ma anche nella consapevolezza che tale ipoteca non è che il segno reiterato di una impossibilità e di un necessario fallimento. Sicché il pensare cacciariano si potrebbe sintetizzare come una meditazione del limite e sul limite: non un pensare che oggettiva la soglia, ma che sta sulla soglia, operando mediante una rinnovata «dialettica negativa» (o teologia negativa) di neoplatonica memoria. n libro pubblicato nel 1994, Geo-filosofia dell'Europa, 8 ripropone direttamente il tema politico, che Cacciari non ha smesso di affrontare in varie sedi, a cominciare dalla rivista «Il Centauro», alla quale ha collaborato con Biagio De Giovanni, Giacomo Marramao, Roberto Esposito e altri. Ripensare l'origine dell'idea di Europa significa qui, per Cacciari, ripensare che il destino e il compito che le sono propri coincide con la sua natura di terra del tramonto, sicché il tramontare è da sempre il suo compito. Tramontare non significa né venire alla fine, né ridursi alla spettrale vocazione, patrocinata da alcuni odierni cultori dell'ermeneutica, del mero ricordo e della pura conservazione museale secondo una mortuaria «pietà» nei confronti del passato. In questo modo l'Europa dimentica la propria essenza e la propria verità, che fu sin dall'inizio uno sperimentare l'esilio e la patria assente, attraverso dialettiche opposizioni come quelle tra la terra e il mare, la legge e lo sradicamento, la guerra e la pace, l'Oriente e l'Occidente. L'Europa è così la metafora stessa della 8 Nel frattempo Cacciari ha pubblicato all'e· stero Zeit ohne Kronos, 1986; Drama y duelo, 1989;
Dran. Méridiens de la décision dans la pensée con· temporaine, 1992; Architecture and nihilism, 1993.
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soglia, del luogo della dispersione delle differenze: niente di assoluto e di consistente in sé, ma sempre qualcosa di particolare che trae la propria immagine relativa da un altro particolare rispetto al quale si distingue. In questo riconoscimento delle differenze e dell'essere differenza tra le differenze l'Europa ha ancora il suo compito in una promessa e congettura di pace realisticamente perseguita. La riflessione politica di Cacciari ha interagito con altre posizioni teoriche cui è opportuno qui almeno accennare. Anzitutto con l'opera di Giacomo Marramao (n. 1946), professore di Filosofia della politica all'Istituto Orientale di Napoli, di Filosofia morale a Roma e direttore della Fondazione Lelio Basso. Nelle sue numerose opere (Il politico e le trasformazioni, 1979; Potere e secolarizzazione, 1983; I: ordine disincantato, 1985; Minima temporalia. Tempo spazio esperienza, 1990; Kairos. Apologia del tempo debito, 1992; Cielo e terra. Genealogia della secolarizzazione, 1994) Marramao analizza la categoria del « moderno » nelle sue più tipiche determinazioni concettuali, quali il progresso, la rivoluzione, la liberazione, nozioni che mettono tutte in causa una particolare maniera di intuire e vivere il tempo. E proprio questo mutamento essenziale della visione del tempo nel mondo moderno conduce al fenomeno della « secolarizzazione » della società e della politica, fenomeno del quale Marramao è in Italia lo studioso più illustre. Non è nostro intento esaminare qui il pensiero storiografico e politico italiano contemporaneo, ma l'opera di Marramao contiene anche proposte più generali di carattere teoretico cui conviene far cenno. Innanzi tutto va segnalata proprio la riflessione sul tempo che motiva, sia in Minima Temporalia sia in Kairos, una serrata critica alla nozione heideggeriana di temporalità. Marramao chiama a testimonianza sia la tradizione della metafisica classica, sia le moderne concezioni fisiche del tempo per concludere con l'originale proposta di un tempo inteso come ciò che è dovuto, che è « debito», nei confronti di una alterità cui la morte con radicalità estrema e irrevocabile ci consegna; tempo della contingenza propizia che dà luogo a ogni identità personale e sociale sicché è a uno spazio-tempo che bisogna piuttosto pensare, o a un aver-luogo, per cogliere il fenomeno del tempo nel suo carattere originario di evento. È del resto a questa contingenza accettata e responsabilmente vissuta che Marramao affida anche il suo messaggio politico, volto a restituire alla sinistra europea un'azione efficace e razionalmente fondata. Di tutt'altro segno è invece la proposta teorico-politica di Salvatore Veca (n. 1943), allievo di Enzo Paci, docente di Filosofia della politica nelle università di Milano, Firenze e Pavia, presidente della Fondazione Feltrinelli. Dopo una prima fase di studi influenzata dalla fenomenologia (di cui è espressione l'importante saggio Fondazione e modalità in Kant, 1969) e poi dalla riflessione sul marxismo degli anni settanta (Saggio sul programma scientifico di Marx, 1977), Veca ha preso partito per una ricerca sulla politica legata ai temi del contrattualismo guardando per un verso a Norberto Bobbio e a John Rawls (del quale è il principale interprete in Italia), per un altro a Isaiah Berlin e più in generale alla tradizione dell'utilitarismo
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e dell'empirismo anglosassoni (Le mosse della ragione. Scritti di filosofia e politica, 198o; La società giusta. Argomenti per il contrattualismo, 1982; Una filosofia pubblica, 1986; Etica e politica, 1989; Cittadinanza. Riflessioni filosofiche sull'idea di emancipazione, 1990; Questioni di giustizia. Corso di filosofia politica, 1991; Europa universilas. Tre saggi sull'impresa scientifica europea 1993, in collab. con G. Giorello e T. Regge). Non è possibile svolgere qui un'analisi adeguata di tematiche che esulano dagli intenti del presente capitolo, ma la proposta di Veca di una «filosofia civile» o «pubblica» comporta prospettive di respiro speculativo che vale la pena se non altro di sottolineare. Anzitutto la presa di posizione secondo la quale dei «valori » si può e si deve discutere razionalmente delineata in particolare in Le mosse della ragione, testo in cui, partendo dall'orizzonte di pensiero del marxismo classico, Veca viene via via volgendo il suo discorso a un approdo neorazionalistico. « La crisi delle "certezze" classiche, scrive Veca, implica semplicemente che si operi con certezze provvisorie e revoca bili. » L'essenziale è avviare quelle « trasformazioni » di cui la società democratica ha urgente bisogno. Ma ogni trasformazione non pone in campo solo il problema del «come», bensì anche quello del «perché», cioè a quale fine si cambia, per chi e con chi. E qui l'analisi, dice Veca, non può (e non deve) evitare i problemi più schiettamente filosofici. Sicché l'analisi di Veca investe due stadi distinti e complementari: quello, si potrebbe dire, della sintassi sociale (il «contrattualismo» è oggi un'impresa di raffinata «ingegneria sociale», più che un fatto fondato sulla «naturale» socievolezza dell'uomo, come dicevano i contrattualisti classici); e quello della semantica sociale, dove sono appunto in gioco i fini e i valori e dove è preferibile il più ampio pluralismo delle opzioni e delle proposte. Scrive Veca in Una filosofia pubblica: « [. .. ] L'idea centrale che suggerisco è quella di una concezione di giustizia sociale a due stadi che combini il nucleo di una versione contrattualista, centrata sullo spazio dei bisogni di cittadinanza (stadio "costituzionale"), con il nucleo di una versione pluralista, centrata sullo spazio dei beni o dei meriti individuali (stadio "post-costituzionale") ». Una siffatta combinazione non può mai ritenersi attinta una volta per tutte; essa funziona piuttosto come un'idea regolativa o, se si preferisce, come una consapevole utopia. «La mia idea, scrive Veca, è che sia possibile, plausibile e non futile dare coerenza a un nucleo condiviso di credenze morali e di giudizio politico che modelli (almeno in teoria) i criteri di riforma sociale e informi una ragionevole utopia di valore politico, generata dalla tensione essenziale, ricorrente e quasi ciclica, fra liberalismo e socialismo. » Il lavoro dell'ultimo decennio di Veca si potrebbe pertanto riassumere nella formula: «un'etica per la politica», dove l'etica è intesa come l'elaborazione di una « ragion pratica condivisa » che fondi e legittimi il pluralismo politico democratico e le sue necessarie istituzioni e trasformazioni miranti a un'adeguata giustizia distributiva. Il tema del pluralismo e della difesa dei diritti delle minoranze è elemento non secondario della ricerca epistemologica di Giulio Giorello (n. 1945). Allievo di Geymonat e docente di Filosofia della scienza all'università di Milano, Giorello è il più
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profondo conoscitore in Italia dell'opera di Feyerabend. In certo modo le riflessioni epistemologiche di Giorello (si veda in particolare Lo spettro e il libertino. Teologia, matematica, libero pensiero, 1985; La filosofia della scienza nel xx secolo, in collaborazione con D. Gillies, 1995) mostrano una derivazione dall'anarchismo feyerabendiano in quanto considerano congruo con lo spirito genuino della ricerca scientifica non l'esclusività del metodo razionale, deduttivo o empirico che sia, ma anzi un atteggiamento di tolleranza estrema che lasci sussistere le opzioni più diverse. D'altronde, l'indagine storico-epistemologica, che Giorello conduce in modo suggestivo, mostra che la storia della scienza non è affatto governata da monolitici principi metodologici, ma anzi dalle più imprevedibili «contaminazioni» e avventure, dalle quali sovente derivano aperture geniali e frutti positivi. Un discorso a parte esige infine l'opera di Giorgio Agamben (n. 1942), in cui l'impegno politico è fortemente presente accanto a motivi teorici di notevole originalità e suggestione. Professore di Estetica all'università di Verona, Agamben è uno dei più fini saggisti e studiosi di problemi estetici di questi decenni. Curatore della edizione italiana di Benjamin, Agamben è autore di libri di notevole successo come Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale (1977 ); Infanzia e storia (1978 ); Il linguaggio e la morte (1982); Idea della prosa (1985). Già in Infanzia e storia, rilevando la progressiva elisione della capacità di fare esperienza nell'uomo contemporaneo (« Messa di fronte alle più grandi meraviglie della terra - poniamo, il patio de los leo n es nell' Alhambra - la schiacciante maggioranza dell'umanità si rifiuta oggi di farne l'esperienza; preferisce che, a farne l'esperienza, sia la macchina fotografica»), Agamben si propone di «preparare il luogo logico» in cui quel germe di un'esperienza futura, che pure possiamo pensare sia racchiuso nell'atteggiamento presente, giunga a maturazione. Luogo logico che in scritti successivi si è venuto declinando in modi originali e inconsueti (La comunità che viene, 1990; Bartleby, la formula della creazione, 1993; I.:uomo senza contenuto, 1994; Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, 1995). Nella «comunità che viene» (sottinteso richiamo alla espressione benjaminiana «la filosofia che viene») Agamben delinea la possibilità di uno scarto « epocale » in forza del quale venga per così dire aggirato e trasformato il tradizionale rapporto tra universale e individuo, inteso quest'ultimo non come sostanza determinata, individuata dalla forma, ma come «l'essere qualunque», quodlibet ens. Ma che significa quodlibet? Non «l'essere non importa quale», ma l'« essere che comunque importa», l'« essere qual-si-voglia», dove emerge il riferimento alla volontà e al desiderio, e cioè infine all'amore; poiché l'amore «vuole la cosa con tutti i suoi predicati, il suo essere tale qual è. Esso desidera il quale solo in quanto è tale. » L'individualità si scinde così dalla sua soggezione al concetto, cioè dalla appartenenza a una proprietà comune, e di conseguenza la « comunità che viene» lascia cadere l'accomunarsi per un'identità (come l'essere italiano, musulmano, comunista); si tratta invece di pensare una comunità «formata da singolarità qualunque, che vogliono appropriarsi della appartenenza stessa e declinano, perciò, 186
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ogni identità e ogni condizione di appartenenza». Comunità che si lascia alle spalle «il mondo della colpa e della giustizia» e che, per così dire, viene alla luce nel nuovissimo giorno dopo il giudizio finale (« Ma la vita che comincia sulla terra dopo l'ultimo giorno è semplicemente la vita umana»). Vita nella quale il linguaggio, tema sin dall'inizio prediletto nella riflessione di Agamben, non è più preso nell' antinomia dell'individuale e dell'universale, essa stessa aggirata nella forma dell'« esempio». Infatti l'esempio vale per tutti i casi dello stesso genere e nel contempo è incluso tra essi; sicché, «né particolare né universale, l'esempio è un oggetto singolare», un oggetto che «mostra la sua singolarità» (fondando, come è chiaro, una nuova possibilità etica). Questa possibilità è in gioco nella esperienza politica contemporanea in cui la vita naturale stessa dei cittadini, la loro «nuda vita» è in questione ed è divenuta il «corpo», l'habeas corpus dell'azione politica, come Agamben mostra nel suo ultimo libro in cui le categorie politiche della contemporaneità sono pensate a partire dai campi di sterminio sino alla guerra civile nella ex Iugoslavia («Il campo di concentramento si presenta sempre più come il paradigma biopolitico nascosto della modernità »). VI
· DAL
RACCONTO
ALLA
TOPOLOGIA
Dopo aver richiamato per grandi linee i percorsi speculativi di alcuni dei protagonisti della ricerca teorica in Italia in quest'ultimo quarto di secolo bisogna convenire che la preoccupazione di Vattimo già richiamata - l'ermeneutica sta diventando un punto di riferimento comune a un così gran numero di prospettive da rischiare la genericità e alla fine l'insignificanza - è a suo modo sensata. Vista nell'insieme, la produzione filosofica attuale è certo di una raffinatezza culturale che non teme confronti con il passato recente e meno recente; tuttavia si ha anche l'impressione di un'indefinita variazione dell'identico, che si potrebbe esprimere un po' drasticamente così: la verità non ha altro luogo dall'interpretazione (comunque intesa), il che equivale ad ammettere che la verità non ha più luogo (il solo Severino sembra voler sfuggire a questo assunto, ma altra cosa è convenire che possa farlo, il che non pare siano in molti a concederlo). Varie sono le risposte alla questione di cosa si debba intendere per interpretazione. Più o meno tutti hanno presente il prospettivismo nietzschiano e il circolo ermeneutico heideggeriano, cui si affiancano o la semiosi illimitata di Peirce, o i giochi linguistici di Wittgenstein, o le pratiche discorsive di Foucault, o gli orizzonti linguistici più o meno «fusi» di Gadamer, o infine le ragioni dello storicismo che ha in Hegel i suoi presupposti e, per esempio, in Dilthey i suoi sviluppi. In effetti, la profezia di Foucault (non facciamo che cercare di sfuggire a Hegel, il quale, regolarmente, ci aspetta beffardo un po' più in là) sembra quanto mai azzeccata. C'è naturalmente modo e modo di sfuggirgli o di cercare di farlo. La deprecabile genericità e ingenuità dei « debolisti » non si può porre sullo stesso piano delle memorabili rese dei conti di un Cacciari, dello stesso
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Severino, o, come vedremo, di Vitiello e di altri. Resta il fatto che nessuno vuoi più saperne della «dialettica» e del «concetto», il che comporta l'onere di trovare altre maniere di «ragionare» in un modo che sia, come Vattimo sembra da ultimo pretendere, effettivamente o specificamente «filosofico». Una delle tentazioni ricorrenti è quella di «mandare a quel paese» il ragionare, magari assumendo come alibi il pensiero «poetico» dell'Heidegger della «svolta». Non vi è dubbio che vi sia una « estetizzazione » diffusa del pensiero (che ha persino investito l'austera regione dell'epistemologia e della filosofia della scienza); del resto Vattimo e Cacciari vengono entrambi da studi e interessi estetici. Ma a questi nomi ne vanno subito aggiunti diversi altri assai autorevoli e non meno rappresentativi. Stiamo pensando, per esempio, a Mario Perniola (n. 1941), allievo di Pareyson (a sua volta autorevole studioso di problemi estetici), professore di estetica all'università di Roma e autore di saggi fortunati e vivaci, oltre che sicuramente significativi, da La società dei simulacri (1980) a Transiti. Come si va dallo stesso allo stesso (1985) a Enigmi. Il momento egizio nella società e nell'arte (1990). Il simulacro, dice Perniola, «non è un'immagine pittorica, che riproduce un prototipo esterno, ma un'immagine effettiva che dissolve l'originale»; così l'immagine è oggi indistinguibile dal reale. Analogamente si può dire del «transito», il quale allude a una società nella quale il movimento conta più di ciò che si muove, la comunicazione più di ciò che è comunicato, sicché la « cosa » si riduce totalmente alla sua performance. Perniola ci fornisce in proposito analisi di straordinaria efficacia ed evidenza: l'attuale rapporto tra società e cultura ne viene illuminato con una sagacia disincantata e spregiudicata che non ha l'eguale nella cultura italiana (si vedano in particolare Del sentire, 1991; Più che sacro, più che pro/ano, 1992; Il sex appeal dell'inorganico, 1994). Inoltre Perniola ha più di una ragione nel ricondurre una buona parte dei fenomeni della nostra contemporaneità non al solito e spesso sovradeterminato modello della Grecia, ma alla società romana antica e alle moderne opzioni della mentalità gesuitica e controriformistica dell'età del barocco. L'« effetto egizio» che ne deriva è l'inversione per la quale gli uomini diventano sempre più simili alle cose e viceversa il mondo inorganico, utilizzato dalla tecnologia elettronica, si sostituisce all'uomo (già Agamben, si ricorderà, notava come il turista affidi sempre più alla macchina fotografica il compito della percezione). Da queste analisi, che si potrebbero definire spietate, se non addirittura tali da suscitare nel lettore un motivato disgusto per l'epoca nella quale deve riconoscere di trovarsi a vivere, non si passa peraltro a un convincente antidoto. Perniola oscilla tra l' accettazione del reale com'è (si veda Dopo Heidegger. Filosofia e organizzazione della cultura, 1982) e la formulazione di vaghi propositi «illuministici», miranti a una modificazione strumentale e « realistica » dei rapporti tra cultura e società, arte e vita quotidiana. In Stefano Zecchi (n. 1945), allievo di Enzo Paci e di Dino Formaggio, professore di Estetica all'università di Milano, autore di finissimi saggi e conoscitore 188
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profondo di Goethe e in generale della cultura tedesca, 9 l'atteggiamento estetizzante volge nella direzione opposta di un rifiuto, non certo immotivato, dell'attualità delle «avanguardie» e delle loro conformistiche follie. In La bellezza (1990), libro-manifesto che ha raccolto intorno a sé poeti, artisti, uomini di cultura e che ha ispirato varie iniziative pubbliche, Zecchi propone esplicitamente di «uscire dal Novecento» e cioè da una cultura che ha emarginato ideologicamente il bello. L'auspicio è quello di un ritorno a una cultura simbolica che restituisca all'esperienza della bellezza il suo valore di verità. « L'esperienza della bellezza, scrive Zecchi, è una conoscenza che il nichilismo di questo secolo ci ha negato», relegandola nel decorativo e nel fatuo e così di fatto escludendola « dai processi di formazione sociale». «A ciò ha // collaborato, continua Zecchi, anche l'abuso in discriminato dell'ermeneutica, a cui abbiamo assistito in questi anni, come alternativa alla crisi della filosofia che si interroga sui fondamenti e che ricerca le strutture della razionalità, un abuso che ha sistematicamente interferito nella presentazione dei fenomeni stessi, appiattendo o cancellando la loro valenza simbolica e metaforica. » Bisogna dunque tornare alla bellezza, intesa come una «forma simbolica», non però nel senso della serena impassibilità apollinea: «La legge di Apollo è stata sconfitta: Ermes il suo erede chiamato a testimoniare la verità della bellezza e la possibilità della forma, dopo la fine della classicità. » Ermes, quindi di nuovo l'ermeneutica (Zecchi pensa in particolare a un ritorno alla cultura preromantica, che è «l'unica, vera cultura d'avanguardia della modernità »). Al romanticismo sono in molti a guardare. Sergio Givone (n. 1944) ne è studioso tra i più acuti. Allievo di Pareyson e professore di Estetica presso l'università di Firenze, è autore tra l'altro di Hybris e melancholia. Studi sulle poetiche del Novecento Ù972); Ermeneutica e romanticismo (1983); Dostoevskij e la filosofia (!983); Storia dell'estetica (1988), e infine di una profonda e molto fortunata Storia del nulla (1995). Tra gli allievi di Pareyson, Givone è colui che ha sviluppato un itinerario di pensiero in più diretta continuità con quello del maestro. Basterebbe a testimoniarlo la sua lettura di Dostoevskij, in cui il problema del male diviene «tragedia divina», coinvolta nel dramma nichilistico della libertà: temi sui quali già Pareyson non aveva cessato di interrogarsi. 10 Come già Cacciari e poi Vitiello, con i quali, insieme a Sini, dirige la rivista «Paradosso», Givone privilegia l'ispirazione neoplatonica arricchendola delle componenti mistiche del pensiero cristiano, secondo cui i problemi della libertà e del nulla si compenetrano. La verità non è allora il suggello del rapporto tra la ragione e l'essere, o tra l'essere e il pensiero; la verità è piuttosto pensata come rivelazione e appunto come rivelazione del nulla. L'origine, il principio (la creazione divina), infatti, «è al di là di ogni cosa e quindi è, di ogni cosa che
9 Si veda, per esempio, il volume La magia dei saggi, 1984. ro Si veda il saggio pareysoniano Filosofia
della libertà, testo della lezione di congedo tenuta all'università di Torino il 27 ottobre 1988, pubbJi. cato nel 1989.
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è, to meden (il niente)». 11 La verità del principio così inteso «non è quella che chiede l'assenso secondo necessità, ma quella che libera dall' orditura necessitante di Logos (il tessitore). Non è quella che vincola all'essere, che è com'è né può essere altrimenti, bensì quella che lascia essere l'essere stesso a partire dal nulla. Dunque: a partire dalla libertà ... ». Libertà che affetta peraltro la creazione del suo nulla e del suo male, donde il dramma cosmico della caduta e della redenzione in cui Dio «espia» la sua « colpa» sacrificandosi, cioè sacrificando il Figlio, l'agnello che è in lui. Al di là di queste vedute apocalittiche, più accessibili a una coscienza religiosa che non a una coscienza semplicemente filosofica, resta il fatto che la negatività originaria del principio, qui richiamata da Givone, è la trama segreta dell'ermeneutica heideggeriana, della sua « teologia negativa » (sebbene Heidegger vi si rifiutasse già in Essere e tempo, con argomenti peraltro poco persuasivi, così come poco convincente è l'analogo rifiuto opposto da Derrida a leggere, nella sua Grammatologia, la nozione di architraccia in termini appunto di teologia negativa). Il che significa che aveva ragione il vecchio Pareyson a rivendicare lo Schelling dello « stupore della ragione» come il nascosto fondamento del pensiero ermeneutico contemporaneo e del suo tentativo di sfuggire a Hegel. In tema di «stupori» non è superfluo allora notare come anche Enzo Paci abbia in ultimo evocato una sorta di «stupore incoercibile » nei confronti del ricorrente prevalere del male nelle umane cose. Paci si riferiva alle vicende del socialismo reale e richiamava altresì il Parmenide di Platone, sicché le due grandi scuole rivali, quella di Pareyson a Torino, ispirata a Schelling e a Heidegger, e quella di Paci a Milano, ispirata a Marx e a Husserl, si trovano infine a convenire in un bilancio pessimistico nei confronti dei poteri della ragione. 12 Abbiamo accennato alla sempre più diffusa tentazione di sfuggire alla crisi irreversibile della ragione sperimentando nuovi luoghi espressivi per la filosofia, sino a tentare un'irruzione nel campo narrativo e letterario (del resto la forma della « narrazione», anche sulla scorta di Ricoeur, viene da più parti invocata, come già ci è capitato di ricordare, quale struttura portante ultima della tradizione dei saperi). Capita così che uno studioso come Emilio Garroni (n. 1925), professore di Estetica presso l'università di Roma, autore di opere di notevole spessore teorico-critico sulla semiotica e sulla tradizione del trascendentalismo kantiano (Semiotica ed estetica, 1968; Progetto di semiotica, 1973; Ricognizione della semiotica, 1977; Senso e paradosso, 1986; Estetica. Uno sguardo attraverso, 1992), venga infine attratto dalla formaromanzo per esprimere il proprio originale contributo di idee (Dissonanzen-Quartett. Una storia, 1990; Racconti morali o Della vicinanza e della lontananza, 1992; Sulla morte e sull'arte. Racconti morali, 1994). In questa direzione il caso che più n Il nulla e la tradizione mistica. Tra metafisica e arte, in «Paradosso>>, n. 7, 1994. u Si veda AA.vv., Vita e verità. Interpretazione del pensiero di Enzo Paci, a cura di S. Zecchi, 1991, p. 152; si veda anche l'importante contributo di
Valerio Verra, che apre il volume, Fenomenologia ed enciclopedia in Enzo Paci, per il tema del rapporto tra sapere enciclopedico « aperto >> e ragione fenomenologica, di cui ci siamo occupati nel paragrafo 3 a proposito di Rovatti e di Eco.
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ha fatto scalpore, suscitando l'interesse e il gradimento di un vasto pubblico, è quello del già ricordato Aldo Giorgio Gargani, professore all'università di Pisa e massimo studioso di Wittgenstein, della cultura viennese e in particolare dell'opera di Thomas Bernhard, dal quale, oltre che dal « pensiero raccontato » di Ingeborg Bachmann, 13 il suo stile narrativo ha tratto evidente ispirazione. Oltre alle opere già citate, di Gargani ricordiamo qui Wittgenstein tra Austria e Inghilterra (1979); Lo stupore e il caso (1986); Sguardo e destino (1988); I:altra storia (1990); Il testo del tempo (1992); Il coraggio di essere. Saggio sulla cultura mitteleuropea Ù992); Stili di analisi. L'unità perduta del metodo filosofico (1993). In quest'ultimo libro Gargani argomenta diffusamente la scelta narrativa che ha fatto soprattutto la fortuna di Sguardo e destino e I:altra storia: in questi testi egli inaugura un «nuovo genere letterario » in cui riflessioni filosofiche, confessioni autobiografiche più o meno reali e vicende di personaggi di libera invenzione disegnano quell'altra storia più profonda e segreta che accompagna l'esistenza pubblica e ufficiale di ognuno di noi e ne segna il destino. Bisogna, dice Gargani, riscoprire l'« attrito del pensiero», al di là della codificazione di metodi generali del sapere. Da tempo si è compreso che non ha senso ricondurre tutti i saperi sotto un'unità generale di metodo, sicché si riconoscono varietà di paradigmi, molteplicità di prospettive, reti imprevedibili di interpretazioni; tuttavia queste stesse categorie rischiano di irrigidire di nuovo la conoscenza e l'esperienza, se non riconosciamo che dietro di esse stanno le operazioni viventi dei soggetti che le pongono in opera. Sembrerebbe un assunto molto vicino al tema fenomenologico della soggettività, ma Gargani preferisce piuttosto riferirsi alle « forme di vita » di Wittgenstein o al modo in cui Rorty ha interpretato la svolta linguistica che ha caratterizzato la cultura del nostro secolo (e in effetti Gargani mostra spesso una certa vicinanza alle tesi del pensiero debole). Ne deriva un differente approccio al problema della verità: «Ciascuno ha scoperto - scrive Gargani nel Testo del tempo - che la nostra vita non si giocava esclusivamente sull' alternativa tra il vero e il falso, e nemmeno sulla rigorosa ed esasperata ricerca della verità perché a un certo punto, dopo aver scoperto che un'argomentazione semplicemente rigorosa è insignificante, ha alzato gli occhi e ha scoperto che al di là della verità c'era un'esigenza assai più importante che era quella del senso della verità. » Di qui dunque il passaggio « dalla verità al senso della verità», per il quale «l'essere da cosa che era diviene ora interpretazione, cioè l'illuminarsi di aspetti delle cose e anche la reversibilità poetica dei fatti e degli accadimenti ». Questo «salto nell'inverificabile » si sostanzia delle storie di vita, nostre e altrui, che hanno la loro più vera realtà nell'esigenza di raccontarle a noi stessi e agli altri, attraverso una parola « che si stacca dal linguaggio di codice e che sorge dalla solitudine di ciascuna persona, da quello spazio vuoto che la letteratura, la poesia e la psicoanalisi sono andate a occupare, compiendo l'isolamento inaudito della parola e asse13 Si veda di Gargani Il pensiero raccontato. Saggio su Ingeborg Bachmann, 1995.
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gnando a essa nella sua intransitività la chiave della propria decifrazione» (Ibidem). La nostra forma di esistenza e il nostro destino sono così affidati a una « indecidibilità » di fronte alla quale può essere fruttuoso condurre l'intenzionalità filosofica: «non si tratta naturalmente né di scetticismo, né di relativismo, ma del riconoscimento di un intreccio polivalente di significati e di aspetti delle cose e degli eventi, dunque di qualcosa e non di nulla, al quale siamo esposti dal momento in cui abbiamo deciso di ascoltare di più e di asserire di meno» (Ibidem). Al di là degli intenti generosi e profondi che lo guidano, questo itinerario, come Gargani per primo sa bene, si scontra fatalmente con paradossi e oscurità appunto « in decidibili » (poiché il « senso » della verità invocato cade immediatamente al di là del suo vissuto ineffabile, non appena tenta di dirsi in modi autoconsistentemente argomentabili, modi nei quali ritrova, come già diceva Merleau-Ponty, i paradossi classici e più tradizionali della filosofia). Sicché l'efficacia del «pensiero raccontato» di Gargani sta tutta da un lato nella sua capacità di evocazione e di partecipazione «poetica» (dove lo specifico della pratica filosofica infine dilegua entro la forma letteraria), dall'altro nella sua capacità di riportare l'intenzionalità filosofica di fronte alla autenticità problematica dell'esistenza vissuta, che è innegabilmente il terreno primo della domanda e dell'esigenza filosofiche. Tutt'altro tipo di «racconto» è quello che ispira la topologia di Vincenzo Vitiello, che si declina come una rilettura «forte» della tradizione e del «testo» filosofici quanto mai lontana dagli esiti e dalle movenze del pensiero debole. In questo programma di recupero della argomentazione filosofica, e in particolare della sua tradizione critica e aporetica di stampo platonico e neoplatonico (di cui il modello privilegiato è il Parmenide di Platone), si inscrive la collaborazione di Vitiello con Cacciari e Givone nella iniziativa della citata rivista «Paradosso». Nato nel 1935, formatosi all'Istituto Croce di Napoli, Vitiello insegna filosofia teoretica all'università di Salerno. Dopo Storiogra/ia e storia nel pensiero di Benedetto Croce (1968), Vitiello ha lungamente meditato la lezione di Kant, Hegel, Nietzsche e Heidegger (Heidegger: il nulla e la fondazione della storicità, 1976; Dialettica ed ermeneutica: Hegel e Heidegger, 1979; Utopia del nichilismo. Tra Nietzsche e Heidegger, 1983; Ethos ed eros in Hegel e Kant, 1984; La palabra hendida, 1990; Bertrando Spaventa ed il problema del cominciamento, 1990), giungendo infine a mettere a fuoco la sua più personale proposta in alcuni libri recenti di rilevante spessore teoretico (Topologia del moderno, 1992; La voce riflessa. Logica ed etica della contraddizione, 1994; Elogio dello spazio. Ermeneutica e !apologia, 1994; Cristianesimo senza redenzione, 1995). È soprattutto sulla proposta « topologica » che è qui possibile concentrarci; essa eredita e riassume in sé un lungo cammino critico in cui Vitiello si è segnalato per l'originalità, spesso « spiazzante » rispetto ai modi più diffusi di lettura e di sistemazione storiografica, delle sue interpretazioni. Del resto il tema topologico emerge apertamente a proposito della querelle sul «moderno», della quale Vitiello respinge gli storicismi e gli storiografismi conformistici e acritici. Infatti la topologia è anzi-
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tutto il rifiuto di considerare il tempo come dimensione «in sé» garantita e valevole anche al di fuori delle categorie filosofiche (che in realtà quella dimensione hanno aperto e fondato). Ciò significa che il moderno non è da considerarsi un'« età» della storia tra altre. Esso è piuttosto uno strato e una dimensione dell'interpretare, cioè una figura (un topos) e quindi un luogo a suo modo eterno e tuttavia mutevole, ciò per cui, esemplifica Vitiello, «Agostino e Hegel abitano lo stesso topos: il luogo etico della conciliazione, del sillogismo, della rivelatività dell'Essenza o della originarietà del Verbo [. .. ] il "luogo" di Plotino e di Schelling (abita invece) il topos del giudizio e della separazione dal Profondo che resta in sé chiuso». Emerge così il movimento non lineare della storia e la natura stratificata, catastrofica, del tempo che caratterizza i mondi storici. La topologia transita entro queste « catastrofi » come «discorso secondo», cioè come «riflessione», e in questo senso non è sofia, testo originario, principio assoluto, ma appunto filosofia, «voce riflessa», capacità di interpretare, vale a dire di assumere nel testo il pretesto, ovvero il confronto con il silenzio che la parola rompe ma non risolve, risultandone anzi e sempre minacciata. È di fronte alla morte, dice Vitiello in Cristianesimo senza redenzione, al silenzio che è la morte della parola, « che la parola si piega su di sé, si flette su di sé, diviene consapevole di sé. Anzitutto dell'inspiegabile fatto del suo esserci - se per dividere l'identico già deve essere dall'identico divisa». Questa consapevolezza topologica caratterizza allora la natura del discorso filosofico: «Il logo del filosofo non è dentro né fuori del dialogo. Non è dentro né fuori della Città. È sul limite - sul margine estremo. Là dove il dialogo e le leggi della Città sono esposti al pericolo estremo. Di questo pericolo il filosofo fa esperienza costante nel giudizio -Ur-teil: la divisione originaria propria della parola divisa che divide. Che divide l'identico, nel dirlo, con il dirlo. La parola del filosofo si misura costantemente con la possibile impossibilità della parola. Con la morte del dialogo, della Città. E di Dio. Perché Dio stesso è per la parola [. .. ] Dio è solo dove è la parola. Talché il grido dell'ora nona - la parola che muore nel silenzio dell'abbandono, dell'assenza di Dio - esprime la consapevolezza oltre-tragica che del dolore non c'è redenzione. Di questa consapevolezza - che è il messaggio ultimo del Cristo e che il cristianesimo storico ha presto accantonato, celato - si fa carico il logo del filosofo. Che non dà, né cerca consolazione - perché altro è il suo compito. » Queste citazioni danno quanto meno un'idea dell'insieme dei problemi che la topologia, nella accezione di Vitiello, riassume in sé, facendosi contemporaneamente carico della storia e della scienza, nonché della loro rilevanza etica ed ermeneutica. Questa rilevanza mette in luce una «finitudine» essenziale che è peraltro il limite stesso della topologia, difficile e anzi impossibile anche solo da esprimere. Tornando su tali questioni Vitiello ha osservato che oltre ogni orizzonte storico, topologicamente inteso, bisogna ammettere un «altro», un «esterno», che nessun dire può avvicinare, una differenza insieme possibile e impossibile cui nessun giudizio può essere congruo (poiché il giudizio appunto divide l'essere dal non essere, il possi193
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bile dall'impossibile). Mistero della differenza e abisso del giudizio di fronte al quale «ogni argomentare cessa»: l'etica della topologia non può allora che abitare questa «impossibilità di dar ragione della ragione», esperita però «logicamente» (non narrativamente, come nel mito, o religiosamente, ecc.). Si tratta, per la topologia (cioè per la filosofia), di abitare la differenza rispettando le cose nel loro mistero, in nome non di un'etica dell'intenzione né della responsabilità (in quanto l'etica topologica è scissa da ogni fare), ma di un'etica della comprensione. E in quanto riconosce in tal modo che l'« Uno resta entro la sua profondità [. .. ] la topologia s'inscrive dunque nella grande tradizione del neo-platonismo ». Differenza questa, come si vede, per nulla ineffabile, della quale la topologia dovrebbe dar conto e «comprensione», poiché, vorremmo osservare, il riconoscimento della infondabilità di ogni «esser decisi» per questo piuttosto che per quel discorso non esime dall'esibirne la rilevanza e la preferibilità «etica». Il che non può certo farsi con un ulteriore discorso soltanto, ma piuttosto con un'attenzione rivolta a quel «fare» (per esempio al « fare topologia ») che la topologia di Vitiello vorrebbe invece escludere, temendone giustamente un «contraccolpo», e cioè uno spostamento, rispetto alla comprensione puramente e specificamente «logica » che viene qui rivendicata. Nel quadro delle molteplici istanze «etiche» assunte in Italia, e non solo in Italia, dai filosofi delle ultime generazioni, almeno un cenno è infine necessario dedicare all'ammirevole lavoro di Remo Bodei (n. 1938) che insegna Storia della filosofia all'università e alla Scuola normale di Pisa ed è recurrent visiting professor alla New York University. Studioso insigne dell'idealismo classico tedesco e dei problemi del tempo, del tragico e della individualità moderna (Sistema ed epoca in Hegel, 1975; Multiversum, 1983; Scomposizioni. Forme dell'individuo moderno, 1987), nelle ultime opere (Orda amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, 1991; Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, 1991) Bodei disegna ampi e straordinari affreschi storico-archeologici il cui fine ultimo mira, egli dice in Geometria delle passioni, «a un'etica che non irrigidisca burocraticamente principi e regole, ma non retroceda neppure dietro le linee della razionalità, verso il caso per caso, verso soluzioni empiriche e opportunistiche, verso preferenze puramente arbitrarie (tenda cioè a un'etica e una filosofia in genere che stringano e non allentino i rapporti con i fattori di universalità)»; un'etica laica il cui fine è la comprensione delle eredità più o meno recenti che ancora pesano «su un complesso di questioni etiche e politiche, che acquistano oggi un significato nuovo e che dovrebbero essere esaminate nella loro specificità». Bodei procede a una «archeologia concettuale» (per esempio delle passioni e delle virtù) che getta luce sui «luoghi» esemplari della formazione della moderna coscienza europea, matrice delle ideologie rivolte all'idea di un mondo nuovo, di un indefinito progresso della storia, oppure alla istituzionalizzazione politica del terrore, cui anche Agamben ha per altro verso, come abbiamo visto, rivolto l'attenzione. 194
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Problemi teorici della ricerca filosofica in Italia VII
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LA
PRATICA
DEL
FILOSOFARE
«La filosofia, sosteneva Simmel nel suo celebre saggio del 1910, è la sola disciplina a essere problema a se stessa. Se non cerca di passare attraverso questo punto [. ..] non è filosofia a pieno titolo. » Così esordisce Fulvio Papi nel suo Philosophia imago mundi (1994). E in effetti attraverso quel punto Papi non ha smesso di tentar di passare, con la lucida consapevolezza che la filosofia è un esercizio che va compiuto immer wieder, come diceva Husserl, e che questo esercizio è davvero filosofico se non si limita a produrre «ideologicamente» significati e visioni del mondo, ma se riflette nel contempo sui propri strumenti del significare e sulla peculiarità della sua pratica di pensiero e di parola. Nato a Trieste nel 1930, Papi è stato allievo di Antonio Banfi a Milano. Impegnatosi per diversi anni nella politica attiva nelle file del Partito socialista e nel quotidiano «Avanti», si è poi dedicato all'insegnamento universitario (insegna Filosofia teoretica presso l'università di Pavia). La sua prima produzione riflette interessi storici, estetici, morali e politici (Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno, 1968; Cosmologia e civiltà, 1969; Utilità, oggetto e scrittura in Marx, 1983; La morte e l'educazione della memoria, 1985; Canetti e la metafisica involontaria, 1985). Direttore della rivista «Materiali filosofici», nella sua produzione più recente, oltre al libro del 1990 Vita e filosofia. La scuola di Milano: Ban/z; Cantoni, Paci, Preti (raro esempio di ricostruzione storica che è insieme una ermeneutica della memoria filosofica in atto), Papi ha pubblicato: Filosofia contemporanea, 1992; La parola incantata e altri saggi di filosofia dell'arte, 1992; Teoremi di stelle truccate, 1993; Capire la filosofia, 1993. Come già aveva osservato Merleau-Ponty, la parola filosofica abita uno scacco costitutivo e irresolubile (un po' come la parola del teologo, dice Papi), poiché l'essere che vuole dire non può mai coincidere con l'essere detto secondo le contingenze che di volta in volta governano il dire della filosofia. È perciò decisiva, per il senso della filosofia, la domanda rivolta verso la strutturale finitudine del dire filosofico, che peraltro lo caratterizza appunto come «filosofico». Papi riconduce il discorso filosofico, la sua particolare natura « letteraria », a « tre generi filosofici, ciascuno dei quali non può porsi un problema di verità (e quindi di censura del discorso altrui) al di fuori dei modi del proprio essere». Sicché la filosofia è certo amore della verità, « ma, in modo corretto, occorre dire anche desiderio di quale verità». I tre generi individuati e finemente descritti da Papi sono la filosofia critica, la filosofia pratica o pubblica, la filosofia della costruzione semantica o filosofia configurativa. La prima pone « epistemologicamente » in questione tutte le verità particolari e i loro metodi peculiari, non per ricondurli a una supposta verità unica e superiore, ma per rendere consapevoli del fatto che esistono sa peri che «non pensano»: «non si pensa quello che si fa, esso viene eseguito». È su questa esecuzione non pensata, metodicamente assolutizzata, che il discorso filosofico invita a riflettere, allo scopo di evitare dogmatismi e riduzionismi indebiti. La filosofia pubblica 195
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esercita invece un controllo razionale e formale sulle decisioni e sui discorsi che la supportano, controllo che rende possibile una coscienza «etica» intersoggettiva. «Tuttavia, dice Papi in Philosophia imago mundi (1994), da cui sono tratte anche le successive citazioni, una simile forma di pratica filosofica non deve cadere nel grave errore di voler interdire sulla base di argomentazioni "razionali" altre possibilità qualitative della filosofia, che si manifestano come formazioni discorsive. Poiché la forma della razionalità, in questo caso, non è un possesso assoluto che possa respingere l'altro da sé nell'abisso dell'irrazionale, ma è solo una modalità argomentativa che appartiene agli scopi fondamentali che sono propri a questa forma di filosofia. » Infine, la filosofia configurativa, che possiede una natura eminentemente « teoretica » e ha come luogo proprio la scrittura. «n linguaggio della costruzione filosofica del mondo, dice Papi, è uno dei possibili linguaggi, ma la caratteristica della sua costruzione è proprio quella di parlare secondo una generalità, il che non significa trasparenza. È un discorso che tende a "comprendere", nel senso di "prendere insieme", coloro che appartengono ad altre metamorfosi di linguaggio e a donare loro una, per lo più inattesa, destinazione. » Questa « invenzione » filosofica è un « processo di concettualizzazione » che ha un lessico già segnato dalla tradizione, dal fatto che in filosofia l'inizio è già sempre un iniziato, da cui dipende un peculiare «effetto di verità» continuamente rinnovato dalla irruzione degli eventi e dei contesti di vita entro i quali si pratica nel tempo la filosofia. La concettualizzazione opera così una metamorfosi del contesto, secondo una pratica finita del linguaggio: «La filosofia non è oralità che desideri disperdersi nella pratica quotidiana, non è una finitudine che può non fissarsi nella forma della scrittura, che è ormai il luogo della memoria stessa della filosofia, la forma indispensabile della sua conservazione. La parola filosofica come quella scientifica e quella poetica, nel mentre cerca di dirsi oltrepassa il momento del suo accadere, assume per se stessa una sua propria temporalità. Senza scrittura vengono a mancare due elementi che sono strutturali del discorso filosofico: la memoria (anche se bisogna chiarire il come della memoria) e l'intersoggettività (anche se bisogna chiarire il come essa sia realizzabile nel processo di testualizzazione). » In tal modo, «l'impossibilità di dire l'essere, l'inesauribilità dell'altro conducono a una forma di linguaggio che non è "accanto alle altre", ma che è una forma di vita, una educazione o un modo d'essere, anzi la forma di vita, l'educazione, il modo d'essere che è, per quanto possibile, nel bene ... La filosofia in questo modo diviene l'esercizio dell"'impossibile", quando la costruzione di questo "impossibile" è in realtà una mossa astratta del pensiero. Potremmo invece dire che in quell'apertura a forbice, in quel vuoto, che vi è tra l'essere proprio del linguaggio e la lontanza dalla realtà, come sua costruzione oggettivante, tra l'evento e l'effetto di ritorno di un soggetto, vi è lo spazio incognito del destino». Il discorso « teoretico » o configurativo della filosofia è così una « educazione a saper vedere», qualcosa di affine a « una certa idea della pittura»: «Il testo filosofico nel suo compimento "fa vedere" dimensioni della realtà (e in questo senso anche una
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filosofia crltlca è configurativa, nel senso che fa vedere un sistema di relazioni, mostra una pensabilità). "Far vedere" non significa "togliere il velo", ma ostendere, mettere sotto gli occhi qualcosa che non c'era, rappresentare senza rappresentazione. » Le tesi finali di Papi, oltre a ricomporre armoniosamente una serie di percorsi relativi al linguaggio, alla «narrazione», al «testo», che hanno caratterizzato la ricerca filosofica recente, 14 oltre a riconsiderare in forma genuinamente filosofica le questioni della interpretazione e della scrittura, incarnano in assoluto uno dei punti più alti della produzione filosofica italiana contemporanea. Al tema della scrittura dedica da anni le sue ricerche anche Carlo Sini (n. 1933). Allievo a Milano di Giovanni Emanuele Barié e di Enzo Paci, poi docente di Filosofia teoretica in quella università, Sini ha dapprima studiato la fenomenologia di Hegel e di Husserl, e poi Whitehead, Mead e Peirce, del quale ultimo ha contribuito a diffondere il pensiero in Italia (Introduzione alla fenomenologia come scienza, 1965; Whitehead e la funzione della filosofia, 1966; Il pragmatismo amc;icano, 1972). Da questi interessi deriva la proposta teoretica formulata da Sini negli anni settanta nell'intento di mostrare la congruenza dell'ermeneutica nietzschiana e heideggeriana con i problemi della semiotica di Peirce reinterpretati filosoficamente. Di qui l'emergere della questione dell'« evento» (come evento del segno e dell'interpretazione) e dell'originaria quanto irriducibile differenza « duale » tra evento e significato, che Sini è stato tra i primi a sollevare in Italia, prendendo le distanze dall'heideggerismo estetizzante e misticizzante e dalle varie semiotiche ed ermeneutiche empiriche (Semiotica e filosofia, 1978; Passare il segno. Semiotica, cosmologia, tecnica, 1981; Kinesis. Saggio di interpretazione, 1982; Immagini di verità. Dal segno al simbolo, 1985). Sulla base di questa riflessione sul segno Sini ha avviato una ricomprensione genealogica del filosofare, a partire dalla « strategia dell'anima » di Platone (I segni dell'anima. Saggio sull'immagine, 1989; Il silenzio e la parola, 1989), concentrandosi infine sul tema della scrittura, intesa non soltanto come « strumento » del filosofare, ma come luogo d'origine della logica e terreno di coltura del soggetto occidentale epistemico; questo approccio comporta una motivata critica della contemporanea riflessione derridiana sulla scrittura e sulla voce, nonché l'analisi risolutiva, a partire appunto dalla voce, della formazione fenomenologica dell'autocoscienza (Il simbolo e l'uomo, 1991; Filosofia teoretica, 1992; Etica della scrittura, 1992; Pensare il progetto, 1992; Variazioni sul foglio-mondo. Pez'rce, Wittgenstein, la scrittura, in collab. con Rossella Fabbrichesi Leo, 1993; Filosofia e scrittura, 1994; Scrivere il silenzio. Wittgenstein e il problema del linguaggio, 1994). Questo « smascheramento » genealogico della funzione egemonica della scrittura nei confronti del pensiero filosofico conduce infine, anche sulla scorta di Foucault, a una riflessione «etica» sulle pratiche discorsive e
14 Si vedano, in proposito, i due volumi, curati con grande acume e competenza da Filippo Costa e Gianfranco Marrone, Il testo filosofico.
Ermeneutica: teoria e pratica e Il testo filosofico. Analisi semiotica e ricognizione storiogra/ica, 1994.
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sulle funzioni di verità che le caratterizzano con analisi che, nella scuola milanese di Sini, si sono venute sviluppando anche in direzione della scrittura matematica e del suo nesso fondativo con la scienza moderna. Ma il punto essenziale del tema delle pratiche è l'« esercizio» e la formazione, l'« ethos» del soggetto filosofico, in un senso che ha qualche affinità con le conclusioni di Papi sopra richiamate. L'esercizio è «pratica del foglio-mondo», come dice Sini, riprendendo una espressione di Peirce relativa alla sua meditazione sui « grafi esistenziali »: luogo della pratica logica e insieme della formazione dell'abito del soggetto, in cui Sini (come anche Rovatti) rilegge il senso della sua fondamentale educazione fenomenologica e del suo debito nei confronti di Enzo Paci. Alla tradizione fenomenologica hanno continuato a fornire contributi originali, in questo ultimo quarto di secolo, Giuseppe Semerari (n. 1922), già collaboratore di Paci nella rivista «Aut Aut», professore di Filosofia teoretica presso l'università di Bari e direttore della rivista « Paradigmi »; e Giovanni Piana (n. 1940), docente di filosofia teoretica all'università di Milano, cui si deve la traduzione delle Ricerche logiche di Husserl. I primi studi di Semerari, oltre a occuparsi di Schelling e Spinoza, hanno scandagliato il rapporto tra ragione scientifica e ragione fenomenologica (Scienza nuova e ragione, 1961), affrontando in seguito i temi della tecnica e del destino della civiltà moderna, soprattutto nei tre fondamentali volumi Filosofia e potere (1973); Civiltà dei mezzi, civiltà dei fini. Per un razionalismo filosofico-politico (1979); Insecuritas. Tecniche e paradigmi della salvezza (1982). Nella produzione di Piana, dopo gli studi degli anni sessanta dedicati alla fenomenologia (Esistenza e storia negli inediti di Husserl, 1965 e I problemi della fenomenologia, 1966) e la Interpretazione del « Tractatus » di Wittgenstein (1973), spiccano il volume del 1979 Elementi di una dottrina dell'esperienza (una libera riconsiderazione fenomenologica dei tradizionali temi della percezione, del ricordo, dell'immaginazione e del pensiero) e il più recente La notte dei lampi. Quattro saggi sulla filosofia dell'immaginazione (1988), dove gli interessi di Piana si estendono a Bachelard, Cassirer, Goethe e ai problemi estetici del colore e del suono. Per tornare al tema iniziale di questo paragrafo, va ricordato il lavoro per taluni aspetti pionieristico di Ferruccio Rossi-Landi (!921-85), studioso di Morris, serniolago e filosofo del linguaggio di fama internazionale, esponente del movimento neopositivistico italiano nell'immediato dopoguerra e in anni maturi sempre più interessato al rapporto tra lavoro sociale, ideologia e pratica dei segni in ricerche in cui ha coniugato originalmente Morris e Peirce con Marx (Il linguaggio come lavoro e come mercato, 1968; Semiotica e ideologia, 1972; Linguistics and Economics, 1974; Metodica filosofica e scienza dei segni. Nuovi saggi sul linguaggio e l'ideologia, 1985). In effetti il prezioso lavoro di Rossi-Landi attende una postuma riconsiderazione complessiva, che è appena iniziata, e soprattutto una fattiva continuazione nelle molteplici direzioni da esso aperte. Rendere conto di un lavoro culturale in pieno svolgimento comporta, come è
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noto, difficoltà di sistemazione storiografica pressoché insormontabili, inevitabili abbagli di prospettiva, negligenze e dimenticanze involontarie, valutazioni sommamente provvisorie, precarie o ingiuste: non ci illudiamo che le presenti pagine vadano in varia misura esenti da questi limiti e difetti. Ci siamo anzitutto preoccupati di render conto delle principali linee di tendenza della ricerca teoretica in Italia nell'ultimo quarto di questo secolo, di quelle che ci sembrano più significative e promettenti, e di quelle che hanno maggiormente impegnato e dominato l'insegnamento e il lavoro accademico, le cronache culturali, l'editoria e gli organi di informazione. In base a questo criterio, che ha certo valore relativo come ogni fatto culturale che rivendichi la propria importanza a partire dalla sua attualità, abbiamo delineato alcuni itinerari di ricerca particolarmente esemplificativi ed emblematici per la nostra ricostruzione. Ma un panorama di idee e la sua intrinseca dinamica sono un fatto ben più complesso dell'itinerario personale di alcuni ricercatori, così come le idee teoriche non provengono solo dai professori di filosofia teoretica. Vanno segnalati, per esempio, anche alcuni apporti teorici nati nel vivo della ricerca storiografica, così come si devono menzionare singoli libri e saggi che per un complesso di ragioni intrinseche ed estrinseche hanno esercitato un'influenza considerevole. È soprattutto di questi aspetti che ci occuperemo nel paragrafo seguente, con un'esposizione che per forza di cose assumerà un andamento più occasionale e frammentario. VIII
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AVVENTURE
DI
IDEE
Nell'ambito del pensiero cattolico, va ricordato il lavoro teorico di alcuni significativi esponenti, a cominciare dal già ricordato Alberto Caracciolo (1918-90). Partito dallo studio dell'estetica di Croce, del personalismo cristiano, di Jaspers e del rapporto tra arte, religione e filosofia (I: estetica di Benedetto Croce nel suo svolgimento e nei suoi limiti, 1948, poi rielaborato nel 1958 e nel 1988 con il titolo I:estetica e la religione di B. Croce; La persona e il tempo, 1955; Studi jaspersiani, 1958; La religione come struttura e come modo autonomo della coscienza, 1965; Religione ed eticità, 1971), Caracciolo, che ha insegnato Filosofia teoretica all'università di Genova, si è sempre più concentrato sul problema del nichilismo (Pensiero contemporaneo e nichilismo, 1976; Nichilismo ed etica, 1983; e l'importante volume postumo Politica e autobiografia, 1993, curato da Giovanni Moretto, che di Caracciolo è il principale allievo). Il nichilismo heideggeriano, secondo Caracciolo, non è la semplice denuncia del niente che sottende, come abisso non fondante, l'evento dell'ente in totalità, e non è neppure quella possibilità che a tutti è data della morte come impossibilità finale dell'aver senso di tutti i nostri progetti esistenziali. In questo niente che consegue alla oggettivazione alienante della ragione umanistica bisogna leggere l'avvio e il transito alla possibilità di un « nulla religioso » che segni il ritorno all'esperienza del sacro, all'esperienza rivelativa di ascolto della parola dell' essere che è resa possibile, come diceva J aspers, proprio dal naufragio nichilistico 199
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della metafisica e della scienza. Questo « ascolto » si concreta, in Caracciolo, in pagine di alta e sofferta meditazione etica che scavano gli enigmi del male e l'esperienza sempre problematica, quando è autentica esperienza, della fede. Discepolo, come Caracciolo, di Pareyson, il già ricordato Valerio Verra (n. 1928) è a sua volta tra i più acuti studiosi del nichilismo, del quale ha indagato le radici storiche nell'opera di Jacobi e in generale nel romanticismo tedesco. Per la sua approfondita conoscenza di tale periodo, a Verra è toccato l'onore di curare l'edizione in 7 volumi dei Gesammelte Werke di S. Maimon (1965-71). I suoi studi più importanti sono: Dopo Kant. Il criticismo nell'età preromantica (1957); FH. Jacobi. Dall'illuminismo all'idealismo (1963); Dialettica e filoso/t'a in Platino (1963); Mito, rivelazione e filosofia in J.G. Herder e nel suo tempo (1966). Oltre a una fortunata Introduzione a Hegel (1988), Verra ha curato l'edizione italiana della parte prima (La scienza della logica) della Enciclopedia hegeliana, con le note «aggiunte» dai discepoli (1981). Verra è infatti uno dei maggiori studiosi della dialettica nella tradizione del pensiero tedesco, ma ha anche contribuito a far conoscere in Italia gli sviluppi della ermeneutica contemporanea, soprattutto nella sua versione gadameriana, cui ha dedicato una attenta meditazione. 15 La figura di Verra presenta infatti la peculiarità di mettere a profitto l'indagine storiografica per una attenta valutazione dei percorsi teorici attuali, delle loro radici e delle loro presumibili destinazioni: contributo prezioso in cui storiografia e produzione delle idee interagiscono in modo equilibrato e fruttuoso. Si veda per esempio il saggio Dzalettica ed ermeneutica contro metodologia. 16 Qui Verra, dopo aver richiamato da un lato gli elementi essenziali del pensiero dialettico in Hegel, in Marx e negli odierni sviluppi di tale tradizione, e dall'altro i tratti peculiari della ermeneutica di Heidegger e di Gadamer, nella sua differenza speculativa dalla ermeneutica classica, per esempio schleiermacheriana, perviene ad alcune importanti conclusioni che così si possono sintetizzare. Dialettica ed ermeneutica hanno in comune la critica nei confronti di ogni concezione metodologica del sapere; tale critica mette in questione il senso stesso dell'età moderna, che ha nella scoperta del metodo il suo elemento determinante. Ma l'ermeneutica, diversamente dal sapere assoluto hegeliano, insiste sul carattere finito del conoscere, radicalizzando la scoperta della storicità della verità e del sapere, che è l'altro caposaldo del pensiero moderno. Dialettica ed ermeneutica hanno altresì in comune la critica della proposizione e del giudizio come « luogo » della verità; ma Gadamer oppone poi alla logica hegeliana che non si tratta di « risolvere » il problema del giudizio « sollevandolo » alla forma totalizzante del sillogismo: questa soluzione riproduce in realtà l'impostazione speculativa classica, della quale potrebbe definirsi un perfezionamento. n problema sta alle radici, individuate da Gadamer nel linguaggio (Sprache), la cm 15 Si veda, tra altri scritti, Il problema della storia: Hans Georg Gadamer, in La filosofia dal '45 a oggi, 1976; Ermeneutica e coscienza storica, in AA.VV., Il pensiero contemporaneo,
a cura di A. Bausola, 1978. 16 In AA.VV., La filosofia oggz; tra ermeneutica e dialettica, a cura di E. Berti, 1987.
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funzione veritativa non si riduce al giudizio o al sillogismo, «ma piuttosto ha in sé un'intrinseca consistenza analoga a quella della parola lirica o dell'opera d'arte». In tal modo l'elemento « estetico » rovescia i suoi rapporti di sudditanza nei confronti della logica e apre a una differente esperienza della verità, che è, come abbiamo visto, uno dei tratti comuni della riflessione filosofica contemporanea. Nell'ambito del lavoro storiografico rivolto alla produzione teoretica contemporanea, anche Franco Bianco (n. 1932), docente presso l'università di Roma, ha incentrato i suoi studi sullo storicismo tedesco, in particolare di Dilthey, e sulla ermeneutica (Distruzione e riconquista del mito, 1962; La genesi della critica storica della ragione, 1971; Storicismo ed ermeneutica, 1974; Introduzione a Dilthey, 1985; Pensare l'interpretazione, 1990, opera di notevole respiro storico e teoretico di cui è importante ricordare qui il capitolo vr dedicato al «Dibattito sull'interpretazione nella filosofia italiana del Novecento»). Va inoltre menzionato il saggio, dedicato a Weber e a Habermas, Giudizi di valore e riabilitazione della filosofia pratica (1991) e il volume di presentazione in Germania dell'ermeneutica italiana (Beitriige zur Hermeneutik aus Italien, 1993, al quale Bianco ha chiamato a collaborare A. Caracciolo, U. Eco, S. Givone, I. Mancini, L. Pareyson, M. Ruggenini, C. Sini, G. Vattimo, V. Vitiello). A questa iniziativa dell'editore Alber si deve aggiungere l'altra, apparsa presso l'editore Konigshausen und Neumann e a cura di R. Cristin, dedicata alla fenomenologia italiana (Beitriige zur Phaenomenologie aus Italien) con la collaborazione di A. Masullo, G. Piana, A. Ponsetto, M. Ruggenini, G. Semerari, C. Sini, S. Zecchi. Da tutt'altra tradizione muove il lavoro storiografico di Enrico Berti (n. 1935), discepolo di Marino Gentile (del quale è da ricordare il Trattato di filosofia, 1987) e docente di Storia della filosofia all'università di Padova. La formazione di Berti (che ha alle spalle anche il magistero di L. Stefanini e U. Padovani) è avvenuta nell' ambito della filosofia greca e dello studio di Aristotele, al quale Berti ha dato contributi fondamentali (I.:unità del sapere in Aristotele, 1965; Pro/ilo di Aristotele, 1979; Le contraddizioni di Aristotele, 1988; L'analogia dell'essere nella tradizione aristotelicotomistica, 1989; l'opera miscellanea Aristotelismo veneto e scienza moderna, 1983). In Le vie della ragione del 1987 (ma già in Ragione scientifica e ragione filosofica nel pensiero moderno, 1977) Berti prende posizione nei confronti del tema della crisi della ragione e dei suoi esiti più caratteristici nel «pensiero debole». Non c'è una sola «via della ragione» e la crisi del modello classico non comporta la sua necessaria vanificazione. La ragione può ancora difendere i suoi diritti in un uso ermeneutico bene inteso, o ancora nella prospettiva della cosiddetta nuova retorica e della rinascita della filosofia pratica (che ha alla base, come è noto, l'etica di Aristotele, rivendicata anche da Heidegger e soprattutto da Gadamer come modello aperto di argomentazione). Berti sottolinea soprattutto la funzione della dialettica nell'accezione aristotelica: argomentazione dialogica e confutatoria che può pervenire, entro i limiti del suo procedimento che non va assolutizzato né sovraimposto ad altre vie della comprensione, a dimostrazioni e fondazioni efficaci del discorso 201
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filosofico. Questa caratteristica ne consente un'applicazione più che «ragionevole» al duplice problema del rapporto tra scienza e fede e della fondazione di valori comuni condivisi (analogamente a quanto diceva, partendo da premesse del tutto diverse, Salvatore Veca). Berti propugna perciò una metafisica critica e dialettica che sia propedeutica da un lato a una fede rafforzata con le armi della confutazione (quest'ultima, per esempio, dimostra la irriducibile multivocità dell'essere, contro ogni riduzionismo immanentistico) e dall'altro a una filosofia pratica che assume la comunicazione come luogo dia-logico di fondazione per una società pluralistica e sovranazionale: conclusione che apparenta Berti a talune tesi di Habermas e di Apel e che nell'insieme rivendica l'irrinunciabile ufficio della ragione e una perennità sui generis della ragione aristotelica (su questi temi si vedano di Berti anche Il bene, 1983; Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, 1987; Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, 1993). Soprattutto nei suoi ultimi libri anche Adriano Bausola (n. 1930), professore di Filosofia teoretica all'Università Cattolica di Milano, rivendica il ruolo della ragione metafisica ai fini di una fondazione efficace dell'etica (Filosofia morale. Lineamenti, 1976; Natura e progetto dell'uomo, 1977; Libertà e responsabilità, 1980). Agli antipodi della posizione di Berti, e per altro verso anche di Bausola, si potrebbe invece considerare la riflessione che Giorgio Penzo (n. 1925), professore di Storia della filosofia a P;dova, dedica al futuro dell'etica e della fede cristiana. Egli muove da Stirner, Nietzsche, Jaspers, Gogarten per rivendicare una nozione di « oltreuomo » liberata da ogni pregiudiziale scientistica e ideologica e da ogni «indebolimento» estetistico di maniera, e volta invece a delineare una « cifra » ermeneutica che revochi in dubbio ogni idolatria e ogni cultura dogmaticamente determinata. Come in Pareyson e in Caracciolo, dunque, la nullità dell'essere è per Penzo da leggersi in modo positivo (Max Stirner. La rivolta esistenziale, 1971; Friedrich Nietzsche. Il divino come polarità, 1975; Friedrich Gogarten. Il problema di Dio tra storicismo ed esistenzialismo, 1981; Il nichilismo da Nietzsche a Sartre, 1984; Il comprendere in Karl ]aspers e il problema dell'ermeneutica, 1985; Il superamento di Zarathustra. Nietzsche e il nazionalsocialismo, 1987). L'ufficio della ragione viene invece difeso con una prevalente attenzione al metodo e ai risultati della scienza da filosofi come Barone, Pera, Agazzi, per un verso, Viano e Pietro Rossi, per un altro. Francesco Barone (n. 1923), professore di Filosofia teoretica e poi di Filosofia della scienza presso l'università di Pisa, direttore della rivista «Nuova Civiltà delle Macchine», tra le più interessanti in Italia, ha legato il suo nome a opere fondamentali come Logica formale e logica trascendentale (1957-65) e Il neopositivismo logico (1977), che ebbero una prima versione negli anni cinquanta. In Immagini filosofiche della scienza (1983) Barone difende da un lato l'efficacia della scienza moderna, in quanto espressione del massimo livello della evoluzione culturale umana, radicata nel più ampio orizzonte della evoluzione biologica; da un altro lato sottolinea la necessità di una interpretazione filosofica del lavoro scientifico che 202
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ne salvaguardi il rigore formale, il significato sociale e insieme la pluralità problematica. È a partire da questo magistero che Marcello Pera (n. 1943), allievo di Barone e docente di Filosofia della scienza e poi di Flosofia teoretica a Pisa, ha rivendicato, in libri vivacemente polemici, la validità complessiva del metodo scientifico, contro gli irrazionalismi epistemologici alla Feyerabend (la cui radice è peraltro in Popper) o della linea ermeneutica nietzschiano-heideggeriana (Induzione e metodo scientifico, 1978; Induzione e empirismo, 1979; Popper e la scienza su pala/itte, 198o; Apologia del metodo, 1982). Pera rivendica a sua volta il valore della scienza come modello di « argomentazione razionale » e ne sottolinea la portata largamente etica e sociale. Si veda in proposito il significativo volume miscellaneo Il mondo incerto (1994), cui Pera ha chiamato a collaborare autori come Evandro Agazzi, Dario Antiseri, Girolamo Cotroneo, Giulio Giorello, Vittorio Mathieu, Antimo Negri e altri ancora. La domanda del libro è se si possa vivere in un mondo divenuto del tutto incerto e continuare a lottare per ideali che non sono più sentiti come certi, sicché il quesito investe (in particolare negli interventi di Domenico Settembrini e di Luciano Pellicani) anche gli ambiti della politica e della religione. Tra i collaboratori a questo libro collettaneo, che in certo modo può essere letto come una risposta al libro di Gargani sulla crisi della ragione citato all'inizio, bisogna spendere almeno una parola per Antiseri e Agazzi, anche se in queste pagine non è nostro compito svolgere considerazioni relative al pensiero strettamente logico ed epistemologico (questo vale anche per Barone, per Pera, per Corrado Mangione, Enrico Bellone, Ettore Casari, Paolo Parrini e altri ancora, o, per altro verso, per il lavoro storiografico cui già ci siamo riferiti e ancora ci riferiremo). Dario Antiseri (n. 1940), filosofo del linguaggio all'università di Padova, è uno dei più profondi conoscitori del pensiero di Popper (K.R. Popper: epistemologia e società aperta, 1972) e ha sviluppato le sue indagini epistemologiche con particolare riferimento ai problemi della società odierna, propugnando l'idea di una ragione «limitata» e nondimeno efficace, in quanto per sua natura soggetta alla « criticabilità ». Negativa diviene invece la ragione quando vuole invadere il campo religioso, che deve restare affidato, come voleva anche Wittgenstein, all'ineffabile mistero della persona (Il mestiere del filoso/o, 1978; Teoria unificata del metodo, 1981; Teoria della razionalità e scienze sociali, 1990). Evandro Agazzi (n. 1934), professore di Filosofia della scienza presso le università di Genova e di Friburgo (Svizzera), è uno dei più illustri studiosi italiani di epistemologia; la sua opera vastissima è largamente conosciuta e apprezzata anche all'estero (Introduzione ai problemi dell'assiomatica, 1964; Temi e problemi di filosofia della fisica, 1969; La simmetria, 1973; Filosofia, scienza e verità, 1989, in collab. con L. Geymonat e F. Minazzi)Y Nel suo libro del 1992 Il bene, il 17 Agazzi ha curato anche il volume collettaneo La filosofia della scienza in Italia nel '900, 1986, che in buona parte riguarda il periodo temporale e l'ambito problematico da noi affrontati;
tra i saggi che vi sono raccolti si segnala in particolare quello di Carlo Cellucci, Logica e filosofia della matematica nella seconda metà del secolo.
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male e la scienza. Le dimensioni etiche dell'impresa scientifico-tecnologica, Agazzi raccoglie il frutto di una trentennale indagine sui problemi che vengono oggi solitamente assegnati al campo della bioetica, proponendo soluzioni meditate dei conflitti tra progresso tecnologico e valori. Si tratta di salvaguardare l'autonomia metodologica e la libertà della ricerca scientifica e nondimeno di sottometterla a istanze razionali di carattere più universale, in quanto collegate all'esperienza dei valori morali e religiosi e alla fondamentale domanda di «responsabilità» che il vivere contemporaneo impone all'uomo planetario, quale che sia la sua cultura di appartenenza. In riferimento ai problemi della scienza due importanti contributi provengono da Paolo Rossi e da Sergio Moravia. Paolo Rossi (n. 1923), il più illustre storico italiano delle idee, professore di Storia della filosofia all'università di Firenze, autore di opere che hanno aperto nuovi itinerari di ricerca e acquisito fama internazionale (Francesco Bacone. Dalla magia alla scienza, 1957; Clavis universalis: arte della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, 196o; I segni del tempo. Storia della terra e delle nazioni da Hooke a Vico, 1979; I ragni e le formiche. Un'apologia della storia della scienza, 1986), si è di recente interrogato su quella «funzione retrograda del vero», come diceva Bergson, che fa sì che il presente proietti nel passato, senza avvedersene, le sue prospettive e i suoi interessi (Il passato, la memoria, l'oblio, 1991). «Sulla memoria, dice Rossi, abbiamo dimenticato qualcosa di importante» e cioè il ruolo che l'oblio esercita in essa. Questo assunto, applicato alla storia della scienza, mostra come quest'ultima riscriva continuamente il suo passato alla luce delle sue acquisizioni e della sua mentalità presente. La fisica di oggi proietta nel passato le sue categorie e così diviene cieca ai reali procedimenti, abiti, oggetti, metodi che hanno costituito il suo terreno peculiare più o meno remoto. Questo tratto, questa ermeneutica dell'oblio, si potrebbe dire, non è un accidente che capita al lavoro scientifico. A differenza dell'arte, della letteratura, della filosofia, dove per esempio Klee non induce a mettere in cantina le tele di Raffaello, la scienza è strutturalmente legata alla cancellazione e al travestimento del passato secondo la mentalità presente: le nuove teorie rimpiazzano le vecchie, i nuovi oggetti rendono obsoleti e « non veri » gli oggetti del passato, confinandoli nelle curiosità, negli errori, nelle superstizioni; non potrebbe darsi progresso scientifico senza questo contemporaneo e strutturale regresso della memoria. In tal modo Rossi viene scoprendo, entro la storia delle idee, la necessità di affrontare i problemi tipici dell'ermeneutica e soprattutto del tema delle «pratiche», in tutta la fecondità dei suoi paradossi (poiché anche lo sguardo dello storico delle idee non può ingenuamente pretendere di restare fuori questione). Sergio Moravia (n. 1940), anch'egli professore all'università di Firenze, deve la sua fama agli studi dedicati alla nascita delle scienze umane nel Settecento; il problema dell'uomo, dell'antropologia, delle differenti culture, delle interpretazioni strutturalistiche della cultura, del rapporto mente-corpo costituiscono il suo campo di lavoro in cui il rigore dello storico si accompagna alla vivacità e all'originalità della 204
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proposta teoretica e del dibattito critico. Oltre a un saggio su scienza e filosofia nell'opera di Lévi-Strauss (La ragione nascosta, 1969), le principali opere di Moravia legate a questo filone di studi sono: Il tramonto dell'Illuminismo (1968); La scienza dell'uomo nel Settecento (1970); Il pensiero degli Idéologues (1974). A partire da I:enigma della mente (1986) Moravia ha analizzato e polemicamente discusso le tesi della cosiddetta « mind-body theory », rifiutando con argomentazioni acute e pertinenti il suo riduzionismo scientistico. Contro di esso Moravia ha sviluppato una concezione della mente e dell'uomo che ha il suo perno nel valore simbolico dell' azione sociale, cercando di prendere le distanze sia dal materialismo volgare, sia dallo spiritualismo. La frequentazione simpatetica dell'opera di Nietzsche, da cui ha tratto giovamento la ricerca di Moravia, suggerisce qualche analogia con il fortunato libro di un altro docente delle università di Firenze e di Siena, il germanista Ferruccio Masini (1928-88), Lo scriba del caos. Interpretazione di Nietzsche (1978): libro che va controcorrente rispetto alle interpretazioni ermeneutiche e « debolistiche » e disegna un ampio affresco in cui le ragioni del materialismo marxiano si affiancano alle tesi nietzschiane del prospettivismo. Masini ha pubblicato in seguito Il travaglio del disumano. Per una fenomenologia del nichilismo (1982), ulteriore brillante testimonianza della ispirazione filosofica del suo lavoro. Sempre nell'ambito degli studi storiografici merita di essere ricordato, come esempio di indagini particolari capaci di inserirsi fecondamente nel dibattito teorico, fornendo a esso aperture, conferme, modificazioni, il libro di Mario Vegetti (n. 1937), storico della filosofia antica nell'università di Pavia, Il coltello e lo stilo (1979), al quale va affiancato il saggio Anima e corpo nel volume collettaneo, curato dallo stesso Vegetti, Il sapere degli antichi (1985): scritti che illustrano in una prospettiva originale il rapporto tra nascita della definizione filosofica e scrittura e svelano, più in generale, le basi pratico-materiali e sociali dei più comuni concetti metafisici. In direzione non dissimile si muove il lavoro ricostruttivo del libro La selva delle somiglianze. Il filoso/o e il medico (1985) di un altro illustre storico della filosofia, Carlo Augusto Viano (!929), di cui sono notissimi gli studi dedicati, negli anni cinquanta e sessanta, ad Aristotele, Locke, Bacone, Hobbes, nonché la sua Etica del 1975. In accordo con la fondamentale ispirazione weberiana e sociologica che ha guidato sin dall'inizio la sua ricerca, va poi ricordata la produzione recente di Pietro Rossi (n. 1930), docente dell'università di Torino: Storia universale e geografia in Hegel (1975); Max Weber: oltre lo storicismo (1982); Cultura e antropologia (1983); Vom Historismus zur historischen Sozialwissenscha/ten (1987); Hegel. Guida storicopratica (1992). Concludiamo questo breve percorso entro gli studi storiografici italiani con alcune molto sintetiche notazioni che non possono non prendere avvio da quello che è il decano degli studi di storiografia filosofica e il suo più illustre rappresentante, Eugenio Garin (n. 1909), professore di Storia della filosofia all'università di Firenze. Rispetto al periodo qui considerato conviene anzitutto ricordare i tre volumi 205
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Storia della filosofia italiana (1966), Intellettuali italiani del xx secolo (1974), La filosofia come sapere storico (1990). E ancora: Dal Rinascimento all'Illuminismo: studi e ricerche (1970); Lo zodiaco della vita: le polemiche sull'astrologia tra Trecento e Cinquecento (1976); Filosofia e scienza (1978); Vita e opere di Cartesio (1984). Accanto a quelli di Garin, per una parziale comunanza di interessi e per il comune rigore filologico, si possono porre i contributi di Tullio Gregory (n. 1929), professore di Storia della filosofia all'università di Roma e direttore del Lessico filosofico europeo (Theophrastus redivivus. Erudizione e ateismo nel Seicento, 1979; Etica e religione nella critica libertina, 1986). Storico della filosofia a Firenze è anche il medievalista Cesare Vasoli (n. 1924), i cui ultimi libri pubblicati sono I miti e gli astri (1977) e Filosofia e religione nella cultura del Rinascimento (1988). Agli studi sul Medioevo si era ampiamente interessato anche Mario Dal Pra (1914-91), uno dei più illustri esponenti della storiografia filosofica italiana, oltre che teorico negli anni cinquanta, con Andrea Vasa, del « trascendentalismo della prassi» e fondatore della «Rivista critica di storia della filosofia». Del 1973 è il volume Hume e la scienza della natura umana, che rispecchia la fondamentale ispirazione scettica della sua ricerca. Professore di Storia della filosofia all'università di Milano, Dal Pra ha dato vita a una fiorente scuola, illustrata da Arrigo Pacchi, studioso di Hobbes, da Enrico Rambaldi, studioso della sinistra hegeliana, dalla medievalista Maria Teresa Beonio Brocchieri Fumagalli e da altri ancora. Di ispirazione marxista è il lavoro storiografico di Cesare Luporini (1909-93), la cui prima formazione fu esistenzialistica. Tra le opere del periodo qui considerato ricordiamo Dialettica e materialismo (1974) e Leopardi progressivo (1980), libro che ha suscitato un'ampia discussione critica e ideologica, sia dando l'avvio al recupero del poeta recanatese entro la storia delle idee filosofiche in contrasto con la nota svalutazione del Croce (tendenza oggi variamente ripresa, per esempio da Emanuele Severino), sia correggendo errori e pregiudizi della critica letteraria tradizionale e dell'ideologia « spiritualistica » che pretendeva di leggere nell'ultimo Leopardi un avvicinamento al solidarismo cristiano. Docente di Storia della filosofia a Pisa (come Luporini, poi passato a Firenze) e a sua volta esponente della storiografia marxista è Nicola Badaloni (n. 1924) che nel 1975 ha riproposto in seconda edizione il suo libro Marxismo come storicismo. Tra i suoi studi meritano inoltre una menzione Antonio Conti. Un abate libero pensatore tra Newton e Voltaire (1968) e Per il comunismo (1972), di ispirazione più teorica e programmatica. Contributi importanti allo studio del criticismo kantiano e dell'idealismo tedesco sono venuti da Claudio Cesa (n. 1928) e da Pasquale Salvucci (n. 1924). Tra le opere più recenti del primo spiccano La filosofia politica di Schelling (1969) e Hegel filoso/o politico (1976). Di Salvucci ricordiamo I.:uomo di Kant (1975) e Filosofia e vita nel primo idealismo tedesco (1981). Agli studi sull'idealismo ha contribuito anche Antimo Negri (n. 1923) con Hegel nel Novecento (1986) e con i due volumi dedicati a Giovanni Gentile (1975); Negri ha firmato anche una originale monografia 206
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dedicata a Il lavoro nel Novecento (1988). Tra il 1970 e il '75 sono infine apparsi i quattro volumi dell'ultima fatica di Mario Rossi (!916-78): Da Hegel a Marx. Gli studi storiografici hanno avuto nell'università di Napoli un ispiratore e un maestro in Pietro Piovani (1922-80), il cui insegnamento è oggi continuato da Fulvio Tessitore. La personalità di Piovani si è espressa sia in un programma revisionistico dello storicismo, sia in una ricerca morale ispirata all'esistenzialismo jaspersiano, documentati in saggi come Principi di una filosofia della morale (1971) e Oggettivazione etica e essenzialismo (1981). Tra le storiografie di intento più specialistico si possono ricordare gli studi dedicati all'estetica di Rosario Assunto (1915-94), in particolare La parola anteriore come parola ulteriore (1985), e quelli di Gianni Carchia (n. 1947): Orfismo e tragedia (1979); La legittimazione dell'arte (1982); Retorica del sublime (1990). Per la storia della scienza sono da segnalare i contributi di Enrico Bellone (n. 1938) - Il mondo di carta (1976); Il sogno di Galileo (198o); I nomi del tempo (1989) - che ha curato inoltre l'edizione italiana delle opere di Kelvin. Per la storia della logica resta fondamentale il lavoro di Corrado Mangione (n. 1930), il massimo studioso italiano di Frege, in collaborazione con Silvio Bozzi: Storia della logica. Da Boole ai nostri giorni (1993). Tra gli storici della filosofia di ispirazione cattolica vanno ricordati infine, tra molti altri, Sofia Vanni Rovighi (1908-90), insigne docente dell'Università Cattolica di Milano, di cui si segnalano in particolare una Storia della filosofia moderna (1976) e gli Studi di filosofia medioevale (1978), e Giovanni Santinello (n. 1922) docente dell'università di Padova, di cui va menzionata la seconda edizione della Storia delle storie generali della filosofia (1988). IX ·
IL
PROBLEMA
ETICO
E
LA
FILOSOFIA
MORALE
Una delle più singolari difese della ragione è stata incarnata, nei nostri anni, da Itala Mancini (1925-91), discepolo di Bontadini e professore di Filosofia teoretica a Urbino. Oltre ad aver introdotto in Italia il pensiero di Bonhoeffer (Dietrich Bonhoe!fer, 1969) e ad aver riportato lo studio della teologia nelle università non confessionali, Mancini si è battuto per ridare piena dignità filosofica alla riflessione religiosa (Filosofia della religione, 1986). Mancini sottolinea il senso «paradossale» di Dio, quale emerge in autori come Pascal, Dostoevskij e Barth; esso tuttavia non esclude, tramite una «logica dei doppi pensieri», quel rigore del ragionamento che sa frequentare il limite ed esporvisi senza perdervisi (Filosofia della prassi, 1986). Oltre a non perdere il contatto con le ragioni « terrene », il magistero di Mancini è costantemente pervaso da una profonda passione politica e sociale che lo avvia a un dialogo con il marxismo e in particolare con Bloch (Teologia, ideologia, utopia, 1974; Novecento teologico, 1977), nella speranza di una prassi efficace che sia in grado di « alleggerire la terra». Proprio per questo la sua voce, nelle vicende del 207
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'68, fu tra le più limpide e coraggiose. In questo confronto spregiudicato con la cultura «mondana » Mancini ha soprattutto polemizzato con il pensiero negativo (Il pensiero negativo e la nuova destra, 1983; I.:ethos dell'Occidente, 1990). Si poteva davvero immaginare, dice Mancini, che« la ragione, che è il portento dell'età moderna», finisse per «andare a zero nel corno buio dell'apocalisse»? È quanto è accaduto con il nichilismo e la filosofia negativa (si ricordino in proposito i percorsi di Cacciari) susseguenti al grido nietzschiano della morte di Dio. n pensiero del nulla ha così vanificato tutti i valori e ha consegnato l'uomo alla logica impassibile delle cose, alla loro dominazione violenta e assurda. Il pensiero negativo « disossa il mondo » e determina il preconizzato «tramonto dell'Occidente», ma per altro verso, seppur paradossalmente, legittima anche le « utopie archeologiche» della nuova destra (che non a caso si ispira a Spengler, Nietzsche e Heidegger) e il suo fanatico appello alla tradizione. Per questo Mancini ritiene necessario un confronto polemicamente franco con il pensiero negativo, anche a costo di una « violenza ermeneutica » che sia però in grado di ispirare un nuovo «pensiero positivo», intimamente non violento e fondato su una « capacità di sentimento universale e unificante »: unica speranza per una vita animata da «vera fraternità senza terrore». Sulla base di un'ispirazione, rispettivamente esistenzialistica e fenomenologica, che ha guidato la loro ricerca in anni precedenti il periodo qui preso in esame, anche due maestri come Prini e Rigobello sono tornati a riflettere sul tema della crisi della ragione, fornendo contributi significativi e originali. Pietro Prini (n. 1915), professore di Filosofia teoretica all'università di Roma, oltre a riproporre in una nuova edizione due libri importanti che ripercorrono storicamente la vicenda dell' esistenzialismo e riflettono sulla sua eredità e rilevanza attuale (Esistenzialismo e filosofia contemporanea, 1970; Storia dell'esistenzialismo. Da Kierkegaard a oggi, 1989), affronta, in I.:ambiguità dell'essere (1989), l'odierna problematicità di un riferimento all'essere per il pensiero, in una chiave che riattualizza i suoi noti studi dedicati a Gabriel Marcel (al riguardo sono da vedere la terza edizione del Gabriel Marcel e la metodologia dell'inveri/icabile, 1977, e i recenti Il corpo che siamo, 1991; Il cristiano e il potere. Essere per il futuro, 1993). n linguaggio dell'uomo, dice Prini in r:ambiguità dell'essere, «si inscrive per propria natura in un altro linguaggio di cui non può parlare. Paradosso del metalinguaggio che istituisce la mente come luogo del silenzio, cioè come "il senso dell'indicibile nell'ambito di ogni pratica linguistica". La mente, in sostanza, "non può interrogarsi sul senso del proprio non poter parlare di ciò di cui deve tacere", ma può invece "convertire il proprio parlare nel silenzio che si interroga sulla sua incapacità di costruire il senso totale di se stessa": ossia si dispone all'indicibile della propria origine» (ciò che un'intelligenza artificiale non può fare). È in questa dimensione dell'indicibile che, attraverso la domanda filosofica, si radicano le esperienze del sacro e del mito, della musica e della poesia e infine dell'esigenza morale. Ciò comporta una trasformazione dell'esperienza dell'essere: «La questione dell'essere si trasfigura in un'opzione senza garanzia d'im208
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mutabilità o d'irrevocabilità e tuttavia, o anzi proprio per questo, ci apre alla speranza di una renovatio totale di noi stessi e del mondo in cui viviamo. li pensare l'Evento assolutamente originario dell'essere in rapporto con la possibilità del Nulla e del Male è tutto fuori che la debolezza di un pensiero che si depotenzia e cede terreno. Alla vertigine del non essere corrisponde la veemenza dell'affermazione dell'essere. Pensare l'essere è inventare, ossia ritrovare la potenza del "Sì"» (Ibidem). N on sarà sfuggita l'acuta critica e presa di distanza rispetto a ogni cedimento alle tesi del «pensiero debole», né, owiamente, l'ispirazione wittgensteiniana di taluni passaggi del ragionamento. Un Wittgenstein ripensato in una prospettiva non neopositivisticamente, per il quale, al di là delle intenzioni di Prini, si può far riferimento agli acuti lavori di Diego Marconi (n. 1947), allievo di Pareyson e docente di Filosofia del linguaggio all'università di Torino (Il mito del linguaggio scientifico. Studio su Wittgenstein, 1971; I: eredità di Wittgenstein, 1987 ). 18 Anche Armando Rigobello (n. 1924), che ha insegnato nelle università di Perugia e di Roma ma la cui formazione è awenuta nell'ambiente padovano, ha sempre più approfondito il suo originario personalismo cristiano in un confronto con le tematiche contemporanee sul linguaggio, ispirandosi prevalentemente alla fenomenologia e alla ermeneutica di Ricoeur. Lo statuto metafisico della persona si apre alle peculiarità della parola simbolica e metaforica rendendo così possibile la comprensione dell'esperienza morale, che è il punto focale della meditazione di Rigobello, impegnato in un continuo ripensamento di Kant e in generale della filosofia francese contemporanea (Legge morale e mondo della vita, 1968; I:impegno antologico. Prospettive attuali in Francia e riflessi nella filosofia italiana, 1977; Kant. Che cosa posso sperare, 1983; Autenticità nella differenza, 1989). Nella esperienza morale si realizza l'incontro con una «estraneità interiore», dice Rigobello, e a questa espressione si richiama anche Marco Maria Olivetti (n. 1943) nel suo Analogia del soggetto (1992), che delinea un percorso complesso e originale, in un fecondo dialogo con le principali istanze del pensiero contemporaneo. Allievo di Enrico Castelli, Olivetti dirige l'autorevole rivista «Archivio di filosofia» e l'Istituto di Studi Filosofici che ebbero in Castelli l'iniziatore e l'ispiratore. Olivetti insegna Filosofia della religione all'università di Roma e ha tra l'altro pubblicato Il tempio simbolo cosmico (1967); La filosoFa del linguaggio di ]acobi (1970); Filosofia della religione come problema storico (1974). La tesi centrale di Analogia del soggetto è «che
18 Marconi si è occupato anche del rapporto logica-dialettica in Hegel nel saggio Contradictions and Language of Hegel's Dialectics (1980). Su Hegel in generale sono rilevanti i contributi, storici e teoretici, di Franco Chiereghin, filosofo morale, docente all'università di Padova, di cui sono da vedere i testi di e su Hegel pubblicati nella collana «Quaderni di verifiche>>, da lui diretta (Hegel e la metafisica classica, 1966; Dialettica dell'assoluto e
antologia della soggettività in Hegel, 1980; Essere e verità, 1984; Possibilità e limiti dell'agire umano, 1990). Su Hegel sono da segnalare inoltre due significativi studi di Leo Lugarini (1920), professore di teoretica all'università di Roma, di cui sono ampiamente noti i lavori su Kant, Aristotele, Husserl e Heidegger: Hegel: dal mondo storico alla filosofia, 1973 e Prospettive hegeliane, 1986.
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non esiste un'essenza dell'essere umano». Tale essenza, sostiene Olivetti, è « immaginata», ed è solo per questa immaginazione che l'essere e l'umano si coappartengono. «Così, in un certo senso, si dice la fine dell'etica. Tuttavia così si dice anche che l'etica, e non l'antologia, è la filosofia prima, anzi anteriore. » Questa tesi riecheggia la posizione di Lévinas, ma a Olivetti sta soprattutto a cuore mostrare come l'« equivocità» (nel senso etimologico del termine) tra antologia ed etica apra «l'intervallo dell'essere, dispiegando la scena dell'interlocuzione. L'essere è inter-esse, e ogni interesse - anche }'"interesse della ragione" - è già antologico. Un differente ergo - un differimento dell'ergo - si impone, allora, rispetto a quello comportato dal cogito del soggettivismo moderno ... ». Non cogito ergo sum, dunque, ma loquor ergo sum; cioè, come indica la forma deponente, è nel parlarsi e nell'esser parlati che si viene all'essere, in un nesso «analogico» che è l'origine di ogni logica. Una profonda ispirazione morale attraversa anche tutta l'opera di Vittorio Mathieu (n. 1923), che insegna all'università di Torino e di cui sono ben noti i fondamentali studi su Bergson e su Kant. La sua produzione più recente affronta in modo acuto e criticamente originale i miti e le alienazioni dell'età moderna, nonché le correlative trasformazioni della mentalità e del costume, con interventi brillanti che vanificano luoghi comuni consolidati. Emblematico al riguardo è il saggio Filosofia del denaro. Dopo il tramonto di Keynes (!985), dedicato a un argomento che, fatta eccezione per Simmel e pochi altri, i filosofi non sono di solito disposti ad affrontare, sebbene il denaro, diffuso com'è in ogni società umana, sia una « realtà » antropologica per eccellenza. Gli aspetti inoggettivabili del reale sono al centro della riflessione etico-giuridica e sociologico-culturale di Mathieu documentata da numerosi studi: La speranza nella rivoluzione. Saggio fenomenologico (1972); Dialettica della libertà (1974); Perché punire (1975); Cancro in Occidente. Le rovine del giacobinismo (198o); Per una cultura dell'essere (1983); La voce, la musica, il demoniaco (1983); Vivere la speranza, dare la speranza (1985); Elzeviri swz/tiani (1986); Luci ed ombre del giusnaturalismo (1989). La coerenza etica della ragione consiste nel regolare le proprie azioni in termini di simmetria rispetto a quelle del prossimo. Di qui quella aspirazione alla giustizia che è il tratto peculiare della dignità dell'uomo. Essa tuttavia non esaurisce il dominio della vita etica, poiché la carità, dice Mathieu, trascende il diritto, anche se sorge sul suo fondamento. Su questa base nasce la critica di Mathieu a ogni forma di giuspositivismo, nonché il rifiuto della morale precettistica. Spetta alla cultura il compito di una integrazione delle parti che ne rispetti l'autonomia, in vista di una società in cui gli atti di ciascuno siano produttivi, non di beni a onta dei valori, ma di beni e pertanto di valori. Anche Gennaro Sasso (n. 1928), storico della filosofia all'università di Roma, autore di una celebre monografia su Machiavelli e di altri studi fondamentali su Croce, su Lucrezio e sul passato e il presente nella storia della filosofia, personalità filosofica originale, mai superficialmente coinvolta o influenzata dalle mode culturali via via succedutesi in Italia, 210
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ma coerentemente intenta a seguire la propria autonoma via di ricerca, ha dedicato un libro importante a uno dei luoghi comuni del pensiero moderno: Tramonto di un mito. I;idea di «progresso» tra Ottocento e Novecento (1984; si veda inoltre Per invigilare me stesso, 1989). Tra i più autorevoli filosofi morali italiani, Aldo Masullo (n. 1923), professore all'università di Napoli, autore, negli anni cinquanta e sessanta, di fondamentali saggi dedicati alla fenomenologia di Husserl e al marxismo fenomenologico di Sartre, ha imposto la sua originale meditazione sul problema del fondamento in saggi quali Antimeta/isica del fondamento (1971); La metafisica (198o); Filosofia del soggetto e diritto del senso (1990); ne Il tempo e la grazia. Per un'etica attiva della salvezza (1995) una sottile analisi della temporalità conduce alla distinzione tra il momento della grazia, in cui si colloca l'evento del vissuto, e il momento del significato, in cui si muovono il desiderio e il ricordo. Esistere per l'uomo non è né coincidere con l'essere, né ridursi al mero ente, ma frequentare la loro linea di confine. L'ambiguità del fondamento, il suo necessario declinarsi nella negazione di sé e del proprio rovescio, è al centro dell'ultima ricerca di un altro filosofo che, come Masullo, è partito da una ispirazione marxista che si è poi fruttuosamente confrontata con le recenti avventure del nichilismo, del pensiero negativo e dell'ermeneutica, attraverso percorsi non privi di connessioni con il lavoro di Cacciari. Ci riferiamo a Umberto Curi (n. 1941), storico della filosofia all'università di Padova e autore, tra l'altro, di Pensare la guerra (1985) e di Metamorfosi del tragico tra classico e moderno (1991). In Endiadi. Figure della duplicità (1995) Curi affronta il tema dell'identità e dell'alterità attraverso un percorso che rivitalizza le origini del pensiero occidentale, da Parmenide ed Eraclito a Platone, Aristotele e Plotino, e trova le sue fonti di ispirazione nell'analisi del mito e nelle figure del tragico in Eschilo ed Euripide. Evidente è peraltro anche l'ispirazione nietzschiana della ricerca per la denuncia della fondamentale e irresolubile dualità (per esempio di anima e corpo) che attraversa l'intera vicenda della cultura occidentale e di cui Eco e Narciso sono le emblematiche incarnazioni. «Entrambi incapaci, scrive Curi, di riconoscere l'indissolubilità del sé rispetto all'altro - e dunque impossibilitati a conservare il sé e a entrare in rapporto con l'altro - i due giovani subiscono infine una meta-morfosi, che conferisce a essi una morphé più adeguata alla loro ousia, fiore narco-tico l'uno, sasso re-sonabilis I' altra. » Eco e Narciso divengono così il simbolo dell'intima frattura che da sempre accompagna l'identità occidentale, una conclusione che non è lontana dagli esiti ultimi della meditazione cacciariana sull'Europa di cui si è a suo tempo riferito. Nell'ambito delle ricerche di filosofia morale Virgilio Melchiorre (n. 1931), docente all'Università Cattolica di Milano, si è da tempo imposto come una delle figure più originali e teoreticamente produttive. Tra le sue opere più recenti si possono ricordare La coscienza utopica (1970); L'immaginazione simbolica (1972); Metacritica dell'eros (1977). In Essere e parola (1982) la cifra più originale della ricerca 211
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di Melchiorre trova una prima compiuta espressione, che ha nel linguaggio simbolico (nell'accezione di Ricoeur) il suo perno problematico. Il metodo qui assunto è quello della fenomenologia trascendentale. Attraverso l'analisi delle strutture intenzionali della coscienza Melchiorre descrive lo spazio della dizione dell'essere, il suo farsi parola disegnando i tratti costitutivi della persona umana. Di quest'ultima, in Corpo e persona (1987), si tenta una ermeneutica che assume appunto, come avrebbe detto Nietzsche, il filo conduttore del corpo (peraltro uno dei grandi temi « contestativi» della filosofia contemporanea). In realtà il corpo, considerato nella sua valenza «simbolica» (per esempio nel senso preciso in cui il simbolo, come diceva Platone, è «uno di due»), è il centro e il «punto di vista» essenziale e inalienabile della persona. L'antologia personalistica di Melchiorre rivendica qui una originaria valenza cristiana, precedente l'esasperazione dualistica che si produsse nell'incontro tra cristianesimo e neoplatonismo. È soprattutto in Figure del sapere (1994), una raccolta degli scritti più significativi degli ultimi dieci anni, che Melchiorre dispiega compiutamente la sua analisi del linguaggio simbolico, del dire metaforico e analogico della parola religiosa e filosofica, confrontandosi nel contempo con gli autori che più hanno segnato il suo cammino (oltre a Kant, Kierkegaard, Maréchal, Maritain, Husserl, Heidegger, Ricoeur). Momento essenziale è il passaggio dal concetto al simbolo. Si tratta, dice Melchiorre, di restare nella linea limite «e di affidarci appunto alla dizione per simboli che non dice ciò che l'Essere è in sé, ma ciò che è per me: "antropomorfismo simbolico" o - come ancora Kant dice "conoscenza per analogia"». Tale analogia va pensata nella sua profondità ermeneutica (e non come pura equivalenza proporzionale): «il simbolo dice d'una relazione d'identità e di differenza fra due significati e questa relazione ha necessariamente la sua condizione di possibilità in una partecipazione d'essere. Si tratta qui di una partecipazione che certo non va intesa nel senso di una reciprocità ontica e che appunto per questo non è mai ravvisabile in termini di determinazioni chiare e distinte, ma che non per questo è meno reale»; una simile meditazione, letteralmente « metaforica », ha nell'esempio del cosiddetto secondo Heidegger un punto di riferimento fecondo. Pensare «simbolico» che frequenta la soglia della differenza e dell'origine (del «principio»); pratica del linguaggio che scandisce e insieme confonde i confini della parola filosofica e della parola evocativo-poetica: sono temi che abbiamo ritrovato, in differenti declinazioni, contesti problematici, riferimenti storici, non solo in Masullo o Melchiorre, ovviamente, ma in molti altri protagonisti della recente ricerca filosofica italiana. Da un lato, il riproporsi di questi temi mostra l'inoppugnabile fecondità della ispirazione ermeneutica, che ha in Husserl e ancor più in Heidegger il suo più profondo riferimento; in questa direzione il contributo di Franco Volpi (n. 1952), allievo di Enrico Berti e docente di Storia della filosofia all'università di Padova, appare particolarmente prezioso, anzitutto per la cura della edizione italiana di opere fondamentali di Heidegger come Segnavia (1987) e Nietzsche (1994), 212
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di cui si è parlato all'inizio del presente capitolo, 19 in secondo luogo per il lavoro interpretativo che questo giovane studioso è venuto elaborando in questi anni (Heidegger e Brentano, 1976; Heidegger e Aristotele, 1984). Da un altro lato ci sembra che proprio il tema ermeneutico della interpretazione chiami sempre più in causa i rapporti con la semiotica peirceiana (di cui si è detto a suo tempo) e con la riflessione wittgensteiniana sul linguaggio e sulla pratica dei giochi linguistici, la cui vicinanza tematica a Peirce si è venuta via via scoprendo. Pragmatismo ed ermeneutica approfondiscono sempre più il loro confronto che, al di là di indubbie differenze e lontananze storiche, mostra confluenze teoreticamente rilevanti e a loro modo «destinate», come avrebbe detto Peirce, in ogni caso utilissime per una riflessione sugli esiti ultimi del pensiero filosofico di questo secolo. Sicché vorremmo da ultimo rinviare il lettore, per quanto si riferisce ai temi qui evocati, al lavoro di uno dei più agguerriti storici della filosofia italiana di questi decenni, Antonio Santucci (n. 1926), professore all'università di Bologna e autore, alla fine degli anni cinquanta e sessanta, di opere fondamentali sull'esistenzialismo, la filosofia italiana e in particolare il pragmatismo in Italia, cui ha fatto seguito lo studio assiduo e acuto del pragmatismo americano, soprattutto nella versione di James e di Peirce, oltre che di Dewey: autori che conoscono oggi, non a caso, una rinnovata fortuna accanto a Nietzsche, Heidegger, Wittgenstein e al vecchio, ma si direbbe intramontabile, Husserl. Resta ancora il « caso » Derrida e il suo rapporto critico con Heidegger, tema di scottante attualità sul quale ha scritto pagine significative il già ricordato Maurizio Ferraris (n. 1956), allievo di Vattimo e professore di Estetica presso l'università di Trieste (La svolta testuale, 1986; Ermeneutica di Proust, 1987; Storia dell'ermeneutica, 1988; Postille a Derrida, 1990; La filosofia e lo spirito vivente, 1991).
fine studioso di Heidegger, Leonardo Amoroso, uno dei coautori del volume collettaneo Pensiero debole.
19 Nello stesso filone è da ricordare anche La poesia di Hoelderlin, 1988, a cura di un altro
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CAPITOLO
SESTO
Divenire del marxismo. Dalla fine del marxismo-leninismo ai mille marxzsmt DI
I
·
ANDRÉ TOSEL
CONSIDERAZIONI
PRELIMINARI
La fine ingloriosa del comunismo sovietico, la dissoluzione dell'URSs, la vittoria della democrazia liberale, e ancor più quella dell'economia-mondo capitalista, sembrano aver segnato la fine del marxismo e posto termine a ogni possibilità di rinnovamento. In campo politico, economico e sociale, il pensiero egemonico è ora il liberalismo (più o meno sociale, più o meno !iberista). Dietro la difesa anti-totalitaria dei diritti dell'uomo, il mercato si è imposto come l'istituzione decisiva della post-modernità. Il marxismo apparterrebbe a un passato di errori e di orrori. Tale è il credo del « pensiero unico » di questa concezione del mondo che, rovesciando le speranze di Gramsci, è diventata il senso comune degli intellettuali e degli ambienti economico-politici, e che viene presentata, con tutta la potenza dei mezzi di comunicazione, come la religione dell'individuo. Non resterebbe dunque altro da fare che redigere un necrologio sulla morte definitiva di Marx e dei marxismi, e liberare il pensiero per affrontare «l'epoca della fine del grande discorso dell'emancipazione». Ma le cose non sono così semplici. La storia degli anni 1968-1995 è estremamente contrastata. Se pure il marxismo-leninismo non ha cessato di sprofondare in una crisi irreversibile, avviandosi verso la propria fine, grandi operazioni di ricostruzione teorica hanno testimoniato della contraddittoria vitalità del nocciolo duro dell'opera di Marx. Tra il 1968 e il 1977, nella scia della Terza Internazionale o ai suoi margini, si svilupparono gli ultimi tentativi di rinnovamento della teoria marxista. Si trattava di proposte di riforma intellettuale, morale, politica, avanzate da teorici che erano anche militanti dei partiti comunisti, al potere o all'opposizione. L'opera dei grandi eretici e filosofi comunisti conobbe un ultimo e transitorio splendore (si veda oltre, G. Lukacs, E. Bloch, A. Gramsci, L. Althusser). L'ombra del 1968 aveva infatti messo all'ordine del giorno la prospettiva di un superamento della vecchia ortodossia e aveva lasciato sperare in una uscita dallo stalinismo da sinistra, in un momento in cui veniva posto il problema di un riformismo rivoluzionario centrato sulla possibile crescita di istanze di democratizzazione radicale. La concorrenza tra questi diversi modelli di ricostruzione della teoria marxiana - tutti nutriti da una rilettura di Marx, contraddittori nel loro rapporto con Hegel e la dialettica, caratterizzati da grande eterogeneità nei 214
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riferimenti alla tradizione filosofica o scientifica e divisi nell'apprezzamento del liberalismo -, tra antologia dell'essere sociale, utopia critica del non-essere-ancora, filosofia della prassi e filosofia dell'intervento storico-materialista dentro le scienze e dentro la filosofia ha rappresentato un momento di grande intensità e fecondità, che i troppo frettolosi affossatori di Marx fingono di ignorare. li contributo marxiano e delle grandi eresie marxiste non venne mai meno quindi nel campo delle scienze storico-sociali. Ma fu di breve durata; restava infatti da spiegare che cosa era successo in URSS e che cosa era realmente diventata la rivoluzione dell'Ottobre 1917; restava da spiegare per quali ragioni un'opera di straordinaria radicalità critica, eterodossa, rivoluzionaria, aveva potuto produrre una dogmatica così sclerotizzata come il marxismo-leninismo, con le sue leggi della storia e le sue categorie «dialettiche», legittimare una politica incosciente della propria natura, venuta a suggellare l'unione tra una filosofia ridiventata scienza delle scienze e un partitoStato totale. L'incapacità del comunismo sovietico a riformarsi in senso democratico, la sua insufficienza in materia di diritti dell'uomo e del cittadino, la sua incapacità a soddisfare, sul piano economico, bisogni di cui riconosceva la legittimità, lo resero inabile ad affrontare la spietata guerra di posizione che gli era stata imposta fin dalla sua fondazione. L'argomento del gulag divenne universale e delegittimò in blocco sia Marx sia le rielaborazioni degli eretici marxisti, sottoponendoli tutti a un medesimo verdetto di infamia. Gran parte dell'intellighenzia marxista, per lungo tempo compiaciutasi della tesi di Sartre - « il marxismo è insuperabile finché non sarà stato superato il momento storico di cui è espressione» (Questioni di metodo, 1957; poi introduzione alla Critica della ragione dialettica, 1960) - giudicò arrivato il tempo del superamento dell'impostura del secolo; molti si unirono alle fila del liberalismo e dell'epistemologia falsificazionista di Popper. L'implosione dell'URSs dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 ebbe come equivalente in Europa l'autoliquidazione del più grande partito comunista europeo, quello italiano - che abbandonava le velleità dell'eurocomunismo per unirsi all'eurosinistra e prendere il nome di Partito democratico della sinistra - e la generale crisi di strategia dei partiti comunisti occidentali, che mascherava, dietro un fondamentalismo marxista, la loro adesione a posizioni classicamente socialdemocratiche, esse stesse abbandonate dai partiti omonimi diventati tendenzialmente partiti democratici all'americana. E tuttavia, anche in presenza di questa spettacolare demolizione, una ricerca marxista libera e pluralista si conservava. Essa aveva perduto però uno dei suoi tratti fino ad allora principali, vale a dire il legame con forze politiche identificabili e con attori sociali (compatti, come il movimento operaio) che la modernizzazione capitalista aveva decomposto violentemente. La scomparsa dell'intellettuale di partito, il venir meno della figura dell'intellettuale coscienza critica di fronte all'emergere della figura dell'intellettuale esperto, elemento del cervello capitalista e dei suoi apparati diffusi, non stavano a indicare la fine della storia, chiamata ad acquietarsi finalmente nel matrimonio tra la democrazia liberale rappresentativa e il mer215
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cato sovrano. Marx continuava a essere oggetto di letture significative e a rappresentare un fattore chiave dei vari tentativi di elaborazione di una teoria critica al passo coi tempi, diversi dalle operazioni di ricostruzione prodotte dai grandi eretici del comunismo del periodo precedente. Piuttosto che a una fine del marxismo, si assistette alla fioritura, dispersiva e soprattutto impotente all'atto pratico, di «mille marxismi », per usare la felice espressione dello storico dell'economia-mondo lmmanuel Wallerstein (1995). Occorre allora valutare adeguatamente questa situazione che delude le speranze di chi ha creduto finito per sempre il marxismo. La causa di questa paradossale emergenza dei mille marxismi non ha tuttavia niente di misterioso: essa dipende, per un verso, dalla dinamica del capitalismo mondiale e dall'apparizione delle sue nuove contraddizioni, e per l'altro, dal singolare statuto del pensiero dello stesso Marx. Il destino del marxismo infatti non è paragonabile a quello di alcuna altra filosofia. In cento anni, esso è stato divulgato in tutto il mondo e ha ispirato un terzo dell'umanità. Se le speranze di emancipazione che ha suscitato sono state altrettanto smisurate quanto le delusioni provocate dal terribile fallimento della rivoluzione bolscevica, e se d'altronde non si può confondere Marx con Lenin, Lenin con Stalin, e quest'ultimo con Mao Tse Tung, resta comunque un substrato di idee comuni a questi marxismi e alle loro aberrazioni: l'idea che è possibile mettere fine alla dominazione e allo sfruttamento che stanno incollati come una camicia di Nesso al modo di produzione capitalista, l'idea che l'essere sociale capitalista è esposto, nella sua stessa immanenza, nelle sue forme economiche, politiche, sociali, culturali, a una critica che avrà fine solo con la fine del capitalismo. Questi marxismi si sono sviluppati attraverso straordinarie opposizioni interne, dando vita a ortodossie contraddittorie (Kautsky/Lenin, Stalin/eresie marxiste critiche, Tito/Mao, ecc). Lo sviluppo è stato discontinuo, così come è stato frammentario il rapporto con Marx: ogni generazione ha dovuto trovare il proprio Marx (per parafrasare il celebre titolo di un articolo del giovane Gramsci), e ha dovuto utilizzare un corpus metamorfico (si consideri il fatto che i libri II e rn del Capitale sono stati disponibili solo alla fine del XIX secolo, che i Manoscritti economico-filoso/ici del 1844 e l'Ideologia tedesca sono stati accessibili solo alla fine degli anni trenta, e che i grandi testi degli anni 1858-1863, Grundrisse inclusi, sono stati veramente utilizzabili solo dopo il 1945). Questo ritmo, fatto di sviluppi discontinui e di crisi ricorrenti, è dunque di fatto la norma di un pensiero che ha modificato il mondo storico-sociale. Nulla impedirebbe allora di formulare l'ipotesi che la crisi profonda che colpisce dall'interno il marxismo altro non è che il modo stesso d'esistenza e di resurrezione della fenice marxista. Se nulla consente di decretare la fine radicale del marxismo, destinato a trasformarsi continuamente e a esistere in forme non irrigidite a priori, bisogna allora spingersi oltre. La vita discontinua di questa filosofia dipende anche dalla sua specificità, che è sempre consistita, prima del 1914 e dopo il 1917, nella volontà di collegarsi a un movimento politico effettivo. Tale movimento, nato dalle contraddizioni del mondo storico-sociale capitalista, può tenersi in vita solo impegnandosi in una 216
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trasformazione «rivoluzionaria» dell'ordine stabilito, trasformazione iscritta nelle irriducibili pratiche di resistenza delle forze sociali sottoposte alla dominazione capitalista. Se la sua diffusione mondiale fino al 1991, data della fine dell'uRSs, sembra renderlo simile a una religione secolare, con ortodossie ed eresie, con il divorzio tra promesse utopiche e aporie della realizzazione, resta che il marxismo è stato ben più internazionale che le più universali tra le religioni. Esso è nato dai limiti, dalle contraddizioni, dalle insufficienze di un'altra religione secolare, l'ordine liberale. Ora, quest'ultimo, nella sua forma neo-liberale, potrebbe avere ottenuto nient'altro che una vittoria di Pirro nel 1991. Certo, questa data segna la fine di un ciclo storico iniziato nel 1848 con l'emergere simultaneo della questione sociale e della questione nazionale. Il marxismo della Terza Internazionale non è andato a pezzi soltanto a causa di una carenza democratica che ha annullato la prospettiva di un esito rivoluzion~rio della questione sociale e di un superamento della crisi del liberalismo. Esso si è infranto, anche, a causa della sua carenza internazionalista, che lo ha reso incapace di trattare la questione nazionale del xx secolo nella prospettiva dell'economia-mondo. Ma è sempre più evidente che la vittoria del capitalismo mondializzato e razionalizzato, sanzionata e preparata teoricamente dall'egemonia del liberalismo, sfocia in una crisi storica inedita di questo ordine liberale. L'economia-mondo si trova a fare i conti con la mondializzazione di una nuova questione sociale, manifestatasi nella dis-emancipazione di massa e anche nella proletarizzazione delle zone centrali del capitalismo, nell'aggravamento (certo differenziato) delle condizioni di vita delle moltitudini e nel trasferimento della ricchezza sociale a profitto di una classe dirigente sempre più concentrata e divisa dalla spietata guerra economica in atto. Questa medesima economia-mondo si trova, al tempo stesso, a fare i conti con l'inasprimento delle diverse questioni nazionali, spesso esacerbate sotto forma di questioni etniche, radicate nella gestione transnazionale della forza lavoro internazionale e nella differenziazione contraddittoria del mercato. Il contemporaneo, e ambiguo, affermarsi dei mille marxismi sarebbe così il segno precursore della crisi incipiente e inedita del nuovo ordine liberale e delle sue ideologie. Nessun risultato è garantito: né la capacità storica di questi neo-marxismi di pensare e di trasformare l'epoca che comincia, né l'attitudine del liberalismo a identificare la propria crisi e a controllarne gli esiti in un senso compatibile con le esigenze sistemiche del modo di produzione capitalista. Questi mille marxismi si presentano, anch'essi, sotto una forma inedita, sulla quale bisognerà interrogarsi, non foss' altro che per il fatto che la fine dell'unità coercitiva (e sempre provvisoria) di una ortodossia marxista lascia indeterminato il pluralismo dei mille marxismi. Quale è, infatti, si domanda lo storico Eric ]. Hobsbawm, 1 il consenso minimo su ciò che convenga chiamare un'interpretazione
r Il maestro dell'ultima storia del marxismo (Storia del marxismo, «Il marxismo oggi: un
bilancio aperto>>, 4, 1982, pp. 36 e sgg.).
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marxista legittima, dato che questa legittimità è « debole» per il fatto stesso di avere rinunciato a divenire ortodossia o perfino eresia? In ogni modo, una cosa è certa: il periodo che comincia con il 1991 non è quello della fine del marxismo. È piuttosto il periodo della fine del marxismo-leninismo come ortodossia unica e dominante e, per un altro verso, quello della fine delle grandi eresie marxiste, nella misura in cui queste erano segretamente ossessionate dalla speranza di un marxismo unico e vero. Di fronte alla crisi che minaccia il nuovo ordine liberale nel momento del suo apparente trionfo sul comunismo sovietico e su tutti i movimenti anti-sistema (movimento operaio e movimento di liberazione nazionale e anticoloniale, entrambi integrati), il pensiero di Marx conserva un enorme potenziale critico, dal quale potranno attingere i mille marxismi. Il capitalismo, infatti, fino a quando resterà dominante, renderà necessaria una critica, imposta dalle sue stesse forme di vita, e il marxismo potrà essere sollecitato, trasformato, ricostruito, rielaborato, abbandonando senza nostalgia le antiche certezze (sul destino finale del capitalismo, sulle forme univoche della lotta tra le vecchie classi, sui meriti comparati del piano e del mercato, sulle forme di democrazia rese necessarie da una transizione, sul senso stesso di questa transizione, sul ruolo e il contenuto di un lavoro liberato dallo sfruttamento). Questi mille marxismi, separati dalla prassi politica degli ex partiti comunisti, alla ricerca di un nuovo legame problematico tra la teoria e la prassi, costituiscono la forma fragile della continuità, spezzata e frammentata, della tradizione marxista. Essi sono esposti al pericolo, come dice bene di nuovo Hobsbawm, di veder rinascere nel proprio seno, un fondamentalismo marxista, nevroticamente fissato sulla ripetizione stucchevole di qualche tesi considerata centrale della teoria: per esempio, l'importanza generica della lotta di classe, considerata al di fuori di un'analisi delle sue forme attuali e mutate; la denuncia dello sfruttamento dei lavoratori, nell'ignoranza dei dibattiti sulla decrescente centralità del lavoro; la condanna a priori di tutto ciò che si suppone essere riformismo o revisionismo; il disprezzo delle necessarie correzioni e rielaborazioni; il massimalismo astratto, ecc .. Sarà difficile pensare l'unità di un capitalismo che si riproduce nel suo meccanismo di sfruttamento, ma trasformato nelle sue componenti e nelle sue pratiche. Sarà difficile ricreare un legame tra l'analisi di questo capitalismo e una politica di trasformazioni profonde ma determinate; riformulare la speranza in una società migliore senza investirla dell'illusione di realizzare finalmente la società perfetta; dare all'inevitabile escatologia la forma, certo sobria, ma per ciò stesso ben più militante, di una lotta tenace e determinata. Ancor più difficile sarà produrre dei modelli che integrino l'autocritica dell'esperienza storica, giustificata dai marxismi del passato, con la critica delle forme del capitalismo mondializzato. Ma la crisi aperta del liberalismo è il fondamento obiettivo di questi mille marxismi. Questa crisi non offre, di per sé, alcuna garanzia di successo né garantisce un superamento simultaneo dei vecchi marxismi (e degli elementi obsoleti di Marx) e del liberalismo. Ma questo 218
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compito è aperto, e sarà eseguito in una storia che i neo-marxismi agiranno in condizioni determinate e in forme impreviste. II
· DALLA
FINE
RIELABORAZIONI
DEL
MARXISMO-LENINISMO
TEORICHE
DELLE
ALLE
DISSIDENZE
ULTIME
COMUNISTE:
1968-1975
Fino alla metà degli anni settanta, il marxismo continua a essere un esplicito punto di riferimento dei grandi dibattiti sociali e culturali. Come si è detto, si tratta di un periodo in cui, all'interno stesso del comunismo internazionale, i grandi eretici del marxismo, che hanno elaborato il proprio pensiero dopo gli anni venti e attraversato le vicende dello stalinismo e del post-stalinismo, offrono i loro ultimi contributi e ottengono una certa udienza. È il caso di Gyi:irgy Lukacs (1885-1971) e di Ernst Bloch (1885-1977) che pubblicavano le loro ultime grandi opere, rispettivamente Ontologia dell'essere sociale (1971) ed Experimentum Mundi (1975). In un certo senso, è anche il caso dell'opera principale di Antonio Gramsci, i Quaderni del carcere, che vengono pubblicati nel 1975 nella loro versione originale da Valentino Gerratana, il quale sostituisce la vecchia edizione tematica allestita da Palmiro Togliatti, sulla quale si era formata, dopo gli anni cinquanta, un'intera generazione di marxisti italiani, riproponendone le potenzialità. Scritte da filosofi che danno al loro marxismo un'interpretazione comunista e che, malgrado le difficoltà a farsi largo all'interno dell'organizzazione dei partiti comunisti, assumono una posizione di militanti e riformatori, queste opere criticano i presupposti dell'esausta ortodossia del marxismo-leninismo-stalinismo e ne contestano la pretesa di rappresentare l'unica verità. Gramsci, morto nel 1937 in condizione di isolamento politico nel suo partito, ha comunque rivestito un ruolo di maìtre-à-penser nel Partito comunista italiano del dopoguerra. Il PCI era allora sospetto di revisionismo in seno al movimento comunista e Gramsci era considerato con inquietudine dai marxisti ufficiali del campo socialista o del Partito comunista francese, anche se Togliatti sosteneva la tesi che la problematica dell'egemonia altro non è che la versione leninista della rivoluzione nella fase in cui alla guerra di movimento succede la guerra di posizione. Lukacs, scampato alla repressione sovietica dell'insurrezione ungherese del 1956, fece esplicitamente della sua ontologia dell'essere sociale la nuova base teorica di un rilancio democratico del socialismo reale. E se è vero che Bloch dovette fuggire dalla Repubblica Democratica Tedesca a Tubinga, all'Ovest, la sua opera mantiene una indefettibile solidarietà utopica con l'idea comunista, che egli intende riformare in senso etico e metareligioso. Questa stessa solidarietà critica nei confronti dell' esperienza comunista del xx secolo viene testimoniata dall'ultimo dei grandi dissidenti o eretici, Althusser, militante contestatario del Partito comunista francese, per lungo tempo alla ricerca di una uscita dallo stalinismo da sinistra, e profondamente influen219
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zato dalla rivoluzione culturale intrapresa in Cina sotto la direzione di Mao Tse Tung. D'altra parte, è proprio l'opera infinitamente meno voluminosa di Althusser che spinge in secondo piano le grandi elaborazioni dei suoi predecessori eretici e che tenta un superamento ancor più radicale della teoria marxista. Tradotto subito in una gran quantità di lingue, oggetto di dibattiti appassionati e oggi rimossi, il tentativo althusseriano può essere considerato tanto come una proposta di ricostruzione del pensiero di Marx, quanto come una decostruzione aporetica, che individua il limite interno delle eresie propriamente comuniste, e che finisce per considerare salutare la crisi del marxismo, finalmente sopraggiunta. Quegli anni vedono così una pluralità di programmi di riforma intellettuale e morale del marxismo, unificati dal rifiuto del materialismo dialettico e del materialismo storico sovietici e dalla preoccupazione di infondere nuova vita a un movimento rivoluzionario travagliato dalla propria involuzione e dalle proprie impasse. Queste elaborazioni, sono tutte accomunate da una sorta di a priori politico e organizzativo. Esse accettano la pluralità teorica come un dato di fatto, ma non rinunciano a una nuova unità di teoria e prassi, di cui dovrebbe farsi portatore un partito comunista democratizzato, ma intatto nella sua unicità rivoluzionaria. Ciascuna cerca di ritrovare una unità tra teoria e prassi, in cui la prima è sempre identificata con il materialismo storico inteso come sapere dello sviluppo capitalista, delle sue contraddizioni e delle sue possibilità di trasformazione, e la seconda è identificata con l'agire storico delle masse guidate dai partiti comunisti. Tutte sono infine persuase della necessità di una chiarificazione propriamente filosofica o metateorica della teoria di Marx come condizione per ridare slancio alla sua capacità euristica di analizzare le modificazioni del capitalismo e della società socialista. Accanto a questi punti di accordo, si manifestano disaccordi sostanziali, che dimostrano tanto la fecondità quanto l'ambiguità dell'eredità marxiana: differenze nei riferimenti teorici - con il problema cruciale della valutazione di Hegel e dell'interpretazione della dialettica -; divergenze sulla politica da proporre (in particolare per quanto riguarda il ruolo dello Stato, del diritto, dell'etica, delle ideologie e della cultura). Nella forma del ritorno a Marx, ciascuno si costruisce un Marx proprio, un Marx soprattutto metateorico. Se si eccettua il caso singolare di Gramsci, il quale collega filosofia della prassi e contenuti «scientifici» della critica dell' economia politica e del materialismo storico, tutti gli altri abbandonano i contenuti dello spirito oggettivo (per usare un linguaggio hegeliano). Lukacs e Bloch sviluppano così un tentativo di riflessione sulle categorie della teoria marxiana, sulla sua specificità teorica, e si rivolgono in maniera privilegiata a ciò che Hegel chiamava lo spirito assoluto, vale a dire le forme dell'arte, della religione e della tradizione filosofica classica, per riproporre il problema dell'etica e del diritto. Althusser solleverà il problema epistemologico della scientificità dell'opera di Marx, per affrontare le modalità politiche della teoria e per inaugurare in fine una ricerca propriamente politica sullo Stato e i suoi apparati. 220
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r) Lukdcs e l'antologia dell'essere sociale
L'ultimo Lukacs contesta radicalmente i temi di Storia e coscienza di classe il weberismo della propria giovinezza estremista, un weberismo romantico, centrato sulla denuncia della razionalizzazione-alienazione capitalista. In questa fase, egli rinuncia alla dialettica del soggetto-oggetto incarnato nella coscienza di classe del proletariato, a cui la teleologia della storia assegnava la missione di superare la separazione borghese tra soggetto e oggetto. Cessa di esaltare la soggettività rivoluzionaria di una classe, intesa come l'unica capace di mettere fine all'azione astrattiva della merce e del valore di scambio, e di superare la crisi catastrofica di una razionalizzazione capitalista identificata con un meccanismo socio-economico di reificazione. Il tema, dalla sua stessa opera imposto al marxismo occidentale, della coscienza di una classe eccezionale, divenuta sapere totalizzante della vita sociale al di là dei punti di vista limitati delle scienze borghesi, e rappresentata adeguatamente dal partito comunista, viene criticato in maniera definitiva. Ossessionato dai fallimenti della burocrazia socialista nel realizzare il contenuto radicalmente democratico di questa coscienza di classe, consapevole del fatto che questa riabilitazione speculativa dell'organizzazione partitica aveva potuto imprudentemente giustificare i meandri della politica staliniana, Lukacs propone una ricostruzione antologica della teoria con lo scopo ultimo di costituire un'etica dialettico-materialista capace di regolare l'azione democratica dello Stato comunista. Lukacs muove dalla priorità dell'essere e dalla sua indipendenza in rapporto al pensiero. L'opera di Marx dipende filosoficamente da un approccio antologico che le consente di costituire un'alternativa nei confronti della coppia speculare rappresentata dall'antologia heideggeriana del Da Sein, che nega ogni oggettività scientifica, e dal neopositivismo, che riconosce solo la scientificità di quelle scienze che analizzano i livelli fisici o biologici dell'essere. L'essere sociale costituisce un livello di oggettività, che Marx ha saputo concepire, il cui dato essenziale è il lavoro, che presuppone e illumina gli altri livelli di oggettività, i quali sono sottomessi tanto alla causalità pura e semplice quanto a una causalità intessuta di una specie di immanente teleologia. Il lavoro è un'attività causale che instaura catene teleologiche produttrici di oggetti mirati, vale a dire di aggettivazioni che possono dare luogo, nel modo di produzione capitalista, a estraneazioni specifiche sottoposte all'obbligo della ricerca del plusvalore relativo, della sottomissione reale del lavoro al capitale. La manipolazione neo-capitalista subentra alle violenze aperte della sottomissione formale del lavoro al capitale. Ma la società socialista, dal canto suo, poggia su aggettivazioni specifiche che non realizzano la libertà di una prassi che articoli aggettivazione delle capacità del lavoro e connessione con le forme dell'essere sociale ai suoi diversi livelli. L'antologia dissolve il cattivo economicismo del materialismo storico staliniano, ritornando a Marx e utilizzando in maniera critica le categorie hege(1923), criticando
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liane, o « determinazioni riflessive », che costituiscono la prassi umana come autorealizzazione delle capacità umane nell'unità dell'appropriazione laboriosa della natura e dell'aggettivazione nei rapporti sociali. Lukacs distingue infatti i tre concetti di aggettivazione, alienazione ed estraneazione. L'aggettivazione è la trasformazione, teleologicamente adeguata, attraverso la quale un oggetto naturale viene elaborato per poter essere usato socialmente; essa risulta dall'elemento ideale che determina gli scopi del lavoro. Come tale, costituisce il quadro di ogni conoscenza scientifica che presupponga un minimo di indagine sugli strumenti, un minimo di individuazione delle catene causali indipendenti, nonché il sapere di determinati rapporti e leggi naturali. Se pure la scienza, come riflesso adeguato, si rende autonoma da questa aggettivazione, in quanto acquista una capacità di disantropomorfizzazione, essa non può tuttavia separarsi da quella. Ma non c'è aggettivazione senza alienazione, senza cioè un'azione di ritorno sugli individui, senza separazione tra le cose e la personalità di questi. L'alienazione fa tutt'uno con l'aggettivazione, in quanto indica l'apparizione di nuovi bisogni, di nuovi fini, in seguito a una retroazione della stessa prassi oggettivante sugli individui. L'alienazione è dunque positiva, ma può trasformarsi in estraneazione con i rapporti di sfruttamento e di dominio. Gli individui vengono infatti posti come strumenti per l'esecuzione di una finalità sociale, quale la valorizzazione capitalista. Si rendono così autonomi sistemi che influiscono sugli individui affinché essi realizzino le finalità dirette necessarie al compimento di una indiretta finalità dominante, la valorizzazione, che è in contraddizione con le possibilità di formare una individualità sociale ricca. Al di là delle classi e delle nazioni, il genere umano giunge alla soglia di un'alternativa antologica: o resta genere-in-sé, muto, soggetto alla manipolazione e all'estraneazione che separa gli individui da ogni appropriazione soggettiva delle loro capacità accumulate; oppure diventa genere-per-sé, permettendo agli uomini di realizzarsi come esseri capaci di rispondere alla sfida della loro situazione antologica moderna e di produrre fini in modo adeguato alla loro personalità. L'antologia non è dunque una astratta traduzione metafisica di Marx, ma l'espressione più vigorosa del suo potenziale, all'altezza di un'epoca che ci obbliga a porci la questione antologica: essere o non essere. Essere per la manipolazione generale, negatrice delle possibilità del genere-per-sé, o essere per «poter essere», realizzando l'alternativa determinata di trattare l'umanità, in ciascuno di noi e in tutti gli altri, come un fine. L'orizzonte dell'antologia è un'etica in cui il dover-essere non introduce una rottura nell'essere, ma si determina come poter-essere liberato nell'essere stesso: «Puoi, dunque devi». La lotta contro la manipolazione antologica radicale combina così la critica del neocapitalismo, esteso alla sfera della riproduzione della soggettività, con la battaglia contro le forme degenerate del socialismo, e nutre ancora fiducia nella capacità del partito-Stato di autoriformarsi.
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2) Un'altra antologia: l'ermeneutica del non-essere-ancora di Bloch 2
Se pure in quegli anni Bloch sembra avere ormai detto tutto con Il principio speranza, vera e propria enciclopedia mirante a rifondare i saperi nella prospettiva di un'utopia concreta, la sua inesauribile fecondità non cessa tuttavia di destare meraviglia. Passato all'Ovest nel 1961, con lo scritto Il problema del materialismo: storia e sostanza (1972) dà una base storica al proprio materialismo speculativo centrato sul non-essere-ancora realizzato e sulla nozione di una inesauribile potenza della produzione di un novum sperato. Poco prima di morire pubblica, nel 1975, la sua opera più sistematica, Experimentum mundi. Data per acquisita la pertinenza del materialismo storico e della critica dell'economia politica, Bloch vuole fornire una elaborazione categoriale, una Kategorienlehre, alla propria opera, intesa come critica del materialismo meccanicista e assunzione delle forme simboliche nelle quali si esprime la prassi. Va ricordato che il centro del marxismo di Bloch è la polemica contro la corrente fredda della dottrina, intesa come scienza oggettiva del processo storico e come critica dell'alienazione capitalista. Bloch vuole completare il marxismo risvegliandone la corrente calda, che è una ermeneutica della coscienza desiderante e anticipatrice di un novum non ancora realizzato, ancora in sospeso e racchiuso in potenza nelle forme simboliche prodotte dall'umanità nell'arte, nella religione, nella filosofia. La riattivazione di questa corrente calda, vale a dire lo sviluppo dell'utopia di· una vita nobile e degna, anticipata nella tradizione del diritto naturale rivoluzionario (Diritto naturale e dignità umana, 1961), converge con le forme dell'arte, che sono rappresentazioni produttrici di un mondo migliore, oppure con il contenuto eretico del giudeo-cristianesimo, che insorge contro l'ordine stabilito in nome di una comunità oppressa in cammino verso il regno del Figlio dell'Uomo (Ateismo nel Cristianesimo, 1968). Il potenziale di queste forme simboliche viene rivolto sia contro il capitalismo sia contro la burocrazia socialista, per rimettere in marcia il processo dell' emancipazione. Se pure è vero che Bloch ha finito per dubitare della riformabilità del socialismo reale, egli ha tuttavia conservato sempre la speranza in questo potenziale e non si è mai abbandonato alla disincantata constatazione dello scacco definitivo della modernità, né ha teorizzato una dialettica divenuta totalmente negativa, come i pensatori della scuola di Francoforte, Horkheimer e Adorno, che proprio in quegli anni si separano definitivamente da un marxismo giudicato irrimediabilmente prigioniero della dialettica autodistruttiva dell'Illuminismo. Experimentum mundi presuppone la problematica anteriore secondo cui, a partire dai sogni dell'immaginazione produttrice, il mondo non si riduce mai al suo essere dato, ma è invece attraversato dalla tendenza di una possibilità reale: essa anticipa un novum (che sarà anche ultimum) e un summum bonum. Entrambi si costituiscono come orizzonte di realizzazione, che il pensiero freddo non può concepire, 2
Su Bloch si veda anche il cap. x di questo volume.
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ma che l'arte e la religione profetica dei poveri possono quasi rappresentarsi, in una sorta di trascendenza immanente iscritta antologicamente nelle forme oggettive della soggettività: esso attesta l'incompiutezza dell'essere e si rivela come la sostanza stessa della speranza. A questo materialismo speculativo, che annuncia la gestazione e la possibilità del novum e del summum bonum, bisogna dunque dare una forma categoriale, per farne la base di una politica culturale fondata sull'alleanza con gli strati intellettuali o popolari che condividono (pur con mezzi espressivi diversi e senza riconoscere l'oggettività della scienza marxista) la stessa speranza antologica. Bisogna riformare il riformatore comunista attraverso l'assunzione di questi contenuti praticoutopici, proponendogli la formazione di un'individualità forte e capace di rilanciare il processo rivoluzionario, congelato. Le categorie sono la pre-formazione degli enunciati logici, dove si esprime, sotto diversi aspetti, la potenzialità di anticipazione; esse sono la formalizzazione di una potenza che risiede in ogni essere, di uno slancio e, al tempo stesso, forme del volere, del pensiero e della materia. Bloch distingue quattro insiemi di categorie. 1) Le categorie quadro, cioè dello spazio e del tempo, che vanno pensate nel loro rapporto con la fisica moderna. Se le figure spaziali non sono un puro e semplice dato ma sono sempre penetrate di temporalità, allora il tempo si pensa in maniera differenziata, secondo una scala i cui punti estremi sono, da una parte, l'oscurità dell'attimo presente e, dall'altra, l'attimo messianico o estatico che irrompe nel tempo lineare per lasciare pre-apparire il Jetzt-Zeit del compimento. Quest'ultimo, infatti, è l'apparire dell'identità di esistenza (o quod) ed essenza (quid), vale a dire del bene supremo colto nel nunc stans caro a certi mistici e a Walter Benjamin. Tra questi due poli si estende una temporalità pluridimensionale, in cui si iscrivono il tempo della storia naturale e quello della storia umana, con i loro diversi ritmi. E anche questo tempo umano è differenziato, con le sue non-contemporaneità storiche e le sue istanze di recupero di un contenuto non-trascorso da ereditare. 2) Le categorie di relazione, ovvero di trasmissione, come la causalità e la teleologia e il loro intrico nella storia storico-sociale. La causalità lineare deve essere relativizzata a profitto dell'interazione tra cause ed effetti e dell'intervento dell'effetto sulla propria causa, la quale si determina così come causa finale. La causalità contiene un aspetto qualitativo e obbedisce alla logica dei salti qualitativi, come hanno visto Hegel e Eduard von Hartmann. 3) Le categorie della manifestazione, ossia le figure processuali. Si tratta qui di opporre, alla conoscenza quantitativa, la conoscenza della quantità qualitativa, che mette in rapporto la sostanza del processo con la totalità plurima e aperta delle sue manifestazioni. Ma questa specificità non trasforma la filosofia in una prima philosophia che sviluppi un eidos atemporale. Essa ne fa invece un' antologia trasversale, immanente alla vita delle forme simboliche aperte e incompiute, che iscrive queste forme stesse nella speculazione soggettiva dell'essere come non-essereancora. 4) Le categorie settoriali. Esse corrispondono ai diversi settori della conoscenza (natura, storia, morale, arte, religione) e strutturano le forme simboliche, colte nella loro tensione di speranza, consentendo loro un orizzonte di realizzazione. 224
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3) La resistenza della filosofia della prassi di Gramsci
Queste ultime grandi sintesi non hanno svolto un ruolo storico che andasse oltre gli ambienti riformatori e democratici dei «paesi socialisti», anche se il loro vigore problematico le rende dei classici del marxismo del xx secolo, nutriti dalla tradizione idealista tedesca e dall'escatologia ebraica. Diversamente stanno le cose per l'altro grande del marxismo eretico, Antonio Gramsci. In quegli anni, Gramsci esercita una funzione dominante nella cultura del movimento comunista italiano, cui si attribuiva allora una strategia originale, quella della via nazional-popolare verso una democrazia progressiva (secondo la formula di Palmiro Togliatti, che ha permesso al PCI di conservare a lungo la speranza di una riforma del comunismo sovietico). La pubblicazione dei Quaderni del carcere nella loro versione originale dà un'ultima forma al progetto della riforma intellettuale e morale del marxismo-leninismo: una filosofia della prassi connessa a una scienza della politica e a una strategia dell'egemonia. La filosofia della prassi è infatti una vera e propria rielaborazione del materialismo storico, e non si limita a proporre ·una democratizzazione del socialismo esistente né a colmare le lacune dell'opera di Marx cercando in una antologia la risorsa che consenta di utilizzare i potenziali del paradigma del lavoro o le riserve di utopia delle forme simboliche. Elaborata nel periodo forse più difficile del secolo, la filosofia della prassi prende atto della stagnazione, anzi dell'involuzione statal-corporativa della costruzione socialista e, al tempo stesso, della capacità di ripresa delle democrazie liberali all'epoca della crisi delliberalismo sotto il fascismo. La forza di anticipazione concettuale dei Quaderni ha potuto rivelarsi solo dopo il 1945, al momento della diffusione del wel/are state. Gramsci intreccia quattro ricerche, circolarmente legate tra loro, per concepire un rilancio della rivoluzione in un periodo di arretramento, dovuto a una lunga guerra di posizione e a una rivoluzione passiva. Fino alla fine degli anni settanta, un'intensa attività intellettuale, in Italia e altrove, permette di mettere meglio a fuoco la figura dell'eresia gramsciana come la più efficace sul piano teorico e pratico. È un'operazione propriamente filosofica di rielaborazione del materialismo storico a guidare la complessa strategia teorica di Gramsci. Spingendosi oltre i limiti dei marxismi deterministi e meccanicisti della Seconda e della Terza Internazionale, Gramsci ripensa i rapporti tra la struttura economica e le sovrastrutture politiche, giuridiche e culturali. Affrontando il problema di come le strutture producano le sovrastrutture e di come l'economia diventi politica, egli rifiuta di fatto la derivazione unilineare e la tematica dell'azione reciproca. Elabora invece la nozione di blocco storico, analizzando la logica attraverso la quale i rapporti di forza economici si convertono o si traducono in rapporti di forza etico-politici. Tale logica è anche quella per cui prende forma e si realizza la catharsis necessaria affinché lo spazio delle costrizioni divenga il luogo in cui si forma una volontà collettiva, attiva, libera, plurale e capillare. Risulta dunque decisivo il processo attraverso il quale una
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classe trasforma la propria posizione (dominante o no) all'interno dell'organismo economico-sociale in istanza di direzione etico-politica, producendo i propri intellettuali, funzionari delle sue specifiche attività, e divenendo Stato allargato alla società civile. La revisione antideterminista della scienza storica si combina con la messa a punto di una scienza e di un'arte della politica che è processo di costituzione di una volontà soggettiva-oggettiva. Questa scienza e questa arte sono indissociabili da una strategia: la strategia dei produttori che si trovano in una situazione unica, non simmetrica a quella della classe borghese dirigente. Quest'ultima ha dovuto trasformare il proprio dominio, già acquisito sul terreno economico-corporativo, per convertirlo in capacità di direzione etico-politica e culturale, accettata e relativamente universale. La nuova classe, invece, non è dominante su questo terreno e deve dare prova della propria capacità di direzione etico-politica e culturale senza possedere il potere economico. Bisogna dunque realizzare un lavoro teorico di ricognizione del terreno etico-politico, e valutare il peso degli apparati egemonici che strutturano la società civile (educazione, comunicazioni, organizzazione della vita culturale). Questi apparati vanno investiti con una pratica e un'azione organizzatrice che consentano di accerchiare lo Stato e farne uno strumento per costruire un'economia regolata e perseguire la trasformazione degli apparati egemonici della società civile. Questa proiezione della critica dell'economia politica sul piano della politica esige una pratica della politica che sia, al tempo stesso, organizzata e democratica: prendendo atto dell'opposizione secolare tra dirigenti e diretti, essa deve proporsi infatti una sua tendenziale eliminazione, attivando le capacità autonome delle classi subalterne. Una simile impresa obbliga a ritornare alla filosofia immanente, alla concezione, così riformulata, del materialismo storico. Bisogna cogliere in tutta la sua portata la rivoluzione filosofica di Marx, che supera sia il vecchio materialismo economicista sia l'idealismo della volontà trascendentale. È necessario eliminare il marxismo oggettivista e naturalista di Plechanov, ripreso poi da Bucharin, nonché l'ortodossia marxista-leninista, e riformulare la parte migliore di Lenin, la sua concezione della politica come dittatura del proletariato, divenuta egemonia delle classi subalterne alleate tra loro. E per fare questo, si devono utilizzare gli elementi attivi dell'idealismo di Hegel, se non addirittura di Croce e di Gentile, che hanno saputo tematizzare la funzione della volontà. O meglio ancora, più precisamente, si deve ridare vita al programma di filosofia della prassi formulato da Antonio Labriola, liberandolo dal rivestimento speculativo dell'idealismo neokantiano di Croce e dalla torsione attualista e soggettivista operata da Gentile. Questa filosofia, intesa come la forma adeguata della pratica filosofica di Marx, non si pone la prassi come oggetto generico, bensì sostiene che le forme teoriche stesse appartengono alla prassi e dipendono dalla sua insuperabile storicità, e fanno parte di una concezione del mondo cui partecipano anche le classi subalterne. Pensare l'assoluta immanenza delle forme teoriche ai rapporti sociali e ai conflitti che essi strutturano, significa pensare e saggiare
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l'opera di Marx nella sua capacità di interpretare il mondo storico-sociale e di farsi concezione del mondo delle masse (nel duplice senso della parola concezione: come sistema di rappresentazioni e di pratiche conformi, e come genesi reale di un mondo o di una civiltà superiore). L'opera di Marx contiene in sé la possibilità di continuare e di portare a compimento il moto di universalizzazione e di attivazione soggettiva di masse infinite, di superare sia la Riforma sia l'Illuminismo e la Rivoluzione francese. Questa possibilità non è teleologicamente garantita e non rinvia a una filosofia della storia che preveda esiti necessari. Essa è sospesa alla capacità teorica della nuova concezione di riconoscere e di conoscere il proprio mondo, di formare i propri destinatari; è in attesa di verifica nell'azione egemonica dei produttori e nella creazione di forme etico-politiche effettivamente condivise. La riforma della teoria è intrinsecamente una riforma intellettuale e morale della cultura delle masse, che tende verso un'organizzazione efficace e democratica e verso un'appropriazione del patrimonio dei sa peri. Essa mette in questione gli intellettuali, quelli tradizionali, legati alle vecchie classi dirigenti, e quelli organici, legati alle nuove classi dirigenti e alla loro funzione di organizzazione economica e politica. Così come viene coinvolta tutta la cultura e persino il linguaggio: l'egemonia, infatti, è anche linguistica e culturale, riguarda la formazione di una lingua nazionale, della scuola e dell'università. Un cambiamento di egemonia è, simultaneamente, un cambiamento nel codice culturale e linguistico. Esso passa attraverso una trasformazione nazional-popolare, attraverso la possibilità di tradurre le pratiche le une nelle altre, attraverso un'educazione dei subalterni alla comprensione della propria situazione, attraverso l'appropriazione dei saperi più elevati e l'elaborazione critica del loro senso comune, attraverso una promozione della capacità di intervenire attivamente nella vita quotidiana. In definitiva, è proprio questa interconnessione tra le dimensioni filosofica, economica, politica, culturale, linguistica, che rappresenta la caratteristica per eccellenza di quel laboratorio sperimentale che è la filosofia della prassi. 4) La decostruzione dei marxismi dissidenti: Althusser o l'eresia nell'eresia 3
Questi stessi marxismi dissidenti furono messi in crisi dalla tesi di Louis Althusser, che può essere considerata l'ultima delle dissidenze. Althusser solleva infatti la questione della scienza marxiana e sottopone a decostruzione tutti gli elementi di hegelismo mantenuti da Lukacs, Bloch e Gramsci, sia che si tratti della dialettica teleologica del primo, della categoria del soggetto-oggetto del secondo, dello storicismo del terzo, oppure della concezione della contraddizione dialettica di tutti e tre. Queste rielaborazioni sono spostate in una prospettiva di ordine epistemologico, che impone la domanda: qual è il punto teoricamente fondamentale nell'opera di Marx? In Per Marx e Leggere il Capitale Althusser sostiene che Marx ha aperto il continente della storia all'indagine scientifica e ha così operato una rottura episte3
Su Althusser si veda il cap. xm del vol.
VII.
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mologica nei confronti dell'idea hegeliana di Wissenschaft, scartando ogni filosofia della storia che garantisca di realizzare alla fine la promessa di un compimento del soggetto. Althusser produce così l'ultimo dibattito internazionale a cui ha dato luogo il marxismo teorico. L'itinerario attraverso la metateoria conduce a specificare meglio la differenza tra scienza e ideologia; a identificare la scienza della storia come ordinata attorno a strutture che rendono vano l'umanesimo teorico; a precisare l'idea di una struttura complessa e dominante - quella cioè di una congiuntura storica determinata in ultima istanza dall'economia; a definire l'ideologia come un rapporto espressione di un rapporto reale degli uomini con le loro condizioni di esistenza, investito di una relazione immaginaria con il mondo vissuto; a ridefinire la teoria della contraddizione (a partire da una lettura di Mao) come contraddizione « surdeterminata » (irriducibile alla scissione di una unità semplice); a concepire l'autonomia della conoscenza come produzione teorica, che condivide la struttura formale di ogni produzione; a ripensare la nozione di totalità e i rapporti tra diacronico e sincronico; a definire la nozione di causalità strutturale (presenza della struttura assente nei suoi effetti). Questi elementi programmatici avevano un duplice obiettivo, teorico e politico. Dal punto di vista teorico essi intendevano rilanciare un'impresa conoscitiva che permettesse al materialismo storico di riacquistare vigore, dotandosi di una scienza politica legata a un sapere dell'ideologia, e di rinnovarsi, assimilando il contributo di Freud, di Lacan, e formulando una teoria della produzione degli effetti di soggettività fondata sul riconoscimento della scoperta dell'inconscio. Mentre, politicamente si proponevano di uscire dallo stalinismo da sinistra, promuovendo una politica di massa capace di superare le impasse della rappresentanza e della delega di potere in cui i partiti comunisti si erano invischiati; di elaborare una critica senza fine delle illusioni ideologiche, sapendo bene che l'ideologia è interminabile; di riformare l'autoritarismo impotente dei partiti comunisti, votati unicamente alla propria riproduzione. Ma bisogna dire che questo programma è rimasto sulla carta, se si eccettuano i tentativi condotti sul terreno della teoria politica (Nikos Poulantzas) o dell' etnologia (Emmanuel Terray e Maurice Godelier) o della sociologia (la teoria della scuola capitalista, con Roger Establet e Christian Baudelot). I risultati più notevoli si sono ottenuti soprattutto mettendo in rilievo le potenzialità della critica marxiana dell'economia politica, e in particolare il ruolo della sottomissione reale del lavoro al capitale (Etienne Balibar). L'importanza di questo programma è stata in gran parte filosofica, e perfino critico-aporetica. D'altra parte, ancor prima che si consumasse la tragedia personale di Althusser (che nel 1980, durante una crisi di depressione, assassinò la moglie), avviene la svolta politicista del suo pensiero. Alcuni brevi interventi, Lenin e la filosofia, Filosofia e filosofia spontanea degli scienziati, Elementi di autocritica, segnano, nel 1968 e nel 197 4, la fine dell' althusserismo teoreticista, della ricerca di una teoria generale delle pratiche teoriche, e di una ricostruzione d'in228
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sieme del marxismo. La filosofia, infatti, non è una teoria generale delle pratiche teoriche, condizione che ne farebbe una super-scienza in possesso della verità dei saperi: essa non produce direttamente conoscenze e concetti scientifici, bensì categorie che orientano correttamente la conoscenza, tracciando il confine tra lo scientifico e l'ideologico. Più precisamente, la filosofia garantisce una duplice rappresentanza, che le conferisce un ruolo operativo: rappresentanza delle scienze e delle rivoluzioni scientifiche presso la pratica politica, e rappresentanza di questa presso quelle. Questa doppia rappresentanza perviene alla coscienza di sé grazie alla rivoluzione scientifica marxiana, che include la conoscenza e le sue pratiche nel movimento storico delle pratiche, strutturate dalla lotta di classe, e che separa le ideologie dai saperi, orientando il sapere nel senso della lotta di classe, sola capace di produrre effetti di liberazione. Il rapporto intrinseco della filosofia con le scienze va di pari passo con il suo rapporto altrettanto intrinseco con la politica. Una filosofia marxista non esiste, sia che essa si definisca come antologia dell'essere sociale, o come del non-essere-ancora, o come filosofia della prassi. Può esistere solo una pratica marxista della filosofia: tale pratica protegge il movimento delle scienze contro ogni sfruttamento di tipo idealistico che tenti di portare al potere valori pratici; sperimenta le categorie necessarie allo sviluppo della scienza della storia; assicura la convergenza tra movimento politico rivoluzionario e movimento delle conoscenze; si identifica con un materialismo dell'immaginario che rifiuta ogni teleologia del soggetto (epistemico o giuridico-morale) e dichiara che la conoscenza è pratica e che la pratica politica è lotta senza fine e senza garanzie né assoluti. Questa svolta non produsse effetti sulla prassi politica, mentre Althusser compiva un ultimo sforzo per pensare concretamente le nuove forme del dominio capitalista, concentrandosi sul ruolo di uno Stato protetto dai suoi apparati ideologici (ideologia intesa come sistema di istituzioni pubbliche/private che assicurano la riproduzione dei rapporti sociali). Le messe in guardia contro la deriva socialdemocratica e contro i vicoli ciechi elettoralisti della tattica di unione delle sinistre rivelarono il vuoto strategico del partito comunista, aggravato per giunta dalla degenerazione dei paesi socialisti. L'esplorazione della straordinaria scientificità dell'opera di Marx, di fronte all'impossibilità di un'autocritica radicale dell'esperienza comunista, si concludeva nel suo contrario, mostrando le lacune di questa scienza nelle aporie della realizzazione. La pratica marxista della filosofia diventava una sorta di epistemologia negativa, attenta ai difetti e ai limiti della scienza marxista: gli ultimi testi insistono sull'insufficienza della teoria del valore-lavoro, considerata fino ad allora come la scoperta fondamentale, insieme a quella del plus valore, della Kritzk marxiana, e sulla mancanza di una teoria della politica, o dell'immaginario e del simbolico. Non c'è da meravigliarsi che, in queste condizioni, Althusser saluti con gioia l'awento della crisi del marxismo, durante un convegno della rivista «li manifesto» nel 1978. È probabile che la pubblicazione postuma degli inediti di Althusser (I;avenir dure longtemps, 1992, scritto dopo l'uccisione della moglie) renderà visibile la dimensione apo229
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retica del suo pensiero, aprendo il delicato capitolo dei rapporti tra la malattia mentale e la teoria. Ma resterà acquisito che la figura tragica di Althusser appartiene di pieno diritto al pensiero del xx secolo e costituisce l'ultima vetta della dissidenza marxista prima della crisi finale del comunismo sovietico nel 1989-1991. III LE
· GLI
ANNI
DELLA
RIELABORAZIONI
CRISI
DEL
(E
PROBLEMATICHE
NEL) E
MARXISMO.
GLI ABBANDONI:
1975-1989
Alla fine degli anni settanta, la crisi del marxismo esplode apertamente, alimentata dalla stessa incapacità dei teorici marxisti a chiarire il corso della storia del secolo, a spiegare, servendosi del materialismo storico, il divenire delle società « socialiste», la loro natura e le loro strutture. n riconoscimento di un difetto di democrazia, la denuncia del totalitarismo, l'insistenza sugli equivoci della teoria marxista dello Stato e del diritto, l'abbandono di ogni filosofia della storia finalista e necessitarista, conducono a rafforzare le ragioni del liberalismo sociale e politico piuttosto che a produrre reali rielaborazioni teoriche positive. Se pure le grandi eresie precedenti continuano ad alimentare i dibattiti tra marxisti, questi perdono la loro presa filosofica al di fuori degli ambienti marxisti e svolgono ormai un ruolo secondario: è suonata l'ora del neopositivismo e, assieme a essa, quella delle diverse varianti dell'ermeneutica (heideggeriana o no, post-moderna o no) e dei ritorni alle diverse filosofie del soggetto neokantiane o fenomenologiche (teologiche o no). Gli ambienti marxisti conoscono un processo di aperta e rapida disgregazione legata alla marginalizzazione (Francia e Spagna), alla trasformazione social-liberale (Italia) o all'implosione (Europa dell'Est) dei partiti comunisti. Questa specifica crisi si iscrive nella più generale crisi del capitalismo: quest'ultimo, una volta finiti i trent'anni gloriosi della ricostruzione post-bellica, deve contrastare la tendenza alla discesa dei tassi di profitto, provocata dalla concorrenza mondiale, dalla gestione di una forzalavoro immigrata con forti connotati etnici, dalla ristrutturazione degli Stati-nazione, dalla riorganizzazione dei poli dominanti al Nord, dalla prosecuzione della guerra di posizione contro il «campo socialista». L'obiettivo reale di quella che si rivela sempre di più come un'offensiva in grande stile contro il wel/are state e il movimento operaio e come un'opera di ricolonizzazione finanziaria del terzo mondo, viene ideologicamente mascherata sotto la bandiera dei diritti dell'uomo e del cittadino, così crudelmente calpestati nei paesi «socialisti». La crisi del marxismo sembra trovare uno sbocco nel liberalismo sociale, sul piano teorico, e nella strategia socialdemocratica del compromesso sociale, sul piano politico. Se pure l'elezione in Francia di François Mitterrand alla presidenza della repubblica, oppure i successi elettorali del Partito comunista italiano o la tenuta della SPD tedesca, possono dare per un attimo questa impressione, in realtà è il momento della grande offensiva liberal-liberista, come dimostrano le vittorie dei conservatori della signora Thatcher in 230
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Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli Stati Uniti. La crisi del marxismo nasconde ancora la crisi del liberalismo sociale, così come la crisi del comunismo maschera quella dell'esperienza socialdemocratica. Più che i« nuovi filosofi» francesi- André Glucksmann, Bernard-Henri Lévy -,perfino più di Karl Popper, è la grande ombra di Friedrich Hayek che domina la scena. In questo contesto, il marxismo perde rapidamente la sua relativa egemonia. Molti filosofi e intellettuali abiurano con grande clamore oppure se ne allontanano discretamente. Si possono ridurre a tre le posizioni allora adottate: abbandono del marxismo; tentativo di un ritorno minimale a Marx, operando una rielaborazione con innesti di altre correnti di pensiero; conservazione del marxismo, come riserva di un'utopia critica, in attesa di giorni migliori per una ripresa della teoria. Non possiamo seguire interamente l'evoluzione di questa crisi e delle sue forme: ci limiteremo ad alcuni esempi, studiando le aree in cui il marxismo aveva conosciuto un'affermazione, in Francia, in Italia e nei paesi di cultura tedesca (Germania, Ungheria). 1) Post-althusserismo, decostruzione e rz/ondazioni marxiste in Francia
La Francia è uno dei paesi in cui la crisi del marxismo è stata più violenta. L'argomento del gulag, difeso dai «nuovi filosofi», pur sostituendosi a un reale pensiero, giacché di niente altro si trattava se non di una condanna moralista priva di un'organica concezione filosofica, presentava il conto da pagare per il fallimento del comunismo sovietico, per i suoi errori e i suoi orrori. L'althusserismo aveva avuto il merito di porre il problema di ciò che la Terza Internazionale aveva rappresentato: se il ricorso a Mao doveva presto apparire fantasmatico, una volta conosciuta la violenza della rivoluzione culturale, la ricerca di una politica di massa in un paese sviluppato poneva la questione di conoscere nuove forme di egemonia. Il dibattito sull'umanesimo continuò per un certo tempo e diede luogo a interessanti ricerche, soprattutto a opera di un filosofo comunista, membro del comitato centrale del PCF (da cui in seguito prese le distanze), Lucien Sève: in Marxismo e teoria della personalità (1968, terza edizione ampliata nel 1974), egli poneva il problema di un'antropologia centrata sull'uso del tempo e, in alternativa all'impiego di un tempo coatto, mostrava come fosse indispensabile fare riferimento alla formazione di una personalità morale allargata. Il limite di Sève, malgrado le sue interessanti osservazioni sul problema della contraddizione, era di rimanere all'interno di un materialismo dialettico relativamente convenzionale, esitante tra neo-hegelismo e neo-kantismo (Une introduction à la théorie marxiste, 1980). Allo stesso modo, la critica dello strutturalismo, come ideologia dell'eternità di una storia divenuta immobile, poneva il problema della storicità nel suo carattere singolare, senza il ricorso a improbabili leggi della storia, e sottolineava l'importanza delle forme come logiche materiali (Structuralisme et dialectique, 1984). Ma la struttura finalista e le garanzie di un comunismo finale venivano conservate in maniera dogmatica e gravavano sulle feconde intuizioni a proposito della pluralità delle dialettiche. 231
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Altre istanze teoriche, più sensibili alle gravi difficoltà del marxismo, tentavano piuttosto una ripresa francese della filosofia della prassi: venne il momento in cui, paradossalmente sulla scia della critica althusseriana, Gramsci ebbe una certa importanza in Francia e potè perfino apparire come il sostegno di una scienza politica dell'egemonia nelle condizioni del capitalismo moderno al culmine della sua fase fordista (si vedano i lavori di Jacques Texier, di Christine Buci-Glucksmann o di André Tosel, tra cui Praxis, vers une re/ondation en philosophie marxiste, 1984). Altre istanze ancora, più fortemente teoriche, tentavano non solo di tracciare dei bilanci ma anche di allargare la conoscenza della società, senza giungere però, malgrado la loro vitalità, a uscire da un certo isolamento. Tale fu il caso di Henri Lefebvre (190191): pur proseguendo l'analisi delle forme concrete della modernità capitalista (Le droit à la ville, 1968 e 1973, La production de l'espace, 1974), egli individuava nel modo di produzione statale l'ostacolo più grande all'emancipazione, mostrava l'incapacità del marxismo ad affrontare questo nodo (Lo Stato, 4 voll., 1975-78) e faceva un bilancio del marxismo inteso come ideologia mondiale e quindi degli elementi di contenuto e di metodo che dovevano venirne ereditati. In Une pensée devenue monde (1980) precisava che la mondializzazione capitalista aveva dimostrato, al tempo stesso, tanto la perspicacia di Marx che il suo fallimento, senza averne tuttavia esaurito la capacità di pensare l'indispensabile utopia progettuale. In questa ritirata del marxismo francese, bisogna sottolineare l'importanza dell'opera di Georges Labica (n. 1931) che, fortemente segnato dal politicismo di Althusser (Le statut marxiste de la philosophie, 1976), condusse a termine la difficile impresa del Dictz"onnaire critique du marxisme (1982, in collaborazione con G. Bensoussan), permettendo così alla pluralità dei marxismi di manifestarsi e dimostrando come non potesse essere messa da parte una teoria che a Parigi allora era di moda gettare alle ortiche. Questa opera fu una sorta di bilancio della pluralità dei marxismi che gettò le basi per nuovi ripensamenti della teoria marxista (di cui lo stesso Labica diede qualche esempio). In questo periodo di delegittimazione del marxismo, si conservò un sotterraneo marxismo post-althusseriano (non anti-althusseriano) che, pur privato sempre più di un rapporto organico con la prassi e con la politica, riuscì a svilupparsi in una duplice direzione: a) attraverso la scoperta continua della complessità di un'opera incompiuta e b) attraverso la prosecuzione di una certa produttività teorica. Nel primo caso, si può segnalare l'importante contributo di Jacques Bidet (n. 1945) Que /aire du Capita!? Matériaux pour une re/ondation (1985) che è un bilancio critico e una reinterpretazione generale del capolavoro marxiano. Sottoponendo a verifica alcune interpretazioni althusseriane, Bidet mostra come la dialettica hegeliana rappresenti tanto un punto di forza quanto un ostacolo per il metodo espositivo della critica marxiana, e propone di riesaminare tutte le categorie del sistema: valore, forza-lavoro, classe, salario, produzione, ideologia, economia. Egli mette in evidenza come le aporie della concezione quantitativa del valore-lavoro possano essere risolte
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solo attraverso una lettura indissolubilmente socio-politica, che costringa a pensare un'economia effettivamente politica del lavoro vivente. Jean Robelin (n. 1949), dal canto suo, sviluppa ulteriormante il pensiero di Althusser per inseguire le incertezze teoriche della socializzazione dell'economia e della politica di Marx e di Engels nella pratica della Seconda e della Terza Internazionale: Marxisme et socialisation (1989) è infatti la storia critica dell'idea comunista e delle aporie della sua realizzazione dal punto di vista della democrazia diretta e dei consigli, considerati come il solo pertinente livello di articolazione delle pratiche. A fianco di questi studi fondamentali, si sviluppa una ricerca sotterranea sui marxismi eretici e sulle loro potenzialità inesplorate (su Bloch, con i lavori di G. Raulet, M. Lowy, A. Miinster; oppure sull'ultimo Lukacs, con N. Tertulian). Nel secondo caso, l'elaborazione originale di Etienne Balibar (n. 1942) - dopo aver definito i concetti fondamentali del materialismo storico nel suo contributo a Leggere il Capitale - rimette in cantiere categorie decisive, centrate sulla tematica della sottomissione reale, e mostra la permanenza della lotta di classe (Plusvalore e classi sociali in Cinq études du matérialisme historique, 1974). Balibar abbandona infatti in quegli anni un costruttivismo dogmatico per praticare una sorta di sperimentalismo teorico di stile aporetico e per problematizzare le incertezze della teoria marxiana dello Stato, del partito e dell'ideologia (Stato, partito, ideologia in Marx et sa critique de la politique, 1979). A partire da questa rilettura di Marx, e dopo aver assimilato le tesi di Wallerstein sull'economia-mondo, Balibar mostra come la lotta di classe si colleghi alla gestione internazionale della forza-lavoro, come essa sia doppiamente « surdeterminata » dalla produzione di immaginarie identità nazionali ed etniche, come il potenziale di resistenza della classe operaia sia sempre sottoposto alla minaccia di essere trasformato e alterato da forme nazionaliste e razziste, e come, infine, nazionalismo e razzismo si implichino l'un l'altro (Race, nation, classe. Les identités ambigues, con I. Wallerstein, 1988). Balibar quindi smentisce coloro che troppo presto avevano dichiarato esaurito il filone althusseriano, sviluppandolo in un rapporto, insieme, critico e costruttivo (si veda la raccolta Ecrits pour Althusser, 1991). In tal modo viene ripreso e portato avanti il tentativo tragicamente interrotto dal suicidio di Nikos Poulantzas (1936-8o), che aveva cercato, su un piano più astratto, di fissare le linee generali di una teoria strutturale della pratica politica (Potere politico e classi sociali, 1968) e di ripensare le funzioni dello Stato in una concezione razionale del potere (I!Etat, le pouvoir, le socialisme, 1978). In questa stessa direzione, ma in un rapporto nettamente polemico con l' althusserismo, accusato di ignorare il movimento delle forze produttive colte nella loro singolarità, va segnalata la ricerca di Yves Schwartz, Expérience et connaissance du travail (1988). Essa mostra che, attraverso lo scarto tra lavoro prescritto (le norme della produttività capitalista nel loro incessante adattamento alla rivoluzione tecnologico-sociale del processo lavorativo) e lavoro effettivo, la forza-lavoro umana, o meglio l'atto produttivo concepito dal lato dei suoi attori, concentra in sé e riforma 233
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le configurazioni inesplorate della vita, della storia, del pensiero e del linguaggio. Questo approccio consente di aprire la discussione con altri teorici, come Jean-Marie Vincent (già autore di Fétichisme et societé nel 1973 e della Théorie critique de l'Ecole de Francfort nel 1976), i quali propongono, in Critique du travail. Le /aire et l'agir (1987), un confronto tra la critica marxiana dell'economia politica e la decostruzione heideggeriana dell' ontologia tecnicista, e auspicano una prospettiva di azione al di là del produttivismo, centrata su una democrazia intesa come trasformazione dell'azione e come arte di vivere. Infine, una sintesi delle acquisizioni e dei problemi del materialismo storico viene tentata da Toni Andréani (n. 1935) che, in De la société à l'histoire (1986), pone contemporaneamente la questione dei modi di produzione e quella dell'antropologia. Quest'ultima riceve un contributo importante da parte di Maurice Godelier (n. 1934), che dà al proprio percorso di etnologo marxista (Horizon, trajets marxistes en anthropologie, 1973) una sorta di sistematizzazione in I.:idéel et le matériel (1984): la componente ideale di ogni rapporto sociale, secondo Godelier, non è il riflesso più o meno deformato di tale rapporto nel pensiero, ma è una delle condizioni della sua nascita, elemento della sua struttura interna. Il simbolico è co-costitutivo del rapporto sociale, in maniere diverse a seconda delle forme sociali (non si può confondere l'ordine simbolico legato alle società in cui i rapporti di parentela coincidono con i rapporti di produzione e quello delle società in cui i rapporti economici di produzione sono direttamente determinanti). Tutte queste ricerche propongono una sorta di rilettura critica di Marx e sarebbe bene precisare su quale minima base comune dottrinale esse si accordino per definirsi « marxiste ». Anche se la vittoria di Pirro della nuova sinistra «socialista» le ha costrette alla marginalità, imponendo sulla scena i teorici social-liberali rassegnati all'eternità del capitalismo, e ha potuto far credere per un po' alle virtù di un giudizio politico separato da ogni critica sostanziale dei rapporti sociali neocapitalisti, pilotando la cosiddetta « modernizzazione ». Ma queste ricerche non si sono limitate a resistere: hanno anche esplorato i limiti e i vicoli ciechi di questa modernizzazione, hanno attualizzato, a modo loro, la passione anticapitalista di cui parlava il vecchio Lukacs, e tutto ciò con la consapevolezza del carattere irrimediabilmente datato, esaurito e improponibile delle forme organizzative e delle strategie del comunismo storico. La loro debolezza è consistita precisamente nel fatto che sono rimaste separate da ogni processo politico che fosse in grado di tradurre positivamente le loro istanze critiche. 2) Decomposizione della filosofia della prassi e ritorno a Marx in Italia
Paese con il più grande e liberale partito comunista europeo, ricco di una propria robusta tradizione marxista, quella del gramscismo togliattiano o filosofia della prassi, l'Italia sta assistendo oggi a una rapida dissoluzione di questa tradizione. La strategia di conquista dell'egemonia si è trasformata sempre più nettamente in pura e semplice politica democratica di alleanze elettorali. Lo storicismo, più togliattiano 234
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che gramsciano, è entrato in una crisi irreversibile, dopo essere riuscito a tenere insieme, sia pure in un rapporto di tensione, la prospettiva generale, astratta, di una trasformazione del modo di produzione capitalista e una politica di riforme destinata a realizzare gradualmente quel fine e fondata su un movimento reale, quale la forza del partito e la sua realtà di massa. Ma se è vero che questo storicismo ha evitato al marxismo italiano di conoscere il dia-ma! staliniano e gli ha consentito a lungo di non sottomettersi riverente alle «leggi generali della storia», è pure vero che la previsione delle possibilità della trasformazione egemonico-rivoluzionaria finiva per diluirsi in una tattica senza prospettive, mentre la conservazione di un legame con il campo socialista accreditava l'idea di una doppiezza nella strategia stessa. Nell'oblio, peraltro, del progetto gramsciano di rilancio della rivoluzione in Occidente in una situazione di «rivoluzione passiva», che implicava l'attivazione delle masse popolari e la creazione di situazioni democratiche che andassero oltre il semplice quadro parlamentare. In campo teoretico va ricordato il lavoro degli specialisti che hanno realizzato l'edizione dei Quaderni, chiarendone la struttura interna (Valentino Gerratana, Nicola Badaloni, G. Francioni, Franco Lo Piparo, Leonardo Paggi, Giuseppe Vacca, ecc.). Vanno segnalati inoltre gli studi sul materialismo storico di Gian Mario Cazzaniga, di M. Di Lisa e di A. Gianquinto, gli studi sul ruolo dell'astrazione del lavoro in Marx (R. Finelli, M. Mugnai) e l'esame dei suoi testi giovanili (F. S. Trincia) e dei Manoscritti del 1861-1863 (ancora Nicola Badaloni). Di fatto però la filosofia della prassi aveva ormai perso il contatto con il programma di analisi che ne aveva garantito la specificità e veniva tendenzialmente ricondotta da alcuni (ad esempio Biagio De Giovanni) alle sue origini attualiste nella filosofia di Gentile. A questo indebolimento corrispondeva la scomparsa del filone alternativo che, negli anni sessanta, aveva fatto da contrappeso al gramscismo, vale a dire l'elaborazione di Galvano Della Volpe (1895-1968). L'appello metodologico a pensare il galileismo morale di Marx attorno a una teoria scientifica humeana-kantiana dell'astrazione determinata, ad abbandonare ogni dialettica hegeliano-marxiana in quanto speculazione metafisica inadatta a cogliere la logica determinata dell'oggetto determinato, venne ormai recepito solo nella sua parte decostruttrice. Certo, dellavolpiani come Mario Rossi (1916-1978), con il suo monumentale studio Da Hegel a Marx (1960-1970), o come Umberto Cerroni, con le sue ricerche di teoria politica (La libertà dei moderni, 1969, Teoria politica e socialismo, 1972) continuarono a essere attivi. Ma lo scrupolo scientifico di Della Volpe venne in definitiva tradotto nel linguaggio dell'empirismo fallibilista di Popper e si trasformò in polemica anti-marxista. Esemplare in questo senso è la parabola di Lucio Colletti (n. 1924). La sua opera di marxista è concentrata in Il marxismo e Hegel (1969): rifiutando la distinzione hegeliana tra conoscenza analitica e ragione dialettica, Colletti sostiene l'universalità del metodo scientifico che procede attraverso ipotesi e sperimentazioni. Marx scienziato ha fondato una sociologia che esplicita le leggi del sistema capitalista, connettendole alla gene235
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ralizzazione del lavoro astratto e alla reificazione che esso comporta. La teoria ha come orizzonte la lotta contro questa astrazione diventata realtà, contro questa alienazione-reificazione; l'esito della liberazione deve essere una nuova legalità. Ma ben presto Colletti rifiuta la scientificità di questa sociologia fondata sulla teoria del valore-lavoro e separa la critica romantica dell'alienazione dall'approccio scientifico oggettivo. Più in particolare, egli discute la teoria della «contraddizione dialettica», alla quale sostituisce l'« opposizione reale». Rapidamente, anche la teoria del valorelavoro viene respinta per la sua incapacità a risolvere il classico problema della trasformazione dei valori in prezzi. 4 Partito da un marxismo antirevisionista e scientifico, o scientista, Colletti gradualmente esce dal marxismo per allinearsi alle posizioni di Popper, del quale difenderà tanto l'epistemologia fallibilista quanto la scelta politica a favore di un'ingegneria sociale tesa a migliorare la società. VIntervista politico-/zloso/ica del 1974, Tra marxismo e no del 1979 e, infine, Tramonto dell'ideologia del 1991 sono le tappe di questo distacco dal marxismo. Ci furono resistenze a questa posizione, soprattutto da parte dei filosofi che avevano partecipato al dibattito sulla scientificità, galileiana o no, della critica marxiana, a cui era immediatamente seguita la discussione sullo storicismo in seguito alla ricezione della problematica althusseriana. La via del ritorno a Marx si intrecciò con quella del riferimento all'utopia concreta. La prima fu la via di Cesare Luporini (1909-92), la seconda quella di Nicola Badaloni (n. 1924). Nella raccolta del 1974, Dialettica e materialismo, Luporini aveva proposto di leggere Marx secondo Marx: criticando, insieme ad Althusser, lo storicismo per la sua incapacità a pensare le forme storico-sociali e per la sua tendenza ad appiattirle sul flusso apparentemente continuo delle scelte tattiche, egli suggeriva di studiare le diverse modalità del passaggio a un'altra società, all'interno di un modello di sviluppo ineguale dei rapporti di produzione e delle sovrastrutture. Egli intendeva proseguire la ricerca su terreni lasciati incolti da Marx, come la critica della politica. I suoi interventi negli anni ottanta lo condussero a radicalizzare la propria posizione: il ritorno a Marx, al di là dei marxismi, significava constatare il fallimento di questi ultimi nella duplice impresa di pensare sia le aporie socialiste che la dislocazione dei rapporti di produzione del neocapitalismo ormai vincente. A proposito della politica, egli considerava la tematica della dittatura del proletariato come legata alla fase arcaica del materialismo storico, dominata dall'opposizione liberale tra società civile e Stato. La fase matura della dottrina mancava così di una teoria politica e questa, era sottinteso, non poteva essere definita da quella dittatura. Luporini non si spinse oltre e concluse la sua carriera senza accettare la normalizzazione socialdemocratica del PCI, divenuto PDS. Dal canto suo, Badaloni non abbandonava la prospettiva aperta dalla sua opera del 1972, Per il comunismo. Questioni di teoria. In numerosi e impor4 Su questo problema ha insistito una generazione di economisti, che hanno riformulato in ver-
sione minimale la critica marxiana: Claudio Napoleoni, Pierangelo Garegnani, Marcello Lippi.
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tanti studi dedicati, tra gli altri, a Marx e a Gramsci (in particolare Dialettica del Capitale, 1980), egli propose una « ricomposizione » radicalmente democratica della teoria. Questa non può contare sull'inasprimento del semplice antagonismo tra capitale e lavoro: si tratta invece di pensare in quale modo forze sociali non egemoniche possano controllare un processo di autogoverno che conferisca loro il potere di ricomporre gli elementi fino a ora sottomessi al capitale, vale a dire il capitale costante, il capitale variabile e il plusvalore. La prospettiva comunista viene anticipata nella possibilità, divenuta reale, del tempo libero. Si tratta certo di un'utopia, giacché da una previsione morfologica a lungo termine vengono tratte conseguenze politiche immediate, ma questa utopia possiede la sua coerenza e ha resistito alla rapida decomposizione dell'italo-marxismo. La stessa analisi va fatta per la singolare ricerca di Ludovico Geymonat (190891) la cui scuola marxista di teoria della conoscenza si dissolve ancora più rapidamente (salvo qualche eccezione rappresentata da storici della scienza come A. Guerragio e F. Vidoni, o filosofi neo-empiristi come S. Tagliagambe). n tentativo di Geymonat fu quello di riannodare i fili del materialismo dialettico, poco radicato in Italia, mostrando che il convenzionalismo neo-positivista e il materialismo leninista potevano correggersi a vicenda: se il primo era in grado di definire ogni teoria come costruzione operativa, il secondo introduceva la dimensione processuale nella teoria e la riportava al suo realismo. L ungi dall'essere ingenua o pre-critica, la nozione di riflesso, una volta dialettizzata, mirava a ri-produrre i diversi livelli del reale secondo un processo indefinito di approfondimenti successivi. In tal modo le teorie potevano essere considerate come la punta avanzata di un sapere infinitamente rettificabile, che aveva la propria base in un immenso patrimonio scientifico e tecnico (Scienza e realismo, 1977). Nonostante il considerevole sforzo di Geymonat in veste di organizzatore di una cultura aperta alle scienze (prospettiva del tutto originale nel panorama italiano, poco interessato alla razionalità delle scienze) e sensibile alle esigenze politiche di una trasformazione rivoluzionaria (Storia del pensiero filosofico e scientifico, 1970-77), la sua scuola non potè durare e molti dei suoi membri finirono per allinearsi con Popper teorico e pratico, seguendo l'esempio di Colletti. n marxo-gramsciano-togliattismo era ormai morto. Fu Norberto Bobbio che dimostrò allora di aver ben individuato i problemi di teoria politica. Egli mostrò il logoramento dello storicismo e il carattere ibrido di una teoria politica sospesa tra affermazione della democrazia parlamentare e critica dei suoi stessi limiti. Nel 1976 Bobbio raccolse i diversi interventi di un cruciale dibattito che lo aveva opposto agli intellettuali marxisti, Quale socialismo?, e che si prolungò in una discussione sul senso reale dell'egemonia gramsciana, contenuta in Egemonia, stato, partito e pluralismo in Gramsci (1977). Le tesi di Bobbio sono le seguenti: a) non esiste una teoria politica marxista; esiste solo una critica della politica che non ha mai saputo precisare quali sono le funzioni sociali che lo Stato socialista deve assumere. La risposta della storia, attraverso l'esperienza sovietica, è quella di un despotismo cen237
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tralizzatore, che ha significato un arretramento in tema di libertà civili. Ossessionata dalla domanda « chi governa? », la teoria marxista ha fatto del partito un feticcio e non è riuscita a inventare nuovi meccanismi e procedure democratiche del potere. b) La via nazionale al socialismo e la tema ti ca della democrazia progressiva, da parte del PCI, hanno garantito il rispetto del pluralismo politico e del quadro costituzionale; ma conservando il riferimento a una democrazia di tipo sovietico, esse hanno legittimato il dubbio sulla necessità o meno di mantenere le istituzioni liberali dopo la conquista del potere. La democrazia reale e imperfetta dei paesi occidentali non ha certo intaccato i veri centri del potere economico, né ha sviluppato forme di partecipazione operaia alla gestione dell'impresa capitalista. Ma d'altra parte il partito-Stato dell'Est ha eliminato il pluralismo etico, politico e culturale, nonché le sue regole e procedure, vale a dire l'eredità più preziosa del liberalismo. c) I teorici marxisti, con l'ambigua eccezione di Gramsci, non hanno dato alcun contributo alla soluzione delle difficoltà della democrazia moderna, né hanno posto i problemi giusti: come trasformare in senso democratico le amministrazioni private e pubbliche il cui principio strutturale è quello della gerarchia? Come esercitare il controllo popolare quando aumenta l'autonomia delle competenze tecniche? Il comunismo italiano non ha saputo né potuto rispondere in maniera creativa a queste domande e ha finito per trarre, insieme alla direzione del partito, la conclusione che allora sembrava a molti la più evidente: solo una teoria politica giusnaturalista social-liberale può ispirare l'azione di partiti di massa che sono ridotti a funzionare, a causa di un'evoluzione sociologica, come partiti d'opinione, impegnati su riforme democraticamente accettate per migliorare le condizioni dei più disagiati. In breve, il marxismo italiano si è in gran parte suicidato per metamorfosi social-liberale e ha accettato illiberalismo delle teorie della giustizia ricavate da John Rawls, senza nemmeno conservare il senso delle aporie tragiche mantenute da Bobbio. Un esempio di questa evoluzione è il percorso di Salvatore Veca, che, partito da una risoluta difesa - à la Della Volpe - della scientificità di Marx (Saggio sul programma scientz/ico di Marx, 1977), finisce per introdurre in Italia Rawls e illiberalismo della sinistra anglo-sassone (La società giusta, 1982; Una filosofia pubblica, 1986, nei quali sviluppa una critica di Marx fondata sulla denuncia della deplorevole assenza di una vera teoria della giustizia). Si potrebbe concludere che è morto solo ciò che non aveva in sé forza sufficiente per resistere e per riformare le proprie capacità teoriche. È questo il problema posto da un filosofo atipico che, in quegli anni di liquidazione, ha saputo procedere a un bilancio del marxismo in Italia, aprendosi all'esame incrociato dei grandi eretici comunisti (Bloch, il secondo Lukacs, Althusser) e tenendo conto dello sviluppo del pensiero critico dell'Occidente, con Nietzsche, Max Weber, Heidegger. Si tratta di Costanzo Preve (n. 1943) che, nel suo La filosofia imperfetta: una proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo (1984), individuava nel nichilismo, tipico del produttivismo capitalista, il fattore che avrebbe contaminato il marxismo
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e gli avrebbe impedito di riformarsi e di fare i conti con tutta una parte del razionalismo occidentale. La volontà di potenza appariva come l'ombra prodotta da una filosofia volontarista della storia che rischiava di distruggere i progetti di liberazione. Veniva annunciata una ricostruzione i cui elementi dovevano essere presi a prestito dall'ontologia ermeneutica di Bloch, dall'ontologia dell'essere sociale di Lukacs e dall'epistemologia antifinalista di Althusser, e correggere a vicenda i propri limiti. Proprio da parte della migliore tradizione storicista italiana si manifestò la resistenza più risoluta all'ondata liberal-liberista. Infatti, lo storico della filosofia Domenico Losurdo (n. 1941), in numerosi e solidi studi dedicati a Kant, Hegel, Marx e alla storia della libertà nella filosofia classica tedesca del XIX secolo (tra gli altri, Tra Hegel e Bismarck. La rivoluzione del I848 e la crisi della cultura tedesca, 1987, e Hegel, Marx e la tradizione liberale, 1988), ha intrapreso una contro-storia della tradizione liberale. Egli ha mostrato che quest'ultima, !ungi dal coincidere con la storia agiografica della libertà, ha sempre definito i diritti dell'uomo come quelli del solo proprietario privato; essa ha dunque negato quell'universalità del concetto di uomo che sembrava invece affermare, e ha allargato i propri orizzonti solo sotto la spinta delle lotte di classe e di massa, ispirate dalla tendenza moderna dell'umanesimo civile o del repubblicanesimo plebeo, alla quale appartengono Rousseau, Hegel e Marx. La resistenza storiografica costituisce così una base teorica per il rilancio di questa tendenza e per la rinascita del marxismo, invitato a procedere alla propria autocritica. 3) La teoria critica e il problema della dialettica: il difficile nuovo inizio del marxismo in Germania
La singolarità della situazione tedesca è dovuta, innanzi tutto, al fatto che la forte tradizione marxista delle origini fu distrutta dal nazismo; e in secondo luogo, al carattere minoritario assunto dalla ricerca marxista per via della separazione delle due Germanie (1945-89), che vedeva, all'Est, un'ortodossia marxista-lenista particolarmente rigida e, all'Ovest, un duraturo discredito del marxismo in quanto dogmatico, aggravato dalla ripugnanza degli intellettuali a fare i conti con il passato nazista. La Germania è il paese nel quale l'argomento del «totalitarismo» ha pesato maggiormente e dove è sempre stato assente il legame tra marxismo e movimento operaio, che ha invece caratterizzato a lungo le situazioni francese e italiana. La socialdemocrazia tedesca ha esplicitamente abbandonato ogni riferimento al marxismo con il programma di Bad-Godesberg (1959) e il partito comunista tedesco occidentale, a lungo fuori legge, non è stato una vera forza politica. È nel 1968 che il marxismo riappare nella Germania occidentale, durante il movimento di protesta degli studenti, sotto forma di socializzazione etico-politica extra-istituzionale, polemica contro l'unidimensionalità della società capitalista, in nome dei diritti di una libera soggettività. Sulla scia di questo movimento si sviluppano gruppi neomarxisti, con riviste come « Das Argument », diretta da W.F. Haug, o « Prokla », o « Gesellschaft ».
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a) Sulla teoria critica. Adorno o un'uscita non liquidatoria dal marxismo. Fu questo il contesto in cui si affermò la teoria critica, o scuola di Francoforte,5 e in cui si produssero opere di grande successo come I.:uomo a una dimensione (1964) di Herbert Marcuse. I due fondatori della teoria critica furono Theodor Wiesengrund Adorno, con Dialettica negativa (1966) e Teoria estetica (postumo 1970), e Max Horkheimer, con Eclisse della ragione (1947) e La società di transizione (1972). Ci si può preliminarmente domandare se questi teorici appartengano alla storia del marxismo, dal momento che la loro ricerca, fin dagli ultimi anni trenta, ha come asse una terza via tra liberalismo e sovietismo, e dal momento che tutti e tre terminano la loro carriera rimettendo in questione la prospettiva dell'emancipazione, considerata irrimediabilmente compromessa dalla finalità di dominio iscritta nel razionalismo occidentale (tesi acquisita a partire da Dialettica dell'illuminismo, pubblicato da Adorno e Horkheimer nel 1947). È tuttavia innegabile che questa scuola di pensiero non abbia mai cessato di definirsi in rapporto a Marx e abbia tratto il suo primo impulso dal libro del giovane Lukacs, Storia e coscienza di classe (1923). Il loro distacco dal marxismo passa attraverso una verifica radicale delle potenzialità di Marx e non comporta una resa senza condizioni davanti al liberalismo: la teoria critica ha conservato, infatti, il suo originale anticapitalismo (a eccezione dell'ultimo Horkheimer) e ha offerto importanti contributi allo studio delle forme culturali della vita mutilata dalla modernità neocapitalista. Nelle ultime opere di Adorno, che esercitano un'effettiva influenza in questo periodo, Marx occupa un posto rilevante. A lui viene attribuita la più lucida critica della modernità intesa come dominio della logica identitaria e omogeneizzante, imposta dalle astrazioni reali del capitale. Ma, nonostante le sue buone intenzioni, Marx non ha rotto con questa logica, che anzi riappare nello Stato comunista: in teoria esso mira infatti a riconciliare il particolare con l'universale, in realtà schiaccia il particolare, il non-identico, con tutto il peso della propria potenza. Marx ha voluto realizzare le esigenze della ragione pratica dell'idealismo tedesco, trasformando il mondo invece di interpretarlo (x1 tesi su Feuerbach). Ma la pratica reale non ha fatto altro che riproporre il principio di identità, contro il quale bisogna ormai lottare, poiché il suo orizzonte di fatto è quello di un dominio totale sulla natura e sull'uomo restituito alla natura. Solo una dialettica negativa può farsi carico del particolare, per pensarlo nel rispetto della non-identità. Marx intendeva criticare l'ideologia dal punto di vista dell'emancipazione ma, nella misura in cui l'identità è la forma originaria dell'ideologia, egli fallisce il suo obiettivo perché manca di un adeguato radicalismo speculativo. Il concetto deve dunque superare il concetto per giungere, al di là di una praxis-poiesis identificatrice, alla mimesis, vale a dire a un momento sensibile-sensuale, che consenta di far riemergere la natura, cioè la corporeità. Solo una riflessione seconda, critica del concetto identificante, può favorire 5 Sulla scuola di Francoforte si veda il cap.
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di questo volume.
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il riemergere della natura nella ragione, nel soggetto separato dalla soggettività sotto la coercizione di un'identità che assume l'aspetto dello scambio mercantile, tipico della società capitalista borghese ovunque dominante. Dopo Auschwitz, la sola speranza aperta a una vita buona è quella di una vera unità della teoria e della pratica, quale si realizza nell'arte. Non si tratta di pervenire a un «Totalmente Altro» etico-politico; la logica del declino, che presiede al divenire storico, lo esclude. Si tratta invece di accedere al solo spazio dove è preservata la «possibilità del possibile». L'estetica prende il posto dell'emancipazione etico-politica e rappresenta l'unica luce in una dialettica dei Lumi che ha rivelato, diventando dominio, la sua irriducibile oscurità. b) La questione della dialettica del Capitale e il rapporto tra Marx e Hegel. Di questa pessimistica visione antologico-epocale (forse più vicina a Heidegger di quanto Adorno stesso non volesse), solo la critica del dominio capitalista, con la sua diffidenza romantica nei confronti della positività scientifica e della tecnica, ha svolto un ruolo nei dibattiti dei neo-marxisti tedeschi. In ogni caso, si perde l'idea di un legame possibile tra la teoria critica e soggetti sociali che siano portatori di nuovi razionali principi storici di emancipazione, come nota Hans-Jurgen Krahl, uno dei marxisti più avvertiti della giovane generazione tedesca (Konstitution und Klassenkampf Zur historischen Dialektik von burgerlicher Emanzipation und proletarischer Revolution, 1971). Questa critica del dominio presuppone che la società moderna sia una totalità onnicomprensiva, retta dalla logica identitaria propria della tradizione filosofica occidentale, oltre che dal suo correlato, il rapporto astratto del valore di scambio, che impone il livellamento di tutti i prodotti e i soggetti dell'attività umana. Questa reciproca corrispondenza tra principio filosofico e categoria economica conferisce alla critica della società borghese una dimensione antologica, giacché questa società realizza, nella categoria del valore autovalorizzantesi (il capitale), il sogno mostruoso della storia della filosofia, come fa notare Otto Kallscheuer (1982). ll neo-marxismo tedesco intraprese dunque la via del ritorno a Marx e alla dialettica del capitale per ritrovare la strada della prassi e individuare un soggetto rivoluzionario. Si sono avuti così alcuni studi originali sulla logica del Kapital, e sulla sua differenza rispetto alla logica hegeliana. Questa ricerca fu contrassegnata, con esiti diversi, dalla preoccupazione di superare i limiti dell'analisi formale del valore di scambio e di determinare un soggetto empirico della trasformazione rivoluzionaria, che fosse realmente antagonista al soggetto assoluto della valorizzazione capitalista (cioè al soggetto capitale eretto da Adorno a totalità irriducibile). Questa ricerca dovette superare la tentazione di denunciare come pseudo-scienza tutti i momenti di controllo empirico che Adorno aveva rifiutato per principio in quanto forme del dominio. Se si voleva, infatti, avere una minima presa sullo sviluppo della società tedesca e non accontentarsi della problematica della società borghese come (cattiva) antologia, era necessario pensare i processi storici concreti (il rapporto produzione-
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consumo, la nuova produttività e i suoi effetti sulla stratificazione sociale) nella loro effettualità, non limitandosi a ricorrere massicciamente alla sola logica del dominio. Hans-Jurgen Krahl può essere considerato come il rappresentante più lucido di questa scuola, che non separa la ricerca sulla logica del capitale dalle trasformazioni morfologiche della società e che rifiuta il presupposto meta-storico di un dominio del capitale. Non si possono dedurre dall'analisi della merce le forme della socializzazione neocapitalista. Bisogna invece ripartire dalle analisi marxiane della sottomissione reale del lavoro e pensare la forma specifica del lavoro intellettuale e della sua divisione, cioè la sua integrazione nella categoria del lavoratore collettivo globale. Non ci si può limitare al concetto marxiano, strettamente inteso, di lavoro che crea valore. È necessario invece un concetto più ampio di lavoro, che si definisca come sintesi delle specializzazioni intellettuali e dei produttori di eticità. Il teorico collettivo della classe operaia moderna non può più essere un partito di avanguardia, ma deve piuttosto definirsi come unità tra intellettuali e classe operaia. Ma questo orientamento, che temperava la speculazione con il senso dell'empiria, fu minoritario, anche se ebbe poi degli sviluppi nel gruppo KlassenanalyseProjekt. Il ritorno a Marx infatti si espresse anche come analisi dei testi marxiani attorno al Capitale, come per esempio i Grundrisse del 1857-1858 e i Manoscritti del 1861-63. Tra queste letture meta-teoriche del Capitale, si possono distinguere due orientamenti, a seconda del grado di prossimità con la logica di Hegel. Il primo, basandosi soprattutto sui testi preparatori del Capitale, mostra che la dialettica di cui si è servito Marx nella sua esposizione è debitrice nei confronti della logica del concetto sviluppata da Hegel: il movimento che va dall'astratto al concreto, dal particolare al generale, è l' autosviluppo di una struttura che può essere pensabile solo come movimento dal semplice al complesso (H. Reichelt, Zur logischen Struktur des Kapitalbegrz!fs bei Karl Marx, 1970). Il secondo, che potremmo chiamare (con Gohler) della «dialettica ridotta», mostra che Marx utilizza la dialettica hegeliana in quanto unico strumento categoriale disponibile, ma che la trasforma in logica della scienza, nel senso analitico del termine. La teoria marxiana delle « leggi di movimento» del capitale non costituisce una totalità compiuta, ma racchiude una serie di teorie parziali, sempre più determinate e concrete, che introducono concetti e ipotesi a mano a mano che si allarga la loro sfera di applicazione. In ogni caso, risulta che Marx utilizza delle categorie hegeliane, ma senza preoccuparsi, come Hegel, del loro statuto ontologico, senza curarsi della loro corrispondenza con il modello hegeliano. Il problema del rovesciamento della logica hegeliana testimonia di questo libero uso di Hegel: per Marx si tratta di rifiutare come illusoria la mediazione assoluta e di sostituirle un riferimento materialista. Più in profondità, la questione della dialettica rinviava a un altro problema: se è possibile dedurre, da quella totalità che è il capitale, l'insieme dei fenomeni sociali moderni, se il capitale, come la totalità hegeliana, è insieme teoria sistematica del metodo e teoria del reale. La dialettica marxiana non può accettare questa identità tra metodo e contenuto: il 242
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reale non può essere il risultato del pensiero che concepisce se stesso, si approfondisce e si muove in sé. 4) Jurgen Habermas: dalla ricostruzione del materialismo storico alla teoria dell'agire
comunicativo, ovvero l'eutanasia del marxismo.
È questa, del resto, la tesi sostenuta dal filosofo e sociologo Jiirgen Habermas, 6 discepolo infedele della teoria critica, e autore del più articolato progetto di materialismo storico che sia stato avanzato in questo periodo. Vicino agli ambienti socialdemocratici e ostile al radicalismo dei neo-marxisti e alla loro speculazione totalizzante, Habermas pubblica nel giro di pochi anni Tecnica e scienza come ideologia (1968), Conoscenza e interesse (1968 e 1973), Theorie und Praxis. Sozialphilosophische Studien (1963-1971), Teoria della società o tecnologia sociale (1971, con Niklas Luhmann), La crisi della razionalità nel capitalismo maturo (1973) e Per la ricostruzione del materialismo storico (1976). Questa prima serie di opere mantiene aperta l'idea di una ricostruzione del marxismo. La seconda serie, detta della «svolta linguistica», la abbandona, per sviluppare una teoria critica comunicazionale risolutamente postmarxiana: Logica delle scienze sociali (1970, edizione ampliata nel 1982), Teoria dell'agire comunicativo (2 voli., 1981), Moralbewusstsein und kommunikatives Handeln (1983), Il discorso filosofico della modernità (1985). Combinando critica filosofica, approccio epistemologico e conoscenza dei processi sociali della modernità, Habermas non ha tuttavia rinnovato gli studi marxisti: egli li ha spostati sulle proprie posizioni in un processo che può essere considerato come un'eutanasia del marxismo, una fine non aggressiva, ma dolce. Habermas muove (in Theorie und Praxis) da una concezione del marxismo come critica, come teoria sociale che mira a fini pratico-politici di emancipazione da soggezioni economiche, sociali, culturali. Egli abbina un'esigenza di scientificità (mai ridotta a una concezione scientista della scienza della prassi) con una filosofia della storia orientata verso fini pratici, ma priva delle pretese assolutiste delle filosofie della storia. Si tratta di una teoria sociale che riflette sia il contesto della propria genesi in quanto teoria, sia il contesto della propria applicazione, giacché identifica i suoi destinatari in coloro che intende formare modificandone la coscienza pratica e dando le ragioni del loro ruolo e della loro missione storica. Seguendo qui lo Horkheimer della distinzione fra teoria tradizionale contemplativa e teoria critica pratico-emancipatrice, Habermas vede nella teoria critica una dinamica autoriflessiva animata da un interesse per l'emancipazione da ogni forma di dominio. Ma Habermas problematizza questa teoria critica e si interroga sulle sue specifiche capacità di conoscenza, intrecciando approccio meta-teorico-epistemologico e analisi dei contenuti storico-empirici. Conoscenza e interesse solleva il problema di una teoria critica della società che 6 Su Habermas si vedano anche i capp.
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sia, al tempo stesso, una critica materiale della conoscenza, e che dunque modifichi la gnoseologia integrandola con l'accesso ai problemi di contenuto. Marx presuppone una teoria della conoscenza che non può essere confusa con la critica hegeliana dell'intelletto scientifico in nome della ragione speculativa. Bisogna esplicitare questa gnoseologia nel senso kantiano-fichtiano di una teoria degli interessi della ragione, rifiutando al tempo stesso il concetto di totalità dialettica, mutuato dalla scuola di Francoforte, e fondato sull'equivalenza tra logica dell'identità e astrazione dello scambio mercantile. Bisogna riformulare la teoria della conoscenza dal punto di vista della teoria della società, combinando prospettiva trascendentale e prospettiva storico-sociale, ristabilendo la nozione di interesse della ragione capace di autoriflessione e riferendola alle dimensioni fondamentali dell'attività umana. Da quest'ultimo punto di vista, Marx non può limitarsi, per comprendere la propria impresa critica, alla sola dimensione della produzione, che include tanto il processo lavorativo (nella sua forma capitalista) quanto la scienza ridotta a mera scienza positiva della natura. È vero che il concetto di lavoro sociale presenta una pertinenza epistemologica, giacché esso è anche una categoria della teoria della conoscenza. La sintesi idealista trascendentale kantiana tra il soggetto e l'oggetto è sostituita dalla sintesi materialista tra la natura soggettiva e la natura oggettiva dell'uomo nel processo lavorativo. La teoria della conoscenza così esplicitata fa del processo lavorativo un contesto trascendentale per accogliere l'organizzazione dell'esperienza e l' oggettività della conoscenza. Ma si tratta qui solo dell'esperienza e della conoscenza orientate verso la padronanza strumentale e tecnica della natura, e dunque sono implicati solo il sapere della produzione in senso stretto e le scienze empirico-deduttive. Marx dimentica che la critica riguarda una prassi che non si riduce al solo lavoro, rria include l'interazione, considerata nelle sue dimensioni etiche, politiche, simboliche, che si realizza per mezzo di istituzioni e norme in cui è in gioco la lotta per il riconoscimento. La lotta di classe, tra l'altro, non si riduce al sapere della produzione, ma implica, nella sua immanenza, un sapere della riflessione normativamente orientato da un interesse per la comprensione pratica intersoggettiva che rimette in discussione le istituzioni create da un potere repressivo, divenuto ingiustificabile, di diritto e di fatto. Lavoro e interazione, come aveva visto Hegel e come, a suo modo, ricorda Hannah Arendt (Vita activa. La condizione umana, 1958) sono dunque le due forme fondamentali dell'agire sociale in quanto agire tecnico-strumentale e in quanto agire pratico retto da norme che aspirano all'universalità. La critica marxiana, senza averne completa consapevolezza, articola due forme dell'agire legate a due tipi di discorsi teorici, e li comprime l'uno nell'altro per una sorta di surrezione trascendentale congenita. Habermas corregge l'autocomprensione della Kritzk, impedendo di trascurare l'interazione e trattarla come produzione, e imputa a questa surrezione l'origine teorica delle forzature volontariste che hanno condotto il comunismo reale a trattare gli uomini come oggetti manipolabili a piacere. Su questa base - di critica della critica - diventa possibile riformulare i prin244
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cipi di una ricostruzione del materialismo storico, nell'opera omonima del 1976, dopo aver individuato le insufficienze della teoria ·marxiana della crisi ed esponendo una teoria della crisi di legittimità del Capitalismo maturo. La teoria marxiana delle crisi, fondata sulla caduta del saggio di profitto, non è pertinente nella misura in cui il capitalismo moderno inventa, attraverso la ricerca di una maggiore produttività, delle controtendenze, e trasferisce la crisi economica verso una crisi di legittimità dalle molte facce. Lo Stato sociale di diritto, frutto di un compromesso della lotta di classe, entra in una crisi fiscale che gli rende impossibile il finanziamento delle conquiste sociali (previdenza sociale, servizi pubblici) volendo restare fedele agli imperativi sistemici dell'accumulazione capitalista. Esso diventa un terreno di lotta poiché, sottoposto alla pressione contraddittoria della logica dei bisogni sociali che lo hanno giustificato e alla logica della produttività capitalista surdeterminata dalla concorrenza internazionale, si trova in crisi permanente di legittimazione. È su questo terreno della legittimazione che deve collocarsi un movimento di trasformazione sociale, che quindi non può più agire in nome di una classe operaia, per altro trasformata e inglobata in un'immensa classe media, in seguito agli anni del wel/are state. La ricostruzione del materialismo storico non sarà dunque la ripresa ut sic della critica marxiana dell'economia politica, tanto più che il carattere non risolutivo della crisi economica costringe a ritornare sulla teoria del valore-lavoro e sulle sue difficoltà classiche. La ricostruzione consiste nello smontare la teoria, non nel restaurare come un blocco (secondo l'espressione di Lenin) quel che è un insieme di elementi eterogenei. La ricostruzione sarà la formulazione di una teoria della storia orientata verso l'emancipazione. Essa passa attraverso la riformulazione della dialettica delle forze produttive e dei rapporti di produzione, in termini di tensione tra lavoro e interazione, tra due forme cioè dell'agire, in modo da poter meglio differenziare la logica interna di due distinte dinamiche, quella dello sviluppo delle forze produttive del lavoro e quella dello sviluppo delle forme di civiltà. Si manterrà così la prospettiva di un'evoluzione del genere umano che eviti le promesse infondate della filosofia speculativa della storia (che Marx ha condiviso, in quanto teorico del passaggio dal regno della necessità a quello della libertà). Habermas non si fermò a questa « ricostruzione »: molto presto, infatti, si staccò definitivamente dal marxismo proponendo la propria Teoria dell'agire comunicativo (r98r), destinata a trovare un riconoscimento internazionale. L'unità marxiana tra critica della società, critica della conoscenza e razionalità storico-filosofica, viene abbandonata. La necessità e la libertà non possono più fondersi e riconciliarsi nel principio unico del lavoro, inteso come poiesis-praxis, come produzione-azione. Habermas accetta il dualismo di essere e dover-essere, e fa ormai affidamento sulla teoria del linguaggio per elaborare una adeguata teoria della modernità: modernità che egli considera, malgrado tutto, come portatrice di promesse ancora incompiute e che rifiuta di demolire. Egli conserva la dimensione di una Aufklcirung, dove Marx appare come elemento costitutivo e superato. Questo superamento assume la forma 245
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del ritorno a una teoria dei distinti neo-kantiana, ma filtrata attraverso la svolta linguistica. L'interesse per l'emancipazione, che aveva uno statuto poco chiaro nel testo del 1968, viene riformulato come dimensione di un agire comunicativo, trasversale rispetto alle forme di agire già riconosciute, alle quali bisogna ormai aggiungere l'agire drammaturgico (di cui l'arte è la manifestazione più alta). Ogni tipo di agire presuppone la giustificazione razionale-linguistica delle norme che lo strutturano e che vengono elaborate in atti di parola, secondo proprie funzioni linguistiche. Ogni tipo di agire si definisce attraverso un orientamento di azione, un proprio atteggiamento fondamentale; esso pretende una specifica validità e stabilisce un rapporto con un «mondo» singolare. a) L'agire strategico comprende in sé un momento di obiettività scientifica; gli atti di parola che lo caratterizzano sono sia performativi che constatativi; esso realizza due funzioni del linguaggio, l'influenza sul partner e la presentazione di uno stato di cose; è orientato verso il successo e include un momento di intercomprensione; il suo atteggiamento fondamentale è oggettivante; la sua pretesa di validità dipende tanto dall'efficacia quanto dalla verità; il mondo a cui è correlato è il mondo oggettivo. b) L'agire regolato da norme presuppone atti di parola regolativi; esso realizza quella funzione del linguaggio che consiste nell'instaurazione di relazioni interpersonali; è orientato verso l'intercomprensione e sviluppa un atteggiamento che è quello della conformità alle norme e il suo mondo è il mondo sociale. c) L'agire drammaturgico si fonda su atti di parola espressivi, realizza la funzione linguistica dell' autorappresentazione, ha come orientamento di azione l'intercomprensione e sviluppa un atteggiamento espressivo che pretende la validità in nome della veridicità e che ha come mondo il mondo soggettivo. L'agire comunicativo è trasversale a questi tipi di agire e si manifesta come l'esigenza di una legittimazione discorsiva articolata in tre mondi: oggettivo, sociale, soggettivo. La modernità assume allora la forma del confronto tra il sistema sociale e il mondo vissuto, che è quello dell'agire comunicativo. n sistema sociale è sempre più dominato dagli imperativi del mercato e del denaro, mediati dal potere e dunque sottoposti all'egemonia dell'agire tecnico-strategico. Esso colonizza il mondo vissuto ed esaurisce le riserve dell'agire comunicativo. Il problema è dunque quello di limitare e regolamentare questa inevitabile colonizzazione. A dire il vero, di Marx resta ben poco. La critica dell'economia politica si è dissolta nella constatazione weberiana della non-trasformabilità della produzione capitalista, eternizzata sotto forma di attualizzazione dell'agire tecnico-strategico e della sua razionalità mondiale. L'emancipazione si è ridotta all'esigenza di un dialogo permanente sulle norme di misura o di giustizia, dove il consenso, in definitiva, è procedurale e non sostanziale. n programma dell'emancipazione viene riformulato secondo una pragmatica universale, che pensa le forme nelle quali gli individui associati riflettono le norme di razionalità delle loro maniere di agire. In essa, inoltre, il primato spetta a una ragione etica che, munita dei propri criteri di valutazione,
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si combina con una valorizzazione radicale della democrazia e può giudicare istituzioni e norme della vita associata, con la riserva però di considerare immodificabili le strutture economiche e politiche che definiscono il sistema sociale. 5) La scuola di Budapest, tra il distacco etico-antropologico dal marxismo e l'utopia marxiana
li percorso di Habermas è dunque l'esempio più elevato, in quanto è costruttivo, di uscita dal marxismo attraverso la trasformazione endogena di un programma di ricostruzione in eutanasia. È necessario paragonarlo al percorso dei membri della cosiddetta scuola di Budapest, che appartengono per cultura all'area tedesca. Allievi, discepoli, colleghi ungheresi del vecchio Lukacs, essi seguono con interesse il tentativo dell'antologia dell'essere sociale. Critici del regime comunista, Ferenc Feher (n. 1933), Agnes Heller (n. 1929),7 Gyorgy Maxkus (n. 1933) vengono espulsi dall'Università di Budapest dopo il 1968 ed emigrano in Australia, dove insegnano e lavorano. La Heller e Markus sono uniti da una comune critica della società socialista. Insieme a Feher, pubblicano nel 1982 Dictatorship over needs, in cui sostengono che il socialismo reale, contrariamente a quanto pensava Lukacs, non è riformabile. La soppressione del mercato coincide con la soppressione dell'autonomia della società civile a favore dello Stato; e il piano unico di produzione e di distribuzione, considerato dall'ortodossia marxista-leninista come il fondamento economico del socialismo, è organicamente incompatibile con il pluralismo, la democrazia e le libertà. La sostituzione della proprietà privata con la proprietà statale ha come risultato inevitabile la dittatura sui bisogni, che rappresenta la novità antropologica delle società socialiste. I produttori sono così sottomessi, dai meccanismi di questa dittatura, a una nuova classe, la burocrazia del partito-Stato. Prima di giungere a questa critica di tipo liberale, la Heller aveva tentato di operare una ristrutturazione del marxismo attraverso un'antropologia centrata sui bisogni radicali dell'individuo sociale, quali si manifestano nella vita quotidiana. Bedeutung und Funktion des Begri/fs «Bedur/nis» im Denken von Karl Marx (1973) aveva così proposto una lettura dei Grundrisse che metteva in evidenza la distanza che separava il progetto marxiano dalla sua realizzazione. L'idea di una Soziologie des Alltagslebens (1974) era stata completata con Instinkt, Agression, Charakter. Einleitung zu einer marxistischen Sozialanthropologie (1977) e con Theorie der Ge/uhle (1978). Venivano prese le distanze da Lukacs e dalla centralità del paradigma del lavoro, all'interno di un progetto che mirava a integrare i contributi dell'antropologia tedesca di Gehlen in una teoria della natura umana che valorizzasse l'incidenza dei processi di aggettivazione sulla formazione della personalità, mentre il riferimento all'uomo totale marxiano forniva l'orizzonte di una utopia regolatrice. Negli anni ottanta, questo riferimento si offusca e la Heller sviluppa una teoria della democrazia radicale 7 Su Agnes Heller si veda anche il cap.
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fondata su un'analisi, vicina a quella di Habermas, delle forme della razionalità, ma conservando la distinzione, di ispirazione lukacsiana, tra aggettivazione in sé e aggettivazione per sé, e insistendo sul carattere storicamente prodotto della personalità umana: A theory o/ history (r981), The power o/ shame. Essays on rationality (1983). A differenza di Habermas, tuttavia, la Heller mantiene il carattere irriducibile dell' aspirazione utopica dell'uomo ricco di bisogni, in seno a una comunità composta da una pluralità reticolare di rapporti. Gyorgy Markus, dal canto suo, ha svolto una critica del paradigma del lavoro del suo maestro Lukacs (Language and production, 1981). Egli rifiuta di sostituire quest'ultimo con il paradigma del linguaggio che, a suo avviso, valorizza la continuità e l'accordo, a scapito della rottura e del conflitto. Mostrando come, in Marx, il produttivismo della produzione in generale, realizzata dal comunismo, lasci quest'ultimo allo stato di forma informe, integrale di tutte le negazioni generali di ciò che finora ha dato forma alla vita sociale, Markus propone di pensare l'intreccio impuro tra il lavoro e la lotta per l'emancipazione senza mai separarli come due modalità opposte. Egli dischiude quindi la possibilità di una teoria della democrazia-processo, in grado di costruire, all'interno di negazioni determinate, forme anch'esse determinate, fondate sulla comprensione e la modificazione permanente degli autori della democrazia. Il compromesso habermasiano tra forme di agire viene dunque rifiutato a favore di un neo-marxismo che conservi la possibilità di trasformare le strutture dell'agire sociale. IV · I
MILLE
MARXISMI
ALLA
RICERCA
DELLA
LORO
UNITA:
1989-1995
La caduta del muro di Berlino e il crollo dell'uRss aprono definitivamente il periodo dei mille marxismi, alle prese con la mondializzazione capitalista e con l'ampio processo di dis-emancipazione che l'accompagna (smantellamento del wel/are state, neocolonialismi, crescita dei nazionalismi e dei conflitti etnici, inasprimento delle contraddizioni Nord-Sud). Tutto ciò mentre la ricchezza mondiale continua ad aumentare e la produttività del lavoro, invece di imporre la questione del rapporto fra tempo necessario e tempo libero, si traduce in disoccupazione irriducibile e in nuova miseria. La fine della dialettica ortodossia/eresie, una volta divenuta evidente l'incapacità dei partiti comunisti di riformarsi altrimenti che implodendo o trasformandosi in semplici partiti (social) democratici, pone il problema di come unificare la pluralità delle ricerche. Che cosa significa oggi dirsi « marxista »? Dove passa, in ogni marxismo, la differenza tra marxismo e non marxismo? Se le letture e i saggi teorici possono svilupparsi e contendere su temi un tempo essenziali, come quello del valore-lavoro e del mercato, dell'importanza relativa delle forze produttive e dei rapporti di produzione, nonché sulla configurazione delle classi e sull'effettività della lotta di classe; se la crisi va oltre la semplice questione della caduta tendenziale del
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saggio di profitto, se la critica della politica non può concludersi con la sola previsione dell'estinzione dello Stato, ma pone di nuovo il problema della democrazia, delle sue forme, delle sue procedure, così come pure del diritto, se il comunismo non è destinato a essere l'utopia della fine di ogni forma sociale conosciuta. Il periodo dei mille marxismi, che pone fine al ciclo di lotte del movimento operaio in quanto movimento anti-sistema e poi del movimento nazional-popolare anti-imperialista, rappresenta la più grande cesura nella storia del marxismo, che impone l'elaborazione del lutto per questa continuità troncata, ma anche il tentativo di pensare una nuova unità. L'attuale e irreversibile pluralità dei mille marxismi presenti e futuri pone il problema di definire un accordo teorico minimo nel campo dei dissensi legittimi. Senza anticipare troppo, diciamo che questo consenso, il quale autorizza le posizioni di dissenso, poggia su due elementi: a) accordo sulla possibilità teorica di un'analisi del capitalismo mondializzato e delle sue forme, inscritte queste ultime nella sussunzione reale del lavoro sotto il capitale, ma non derivabili direttamente da essa; b) accordo sulla speranza storica della possibilità reale di eliminare la disumanità comunque perpetrata (alienazione, sfruttamento, dominio, assoggettamento o manipolazione delle potenzialità della moltitudine) e di costruire forme sociali determinate, espressive della potenzialità o libertà della moltitudine. I mille marxismi sono e saranno dotati di una presa epocale sul tempo della mondializzazione capitalista . solo nella misura in cui evitano ed eviteranno di cadere nella trappola del fondamentalismo marxista (la mera ripetizione della denuncia della disumanità capitalista e il generico appello alla lotta di classe). Essi, inoltre, devono e dovranno svolgere tanto un lavoro di memoria critica su ciò che è accaduto a Marx e ai marxismi in questo secolo quanto un lavoro di conoscenza del terreno della mondializzazione capitalista. Questi mille marxismi sono e saranno dotati di una capacità di comprendere e modificare la nostra epoca, solo se riusciranno a combinare un rigoroso lavoro di riscoperta critica dell'opera di Marx e dei marxismi con un confronto con le vette del pensiero filosofico e teorico. Essi hanno un avvenire dinanzi a sé, se è vero che la crisi che colpisce il marxismo si rivela sempre più anche come la crisi dell'ordine neo-liberale, alle prese con la realtà degli immensi processi di disintegrazione sociale provocati dalla sua apparente vittoria, e tentato sempre più dal ricorso a forme reazionarie per gestire la dis-emancipazione programmata dalla sua mondializzazione. Questo lavoro è già avviato, proprio là, ad esempio, come in Italia, dove la disgregazione del marxismo è stata più spettacolare. La situazione marginale del marxismo non può fare velo all'importanza dell'impresa di Domenico Losurdo, che arricchisce la sua contro-storia del liberalismo nel pensiero occidentale con un'analisi delle attuali forme politiche liberali (Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale, 1993). Egli fornisce inoltre un'analisi della congiuntura politica italiana rendendo manifesto il legame tra liberismo, federalismo e 249
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postfascismo (La Seconda Repubblica. Liberismo, federalismo, post/ascismo, 1994), e presenta un bilancio storico-teorico del comunismo e del marxismo nel nostro secolo, rivendicando la carica liberatoria inizialmente contenuta nella rivoluzione d'Ottobre e procedendo, al tempo stesso, alla critica degli elementi di utopia astratta presenti in Marx per quel che riguarda lo Stato (Marx e il bilancio storico del Novecento, 1993). Questo lavoro di storiografia teorico-politica si orienta verso due poli, tra i quali i mille marxismi estendono il loro spettro: il polo dell'utopia, in senso buono, e il polo dell'analisi fondata sulla rilettura dei concetti essenziali di Marx. Possiamo illustrare questi due poli ricorrendo a esempi che sembrano appartenere al periodo precedente ma che in realtà traggono la loro attualità dal nuovo periodo storico: l'esempio rappresentato dalle ultime tesi di Walter Benjamin e quello rappresentato dal marxismo analitico anglo-sassone. 1) Il polo marxista dell'utopia messianica: Walter Benjamin e la teoria della storia
Apparentemente, l'opera di Walter Benjamin,8 che sembra riguardare soprattutto l'estetica della modernità, appartiene a un'epoca passata e segnata dalle catastrofi del periodo tra le due guerre. Ma, in realtà, la sua opera potrebbe rappresentare un punto di riferimento durevole. Il destino dell'arte nella modernità, infatti, è esemplare di un'aporia essenziale, che ha le sue radici nel feticismo delle merci. Divenuta merce, che incorpora nelle sue forme più avanzate una quantità sempre maggiore di tecnica, l'arte moderna, quando non viene deviata verso un'avventura di estetizzazione della politica (come nel caso del nazismo), si rinchiude in una patetica ambiguità: si fa carico dei sogni del passato, in cui si annuncia l'utopia del futuro. Ma l'arte può anticipare l'immagine di una società emancipata solo trasfigurando i difetti del presente, e congela nella sua realtà mercantile il proprio sogno di emancipazione. Questa inquietudine, che riguarda l'espressione più elevata della poieticità umana, si radicalizza nella catastrofe fascista, senza che il marxismo delle due Internazionali, piattamente progressista ed economicista, possa rappresentare un rimedio. Il destino dell'arte solleva il problema del tempo storico. Le tesi sulla storia, Uber den Begri/1 der Geschichte (scritte nel 1940, pubblicate nel 1942 e nel 1950), nella loro concisione, contengono una teoria della conoscenza, una filosofia messianica della storia e l'embrione di una teoria politica. Esse si fondano sul rifiuto, oltre che del primato delle forze produttive, della concezione del tempo vuoto, lineare e omogeneo del progresso, condivisa dalla filosofia dell'illuminismo e dai marxismi della Seconda e della Terza Internazionale. Il tempo è concepito come tempo pieno di presente, segnato dalla discontinuità, dall'apparizione di immagini folgoranti, percepibili all'interno di attimi privilegiati. Minacciati dal pensiero livellante della continuità, questi attimi sono come monadi attorno alle 8 Su Benjamin si veda anche il cap.
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quali si cristallizza la storia autentica, quella della memoria che opera il salvataggio di un passato vitale per il presente e per il futuro, e che prende partito a favore degli sconfitti della storia, il cui inespiabile sacrificio rischia altrimenti di perdersi nella storia dei vincitori. Lungi dall'essere il fantasma di una padronanza immaginaria oppure una fuga dalla comprensione e dalla responsabilità, l'elemento dell'utopia messianica (contenuto nella teologia ebraica) assume su di sé le possibilità non realizzate, che vanno salvaguardate, in modo da cogliere l'occasione, quando essa si presenti, di una breccia aperta nella continuità storica. La vera storia non è quella di una cultura pura; essa è quella della commistione impura di civiltà e di barbarie, che sempre si fonda sull'oblio del sacrificio dei vinti. La politica rivoluzionaria fa saltare, con la rivolta dei vinti, la continuità storica, e crea una corrispondenza esplosiva tra passato e presente, un singolare arresto del tempo vuoto della storia universale tipico della mercificazione capitalista, una rottura nel corteo dei vincitori e nel loro dominio. Se pure questo polo resta separato dalle analisi determinate, necessarie per dare sostanza ai contenuti storici, tuttavia esso mantiene aperto il problema della possibilità reale. Non c'è dunque da meravigliarsi se in Francia, per esempio, si manifesta un rinnovamento nello studio di Marx centrato proprio su questa problematica, con lavori significativi come quelli di Michel Vadée (Marx penseur du possible, 1992), Daniel Bensa1d (Marx l'intempesti/. Grandeurs et misères d'une aventure critique, XIX-XX siècle, 1995), di Henri Maler (Convoiter l'impossible. I.:utopie avec Marx. Malgré Marx, 1995). Nella stessa direzione si muove la difesa di Marx da parte di Jacques Derrida (Spectres de Marx, 1993) che prevede l'avvenire di uno «spirito» del marxismo, irriducibile alla necessaria decostruzione della metafisica occidentale e pegno di una nuova Internazionale. 2) Il polo della conoscenza: i concetti di Marx di fronte alla modernità secondo il marxismo analitico
Benché la sua storia cominci nel 1978, con Karl Marx's theory o/ history. A de/ence di Gerry A. Cohen, il marxismo analitico anglo-sassone rappresenta la forma tipica di un approccio non solo a Marx ma anche ai fenomeni che Marx prende per oggetto. Sviluppatosi nel mondo accademico anglosassone senza alcun riferimento a una prassi politica diretta, questo filone di studi ha avuto una grande estensione nel momento stesso in cui sul continente la crisi del marxismo sembrava avere totalmente criminalizzato questo genere di ricerche. Varia quanto ai suoi risultati, questa corrente ha saputo conservarsi e prosperare e, grazie alle sue provocazioni, si impone come un punto di riferimento per l'avvenire. La sua unità poggia sul rifiuto della dialettica e sulla scelta dell'individualismo metodologico contro l'olismo: l'attività umana e i fenomeni sociali nella loro evoluzione e nelle loro strutture si spiegano e si comprendono in rapporto all'azione di soggetti individuali capaci di razionalità. Se pure alcuni, come lo stesso Cohen, sostengono che Marx è funzio-
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nalista, questo funzionalismo viene criticato dalla tendenza maggioritaria. In particolare, con le ricerche di John E. Roemer (A genera! theory o/ exploitation and class, 1982, Analytical marxism, 1986, Free to fase: an introduction to marxist economie philosophy, 1988), di John Elster (Making sense o/ Marx. Studies in marxism and social philosophy, 1985), di Eric O. Wright (Classes, 1985), di Philippe Van Parijs (Marxism recycled, 1993), si afferma il metodo « micro-fondatore », che attribuisce a Marx un anti-collettivismo metodologico e si serve della teoria delle scelte razionali e della teoria dei giochi per ricostruire i fenomeni sociali ed economici ponendosi dal punto di vista dell'agente individuale. N on si tratta più di costruire un sistema marxista che tenga conto delle speranze dell'intellettuale organico di partito o di quelle dell'intellettuale-coscienza-critica; si tratta invece di rielaborare criticamente l'opera di Marx, in modo da poterla sottoporre alla discussione argomentata di una comunità scientifica, il cui primo scrupolo sia quello del rigore e della verità, e non quello del cittadino-filosofo. Tanto più che la maggior parte dei marxisti analitici militano a favore di un neo-socialismo, che essi vogliono poggiare su una riformulazione della teoria dello sfruttamento e ridefinire in termini di morale normativa e di teoria della giustizia. La pratica filosofica deve rifiutare ogni scelta ideologica a priori che si dichiari fondata su una posizione di classe, e deve invece privilegiare un approccio scientifico che ritraduca in linguaggio ordinario, ma epistemologicamente controllato, ciò che in Marx viene detto in un linguaggio dialettico. n problema è di chiarire le tesi e i concetti di base, in modo da pervenire a definizioni chiare che consentano un confronto con le scienze sociali; è necessario correggere, rettificare Marx, quando l'analisi lo esige, e rendere manifesti i suoi limiti. n primo di questi limiti, d'altronde, è la confusione di Marx sul suo proprio individualismo e la sua tendenza a esprimere le proprie scoperte in termini di olismo dialettico, mancando così la questione dell'individuo, della sua identità, delle norme del suo agire: Il primo compito è quello di ricostruire il materialismo storico a partire dal tema topico struttura-sovrastruttura. Cohen ha così cominciato con una difesa di questo tema, accettando il primato delle forze produttive in continuo sviluppo attraverso la storia e facendo, in modo tradizionale (à la Kautsky o à la Plechanov), della base economica il principio di una spiegazione funzionale dei rapporti di produzione. È su questo punto che il marxismo analitico ha concentrato la sua critica: la spiegazione funzionale è grossolana, opera come un passe-partout, e impone una concezione teleologica generale. Abbandonando l'hegelismo di Marx, bisogna seguire su questo punto la lezione di Althusser e, senza ricorrere ad alcuna filosofia della storia garantita, ricondurre i fenomeni economici e sociali all'attività di agenti definiti dalle loro diverse credenze, ma tutti capaci di scelte razionali. Da questo punto di vista, il ricorso al mercato e alla modellizzazione delle scelte si impone, così come si impone l'epistemologia falsificazionista di Popper e Lakatos. Ci si chiede allora quale sia il nocciolo duro non falsificabile della critica dell'economia politica marxiana, quali
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elementi debbano scomparire dal recinto della teoria, e quali elementi resistano invece alla verifica empirica e all'esame di coerenza logica cui va sottoposto il cuore della teoria. Si deve dunque rifiutare la teoria del valore-lavoro, con il suo sostanzialismo metafisica, il suo quantitativismo aporetico, e accettare la critica neo-liberale. Ciò non vuoi dire però che sia impossibile una teoria dello sfruttamento. Roemer la riformula in termini di scambio e di distribuzione: lo sfruttamento è una dotazione ineguale di capitale, che vi sia o no mercato del lavoro, e le classi vengono pensate come costituite a partire dalle scelte degli individui. Sono definiti sfruttati quegli individui che si troverebbero in una situazione migliore qualora si ritirassero dalla posizione che occupano all'interno dei rapporti sociali. La questione della giustizia diventa allora decisiva, tanto più che la teoria social-liberale di Rawls viene considerata come un punto di riferimento obbligato. Il marxismo analitico riprende questo problema a proposito del moralismo o dell'immoralismo di Marx: c'è posto, nella teoria della funzionalità storica dei rapporti di produzione, per una concezione della giustizia che dimostri l'ingiustizia dello sfruttamento capitalista? Oppure bisogna limitarsi a considerare inseparabili l'essere e il dover-essere, e vedere nel concetto di giustizia una formulazione ideologica con la quale ogni classe ammanta del diritto la propria libertà, intesa come effettiva potenza di agire? Questo dibattito, che oppone ancora i diversi sostenitori del marxismo analitico, investe il problema del tipo di normatività che la teoria marxiana implica e il problema del socialismo possibile, nonché il problema di una correzione o meno di Marx nel senso di una fondazione normativa. Numerosi marxisti, pur senza condividere i presupposti di questa impostazione analitica, le riconoscono una forza di provocazione che consente di prendere le distanze, in modo fecondo, dai marxismi precedenti e dalla loro timidezza, oltre che di porre domande alle quali bisogna rispondere. Certo, si può vedere in questa corrente di pensiero (per esempio, nei suoi casi estremi, come Elster) una liquidazione della teoria marxiana, colpita nei suoi gangli vitali: si può forse rinunciare alla teoria del valore-lavoro e riformulare lo sfruttamento in termini di ripartizione ineguale? Si può davvero avere fiducia nella teoria della scelta razionale, la quale non consente di comprendere il fatto essenziale che la moltitudine di non-capitalisti non ha semplicemente una scarsa dotazione di capitale, bensì una dotazione nulla, cui corrisponde, da parte del capitale, un potere di controllo sul processo di produzione e sui prodotti? È mai sufficiente - sotto l'apparenza di colmare la mancanza in Marx di una teoria normativa dell'etica - affidarsi completamente a una normatività autoreferenziale, che sottovaluta la realtà coercitiva della sottomissione reale del lavoro e che considera la teoria marxiana dello sfruttamento del lavoro come una variante dei rapporti di proprietà? Le discussioni del futuro risolveranno questi interrogativi, ma è già significativo di per sé che, per la prima volta nella sua storia, la teoria marxista sia oggetto di un importante dibattito nei paesi anglo-sas253
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soni, dove essa non era mai penetrata in profondità (se si eccettuano i grandi contributi di storici come Edward P. Thompson, Perry Anderson, Eric J. Hobsbawm, Christopher Hill). Secondo questo medesimo spirito, Jacques Bidet intraprende in Francia un ambizioso tentativo meta-strutturale in Théorie de la modernité suivi de Marx et le marché (1990). Egli integra l'analisi marxiana del capitalismo con le elaborazioni social-liberali, in una interpretazione fondata sulle categorie di contrattualità (individuale e centrale), di associatività, di interindividualità, condividendo con la scuola analitica, Habermas e Rawls la tesi secondo cui il mercato non può essere eliminato, anche se non può mai essere separato dalla pianificazione. L'urgenza teorica sarebbe quella di una riappropriazione della tematica liberale del diritto naturale rivoluzionario, che sfoci in un contrattualismo socialista generalizzato. Questa problematica viene radicalmente contestata da J ean Robelin in La petite fabrique du droit (1995) che, seguendo il filo della teoria marxiana della sottomissione reale, mostra come il diritto e il contratto siano funzionali alla politica e che quest'ultima, malgrado le resistenze degli sfruttati, continui a essere comandata dalla sottomissione reale, e dunque dal processo di valorizzazione. L'urgenza teorica sarebbe, in questo caso, quella di articolare l'analisi della pluralità delle pratiche, tenendo nel massimo conto l'efficacia del simbolico, e di aprire la prospettiva di una democrazia realmente sociale, capace di criticare, attraverso le istanze di intervento diretto, una democrazia rappresentativa sempre più ridotta a funzionare come ingranaggio di una tecnologia sociale centrata sulla gestione della forza-lavoro. Queste opposizioni sono tanto più significative, in quanto giungono da due ricercatori provenienti dall' althusserismo: l'uno attualizza la critica della dialettica hegelo-marxiana in direzione di una ripresa della tradizione liberale, l'altro la attualizza in direzione di una teoria-pratica «negativa» nei confronti di tale tradizione. 3) I mille marxismi in movimento, tra decostruzione-ricostruzione concettuale e utopia
È impossibile relazionare sui mille marxismi che si sviluppano tra questi due poli. Ci limiteremo a offrirne qualche esempio, seguendo il quadro culturale-nazionale. a) Italia. In Italia, dove il crollo del marxismo è stato così profondo, sembra profilarsi un rinnovamento. Sostenuti dall'opera di critica storiografica di Domenico Losurdo e di una scuola marxista di storia delle idee (Guido Oldrini, Alberto Burgio), si sviluppano alcuni tentativi di ricostruzione sistematica; due sono di particolare interesse. Il primo è quello di Giuseppe Prestipino (n. 1928) che, muovendo da uno storicismo influenzato da Della Volpe, va riformulando, da anni, una ricostruzione della teoria dei modi di produzione, concepita in termini di blocco logicostorico. In ogni società umana è presupposta l'esistenza di un patrimonio storicoantropologico costituito da sistemi distinti: produttivo, sociale, culturale e istituzionale. Questi sistemi, nel corso della storia, possono combinarsi in strutture diffe-
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renti, oppure in funzione del sistema dominante nel modello teorico di una data formazione. La tesi di una dominanza invariante della base produttiva e/o sociale sulla sovrastruttura culturale e istituzionale è propria del blocco della prima modernità. Oggi mostrano una certa concorrenza tra loro il blocco moderno sviluppato e un blocco post-moderno incoattivo. Il primo è dominato dall'elemento culturale, sotto forma di una razionalizzazione onnicomprensiva che penetra in tutti gli altri domini, attraverso la disciplina produttivista del lavoro, seguendo le regole (sociali) del mercato e organizzandosi secondo l'ordine (politico) della democrazia burocratica. Il secondo, ancora ipotetico, sarebbe dominato dall'istituzione pubblica, al suo stadio più elevato, sotto forma di sistema etico-giuridico sovra-statale e sovra-nazionale. Esso avrebbe il compito di guidare in maniera egemonica (nel senso gramsciano) gli altri elementi, vale a dire una libera ricerca scientifica e culturale, una mobilità sociale planetaria istituita in un regime di effettiva eguaglianza delle opportunità e delle fortune, e una produzione tecnologica trattata finalmente come proprietà comune dell'intelligenza e della «discendenza» umana (Da Gramsci a Marx. Il blocco logico-storico, 1979; Per una antropologia filosofica, 1983; Modelli di strutture storiche. Il primato etico nel postmoderno, 1993). Il secondo tentativo è quello più eclettico di Preve, che prende le mosse da un programma di riformulazione sistematica della filosofia marxista, sulla base lukacsiana dell'antologia dell'essere sociale, integrata con la tematica blochiana dell'utopia etica, e centrata sulla tematica di una scienza althusseriana del modo di produzione (Il /ilo di Arianna, 1990). Considerando la prevalenza del nichilismo nel neo-capitalismo, riflesso dai pensatori organici del secolo, Martin Heidegger e Max Weber, egli prende in esame i grandi problemi dell'universalismo e dell'individualismo, e tenta di espungere dalle tesi di Marx alcuni aspetti del pensiero illuminista compromessi dal nichilismo (Il convitato di pietra. Saggio su marxismo e nichilismo, 1991; Il pianeta rosso. Saggio su marxismo e universalismo, 1992; L'assalto al cielo. Saggio su marxismo e individualismo, 1992). Le sue ultime ricerche lo vedono rinunciare al programma di antologia dell'essere sociale e ridefinire una filosofia comunista, critica nei confronti delle nozioni di classe-soggetto, di paradigma del lavoro e dei bisogni, in un confronto con i teorici della post-modernità (Il tempo della ricerca. Saggio sul moderno, il post-moderno e la fine della storia, 1993). Concentrando infine l'eredità di Marx attorno alla critica del capitalismo, in quanto distruttore delle potenzialità di individuazione umana da lui stesso sprigionate, Preve tenta una riflessione antropologica per identificare la concezione della natura umana capitalistico-borghese e quella vetero-comunista (il compagno), ai fini di tratteggiare un neo-comunismo inteso come comunità di individui dotati di eguale libertà (I: eguale libertà. Saggio sulla natura umana, 1994). b) Francia. In Francia si manifestano numerosi sintomi di un cambiamento della congiuntura: Marx viene trattato, quanto meno, come un classico del pensiero, e si moltiplicano le riviste, la più attiva delle quali, « Actuel Marx », diretta da Bidet e
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Jacques Texier (autore di studi su Gramsci, Marx, la democrazia), organizza e pubblica importanti convegni. Si tenta così di dar vita a neo-marxismi che combinano rilettura di Marx e dei marxisti, appropriazione critica delle problematiche dominanti, saggi di teoria dei processi sociali, economici e politici dell'ordine liberale. Meglio di ogni altro, Balibar ha saputo far fronte all'elaborazione del lutto senza nostalgie per l'epoca in cui le eresie marxiste lottavano contro l'ortodossia. Diffidando di ogni progetto di ricostruzione, di ricomposizione, di rifondazione, egli persegue un lavoro sperimentale che gli consente sia di riesporre un Marx ricco di tensioni aporetiche e feconde (La philosophie de Marx, 1993) sia di articolare un'analisi dei fenomeni di identità e una riappropriazione del diritto naturale rivoluzionario, ma senza appoggiarsi su un neo-contrattualismo social-liberale (Les /rontières de la démocratie, 1991). Robelin segue un cammino analogo, ma più sistematico, di analisi critica delle forme politiche del capitalismo nel quadro della mondializzazione (La rationalité de la politique, 1996). Altri tentano un lavoro di ricostruzione in direzione delle teorie dell'azione, considerate capaci di sollecitare una critica feconda di Marx e dei marxismi eretici, nonché di dare impulso, reciprocamente, a una critica marxista di queste stesse teorie (per esempio, Tosel, I.:esprit de sàssion, 1991). Bidet persegue il proprio progetto, ancora più sistematicamente, e annuncia una « teoria generale» che elabori un contrattualismo rivoluzionario. Yves Schwartz porta avanti, dal canto suo, una fondamentale riflessione sulle attività lavorative (Travail et philosophie. Convocations mutuelles, 1992); mentre riappare la questione etica, sempre così vivace in Francia (Lucien Sève, Pour une critique de la raison bio-éthique, 1994, e Yvon Quiniou, Figures de la déraison politique, 1995). c) Germania. L'unificazione delle due Germanie ha sollevato difficili problemi, a causa della profonda diffidenza dei marxisti critici dell'Ovest nei riguardi dei marxisti dell'ex RDT comunista. Prevale ancora la frammentazione, ma le riviste mostrano un'autentica vitalità: « Das Argument », diretta da W.F. Haug, ha preso l'iniziativa di realizzare una edizione considerevolmente ampliata del Dictionnaire critique du marxisme di Labica; e anche « Dialektik », diretta da H.J. Sandki.ihler, ha pubblicato una grande Enciclopedia filosofica. L'opera di Habermas non ha provocato un dibattito in seno al marxismo tedesco, ed è stata discussa piuttosto dai sostenitori della filosofia pratica ed ermeneutica o dai sociologi. Le controversie sulla dialettica hegeliana si sono smorzate, ma una riflessione che integri dialetticamente le scienze della natura in una epistemologia realista, alimentata dalla tradizione filosofica, viene mantenuta in vita dallo stesso Sandki.ihler (Die Wirklichkeit des Wissens, 1992). È anche apparsa una forte corrente ecologico-marxiana, che discute il problema del rapporto tra produzione e natura. E sono attive, inoltre, diverse équipes che hanno come oggetto la studio della nostra società (l'rMSF o il KlassenanalyseProjekt).
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d) Inghilterra. La corrente anglosassone del marxismo analitico approfondisce i propri dibattiti e manifesta una tendenza a integrare i lavori sociologici di A. Giddens, che tendono a un superamento dell'opposizione individualismo-olismo. Si discute la tendenza ad appiattire Marx sul contrattualismo socialdemocratico tradizionale (Alex Callinicos). Un nuovo orientamento, più favorevole al realismo epistemologico e alla dialettica, si manifesta con l'opera del filosofo Roy Bhaskar (Reclaiming reality, 1989; Philosophy and the idea o/ /reedom, 1991; Dialectics. The pulse o/ /reedom, 1993). e) Paesi di lingua spagnola. Questa veloce rassegna non ha potuto adeguatamente tenere conto del marxismo in lingua spagnola, che si è impegnato con forza nell'attualizzazione della tensione tra i due poli dell'analisi concettuale e dello slancio critico-utopico. L'opera di Manuel Sacristan (1924-94), che alla conoscenza della filosofia e delle scienze logiche unisce un impegno politico democratico, non appartiene a questo periodo, ma va presa in considerazione per la sua originalità che, rifiutando ogni antologia dialettica, mantiene aperto il problema dei rapporti tra marxismo e scientificità (Sobre Marx y marxismo, 1983, raccolta di testi scritti tra il 1959 e il 1978). Al polo opposto, l'opera dell'argentino Enrique Dussel riflette i temi della teologia della liberazione, che svolge un così grande ruolo nel movimento popolare dell'America Latina in lotta contro il neo-imperialismo capitalista. Partito dalla fenomenologia e dall'antologia etica di Levinas, Dussel ha avviato una ricerca fondamentale su Marx (commentando in tre opere i Grundrisse, i Manoscritti del I86II863 e i testi destinati al Capitale, 1975-1990), integrandola con un'etica della liberazione, intesa come filosofia propriamente latino-americana. Dussel giudica urgente la fondazione di un'etica che sia una e assoluta, distinta dalla morale, che rappresenta l'insieme delle morali storiche, sempre legate a un'oppressione. Questa etica pone l'altro come fine assoluto, e l'altro non può essere meglio identificato che nella figura del povero. Ogni morale rimanda a un sistema-totalità, il quale nega l'esteriorità-alterità alienandola nelle sue pratiche di manipolazione e di strumentalizzazione servile. Marx ha offerto la critica insuperabile di questa alienazione dell'essere in quanto alienazione dell'altro nel sistema del capitale, definendo l'altro come lavoratore salariato. Oggi bisogna ampliare questa figura dell'altro includendovi le masse del Terzo Mondo (quelle miserande delle campagne e quelle raccolte e disumanizzate nelle bidonvilles delle metropoli), le donne (particolarmente sfruttate dal maschilismo), le etnie minacciate di genocidio, le nazioni umiliate dalla mondializzazione. Questo altro dai tanti volti invoca la giustizia, eleva la propria voce dal nulla (del mondo), dal non-essere (dell'essere della totalità). L'etica della liberazione si pone come ascolto dell'invocazione dell'altro e, al tempo stesso, risposta, responsabilità di una prassi liberatrice. Questa prassi va intesa come servizio per l'altro, azione insieme all'altro. Essa nega l'alienazione, mettendo in causa le pratiche e le istituzioni che la producono, e, al tempo stesso, costruisce pratiche e istituzioni di
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giustizia_ L'attore è il popolo, inteso come comunità o blocco costituito dalle diverse figure dell'altro, aperto a tutti coloro che si uniscano a lui (in particolare, i membri della Chiesa dei poveri). L'etica della liberazione, come anche l'antologia biochiana della speranza, include una teodicea etico-politica che riconosce il potenziale pratico e simbolico racchiuso nelle religioni tipiche della protesta popolare_ L'etica della liberazione non teme il riferimento alla dialettica, alla negazione e alla negazione della negazione, in quanto non trova in questa alcuna teleologia metafisica né alcuna esaltazione della volontà di potenza della soggettività, poiché la sua affermazione si misura sempre con l'irriducibilità dell'altro e con la consapevolezza che anche un sistema (futuro) fondato sulla giustizia finalmente resa all'altro resterà sottoposto alla minaccia di negazione_ Il nucleo del marxismo di Dussel è la salvaguardia delle figure dell'altro e la loro istituzione in seno alla mondializzazione capitalista (Para una etica de la liberacion latino americana, 1973-1980)_ Proprio questo livello dell'economia-mondo è oggi centrale nella riflessione filosofica_ La capacità di analizzarlo nel suo rapporto con la sottomissione reale del lavoro, presa come filo conduttore, e la capacità di dipanare la matassa di questo filo, saranno il criterio immanente per giudicare la validità dei mille marxismi_ La conquista di questo livello costringerà a meglio leggere il Marx conosciuto e quello ancora sconosciuto, stimolerà lo sviluppo della « scienza » marxista in un confronto con gli altri saperi, che pure dovranno subire una trasformazione critica, riproporrà l'indagine sulla sua «filosofia» e sul rapporto tra questa scienza e questa filosofia_ La crisi dell'ordine neo-liberale è sempre stata la condizione negativa di un rinnovamento del marxismo_ Se è vero che il xx secolo è il secolo breve, che va dal capitalismo al capitalismo, se è vero che inizia con una crisi catastrofica che mette a nudo la fragilità e la disumanità dell'ordine liberai-nazionale, se è vero che esso contiene dentro di sé il fallimento del primo tentativo comunista, è pur vero tuttavia che esso non si chiude soltanto con la crisi dei marxismi, ma anche con l'apertura di una nuova crisi, iscritta nella barbarie del nuovo ordine liberale. I mille marxismi trovano qui una nuova giustificazione storica, l'oggetto per le loro analisi, e l' occasione per la loro radicale autocritica, che è insieme autocritica dell'ordine liberale. Su questo terreno si ricostituisce la condizione positiva della loro esistenza, cioè l'emergere di nuovi movimenti sociali e di nuove pratiche politiche (al di là delle mostruosità organizzative del partito-Stato) e si crea la possibilità di tessere un legame nuovo tra la teoria e la pratica di cui non si possono né si devono pregiudicare le forme. Lasciamo l'ultima parola al vecchio Antonio Labriola: «Ma ditemi un poco in che consiste la novità reale del mondo che ha reso agli occhi di molti evidenti le imperfezioni del marxismo? Qui sta il busillis »- 9
9 Da Lettere a Benedetto Croce, I885-I904, 1975, p. 337·
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CAPITOLO
SETTIMO
L 'antropologia culturale: dalle certezze ottocentesche alle sfide del mondo contemporaneo DI
UGO
FABIETTI,
I
·
FRANCESCO REMOTTI E
DALLA
STRUTTURA
CARLO
MONTALEONE'~
ALL'EVENTO
Se si considerano specialmente le origini tardo-ottocentesche dell'antropologia culturale o sociale, non si sbaglierebbe nel sostenere che l'antropologia ha in un certo senso preso il posto della filosofia della storia. Di questa, essa ha ereditato la pretesa di poter illustrare le fasi fondamentali della storia dell'umanità, di poter comprendere i meccanismi principali del suo mutamento intrinseco, di poter enucleare le leggi essenziali della sua evoluzione. I nomi di Lewis H. Morgan, di Edward B. Tylor, di James G. Frazer sono sufficienti per evocare il clima di certezze iniziali che ha suggerito o imposto lo stesso nome di «antropologia». Due differenze almeno si registrano tuttavia nei confronti della filosofia della storia: da un lato, l'accento posto sulla «scientificità» della nuova impresa antropologica (rispetto alle speculazioni filosofiche) e, dall'altro, la maggiore attenzione dell'antropologia per le fasi più primitive dell'evoluzione dell'umanità. Si suole definire con «evoluzionismo» questa impostazione tipicamente ottocentesca e positivistica, mediante cui l' antropologia ha rivendicato e legittimato le proprie pretese di scientificità. La crisi dell'evoluzionismo - nei primi anni del Novecento - ha prodotto una serie di effetti rilevanti sui paradigmi antropologici. In particolare, con Franz Boas e con i suoi allievi americani (Alfred L. Kroeber, Robert H. Lowie, ecc.) la rinuncia alla pretesa legiferante e generalizzante dell'antropologia di tipo evoluzionistico si combina con la tesi del carattere storicamente peculiare dell'oggetto antropologico: le culture, di cui appunto si occupano gli antropologi, tendono a sfuggire alle leggi generali elaborate per lo più a tavolino e - grazie anche alla pratica della ricerca sul campo (intesa da Boas come irrinunciabile momento formativo dell'antropologo) - si impongono come oggetti individuali che vanno indagati e colti nella loro particolarità. Beninteso, Boas non era affatto disposto a rinunciare alla formulazione di leggi generali; ma riteneva che questo fosse un momento scientificamente procrastinabile, da collocare in un futuro più o meno lontano, comunque dopo la
* I paragrafi I- VIII sono di Ugo Fabietti e Francesco Remotti; il paragrafo IX è di Carlo Monta/eone. 259
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raccolta di dati empirici e la ricostruzione delle singole storie locali. Con Boas non viene dunque meno l'intento positivistico e scientifico dell'antropologia; esso subisce però un radicale ripensamento. L'antropologia di Boas, così come quella dei suoi allievi (Kroeber, Lowie), interpretando le culture come oggetti storici, non può fare a meno di dare spazio al loro carattere locale e particolare, e quindi di considerare la storia non già semplicemente come un aspetto dominabile e assoggettabile da parte dell'antropologia, bensì come una dimensione da cui l'antropologia risulta profondamente caratterizzata. Al di là delle autentiche intenzioni di Boas, è indubbio che le sue tesi abbiano prodotto una crisi notevole in coloro che attribuivano all'antropologia (sia essa culturale o sociale) una vocazione generalizzante, e abbiano perciò costituito una sfida per chi volesse ripristinare obiettivi e metodi di generalizzazione. Funzionalismo e strutturalismo sono stati, sotto questo profilo, le risposte più incisive e - per un notevole periodo della storia dell'antropologia nel Novecento- più convincenti non solo alle sfide, ma anche ai rischi o ai pericoli che si pensava di scorgere nelle posizioni di tipo boasiano. Il pericolo maggiore era visto nell'incapacità, da parte di un sapere antropologico troppo impigliato nei particolari, di dimostrarsi all'altezza delle ambizioni contenute nel suo stesso nome e nel non essere in grado quindi di competere nell'arena scientifica con altre forme di sapere. La competizione (una competizione che si svolgeva prima di tutto nell'ambito delle scienze umane e sociali) era vista in effetti come dimostrazione di scientificità ed era misurata dal grado di avvicinamento al modello rappresentato dalle scienze naturali. In Alfred R. Radcliffe-Brown e in Claude Lévi-Strauss (i maggiori rappresentanti, rispettivamente, dello strutturai-funzionalismo britannico e dello strutturalismo francese) questa impostazione è del tutto esplicita. Vi è in entrambi un naturalismo epistemologico che prende forma sia attraverso un rifiuto o una marginalizzazione concettuale, sia attraverso una corrispondente adozione o privilegiamento. Il rifiuto riguarda la nozione di cultura; e il privilegiamento si riferisce invece al concetto di struttura (e in particolare di struttura sociale): non per nulla, entrambi prescelgono la dizione di antropologia «sociale» e addirittura, nel caso di Lévi-Strauss, la dizione di antropologia «strutturale» (piuttosto che antropologia culturale). Perché questa diffidenza per la «cultura» e la preferenza per la «struttura»? Cultura rinvia inevitabilmente a una dimensione variabile, locale, impregnata di usi e significati particolari; e alla cultura, prescelta a oggetto di studio, si finisce per accostarsi in una prospettiva irrinunciabilmente storica. Scegliere la cultura comporterebbe inesorabilmente l'adozione di un punto di vista idiografico; e questo sarebbe per RadcliffeBrown (e anche per Lévi-Strauss) un ostacolo insormontabile, anzi una smentita, delle pretese scientifiche dell'antropologia. Dalla cultura dell'Ottocento, l'antropologia novecentesca eredita il concetto di struttura sociale, come più promettente per le sue ambizioni di scientificità. Marxismo per un verso, spencerismo per l'altro avevano entrambi utilizzato questo concetto
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in maniera indubbiamente realistica. Abbinato spesso a quello di funzione, il concetto di struttura serviva a indicare la dimensione fondamentale di una società, il livello dei suoi meccanismi più profondi, la ragione stessa del suo essere. Cogliere la struttura significava - non solo per Spencer, ma anche per Marx - garantire per le scienze sociali una precisione analitica paragonabile a quella delle scienze naturali. Questa promessa di scientificità contenuta nella struttura permane nelle varie forme di strutturalismo dell'antropologia della prima metà del Novecento (da Radcliffe-Brown a Murdock, a Lévi-Strauss). Ma nello strutturalismo più compiuto e consapevole dell'antropologo francese, la nozione di struttura subisce una modificazione importante: la struttura non è più «una realtà concreta realmente esistente da osservare in maniera diretta» (Radcliffe-Brown, 1952); diviene invece un complesso di «trasformazioni» in cui ogni sistema locale (di parentela, mitologico o altro) è logicamente inserito. Non si tratta di una modificazione di poco conto, in quanto con Lévi-Strauss la struttura si sposta decisamente dal piano di ciò che è osservabile e descrivibile (in un determinato tempo e luogo) per situarsi invece sul piano delle possibilità logiche di trasformazione di ogni sistema. Questa dislocazione della nozione di struttura comporta in effetti due conseguenze. In primo luogo, lo strutturalismo ambisce a essere una teoria delle possibilità di trasformazione (ovvero del mutamento strutturale) di qualsivoglia sistema, ponendo in luce un principio che forse non è stato sfruttato in tutte le sue implicazioni, quello secondo cui un sistema diviene comprensibile solo se lo si coglie non nel suo isolamento e nella sua staticità, ma nelle relazioni logiche che lo conducono a trasformarsi in altri sistemi (analoghi e anche opposti). In secondo luogo, tale spostamento della nozione di struttura verso il piano delle relazioni (o trasformazioni) possibili, apre e amplia il campo sottostante degli eventi. Fino a che la struttura è concepita in modo realistico, cioè come una realtà o un'entità che grava sull' organizzazione della società, gli eventi risultano essere quantitativamente scarsi e qualitativamente insignificanti. Allorquando invece la struttura viene identificata con un fascio di permutazioni possibili, si è più facilmente disposti a riconoscere l'incidenza degli eventi e la loro significatività se non altro sul piano esistenziale, anche se come succede nello strutturalismo di Lévi-Strauss (in ciò molto vicino alla prospettiva di Ferdinand de Saussure) - gli eventi non rivestono di per sé una rilevanza scientifica (non divengono oggetti di indagine strutturale). Un qualunque sistema, per il fatto stesso di essere adottato da una società particolare, è comunque sottoposto - per Lévi-Strauss - a un continuo fuoco di fila di eventi, i quali costellano ogni forma di esistenza, sia essa individuale o collettiva, e in qualunque tipo di società (ovvero, sia le cosiddette società «fredde», le quali oppongono una tenace resistenza al mutamento, sia le società «calde», le quali invece aprono pericolosamente la loro organizzazione alla storia e al « progresso »). Il riconoscimento degli eventi e della loro diffusività fa dunque parte della prospettiva dello strutturalismo di Lévi-Strauss. E proprio per questo esso si contrad-
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distingue anche per l'indicazione di due tipi di mutamento: a) le trasformazioni in cui i sistemi sono inseriti e che l'antropologia strutturale ricostruisce come possibilità logiche; b) i mutamenti continui e anonimi, contingenti e arbitrari, che l'antropologia strutturale riconosce e che tuttavia non riesce (o non intende) a padroneggiare e incastonare nelle sue costruzioni teoriche. Entrambi i concetti di struttura qui menzionati (il primo, risalente a RadcliffeBrown, fa coincidere la struttura con l'assetto di una determinata società; il secondo, illustrato da Lévi-Strauss, coglie la struttura nel fascio o «gruppo di trasformazioni» in cui ogni sistema va per sua natura collocato) hanno subito modifiche di uso e di contenuto nell'antropologia degli ultimi trent'anni. Già a partire dagli anni quaranta, Meyer Fortes e Edward E. Evans-Pritchard avevano colto nelle strutture delle società africane da loro indagate (Tallensi del Ghana e Nuer del Sudan) conflitti e opposizioni; e il tema dei contrasti e delle fenditure diviene dominante nella scuola di Manchester (Max Gluckman), nel cui ambito si colloca, per esempio, l'analisi della «spaccatura» della società Ndembu dello Zambia offerta da Victor Turner (1957). Negli anni cinquanta si assiste inoltre a una progressiva erosione del concetto di struttura, soprattutto attraverso la messa in guardia circa i suoi usi reificanti e un accoglimento sempre più esteso della nozione oppositiva di «scelta individuale». Non più strutture che ingabbiano normativamente le azioni degli individui e dei gruppi, neanche strutture come blocchi granitici infranti: ciò che emerge è invece una visione della struttura come « risultato statistico di molteplici scelte individuali»; e su questo «risultato» convergono antropologi tanto diversi come l'americano George P. Murdock (r967) e il britannico Edmund Leach, che soprattutto con le sue monografie etnografiche sui Kachin della Birmania (Leach, 1954) e sul villaggio di Pul Eliya a Ceylon (Leach, 1961), aveva gettato il dubbio sulla struttura come realtà sociale sovrastante. L'accento si sposta quindi sugli individui che agiscono, che operano scelte in contesti determinati, che elaborano e adottano strategie e manipolano a loro favore le situazioni. L'aspetto strutturale non è negato, dato che gli individui non agiscono nel vuoto e le scelte che essi compiono risultano sempre in qualche modo intelligibili entro uno specifico contesto; ma il contesto è, per così dire, sfruttato e di volta in volta ricreato, iniziative e azioni appartenendo non già al contesto, bensì agli individui che vi operano. È significativo rilevare che questa attenzione per gli individui, le loro scelte e le loro strategie s'accompagna non solo al tramonto di una prospettiva strutturale, ma anche al riaffiorare - persino in esponenti dell'antropologia sociale (come per esempio nel danese Fredrick Barth) - della nozione di cultura. I contesti, in cui agiscono gli individui e che con le loro azioni essi storicamente riproducono, possono essere descritti più agevolmente in termini di cultura, che non in termini di struttura sociale. Ma l'avvertimento circa la non reificazione riguarda anche la cultura, e se viene meno il determinismo sociale (connesso alla nozione di struttura), allo stesso modo si prendono le distanze da un altrettanto deplorevole e indiscri-
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minato determinismo culturale. Con questo tipo di esigenze si fa strada in antropologia l'attenzione per gli eventi, considerati non più come episodi del tutto accidentali ed esterni, bensì come momenti in cui prendono forma e si manifestano principi strutturali e categorie culturali. L'attenzione per gli eventi (come può essere l'arrivo del capitano Cook a Kealakekua Bay, nelle Hawaii, il 17 gennaio 1779) non significa rinverdire - contro gli strutturalisti e i sistematici - una sorta di histoire événementielle, e quindi scadere in una storiografia aneddotica; al contrario, significa porre le basi di un'antropologia storica, di un'antropologia cioè che assume la storia come suo specifico e irrinunciabile oggetto d'analisi. Nelle orecchie degli antropologi sono sempre un po' risuonate le fatidiche parole di F.W. Maitland alla fine dell'Ottocento: «ben presto l'antropologia avrà da scegliere tra essere storia o essere niente» (1936). E si può ben ritenere che la nozione di struttura - pur variamente interpretata da funzionalismo e da strutturalismo - abbia rappresentato un tentativo di sottrarsi a questo dilemma e dimostrare che l'antropologia assume senso anche in opposizione alla storia. Con il declino dello strutturalismo si registra un cospicuo avvicinamento dell'antropologia alla storia; ma - se anche non si tratta di rovesciare la profezia di Maitland e quindi sostenere che la storia è antropologia o è niente (Sahlins, 1992) - è indubbio che l'antropologia avanza ora pretese di scientificità nei domini specifici della storia, quelli degli eventi. Anziché scartare gli eventi dalla propria sfera d'indagine, l'antropologia si fa storica; e in vista di ciò procede a un avvicinamento epistemologico tra struttura ed evento. Gli eventi non sono più episodi fortuiti ed esterni alla struttura; ma sono le occasioni in cui le strutture si manifestano e si trasformano (Sahlins, 1985). Alla luce di questo avvicinamento reciproco tra evento e struttura occorre considerare la distinzione tipologica di Sahlins tra strutture performative e strutture prescrittive. Si tratta di tipi ideali, mediante cui le società vengono diversamente classificate a seconda della loro diversa apertura alla storia. Nelle prime (strutture performative, come potrebbero essere quelle delle isole Hawaii), gli eventi svolgono un ruolo incisivo: si dà spazio al contingente e le strutture sono oggetto di continua negoziazione; nelle seconde invece si procede a tentativi di annullamento di ciò che è contingente, proiettando nel tempo un ordine prestabilito (Sahlins, 1985). Per quanto criticabile possa essere questa impostazione tipologica, essa apre tuttavia la questione del diverso atteggiamento storico che le società possono assumere. Non si tratta semplicemente di affermare (ciò che nessuno ha mai negato) che tutte le società sono inserite in un flusso storico; si tratta invece di indagare la diversa storicità che le culture (o meglio i loro membri) decidono via via di costruire. Per fare questo, è indubbio che gli antropologi non possono più coprirsi gli occhi di fronte agli eventi e alle fonti che ne parlano (significativa sotto questo profilo l'autocritica di Sahlins, per molti anni rimasto all'oscuro della storia che si era svolta nelle sue isole polinesiane) e dunque rimeditare sulle posizioni assunte da autori come Boas o come Evans-Pritchard. È altrettanto indubbio però che, aprendo la
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questione dei diversi tipi di storicità, l'antropologia torna a sottrarsi al dilemma di Maitland e, se non altro, si pone in grado di suggerire che non ci si può più permettere di «ignorare queste storie esotiche solo perché culturalmente remote» (Sahlins, 1985). Il paradigma della irriducibile molteplicità culturale si trasforma qui in un paradigma della diversità di ordine storico, obbligando quindi a interrogarsi sui diversi modi con cui, nelle varie società, si provvede a «fare storia», ovvero sui meccanismi di «costruzione della memoria» (Kilani, 1991), e sulle scelte con cui si elaborano le categorie di «ciò che rimane», di «ciò che scompare», di «ciò che si trasforma» (Remotti, 1993). II
· TRA
MATERIALISMO
E
SIMBOLISMO
Al ritorno allo studio del «particolare», che segna il percorso della riflessione sui rapporti tra «struttura» ed «evento», e che ripropone quest'ultimo come elemento essenziale per la comprensione della trasformazione socio-culturale (e quindi storica) si affianca, seppure a partire da premesse epistemologiche alquanto diverse, uno slittamento da una prospettiva «materialista» a una prospettiva «simbolica», da una prospettiva nomotetica a una prospettiva idiografica. Negli anni sessanta, specialmente negli Stati Uniti, riscuote un largo consenso la prospettiva generalizzante del «materialismo culturale», mentre quasi parallelamente si sviluppa un'antropologia « simbolica » che, discostandosi dalla tradizione culturologica tipica di questo paese, ripropone una lettura individualizzante dei fenomeni culturali. A differenza della prospettiva materialista, l'antropologia simbolica rimane per diversi anni « minoritaria », per riscuotere invece un rapido consenso presso la comunità scientifica internazionale sul finire degli anni settanta (in Italia questa corrente avrà diffusione solo un decennio più tardi), nel momento stesso in cui si assiste al declino della prospettiva materialista. Le ragioni dei diversi «tempi di diffusione» di due prospettive che sorgono all'incirca nello stesso periodo è da far risalire al successo di quella materialista come prospettiva legata, seppure in maniera teoricamente meno coerente di quanto si potrebbe credere, alle teorie marxiste. La diffusione del marxismo nel campo delle scienze umane costituisce infatti, negli anni sessanta e settanta, un forte elemento di sostegno a tutte quelle riflessioni che pongono al centro della propria attenzione l'attività «fabbrile» dell'uomo, il rapporto di questi con il suo habitat, l'utilizzazione delle risorse naturali come fattori sucettibili di determinarne la vita sociale. Questo rapporto - se non altro a livello di ispirazione di fondo - è dimostrato dal fatto che il materialismo culturale inizia a declinare quasi nel momento stesso in cui declinano i topoi della vulgata marxista in Occidente e gli esperimenti di «società socialista» in alcuni Paesi del Terzo Mondo. La «corrente» materialista che si sviluppa negli anni sessanta negli Stati Uniti trae forti suggestioni dalle posizioni neo-evoluzioniste ed ecologico-culturali di Julian
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H. Steward (1902-72) elaborate nei due decenni precedenti, e propone un approccio che pone al centro della riflessione le relazioni che i gruppi umani intrattengono con il proprio ambiente. Al tempo stesso però, questa corrente propone una rilettura di tali relazioni in termini di «riflessi» che il rapporto con l'ambiente ha sull'organizzazione sociale e sulla cultura. Il presupposto di una simile prospettiva è che i modi tecnologicamente a disposizione di una società per accedere a tali risorse determinano l'assetto della società stessa, la quale produce norme sociali e modelli di rappresentazione della realtà che confermano e aderiscono sia al tipo di rapporto che gli esseri umani intrattengono con l'ambiente, sia alla forma delle relazioni sociali. Alla fine degli anni sessanta, e per tutto il decennio successivo, la corrente del materialismo culturale ha il suo esponente di punta - oltre che il suo maggior divulgatore - in Marvin Harris (n. 1927), ma a essa può essere ascritto anche il nome di Robert Carneiro che darà un suo contributo specifico con la teoria della nascita dello stato, mentre autori come Elman R. Service (n. 1915) e lo stesso Marshall Sahlins (n. 1930) - seppure quest'ultimo in maniera più marginale - non rimarranno del tutto estranei alle suggestioni di questa prospettiva. La prospettiva materialista si sviluppa in contrapposizione alla tradizione « culturalista » allora dominante in America, e in polemica con quest'ultima in quanto incapace - a giudizio dei materialisti - di produrre generalizzazioni relative ai processi socio-culturali fondate sulla considerazione dell'infrastruttura materiale. In effetti la prospettiva materialista rifiuta l'approccio simbolico-intuitivo, « configurazionista », di gran parte della tradizione statunitense e si alimenta, tra l'altro, delle riflessioni della scuola « sostantivista » di antropologia economica che ha come guida riconosciuta Karl Polanyi (1886-1964). La prospettiva « configurazionista » ha le sue figure più emblematiche in Ruth Benedict (1887-1948) e in Margaret Mead (1901-78), entrambe allieve di Boas ma alquanto distanti dall'approccio del maestro, caratterizzato da un maggior rigore filologico, linguistico ed etnografico. Per i materialisti le generalizzazioni dei culturalisti (che da questo punto di vista si distaccano dall'approccio individualizzante di Boas) sono approssimative perché fondate sull'intuizione: sintomatiche sono le definizioni che la Benedict e la Mead danno dei loro «popoli» (megalomani, apollinei, dionisiaci, paranoici) e dei «caratteri» (introvertito, estrovertito) rispettivamente. Le generalizzazioni dei culturalisti sono inoltre « inadeguate» perché non tengono conto - sempre a giudizio dei materialisti - delle relazioni pratiche e materiali che legano i gruppi umani al loro ambiente e non valutano adeguatamente l'influenza che tali relazioni hanno nel plasmare la loro cultura. Il materialismo culturale, che ha il merito di riproporre all'attenzione degli studiosi e del pubblico il nesso esistente tra la vita culturale delle società e le condizioni materiali di esistenza di queste ultime, trova un interprete particolarmente prolifico in Marvin Harris che, come già accennato, è senza dubbio il suo più strenuo assertore. Harris «riporta» - in quanto prima di lui ci aveva provato in maniera non del tutto dissimile Leslie A. White (1900-75) -all'interno della tradizione antro-
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pologica statunitense alcune suggestioni della teoria marxiana dei modi di produzione. Ma «l'appello a Marx » (allora teoricamente choquant per molti ambienti americani) si ridurrà di fatto a una semplice riaffermazione del primato delle condizioni materiali di esistenza sull'assetto sociale e culturale dei gruppi umani. Così la prospettiva del materialismo culturale ripropone (almeno nel lavoro di Harris) una sorta di determinazione della « sovrastruttura » (ideologica) da parte dell'« infrastruttura» (materiale), scavalcando di fatto il problema della «efficacia simbolica» della sovrastruttura nella articolazione stessa della infrastruttura, di come cioè le rappresentazioni del mondo, piuttosto che da intendersi come rigidamente determinate dalle condizioni materiali di esistenza (una specie di riflesso più o meno deformato), devono essere considerate decisive per il modo in cui i gruppi umani realizzano quelle stesse condizioni; un problema, questo, che Marx aveva di fatto affrontato - seppure « civettando » con la dialettica hegeliana - nella sua analisi della merce. Date queste premesse l'antropologia materialista si presenta, nelle intenzioni di Harris, come sapere scientifico in grado di produrre generalizzazioni dotate di uno statuto di «oggettività». A Harris sembra in effetti bastare questo rapporto di causazione diretto tra infrastruttura e sovrastruttura per poter edificare poi su di esso le note teorie del tabu alimentare relative al maiale (proibito perché impuro, ma in realtà perché responsabile del degrado ambientale) in Medio Oriente, e alla vacca (proibita perché sacra, ma in realtà perché fonte quasi unica di sostentamento per i contadini) in India; oppure quella relativa al cannibalismo «alimentare» degli Aztechi, che praticavano sacrifici umani allo scopo di procurarsi proteine ormai insufficienti a causa della scomparsa di animali commestibili come conseguenza dell'eccessiva pressione demografica umana negli altipiani del Messico precolombiano. Per la loro «ingenuità», consistente essenzialmente nell'assumere come trasparente e lineare il rapporto tra condizioni materiali di esistenza ed elaborazione culturale, le teorie del materialismo culturale sono state sopravanzate, quanto a profondità di analisi e coerenza epistemologica, da altre antropologie «materialiste», quali quelle sviluppatesi in Francia all'incirca negli stessi anni (vedi par. vm). Date queste premesse si può facilmente capire il rifiuto dei materialisti culturali di accogliere come scientificamente fondata qualunque posizione che miri a proporre, in sede di analisi etnografica e di teorizzazione (anche generalizzante) il cosiddetto «punto di vista del nativo», un caposaldo dell'antropologia di Bronislaw Malinowski (r883-1942) che la tradizione statunitense non tarderà a fare propria. Mirando all'assunzione di un punto di vista assolutamente «etico» come garanzia di scientificità e di oggettività - e quindi rifiutando radicalmente ogni prospettiva «emica», o «interna» alla società studiata - il materialismo culturale si contrappone alla corrente della cosiddetta « etnoscienza » (detta anche «analisi componenziale » e «antropologia cognitiva»). Quest'ultima, pur aspirando anch'essa a raggiungere una comprensione dei sistemi culturali fondata sulla generalizzazione non è in grado, a giudizio dei materialisti, di «prendere le distanze» dal punto di vista degli attori 266
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sociali e quindi di fondarsi su una forma di soggettivismo (vedi par. m). In marcata contrapposizione con il materialismo culturale è la prospettiva dell' antropologia simbolica, una corrente di analisi dei fenomeni culturali che, come si è detto, si sviluppa all'incirca negli stessi anni della prospettiva materialista ma rimane inizialmente meno definita, in quanto estremamente composita sul piano delle premesse epistemologiche che la ispirano. Da questa specie di « nebulosa teorica » una definizione che pare pertinente alla luce dei saggi raccolti in un celebre reading americano degli anni settanta curato da Janet Dolgin, David Kemnitzer e David M. Schneider (1977), e dove troviamo Louis Dumont accanto a Polanyi, Maurice Merleau-Ponty accanto a Karl Marx, Alfred Schutz accanto a Marshall Sahlins e Clifford Geertz accanto a Henri Lefebvre (solo per citare alcuni nomi) - emerge definitivamente, negli anni settanta, la prospettiva interpretativa teorizzata e diffusa da Clifford Geertz (n. 1926). Con Geertz l'antropologia riprende l'impostazione individualizzante e particolaristica che era stata di Boas, ma la giustifica attraverso una specifica concezione dell'etnografia. Diversamente dai suoi predecessori, Geertz vede nell'etnografia una pratica teoricamente orientata, un momento già di per sé profondamente interpretativo e non una m era collezione di «fatti » che si presteranno a successive sistematizzazioni sulla base di ipotesi comparative finalizzate alla produzione di generalizzazioni. La concezione della cultura come « testo » emerge infatti dalla concezione stessa che Geertz ha dell'etnografia-antropologia, che egli vede non come «una scienza sperimentale in ricerca di leggi, ma una scienza interpretativa alla ricerca di significati ». 1 La metafora del testo risponde tanto a questa concezione dell'antropologia come sapere interpretativo, quanto all'idea del momento etnografico come inestricabilmente connesso con quello antropologico-teorico (mentre contro questa visione dell'etnografia come antropologia si esprimerà Dan Sperber, 1984). Il «testo» infatti, quello in cui viene « inscritta » la cultura da parte dell'etnografo, è anche il testo etnografico, il prodotto di uno sforzo di comprensione del «punto di vista del nativo». Questo sforzo di comprensione non può essere condotto, a giudizio di Geertz, mediante un appiattimento del punto di vista dell'antropologo su quello del nativo, né mediante un illusorio tentativo di immedesimazione dell'antropologo con quest'ultimo, bensì grazie a un paziente lavoro di «va e vieni» tra i due «poli» della ricerca etnografica: le interpretazioni che i nativi danno della loro vita, e le interpretazioni che l'antropologo è in grado di produrre attorno a tali interpretazioni. L'antropologo e il nativo ci appaiono così « presi » in una « circolarità» ermeneutica che, se riconduce la nostra attenzione al particolare e all'individuale secondo una prospettiva di ricerca di tipo idiografico, ci consente anche di non cadere nel soggettivismo di un certo configurazionismo tipico della tradizione americana. Sottolineando il carattere pubblico del significato, la prospettiva geertziana ribadisce I
C. Geertz, Interpretazione di culture, 1987, p. 41.
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anche il carattere di costruzione di ogni resoconto etnografico, il suo carattere di finzione nel senso etimologico del termine. Si crea così lo spazio per una rimessa in discussione della stessa «autorità etnografica», non più fondata su uno sguardo antropologico che si suppone in grado di produrre un sapere «oggettivo» circa una realtà esistente indipendentemente dagli sguardi incrociati che contribuiscono a crearla (vedi parr. VI, VII e vm). La costruzione di questa realtà attraverso la «fusione degli orizzonti» di senso, dell'antropologo e del nativo (per usare un'espressione di Hans Georg Gadamer), ha luogo innanzitutto «sul campo», nel «dialogo» tra antropologo e nativo, in un «accordo di significato» tra interlocutori. La prospettiva «dialogica» di Geertz vive alla confluenza di suggestioni provenienti da disparati campi disciplinari come la semiotica, la sociologia, la linguistica, la fenomenologia e la critica letteraria. Essa propone un'idea di antropologia come sapere alla confluenza di saperi e di stili di riflessione che corroborano l'immagine di una post-modernità nella quale i generi diventano «confusi» e all'interno della quale l'unica forma di conoscenza possibile è quella del significato. li carattere interpretativo dell'antropologia di Geertz e dei suoi epigoni ci riconduce, dicevamo, a una visione della disciplina come sapere idiografico, capace di aderire in maniera più soddisfacente al punto di vista del «nativo » e di depotenziare gli effetti logocentrici e intellettualmente «imperialisti» delle prospettive generalizzanti ancorate a una visione nomotetica del sapere antropologico. Tuttavia è chiaro che sapere idiografico e sapere nomotetico- individualizzante e generalizzante rispettivamente - producono forme diverse di conoscenza perché di fatto i loro oggetti si collocano su scale differenti, le quali corrispondono al tipo di domande che noi di volta in volta ci poniamo e ci vogliamo, o possiamo, porre. Cercare di cogliere i significati che informano la vita degli abitanti di un villaggio africano o asiatico, o degli occupanti di una abitazione collettiva amazzonica non è la stessa cosa che interrogarsi sui processi che possono aver determinato la comparsa di certe forme di organizzazione sociale o di centralizzazione politica. Aderire completamente all'una o all'altra delle due posizioni significa esporsi comunque a un rischio troppo grande: in un caso quello di perdere di vista il fatto che la storia umana non è costituita solo di significati condivisi e contingenti, ma anche da processi storici rilevanti di per sé privi di significato i quali tuttavia contribuiscono a produrre significati; nell' altro che la vita delle comunità umane non è determinata solo dall'azione e dalla concausa di fattori impersonali privi di significato, ma che a questi fattori e concause gli uomini sono capaci di attribuire dei significati contingenti e particolari. III
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DALLE
CATEGORIE
ALLE
EMOZIONI
Così come nel corso degli anni settanta è possibile registrare uno spostamento di prospettiva dallo studio dei fattori ambientali e infrastrutturali che determinano l'assetto delle società e delle culture allo studio dei simboli e dei comportamenti
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che attribuiscono un significato alla vita culturale e sociale, all'incirca nello stesso periodo si assiste a un progressivo slittamento dallo studio delle categorie cognitive a quello dei fenomeni riconducibili alla sfera dell'interiorità. Tali spostamenti e cambiamenti di prospettiva sono sovente intrecciati tra loro, per cui è bene astenersi da una visione di essi di tipo lineare. Da quell'orientamento magmatico che, come abbiamo detto nel paragrafo precedente, viene qualificato in maniera molto generale con il nome di «antropologia simbolica», emerge, verso la fine degli anni cinquanta, e sempre negli Stati Uniti, anche la cosiddetta etnoscienza. Questo indirizzo raggiunge il suo massimo sviluppo nei due decenni successivi, affiancandosi così alla prospettiva materialista e a quella ermeneutico-interpretativa. Con il termine etnoscienza - ma anche antropologia cognitiva - si intende, nel caso specifico, una corrente di riflessione posta a cavallo tra antropologia culturale e linguistica antropologica (o etnolinguistica), che si avvicina allo studio delle culture intese soprattutto come sistemi costituiti da concetti e grappoli di concetti tra loro interrelati, i quali hanno la funzione di servire da «mappe orientative» per il comportamento di coloro che li condividono. Da questo punto di vista l'etnascienza è lo studio delle « categorie» cognitive dei popoli che ricadono sotto lo sguardo dell'etnologia. Come la prospettiva ermeneutico-interpretativa, essa si pone in un'ottica «emica». n suo punto di vista è, o vorrebbe infatti essere quello «del nativo», proprio come nel caso della prospettiva ermeneutico-interpretativa che, come abbiamo visto, respinge l'idea di un soggetto conoscente che rimanga estraneo ai contesti di significato locali. Sviluppatasi inizialmente per iniziativa di un ristretto gruppo di ricercatori concentrati nella università di Yale (la cosiddetta « Scuola di Yale »), questo indirizzo ha avuto negli anni settanta molti seguaci. I suoi esponenti di punta hanno i nomi di Charles O. Frake, Harold Conklin (n. 1916), Floyd Lounsbury (n. 1914) e Ward Goodenough (n. 1919), ciascuno dei quali ha svolto un lavoro pionieristico in diversi campi corrispondenti agli assi di ricerca che, riuniti, costituiscono il territorio dell'etnoscienza: Frake per quanto riguarda lo studio delle tassonomie botaniche, Conklin nel campo dello studio dei colori e delle classificazioni vegetali, Lounsbury e Goodenough nell'ambito delle terminologie di parentela. In un senso molto generale si può dire che il problema della conoscenza, in antropologia, è stato visto dagli etnoscienziati come quello di una corrispondenza tra l'elaborazione degli osservatori e le categorie cognitive del nativo. Il compito dell'etnografo si configura allora come un tentativo di definizione degli oggetti della propria analisi in sintonia con il sistema concettuale e categoriale di coloro che egli studia. I nomi di «cose» e di «individui» (cioè piante, animali, rocce, termini di parentela, ecc.) vengono registrati non per essere analizzati in senso linguistico, ma per ricostruire la «mappa categoriale» della popolazione studiata. Le categorie cognitive sono plasmate, secondo la prospettiva etna-scientifica, dall'ambiente proprio di
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una determinata cultura. Esse costituiscono la possibilità stessa, per gli individui, di muoversi all'interno di quegli ambiti semantici che sono le culture. Le etno-tassonomie (vegetali, animali, ecc.) sono per esempio saperi «locali» che, tra tutte le caratteristiche differenziali che sarebbe possibile osservare nella fauna e nella flora di un determinato ambiente, ne selezionano alcune, in quanto pertinenti a un sistema coerente di definizioni. Questi saperi locali non possono essere sottoposti a uno sguardo «etico», ossia esterno a quello («emico») per il quale essi si rivestono di un senso (non possono cioè essere considerati «veri » oppure « falsi»); sono invece - come si diceva - connessi con il tipo di rapporti che una comunità umana intrattiene con il proprio ambiente. L'etnoscienza mette decisamente in rilievo la questione del rapporto tra lingua, cultura e modo di percepire la realtà (sia questa realtà «naturale» oppure « culturale»). Da questo punto di vista l'etnoscienza sviluppa una problematica già individuata da Boas e poi più tardi da Edward Sapir (1884-1939) e dal suo allievo Benjamin Lee Whorf (1897-1941), e conosciuta con il nome di «ipotesi Sapir-Whorf », secondo la quale la struttura grammaticale e sintattica della lingua contribuisce in maniera decisiva a organizzare la visione del mondo dei parlanti. L' etnoscienza ha costituito anche una rimessa in discussione della concezione esclusivamente « utilitaristica » del sapere naturale tipico di società tecnologicamente non sviluppate; in quanto ha contribuito a mostrare come l'organizzazione del mondo naturale (e anche sociale, un aspetto questo già messo in evidenza da Durkheim alla fine del secolo scorso) sulla base di criteri coerenti e oggettivi non possa essere considerata come una prerogativa della scienza occidentale. Pur facendo proprio «il punto di vista del nativo», la prospettiva dell'etnascienza si distingue tuttavia da quella interpretativa. Compito ideale dell'etnoscienziato è per esempio, a quanto sostiene Frake, quello di ricostruire tutte le regole che consentono agli individui di muoversi all'interno di una determinata cultura, e in maniera che tali regole, se seguite, possano permettere a un estraneo alla cultura in questione di utilizzar!e per « anticipare in maniera adeguata i possibili scenari sociali». L'obiettivo dell'antropologia interpretativa non è invece la ricostruzione di tali regole, quanto piuttosto il significato di queste ultime (e non secondo una prospettiva «esaustiva» a cui parrebbe aspirare l' etnoscienza). n programma dell' etnoscienza è stato fatto oggetto di dure critiche da parte di quanti (per esempio M. Harris) rifiutano in blocco la possibilità che il punto di vista dell'antropologo si riduca a quello del nativo. Questi trovano nella posizione dell'etnoscienza un'ulteriore prova dell'abbandono, da parte dell'antropologia, di una prospettiva che tenga conto del comportamento reale degli individui e non di ciò che questi pensano sia l'ideale di tale comportamento. Ma anche un autore come Geertz è critico nei riguardi di tale programma, poiché porta a una concezione riduttiva della cultura, che invece è considerata come «rete» di codici e di significati «agiti». Le analisi dell'etnoscienza si basano per lo più sugli enunciati linguistici degli
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informatori. Secondo alcuni etnoscienziati ci si dovrebbe attenere soltanto a essi ma, come è stato fatto rilevare, poiché il livello lessicale e quello mentale (noetico) non coincidono che in parte (poiché non tutto ciò che si «sa» è completamente dicibile) limitarsi a raccogliere informazioni relative alle tassonomie (vegetali, animali, cromatiche o parentali) è in contraddizione con l'aspirazione centrale dell' etnoscienza, cioè tracciare le «mappe mentali» delle società studiate. Al tentativo di studiare le rappresentazioni del mondo naturale tipiche dei «nativi » si sono dedicati, negli ultimi trent'anni, anche antropologi non statunitensi, come Lévi-Strauss (per esempio ne La pensée sauvage del 1962) e André-Georges Haudricourt (n. 1911) nei suoi studi di etnobotanica sud-estasiatica (1962, 1964) dove tuttavia è presente, a differenza che negli autori americani, un interesse per l'influsso esercitato (lontano retaggio durkheimiano) dall'organizzazione sociale sul sistema delle classificazioni del mondo naturale. Tentativi verso formulazioni di carattere generalizzante all'interno del filone etnoscientifico possono essere individuati nel lavoro di Brent Berlin e Paul Kay sui colori. In quest'opera, un classico dell' etnoscienza (Basic color terms del 1969) Berlin e Kay tentano di fornire un quadro « evolutivo » della terminologia cromatica di base che va da un minimo di due a un massimo di undici termini, e dove la presenza di un numero superiore a due implica sempre l'esistenza dei termini compresi nella terminologia più semplice (per esempio: se i due termini base sono A e B, il sistema a tre termini avrà, oltre a C, anche A e B. La terminologia a quattro termini avrà, oltre a D, necessariamente anche i termini A, B, C e non per esempio E o F, che saranno invece presenti solo in terminologie «complesse»: A, B, C, D, E, oppure A, B, C, D, E, F). Pur facendo proprio il punto di vista emico, l'etnoscienza ha sempre, di fatto, aspirato a raggiungere esiti validi sul piano «etico». Per questa ragione -ma soprattutto per la sua ambizione a produrre risultati generalizzanti suscettibili di essere sottoposti a processi di formalizzazione (per esempio gli studi sulle terminologie di parentela prodotte da Lounsbury e Goodenough e che vanno sotto il nome di analisi componenziale) - l'etnoscienza ha incontrato la forte opposizione di quegli indirizzi più propensi a cogliere la dimensione significante del comportamento sociale. A questi, dicevamo, appartengono quegli studi che trattano dei fenomeni ascrivibili alla sfera dell'interiorità, ma di un'interiorità «non-categoriale», bensì attinente a dimensioni come la percezione del sé, dei sentimenti e delle emozioni. Questo genere di studi di antropologia dell'« esperienza interiore» è stato condotto da antropologi non sempre esplicitamente aderenti alla corrente interpretativa. Ciò che accomuna questi lavori è comunque una diversa considerazione della sfera emotiva. Quest'ultima era stata a lungo considerata in una prospettiva a metà tra quella biologica e quella psicologica, e assumeva come scontato il fatto che le emozioni (sentimenti, idea del sé, stati di coscienza, ecc.) assumessero configurazioni del tutto simili in risposta a uno stesso evento. In conseguenza di questo assunto poteva apparire ovvio 271
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che le emozioni, così come si manifestano nelle culture studiate dall'antropologia, potessero essere comprese a partire dal nostro orizzonte esperienziale. Inoltre, poiché le emozioni erano considerate fenomeni della coscienza individuale, si dava per scontato che la via più sicura di indagine in questo campo fosse rappresentata dal metodo introspettivo. Queste posizioni sono state via via abbandonate a partire dagli anni cinquanta, in concomitanza con il generale spostamento degli interessi dell'antropologia dalla ricerca di «leggi» verso i problemi del significato. La preoccupazione di «contestualizzare» il discorso dell'antropologia, e di sottrarlo a una visione « scientista » del sapere, ha comportato quindi uno spostamento di attenzione, da parte dei ricercatori, dallo studio dei sentimenti in quanto tali (indagabili con il metodo introspettivo) alle forme discorsive portanti su tali «emozioni». Lo studio di queste forme discorsive esprime difatti la preoccupazione di cogliere il contesto dell'« uso sociale» delle emozioni e non l'intento di ritrovare elementi di conferma dell'esistenza di «universali emotivi». Oltre a Geertz, il quale ha dedicato un celebre studio agli inizi degli anni settanta all'idea del Sé in tre diverse culture (Giava, Bali, Marocco) bisogna ricordare Michelle Rosaldo con il suo lavoro sulla« passione» tra gli Ilongot delle Filippine (1980), e quello di Paul Riesman sul sentimento della «vergogna» tra i Peul dell'Alto Volta, oggi Burkina Faso (1977). Benché la maggior parte di questi studi si inseriscano nella corrente conosciuta con il nome di «ermeneutico-interpretativa » (Turner e Bruner, 1986), alcuni sono stati prodotti da autori, come appunto Riesman, che non sarebbe facile considerare come un esponente di essa. Tali studi mettono in primo piano il gioco dell'interazione sociale (al posto della coscienza individuale) e di conseguenza si articolano nell'analisi dei modi in cui le emozioni vengono « socialmente apprese e condivise» al pari di qualunque altro codice di comportamento. Da questo punto di vista il destino dello studio delle emozioni da parte degli antropologi conferma la tendenza, mostrata dalla disciplina in questo ultimo trentennio, ad abbandonare la strada della ricerca delle categorie e degli universali cognitivi a vantaggio dell'analisi delle «pratiche discorsive» suscettibili di rendere significanti segni e comportamenti. IV ·
DALLE
TIPOLOGIE
ALLE
CONNESSIONI
« L'antropologia è nata da un rapporto particolare che la razionalità e la storicità occidentali hanno stabilito con tutte le altre società. È in effetti al centro di una ragione tassonomica, apparsa nell'Europa del XVIII secolo, che riposa l'universalità dell'impresa antropologica ». 2 «Ragione tassonomica », «ragione classificatoria»: sono questi i termini che Mondher Kilani impiega per descrivere il progetto fondamentale e originario dell'antropologia, quello di ripartire «le diverse umanità». In effetti, la stessa rivendicazione del titolo di «antropologia» rinvia a un obiettivo 2
M. Kilani, Campo, narrazione, sapere del discorso antropologico, 1993, p. 37·
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e a una pretesa: catalogare il mondo delle «razze», dei gruppi e delle società umane. Anche quando viene meno:____ con l'antropologia culturale -l'interesse per le razze come oggetti scientifici, permane l'idea che l'antropologia abbia fondamentalmente e in primo luogo un compito classificatorio. Il logos che la anima e che determina la sua scientificità è simile in ciò a quello delle altre scienze naturali: allo stesso modo in cui si classificano pietre, piante o animali, l'antropologia è un « discorso » sull'umanità caratterizzato dalla capacità di distinguere, di catalogare, di sistematizzare. Sotto questo profilo, l'impostazione museologica è oltremodo significativa: anche attraverso l'organizzazione dei musei etnografici l'antropologia si propone come un sapere che raccoglie e compendia in modo sistematico le varie testimonianze dell'umanità, non più soltanto sotto il profilo zoologico, ma anche sotto il profilo culturale. Le società, per questa disciplina, possono essere soggette a classificazione; e anche quando l'impostazione museologica viene tralasciata da un'antropologia ormai più decisamente interessata a oggetti che non siano quelli della cultura materiale o delle manifestazioni artistiche, la preoccupazione classificatoria permane come compito primo e irrinunciabile. Per Murdock, per esempio, non è pensabile una qualunque rivendicazione di scientificità, se prima non si provvede a fornire l' antropologia di una base (principi, criteri, categorie, strumenti) di classificazione. L'enorme distesa delle società umane e delle loro espressioni culturali appare dunque. come un campo che va preventivamente organizzato mediante classificazioni e tipologie, apportando ordine e sistematicità. Molti aspetti dell'attività di Murdock- a cominciare dagli anni trenta e quaranta - sono orientati in questo senso: dal Cross Cuiturai Survey del 1937, all'Human Relations Area Files del 1949, all'Ethnographic Atlas (1967). In uno spirito analogo, antropologi come Radcliffe-Brown suddividevano e tipologizzavano le varie società in base alle regole di discendenza adottate (società a discendenza bilaterale o cognatica divise dalle società a discendenza unilineare; queste ultime distinte a loro volta come società patrilineari, matrilineari, a discendenza doppia, e così via). Nel 1940 - anno di fondazione dell'antropologia politica - Meyer Fortes ed Evans-Pritchard (A/rican politica! systems) distinguevano le piccole società interamente dominate dalla parentela; le società segmentarie, nelle quali la struttura del lignaggio assume anche una funzione politica; infine, le società centralizzate. Alla fine degli anni cinquanta si assiste a un raffinamento della tipologia politica a cura di John Middleton e David Tait (1958), mentre classificazioni analoghe vengono pure proposte in campo giuridico (per esempio da Max Gluckman), così come - sotto un profilo più generale - l'antropologia si impegna a riprendere in un'ottica neo-evoluzionistica le categorie di «bande», «tribù», «domini», «stati» (Service, 1983). Il testo di Service è del 1961. Ma il 1961 è pure l'anno in cui Edmund Leach (1910-89), in una memorabile lecture critica e auto-critica in memoria di Malinowski, propone di riconsiderare l'impostazione classificatoria e tassonomica dell'antropologia. Le parole di Leach sono al solito dure, taglienti ed efficaci. A essere presi 273
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di mira sono gli antropologi che si comportano come «collezionisti di farfalle», se addirittura non ritengono che il loro compito si esaurisca in ciò; egli sostiene infatti che «un interesse troppo spinto per la classificazione» in campo antropologico sia fonte di oscuramento, piuttosto che di illuminazione (Rethinking anthropology, 1971). Secondo Leach, occorre diffidare delle categorie antropologiche prodotte mediante il «normale» atteggiamento classificatorio: esse tendono infatti a essere interpretate come la riproduzione delle articolazioni della realtà, mentre invece non sono altro che espedienti strumentali - verificabili e revocabili - per cominciare a porre un qualche ordine nella realtà etnografica. Non si tratta però soltanto di essere disponibili a sostituire una classificazione (dimostratasi troppo grossolana) con un'altra. È l'atteggiamento classificatorio in quanto tale che subisce nelle parole di Leach una critica decisiva. Raffinata o rozza che sia, una qualunque classificazione produce, se non contrastata da altro, una serie di tagli, di divisioni o di separazioni, epistemologicamente insuperabili. Se l' obiettivo rimane quello, esclusivo, della classificazione, il lavoro antropologico consisterebbe soltanto nel costruire contenitori concettuali (società a discendenza doppia, per esempio, oppure società di tipo totemico, ecc.) e nel collocare in essi i vari casi etnografici incontrati. Il risultato sarebbe una generale, ma del tutto «fittizia», messa in ordine: una «finzione» (o illusione) di ordine che si sovrapporrebbe in modo mistificatorio alla realtà, con effetti anche di sopraffazione, oltre che di oscuramento, veramente deleteri. Così facendo, « noi antropologi siamo come gli astronomi tolemaici medievali: passiamo il nostro tempo a cercare di aggiustare i fatti del mondo oggettivo in un quadro di concetti sviluppati a priori, invece che farli scaturire dall' osservazione ». 3 Ma non è soltanto questione di forzare i fatti e quindi di reperire o inventare un sistema classificatorio rispetto a cui non si debba praticare questa violenza; è invece questione dei « tagli » che un qualunque sistema classificatorio e tipologico produce sulle «possibilità di connessione». Potremmo dire che per Leach è inevitabile ordinare in qualche modo i dati etnografici (e meglio sarebbe ordinarli con un sistema meno grossolano); ma questa è un'operazione soltanto preliminare. Il vero obiettivo consiste infatti in operazioni di connessione o di collegamento tra le realtà collocate nelle varie categorie. Invece di comportarsi come «collezionisti di farfalle», procedendo a operazioni di mera comparazione tipologica o tassanomica, gli antropologi non possono rifuggire dal compito della «generalizzazione», e questo obiettivo è per Leach raggiungibile non mediante la collocazione categoriale dei dati e l'accostamento delle categorie, bensì con l'attraversamento delle categorie e quindi la loro più o meno profonda smobilitazione. Si tratta di un tipo di approccio che ora potremmo definire connessionistico. Leach risentiva molto dello strutturalismo e delle sue potenzialità anti-tipologiche - soprattutto nella versione di Lévi-Strauss. Per Lévi-Strauss, come si è visto, la struttura di un sistema consi3 Op. cit., p. 26.
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ste soprattutto nel gruppo delle sue trasformazioni, ovvero diviene indispensabile per capire un sistema uscire sia dal sistema stesso sia dalla categoria tipologica in cui esso è più o meno arbitrariamente inserito, al fine di esplorare la gamma dei sistemi diversi e alternativi, simili, analoghi e anche opposti in cui - mediante alcune operazioni logiche - può trasformarsi. Leach coglie le potenzialità euristiche di questa impostazione strutturalistica, ponendo in luce le chiusure antropologiche che una prospettiva meramente classificatoria finisce per produrre. Il saggio del '61 suona come una ribellione contro il fiato corto di un'antropologia che si limita ad accostare casi e fatti all'interno di categorie tipologiche. Passando oltre i confini « fittizi » delle tipologie, Leach rivendica - in nome di un'antropologia insieme empirica e generalizzante - la plausibilità di porre in connessione casi e realtà in apparenza molto distanti, cercando di liberarsi delle prigioni concettuali che la stessa antropologia fabbrica e in cui rischia molto spesso di infilarsi. In questo modo, può essere che una credenza riscontrata da Malinowski nelle isole Trobriand possa ricevere chiarimenti da una credenza diversa e persino opposta trovata da Leach presso i Kachin della Birmania. All'inizio degli anni sessanta lo strutturalismo in antropologia era ancora nella sua fase montante e la fiducia nella possibilità di connessioni logiche entro gruppi di trasformazione (per usare l'espressione matematica di Lévi-Strauss) era piuttosto ampia. Nel frattempo, però, Evans-Pritchard rifaceva sua l'inquietante profezia di Maitland (l'antropologia o si farà storia o sarà niente), rivendicando il carattere umanistico, e non naturalistico, dell'antropologia, la sua natura interpretativa e descrittiva, contro le ambizioni esplicative e generalizzanti. Per Evans-Pritchard il carattere inevitabilmente storico della disciplina era determinato dal suo profondo e organico legame con le ricerche etnografiche (sul campo). Egli - almeno in quel saggio del 1965- era disposto a veder crollare l'antropologia (con il programma nomotetico evocato dal suo nome) pur di affermare il suo carattere irrinunciabilmente storico e monografico. Ma l'attacco mosso nello stesso scritto a Clyde Kluckhohn, cioè di avere analizzato la stregoneria dei Navaho senza tenere conto dei «suoi» studi sulla stregoneria Azande (Evans-Pritchard, 1973), è sintomatico dell'impossibilità di rinunciare all'antropologia per un antropologo storico. L'attacco di EvansPritchard infatti si trova in un presupposto tipicamente antropologico (e non storico), quello cioè della « connettibilità » tra Azande e Navaho, tra la stregoneria dei primi e la stregoneria dei secondi, tra l'etnografia africanistica relativa ai primi (EvansPritchard) e l'etnografia americanistica relativa ai secondi (Kluckhohn): e tale connettibilità viene affermata nonostante l'assoluta mancanza di connessioni storiche. Che cosa c'entrano i Navaho dell'Arizona o del Nuovo Messico con gli Azande del Sudan? L'attacco a Kluckhohn risulta quindi un inconfessato atto di fiducia in un'antropologia che non può ridursi a storia e che rivendica, proprio perciò, capacità di connessioni che non solo spezzano le camicie di forza tipologiche, ma anche travalicano i confini dei contesti storici ed etnografici. 275
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Ma come si debbono intendere queste capacità di connessione? Negli anni del suo fulgore, lo strutturalismo antropologico interpretava se stesso come un insieme di strumenti capaci di attraversare indenni le culture: lame d'acciaio o fili d'argento, fatti cioè di una materia (logica) più nobile e incorruttibile rispetto a quella (culturale) dei costumi, delle credenze e dei rituali. La proposta formalistica di Needham (r983), piuttosto vicina a quella di Lévi-Strauss (reperire concetti meramente formali, come per esempio «simmetria», « alternazione », « transitività », « complementarità», non vincolati a specifici contesti etnografici), si configura come un tentativo estremo di salvaguardare una capacità di « attraversamento universale» da parte dell'antropologia. Oggi, si è però molto più inclini ad ammettere che gli strumenti di attraversamento culturale dell'antropologia sono culturali essi stessi, soggetti quindi a variazione, impurità, incoerenze, limitazioni (Remotti, r990). In questo modo, l'antropologia non rinuncia affatto al principio della connettibilità e alla capacità di costruire reti di connessione; ma il punto di vista, a partire dal quale tali reti vengono costruite, non si trova affatto al di là delle culture, bensì è immanente agli effettivi incontri culturali. In altre parole, l'antropologia è ormai disposta a riconoscere di non disporre di una rete di connessioni preventiva e prestabilita, da sovrapporre al mondo multiforme delle società umane; la rete c'è soltanto nella misura in cui si fa e, nello stesso tempo, si disfa nei contatti tra le culture. L'antropologia riconosce così di essere essa stessa un fatto culturale, che si produce nelle relazioni inter-culturali e che coincide con la dimensione più propriamente teorica del dialogo trans-culturale. V E
IL
·
IL
PUNTO
PUNTO
DI
DI
VISTA
VISTA
DI
DEL
DIO
NATIVO
Si possono ben comprendere le esigenze di «controllo» della connettibilità ovvero della possibilità di comparazione imer-culturale: per esempio, circoscrivendo il raggio comparativo entro confini regionali o areali (Eggan, I954) oppure rimanendo nell'ambito di categorie tipologiche (Murdock, I949). Ma per quanti controlli e limitazioni si propongano, l'antropologia conosce almeno un momento in cui queste prescrizioni cautelative vengono meno. Quando l'antropologo si reca sul campo, in una società in gran parte sconosciuta, con la quale la sua cultura di appartenenza non ha intrattenuto contatti storicamente rilevanti e con la quale non condivide alcuna categoria tipologica, stabilisce, inventa o produce un contatto inter-culturale inedito, travalicando confini culturali storicamente costituiti e trasgredendo in modo clamoroso i divieti di cui sopra. Malinowski, cittadino mitteleuropeo durante gli anni della prima guerra mondiale, avrebbe forse dovuto evitare di conoscere e capire i Trobriandesi, semplicemente perché appartenenti a una cultura affatto diversa? Il problema non è quello della connettibilità in sé, ma dei modi mediante cui renderla possibile. La cautela metodologica non si traduce in una dichiarazione di
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impossibilità di conoscenza, ma nella messa in opera di una serie di espedienti e di strumenti per superare i diaframmi culturali. Malinowski si era soffermato a lungo sui metodi con cui l'antropologo deve avvicinarsi e conoscere dall'interno una determinata cultura (dall'apprendimento del linguaggio all'osservazione partecipante); l'obiettivo doveva essere cogliere «la visione del mondo» dell'indigeno (1973). Specialmente da quando la ricerca sul campo si è configurata come il momento sorgivo e fondante, l'antropologia si è trovata a doversi dibattere tra due punti di vista. Il primo è quello ereditato dalle sue origini ottocentesche: un punto di vista epistemologicamente elevato e distaccato, costituito da categorie esclusivamente scientifiche, mediante le quali l'antropologia conferisce ordine e senso al mondo umano, riducendone la diversità, l'eterogeneità, talvolta persino l'apparente assurdità. Nell' antropologia del Novecento è stato lo strutturalismo a fare propria e a rivitalizzare questa impostazione, con l'accortezza di individuare livelli di analisi profondi, al di là del livello della coscienza e dell'esperienza immediata del vissuto. Per lo strutturalismo di Lévi-Strauss si tratta di cogliere non già la «visione del mondo» dell'indigeno, bensì i modelli inconsci che operano nella sua mente: il punto di vista dell'indigeno rappresenta soltanto un obiettivo intermedio, uno scalino da raggiungere e da superare. In un'intervista a Paolo Caruso, Lévi-Strauss ebbe a dire: «Sono un teologo in quanto ritengo che l'importante non sia il punto di vista dell'uomo ma quello di Dio, ovvero cerco di capire gli uomini e il mondo come se fossi completamente fuori gioco, come se fossi un osservatore d'un altro pianeta ed avessi una prospettiva assolutamente oggettiva e completa» (Caruso, 1963). Del resto, che questa non fosse una presa di posizione momentanea, è confermato dalla definizione dell'etnologo che Lévi-Strauss aveva già dato anni prima: « Pur ritenendosi umano, l'etnologo cerca di conoscere e di giudicare l'uomo da un punto di vista sufficientemente elevato e distaccato per astrarlo dalle contingenze particolari a una data società o a una data civiltà» (Lévi-Strauss, 1960). Il punto di vista di dio, a cui si appella Lévi-Strauss, è ovviamente un'estremizzazione; ma oltre a significarci la fiducia o la presunzione a cui era pervenuto lo strutturalismo in antropologia, trasmette in modo inequivocabile l'idea scientistica dell'antropologia come logos condotto secondo una prospettiva che non risente delle particolarità culturali e delle contingenze storiche. Il secondo punto di vista è invece proprio quello delle particolarità culturali. Non solo Malinowski, ma anche - e prima di lui - Boas sosteneva nel 19rr che i diversi «atteggiamenti» e le «differenti interpretazioni» degli individui rappresentano per l'antropologo «il materiale più importante» (Boas, 1966). Su un determinato fenomeno (quale può essere una particolare regola esogamica, una credenza di tipo totemico, un rituale iniziatico) occorre dunque tenere conto non soltanto delle opinioni formulate in generale dalla comunità scientifica, ma anche dei modi con cui gli attori sociali, ovvero le persone direttamente coinvolte, vi si atteggiano e lo interpretano. Questo tipo di richiesta o di esigenza risale alle fasi costitutive
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dell'antropologia; e anche quando - come nel caso di Lévi-Strauss - l' antropologo rivendica un proprio punto di vista oggettivo e completo, l'attenzione per i «modelli "fatti in casa"», ovvero per il punto di vista indigeno, rimane costante e irrinunciabile, giacché «ogni cultura ha i suoi teorici, la cui opera merita un' attenzione pari a quella che l'etnologo concede ai suoi colleghi» (Lévi-Strauss, 1966). Talvolta, i modelli dei teorici indigeni - sostiene Lévi-Strauss - costituiscono vie d'accesso privilegiate alla struttura profonda; ma anche i loro eventuali errori sono comunque significativi, in quanto fanno parte integrante della realtà che si vuole indagare. Nella realtà studiata dall'antropologo non vi sono soltanto azioni e comportamenti empiricamente osservabili, né vi sono soltanto i prodotti materiali (durevoli o effimeri che siano) delle loro azioni. Da quando l'antropologia ha fatto affidamento sulla ricerca professionale sul campo e da quando si è riconosciuto che tale ricerca si compie soprattutto attraverso l'apprendimento linguistico, la componente intellettuale o categoriale, ovvero le idee e i punti di vista indigeni sono emersi come una dimensione irrinunciabile e imprescindibile. Il problema che si è posto fin da subito è però stato quello dell'incidenza che occorre attribuire alle categorie indigene: in quale conto si deve tenere il punto di vista dei nativi? Per Lévi-Strauss i «modelli "fatti in casa" » possono essere euristicamente molto utili, ma possono essere anche devianti: nel primo caso vanno assunti al rango di explanans e la loro significatività è allora duplice (culturale per un verso e antropo-logica per un altro), mentre nel secondo caso essi sono soltanto un explanandum, conservando una mera significatività culturale. Ma chi decide se modelli, categorie, punti di vista indigeni sono corretti, euristicamente validi oppure devianti? L'antropologo è in grado di arrogarsi una valutazione siffatta? Del resto, può l'antropologo abdicare a questo compito valutativo, senza con ciò rinunciare al suo stesso ruolo e alla sua stessa denominazione? Se il suo compito fosse solo quello di cogliere il punto di vista indigeno e di rappresentarlo al meglio, che ne è dell'antropologia? Può l' antropologia rifugiarsi in questo compito, apparentemente più umile e modesto, di sceneggiatrice di una caotica e interminabile «commedia umana», i cui copioni le verrebbero di volta in volta consegnati dalle varie culture? Il punto di vista di dio - qui assunto come forma estrema di rivendicazione del ruolo autonomo dell'antropologia - non gode di un forte credito: le prospettive di tipo totalizzante, tali da inglobare e sistematizzare i punti di vista indigeni, non hanno praticamente seguito. Ma non è soltanto questione di esplicite prospettive teoriche. Nei suoi « ripensamenti » l'antropologia ha persino messo in discussione i modelli concettuali contenuti nelle lingue europee di cui l'antropologo fa normalmente uso (Leach, 1971). Sono significative sotto questo profilo le indagini condotte da Paul Bohannan, negli anni cinquanta, sulle istituzioni giuridiche dei Tiv della Nigeria: la necessità di dover apprendere i concetti giuridici della cultura tiv si accompagnava alla tesi secondo cui il sistema giuridico di tipo europeo, a cui anche
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l'antropologo fa abitualmente ricorso, va trattato come un folk system, non dunque come schema analitico valido per interpretare le istituzioni indigene, ma come termine di confronto in una più vasta operazione di traduzione e comparazione (Bohannan, 1957). In modo simile, Rodney Needham (r971) e David Schneider (1977) hanno posto in luce il carattere culturale delle categorie di «parentela», utilizzate ancor più spesso dagli antropologi come strumenti dotati di trasversalità praticamente universale. Anche senza pretendere di assumere il punto di vista di dio, l'antropologo vede posto in discussione l'armamentario concettuale che la propria tradizione linguistica, così come più specifiche tradizioni intellettuali, naturalmente gli offrono. E mentre si incrina l'ingenua fiducia nei concetti della propria lingua (e della propria cultura) per descrivere altre culture, il monito è quello di affidarsi di più alle «categorie indigene» (Needham, 1971), in quanto - come sostiene Bohannan (1957) - «gli esseri umani che partecipano agli eventi sociali li interpretano: essi elaborano relazioni sociali in cui sono implicati sistemi significativi». Questo riconoscimento costante dell'« interpretazione», come attività con cui gli attori sociali conferiscono « significato » alle loro azioni e relazioni, fa sì che come sostiene Geertz: 4 «dobbiamo rimanere fedeli all'ingiunzione di vedere le cose dal punto di vista dei nativi». Ma in Geertz v'è qualcosa di più rispetto alle posizioni descritte in precedenza: non si tratta soltanto del monito di cogliere la «visione del mondo» del nativo e di tener conto delle categorie indigene, sottoponendole a una complessa traduzione e comparazione inter-culturale (Bohannan); qui l'adesione si spinge verso una maggiore e più intima partecipazione, a una sorta di immedesimazione. Anziché lasciarsi risucchiare dall'esperienza vissuta della cultura indigena, per Geertz si tratta di mediare tra i concetti «vicini all'esperienza» incontrati nelle situazioni concrete del campo e i concetti «lontani dall'esperienza» che l' antropologo reperisce nelle tradizioni di pensiero che gli sono familiari (psicoanalisi, sociologia, filosofia, ecc.). Gli umili concetti «vicini all'esperienza» - quelli che molto spesso gli attori utilizzano del tutto inconsapevolmente - sono da porre «in connessioni illuminanti con concetti distanti dall'esperienza che i teorici hanno costruito per cogliere le caratteristiche generali della vita sociale », 5 per afferrare cioè i problemi del senso che costituiscono l'orizzonte perenne della vita umana. È questa la formula geertziana per evitare i rischi complementari e opposti di «un'etnografia della stregoneria scritta da una strega» (inevitabilmente «imprigionata nei suoi orizzonti mentali») oppure di «un'etnografia della stregoneria scritta da un geometra» («sorda alle tonalità peculiari», ai «significati indigeni» che si producono in una determinata società). 6 Per quanto accattivante possa essere la soluzione proposta da Geertz, secondo cui bisogna dare una maggiore e più intima adesione ai significati, e non solo alle 4 C. Geertz, Antropologia interpretativa, 1988,
p. 72.
5 Op. cit., p. 74· 6 Op. cit., p. 73·
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categorie indigene, e nel contempo connetterli con i concetti delle grandi tradizioni di pensiero, v'è un punto che, rispetto almeno ad alcuni programmi sopra menzionati, va rilevato: sono i concetti « indigeni » (quelli «vicini all'esperienza») che vengono «illuminati» grazie al contatto con i concetti «teorici» (quelli delle tradizioni intellettuali lontane dall'esperienza); non viceversa. Il lavoro dell'antropologo sembra muoversi non certo tra il punto di vista di dio e quello del nativo, ma tra il punto di vista delle «grandi tradizioni» e quello delle «piccole tradizioni», cercando di «interpretare», «tradurre» e «scrivere» le seconde alla luce delle prime. Le tradizioni intellettuali non sono di per sé oggetto di analisi antropologiche: l'antropologia non se ne sbarazza per cogliere, «più libera», le categorie o i significati indigeni; vi ricorre invece per cogliere e «illuminare», grazie ai loro concetti, i più umili e nascosti concetti indigeni, per sottrarli in definitiva alla ristrettezza dei loro orizzonti mentali. Certo, non si tratta dellévi-straussiano e scientifico punto di vista di dio; ma permane - in questa impostazione di Geertz - una sorta di divisione «noi »l« loro», adombrata dalla distinzione tra concetti «lontani dall'esperienza» e concetti «vicini all'esperienza», che l'antropologo americano prende a prestito dallo psicoanalista Heinz Kohut: una separazione che rischia di inaridire la dialettica tra punti di vista eterogenei, bloccati quasi in una loro immobile contrapposizione. I grandi concetti e le grandi tradizioni sono anch'essi - come direbbe Bohannan- folk system, e in quanto tali andrebbero antropologizzati; d'altro canto i piccoli concetti delle piccole tradizioni sono probabilmente assai meno modesti e chiusi di quanto l'impostazione di cui sopra li voglia far apparire. Può darsi perciò che anche i secondi possano avere il pregio di «illuminare» i primi. Del resto, lo riconosce lo stesso Geertz: «Vedere noi stessi come ci vedono gli altri può essere rivelatore». Ma affinché questo possa avvenire occorre procedere alla liberazione non solo del principio di separazione-opposizione «noi »l« gli altri», ma anche dall'idea della fissità e irrevocabilità di questi termini, quasi che inevitabilmente debbano fronteggiarsi le «nostre» categorie e le «loro» e quasi che invariabilmente gli incontri sul campo si riducano a un fronteggiamento e a tentativi di traduzione. Tutto questo rimane vero; ma è soltanto una mezza verità. L'altra parte della verità è che l'incontro etnografico vuol essere qualcosa di più che non una registrazione notarile di differenze e di punti di vista eterogenei (il fronteggiamento) e tentativi filologici e un po' meccanici di traduzione. L'incontro etnografico è elettivamente un processo più inventivo. Come sostiene Roy Wagner (1992), si «inventa» una cultura: la si costruisce, le si conferisce forma (sia pure una forma non definitiva, temporanea, indubbiamente revocabile). Ma in questa impresa - altrimenti arbitraria e cervellotica - l'antropologo non è solo; gli « indigeni », con le loro categorie e le loro aspettative, i loro principi e le loro idiosincrasie, le loro chiusure e le loro aperture, vi intervengono fattivamente. In effetti, la cultura non « sta » da una qualche parte, in attesa di essere scoperta: attende invece di essere reinventata. Ovviamente non sono la stessa cosa la 280
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reinvenzione quotidiana e diuturna, anonima e incosapevole (per quanto tutt'altro che scevra da innovazioni) e la reinvenzione praticata in un contesto inedito, inevitabilmente e programmaticamente aperto alla comunicazione e allo scambio, qual è l'incontro etnografico. Qui si fronteggiano indubbiamente punti di vista divergenti, persino contrastanti e incompatibili; ma - se l'incontro ha successo - ciò che si determina, al di là del condizionamento rappresentato dal veicolo linguistico adottato, è la formazione di un « ulteriore » punto di vista, nato dal confronto e dalla commistione, dalla micro e vivida comparazione di sistemi di pensiero che non si limitano a fronteggiarsi (vedi par. n e vm). In questo senso l'antropologia non ha da schierarsi, ma ha da svincolarsi dagli schieramenti dei punti di vista; non ha nemmeno da porsi in mezzo come un sapere neutro e mediatore già precostituito; si forma o si riforma invece «nel mezzo» o «frammezzo», dove - a ben vedere - non si incontrano soltanto il punto di vista (possibilmente non teologico) dell' antropologo e della sua cultura da un lato e quello del nativo dall'altro, ma anche alcuni altri punti di vista: che le aperture e le curiosità antropologiche degli indigeni possono evocare (vicini o meno che siano) e che il sapere professionale dell'antropologo dovrebbe far intervenire (i lontani Azande che- secondo Evans-Pritchard - avrebbero dovuto intervenire nell'analisi della stregoneria navaho). Questo «frammezzo» (che non è o non dovrebbe essere soltanto un téte-à-tete, una partita a due) è la sede, per quanto difficile e precaria, in cui l'antropologia, come impresa partecipata e polifonica, può legittimamente proporsi come produttrice di categorie che non appartengono a «noi», né a «loro» e tanto meno a un'atea e laica divinità. VI
· IL
DIBATTITO SULLA
RAZIONALIT A
La discussione che precede ci porta direttamente al cuore di un problema che ha animato il dibattito dell'antropologia degli anni recenti, quello sulla «razionalità». Il confronto tra i concetti «nostri» e «loro», la ricerca degli universali cognitivi (vedi par. m), sono andati di pari passo con uno sforzo tendente a definire la coerenza interna dei «sistemi di pensiero», la loro rispettiva capacità di cogliere la realtà fenomenica e le modalità stesse in cui tale realtà è rappresentata. Anche qui, come nel caso delle discussioni teoriche che si sono esaminate in precedenza, l'esito generale è consistito in una attenuazione delle distinzioni, troppo spesso radicali, tra le forme di razionalità di tipo «occidentale» e le forme di pensiero «pararazionali » considerate tipiche di altre società. Il dibattito sulla razionalità costituisce uno dei temi fondamentali e più « antichi» di un sapere relativamente «giovane» come l'antropologia. Esso emerge, in qualche maniera, con la discussione sulla nascita della magia e della religione che si sviluppa con E.B. Tylor (1832-1917), William Robertson Smith (1846-94), Max Muller (1823-19oo), James George Frazer (1854-1941) ed Emile Durkheim (1858-1917). La
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religione appare infatti, ad alcuni di questi autori, come tentativo da parte dell'uomo di fornire una spiegazione dell'ordine del mondo; ad altri come modo per rendere coerente l'universo sociale entro cui l'uomo è calato. Per alcuni di loro è una manifestazione «primitiva» dell'intelletto umano; per altri è un tentativo di conferire senso all'esperienza sociale. Al di là delle diverse prospettive che guidano la riflessione di questi autori, resta per tutti il problema di definire il carattere « razionale » o meno del pensiero magico-religioso. Per lungo tempo ha prevalso, all'interno della tradizione antropologica, un'idea di razionalità di tipo cartesiano: la razionalità come abbandono dell'« abitudine e dell'esempio», come distacco dai costumi e dal senso che questi acquisiscono per una determinata comunità; la razionalità come via maestra alla conoscenza, svincolata dagli impedimenti rappresentati da atteggiamenti di pensiero quali le credenze, la divinazione, le pratiche magiche. La tradizione antropologica ha per lungo tempo dovuto confrontarsi con questa idea di razionalità adottando un atteggiamento ambiguo, consistente da un lato nel dover riconoscere la presenza di forme di razionalità anche presso popoli dediti apertamente alle pratiche magiche e divinatorie; e dall'altro dovendo riconoscere, anche nella «razionale» società occidentale, la presenza di forme di comportamento e di pensiero «irrazionali». Il fatto è che l'antropologia, come del resto lo stesso pensiero filosofico occidentale, non si è interrogata sulla forma di razionalità attribuita alla «ragione», quanto piuttosto ha dato per scontata l'idea di una razionalità come strettamente legata a una idea di «verità». Questa discussione, che negli anni sessanta e settanta ha dato luogo a un profondo, e talvolta incandescente, dibattito che ha coinvolto antropologi, filosofi, psicologi e sociologi (Wilson, r970; Hollis e Lukes, r982), è giunta alla conclusione che, di fatto, quelle operazioni mentali, per tanto tempo considerate le caratteristiche delle culture « premoderne », contrapposte a quelle tipiche delle «moderne» occidentali (e fondamentalmente «razionali», vedi par. vu) sono venute in larga misura a cadere. Grazie alle ricerche di antropologia cognitiva (che si sono interrogate sulle «categorie» della mente, sui sistemi di ordinamento del mondo naturale), è stato possibile accertare che una serie di operazioni mentali prima ritenute esclusive del pensiero « prerazionale » (quando non addirittura espressioni di «irrazionalità») sono aspetti costitutivi ed essenziali dello stesso pensiero scientifico. La stessa modellizzazione dei dati dell'esperienza nelle scienze è, per esempio, una forma di espressione metaforica (Black, r983); l'utilizzazione delle classificazioni poli teti che e di tropi di vario genere è anch'essa parte delle strategie intellettuali attraverso cui le scienze, anche quelle «esatte», costruiscono i propri oggetti di conoscenza, e non sono soltanto tipiche di un «pensiero primitivo» o « premoderno ». Per non parlare della vita quotidiana, dove anche nelle «razionali» società occidentali gli individui procedono mediante connotazioni, astensioni, immagini sintetiche e rappresentazioni fondate su classificazioni politetiche che hanno poco a che vedere con un'idea astratta di razionalità. Queste conclusioni smentiscono non soltanto gli sforzi tesi a stabilire distinzioni tra « noi» razionali e moderni
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e «loro» pre-razionali e pre-moderni, ma anche a mostrare un «errore» del pensiero occidentale, quello che consiste nell'aver confuso per lungo tempo la ragione con una funzione computazionale dell'intelletto e di avere esteso questa connotazione alla forma generale che il pensiero - si crede - ha assunto da un certo momento in avanti nella nostra tradizione culturale. Nell'ambito della riflessione antropologica vi è un punto fondamentale che ha caratterizzato l'importanza del dibattito sulla razionalità. Si tratta della possibilità, o meno, di concepire le culture umane come mutualmente traducibili oppure no. Le posizioni relativiste, se portate alle conseguenze estreme, possono produrre un'immagine del mondo umano come costituito da universi culturali incomunicanti. In questa prospettiva si dà per scontato che non esiste una base di razionalità comune a tutti gli uomini, ma che ciascuna cultura è «racchiusa» entro una logica particolare. Al contrario, la possibilità di tradurre culture corrisponde all'idea secondo la quale dovrebbe esistere un sostrato di comune razionalità trans-culturale. Probabilmente il dibattito, così concepito, finisce per riprodurre, in un caso come nell' altro (più nel primo caso che nel secondo, è chiaro), una separazione tra un « noi » e un «loro», seppure con connotati diversi rispetto a quelli che tale separazione poteva assumere all'interno di una prospettiva evoluzionistico-positivista. Forse gli esempi migliori di esiti di questo genere sono, da un lato, alcune possibili estremizzazioni delle posizioni assunte da Wittgenstein nelle sue Ricerche filosofiche (dove la nostra relazione col mondo è mediata da un linguaggio specifico) e, dall'altro, i tentativi di restituire autonomia e coerenza agli «altri» sistemi di pensiero connotandoli tuttavia come «diversi» da quello occidentale. Esempi del primo tipo sono il riconoscimento di una coerenza interna ai sistemi di pensiero «altri» ma anche dell'impossibilità di trovare un fondo comune di traducibilità (dimostrazione che non esisterebbe razionalità comune tra sistemi di pensiero e quindi universi culturali). Esempio del secondo esito è invece lo studio dei «sistemi di pensiero» così come è stato condotto da Robin Horton (1967) al riguardo di alcune culture africane. Pur riconoscendo loro una razionalità e capacità esplicativa proprie, Horton li contrappone a quello «occidentale», considerando «chiusi» i primi e «aperto» il secondo. La contrapposizione tra sistemi aperti e sistemi chiusi sta a indicare che, pur essendo questi ultimi espressione di un modo di ragionare coerente, essi risultano impermeabili all'esperienza e quindi, in un certo senso, « statici », al contrario di quello occidentale « aperto » alla verifica e suscettibile di automodificarsi. Un forte oppositore del primo di questi due indirizzi di pensiero è stato Ernest Gellner (1925-95) che, contro le posizioni relativistiche rivendica la capacità del pensiero occidentale di dare forma coerente, metodologicamente e oggettivamente valida alla rappresentazione dell'alterità. Gellner ha criticato come ingenuo il relativismo di quanti fanno della differenza qualcosa di inconoscibile, oppure qualcosa che può essere reso «razionale» a ogni costo attraverso una manipolazione adeguata del contesto. Egli si è opposto (1992) a quegli antropologi, che definisce «caritatevoli», i
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quali, allo scopo di restituire coerenza ai sistemi di pensiero «primitivi» costruiscono dei contesti ad hoc capaci di rendere ragione di qualunque forma di irrazionalità. Gellner non ritiene che il pensiero occidentale sia scevro di elementi irrazionali, ma rivendica il «primato» conoscitivo del sapere occidentale per ribadire, sulla scia di Max Weber (J; etica protestante e lo spirito del capitalismo, r905), che esso è il prodotto di un «salto» realizzatosi con la secolarizzazione del mondo. Ciò comporta il riconoscimento del fatto che la forma di razionalità che corrisponde a tale sapere è il prodotto non certo di una ascesa «lineare» dello spirito umano verso più alte forme di razionalità, quanto piuttosto l'effetto di una congiuntura creatasi nell'incontro fra la credenza irrazionale (l'idea di predestinazione) e lo sviluppo delle attività mercantili nell'Europa moderna (Gellner, r994). Una posizione come quella di Gellner, che potrebbe suscitare il sospetto di quanti temono una restaurazione del « logocentrismo occidentale», consistente nella riduzione degli altri a variabili imperfette del noi (Fabietti, r992), si giustifica solo alla luce di una « planetarizzazione » della «ragione occidentale», della diffusione cioè di modelli conoscitivi derivati dal progetto analitico, comparativo, classificatorio e generalizzante della modernità. Anche in questo caso tuttavia, la « occidentalizzazione del mondo», per riprendere un'espressione di Serge Latouche (r989), non va intesa come una esportazione, secondo traiettorie prevedibili e lineari, di uno stile di pensiero fondativo di modelli di comportamento sempre e ovunque tendenzialmente identici. Così come non è più possibile pensare a un «Occidente» collocabile spazialmente nell'Europa e nel Nordamerica, non si può più neppure pensare che la sua mondializzazione coincida con l'uniformizzazione. Indipendentemente dagli esiti di questo processo per la vitalità delle culture, è chiaro che parlare di razionalità, in questo contesto caratterizzato da sempre più frequenti fenomeni di globalizzazione culturale (vedi par. vm), dovrebbe comportare ormai un atteggiamento di grande cautela di fronte a qualunque tentativo di definire «il detentore unico della razionalità». Da questo punto di vista la stessa categoria di modernità può essere rimessa in discussione, come di fatto è avvenuto in anni recenti. VII
· OLTRE
LA
MODERNITÀ
Nei confronti della modernità - intesa come periodo storico e quindi anche come cultura entro cui si sono formate le scienze sociali e umane contemporanee - l'antropologia ha sempre intrattenuto un rapporto ambiguo e oscuro, e per certi aspetti contraddittorio. Si può facilmente intravedere nel nome stesso di « antropologia» una forte aspirazione di generalità, un profondo convincimento nelle proprie possibilità, una pretesa totalizzante e universalistica. Se a un dato sapere ancora in formazione si è voluto dare il nome di antropologia (e più in particolare di antropologia sociale o culturale), ciò è avvenuto perché si è ritenuto fin dall'inizio di poter ordinare dall'alto una massa eteroclita di dati, di poter esprimere prospettive
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e teorie in grado di padroneggiare culture, società, civiltà diverse, di saper estrarre da un cumulo di costumi strani e bizzarri il loro significato profondo, di poter stabilire con analisi accurate leggi e principi generali inerenti il funzionamento di istituzioni e di strutture sociali. Se a un sapere ancora aurorale si è pensato di poter attribuire potenzialità di questo genere, di accreditarlo di un simile potere e autorevolezza, è bene rilevare che si è trattato di una sfida di non poco conto. A sostenere questa sfida, vi è stato un certo tipo di società e di cultura: una società o una civiltà che si era estesa con le sue imprese coloniali in tutte le parti del mondo, e una cultura che aveva espresso il mito del progresso scientifico identificandosi con esso. L'antropologia, alle sue origini, è indubbiamente il risultato di entrambe queste condizioni: essa è la configurazione di un sapere che riguarda globalmente le varie società umane, in quanto espressione di una civiltà che ritiene di aver acquisito un ruolo universale, sia sul piano politico ed economico, sia su quello scientifico e culturale. La civiltà occidentale o europea, moderna, si è arrogata la prerogativa dell'esclusività di un pieno sviluppo della ragione. Per dirla con Max Weber, «soltanto qui», «soltanto in Occidente», la scienza tipicamente moderna ha reso possibile tale sviluppo, mentre altrove esso «manca» (Sociologia della religione, 1920). L'esclusività dell'Occidente moderno è data da un grandioso spartiacque che tiene separata la modernità da qualunque altro tipo di società o di cultura, definite per antitesi «tradizionali». Per questa sua esclusività, per questo suo essere a parte, la modernità si colloca su una posizione diversa e gerarchicamente più elevata; ed è da questa posizione che essa si sente in grado di volgere uno sguardo panoramico su tutte le altre società (vedi par. vr). In un clima positivistico, dominato dalla fiducia nella scienza e nell'ineluttabile progresso scientifico (fondamento della modernità), l'antropologia si propone come lo « sguardo » della modernità sull'« alterità» e sull'« altrove »: da una parte, il « qui » e il « noi » della scienza e della razionalità, dall'altra gli «altri» e l'« altrove», dominati dalle consuetudini, dai costumi, dalle tradizioni o - con termine messo in voga proprio dagli antropologi - dalla cultura. Dalla parte del «noi», la ragione; dalla parte degli «altri», la cultura: questo risulta essere il paradigma dominante nel momento sorgivo e costitutivo delle scienze sociali. L'antropologia si trova in bilico su questo spartiacque: essa è infatti sapere scientifico prodotto qui, dalla modernità, il cui oggetto si trova però altrove, nell' alterità e nelle tradizioni; e ovviamente vi è differenza radicale tra i presupposti e gli strumenti della visione moderna e antropologica da un lato e gli oggetti etnografici e tradizionali- indagati e osservati dall'antropologia- dall'altro. Non solo l'antropologo alla Frazer, che vede il mondo delle altre società dalla sua biblioteca, seduto « qui » sulla sua poltrona, ma anche l'antropologo alla Malinowski, che si reca «altrove», sul campo e soggiorna presso gli «altri», è inevitabilmente il rappresentante della modernità che indaga, scruta, interpreta con i propri strumenti e comprende, attraverso categorie da essa stessa elaborate, l'alterità.
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Con la categoria generale di «magia», per esempio, Evans-Pritchard aveva cercato di comprendere il pensiero degli Azande, fornendo il quadro di una mentalità coerente e nello stesso tempo chiusa su se stessa, impermeabile all'esperienza (Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande, 1936): una sorta di rimodellamento, ma anche di verifica dell'impostazione di Lucien Lévy-Bruhl, soprattutto per quanto attiene all'immagine di una cultura chiusa, che non si lascia scalfire dall'esperienza. Significativamente, la ricerca di Evans-Pritchard sugli Azande viene, a sua volta, utilizzata da Robin Horton (A/rican traditional thought and western science, 1967) per mettere a punto il confronto tra il pensiero scientifico dell'Occidente moderno e il pensiero tradizionale africano: sono molti gli aspetti comuni, ma le differenze, secondo Horton (il quale esplicitamente si rifà a Popper), si concentrano soprattutto sull' opposizione «aperto »l« chiuso». Ancora alla fine degli anni sessanta dunque viene riproposto il paradigma dello spartiacque tra modernità (società eminentemente aperta) e tradizione (per definizione chiusa) - e da un autore che, oltre a una sua personale formazione scientifica, era diventato assistente di antropologia all'University College di Londra e aveva compiuto ricerche sul campo tra i Kalabari del delta del Niger (vedi par. vr). Agli inizi degli anni sessanta, Lévi-Strauss aveva cominciato a sgretolare l'idea che la scienza sia una faccenda del tutto «nostra» e che « altrove» non esista altro che un pensiero mistico, senza presa alcuna sulla realtà. Per Lévi-Strauss, il « pensiero selvaggio» è anch'esso un pensiero scientifico: anche gli «altri» dispongono dunque di una scienza. Ma, all'interno di una comune esigenza di scientificità, avvertita da ogni gruppo umano, Lévi-Strauss finisce per riprodurre lo spartiacque tra modernità e tradizione. «L'uomo del neolitico e della protostoria » - egli afferma 7 - « è l'erede di una lunga tradizione scientifica; eppure se lo spirito che ispirava lui e tutti i suoi predecessori fosse stato identico a quello dei moderni, come potremmo capire che esso abbia subito un arresto ... ?» In effetti, anche gli altri (rispetto a « noi, moderni») hanno elaborato una scienza. Ma si tratta di una « scienza del concreto», la quale si rivolge alle proprietà sensibili delle cose, piuttosto che alle proprietà formali e astratte selezionate dalla scienza tipicamente moderna; inoltre, «il suo universo strumentale è chiuso», « predeterminato », come avviene nel caso del bricoleur, il quale «per amore o per forza, resta "al di qua"», mentre l'ingegnere, qui assunto come figura emblematica della scienza moderna, «tende sempre ad aprirsi un varco e a situarsi "al di là"». Beninteso, Lévi-Strauss rifiuta l'idea che scienza del concreto e scienza moderna rappresentino «due stadi» o «due fasi dell'evoluzione del sapere»: si tratta invece di due modi diversi di affrontare la realtà, «due modi di procedere [che] sono ugualmente validi ». 8 Ma nella modernità entrambi i modi coesistono (come due livelli sovrapposti), mentre «altrove» 7 C. Lévi·Strauss, Il pensiero selvaggio, 1964,
8 Op. cit., 1964, pp. 30·34; corsivo nostro.
p. 28.
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esiste solo la scienza del concreto. Nella modernità esistono insieme l'ingegnere e il bricoleur: il primo costantemente dedito all' «apertura», il secondo alla «riorganizzazione»; nelle società pre-moderne invece esiste «soltanto» il bricoleur, con i suoi limiti e con le sue inevitabili chiusure. Anche per Lévi-Strauss, altrove «manca» come avrebbe detto Max Weber - la scienza moderna. In Lévi-Strauss persiste dunque un paradigma molto diffuso e condiviso, che possiamo rappresentare con questa semplice formuletta: PM Il M, dove PM sta per società « pre-moderne » e M per «modernità», separate da una precisa linea di confine. Ma lo spartiacque nel Lévi-Strauss dell'inizio degli anni sessanta, non è più totale: la differenza tra i due tipi di scienza «non è tanto assoluta quanto si sarebbe tentati di immaginare», in quanto entrambi presuppongono lo stesso «genere di operazioni mentali», applicati però a livelli diversi del reale. Si verifica dunque una modificazione del paradigma PM Il M, nonché un suo relativo, più o meno sotterraneo sgretolamento, in quanto vengono indicati elementi di continuità tra PM e M: la scienza del concreto «sopravvive», sia pure in forme diverse, nella modernità, costituendo «ancora e sempre il sostrato della nostra civiltà», mentre la stessa scienza moderna tende a recuperare le dimensioni « qualitative » o «qualità secondarie», tipiche della scienza del concreto. La modifica del paradigma PM Il M consiste dunque non solo nell'affermazione della coesistenza in M di scienza del concreto e scienza moderna, ma anche nell'osservazione di un avvicinamento della scienza moderna a un tipo di scienza, quella del concreto, definita come «"primaria" anziché primitiva ». 9 È vero dunque che in PM «manca» (weberianamente) la scienza moderna, astratta, aperta (e questo spiega per Lévi-Strauss l'« arresto» e il « ristagno»); ma è anche vero che M (la modernità) non può fare a meno del « sostrato », della base originaria e «primaria» PM. PM può sopravvivere (sia pure a prezzo dell' arretratezza) senza M; ma M non può sussistere senza PM. La modifica del paradigma PM Il M avviene - com'è evidente - in questo modo: PM Il PM + M, cioè inserendo elementi PM (chiusura, tradizioni) in M, riconoscendo insomma che la modernità non è sempre e soltanto «aperta», ma contiene fattori che la fanno avvicinare a PM. Verso questa modifica concorrono, in maniera pressoché parallela, sia l'antropologia culturale o sociale per un verso, sia la filosofia della scienza per l'altro. È senza dubbio un fatto culturalmente significativo che nello stesso 1962 escano in Francia La Pensée sauvage di Lévi-Strauss e in America The structure o/ scienti/ic revolutions di Thomas Kuhn. Il riconoscimento, da parte di Kuhn, del carattere «tradizionale» dei paradigmi scientifici, del loro essere fatti di «costume» intellettuale, socialmente condivisi da comunità scientifiche, in definitiva di essere «modelli culturali», ha contribuito enormemente ad avvicinare campi e oggetti ritenuti un tempo non solo distinti, ma del tutto separati: quelli dell'antropologo da un lato e quelli dell'epistemologo dall'altro; villaggi iso9 Op. cit., 1964, pp. 26-34.
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lati, in sconosciuti angoli di mondo per un verso e laboratori moderni, teorie e comunità scientifiche per l'altro. Ma si tratta di qualcosa di più (e di più inquietante) di un semplice accostamento. Con l'inserimento di PM in M, anzi nel cuore stesso di M (ossia la scienza), si assiste a una richiesta esplicita, espressa soprattutto da Paul Feyerabend, di realizzare una vera e propria antropologia della scienza. Anche «la teoria quantistica » - secondo Feyerabend - «non è un'emanazione divina ma l'opera di uomini». Anche la scienza dunque fa parte della cultura (di una cultura mai troppo coerente), e come tale esige di essere sottoposta a un'analisi antropologica. Proprio per questo, i maggiori antropologi del Novecento non hanno osato immaginare di spingere l' antropologizzazione fino al cuore della modernità e del pensiero occidentale. Sia Evans-Pritchard, sia Lévi-Strauss sono ancora vittime di un'illusione o di un mito tipicamente moderno, quello secondo cui la scienza sarebbe «una struttura neutrale contenente una conoscenza positiva che è indipendente dalla cultura, dall'ideologia e dal pregiudizio ». 10 La richiesta di Feyerabend risulta molto imbarazzante per l'antropologia. In primo luogo, perché l'antropologia, condividendo anch'essa alle sue origini e per diverso tempo il paradigma PM Il M, è rimasta a lungo fedele alla sua vocazione « primitivista », specializzandosi in un sapere relativo a bande di cacciatori e raccoglitori, tribù di pastori nomadi e di coltivatori, e così via. Lo sgretolamento del paradigma PM Il M ha aperto la strada a un'antropologia della modernità, ma sulla modernità, come sostiene Geertz, « quasi tutti ne sanno più di noi, confusi come siamo ancora da combattimenti di galli e da pangolini ». 11 L'antropologia non può più tralasciare il tema «modernità»; se davvero vuole proporsi come «antropologia» non può abbandonare ad altri il discorso (l'investigazione, il sapere) relativo a quest'altra parte dell'umanità; ma che cosa l' antropologia è in grado di «vedere» nella modernità? Quali oggetti, quali fenomeni i suoi strumenti (gli strumenti che si è venuta costruendo studiando gli «altri») le consentono di cogliere? Avrebbe senso cogliere nella modernità soltanto spezzoni di costumi tramontati, relitti, sopravvivenze, reviviscenze di tradizioni che appartengono irrimediabilmente al passato? Se così fosse, l'antropologia si lascerebbe sfuggire il senso stesso della modernità, divenendo una scienza puramente antiquaria. La sollecitazione di Feyerabend è invece un invito ad affrontare direttamente il senso della modernità, la sua ideologia, la sua «cultura», e in questa direzione possono essere evocati, per es'empio, antropologi come Francis L.K. Hsu (1979) e Louis Dumont (1983). Se gli oggetti da investigare non sono più frammenti PM in M, chiazze di tradizionalismo nel mare della modernità, bensì la struttura di M, è chiaro che un lungo e profondo processo di rinnovamento categoriale attende l'antropologia. Infine, l'oggetto stesso che Feyerabend propone all'antropologia è la scienza, 10
P. Feyerabend, Contro il metodo, 1979, pp.
11
C. Geertz, 1988, p. 193.
209 e 246.
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la scienza moderna, il cuore della modernità. La sfida è grande, se non altro perché, come l'antropologo è di solito impegnato a cogliere, anche attraverso il linguaggio, le categorie culturali del «suo» villaggio di contadini, così deve conoscere e in qualche modo fare proprie le categorie (la visione del mondo, gli atteggiamenti mentali delle tribù dei teorici quantistici). Sotto questo profilo, si può ben capire la ritrosia e persino il diniego che gli antropologi professionali oppongono alla « semplice possibilità di applicare la loro disciplina alla nostra scienza e alla nostra società» (Latour, r990). Secondo Latour « "antropologizzare" la razionalità» moderna è tuttavia un compito irrinunciabile. Come può l'antropologia accogliere questa sfida? Abbandonando al loro destino i villaggi di contadini, con i loro combattimenti di galli e loro stregonerie e provare a interpretare il comportamento degli scienziati nucleari come se fossero anch'essi degli stregoni e dei primitivi? Questo è l'esito riduttivo (e prevedibilmente fallimentare) a cui rischia di condurre la modifica del paradigma PM tf M nel senso a cui si è accennato prima (PM tf PM + M). Per l'antropologia è risultato vitale scalzare il paradigma PM tf M. Ma lo spartiacque su cui esso si regge può essere eroso e superato non soltanto nella direzione PM ~ M (scorgendo fattori di tradizionalità nella modernità), bensì anche nella direzione opposta, ossia PM f- M (ricercando e osservando fattori di modernità anche «altrove», nei domini delle tradizioni e dei costumi). Già alla fine dell'Ottocento Boas giudicava di « particolare interesse» lo studio dei modi con cui, anche nelle altre società («primitive», «tradizionali») gli individui si liberano dai «ceppi» delle consuetudini e delle convenzioni (Race, language and culture, r966). Ma è stato Walter Benjamin a estendere esplicitamente la nozione di modernità alle altre società, e ciò non come effetto indotto, per esempio, dalla colonizzazione, ma come caratteristica intrinseca di ogni società. Con l'aiuto di Benjamin si riesce dunque a mettere a fuoco questo secondo tipo di modifica del paradigma PM tf M, quello per il quale non è soltanto M che si carica di elementi PM (la tradizione nella modernità), ma è pure PM che ingloba caratteristiche di M (la modernità nelle tradizioni). Il risultato di questa doppia modifica è quindi PM +M tf PM + M; il che significa la totale sottrazione di senso alla differenza (f), owero lo smantellamento dello spartiacque tra i due tipi di società e nel contempo il riconoscimento, in ogni società, di elementi PM (tradizionalismo, chiusura) e di elementi M (apertura, svincolamento dalle consuetudini, critica, crisi). «Non c'è mai stata un'epoca che non si sia sentita, nel senso eccentrico del termine, "moderna" », per Benjamin la modernità consiste soprattutto in una «lucida coscienza disperata di stare nel mezzo di una crisi decisiva», e in questo senso è «qualcosa di cronico nell'umanità ». 12 Gli antropologi, i quali finora si sono presentati in gran parte come specialisti di «chiusure», di tradizioni, di identità (prima nelle società PM, poi nelle società di tipo M), dovrebbero a questo punto mutare 12 W. Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo, 1986, pp. 701-702.
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le loro prospettive teoriche e il loro armamentario concettuale, così da ricercare non solo le chiusure in «noi», ma anche e soprattutto le aperture presso gli «altri». In questo modo, non si tratta affatto di abbandonare i villaggi dei contadini (con pangolini, stregoneria e combattimenti di galli), ma di attrezzarsi per cogliere con maggiore precisione ed efficacia le possibili direzioni del mutamento, i vari e inediti «sentieri della modernità» che in modo spesso imprevedibile e creativo affiorano nei vari angoli di mondo (Clifford, 1993). Non è pensabile che si possa tanto facilmente « antropologizzare » la razionalità e la scienza moderna; e tuttavia è molto probabile che la modificazione degli antropologi in specialisti delle aperture e non solo delle chiusure, e delle aperture anche degli altri e non solo di noi, li ponga maggiormente in grado di rispondere alle sfide intellettuali che il mondo contemporaneo propone con la complessità e con la scienza, con i conflitti e con i processi di globalizzazione che lo caratterizzano. VIII
·
GLOBALIZZAZIONI,
RE- INVENZIONI,
CONFLITTI
È ormai da molti anni - forse da sempre - che l'antropologia pensa i propri oggetti in un orizzonte temporale segnato dal sentimento della perdita. Perdita di una storia rappresentata dalle culture che essa studia e che non ha mai cessato di vedere come «influenzate», «degradate», «contaminate», «corrotte» dal contatto con quella occidentale. Quale antropologo non ha provato almeno una volta la sgradevole sensazione di trovarsi di fronte a un «mondo in estinzione»? Gli appelli a «far presto» affinché le ultime culture «primitive» non scompaiano, oltre che fisicamente, anche dalla nostra memoria, costellano l'intera storia dell'antropologia: dalle lettere che Lorimer Fison e A. Howitt scrivevano a Lewis H. Morgan per tenerlo al corrente delle loro osservazioni sugli Aborigeni australiani, alle dichiarazioni di Malinowski contenute nella prefazione ai suoi Argonauts del 1922; dalle considerazioni di Marcel Griaule negli anni cinquanta che facevano dell'etnologia una specie di «scienza di recupero », all'invito di Lévi-Strauss a proteggere le culture indie e a studiarle «prima che il turbinio della civiltà delle macchine le sfiguri per sempre». Ineludibile è oggi poi la sensazione di trovarsi di fronte a una realtà che rimescola i termini di ciò che Geertz ha chiamato «l'equazione antropologica, l'Essere là e l'Essere qui», sul campo e a casa propria; un'equazione che, come Geertz stesso aggiunge, è oggi messa in ridicolo, piuttosto che equilibrata, da «i ciondoli del mondo industrializzato (venduti là) e dalle canzoni del Terzo Mondo» (ascoltate qui). 13 Di fronte a questa situazione, la tentazione di cedere alla «nostalgia imperialista» - come l'ha chiamata Renato Rosaldo (1989) - al sentimento di lutto per la scomparsa di ciò che noi, gli «imperialisti», abbiamo trasformato, e che Lévi-Strauss 13 C. Geertz, Opere e vite. I.:antropologo come autore, 1990, p. 141.
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ha saputo così magistralmente e così struggentemente cogliere nelle pagine di Tristi tropici (1960), è senza dubbio molto forte. Lo stesso autore di Tristi tropici ci ricorda d'altronde che «se l'Occidente ha prodotto degli etnologi è perché un cocente rimorso doveva tormentarlo ». 14 E tuttavia, anche in antropologia l'Occidente è stato «imperialista»: ordinando, manipolando, dominando intellettualmente popoli e culture; riducendo quelli e queste a «invariabili imperfette del noi». L'« esagerazione della cultura», secondo James Boon (1982), «l'allontanamento dell'Altro nel tempo», secondo Johannes Fabian (1983), la « regionalizzazione etnografica» secondo Richard Fardon (1990), l'« Orientalismo » secondo Edward Said (1994), rappresentano le molteplici strategie discorsive mediante le quali l'Occidente - e di conseguenza l'antropologia - ha «costruito» e «organizzato» la differenza culturale. Ma anche senza insistere sui rapporti ambigui che hanno sicuramente legato gli antropologi all'impresa coloniale, è fin troppo evidente come questa disciplina sia sorta da quella che è una «zona di contatto» con altri mondi e altre realtà culturali; e come, secondo quanto è stato affermato di recente, essa sia « uno degli eredi principali della transculturazione » (Hastrup, 1995). L'essere nata nella «zona di contatto» tra Occidente colonizzatore e mondo colonizzato ha segnato, sin dall'inizio, l'ambiguità dell'impresa antropologica. Ambiguità che consiste nel dovere usare, per poter comprendere l'alterità, gli strumenti della tradizione intellettuale occidentale nello stesso momento in cui questo tentativo di comprensione obbliga a rifiutare la visione di un mondo dominato dai modelli sociali e dai valori culturali dell'Occidente. Questa ambiguità di fondo che segna indelebilmente la disciplina - e probabilmente, come sostiene Lévi-Strauss, anche la storia personale di coloro che si dedicano a questo genere di studi (« critici a domicilio e conformisti al di fuori ») - si rivela, oggi come mai, di fronte alla « modernizzazione planetaria» e alla scomparsa di mondi relativamente inaccessibili al nostro sguardo, suscettibili di produrre quella « scossa » potente che può nascere solo di fronte a una alterità totale, non ancora ridotta a semplice differenza (Affergan, 1991). Sarebbe assurdo non ammettere la diversità, sul piano quantitativo, e quindi in un certo senso qualitativo, dei processi di globalizzazione odierna rispetto ai contatti interculturali dell'epoca precedente alla grande ondata dell'espansione europea. E tuttavia dobbiamo chiederci se questo mondo, testimone di una globalizzazione dei fenomeni e dei processi culturali precedentemente sconosciuta, sia mai stato costituito da quelle realtà «intatte» e «isolate» di cui tanto a lungo hanno favoleggiato gli stessi antropologi, immagini anch'esse troppo scopertamente collegate con quel sentimento di lutto cui si è accennato. La costruzione delle «società primitive», delle «originarie società d'abbondanza» e delle «culture autentiche», sono state a lungo pratiche riflesse di quel sentimento (Amselle, 1978; Fabietti, 1995). 14 Op. cit., 1960, p. 377·
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Di fatto, le società e le culture non hanno mai posseduto caratteri di originarietà assoluta ma sono sorte dal contatto, dallo scambio e dall'ibridazione. La metafora poetica dei «frutti puri che impazziscono» usata da Clifford (1993) per indicare il farsi e il disfarsi dei linguaggi e dei codici culturali nel mondo contemporaneo l'eteroglossia imperante - , e che assume nel contesto odierno quasi il senso della metafora consolatoria, cioè di un tentativo neanche tanto coperto di elaborazione del rimorso, è certamente qualcosa che poteva nascere solo di fronte alla globalizzazione dei processi culturali. Ma se le culture non sono mai state quegli isolati primitivi, autentici e originari di cui gli antropologi hanno a lungo trattato, dobbiamo chiederci se i « frutti » di cui parla Clifford (quelle culture, quelle società, quelle etnie) non siano, di fatto, sempre «impazziti». Allora, se da un lato le riflessioni di Benjamin circa la natura della modernità (vedi par. vn) possono apparirci «profetiche» di fronte allo sconvolgimento del mondo contemporaneo, dall'altro esse ci appaiono anche come «illuminanti» in relazione al passato stesso del mondo, un mondo «cronicamente» affetto dalla modernità - se per modernità si intende, come la intendeva Benjamin, la «lucida coscienza disperata di stare nel mezzo di una crisi decisiva». Soltanto un inguaribile atteggiamento etnocentrico potrebbe farci credere che l'Occidente sia stato l'unico capace di avere la «coscienza disperata di stare nel mezzo di una crisi decisiva». Certamente i saperi sono espressione di ampie e complesse congiunture: ideologiche, produttive, scientifiche, politiche. L'antropologia non fa eccezione. Nel momento in cui la società della quale è espressione comincia a riflettersi sempre più diffusamente nell'immagine della modernità (e della post-modernità), anche l'antropologia si riplasma sulle problematiche generate da questa congiuntura epocale. Oggi in antropologia si parla molto di globale/locale (Featherstone, 1990; Miller, 1995), di re-invenzioni della cultura e della tradizione, di fondamentalismi e di etnicismi, di conflitti e al tempo stesso di auspicabili confronti e dialoghi. Di fatto, sono questi i punti nodali di una realtà mondiale in via di forte « planetarizzazione » sul piano sociale, economico e culturale. Ma quella della globalizzazione non è una problematica ascrivibile alla temperie dell'ultimo decennio del secolo xx. Questo decennio, semmai, l'ha resa più evidente e drammatica. Il tema della globalizzazione in quanto tale - cioè come interessamento delle «periferie» del pianeta da parte di processi scaturiti da un «altrove» organizzato (l'Occidente) in maniera tale da imporre modelli culturali - venne affrontato a partire dagli anni sessanta dagli antropologi britannici della Scuola di Manchester e da quelli francesi di ispirazione marxista. Concentrando la propria analisi sull'attrazione delle periferie del pianeta nell'orbita del sistema economico capitalista, questi studi puntarono decisamente a una riformulazione dei campi di indagine dell'antropologia ora non più coincidenti con le società « tribali » più o meno «tradizionali», ma con processi di articolazione dei fenomeni globali con le realtà locali. Gli studi di Max Gluckman (19II-75), Georges Balandier (n. 1920) e di Claude Meillassoux (n. 1925) insistevano proprio sui 292
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fenomeni di interconnessione tra società «tradizionali» e società a sviluppo capitalistico, analizzandone i punti e le modalità di articolazione sul piano politico ed economico. A questo riguardo gli studi di Meillassoux (1964; 1975) sull'economia delle comunità domestiche africane e sul ruolo da esse sostenuto nel processo di riproduzione del sistema capitalistico possono ormai essere considerati dei classici. Gli antropologi di orientamento marxista hanno privilegiato una prospettiva di tipo sociale ed economico nell'analisi di questo processo di articolazione di centro e periferia e di globale e locale. La questione dell'articolazione dei processi globali con le realtà locali, così come venne prevalentemente affrontata da questi studiosi, tendeva a trascurare gli aspetti simbolico-culturali del fenomeno per cui, nonostante la comparsa di celebri lavori come quello di Peter Worsley (1957) sulla riformulazione dei culti melanesiani in seguito al contatto con l'Occidente, e quello di Vittorio Lanternari (1960) sul sincretismo religioso come risposta alla colonizzazione, venne largamente occultato l'aspetto di «re-invenzione» che i processi di globalizzazione comportavano sulle realtà locali. Gli antropologi marxisti, in maniera simile ai loro colleghi di diversa ispirazione teorica (per lo più strutturai-funzionalista), tendevano a sottolineare l'esito distruttivo e di « sradicamento » delle società tradizionali provocato dai fenomeni di globalizzazione prodotti dal «centro» capitalistico, e a sottovalutare la capacità, da parte della «periferia», di riformulare nuove identità e nuovi assetti sociali. Lo studio dell'articolazione tra fenomeni globali e realtà locali ha assunto una nuova veste con l'emergere e l'imporsi di una prospettiva più attenta alla produzione del significato, quale quella simbolica nella variante ermeneutico-interpretativa (vedi par. n). L'assunzione del «punto di vista del nativo» come termine di riferimento imprescindibile per qualunque discorso che voglia produrre una conoscenza «oggettiva» della differenza culturale (vedi par. v) ha contribuito ad aprire nuove prospettive di ricerca sul modo in cui le realtà locali reagiscono ai flussi culturali di natura globale. Di fronte a simili flussi, le società «periferiche» non danno sempre vita a forme culturali degradate, ma anche a nuove forme della cultura e dell'identità. In quanto «invenzione» (Wagner, 1975), la cultura è sempre suscettibile di nuove formulazioni che possono andare da una reinvenzione della propria «tradizione» di fronte alle crisi o alle situazioni di conflitto, fino agli etnicismi e ai nazionalismi contemporanei. Tali etnicismi e nazionalismi (Anderson, 1983; Gellner, 1983; Smith, 1986), che affiorano un po' ovunque sulla superficie del Pianeta (tanto laddove si pensava che non potessero più manifestarsi, quanto laddove si riteneva che non si sarebbero mai manifestati), mostrano in maniera sorprendente la capacità delle culture di adattarsi, organizzarsi e confrontarsi adottando, in funzione dei propri interessi, schegge ideologiche, frammenti di sapere, discorsi politici considerati comunemente patrimonio dell'Occidente egemone. Il caso dei nazionalismi asiatici è, da questo punto di vista, emblematico. Attraverso la ripresa delle teorie elaborate tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento da linguisti ed etnologi occidentali, alcuni gruppi giungono a fondare, attraverso una 293
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riformulazione della propria identità culturale, la legittimità delle loro aspirazioni all'autonomia (Bhabha, 1990; Fabietti, 1993 e 1996). Questi fenomeni, unitamente al flusso delle informazioni favorito dalla grande diffusione dei sistemi di comunicazione di massa, costituiscono certamente un esempio di articolazione del globale nelle realtà locali. Non solo, tali fenomeni sottolineano una volta di più - al di là dei contesti politici entro cui si producono - come la comprensione di ciò che avviene oggi sul piano dei «contatti tra culture» (un'espressione falsamente neutra a lungo utilizzata dall'antropologia) non possa avvenire a prescindere da questa considerazione di globale e locale come termini di una stessa realtà complessiva. Essi ribadiscono anche, seppure indirettamente, come lo «spazio dell'incontro» tra diversità culturali possa prodursi, oggi più che mai, solo grazie a quella che Hans Georg Gadamer (1960) ha chiamato la «fusione degli orizzonti», ossia in quello spazio di esplicita « dialogicità » che caratterizza ormai qualunque «impresa antropologica». Questa fusione degli orizzonti, questa dialogicità, questa apertura all'alterità, meditate nel travaglio teorico ed esistenziale di un sapere che non ha mai disdegnato di essere anche un sapere empirico, costituiscono forse i punti di riferimento più sicuri per poter affrontare le sfide del mondo contemporaneo. IX
· L'ANTROPOLOGIA
CULTURALE
IN
ITALIA
1) Le origini dell'etnologia
La cultura italiana dei primi decenni del secolo presenta un panorama di studiosi dell'area antropologico-demologica che, rifacendosi a un principio di lealtà alla storia, ma con toni e intendimenti notevolmente diversi da quelli trionfanti nella storiografia etico-politica di stampo crociano, concentravano i loro interessi sul « popolo » come criterio storico-sociale. Marginalizzati e spesso anche delegittimati dalla filologia crociana dell'individuale e, d'altro canto, non potendo vantare delle concettualizzazioni davvero risolte del nesso tra scienze umane e scienze fisiche e biologiche, questi intellettuali accettarono lungo tutti i decenni dell'egemonia crociana «di svolgere studi che non erano storiogra/ia » (Clemente, 1985), alcuni accontentandosi di produrre «materiali» per la storia della cultura, altri avendo ambizioni più alte. Con l'esempio illustre di Raffaele Pettazzoni (1883-1959) l'etnologia italiana si stacca però decisamente da quell'alveo naturalistico che la tradizione ottocentesca limitava allo studio delle « razze» e alla sistemazione dei « dati » e degli « oggetti » procurati dalle ricerche etnografiche. Orientando l'etnologia verso la storia delle religioni, Pettazzoni raggiungeva la tesi che le linee di sviluppo delle varie culture rivelino tutte un substrato comune, la religione appunto, e che perciò, se le origini della cultura sono religiose, l'etnologia o sarà etnologia religiosa o tradirà il suo paradigma. Durante gli anni venti, quando ne traccia il profilo, il laico Pettazzoni non 294
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supponeva che proprio quest'aggettivazione (e ciò che le corrispondeva nei fatti) avrebbe contribuito a differire il riconoscimento dell'etnologia tout court al secondo dopoguerra, e tuttavia resta di grande momento l'impostazione comparativisticomorfologica da cui mai si allontanarono le sue indagini (sul monoteismo, sulle superstizioni, ecc.) sempre condotte sul terreno storico delle «moltitudini» e delle « mentalità» e senza alcuna nostalgia di un patrocinio filosofico, come quello crociano, che alla storia delle religioni riservava lo status inferiore del collezionismo puramente erudito e bibliografico. Da questo punto di vista, la figura di Pettazzoni è esemplare di cosa sia stata l'etnologia italiana nella sua fase, come alcuni l'hanno definita, di decollo. Considerandola per di/ferentiam rispetto alle correnti d'origine francese, prevalentemente sociologizzanti, o all'antropologia americana o all'antropologia sociale inglese, risalta la mancanza di intenti pragmatici o, come anche si potrebbe dire, di politica culturale e tutto ciò nonostante la mentalità imperiale del fascismo avesse a un certo punto tentato di veicolarsene l'appoggio onde veder meglio illustrata la retorica della razza e del sangue. Assenza di intenti pragmatici; grande considerazione per i contributi alloglotti, da Jensen a Cassirer, da Lévy-Bruhl a Eliade; mancanza di studi sul terreno schiettamente etnologico: fu questo intreccio di virtù e limiti a produrre nell'etnologia italiana delle origini quella problematicità e quella capacità d'ascolto delle esperienze svolte da altri «sul terreno», cui doveva associarsi una «tendenza prevalentemente riflessa» (Lanternari, 1974), «a tavolino», destinata d'altronde a rapida metamorfosi non appena il secondo dopoguerra avesse accentuato il dialogo con l'Oltralpe e l'Oltreatlantico. Vinigi Grottanelli, Tullio Tentori, Ernesta Cerulli, Vittorio Lanternari, rappresentano, insieme a Ernesto de Martino, la generazione che diede corpo alle discipline etna-antropologiche in Italia, mentre Carlo Tullio-Altan si orientava verso un'analisi del rapporto fra personalità di base e sistema della cultura e Bernardo Bernardi recepiva gli insegnamenti della Soàal Anthropology inglese. 2) Le discipline etna-antropologiche
Della generazione successiva a quella di Pettazzoni, tra i più attenti a convergere con lui sull'autonomia dell'etnologia, è l'africanista Vinigi Lorenzo Grottanelli (1912-94), cattolico proveniente da studi di economia e a lungo professore alla Propaganda Fide. A differenza di Pettazzoni, colui che poi diverrà un africanista celebre (e anche direttore di quell'istituto dell'Università di Roma che, assieme alla scuola di perfezionamento, è stato a lungo la principale sede di formazione etnologica in Italia) non esitava a includere l'etnologia entro un quadro antievoluzionistico in cui l'« umano», irriducibile a ogni presupposto, veniva fatto coincidere col «miracolo della libertà» (con le parole di Ugo Spirito). Ha origine qui sia la polemica, che invece non si ritrova in Pettazzoni, contro le scienze umane scientificizzanti come la sociologia, sia quell'inderogabile e decisivo ricorso alla storia in quanto ricerca di ciò che le culture umane presentano di spiritualmente individuale e unico. 295
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Il fatto che in uno studioso influente come Grottanelli il terreno dell'etnologia e delle altre discipline storico-umanistiche si opponesse nettamente all'antropologiaintesa nell'ottocentesca accezione di studio somatico, biologico e razziale dell'uomo - non impedì però che sorgesse in Italia una notevole impresa editoriale, protrattasi circa vent'anni, in cui confluivano, assieme a quelli etnologici, numerosi contributi antropologici, paletnologici, linguistici e della tradizione geografica il cui ideatore era Renato Biasutti. Studioso diffusionista della generazione di Pettazzoni, Biasutti fu anche il curatore di Razze e popoli della terra, opera molto fortunata la cui conclusione nel 1967 segue di due anni l'uscita di Ethnologica, altra opera enciclopedica diretta da Grottanelli, e che rappresenta invece la piena affermazione dell'etnologia come sapere autonomo. Ormai negli anni sessanta, l'etnologo aveva ben chiaro quale fosse il rapporto col proprio oggetto di studio e noi possiamo convalidarne la portata rimbalzando alle riflessioni di un altro studioso della stessa generazione, Giuseppe Cocchiara, che dedicò non poche energie alla riflessione metodologica e teorica. Mentre Cocchiara, che aveva avuto decisive esperienze di studio in Inghilterra con Marett tra la fine degli anni venti e l'inizio dei trenta, ribadiva una problematizzazione dell'etnologia che lo aveva condotto ad affermare che «il cosiddetto selvaggio, prima di essere scoperto, è stato inventato» (Cocchiara, 1948), Grottanelli escludeva, come scrive a chiare lettere nel '61, che la consapevolezza critica delle proprie prospettive possa condurre l'etnologo a sopprimere quella «tacita o esplicita bipartizione dell'umanità» per cui non solo esistono un soggetto e un oggetto della ricerca etnologica, ma due mondi, proprio come sono due i mondi cui appartengono le farfalle e coloro che le studiano. Come dire, insomma, che il senso e la funzione dell'etnologia si riconducono alle trasformazioni di cui solo l'altro deve mostrarsi capace; visto che qualunque problematizzazione messa in atto dal soggetto della ricerca non potrà riguardare che l'oggetto investigato, l'unico e indeclinabile de re. Insomma, il ricorso alla storia e alle sue dinamiche aveva prodotto un diverso atteggiarsi dell'etnologia che tanto fattivamente si era affacciata alla cultura del periodo postliberazione. Accanto a studiosi, come Cocchiara, consapevoli del nesso inscindibile che lega l'etnologo alla creazione dei suoi oggetti, altri, come Grottanelli, riservano al soggetto della ricerca il ruolo prestigioso e immune da ogni inquietudine della voce fuori campo, oggettiva e intangibile come lo è rispetto alle farfalle chi ha il potere di inseguirle col retina. 3) Ernesto de Martino
Di questo punto di vista, Ernesto de Martino (1908-65) rappresenta forse l'antitesi più radicale, anche se, come vedremo, paradossalmente collimante con la logica di bipartizione esibita da Grottanelli. Di lui si può cominciare a citare il famoso bilancio dell'etnografia« degli ultimi dieci anni» scritto per« Società» nel 1953. Quel testo concludeva la propria sonante denuncia dei «cortocircuiti» tra arcaico e moderno in nome di un « umanesimo storicistico » che voleva tagliare i ponti col
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«funesto fascino delle realtà non formate» e intendeva farlo in nome di una rottura col mondo arcaico che fosse un guadagno teorico di prospettive e, al tempo stesso, l'« umanamento » di quel mondo «con l'aiuto e la regola della prospettiva ottenuta». Di quale aiuto e regola si trattasse non lo si intende appieno se non leggendo Naturalismo e storicismo nell'etnologia del 1941. Nonostante i successivi superamenti e le note retroflessioni del suo autore, quel libro attesta l'esistenza di un contenuto netto mai più messo in discussione. Si tratta, in sostanza, del giudizio sulle benefiche potenze operative che la civiltà europea ha compiutamente sviluppato e che illuminano ciò che rispetto a essa appare oggi disorganico. Che in de Martino tale giudizio corrispondesse a un'esortazione era un fatto, prima che teorico, di deontologia professionale: mai lasciarsi sviare da tematiche mediocri come quella dell'antietnocentrismo. Occorreva, al contrario, che l'interprete progressivo di quelle potenze, lo storicismo crociano, si protendesse nell'etnologia (e qui era ovvio che l'operazione l'avrebbe curata lui, de Martino, e proprio con quel libro, che difatti cominciava a fornire certi dettagli). Perché una cosa era certa: sarebbero state tali potenze, e non altro, a rimuovere i «primitivi» da quell'alterità rispetto a «noi moderni» che Lévy-Bruhl irrigidiva invece in un'opposizione di « prelogico » e «logico», contraria all'unità del genere umano. Volendo affermare la capacità plasmatrice dell'endiadi Croce/Modernità, de Martino non si limitava però a controbattere la tesi dello studioso francese che, non meno dei suoi accusatori, era perfettamente convinto che «la structure de l'humanité est partout la meme ». Il suo sforzo di· chiarificazione lo induceva ad approfondire la lotta contro ogni tendenza decadente a crogiolarsi nel fascino verso realtà non formate e irrazionali, fatte di stimoli e servitù che minano quella fedeltà alla ragione e alla storia in cui, diceva, risiede il nostro vero télos. Non per nulla Naturalismo e storicismo nell'etnologia (ma poi anche l'antologia assai istruttiva che è Magia e civiltà del 1962) si concludeva nel postulato vagamente paradossale di un'unità del genere umano dicotomica, allestita cioè sulla ripugnanza tra due mondi, quello sviluppato e razionale di noi moderni, e quello magico, i cui conati inautentici, deludenti e malsani, non potrebbero mai essere avallati se non per effetto di un'abdicazione ai valori di consapevolezza, prestigio morale, scienza e vita democratica ormai divenuti organici alla nostra civiltà. Ovviamente, lo schema dicotomico portava l'etnologia a impegnarsi nel senso della «nostra» storia monoteisticamente intesa; diversamente, sosteneva de Martino, non comprenderemmo chi siamo e dunque chi siano gli altri. Questa è la ragione dell' europeocentrismo che egli continuerà fieramente a evocare davanti sia alla «crisi della presenza», che pone l'uomo di fronte al crollo e alla morte, sia alla civiltà attuale, affinché non depotenzi la propria risposta alla morte differendo il superamento della crisi. Tutto questo insistere sull'attualità della crisi, anche nel senso millenaristico della «fine del mondo», e al tempo stesso sul possibile trasformarsi di essa nel risveglio di una fedeltà all'umanesimo integrale non erano certo dei risvolti privi di 297
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un robusto referente. Per quel determinismo d'origine che de Martino s'augurava non fosse eluso a favore del relativismo naturalizzante e senza prospettiva della Cultura! Anthropology, era ovvio che l'eterno magnete fosse l'Occidente, in quanto ispiratore delle alternative storiche che l'incontro etnografico radicalizza quando riesce a non cedere alla critica infantile degli etnocentrismi. Perché, agli occhi dell' etnologo, anche questo è inoppugnabile: chi, se non l'Occidente, si guarda vivere e sa eroicamente problematizzarsi nello «scandalo» dell'incontro etnografico? Da Naturalismo e storicismo nell'etnologia fino a Il mondo magico (1948) e a Promesse e minacce dell'etnologia (1962), l'Occidente ha continuato a squadernare l'idea di una civiltà-centro, verso cui avrebbe fatto bene a orientarsi la sete di riscatto degli stessi popoli coloniali. Non già che egli si proponesse un mero trasferimento del «noi» dei popoli coloniali alla razionalità del «noi» europeocentrato o si concepisse la storia dell'Occidente come «storia di vertici culturali, senza profondità sociologica ». Come si vede sia in Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pagano al pianto di Maria (1958), sia in Sud e magia (1959), il problema è misurare di volta in volta l'espansione reale della cultura di vertice, e con essa «i limiti e le contraddizioni di tale espansione». È appunto l'analisi dei limiti della cultura egemone a indurre de Martino (1962) a considerare il «primitivo» come segno di una contraddizione e non più come un semplice complesso di resistenze da vincere. Eppure, anche questi limiti che l'appassionata perlustrazione del Sud cucirà, durante gli anni cinquanta, alla tela del marxismo e alla contraddizione tra democrazia liberalborghese e democrazia socialista, non cessavano di apparirgli come espressione di una prassi di dominio che si sarebbe potuta rimuovere solo a condizione che rimanesse vivo e operante il valore della civiltà centro. Ciò rivela anche il suo tipo di approccio allo schema dicotomico noi/gli altri. In quel libro, fatto di notazioni inconcluse e pubblicato postumo da Clara Gallini nel 1977 che è La fine del mondo, le percepibilissime istanze dicotomiche si compongono in una discussione di tipo nuovo che, in genere, è riconosciuta sotto il nome di «etnocentrismo critico». È vero che quando cede alle lusinghe delle metafore militari, de Martino continua a parlare dell'Europa come di una fortezza: «È in questa fortezza che dobbiamo scegliere il nostro posto di combattimento». Lo consiglierebbero dei motivi capitali: «Se per Europa si intende non già una designazione geografica, ma un orientamento della vita culturale, ciò che di impegnativo e di decisivo è oggi nel mondo si chiama Europa. Europa è la cultura americana, europeo è il marxismo che ha alimentato la rivoluzione russa e quella cinese, europeo è il Cristianesimo, europea è la scienza che ha condotto all'era atomica ». 15 Tuttavia, l'operazione di caricare tutto il positivo sull'Europa, se per un verso adombra uno schema di integrazione di stampo borghese anche nei confronti di quella «volontà di storia» e di riscatto che anima gli stessi contadini del Sud, per un altro verso si annienta nel rischio antropologico 15 Op. cit., p. 282.
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della «fine del mondo» che de Martino considera ormai permanente. Il che, facendo assumere alla « crisi della presenza » lo spessore evidente di una struttura psichica perenne, ha un effetto dirompente e curioso su tutto il quadro. Disincagliando la problematizzazione di certi momenti topici (nascita, malattia, matrimonio, morte) da qualunque circostanza storica definita, l'etnologo è divenuto, in certo senso, più filosofo; egli ha infatti allargato la « crisi della presenza » quale genesi di cultura, non solo alle società pervase da miseria culturale e psicologica, ma a tutte le società, a tutte le imprese umane, che sarebbero quindi permanentemente esposte al crollo e alla necessità del riscatto. È in questo orizzonte ormai antologico che de Martino torna a considerare la cultura umana come «un esorcismo solenne [. .. ] quale che sia, per così dire, la tecnica esorcistica adottata ». 16 Senonché, neppure questa premessa di ordine antologico circa il modo di considerare la cultura lo porta a domandarsi se allora non tocchi specialmente a noi il compito di relativizzare il nostro « noi» buttandolo in mezzo al mucchio umano. Pare lecito chiedersi se de Martino non abbia inteso sino in fondo se stesso continuando a credere che la capacità di sintonizzarci col «lato chiaro», che «noi occidentali od occidentalizzati » avremmo in esclusiva, non sia, come invece dovremmo indurre dall'ipotesi della cultura come solenne esorcismo, soltanto esorcistica. Perché una cosa è indubbia: il senso dell'etnologia, che Grottanelli dislocava tutto dalla parte dell'oggetto, de Martino venne concentrandolo esclusivamente dalla parte del soggetto, in una autoproblematizzazione forse eroica della civiltà che ha inventato l'etnologia ma che dovrebbe programmaticamente arrestarsi all'indipendenza del soggetto, cioè al suo «noi» d' appartenenza, lasciando che l'oggetto, un de re al limite della civiltà occidentale, sussista in una contiguità refrattaria a ogni confronto sull'individuazione delle unità di misura. Comunque possa essere interpretato il suo etnocentrismo critico, è indubbio che sia stato de Martino a popolarizzare presso il grande pubblico italiano l'idea di una ricerca etnologica ricca di implicazioni su molti altri piani. Cogliendo le istanze comparativistiche di un Pettazzoni e unificandole alla tradizione folclorica di un Cocchiara non meno che alle istanze marxiane di Antonio Gramsci, de Martino ha indirizzato la valorizzazione degli elementi della cultura meridionale italiana entro una prospettiva aperta a forti esigenze civili e politiche. Le sue inchieste concrete produssero infatti quell'amalgama di storicismo e marxismo che fu il magnete di molti discorsi anche provocatori da parte di coloro che, negli anni cinquanta e sessanta, avrebbero rivendicato il diritto di chiamarsi antropologi. 4) La «Cultura! Anthropology»
Prima di offrire qualche cenno sulla versione italiana della cosiddetta Cultura! Anthropology, che era il muro di rimbalzo che invece de Martino (come anche Lan16
Op. cit., p. 219.
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ternari) esponeva negativamente al confronto con l'etnologia, occorre dire di quella linea, sicuramente minore nell'ambito antropologico ma pur sempre significativa della cultura italiana, che giustamente Pier Giorgio Solinas fa risalire alla presenza di Karoly Kerény in Italia. La popolarità di Kerény è legata, oltre che al nome di Cesare Pavese, a quello di Brelich e di Furio Jesi. In modi diversi e durante un arco temporale che va dalla fine degli anni cinquanta a tutti gli anni settanta, questi due studiosi hanno alimentato il filone irrazionalista che sottolinea quell'eterogeneità e discontinuità tra esperienza sacrale ed esperienza logico-razionale in virtù delle quali il mito si rende fonte inattaccabile di un'esperienza primaria che origina, motiva o giustifica una cosa riportandola al suo fondamento. A tale radicale richiesta di scegliere il mito contro il logos, che rifletteva l'incapacità di concettualizzare una fenomenologia p luri dimensionale dell'esperienza, venne tuttavia opponendosi Vittorio Lanternari (n. 1918). Studioso di antropologia religiosa, Lanternari non credette mai che il sacro venisse spiegato se non col profano e il rituale con l'extrarituale. Anzi, al «profano» della tecnica e dell'economia egli affidava il compito di esprimere problemi e bisogni materiali al di fuori dei quali non è intelligibile la stessa produzione simbolizzante dell'essere sociale. Per Lanternari, il mito non può essere considerato né come un mucchio di macerie divenute inservibili dopo la costruzione dell'edificio razionale né come un evento inattaccabile e superiore a qualunque altro principio di ricerca. Per evitare questo duplice errore, tanto i suoi studi comparativi sulle feste di capodanno che le sue indagini sui movimenti di rinovamento religioso adottarono una teoria materialistica dove «lavoro » e «mito » erano fatti cooperare alla pari nella convertibilità semantica dello spirituale al fisico e viceversa, senza alcun cedimento alla teoria del «riflesso» di derivazione sovietica che spingeva invece a interpretare il simbolo religioso come proiezione inerte delle contraddizioni sociali. Alla metà degli anni settanta, quando Lanternari rinnova l'attacco alla Cultura! Anthropology, il panorama italiano presenta orientamenti già notevolmente radicati e che ormai si protendono ben oltre la controversia sul nome più adatto all'oggetto di studio della disciplina: Etnologia, come voleva Grottanelli, oppure Antropologia culturale o sociale, come volevano molti altri, a partire da Tentori. Sull'onda di de Martino, la ricezione della Cultura! Anthropology appariva a Lanternari come la dimostrazione che la nostra cultura cercava «un'incerta via di rinnovamento» non trovando invece, nonostante qualche elemento di positività, che delle spinte all'ibridismo culturale, alla cui accentuazione contribuiva ciò che poteva tranquillamente essere definito come «un'acritica accettazione dei canoni e principi dell' antropologia strutturale di Lévi-Strauss » (Lanternari, 1974). Però, mentre de Martino denunciava la Cultura! Anthropology come un paradigma alternativo all'etnologia storicistica, Lanternari mostrava un atteggiamento, alla fine, meno rigido. Pur dichiarandosi nemico della culturologia a causa del circolo vizioso per cui la cultura, astratta dalla base storica sociale e umana, dovrebbe incredibilmente spiegarsi mediante se 300
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stessa, e d'altronde non nascondendosi certo che l'etnologia vantava il pregio di provenire « da indirizzi ed esigenze di carattere storico ben determinato » mentre l'antropologia «da un indirizzo contemporaneistico e da esigenze funzionai-strutturaliste», egli riconosceva che la diversità sussistente era «più di accento che di sostanza». E, in effetti, gli estensori, nel 1958, degli Appunti per un memorandum sull'antropologia culturale - Tentori, Signorelli, Seppilli - non avevano certo negato ch'essa derivasse dall'etnologia. Avevano però aggiunto che occorreva intendere quest'opera di derivazione come lo svincolamento dai e, al tempo stesso, l'allargamento dei compiti previsti dall'etnologia. A dimostrazione, avevano subito fatto propria, mutuandola da de Martino, l'accusa che la Cultura! Anthropology fosse intrisa di «naturalismo » e, in tale luce, non avevano mancato di precisare che il loro scopo era esattamente una revisione storicistica dell'antropologia culturale. Stando allo scritto del '62 di de Martino, Promesse e minacce dell'etnologia, 17 sembrerebbe che la pretesa della nascente antropologia culturale italiana di «collocare la cultura occidentale "fra" tutte le altre» dovesse rendere molto difficile non solo ogni continuità con l'etnologia storicistica ma qualunque possibilità di accordo su ciò che era augurabile e temibile per la cultura tout court. D'altra parte, lo stesso Lanternari che scrive nel 19_z4, avendo dunque alle spalle evidenze più significative dei nuovi orientamenti, non si limitava a denunciare coloro che applicavano la falsa etiéhetta di antropologia culturale a qualsiasi oggetto «solo per darsi ambiziosamente una patente di "innovatori" ». Riconosceva che un certo corso di idee aveva preso piede a causa delle arretratezze e degli equivoci oggettivi della nostra cultura (come certe insufficienze sia di quella disciplina tradizionale e accademica che andava e va sotto il nome di « Storia delle tradizioni popolari » sia della sociologia, di cui era visibile il tentativo di canalizzare certi interessi contemporaneistici verso un filone antropologizzante). Da un altro punto di vista, e ormai a più di vent'anni dalle osservazioni di Lanternari, bisogna tuttavia convenire che il venir meno del paradigma etnologico e l'assenza di un paradigma ·antropologico compiuto, con quel tanto di varietà ed eterogeneità, di ampiezza e salutari incertezze d'impianto, erano state le componenti di un'anarchia solo apparente della nascente antropologia culturale. In realtà, il disfarsi delle vecchie coerenze corrispondeva al formarsene di nuove che rivendicavano la propria legittimità scientifica da ricerche antropologico-culturali il cui obiettivo non era fornito dalle società altre, ma soprattutto da quelle complesse come la nostra. Rifacendosi a una distinzione di Alfred Weber, gli autori degli Appunti per un memorandum asserivano che la « cultura » racchiude i valori teorici e interpretativi, cioè l'insieme dialettico «dei patrimoni psichici esperienziali individuali, costituitisi nel quadro di una società storicamente determinata», mentre la «civiltà» definisce un altro aspetto, quello concreto, pratico e istituzionale che le varie società 17
In Furore Simbolo Valore, 1962.
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esprimono nel tempo in rapporto alle situazioni locali. Ecco perché la distinzione tra cultura e civiltà li induceva a risalire alla distinzione/opposizione tra antropologia ed etnologia, lasciando a quest'ultima tutto il terreno di ricerca sulla totalità del sistema socio-economico e culturale e riservando all'antropologia culturale la focalizzazione dei soli fenomeni culturali. Anni dopo, ricordando il clima di quel periodo, Tentori rivendicherà il nesso tra l'importanza allora assegnata alle indagini degli antropologi statunitensi «sui caratteri nazionali occidentali, sui valori e pregiudizi sociali, sui processi acculturativi degli emigranti, sulla formazione della personalità di base, sul rapporto personalità, cultura, società» e il desiderio dei ricercatori italiani «di conoscere il paese autentico» dopo gli anni della retorica fascista e quelli dolorosi della seconda guerra mondiale. In realtà, queste osservazioni riflettono anche la biografia intellettuale di Tentori, che conobbe di persona Kroeber e Kluckhohn, Linton e Herskovits e soprattutto Robert Redfield, che applicava il metodo della ricerca antropologica ai problemi dei contadini. Da tali contatti, che gli avevano reso evidente quanto fosse ormai progredito quell'allargamento degli studi antropologici americani dai cosiddetti «primitivi» alle società complesse, Tentori derivò la spinta a tematizzare le esigenze di una società in pieno fermento come l'Italia del dopoguerra in termini di personalità, socializzazione e acculturazione. 18 Un'analisi anch'essa centrata, pur con occhi diversi, sul «funzionamento umano di un sistema sociale» fu quella attuata da Carlo Tullio-Altan durante tutti gli anni sessanta e settanta; successivamente, il taglio delle sue indagini critico-funzionali assumerà valenze ora teoriche, come in Soggetto, simbolo e valore, ora storiche, come in Populismo e trasformismo. Saggio sulle ideologie politiche, ora più decisamente etnopolitiche, come Ethnos e civiltà. Identità etniche e valori democratici. Addentrandosi nel rapporto funzione/ struttura, Tullio-Alt an distingue tre livelli d'analisi: quello del decondizionamento biologico, del condizionamento/ricondizionamento culturale e, infine, del controllo della capacità reale della struttura ad assolvere ai propri compiti. A ognuno di questi livelli possono prodursi fenomeni di disfunzione, che risalgono a casi sia di ipofunzionamento sia di iperfunzionamento, come accade per società il cui sistema produttivo, producendo beni in eccesso, inverte la sua funzione originaria onde suscitare nel gruppo quei bisogni «artificiali» che gli permettano di funzionare. Per non abbandonare all'inintelligibile disfunzioni di questo genere (o del genere contrario) Tullio-Altan, riprendendo la lezione di Durkheim e quella più recente di Coleman, distingue allora tra problemi di mero funzionamento e problemi di più profonda funzionalità. Tale distinzione, che è solo metodologica, serve però a chiarire che un'organizzazione sociale può sì funzionare, ma qualche volta impedendo che i suoi membri facciano fronte ai nuovi problemi. Per questo, non avendo essa una « plasticità indefinita», e cioè tale da consentire ogni tipo di r8 Di Tullio Tentori si veda il saggio Per una storia degli studi antropologici, dapprima pubblicato in Appunti per la storia dell'antropologia culturale,
Roma 1980; poi ripubblicato in AA. vv., L'antropologia oggi, Introduzione di Tullio Tentori, Roma !982, p. 67.
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ristrutturazione, può accadere che i problemi di funzionalità storica del sistema sociale prendano a un certo punto il sopravvento. A tale prospettiva critico-funzionale, Tullio-Altan riconduceva poi l'analisi del social e cultura! la g. In altri termini, sarebbe una sfasatura socio-culturale ciò che, dall'interno, blocca il sistema nel suo fluido funzionamento. Il che ci dà «la misura della funzione dei sistemi simbolici e delle strutture che ne sono il supporto sociale», e anche, su un piano diverso, l'indice di sistemi simbolici sacralizzati che finiscono «col farsi fini in se stessi» (Tullio-Altan, 1971). 5) I: orientamento dell'an tropo lo gz'a culturale verso le scienze sociali
Proprio l'opera di Tullio-Altan - come del resto quella di Tentori, Seppilli e Signorelli - è indicativa, oltre che dell'autonomia dell'antropologia culturale, di quella spinta che, dagli anni sessanta in poi, orientò la disciplina verso le scienze sociali che più sembravano utili allo studio delle società complesse: la sociologia, naturalmente, ma anche la psicologia sociale e, nel caso di Tullio-Altan, la storia contemporanea. Come è stato rilevato, questi orientamenti diversi produssero abbozzi di nuclei paradigmatici piuttosto riconoscibili, anche se non sempre tali da preservare la ricerca antropologico-culturale dal pericolo dell'indeterminatezza. Da questo punto di vista, certe osservazioni critiche di Lanternari appaiono difficilmente sottovalutabili. In quel giro d'anni, si definisce però un altro paradigma, quello meridionalistico, che non era stato cancellato dalla morte di de Martino perché non dipendeva soltanto da una determinata valutazione dell'etnos, ma dalla capacità di mettere in causa la questione meridionale. I lavori meridionalistici di Luigi M. Lombardi Satriani sono, da questo punto di vista, esemplari: essi provano la tesi di de Martino secondo cui la distanza tra scienza delle tradizioni popolari o folclore e scienza delle civiltà cosiddette primitive è ormai svalutata; ma chiariscono anche come un paradigma riesca talora a non estinguersi nonostante venga invertita la vettorialità teorica da cui era sorto. Infatti, Lombardi Satriani faceva propria la credenza, di sicuro non demartiniana, che l'indice di autogoverno della cultura oppressa sia dato dalla mera capacità di contestare il comportamento culturalmente egemone (1968). Questo ci conferma nell'idea che rifacendosi ai padri fondatori (e de Martino è certamente fra questi) una parte dell'antropologia italiana abbia realmente alimentato il rischio autarchico di cui parlava nel 1978 Francesco Remotti, 19 un rischio fatto di mancate verifiche a più largo raggio e di mancate autocritiche. Oltre che per de Martino, analogo discorso vale, e anzi ancora di più, nei confronti di Antonio Gramsci, una forte presenza nell'etna-antropologia italiana del dopoguerra. Se si fa eccezione per Cirese e pochissimi altri, le famose Osservazioni sul folclore di Gramsci sono state ossessivamente citate per lunghi decenni allo scopo di attuare 19 Si fa qui riferimento all'articolo Tendenze autarchiche nell'antropologia culturale italiana, inizialmente pubblicato in «Rassegna Italiana di
Sociologia >>, 2, XIX, 1978; ora in Antenati e antagonisti, 1986, pp. 277-332.
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una rifondazione marxista dell'antropologia culturale, peraltro mai avvenuta, nonostante l'intenso interesse per il marxismo nel campo degli studi demologici dagli anni sessanta fino alla fine degli anni settanta. Era forse assurda l'aspirazione, definita « coscienziologica » da Remotti, a un'antropologia che del marxismo mostrava di voler cavalcare con eguale spensieratezza l'apodittica degli scopi e l'incertezza dei mezzi. Un discorso a parte merita tuttavia Alberto Mario Cirese (n. 1922), senza alcun dubbio il più notevole e raffinato tra gli assertori della utilizzabilità di Gramsci e del marxismo e, al tempo stesso, protagonista quasi solitario, del riflesso strutturalista nelle scienze umane in Italia. Cirese legge i passi di Gramsci sul folclore traendone la convinzione che una «presenza storica» - subalterna quanto a concezione e pratica del mondo - resti concezione del mondo e cultura, così come, per converso, il fatto che il folclore « sia concezione del mondo e cultura non toglie che sia subalterno e che costituisca un dislivello ». 2° Con questa nozione di «dislivello», Cirese attraeva in campo demologico la distinzione gramsciana di « cultura egemonica » e « culture subalterne », ma lo faceva evitando che il discorso formale sulla posizione della cultura delle classi subalterne rispetto alla cultura egemone si tramutasse, come per esempio in Gianni Bosio o anche in Lombardi Satriani, nella sopravvalutazione del valore della cultura proletaria e popolare come altra e antagonista. Se il quadro di riferimento era dunque gramsciano, l'impianto logico-conoscitivo delle indagini di Cirese evidenziava invece l'assorbimento delle istanze fondamentali del funzionalismo praghese e dello strutturalismo francese in modo, secondo alcuni critici, addirittura sovrastante (Clemente, 1979). Le indagini su proverbi, giochi, sistemi terminologici di parentela, tecniche di composizione metrica, ecc. mostrano all'opera un'idea di conoscenza antropologica in cui la definitezza e la coesione empirica dei «dati» è affidata al dettaglio di opposizioni formali « soggiacenti », di cui quei «dati» siano l'esempio. Senonché questa tendenziale orizzontalità dell'analisi, necessaria affinché i dislivelli di cultura contrassegnino un raccordo significativo tra fatti culturali e classi sociali, è stata in parte contestata perché esporrebbe il «subalterno» al rischio di fissarsi come un coacervo «periferico», immodificabile ed estraneo alla dinamica delle concezioni del mondo. In realtà, la prevedibilità razionale delle combinazioni realizzabili serviva a Cirese non già a sottacere, ma a mettere in primissimo piano, il valore di quelle «comparazioni» che, rendendo significativi i dislivelli, rendono significativa l'interezza della storia che gli uomini fanno, «sapendo e anche senza sa perlo». Da questo punto di vista, le sue ricerche, come in diversa misura quelle semiotiche di Antonino Buttitta ed etnomusicologiche di Diego Carpitella, raccolgono la medesima spinta dell'etnologia a 20 Si fa qui riferimento al saggio Oggetti, segni, musei, 1977; ma naturalmente, il testo fondamentale di Cirese per la lettura delle Osserva·J;ioni sul folclore di Gramsci resta il famoso
saggio del 1967 Concezioni del mondo, filosofia spontanea e istinto di classe nelle «Osservazioni sul folclore» di Antonio Gramsci.
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evidenziare i nessi nascosti della condizione umana che anche altri studiosi, resi ostili a ricerche antropologiche troppo simili alla sociologia, all'economia o alla psicologia sociale, non avevano mai cessato di considerare essenziale. La discussione, svoltasi in Italia dalla metà degli anni settanta fino a questo momento, ha continuato a segnalare come una distorsione il fatto che molti antropologi culturali abbiano ristretto il proprio oggetto alla dimensione essenzialmente psicologica delle credenze, dei valori e degli atteggiamenti derivati. Da Lanternari a Bernardi fino a Remotti è stata variamente argomentata l'idea che l'antropologia culturale non sia in grado di perseguire i propri compiti, se non utilizzando al massimo grado il taglio comparativistico dell'etnologia. Altrimenti, una logica priva di quegli scarti differenziali, che d'altronde possono solo nascere dall'osservazione delle società altre, una logica che fosse indotta a non raccogliere stimoli e dati empirici nuovi oppure a naturalizzare quelli indigeni, impoverirebbe la stessa disciplina, e il risultato, come temeva Lévi-Strauss, sarebbe una volontaria cecità verso i meccanismi ai quali ogni « noi» deve ricorrere « al fine di garantirsi per un verso l'alimentazione dell'alterità e per l'altro il mantenimento dell'identità» (Remotti 1993). Che tutto questo porti a escludere che il «noi» occidentale od occidentalizzante offra le condizioni necessarie e sufficienti per attuare un discorso generale e conclusivo sull'uomo è oggi abbastanza scontato, almeno da un punto di vista logico. Non ancora del tutto sicuro è invece quel riorientamento nel modo di percepire lo scopo e i doveri dell'antropologia che tutte le discussioni attuali sull'impossibilità di accreditarsi una rete stabile di significati non mancano tuttavia di evidenziare (Dei e Clemente, 1993). Forse il vero ostacolo è quello di ammettere che l'antropologia, diversamente da quanto credeva de Martino, non possa essere opera esclusiva del nostro «noi» occidentale od occidentalizzante. Se invece fossimo capaci di far cadere l'idea rassicurante di «noi» come i soli che posseggono un sapere antropologico, è evidente che arriveremmo dawero vicini a considerare anche i nostri concetti come «concetti indigeni» e quindi a guardarci attraverso «lenti che lo studio degli altri contribuisce a costruire e a modificare continuamente» (Remotti, 1986).
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CAPITOLO
OTTAVO
Orientamenti della psicologia contemporanea DI
I
·
DALLE
GRANDI
LUCIANO MECACCI
SCUOLE
ALLE
PROSPETTIVE
DI
RICERCA
Fino agli anni settanta la storia della psicologia è stata delineata come un processo relativamente lineare, caratterizzato da due fasi principali. Nella prima fase, compresa tra il 1850 e i primi anni del 1900, la psicologia si rese autonoma dalla filosofia adottando il metodo sperimentale e costituendosi in area disciplinare distinta con propri istituti di insegnamento e ricerca. Fu il periodo dei padri fondatori che si ispiravano al modello delle scienze naturali: Th.G. Fechner, H.L. von Helmholtz e W. Wundt. Nella seconda fase, pressoché coincidente con tutto il primo Novecento, si formarono le «grandi scuole»: lo strutturalismo, il funzionalismo, la teoria della forma (Gestalttheorie), il comportamentismo e la psicoanalisi. Queste scuole si differenziavano nettamente in base ai principi teorici e alle metodologie di indagine, al punto che i risultati di una scuola erano interpretabili solo all'interno del relativo sistema di assunzioni ed erano inconciliabili con le affermazioni delle altre scuole. Questa coesistenza di scuole diverse fu presto riconosciuta come un aspetto fondamentale che impediva di qualificare la psicologia come una scienza perfettamente assimilabile alle scienze fisiche e naturali prese a modello. In tali scienze la comunità dei ricercatori condivideva alcune assunzioni fondamentali e il dibattito interno riguardava gli sviluppi concettuali (e le relative verifiche empiriche) che discendevano da queste premesse di fondo. In psicologia, invece, la discussione toccava proprio il livello delle assunzioni di base, diverse per lo strutturalista rispetto al funzionalista, per il comportamentista rispetto al gestaltista o allo psicoanalista. Tra gli anni venti e trenta furono pubblicate varie opere che denunciavano la «crisi della psicologia»: la.« nuova» scienza era fallita nel tentativo di costruire un sistema unitario di assunti teorici, verificabili empiricamente, e si era frantumata in orientamenti e scuole differenti. Alla fine dell'Ottocento, ricordava Karl Biihler (18791963) in Die Krise der Psychologie (La crisi della psicologia) del 1927, era stato formulato un «programma comune» di psicologia scientifica basato sul metodo sperimentale e si era diffusa una «comune speranza» di sviluppare un'autentica scienza unitaria. Pochi decenni dopo, la delusione: «Idee al plurale. Così è infatti al presente: una dovizia di nuove idee rapidamente acquisite e non ancora completamente 306
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dominate, di nuovi approcci e di nuove possibilità di ricerca, ha provocato lo stato di crisi della psicologia. Se non è tutto un inganno, si tratta non di una crisi di decadenza, bensì d'una crisi di crescenza, di un embarrass de richesse, come quello che di solito accompagna l'inizio d'una vasta opera comunitaria. » 1 Era venuta meno la possibilità di una impostazione unitaria nella ricerca psicologica perché, come precisava Eduard Spranger (1882-1963) nel suo saggio del 1926, Die Frage nach der Einheit der Psychologie (Il problema dell'unità della psicologia), si contrapponevano continuamente tesi inconciliabili sulla natura della disciplina: da una parte la psicologia doveva essere descrittiva-sperimentale, induttiva e nomotetica (indagine oggettivo-statistica dei processi psichici), dall'altra doveva essere «comprensiva», intuitiva e idiografica (indagine partecipe della specificità psichica individuale); da una parte si dovevano studiare gli elementi che compongono i processi psichici, dall'altra la loro organizzazione strutturale indipendente dagli elementi; da una parte si proponeva una psicologia (per esempio, la teoria della forma) che esclude dalla propria ricerca il «senso» che i processi psichici assumono per l'individuo, trattandoli come oggetti naturali, privi di soggettività, e dall'altra un'indagine· (per esempio, quella psicoanalitica) in cui tale «senso» soggettivo è il tema dominante. In sostanza, la contrapposizione era ancora tra una psicologia intesa come «scienza della natura» e una psicologia intesa come «scienza dello spirito», con tutte le conseguenze teoriche e metodologiche che ne derivavano. I tentativi di integrazione tra i vari indirizzi furono pressoché inesistenti e ogni scuola, nonostante le denunce della «crisi della psicologia» (su cui intervennero pure H.A.E. Driesch, K. Koffka e L.S. Vygotskij), si arroccò sulle proprie posizioni, ignorando di fatto gli sviluppi teorici e le acquisizioni empiriche delle altre scuole. L'unica forma di conciliazione fu quella dei manuali, che incominciarono a trattare i singoli argomenti nella prospettiva della scuola che li aveva privilegiati come proprio oggetto d'indagine: la percezione secondo la teoria della forma, l'apprendimento secondo il comportamentismo, lo sviluppo psicodinamico secondo la psicoanalisi. Ogni scuola di psicologia ebbe comunque la pretesa di presentare la propria impostazione come la vera e unica per lo studio dei processi psichici. Allorché negli anni sessanta si diffuse anche in psicologia il concetto di paradigma, introdotto da Kuhn nel suo libro del 1962 The structure o/ scienti/ic revolutions (La struttura delle rivoluzioni scientifiche), la questione della «superiorità» di una scuola sulle altre fu posta nei termini della svolta paradigmatica che essa avrebbe attuato. Il caso più tipico fu quello del comportamentismo e del passaggio al cognitivismo. Molti psicologi nordamericani avevano affermato che il comportamentismo era la psicologia, perché esso era fondato su un sistema di assunzioni teoriche definite e su una metodologia specifica per la loro verifica empirica. Questo orientamento teorico-meta-
1
Biihler,
1927,
trad. it., p.
21.
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dologico aveva rappresentato una svolta rivoluzionaria rispetto alle scuole passate e contemporanee, caratterizzate invece da vaghezza operazionale dei principi teorici e da scarso rigore metodologico-sperimentale. Il comportamentismo fu quindi considerato il paradigma della psicologia contemporanea, con il quale si dovevano confrontare gli altri orientamenti. Allorché, nella seconda metà degli anni sessanta, si affermò il cognitivismo (indirizzo che sarà trattato estesamente più avanti), si sostenne ben presto che un nuovo paradigma, quello cognitivistico, aveva sostituito il superato paradigma comportamentistico. Alla «rivoluzione comportamentista», avviata nel 1913 da J.B. Watson (1878-1958), era seguita cinquant'anni dopo la «rivoluzione cognitivista». È stato rilevato che questa lettura della psicologia novecentesca nei termini del paradigma kuhniano era inadeguata per una serie di motivi: 1) gli psicologi hanno incominciato a adottare l'idea di paradigma quando ormai tra i filosofi e gli storici della scienza era stata già sottoposta a critiche e revisioni la stessa concezione kuhniana, considerata troppo schematica per spiegare la complessità dell'evoluzione storica di una scienza; 2) anche restando nell'ottica kuhniana, il concetto di paradigma non era applicabile alla psicologia perché esso comportava che la comunità degli psicologi condividesse in un certo momento storico un insieme di assunti teorici di base, mentre al contrario tale comunità era sempre stata divisa al suo interno, come si è notato, dall'adozione di princìpi inconciliabili; 3) era impensabile che in una disciplina potessero succedersi ben due paradigmi nel giro di cinquant'anni, quando invece le rivoluzioni scientifiche, caratterizzate appunto dalla dissoluzione di un paradigma e dall'adozione di un altro, coprivano archi temporali lunghissimi (esemplare in tal senso la «rivoluzione copernicana»); 4) infine, la ricerca storica dimostrava sempre di più che il cognitivismo costituiva senza dubbio un notevole sviluppo teorico e metodologico rispetto al comportamentismo, ma anche che esso era maturato all'interno di questo indirizzo senza abbandonarne alcuni presupposti fondamentali. Una più adeguata proposta di rappresentazione della psicologia del Novecento è quella che risulta dall'applicazione del concetto di «programma di ricerca» di Lakatos o quello di «tradizione di ricerca» di Laudan. La storia di una disciplina scientifica può allora essere ricostruita in modo più articolato e variegato, come un insieme dinamico di orientamenti teorici e metodologici che coesistono e interagiscono, senza introdurre rigide fratture cronologiche tra un paradigma e un altro. La psicologia non è quindi caratterizzata dall'assunzione di un paradigma unitario, ma si configura come una varietà di progetti e prospettive di ricerca che si intersecano e si intrecciano. Secondo Laudan (1977) all'interno di ogni tradizione (o prospettiva) si possono generare teorie specifiche, tutte però caratterizzate da comuni «impegni» teorici e metodologici che contraddistinguono una tradizione dall'altra. In una tradizione è possibile individuare una sorta di sviluppo progressivo, che non corrisponde però a un progresso globale di tutta la disciplina. Così, se nella tradi308
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zione del comportamentismo si sono affermate teorie diverse che hanno segnato momenti successivi di rielaborazione concettuale e verifica empirica, questo percorso va considerato un processo interno a tale tradizione, le cui conseguenze sullo sviluppo di altre tradizioni (per esempio, la psicoanalisi) possono essere state quasi nulle (Mecacci, 1992). L'utopia di una scienza psicologica unitaria si è quindi dissolta, tra gli anni sessanta e settanta, allorché, verificata l'impossibilità di integrare le grandi scuole della prima metà del secolo, si è riconosciuta la coesistenza di fatto di prospettive di ricerca difficilmente conciliabili. Lo scenario della psicologia contemporanea è dunque caratterizzato da orientamenti teorici e metodologici diversi, da aree di indagine circoscritte e raramente sovrapponibili, da sottocomunità scientifiche dotate di proprie associazioni e specifici organi di pubblicazione e diffusione. La consapevolezza di questa articolazione della psicologia alle soglie del XXI secolo non è più vissuta in modo drammatico come «crisi della psicologia». Anzi, si accetta la varietà delle teorie e dei metodi come una caratteristica fondante della ricerca psicologica. I principali orientamenti della psicologia contemporanea, che si riallacciano alle più importanti tradizioni sviluppatesi nella prima metà del Novecento, sono la psicoanalisi, il comportamentismo, il cognitivismo, la teoria storico-culturale e l'approccio neuroscientifico. Alcuni settori di ricerca, come la teoria della personalità e la psicologia sociale, costituiscono un esempio importante di coesistenza-convergenza di orientamenti teorici diversi. II
·
LO
SVILUPPO
DELLA
PSICOANALISI
Il tratto più rilevante della psicoanalisi, dagli anni sessanta in poi, è probabilmente rappresentato dai tentativi di raccordo e integrazione con altre correnti della psicologia. Sia per l'ambito di indagine, più patologico che normale, sia per l'originale connotazione teorica e metodologica (tanto da essere spesso considerata una visione del mondo e persino una nuova metafisica dell'anima piuttosto che un approccio scientifico allo studio della psiche umana) la psicoanalisi è stata la tradizione più isolata rispetto agli altri orientamenti psicologici. A questo distacco hanno contribuito sia l'atteggiamento talvolta « settario » degli psicoanalisti ortodossi sia l'ostilità del mondo universitario in cui erano dominanti altre scuole (in particolare, il comportamentismo nelle università nordamericane). Il primo importante confronto tra la psicoanalisi e la psicologia contemporanea fu tracciato da D. Rapaport (1911-60) nel saggio The structure o/ psychoanalytic theory (1960). Rapaport inquadrò anzitutto in un'ottica diversa il problema della scientificità della psicoanalisi, che era stato affrontato in un libro, ormai classico, del 1959, Psychoanalysis, scienti/ic method and philosophy, curato da S. Hook e nato in margine a un convegno cui avevano partecipato autorevoli psicoanalisti e filosofi della scienza. Più che da una verifica empirica dei principi della psicoanalisi otte-
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nuta con il metodo sperimentale (come avevano fatto alcuni sperimentalisti negli anni cinquanta, per esempio nelle ricerche sulla «difesa percettiva » a stimoli emozionali), Rapaport riteneva che il carattere scientifico della psicoanalisi dovesse derivare dalla coerenza interna delle assunzioni teoriche. La psicoanalisi poteva essere considerata un sistema autosufficiente in cui la validità degli assunti teorici era ricercata non tanto in concetti e metodi esterni, ma nella propria struttura teorica e nelle proprie pratiche terapeutiche. Dalla revisione teorica di Rapaport emerse chiaramente che i presupposti fondamentali della psicoanalisi freudiana risiedevano in una concezione energetica ed economica della psiche che era riconducibile alla filosofia della natura ottocentesca o perlomeno ai tentativi di riduzionismo neurologico adottati anche dal primo Freud. I concetti introdotti dalla «psicologia dell'Io» (elaborata da H. Hartmann, E. Kris e R.M. Loewenstein)2 e ripresi da Rapaport sganciarono la psicoanalisi dall'angusta gabbia dell'impostazione energetico-economica, resero autonomo l'Io dai vincoli biologici dell'Es e misero in luce l'importanza del processo di adattamento nell'evoluzione ontogenetica. In questa prospettiva di emancipazione della teoria psicoanalitica dall'originario quadro di riferimento biologistico, gli orientamenti « culturalisti » (K. Horney, E. Fromm, ecc.)3 svolsero un ruolo decisivo richiamando l'attenzione sui fattori socioculturali che intervengono nella strutturazione della personalità. L'espressione più importante del superamento del modello biologico a favore della centralità del contesto sociale e culturale va rintracciata sicuramente nell'opera di E.H. Erikson (1902-80). «L'uomo»- ha scritto Erikson nel suo libro più famoso, Childhood and society (1950) - «è contemporaneamente in ogni suo momento un organismo, un io e un membro della società, ed è sempre coinvolto in tutti e tre questi processi di organizzazione: il suo corpo è esposto al dolore e alla tensione, il suo io all'angoscia e, in quanto membro di una società, egli è sensibile al panico che può invadere il suo gruppo. »4 L'apertura a una visione dinamica della psiche umana calata nel quotidiano contesto storico ha contribuito a una larga diffusione della concezione eriksoniana anche tra gli psicologi che non ne hanno accettato i fondamenti psicoanalitici. Da una parte, Erikson ha mostrato come lo sviluppo della
2 La <>, sviluppatasi negli Stati Uniti nel secondo dopoguerra, ha rappresentato un'importante innovazione rispetto alla concezione fondamentale dei rapporti tra Es e lo. In Freud l'Es è la struttura fondamentale rispetto alla quale si costituisce l'lo con la funzione di controllare le spinte pulsionali che hanno origine nell'Es. Nella nuova cor· rente, l'Io non <<deriva>> dall'Es, ma si sviluppa indipendentemente fin dalla nascita come sistema di adattamento alla realtà esterna; non entra necessariamente in conflitto con l'Es in quanto ha una sua autonoma sfera di azione (si veda Hartman, 1939, 1964).
3 Le correnti psicoanalitiche << culturalistiche >> o << sociali >> hanno ridimensionato la connotazione biologistica della concezione freudiana prendendo in considerazione le variabili sociali e culturali che mediano il rapporto tra l'individuo e l'ambiente fin dalla nascita. Le opere della Horney e di Fromm hanno avuto una larga diffusione anche tra un pubblico più vasto per il rilievo dato ai nuovi problemi psicologici posti dalla società industriale del dopoguerra (si veda Caprara e Gennaro, 1994). 4 Erikson, 1950, trad. it., p. ro6.
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personalità si incanali in percorsi marcati culturalmente in modo tale che l'individuo si adatti progressivamente al proprio specifico ambiente sociale; dall'altra, ha messo in evidenza come questo sviluppo non investa solo una prima parte della vita - dalla nascita alla pubertà, come sostiene la psicoanalisi classica - ma copra l'intero arco della vita. In questo processo continuo, in cui deve superare momenti (crisi) di rottura con il passato e di riprogettazione del presente e del futuro, l'individuo realizza una «identità» personale al di là dei mutamenti necessari che intervengono dalla nascita alla vecchiaia. Il ruolo primario assegnato da Freud alle pulsioni per spiegare lo sviluppo della personalità è stato ridimensionato non solo dalle correnti che hanno posto l'accento più sui fattori sociali e culturali che su quelli biologici, ma anche da altri orientamenti che hanno focalizzato le loro ricerche sulla struttura interna della psiche. Le principali innovazioni teoriche riguardano la temati ca delle « relazioni oggettuali » e il concetto di Sé. La nozione di «oggetto interno» indica un fantasma o un'esperienza inconscia che riflettono persone ed eventi della prima infanzia e sono vissuti come «oggettivi» dalla psiche. La psiche è concepita come un «teatro», il luogo in cui si svolgono le interazioni o relazioni con gli oggetti interiorizzati. Questo spostamento di attenzione sulle relazioni oggettuali ha avuto riflessi sulla stessa terapia psicoanalitica, che si fonda ormai più sulle relazioni tra la psiche e gli oggetti esterni, proiettati e introiettati nel corso del primissimo sviluppo psichico, che sulla dinamica pulsionale. Secondo l'analisi svolta da Eagle (1984), si può assumere come criterio di differenziazione delle correnti psicoanalitiche negli ultimi trent'anni il grado di coesistenza in uno stesso modello della teoria delle pulsioni e della teoria delle relazioni oggettuali (Greenberg e Mitchell, 1983). In un primo indirizzo, rappresentato da M. Mahler, O. Kernberg ed E. Jacobson, viene riconosciuto il ruolo delle relazioni oggettuali, ma sono considerate ancora fondamentali le pulsioni nella loro dinamica (il loro «destino» secondo l'espressione freudiana) nel corso della vita psichica. Una posizione intermedia o « bifattoriale », come la chiama Eagle, è quella espressa nelle prime opere di H. Kohut e A. Modell; in tale impostazione, la teoria delle pulsioni e la teoria delle relazioni oggettuali hanno pari rilevanza e assumono un peso maggiore l'una rispetto all'altra a seconda dei fenomeni affrontati. In un terzo orientamento (in cui rientrano gli studi di W.R.D. Fairbairn e H. Guntrip e le opere più recenti di Kohut), la teoria delle pulsioni è completamente abbandonata, mentre la teoria delle relazioni e la psicologia del Sé divengono il cardine della psicoanalisi. Uno degli aspetti più innovativi del dibattito psicoanalitico contemporaneo è costituito proprio dal concetto di Sé, assunto come componente fondamentale della struttura psichica al di là della classica tripartizione in Es, Io e Super-Io. Il Sé è una nozione dalla lunga storia e dalle molteplici connotazioni filosofiche e psicologiche (Jervis, 1989b). Si pensi alla descrizione del Sé proposta dalla tradizione pragmatista statunitense, nella quale il Sé è stato concepito come ciò che, relativamente 3Il
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alla propria persona, è oggettivato nell' autocoscienza5 e ha un'origine interpersonale e sociale. 6 Il Sé può essere concepito come l'oggetto su cui riflette l'Io o, nei termini di Mead, come ciò che l'Io vede nel momento in cui vede se stesso attraverso lo specchio delle relazioni interpersonali e sociali. Sebbene lo sviluppo del Sé dipenda dal confronto con gli altri, il Sé rimane una dimensione intrapsichica. 7 Il Sé si alimenta e si arricchisce nel rapporto con gli altri, a cominciare dalla madre, ma se tali relazioni sono deficitarie, allora il Sé si ripiega e si rinchiude in se stesso in una posizione narcisistica. Nell'esaminare questo processo nel volume The analysis o/ the Self (1971) Kohut ha considerato le mutate condizioni sociali in cui si sviluppa la psiche del bambino rispetto al contesto in cui fu elaborata originariamente la teoria freudiana. Nella società contemporanea le relazioni interpersonali sono profondamente cambiate rispetto alle condizioni familiari e sociali dell'epoca di Freud. I genitori sono più assenti Oa madre lavora e trascorre meno tempo con il figlio) e i rapporti all'esterno della famiglia sono divenuti più freddi e distaccati. Può accadere così che lo sviluppo psichico proceda lungo un percorso tutto interiore, con possibili esiti patologici. Le teorizzazioni psicoanalitiche, prim:1 sull'autonomia dell'Io e poi su quella del Sé nella strutturazione della personalità, rientrano in un quadro concettuale più generale che, come si è già notato, ha spostato l'interesse teorico e terapeutico dalle pulsioni alle relazioni oggettuù e di conseguenza al ruolo che le altre persone hanno nello sviluppo psichico individuale come «oggetti» sia «esterni» sia «interni». Se nella impostazione freudiana le pulsioni sono la caratteristica fondamentale della vita psichica e il rapporto con gli altri è strumentale alloro soddisfacimento, nelle nuove correnti le relazioni interpersonali sono l'asse portante dello sviluppo psichico. Come ha scritto Jervis, «in Freud l'individuo era ancora concepito come un organismo primariamente isolato, alla ricerca di altri individui che permettessero l'estrinsecazione (o "scarica") delle sue energie istintuali. La condizione primaria del neonato era vista come caratterizzata da una condizione di autosufficienza narcisistica, da cui il bambino si strappa solo perché spinto da pulsioni di tipo orale; l'attaccamento amoroso nei confronti della madre diveniva quindi secondario all' "investimento" (od "occupazione", Besetzung) del seno materno da parte dell'energia libidica nella sua originaria modalità centrata sulla suzione. Il nuovo orientamento, al contrario, ha concepito il neonato come un soggetto che fin dall'inizio è intensamente legato da 5 <> tutto quello che all'uomo appartiene: dal corpo alla psiche, dal suo ambiente familiare a quello professionale e sociale. 6 La precisazione si deve a Mead, 1934 (trad. it., p. 153): «Il Sé è qualcosa che ha un suo sviluppo; non esiste alla nascita, ma viene sorgendo
nel processo d eli' esperienza e dell'attività sociale, cioè si sviluppa come risultato delle relazioni che l'individuo ha con quel processo nella sua totalità e con gli altri individui all'interno di esso>>. 7 Ha scritto Arieti nel suo The intrapsychic Se!/ (r967 ): «I sentimenti, le idee, le scelte e le azioni dell'uomo raggiungono il loro più alto sviluppo nella reciprocità sociale, ma iniziano e terminano nella intimità del Sé cosciente >> (trad. it., p. 15).
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molteplici rapporti attivi al mondo esterno (e primariamente alla madre) e il cui legame di attaccamento, anziché dipendere dalla soddisfazione libidica del succhiare, è dotato di caratteristiche proprie ». 8 In questa prospettiva, la relazione madre-bambino e la dinamica dell'attaccamento hanno assunto un ruolo specifico, «autonomo e primario» per lo sviluppo psicodinamico. Le ricerche di Bowlby (1969) sull'attaccamento hanno permesso di innestare nel modello psicoanalitico classico le acquisizioni dell'etologia sui processi di attaccamento nel mondo animale. Il concetto di «attaccamento» identifica un insieme di comportamenti che il neonato mette in atto fin dalla nascita per instaurare una relazione con la madre tale che gli assicuri la protezione dai pericoli esterni. È una funzione innata, indipendente da altre fonti comportamentali innate come la fame, la sete e il sesso. Se nel modello classico la madre assolveva in primo luogo alla soddisfazione dei bisogni primari del neonato e solo indirettamente, in base a tale funzione, acquisiva quella di figura protettrice, per la teoria dell'attaccamento la madre svolge un ruolo primario di per sé. È nel contesto della relazione madrebambino e in sintonia con il processo di attaccamento che si instaurano gli altri comportamenti di esplorazione dell'ambiente e di avvicinamento-evitamento dei coetanei e degli adulti. Le caratteristiche dell'attaccamento sono «specie-specifiche» e nel piccolo della specie umana si manifestano secondo tappe evolutive indagate a fondo da Bowlby stesso e da altri psicologi, tra cui Ainsworth. Il riferimento diretto agli studi sui comportamenti di attaccamento negli animali, in particolare nei primati, è stato successivamente ridimensionato dopo le ricerche che hanno messo in evidenza come nel rapporto madre-bambino abbiano un'importanza fondamentale la comunicazione non verbale e quella verbale, assenti nelle altre specie. Sotto l'influenza di questi nuovi modelli, si è realizzata fin dagli anni sessanta un'importante integrazione tra la prospettiva psicoanalitica e altre correnti della psicologia, dall'etologia umana alla psicologia sperimentale. Lo sviluppo dei legami affettivi e delle relazioni interpersonali è stato dunque indagato con metodi osservativi e sperimentali che hanno permesso di verificare e superare concetti psicoanalitici tradizionali (Stern, 1985; Ammaniti e Dazzi, 1990). Resta aperto per la psicoanalisi il problema di fondo se essa sia una scienza oppure una forma di narrazione o di ermeneutica delle vicende psichiche. Il dibattito sulla «psicoanalisi come scienza» non si è mai spento dall'epoca del citato lavoro di Hook (1959) che portò in primo piano la questione, e si è anzi riacceso a metà degli anni ottanta con la pubblicazione del libro The /oundation o/ psychoanalysis (1983) del filosofo della scienza A. Griinbaum. 9 Gli studiosi «esterni» alla tradizione psicoanalitica, filosofi della scienza (Popper, Nagel, Griinbaum) e psicologi non psicoanalisti (Skinner, Eysenck), hanno impostato il dibattito nei termini 8 Jervis, 1993, p. 136.
9 Per la letteratura su questo dibattito si veda Repetti, 1985.
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della verificabilità empirica dei principi psicoanalitici, spesso definiti metafisici o, nella migliore delle ipotesi, metaforici. Questa posizione ha portato spesso a una liquidazione in blocco della concezione psicoanalitica o perlomeno ha rinviato al futuro la soluzione del problema delle sue basi empiriche. 10 All'interno della comunità psicoanalitica, la questione della «scientificità» della psicoanalisi è stata affrontata rivedendone gli stessi fondamenti teorici (è la posizione assunta, per primo, da Rapaport alla fine degli anni cinquanta). Stemperando o eliminando dalla teoria psicoanalitica la connotazione biologico-energetistica della psiche e ridimensionando la centralità delle pulsioni, lo stesso problema della verifica empirica dei concetti psicoanalitici ha perso il significato che aveva assunto nella concezione freudiana della psicoanalisi come «scienza naturale», soggetta in quanto tale alle metodologie di verifica delle altre scienze naturali. Se la pulsione non è più un concetto rilevante per la teoria psicoanalitica, allora diviene irrilevante il problema della sua verificabilità. Inutile chiedersi se i lapsus esprimono contenuti rimossi o sono errori linguistici (Fromkin, 198o; Timpanaro, 1974), se si afferma che il ruolo del lapsus nel processo dell'analisi ha perso il suo valore euristico. Nei casi più estremi di revisione della teoria psicoanalitica, condotta dagli stessi psicoanalisti, l'impianto scientifico-naturalistico è stato messo in disparte, insieme a tutti i tentativi di giustificarlo empiricamente, a favore di una diversa lettura della psicoanalisi come scienza interpretativa o ermeneutica. La compresenza nella psicoanalisi di una concezione «forte» delle pulsioni, suscettibile per le sue caratteristiche biologiche di verifica empirica, e di una concezione« debole» dell'analisi come interpretazione continuamente rinnovantesi, estranea alla riduzione naturalistica, era stata discussa da P. Ricoeur nel suo saggio del 1965 (De l'interpretation - Essai sur Freud), alla ricerca di una sintesi tra questi due poli concettuali. A Ricoeur spetta il merito di aver richiamato l'attenzione sul ruolo che la psicoanalisi ha avuto come «scuola del sospetto», come analisi dissacratoria dell'uomo e della società contemporanei, a fianco di quelle altrettanto critiche di Marx e Nietzsche. Tuttavia il richiamo all'interpretazione ha spinto alcuni a ridurre completamente la psicoanalisi a ermeneutica, a un'indagine fluida e dialettica in cui domina il significato attribuito dall'analista. La psicoanalisi è allora una narrazione dove il testo elaborato dall'analista è sganciato dal riferimento a un contenuto « oggettivo». Nel momento in cui lo stesso soggetto analizzato costruisce tale testo assieme all'analista e lo condivide, emerge una dimensione attiva e cosciente del soggetto che priva del loro ruolo primario le forze inconsce operanti nell'analisi stessa. Riflettendo sugli aspetti problematici della psicoanalisi come «impresa ermeneutica», Jervis ha notato che le pulsioni e le azioni inconsce restano un punto cardinale del-
10 <<Sembra, dunque, che la validità delle ipotesi centrali di Freud debba semmai venire da studi extra-clinici ben progettati, di tipo epidemiologico
o anche sperimentale. Ma una tale valutazione è per ora soltanto un compito e una speranza per il futuro» (Gri.inbaum, 1985, p. 133).
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l'intera concezione psicoanalitica, anche se non sono più considerate come energia misurabile, ma indicano piuttosto « dinamiche emotive che abitano la zona fra il preconscio e la coscienza »Y Abbandonando l'idea di pulsione si perde proprio il messaggio della psicoanalisi sul condizionamento emozionale e inconscio della coscienza e, per usare l'espressione di Musatti (1971), si perde da una parte la nozione di «servitù dello spirito» nei confronti della carne e dall'altra quella di «libertà» che lo spirito raggiunge attraverso una cosciente valutazione critica dei suoi condizionamenti e dei suoi limiti. III
·
DAL
COMPORTAMENTISMO
AL
COGNITIVISMO
La varietà delle correnti che caratterizzava la psicologia europea nei primi due decenni del secolo si riflettè solo in parte sulla psicologia nordamericana. Dopo i vivaci dibattiti tra lo strutturalismo e il funzionalismo a cavallo tra i due secoli, il comportamentismo si impose rapidamente e divenne l'indirizzo dominante (il manifesto di questa nuova scuola - La psicologia considerata dal punto di vista comportamentistico - fu pubblicato da J.B. Watson nel 1913)12 . Senza dubbio gli altri orientamenti teorici, come la psicoanalisi e la teoria della forma, si diffusero nella psicologia nordamericana, soprattutto dopo l'emigrazione di molti psicologi europei durante il nazismo, e in alcuni casi influirono pure sugli sviluppi del comportamentismo. Di fatto, però, quest'ultimo divenne effettivamente la psicologia studiata e praticata nelle università statunitensi e canadesi fino alla metà degli anni cinquanta. In seguito il comportamentismo si esaurì sia sul piano teorico sia su quello sperimentale, mentre in parallelo si consolidava un nuovo orientamento, noto come cognitivismo. Una presentazione sistematica delle posizioni cognitivistiche venne fornita nel 1967 dal libro Cognitive psychology di U. Neisser. In effetti, quando fu pubblicata quest'opera, che sintetizzava un decennio di indagini, il cognitivismo stava già entrando in una fase di crisi teorica interna mentre si manifestavano nuove tendenze di ricerca. Il passaggio dal comportamentismo al cognitivismo è stato generalmente concepito come una frattura netta tra due impostazioni antitetiche nello studio della mente, come una sostituzione di paradigma nel senso kuhniano (dal paradigma comportamentistico a quello cognitivistico). Studi storici recenti hanno invece dimostrato che il cognitivismo rappresenta uno sviluppo interno alla psicologia sperimentale dei comportamentisti, anche se con notevoli elementi di originalità (Leahey, 1992). Inoltre lo studio dei processi cognitivi della mente umana era stato affrontato da molti altri psicologi sin dalla fine dell'Ottocento e per tutto il primo Novecento: basti
Jervis 1989a, p. r66. Su Watson e il comportamentismo si vedano il capitolo n del volume VI e il capitolo VIII II
12
del volume Vlll della Storia del pensiero filosofico e scientifico di L. Geymonat (1976).
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ricordare gli studi della scuola di Wiirzburg 13 sui processi del pensiero, di ]. Piaget e Vygotskij sul pensiero e il linguaggio, di F.C. Bartlett 14 sulla memoria. Una storia della «psicologia cognitiva», come disciplina caratterizzata da uno specifico interesse per i processi cognitivi umani (percezione, attenzione, memoria, immaginazione, pensiero, linguaggio), 15 non può partire dal cognitivismo degli anni sessanta considerato, come ha scritto Leahey (1992), una« mitica rivoluzione», ma deve ripercorrere il variegato panorama di tutta la psicologia novecentesca. Ciò che senz'altro ha permesso al cognitivismo di presentarsi come un nuovo programma di ricerca sulla mente è stato il confluire in tale approccio di una serie di contributi di discipline diverse, mentre il comportamentismo aveva ricercato una stretta autonomia concettuale e metodologica rispetto ad altre discipline. Così sul cognitivismo ebbero una influenza fondamentale gli sviluppi della teoria dell'informazione, la cibernetica, la linguistica e le neuroscienze. Molte opere furono spesso il prodotto di un lavoro interdisciplinare, come nell'esempio classico del libro Plans and the structure o/ behavior (1960) dello psicologo sperimentale G.A. Miller, del neuroscienziato K. Pribram e dello psicologo-matematico E. Galanter. I principi fondamentali per i quali il cognitivismo si differenziava dal comportamentismo erano essenzialmente tre: a) l'area di indagine; b) il concetto di elaborazione dell'informazione e la metafora della mente come calcolatore; c) il carattere finalizzato delle operazioni mentali. Basta sfogliare l'indice dei manuali a indirizzo comportamentistico tra gli anni quaranta e cinquanta per rendersi conto facilmente che l'area di indagine era essenzialmente quella dei processi di apprendimento e memoria. Si trattava di processi i cui fondamenti erano stati studiati essenzialmente negli animali, e in particolare nei ratti, nell'assunzione che le leggi sottostanti fossero comuni alle varie specie animali, compreso l'uomo. Restavano esclusi proprio i processi psichici tipicamente umani, il linguaggio e il pensiero, che erano affrontati in termini di catene stimolo-risposta e meccanismi di associazione e condizionamento. Naturalmente anche i processi più «privati», come la coscienza e l'immaginazione, per accedere ai quali l'introspezione gioca un ruolo fondamentale, erano stati banditi esplicitamente fin dal manifesto di Watson del 1913. Dal punto di vista metodologico, le variabili studiate riguardavano il comportamento manifesto (attività motoria, vegetativa e, nell'uomo, anche verbale) prodotto dagli animali e dall'uomo in risposta a stimoli esterni. In questo approccio stimolo-
13 La <<scuola di Wurzburg >>, sviluppatasi a cavallo tra Otto e Novecento e i cui principali esponenti furono N. Ach, K. Buhler e O. Kulpe, ha studiato soprattutto i processi psichici complessi, come la soluzione di problemi e il ragionamento, ricorrendo al metodo introspettivo e ai resoconti verbali (si veda Mecacci, 1992). 14 F.C. Bartlett (1886-1959) è stato il più
importante psicologo inglese del primo Novecento. nelle sue opere (1932, 1958) ha applicato concetti, in parte di derivazione gestaltista, che mettevano in evidenza la complessità dei processi psichici umani, come la memoria e il pensiero, rifiutando le semplicistiche spiegazioni di tipo associazionistico e comportamentistico. 15 Si veda Viggiano, 1995.
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risposta, sia i processi mentali interni sia i relativi processi neurofisiologici erano confinati in una impenetrabile scatola-nera. La problematicità di questa posizione si rese subito evidente a livello sperimentale. Per spiegare i risultati di certi tipi di apprendimento (per esempio, il percorso compiuto in un labirinto da un ratto per raggiungere il cibo) occorreva ricorrere a principi «interni» alla scatola nera, come le «mappe cognitive» introdotte dal comportamentista E. C. Tolman (1886-1959). La domanda ricorrente era perché a parità di condizioni-stimolo le risposte nei vari animali o nello stesso animale potevano essere diverse. Questa varietà di reazioni rimandava a sistemi di controllo interni che di fronte a uno stesso stimolo esterno decidevano il tipo di risposta da emettere. L'opera Perception and communication (1958) dello psicologo inglese D.E. Broadbent proponeva l'elaborazione di uno dei primi modelli cognitivistici della mente umana: gli stimoli entrano nel sistema mente, composto da sottosistemi di analisi e filtraggio dell'informazione contenuta negli stimoli: una parte di questa informazione è bloccata a un primo stadio di analisi; un'altra parte è ulteriormente analizzata, trasformata in altri codici (per esempio, dal codice visivo a quello verbale), memorizzata e confrontata con le tracce di memoria; infine, in base ai risultati di tutte queste operazioni e in conformità con i criteri e le regole presenti nei sistemi di controllo può essere emessa una risposta. Il concetto di stimolo perdeva il significato assunto in precedenza, per cui richiamava fortemente la modalità sensoriale originaria. Ciò che la mente analizza o, come si preferì dire, elabora è svincolato dalla modalità sensoriale di trasmissione: la mente elabora informazioni indipendenti dall'organo di senso che le ha ricevute e trasforma i codici sensoriali in codici simbolici. In questo approccio emerge la seconda importante caratteristica del cognitivismo: l'adozione della metafora della mente come calcolatore. Sia la mente sia il calcolatore sono elaboratori di informazione, sono cioè sistemi organizzati in sottosistemi dedicati a operazioni diverse: analisi dell'informazione in entrata (input), memorizzazione, decisione ed esecuzione della risposta (output). Ai fini dello svolgimento di queste operazioni è indifferente la natura « fisica » del sistema di elaborazione. Può trattarsi di una macchina chimica (il cervello) o di una macchina elettronica (il calcolatore), ma in entrambi i casi le operazioni di elaborazione dell'informazione che vengono effettuate sono analoghe. Si è spesso ritenuto che anche due correnti di pensiero e di ricerca come la teoria dell'informazione e la cibernetica abbiano influito dall'esterno sullo sviluppo della psicologia negli anni cinquanta. In effetti, come è stato mostrato da R. Cordeschi, 16 all'interno della stessa psicologia, in particolare nel funzionalismo e nel comportamentismo nordamericani, erano già presenti molte istanze di meccanizzazione dei processi comportamentali, con tentativi di progettare macchine artificiali simulatrici della macchina-mente fin dai primi r6 Oltre al capitolo da lui curato sull'Intelligenza Artificiale (vol. x), si veda la sua monogra-
fia
sistematica sulla
(1996).
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«scoperta
dell'artificiale>>
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decenni del Novecento. In questa concezione dei sistemi naturali e artificiali di elaborazione dell'informazione, si coglie un'ultima importante peculiarità del cognitivismo, vale a dire il carattere finalizzato delle operazioni compiute. Nel modello di Miller, Galanter e Pribram il concetto di «piano» esprime bene l'idea che il comportamento non solo è finalizzato, ma è progettato per un migliore conseguimento dei fini perseguiti. Anche nel comportamentismo la risposta emessa in funzione dello stimolo aveva una finalità adattiva per l'organismo (Tolman parlava di purposive behavior, comportamento «finalizzato»), ma non si metteva in risalto che la risposta può essere modificata e aggiustata rispetto alle pressioni e richieste dell'ambiente grazie a un «piano» o «progetto» mentale. La risposta non è emessa rigidamente lungo la catena di associazioni innescate dallo stimolo, ma dipende dal progetto che di volta in volta è attuato dalla mente. Il cognitivismo era assai attento anche alle nuove ricerche sul cervello, che rivelavano una complessa organizzazione e integrazione funzionale dei singoli neuroni. Anche per questa via si abbatteva l'idea del cervello come una «scatola nera», un insieme funzionalmente indifferenziato di neuroni e fibre nervose. Le ricerche delle neuroscienze (vedi par. vn) dimostravano l'esistenza di sottosistemi cerebrali con funzioni distinte (percezione, memoria, ecc.). Si poteva quindi supporre che le unità di elaborazione, tante «scatole» più piccole all'interno della «scatola nera», avessero caratteristiche simili nei tre tipi di elaboratori: cervello, mente e calcolatore. L'informazione è ricevuta dall'esterno, elaborata secondo programmi prefissati, di volta in volta rivisti e aggiornati da unità specializzate, e memorizzata in unità specifiche; la risposta è infine emessa da altre unità di esecuzione e i suoi effetti sono verificati da un'apposita unità di controllo. L'informazione circola in queste unità secondo un flusso che nei primi modelli cognitivistici era di tipo sequenziale: l'informazione è elaborata in un'unità B (per esempio, nella memoria) solo dopo che sono state eseguite le operazioni nell'unità A, precedente nella sequenza (per esempio, l'attenzione). Nei modelli successivi sono stati introdotti nuovi tipi di elaborazione, tra i quali quello « a cascata» (le operazioni in B possono precedere quelle in A) e quello «in parallelo» (le operazioni in A e in B sono eseguite simultaneamente). Oltre a delineare la struttura interna alla «scatola nera», il cognitivismo ha trattato a fondo alcuni processi cognitivi trascurati nelle ricerche comportamentistiche perché richiedevano che il soggetto fornisse informazioni sulle proprie operazioni mentali mediante procedure introspettive. Al riguardo, un particolare interesse hanno gli studi sulla soluzione di problemi e sull'immaginazione. Il tema del problem solving è stato in effetti uno dei primi campi di indagine che hanno spinto gli psicologi nordamericani a distaccarsi dalla corrente comportamentistica. I lavori di Simon e della sua équipe (Newell, Simon e Shaw, 1958; Newell e Simon, 1972) non solo hanno permesso di confrontare le operazioni compiute dalla mente con quelle di un calcolatore, riferendosi a princìpi validi per entrambi gli elaboratori (per esempio, lo «spazio del problema» da risolvere), ma hanno reintrodotto l'im318
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piego dei resoconti verbali (verbal reports) mediante i quali i soggetti riferiscono le strategie seguite per arrivare alla soluzione del problema. L'uso del dato introspettivo si è rivelato fondamentale anche per tutte le ricerche relative alle immagini mentali e in generale all'organizzazione delle conoscenze nella mente umana. Alcuni autori hanno sostenuto l'esistenza di due codici fondamentali - visivo e verbale cui ricorrerebbe il pensiero nelle sue operazioni (Paivio, 1971); altri hanno dibattuto a fondo il problema se le rappresentazioni siano contenute nella mente sotto forma di proposizioni oppure di immagini visive (Pylyshyn, 1973; Kosslyn, 1975). Nel 1976 lo stesso Neisser, che nel lavoro del 1967 aveva sintetizzato entusiasticamente i risultati conseguiti dal cognitivismo, denunciò in Cognition and reality i limiti della nuova corrente. Già nei primi anni settanta il cognitivismo si era impaludato in un'infinita serie di ricerche sperimentali. I modelli del «flusso di informazione» divenivano sempre più complessi, con nuove unità e sottosistemi di elaborazione e una rete sempre più fitta di canali di comunicazione. Neisser rilevò che tali modelli erano stati pensati e verificati in condizioni artificiali di laboratorio senza una concreta connessione con quelle che sono le operazioni mentali in un contesto naturale. In questa critica Neisser si rifaceva alla prospettiva «ecologica» elaborata da J.J. Gibson già negli anni cinquanta e sessanta e definitivamente riassunta poi nel libro The ecologica! approach to visual perception (1979). L'« approccio ecologico» richiamava l'attenzione dello psicologo sulla diretta interazione tra l'organismo e l'ambiente, sulle modificazioni awenute nel corso dell'evoluzione per adattare i sistemi sensoriali e cognitivi alle pressioni dell'ambiente e garantire così la sopravvivenza della specie. Neisser notava che invece l'approccio cognitivista presupponeva una concezione della mente come sistema di elaborazione dell'informazione indipendente dal contesto naturale in cui opera. Sebbene proprio questo sganciamento dalle condizioni reali avesse permesso di paragonare la mente naturale a una macchina, con importanti risvolti teorici, alla fine si era arrivati a depauperare la mente dei suoi caratteristici attributi adattivi. Il richiamo di Neisser alla «validità ecologica» delle ricerche psicologiche fu chiarissimo: «In primo luogo, gli psicologi cognitivisti devono compiere sforzi maggiori per comprendere l'attività cognitiva che si manifesta nell'ambiente ordinario e nel contesto di attività concrete. Questo non significa porre un termine agli esperimenti di laboratorio, bensì è un impegno a studiare le variabili ecologicamente importanti, anziché quelle facilmente manipolabili. In secondo luogo, sarà necessario dedicare maggiore attenzione ai particolari del mondo reale in cui vivono coloro che percepiscono e coloro che pensano, e alla delicata struttura di informazioni resa loro disponibile da quello stesso mondo. Forse abbiamo profuso troppi sforzi a elaborare modelli ipotetici della mente, e non abbastanza nell'analisi dell'ambiente che la mente, per sua formazione, è predisposta a incontrare. In terzo luogo, la psicologia deve tener conto della sofisticazione e della complessità delle abilità cognitive che gli uomini sono realmente capaci di acquisire, e del fatto che tali abilità subiscono uno sviluppo sistematico. È difficile far-
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mulare una teoria soddisfacente dell'attività cognitiva umana, se ci si deve basare solo su esperimenti che forniscono a soggetti privi di esperienza brevi opportunità di eseguire compiti nuovi e privi di significato. Infine, gli psicologi cognitivisti devono esaminare le implicazioni del loro lavoro relativamente a problemi più fondamentali: la natura umana è troppo importante per !asciarla ai comportamentisti e ai cognitivisti. »17 Dopo la svolta ecologica della fine degli anni settanta, si è preferito parlare di psicologia cognitiva per indicare l'area di indagine sui processi cognitivi umani che prescinde dall'adozione di un particolare modello del loro funzionamento. La psicologia cognitiva, sulla quale convergono vari filoni di ricerca - da quello comportamentale a quello psicofisiologico a quello neuropsicologico (si veda più avanti) - è essenzialmente un programma di ricerca interdisciplinare sulla mente umana. Carattere altrettanto interdisciplinare ha la «scienza cognitiva», nata dall'integrazione tra la psicologia cognitiva, la linguistica, l'intelligenza artificiale e le neuroscienze. Tuttavia nella scienza cognitiva rimane fondamentale il riferimento alla metafora della mente come calcolatore e il ricorso alla simulazione computazionale. A differenza della psicologia cognitiva, la scienza cognitiva indaga i processi mentali senza tener conto del loro contesto naturale e dell'influenza di altri fattori, da quelli emozionali a quelli evolutivi, storici e culturali. 18 I processi cognitivi, come si è già accennato, erano stati il tema fondamentale delle ricerche sullo sviluppo mentale compiute da Piaget e da Vygotskij. 19 La diffusione del cognitivismo tra gli psicologi evolutivi ebbe l'effetto di introdurre procedure sperimentali nuove e di stimolare la revisione di alcuni concetti fondamentali relativi alle tappe dello sviluppo cognitivo. Tra i primi contributi in questa direzione, ebbero un'influenza decisiva le ricerche di ]. Bruner (1966, 1973) sulla formazione dei concetti, le strategie e la creatività. Un altro settore di convergenza tra cognitivismo, psicologia cognitiva e psicologia dello sviluppo è stato quello del linguaggio e della comunicazione. L'impostazione comportamentistica aveva avuto la massima espressione nel libro di Skinner, Verbal behavior (1957), nel quale l'acquisizione del linguaggio era ricondotta alla formazione di associazioni tra oggetti ed etichette verbali. La recensione di N. Chomsky (1959) al libro di Skinner, considerata una delle tappe fondamentali nella critica ai fondamenti del comportamentismo e nel passaggio al cognitivismo, mise in evidenza l'esigenza di una concezione più articolata e complessa delle competenze linguistiche. Sebbene le prime ricerche, sotto l'influenza dell'innatismo chomskiano, avessero messo in risalto i fattori innati del linguaggio, gradualmente sono state evidenziate le variabili sociali e le funzioni prag17 Neisser, 1976, trad. it., pp. 31-32.
capitolo di R. Cordeschi in quest'opera.
18 Sull'evoluzione del cognitivismo e sulla 19 Per un'esposizione delle teorie elaborate da scienza cognitiva si vedano Gardner, I 9 85 e Piaget e Vygotskij si veda il capitolo VIII del volume
Bara, 1990; sui problemi della simulazione e sui VIII di Geymonat, 1976. contributi dell'Intelligenza Artificiale si veda il
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matico-comunicative (Camaioni, 1993). Questa prospettiva di ricerca ha interagito con altri orientamenti teorici, tra cui in particolare la teoria storico-culturale di Vygotskij (vedi par. rv). Tra le più recenti e promettenti linee di ricerca sui processi cognitivi si devono infine ricordare gli studi sulla « metacognizione ». Questa tematica era stata proposta dallo psicologo statunitense J.H. Flavell, sostenitote della teoria di Piaget, in un convegno del 1971 dedicato alla memoria. Nel bambino non vi sarebbe soltanto uno sviluppo quantitativo e cumulativo della memoria (un maggior numero di tracce mnestiche con il passare degli anni), ma anche uno sviluppo della consapevolezza di possedere la memoria (metamemoria). Questa conoscenza permette di controllare, verificare e migliorare le proprie capacità mnestiche. Come vi è una metacognizione per la memoria, così per tutti gli altri processi psicologici si può ipotizzare una metacognizione che si articola in due sottosistemi. In primo luogo, nell'individuo si svilupperebbe fin dalla prima infanzia una «teoria della mente», cioè un insieme integrato di conoscenze su come funzionano la propria mente e la mente altrui (Camaioni, 1995). Questa conoscenza permette alle menti di interagire tra di loro assumendo di essere dotate di processi comuni (come quando ci si esprime con un'altra persona dicendo: «Mi immagino cosa stai immaginando ... »). La teoria della mente è «implicita»: in altri termini, è usata inconsapevolmente dall'individuo nella sua interazione con altri soggetti (per esempio, ci si aspetta che l'interlocutore percepisca, stia attento, ricordi mentre si sta dialogando con lui). Oltre a una teoria implicita dei processi cognitivi, è stata proposta anche una teoria implicita della personalità (Caprara e Gennaro, 1994) che riguarda più in particolare la sfera emozionale e interpersonale (per esempio, un individuo si aspetta che la persona con cui interagisce provi delle emozioni, reagisca in un certo modo, ecc.). Questa teoria implicita sarebbe gravemente disturbata nell'autismo e non consentirebbe ai bambini affetti da tale sindrome di sviluppare adeguate relazioni con gli altri (Frith, 1990). La conoscenza dei propri e altrui processi cognitivi può essere migliorata: l'individuo apprende a gestire le proprie risorse cognitive, a colmare gli eventuali deficit e a controllare i risultati della propria attività mentale. Gli effetti del perfezionamento della metacognizione sono stati studiati soprattutto nell'età evolutiva in contesti scolastici e nella senescenza, allorché più che un deterioramento delle proprie capacità cognitive si verificherebbe un peggioramento del controllo metacognitivo (Cornoldi, 1995). Le ricerche sulla metacognizione hanno in sostanza avanzato una· concezione diversa dello sviluppo cognitivo rispetto alla tradizionale prospettiva piagetiana che ha dominato la psicologia evolutiva almeno fino ai primi anni ottanta. Schematicamente, secondo la concezione piagetiana lo sviluppo cognitivo è scandito in tappe o stadi dipendenti dalla maturazione biologica dell'individuo. L'informazione esterna è elaborata a livelli crescenti di complessità cognitiva solo se lo stadio relativo è stato raggiunto. Nella nuova prospettiva, invece, lo sviluppo cognitivo 321
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può avere un'accelerazione e dar luogo a risultati migliori grazie all'intervento del metacontrollo cognitivo. I fondamenti del controllo metacognitivo risiedono nell'interazione con gli adulti e nell'istruzione scolastica, in cui si dovrebbe mirare, più che all'uso delle proprie funzioni cognitive per accumulare conoscenze, a un migliore controllo consapevole di tali capacità. IV · LA
TEORIA
STORICO-CULTURALE
E
LA
TEORIA
DELL'ATTIVITÀ
Negli anni settanta si è sviluppato, sia in Europa sia negli Stati Uniti, un crescente interesse per la teoria delle funzioni psichiche elaborata dallo psicologo russo Vygotskij (1896-1934) e nota come teoria storico-culturale. Per ragioni politiche e ideologiche tale teoria aveva avuto scarsa diffusione all'epoca della sua formulazione (anni venti e trenta) e nei decenni successivi era stata comunque divulgata in modo frammentario e inadeguato (Mecacci, 1992). La prima parziale traduzione in inglese nel 1962 dell'opera più nota di Vygotskij, Pensiero e linguaggio (1934), scatenò la cosiddetta «polemica postuma» tra Vygotskij e Piaget. A distanza di circa trent'anni Piaget prendeva in considerazione le critiche mossegli da Vygotskij di non aver tenuto conto dell'influenza determinante dei fattori sociali sullo sviluppo cognitivo infantile e di aver caratterizzato in modo rigidamente biologico l'evoluzione dei processi cognitivi. Il riferimento al contesto socio-culturale aveva permesso a Vygotskij di mettere in risalto l'importanza dell'istruzione per attivare le potenzialità cognitive di ciascun bambino. Al contrario, l'adozione della teoria piagetiana in ambito scolastico aveva portato a una concezione meccanica dello sviluppo cognitivo e a un atteggiamento «passivo» dell'insegnante rispetto al progressivo inevitabile succedersi degli stadi dello sviluppo cognitivo. Le differenze nella prestazione scolastica tra un bambino e l'altro erano interpretate semplicisticamente come l'indice di un diverso livello di maturazione biologica senza tener conto del fatto che tali differenze potevano invece riflettere i relativi contesti familiari, sociali, scolastici. I limiti della teoria piagetiana sono stati rilevati, agli inizi degli anni settanta, soprattutto in campo pedagogico: basterà ricordare a titolo di esempio l'interesse suscitato dalla concezione vygotskiana, in Italia, nel dibattito sulle classi differenziali e l'inserimento dei bambini handicappati nelle classi «normali» e, negli Stati Uniti, nelle polemiche sull'integrazione scolastica tra bambini di nazionalità differente. 20 Il concetto di «area di sviluppo potenziale», introdotto da Vygotskij negli anni trenta per indicare la gamma di potenzialità cognitive attivabili in un bambino mediante un adeguato contesto psicopedagogico, costituisce uno dei settori più rilevanti della ricerca statunitense sullo sviluppo cognitivo (Rogoff e Wertsch, 1984; 20 Furono importanti a questo riguardo le ricerche di M. Cole in California (vedi <
immigrazione dal Messico e da altri paesi ispanoamericani poneva notevoli problemi agli interventi psicopedagogici per l'integrazione culturale.
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Moll, 1990). L'altro settore in cui il pensiero di Vygotskij ha suscitato notevole interesse è quello delle indagini sullo sviluppo del linguaggio nel bambino. Sia la concezione di Piaget, proposta negli anni venti, sia quella di Chomsky, risalente agli anni cinquanta-sessanta, collocavano lo sviluppo del linguaggio in un'ottica essenzialmente biologica, mettendo in evidenza da una parte le tappe maturazionali e dall' altra la competenza innata. Molti psicolinguisti hanno ripreso la critica vygotskiana a Piaget sull'inadeguatezza di una teoria dello sviluppo del linguaggio nella quale non si contempli in modo adeguato il ruolo delle relazioni sociali e hanno spostato sempre più la ricerca dalle componenti biologiche e innate agli aspetti comunicativi e pragmatici. Si può quindi rilevare come «la teoria vygotskiana sia compatibile con un'analisi del linguaggio di tipo funzionale e/o pragmatico e con l'enfasi sui fattori contestuali, mentre la teoria piagetiana assume piuttosto una visione strutturalista del linguaggio, definito quest'ultimo come un sistema formale (logico-sintattico e semantico) indipendente dal contesto ». 21 Secondo Bruner (1983), sulle cui ricerche ha esercitato un notevole influsso il pensiero vygotskiano, a fianco del sistema innato, ipotizzato da Chomsky, si deve collocare uno specifico sistema di supporto per l' acquisizione del linguaggio (ruolo degli adulti nella famiglia e nella scuola, processi di socializzazione, ecc.). 22 Dalla teoria storico-culturale nella formulazione originaria degli anni venti e trenta si è sviluppata una teoria specifica, la teoria dell'attività, che ha incontrato larga diffusione, oltre che in Russia, anche nei paesi dell'Europa dell'Est e del Nord. La teoria dell'attività ha influenzato molte ricerche di carattere applicativo nella p sicologia del lavoro e nella psicologia scolastica. Il riferimento teorico principale è costituito dalle tesi espresse da A.N. Leont'ev, già collaboratore di Vygotskij, nei suoi studi del 1959 e del 1965. Il modello del funzionamento psichico veniva individuato da Leont' ev nel lavoro, considerato l'« attività» che specificatamente distingue l'uomo dalle altre specie animali. Mentre nel mondo animale ogni attività comportamentale è in larghissima parte finalizzata al raggiungimento di una meta (per esempio, la soddisfazione del bisogno della fame nell'attacco a una preda), nella specie umana si è sviluppata una particolare organizzazione sociale in base alla quale un'attività globale (qual è qualsiasi attività lavorativa) è svolta da vari membri di un gruppo sociale, ciascuno dei quali esegue una determinata azione. Ogni attività è data dall'insieme organizzato di varie azioni, ciascuna delle quali può entrare a far parte di attività diverse. Riprendendo l'esempio di Leont'ev sulla caccia, in passato l'azione svolta da ciascun individuo (chi segue le tracce, chi tira la freccia, ecc.) era eseguita avendo la consapevolezza della meta finale (la cattura della preda) che era perseguita nell'attività di tutto il gruppo. Invece nella società industriale, l'esempio
che di ]. Wertsch e di altri psicologi di indirizzo vygotskiano, illustrate in Wertsch, 1985.
21 Camaioni, 1993, p. 238. 22 Su questo tema si vedano anche le ricer-
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tipico è la catena di montaggio dove chi compie una particolare azione non ne conosce il ruolo nel complesso globale dell'attività del gruppo. L'individuo svolge determinate operazioni cognitive e motorie, ma non sa direttamente qual è il loro fine più generale oppure lo conosce solo indirettamente e in ogni caso non partecipa alla sua fruizione. Mentre tutti i membri del gruppo di caccia avevano diritto a cibarsi del risultato finale (la preda) dell'attività globale, l'operaio della catena di montaggio percepisce quanto gli compete per la sua azione specifica, ma non usofruisce dei beni finali conseguiti dall'attività globale svolta nella fabbrica. L'« alienazione» del salariato industriale, descritta da Marx, è così inquadrata nelle modificazioni psicologiche della struttura organizzativa del lavoro prodotte da nuove condizioni storiche e sociali. Durante gli anni della contestazione, in particolare a Berlino, le concezioni di Leo n t' ev divennero il riferimento principale della «psicologia critica», un movimento di serrata denuncia della cosiddetta «psicologia borghese» accusata di fornire modelli della psiche umana funzionali allo sfruttamento capitalistico (Holzkamp, 1972). Sebbene si sia affievolita la risonanza politica della «psicologia critica» berlinese, la teoria dell'attività suscita tuttora un intenso dibattito teorico, soprattutto durante i congressi della relativa associazione costituitasi nel 1986. Sostanzialmente, la teoria dell'attività ha richiamato la psicologia contemporanea a uno studio più attento delle condizioni concrete in cui si svolge quotidianamente la vita psichica, mirando a una ricerca più di tipo ecologico che di laboratorio. Solo l'indagine sul campo consente un confronto diretto con i problemi sociali e politici e permette una maggiore incisività dei propri interventi (Bellelli, 1983; Tolman e Maiers, 1991). In questa prospettiva, la psicologia non è più considerata una scienza di funzioni psichiche immutabili, ma una ricerca delle mutevoli forme che può assumere la vita psichica in contesti sociali e lavorativi differenti. Alla variabilità storica dei processi psichici corrisponde il relativismo della psicologia che continuamente storicizza la propria indagine in rapporto alle specifiche condizioni sociali. In questa direzione, echi della teoria storico-culturale si ritrovano anche nelle riflessioni « postmoderne » sulla psicologia. Sono ritenute ormai superate le grandi «narrazioni» della psicologia del primo Novecento, come la psicoanalisi e il comportamentismo, tese a una comprensione esaustiva e totalizzante della psiche umana. Inoltre si considera il «soggetto» universale della psicologia (di fatto dedotto dalle ricerche su individui bianchi, maschi, psicologi, ecc.) 23 un costrutto inadeguato per spiegare la varietà del comportamento umano e la realtà di «minoranze» (gruppi etnici, immigrati, omosessuali, ecc.) caratterizzate da comportamenti ritenuti in modo semplicistico anomali o devianti rispetto a un presunto soggetto maggioritario (Kvale, 1992).
23 Sulla «costruzione del soggetto» si veda Danziger, 1990.
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Orientamenti della psicologia contemporanea V· IL
CONCETTO
DI
PERSONALITÀ
Si è spesso fatta coincidere ciascuna grande scuola di psicologia con uno specifico insieme di processi psichici: percezione per la teoria della forma, apprendimento e memoria per il comportamentismo, processi cognitivi tipicamente umani come il linguaggio e il ragionamento per il cognitivismo, sviluppo affettivo per la psicoanalisi. Di fatto ciascuna di queste scuole aveva privilegiato un particolare ambito della vita psichica, pur proponendosi come spiegazione unitaria ed esaustiva di tutti i processi psichici. Lo studio della personalità e, come vedremo nel paragrafo seguente, delle dinamiche sociali non è stato appannaggio di una scuola particolare, ma è stato di volta in volta affrontato secondo la prospettiva teorica di fondo. Così vi sono teorie psicoanalitiche, comportamentistiche, cognitivistiche della personalità. Già nella prima metà del Novecento per alcuni psicologi la personalità rappresentò il nucleo centrale della ricerca psicologica: era il sistema di integrazione delle varie funzioni psichiche di un individuo, ciò che caratterizzava l'individuo come risultato dell'interazione tra fattori biologici e fattori sociali. G.W. Allport nel suo Personality (1937) fornì una definizione di personalità che è rimasta tuttora il punto di riferimento delle ricerche in questo campo: «La personalità è l'organizzazione dinamica, all'interno dell'individuo, di quei sistemi psicofisici che determinano il suo adattamento all'ambiente [. .. ] La personalità è qualcosa e fa qualcosa [. .. ] È ciò che sta dietro ad atti specifici e dentro l'individuo. »24 Su questa definizione convergevano vari punti di vista che nelle ricerche successive sono stati di volta in volta privilegiati. In primo luogo, il concetto di adattamento rimanda a una concezione biologica della psiche che, al pari di ogni sistema funzionale dell'organismo, si deve adattare al proprio ambiente. La parte ereditaria di questo sistema di adattamento è stata tradizionalmente chiamata «temperamento», mentre la risultante comportamentale del processo di adattamento, ciò che si manifesta alle altre persone, è distinta da Allport con il termine «carattere». Il carattere è influenzato dai fattori sociali e dalle relazioni interpersonali sviluppate nel corso dell' ontogenesi. Nella personalità si integrano le componenti biologiche (temperamento) e quelle sociali (carattere). La componente ereditaria-biologica è stata messa in risalto dalle teorie biologiche della personalità; la componente interpersonale è stata studiata in modo particolare dalle teorie psicodinamiche, compresa la psicoanalisi; infine la fenomenologia comportamentale è stata oggetto di indagine da parte delle teorie comportamentistiche. In generale, si può affermare che passando dalla prima alla seconda metà del Novecento lo studio della personalità si è spostato da un concetto «rigido» di personalità (con forte risalto dato alle componenti biologiche, presenti anche nella
24 Allport, 1937, p. 48.
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teoria freudiana) a un concetto « flessibile » in cui la personalità è fatta dipendere dal contesto specifico o dalla «situazione» in cui l'individuo si sviluppa. Questa concezione « contestualistica » o « situazionistica » della personalità (Mischel, 1976) è presente sia nelle teorie psicodinamiche, in cui si è avuta una graduale evoluzione dal concetto di pulsioni a quello di relazioni oggettuali, sia in particolare nelle teorie comportamentistiche del secondo dopoguerra e nel cognitivismo (Caprara e Gennaro, 1994). Il punto di partenza delle recenti teorie comportamentistiche della personalità è costituito dalle ricerche di J. Dollard e N.E. Miller sui processi di frustrazione e aggressione. Il saggio Frustration and aggression del 1939, scritto in collaborazione con altri autorevoli psicologi, era stato uno dei primi tentativi di verifica sperimentale dei principi psicoanalitici: i ratti sottoposti a esperimenti di condizionamento apprendevano uno «stile» comportamentale costante che era identificabile con il concetto di personalità. I disturbi della personalità, come l'ansia e le fobie, erano riconducibili a comportamenti appresi nell'interazione con l'ambiente e interpretabili come modalità di adattamento a stimoli e situazioni negative. Intorno agli anni cinquanta si sviluppò un fertile indirizzo di ricerche comportamentistiche sulla personalità e sulla psicopatologia e venne formulata una nuova proposta di intervento terapeutico denominato «terapia del comportamento ». 25 La terapia del comportamento, a differenza della psicoanalisi, non cura il disturbo ricercandone le cause e le dinamiche sottostanti: il disturbo non è il sintomo di un «trauma», di un «complesso» o di un «blocco» su cui la terapia deve agire, ma è soltanto un «cattivo» comportamento appreso; come è stato acquisito, così può essere eliminato attraverso l'apprendimento di un comportamento alternativo. La più nota concezione biologica della personalità è stata elaborata e continuamente rivista da H.]. Eysenck (1947, 1967). Sebbene consideri fondamentale il ruolo dell'apprendimento nella formazione della personalità, Eysenck ha sostenuto che esso si realizza sulla base di una struttura innata caratterizzata da tre dimensioni fondamentali (introversione-estroversione, nevroticismo, psicoticismo) tra loro indipendenti. I valori assunti da ciascuna dimensione in un individuo (per esempio, si può avere un individuo con alto livello di estroversione, basso nevroticismo e alto psicoticismo) formano il substrato su cui si sviluppa la personalità nell'interazione con l'ambiente sociale. Individui con substrato biologico simile possono interagire con ambienti diversi, sviluppando differenti profili di personalità; allo stesso modo, individui che interagiscono con ambienti sociali simili, ma sono dotati di un substrato biologico diverso, svilupperanno personalità altrettanto differenti. Eysenck ha proposto un modello articolato delle basi biologiche delle tre dimensioni fondamentali della personalità, ma verifiche empiriche soddisfacenti su tali basi non sono 25 Oltre al libro di Dollard e Miller, Personality and psychotherapy, uscito nel 1950, fu fon-
damentale Psychotherapy by reciproca! inhibition di Wolpe, pubblicato nel 1958.
J.
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ancora disponibili. Per altri psicologi, il problema fondamentale resta quello di stabilire se le tre dimensioni indicate da Eysenck rappresentano effettivamente la struttura genetica della personalità oppure, nel caso che si accetti l'ipotesi di un fondamento genetico della personalità, si possano proporre altre dimensioni più generali entro cui far rientrare anche quelle di Eysenck (Strelau e Eysenck, 1987). La teoria di Eysenck ha comunque fatto da sfondo, oltre che alla terapia del comportamento, agli studi sempre più diffusi sulle basi biologiche dei disturbi psichiatrici, in particolare la schizofrenia. Allo stesso tempo Eysenck è divenuto negli anni settanta il simbolo del riduzionismo biologico per aver proposto una teoria ereditaria dell'intelligenza. 26 Una delle più importanti innovazioni nelle teorie comportamentistiche della personalità si deve ad A. Bandura e al suo concetto di «apprendimento sociale». Secondo le teorie classiche del condizionamento, un individuo apprende a produrre determinate risposte comportamentali perché ha esperito personalmente il rinforzo positivo o negativo (per esempio, il bambino apprende a non infilare le dita in una presa di corrente perché quando l'ha fatto ha provato dolore). Come è stato dimostrato in molte indagini sperimentali di Bandura e dei suoi collaboratori, l' apprendimento può verificarsi mediante l'osservazione di comportamenti di altre persone (così il bambino apprende a non infilare le dita nella presa perché ha osservato che chi lo ha fatto ha provato dolore). Uno dei primi lavori di Bandura (196!) riguardava l'apprendimento di comportamenti aggressivi da parte di bambini che avevano osservato un comportamento del genere in televisione. Questi risultati hanno prodotto una lunga serie di ricerche circa gli effetti, positivi o negativi, della televisione sullo sviluppo della personalità nel bambino. Successivi lavori di Bandura (illustrati nelle monografie del 1963 e del 1986) hanno dimostrato l'esistenza di un'altra forma di apprendimento, denominata «apprendimento vicariante », relativo in particolare alle emozioni. Se un bambino manifesta un determinato comportamento, per esempio tocca un insetto senza provare paura, e poi osserva che invece la madre prova paura se lo vede toccare l'animale, può accadere che in seguito anche il bambino stesso non tocchi più l'insetto per la paura appresa indirettamente. Vi è quindi un disancoraggio dell'apprendimento dal contesto strettamente personale e dai rinforzi esperiti direttamente; l'apprendimento può realizzarsi grazie all'osservazione di ciò che accade nel proprio ambiente sociale senza un rinforzo immediato. La personalità si forma quindi non tanto attraverso una catena di rinforzi, quanto per l'assimilazione di «modelli» di comportamento. Questa concezione ha trovato ampia applicazione nello studio dell'influenza dei mezzi di comunicazione di massa come sistemi di « modellamento » della personalità in età evolutiva; nella società contemporanea questi mezzi fungono da modelli vicarianti sostituendosi ai tradizionali 26 Le sintesi più sistematiche sulla personalità e l'intelligenza sono state pubblicate rispettiva-
mente nel 1981 e nel 1982.
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modelli osservati nel contesto familiare. La temati ca dell'apprendimento sociale si è inoltre intrecciata strettamente a tutta la gamma dei problemi di psicologia sociale (influenza dei gruppi, percezione sociale, comportamento sociale; vedi par. VI). Nelle teorie dell'apprendimento sociale elaborate negli anni sessanta la personalità era ancora concepita come un ricalco o un modellamento di quanto era osservato o esperito nell'ambiente sociale. Le ricerche cognitivistiche hanno messo in evidenza invece il ruolo attivo dell'individuo nella costruzione della propria personalità. Secondo la teoria di Kelly (1955), considerata una delle prime concezioni cognitivistiche della personalità, ogni individuo è dotato di un sistema di strutture o schemi cognitivi, detti «costrutti personali» attraverso i quali egli categorizza e interpreta la vita psichica propria e altrui. Kelly paragonò le operazioni cognitive effettuate dall'individuo per costruire il proprio sistema di atti comportamentali e interagire con l'ambiente alle operazioni dello scienziato che ricorre a teorie, ipotesi e modelli per interpretare la realtà. Allo stesso modo in cui lo scienziato verifica il proprio bagaglio di conoscenze e credenze nel continuo confronto con i nuovi dati empirici, così ciascun individuo verifica e modifica il proprio sistema di costrutti personali. Anche nella teoria di ]. Rotter (1966) sul «luogo del controllo» (locus o/ contro!) del comportamento si afferma che ogni individuo è dotato di un sistema cognitivo di credenze in base al quale egli ritiene di poter agire attivamente sull' ambiente esterno (soggetti a controllo interno delle proprie azioni) oppure, al contrario, di doversi adattare all'influenza dell'ambiente (soggetti a controllo esterno). Queste credenze si formano nell'infanzia e divengono un sistema compatto di riferimento per programmare il proprio comportamento e verificarne gli effetti sull' ambiente. Bandura (1986) ha distinto tra le capacità effettive di agire sull'ambiente e la percezione che l'individuo ha delle sue capacità. Un individuo con alte « aspettative di autoefficacia » (sel/-ef/icacy expectancies) ritiene di poter fronteggiare una determinata situazione ambientale pianificando e organizzando adeguatamente il proprio comportamento. Il modo di « autoporsi » di fronte all'ambiente non corrisponde necessariamente alla futura effettiva prestazione, ma indubbiamente influenza il comportamento e i suoi risultati. Il concetto di autoefficacia ci riporta alla tematica della metacognizione come sistema individuale di controllo delle proprie operazioni cognitivo-comportamentali. VI
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LA
PSICOLOGIA
SOCIALE
Anche gli studi sul comportamento sociale, come quelli sulla personalità, sono stati impostati secondo prospettive teoriche diverse. Indubbiamente nel primo Novecento il contributo più importante fu dato da K. Lewin, 27 di orientamento gestalti2 7 Sul contributo di K. Lewin alle ricerche psicologiche del primo Novecento si veda il capi-
t olo
VIli
del volume
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VIII
di Geymonat, 1976.
Orientamenti della psicologia contemporanea
sta, con le sue ricerche sui piccoli gruppi impegnati in compiti concreti che richiedevano un'interazione diretta e continua tra i singoli membri. Lewin sviluppò un tipo di indagine, in cui la teoria, la sperimentazione e l'intervento sociale si integravano strettamente, divenuto poi il modello di ricerca-azione della psicologia sociale nordamericana e anche europea negli anni cinquanta e sessanta. Gli esponenti più autorevoli della psicologia sociale in questo periodo furono allievi o continuatori dell'opera di Lewin. Si deve ricordare, in particolare, una serie di contributi in cui venivano affrontati congiuntamente problemi relativi alla personalità, all'interazione sociale e agli schemi cognitivi, integrando i principi gestaltistici con i nuovi concetti della prospettiva cognitivistica: le ricerche di S. Asch sul conformismo e sulla pressione sociale, di L. F es tinger sulla dissonanza cognitiva, di F. Heider sull' attribuzione, di G.S. Klein sulla motivazione, di H. Witkin sugli «stili cognitivi» di personalità. L'area di ricerca di maggiore sviluppo nel campo della psicologia sociale, derivata dalla confluenza tra la teoria della forma e il cognitivismo, è nota come « cognizione sociale» e ha per oggetto di indagine la struttura delle operazioni cognitive, il loro funzionamento e il loro contenuto relativamente all'informazione sociale (Arcuri, 1985). Allo stesso modo in cui la mente elabora informazione sulle proprietà fisiche degli stimoli, la immagazzina, la confronta con le tracce mnestiche e pianifica le modalità di risposta, così essa è in grado di elaborare informazione di tipo sociale, di decodificarla e memorizzarla, producendo infine le risposte considerate più adeguate. Un esempio di informazione sociale può essere il colore della pelle o l'abbigliamento di una persona: confrontata tale informazione con le tracce mnestiche, si attivano processi di ragionamento - vere e proprie euristiche sociali in base alle quali si decide di interagire con quella persona secondo schemi prefissati di comportamento («Se quella persona ha la pelle di quel colore ed è vestita così, allora ... »). Nel processo di categorizzazione sociale, per il quale le persone sono assegnate a una certa categoria sociale in base ai loro attributi, si verificano delle distorsioni che spiegano gli stereotipi e i pregiudizi. Il « percettore sociale» opera secondo schemi che si cristallizzano e si fissano rigidamente e risultano più efficaci per discriminare e categorizzare le persone all'interno del proprio gruppo sociale che per riconoscere e valutare le persone appartenenti a gruppi esterni (Fiske e Taylor, 1984). Si è parlato a questo proposito di teorie implicite della personalità, per indicare il fatto che ciascun individuo è dotato implicitamente, senza esserne consapevole, di un insieme di credenze relative agli attributi da selezionare (colore della pelle, abbigliamento, espressione del viso, ecc.) per categorizzare le altre persone e attivare i relativi moduli di comportamento interattivo. Il concetto di teoria implicita richiama quello di metacognizione: ogni individuo avrebbe una sua rappresentazione della propria personalità e di quella degli altri, con i relativi schemi di comportamento interattivo prefissati. Tra i processi della cognizione sociale, il più stu329
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diato è stato probabilmente quello dell'attribuzione, introdotto da F. Heider (18961988) e approfondito da H. Kelley (1967) e da molti altri psicologi sociali (DeGrada e Mannetti, 1992). Il processo di attribuzione concerne le regole seguite da un individuo per spiegare le cause del comportamento di un'altra persona, talvolta riferite a fattori ambientali e talvolta a fattori soggettivi (attribuzione rispettivamente situazionale e disposizionale per Heider), secondo una valutazione individuale che spesso non tiene conto dei dati oggettivi. 28 Se i princìpi della cognizione sociale si riferiscono ai processi di elaborazione e controllo dell'informazione sociale nella psiche dell'individuo, il concetto di « rappresentazione sociale» riguarda in particolare la generazione e lo sviluppo della conoscenza sociale all'interno di un gruppo. Questo concetto ha una lunga tradizione nella sociologia francese, a partire dalla «rappresentazione collettiva» di E. Durkheim (1898), e proprio tra gli psicologi francesi ha ricevuto una approfondita elaborazione teorica. Il riferimento principale è l'opera di S. Moscovici del 1961 sulla «rappresentazione sociale» della psicoanalisi in Francia, alla quale sono seguiti numerosi contributi dello stesso Moscovici e di altri psicologi europei (Farr e Moscovici, 1984; Doise e Palmonari, 1986). Per Moscovici le rappresentazioni sociali sono «sistemi di lavori, idee e pratiche con una doppia funzione: innanzi tutto quella di stabilire un ordine che permetta alla persona di orientarsi nel suo mondo sociale materiale e di padroneggiarlo, e in secondo luogo quella di facilitare la comunicazione tra i membri di una comunità fornendo loro un codice al fine di denominare e classificare i vari aspetti del mondo e la loro storia individuale e di gruppo ». 29 La genesi delle rappresentazioni sociali è stata studiata facendo riferimento a temi di vasta portata culturale e sociale (per esempio, la psicoanalisi nell'opera classica di Moscovici, oppure una malattia, l'immigrazione degli extracomunitari): un'informazione sociale (per esempio, sulle cause e le conseguenze dell'AIDS) è all'inizio un'immagine non ben definita, ma in seguito assume contorni sempre più netti, si reifica in una rappresentazione precisa, che a sua volta entra in una rete di altre rappresentazioni sociali e vi assume un valore gerarchico specifico. Queste rappresentazioni divengono via via parte integrante del «senso comune» che guida il comportamento individuale nella vita quotidiana. Un interessante sviluppo della psicologia sociale contemporanea riguarda i modi in cui l'individuo riceve dal gruppo e dal contesto una determinata visione del mondo o ideologia, la fa propria e la rielabora, argomentandola e discutendola. 30 La psicologia retorica o la psicologia del discorso, elaborata soprattutto da psicologi inglesi e diffusasi di recente anche tra gli psicologi italiani (Billig, 1991; De 28 È nota come << errore di attribuzione fondamentale » la spiegazione del comportamento di una persona che fa riferimento a fattori psicologici piuttosto che situazionali (Ross, 1977). 29 Moscovici, 1969, p. 13.
30 <> (Billig, 1991, p. 4).
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Grada, r994; Galimberti, r992; Harré e Gillet, r994), si è proposta come un superamento della psicologia sociale cognitivista limitata dal suo approccio sperimentalistico da laboratorio. Si ritiene invece che il modo in cui le persone percepiscono, parlano e discutono degli eventi della vita quotidiana debba essere studiato in un contesto naturale. Questo studio più «ecologico» sposta il fuoco dell'indagine dalle strutture e dai processi cognitivi sottostanti a ciò che emerge nel discorso stesso nel suo dispiegarsi. 31 Come esempio dell'approccio discorsivo si può proporre quello del concetto di «copione» (script), lo schema mentale descritto dagli psicologi della social cognition per indicare l'insieme organizzato di conoscenze relativo alle modalità di comportamento in una determinata situazione (come quando ci si reca al ristorante, ci si siede, si legge il menù, si ordina, ecc.). Mentre nell'approccio cognitivista è interessante la struttura del copione in sé, come schema condiviso da più persone rispetto al loro modo di comportarsi nella medesima situazione, nell'impostazione discorsiva si indaga proprio il modo in cui è «narrata » la sequenza delle azioni da compiere, come questa narrazione varia da individuo a individuo e come essa si sviluppa nel decorso della conversazione. Nel programma di ricerca della «psicologia narrativa» sono presenti espliciti riferimenti alla rinascita dell'ermeneutica nel dibattito filosofico contemporaneo e alla centralità del concetto di interpretazione come modalità fondamentale della mente umana per conoscere i fenomeni psicologici e sociali (Spence, r982; Smorti, r994). VII
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PSICOLOGIA
E
NEUROSCIENZE
Alle soglie degli anni sessanta, gli studi sulle basi neurofisiologiche dei processi psichici presentavano una situazione contraddittoria. Da una parte la teoria pavloviana, che nella prima metà del Novecento aveva costituito la sintesi più generale sui rapporti tra cervello e psiche, era entrata in profonda crisi per la cornice teorica troppo rigida entro cui aveva cercato di inserire la vasta fenomenologia del comportamento; dall'altra il grande progresso della tecnologia aveva consentito di addentrarsi nell'architettura più nascosta del cervello portando alla luce una messe di dati che non riuscivano però a essere organizzati in una nuova sintesi esaustiva. Gli anni sessanta e settanta sono stati soprattutto un periodo di grandi scoperte sulle funzioni neuronali e cerebrali, mentre gli anni ottanta hanno costituito un momento di maggiore riflessione teorica. In questa seconda fase è maturato un nuovo tipo di rapporto tra la psicologia e le neuroscienze3 2 ed è caduto il veto del comportamentismo radicale alla Skinner per cui il comportamento umano, concepito 31 «Questioni relative al modo in cui la gente categorizza, richiama e spiega gli eventi diventano anch'esse trattabili e analizzabili. Ma, in questo caso, non si cercano più degli schemi mentali interni e prestabiliti né tantomeno la verità che sta dietro
alle descrizioni. Si cerca invece di vedere come le categorizzazioni, i ricordi e le spiegazioni vengono agiti nel discorso>> (Edwards, 1994, p. 14). 32 Sulle più recenti scoperte nell'ambito delle neuroscienze si veda il capitolo di Alberto Oliverio.
33I
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come organizzazione di catene stimolo-risposta, doveva essere studiato autonomamente senza ricorrere a princìpi neurofisiologici relativi ai processi interni alla « scatola nera» (cervello) interposta tra gli stimoli e le risposte (Mecacci, 1992). In sintesi si può dire che il contributo delle neuroscienze alla comprensione dei meccanismi di funzionamento della mente è venuto da tre settori principali. Il primo riguarda i meccanismi di modulazione del comportamento e dei processi mentali (il ciclo veglia-sonno, i circuiti neuronali sottocorticali delle emozioni, le basi fisiologiche dei bisogni). La «teoria dell'attivazione», formulata negli anni cinquanta, costituisce ancor oggi il referente di molte ricerche in questo campo. Attraverso numerosi esperimenti sugli animali e sull'uomo è stata accertata la relazione tra variazioni del «tono» neurofisiologico, determinato per esempio dal passaggio dalla veglia al sonno o dallo scatenarsi di un bisogno, e livello delle prestazioni motorie e cognitive. In questo modo è stata messa in evidenza una stretta interazione tra attività sottocorticale (vegetativa e periferica) e attività corticale di natura cognitiva. Que·sto tipo di interazione è stato studiato in particolare dall'orientamento noto come psicofisiologia che si avvale di strumenti elettrofisiologici sempre più sofisticati in grado di registrare le risposte elettriche del sistema nervoso vegetativo e della corteccia cerebrale durante l'esecuzione di compiti cognitivi (Stegagno, 1986-90). La tecnica di maggiore interesse per lo studio dei processi cognitivi consiste nel registrare i potenziali elettrocorticali mediante elettrodi posti sulla cute di un soggetto mentre svolge compiti (detti «eventi») cognitivi. Poiché i «potenziali correlati a eventi» si manifestano in tempi abbastanza definiti dopo la presentazione dell'informazione su cui svolgere il compito, è stato possibile stabilire il tempo necessario per varie operazioni cognitive (per esempio, all'elaborazione semantica dello stimolo è correlata una variazione di potenziale che si presenta solo dopo circa mezzo secondo dalla recezione dello stimolo). Questo approccio è stato denominato « neurocronometria mentale » perché consente di stabilire la durata delle operazioni di elaborazione dell'informazione. L'altro settore delle neuroscienze molto rilevante per la psicologia è quello delle ricerche sulla specializzazione funzionale dei neuroni corticali. Sebbene fosse stato già ipotizzato che i neuroni potevano essere implicati selettivamente in processi specifici relativi alla percezione di oggetti e al riconoscimento di facce, è stato solo tra gli anni cinquanta e sessanta che le ricerche di B.V Mountcastle sulla corteccia somatosensoriale e di D.H. Hubel e T.N. Wiesel sulla corteccia visiva hanno dimostrato l'esistenza di una particolare architettura funzionale delle cortecce primarie: i neuroni sono organizzati in colonne, ciascuna delle quali è selettiva a determinati parametri dello stimolo (per esempio, l'orientamento di una sbarra luminosa proiettata nello spazio visivo). Questi dati furono incorporati in un modello del funzionamento corticale che era stato avanzato un decennio prima da D.O. Hebb (190485) nell'opera The organization o/ behavior (1949). Hebb riteneva che la riverberazione dell'impulso lungo circuiti neuronali desse luogo a un'organizzazione integrata 332
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(« assemblea cellulare ») tra neuroni specializzati e che tale integrazione fosse alla base del riconoscimento di un oggetto. Così, nell'esempio di Hebb, la percezione di una forma geometrica come un triangolo dipenderebbe dalle risposte riverberanti dei neuroni selettivi ai lati e agli angoli dello stimolo. L'opera di Hebb ha avuto il merito storico di aver ipotizzato l'esistenza di precisi meccanismi all'interno della scatola nera che sarebbero responsabili della generazione dei processi cognitivi. La neurofisiologia ha poi dimostrato l'esistenza della specializzazione neuronale e in tempi più recenti, soprattutto nei modelli a reti neurali, sono stati ripresi altri princìpi del funzionamento cerebrale ipotizzati da Hebb. Uno dei concetti più importanti della nuova neurofisiologia è quello di «finestra sensoriale », con cui si indica la gamma di valori di uno stimolo (per esempio, la gamma di lunghezze d'onda dello stimolo visivo) alla quale è sensibile il sistema sensoriale di una specie animale. L'informazione sensoriale è quindi selezionata dal sistema di elaborazione in entrata (è «accettata» solo l'informazione che può attraversare la finestra sensoriale) ed è successivamente elaborata dai centri sottocorticali e corticali. In sostanza, non si concepisce più il cervello come un sistema passivo entro il quale scorre l'impulso fino all'emissione della risposta. Al contrario il cervello è formato da vari sottosistemi che sottopongono a una continua elaborazione l'informazione pervenuta in periferia. Nella monografia di J. Konorski (1967) si ipotizzavano gruppi neuronali specializzati in relazione alla complessità dell'informazione veicolata dallo stimolo. Supponendo che lo stimolo sia una parola, una prima elaborazione è effettuata da neuroni che analizzano la forma visiva delle singole lettere che compongono la parola, da neuroni specializzati nella decodifica dei suoni verbali associati a tali forme visive e infine da veri e propri neuroni « cognitivi » che riconoscono il significato della parola nel suo insieme. In questi primi modelli, da quello del Pandemonium di Selfridge (1959) fino a quello di Konorski, si ipotizzava una elaborazione sequenziale e seriale in cui le operazioni sono compiute, una dopo l'altra, passando dall'elaborazione più semplice sulle caratteristiche fisiche dello stimolo all'elaborazione più complessa sulle proprietà cognitive. I modelli successivi hanno invece ipotizzato l'esistenza di elaborazioni simultanee in parallelo, senza presupporre una gerarchia di operazioni da rispettare necessariamente lungo l'asse stimolo-risposta. Alla conoscenza dei sottosistemi cerebrali di elaborazione dell'informazione ha dato un contributo particolare la neuropsicologia, lo studio dei disturbi cognitivi in pazienti colpiti da lesioni cerebrali. Essa ha avuto una grande espansione negli anni sessanta e settanta (scuole importanti di ricerca erano state fondate da A.R. Luria in Russia, H.L. Teuber e N. Geschwind negli Stati Uniti, da H. Hécaen in Francia e. da E. De Renzi in Italia) fino a diventare nei decenni seguenti uno dei settori più fecondi delle ricerche sulle basi cerebrali dei processi cognitivi (Denes e Pizzamiglio, 1990). La presenza di disturbi molto specifici, prodotti da lesioni cerebrali circoscritte, ha corroborato la concezione di una organizzazione funzionale caratte333
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rizzata da sistemi differenziati per tipo e modalità di elaborazione. Nella teoria modulare di Fodor (1983) è stato ipotizzato che esistono sottosistemi (moduli) di neuroni altamente specializzati per determinate funzioni cognitive (come il riconoscimento di facce). In un importante dibattito della fine degli anni ottanta la concezione modulare è stata contrapposta a quella connessionistica: mentre gli esponenti del modularismo ritengono che l'elaborazione avvenga nei suddetti sistemi specializzati localizzati in specifiche strutture cerebrali, i fautori del connessionismo sostengono che l'elaborazione è prodotta in parallelo da reti neurali non strettamente localizzate. Una posizione di compromesso è quella secondo cui l'elaborazione diffusa in parallelo è la modalità di operare dei gruppi neuronali modulari che rimangono invece localizzati, come sarebbe dimostrato soprattutto dai dati neuropsicologici (lesioni circoscritte producono un determinato deficit cognitivo e non un altro). Sempre dalla neuropsicologia ha avuto origine infine il terzo grande filone di studi sulle basi cerebrali dei processi cognitivi, relativo alla specializzazione funzionale dei due emisferi cerebrali. L'impulso fondamentale a queste ricerche era venuto dai risultati sensazionali ottenuti sulle prestazioni cognitive di pazienti ai quali per motivi terapeutici erano state sezionate le commessure del corpo calloso che uniscono i due emisferi cerebrali. Gli studi fondamentali in questo settore sono legati al nome di R.W. Sperry, che ha ottenuto nel 1981 il premio Nobel (insieme a Hubel e Wiesel per le loro ricerche sulla corteccia visiva). Sia Sperry sia altri studiosi dei pazienti con «cervello diviso» avevano messo in evidenza che l'informazione è elaborata nei due emisferi in base alla relativa natura cognitiva: linguaggio negli emisferi cerebrali, riconoscimento di facce nell'emisfero destro, ecc. I dati ottenuti nei pazienti erano stati replicati, con opportuni accorgimenti metodologici, in soggetti normali; ciò aveva consentito di mettere in evidenza come i processi cognitivi della mente umana siano localizzati nel cervello secondo un'organizzazione complessa nella quale è necessaria sia la specializzazione di ciascun emisfero sia l'interazione tra i due emisferi (Sperry, 1961; Gazzaniga, 1985). L'area di ricerca, attualmente indicata come « neuroscienza cognitiva», si è sviluppata nella direzione di specificare le strutture cerebrali interessate all'attività cognitiva. La convergenza di approcci diversi, dalle ricerche su soggetti normali a quelle su pazienti cerebrolesi, ha reso possibile delineare un'architettura complessa che fino a trent'anni fa non era neppure ipotizzabile. Tuttavia questo quadro dei rapporti cervello-cognizione è stato tracciato con riferimento alla concezione classica delle funzioni cerebrali: le funzioni di analisi dell'informazione in entrata sono localizzate nella parte posteriore del cervello (cortecce di proiezione nei lobi occipitali, temporali e parietali}, le funzioni di integrazione dell'informazione nelle aree associative e le funzioni di esecuzione delle risposte comportamentali nelle aree anteriori (corteccia motoria e lobi frontali). Sostanzialmente questa articolazione funzionale replicava a livello corticale la tradizionale organizzazione dell'arco riflesso spinale (centri sensoriali, centri di integrazione, centri motori). Questo quadro è stato larga334
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mente ridimensionato da numerosi studi in cui è stato dimostrato che i centri di elaborazione dell'informazione in entrata sono dislocati in molte altre regioni corticali oltre che nell'area corticale di proiezione. Per quanto riguarda la visione sono state descritte nella scimmia almeno una ventina di aree «visive» oltre alle tre aree tradizionali (area 17 di proiezione e aree 18 e 19 di associazione). I circuiti di elaborazione non sono quindi unidirezionali (dalla corteccia sensoriale a quella associativa a quella motoria), ma sono diffusi in tutta la corteccia con sistemi complessi di riverberazione dell'informazione in tutte le direzioni. I nuovi dati anatomo-fisiologici sull'organizzazione della corteccia cerebrale che sarebbe alla base dei processi cognitivi hanno dato origine da una parte a una concezione modulare, con sistemi corticali funzionalmente specializzati e autonomi, e dall'altra a una concezione connessionistica, con l'elaborazione distribuita in tutta la corteccia (McCloskey, 1993). Anche nel caso in cui si ipotizzi una specializzazione corticale a moduli, le operazioni mentali richiedono comunque l'integrazione funzionale di più moduli. Risulta così ancora valida la concezione « multicomponenziale » dell'attività corticale impegnata nei processi mentali: componenti funzionali diverse, localizzate in aree corticali differenziate, si integrano tra di loro secondo un'organizzazione complessa che può essere parzialmente danneggiata nei casi di lesione cerebrale (Vallar, 1995). Nella teoria dei sistemi funzionali di A.R. Luria (1973) ogni processo cognitivo era appunto concepito come un sistema funzionale prodotto dall'integrazione tra sottosistemi corticali differenti aventi ciascuno una propria specifica funzione. Ciascuno di tali sottosistemi può partecipare a diversi sistemi funzionali che acquistano la loro peculiarità non tanto dalla presenza o assenza di uno o più sottosistemi, ma dalla loro specifica combinazione. Secondo la prospettiva storico-culturale, cui Luria aderiva, queste combinazioni funzionali si svilu;Jpano nell'ontogenesi sotto la pressione ambientale e non sono la manifestazione di un'organizzazione geneticamente predeterminata. Per esempio, la scrittura o la lettura sono due sistemi funzionali tipicamente umani in quanto derivano da una combinazione di sottosistemi relativi alla percezione visiva, al linguaggio, ecc.: un insieme integrato di funzioni che si realizza allorché il bambino accede all'istruzione scolastica. Inoltre si tratta di sistemi funzionali di natura storica perché sono stati realizzati solo in un determinato momento della storia umana (Mecacci, 1984b). Al problema dell'organizzazione funzionale del cervello umano si lega l'altra tematica, di grande interesse teorico, sulla specificità delle organizzazioni cerebrali nei singoli individui in relazione a determinate attività cognitive tipicamente umane. Sebbene non siano numerosi, vari studi hanno messo in evidenza differenze nell' organizzazione funzionale del cervello dei musicisti, degli artisti, dei poliglotti. 33 Dal punto di vista metodologico è stato posto l'interrogativo se lo studio di singoli casi,
33 Una rassegna divulgativa è in Mecacci, 1984a.
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come è avvenuto spesso in neuropsicologia, permetta di generalizzare i risultati all'intera popolazione (Vallar, 1995). In conclusione, si ripropone nella neuroscienza cognitiva la domanda, posta ripetutamente nella storia della psicologia di questo secolo, se l'indagine sul cervello (o la mente) nel suo funzionamento generale, comune a tutti gli individui, dia conto della grande varietà interindividuale a livello dell'organizzazione funzionale cerebrale (sottostante all'altrettanto grande varietà dell'attività cognitiva). Luria nella sua autobiografia (1976) aveva formulato questa domanda nei termini della classica contrapposizione tra una scienza del cervello nomotetica, volta a individuare leggi di funzionamento del cervello comuni a tutti gli uomini, e una scienza idiografica, attenta alla specificità di tale funzionamento in ciascun individuo.
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CAPITOLO
NONO
Il dibattito epistemologico sulla pedagogia e le scienze dell'educazione DI
I
·
LE
RICCARDO
PROSPETTIVE
MASSA E PIERO
EMPIRISTE
E
IL
BERTOLINI
PARADIGMA
TECNOLOGICO
r) Pragmatismo, filosofia analitica, comportamentismo e cognitivismo: la pedagogia come ricerca, analisi linguistica, didattica e psicologia dell'istruzione
La pedagogia e le scienze dell'educazione hanno conosciuto negli ultimi decenni uno sviluppo straordinario, corrispondente alla centralità che i problemi della formazione sono venuti ad assumere nella vita sociale e individuale. Di tale sviluppo si darà conto in questa sede soprattutto in riferimento ai principali orientamenti epistemologici che lo hanno sostenuto, producendo come esito da un lato il superamento di contrapposizioni dottrinali e metodologiche ormai obsolete, dall'altro un' accresciuta varietà di soluzioni teoriche e operative. Da questo punto di vista pedagogia e scienze dell'educazione costituiscono un caso epistemologico di estremo interesse: mal sopportando schematismi rigidi e dogmatici, configurano un dominio conoscitivo caratterizzato da un'accentuata tendenza verso paradigmi più articolati e complessi di quelli consueti. Per ricostruire il dibattito sulla pedagogia e le scienze dell'educazione dagli anni settanta alla metà degli anni novanta ci si può riferire alle principali opzioni culturali entro cui i processi formativi sono stati trattati concettualmente e praticamente. Queste opzioni affondano le radici nei rapporti tra filosofia, scienze naturali e scienze umane così come si sono configurati a partire dalla reazione all'idealismo e sono essenzialmente riconducibili a tre orientamenti: le prospettive empiriste, le prospettive umaniste e le prospettive materialiste. I loro caratteri salienti possono essere individuati in rapporto ad alcune questioni cruciali per qualunque ragionamento pedagogico. Le diverse soluzioni che ne vengono date configurano i paradigmi fondamentali intorno a cui ruotano queste tre grandi attitudini epistemologiche: quello tecnologico, quello pratico e quello clinico. Il presupposto minimo per qualunque ricognizione su cosa si possa intendere per pedagogia e scienze dell'educazione, anche allo scopo di porne radicalmente in discussione il concetto, è l'esistenza di una produzione di discorsi sui problemi educativi storicamente determinata. Per le prospettive empiriste tale attività discorsiva deve ancorarsi direttamente alla rilevazione sistematica e controllata di dati empi337
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Il dibattito epistemologico sulla pedagogia e le scienze dell'educazione
no. Non solo l'esperienza educativa e il discorso pedagogico hanno a che fare con fenomeni osservabili tramite strumenti adeguati, ma essi interessano in quanto regolabili e manipolabili rispetto a obiettivi verificati. È questo che giustifica qualunque attività pedagogica: la messa a punto di tecniche efficaci di intervento. La tradizione pragmatista che si rifà a John Dewey, diffusa in Italia da Lamberto Borghi e Aldo Visalberghi, aveva proposto una concezione allargata di esperienza educativa, sottolineandone il carattere attivo e progettuale oltre alle finalità sociali non riducibili a obiettivi predefiniti. In questo senso essa ha potuto essere uno dei motivi ispiratori della pedagogia contestataria, sia pure attraverso il proprio disfacimento in forme di spontaneismo antiautoritario già presenti nella matrice vitalista dell'attivismo europeo. Ma dall'inizio degli anni settanta venivano a prevalere anche in Italia, tanto come redenzione dalla deriva contestataria quanto come sopravvivenza della sua anima intellettualista e libertaria, le tendenze del comportamentismo prima e del cognitivismo poi. Ciò che in vario modo ha accomunato tali tendenze a quella del pragmatismo è stata una spiccata sensibilità empirista. Essa ha privilegiato un modello sperimentale e tecnologico, visto come liberatorio rispetto alla tradizione idealista e spiritualista in quanto autolimitantesi alla sola educabilità cognitiva, contro qualunque implicazione assiologica e coscienziale. La prospettiva analitica ha assegnato alla pedagogia una natura concettuale, intesa come terapia linguistica solidale con un programma di sviluppo scientifico. I continui rinvii critici tra empirismo, pragmatismo, comportamentismo, cognitivismo e filosofia analitica evidenziano l'appartenenza di questi indirizzi a una stessa famiglia epistemologica, incentrata sui criteri della ostensibilità linguistica e della verificabilità empirica. In pedagogia il comportamentismo, fatta eccezione per la visione utopica di Burrhus F. Skinner, ha lasciato cadere qualunque intento di condizionamento su base emotiva e qualunque pretesa di ricondurre a modelli globali le condotte sociali, pretesa che riproporrebbe forme di determinismo educativo. Prevale invece il primato dell'istruzione, che trova il suo prolungamento nella svolta cognitiva. Del cognitivismo, sia pure con attenzione alla teoria linguistica di Noam Chomsky, la ricerca pedagogica ha sottolineato le componenti ambientaliste. Quanto alle importanti implicazioni etiche di tutte quelle tendenze - basti pensare alla fortuna di Lawrence Kohlberg nella filosofia dell'educazione - sono state lasciate a una sorta di esercizio speculativo, mal sopportato dal preminente interesse per la predisposizione di tecniche e curricoli determinati. Da qui la vocazione squisitamente didattica e psicopedagogica di questa famiglia di dottrine. In tal modo è andata perduta la capacità delle metodologie attive di considerare criticamente la complessità del sistema scolastico, specie nei suoi aspetti sociali e affettivi. In sintesi, si può dire che la prospettiva pragmatista intende la pedagogia come ricerca educativa multidisciplinare socialmente orientata (Visalberghi, 1965), quella comportamentista come tecnologia didattica (Skinner, 1968), quella analitica come filosofia linguistica dell'educazione (Phillips, 1985) e quella cognitivista come psicologia dell'istruzione (Bruner, 1966).
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Il dibattito epistemologico sulla pedagogia e le scienze dell'educazione
Prevale un comune atteggiamento tecnologico (Titone, 1974), visto come l'unica risposta adeguata ai problemi educativi suscitati dall'evoluzione della civiltà moderna (Laeng, 1969). Solo in rari casi la sinergia di queste prospettive, con una accentuazione logico-analitica, ambisce a istituirsi come scienza specifica dell'educazione. In generale le prospettive empiriste assegnano alla pedagogia una natura e uno scopo che obbediscono esclusivamente alla regola della funzionalità tecnica. 2) La relazione mezzi-fini
La relazione mezzi-fini costituisce un topos obbligato del dibattito pedagogico. In generale essa è concepita dalle prospettive empiriste secondo la regola dell'autosufficienza dei mezzi. La soluzione pragmatista consiste non solo nell'escludere qualunque contrapposizione, ma nell'affermare la continuità organica tra mezzi e fini. Nonostante il tentativo di convertire gli enunciati di valore in enunciati fattuali, si è riproposta la questione della giustificazione dei fini a partire dalla distinzione tra questi due tipi di enunciati tenuta ferma dal positivismo logico. Il problema delle pedagogie di taglio empirista è divenuto quindi quello di escludere qualsiasi fondazione assiologica e normativa, esigenza che ha dato luogo a forme di tecnicismo didattico. Solo Carmela Metelli Di Lallo (1914-76), con il volume Analisi del discorso pedagogico (1966), aveva inaugurato una nuova istanza epistemologica. Si trattava della messa a punto di un congegno logico-linguistico volto a connettere le acquisizioni provenienti dalle scienze della condotta e le finalità ricostruttive di ordine politico che si intendono assumere criticamente. Un simile costrutto teorico avrebbe dovuto restituire, nell'ambito di una tecnologia educativa così estesa, anche l'orizzonte utapico presente nel discorso pedagogico classico in forma prescientifica. Tale orizzonte veniva riproposto, a partire da una tensione di tipo anarchico, in forma di esperimenti mentali su base scientifica che utilizzassero modelli rigorosi e coerenti di generalizzazione. Un'analoga istanza epistemologica, declinata però in senso metafisica e ancorata a un peculiare realismo, spiega la fortuna dello sperimentalismo educativo in area cattolica (Laeng, 1992). L'impegno di Raffaele Laporta per la messa a punto di una «scienza empirica dell'educazione», documentato nella raccolta di saggi Educazione e scienza empirica (1980), ha invece inteso assumere i fini educativi come componente intrinseca di essa, tentando di ricondurli a presupposti oggettivamente motivati su base biologica e culturale. 3) La giustz/icazione logica
Un'altra questione centrale del dibattito pedagogico riguarda il rapporto tra individuale e generale e tra libertà e causalità, vale a dire la giustificazione logica del sapere pedagogico. Sia pure in senso condizionale e probabilista, viene ribadita una concezione nomotetica. Essa considera le situazioni individuali come ambiti 339
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n dibattito
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applicativi di conoscenze pedagogiche dotate di validità in quanto relative a generalizzazioni causali di tratti ricorrenti. Poiché tali conoscenze sono a loro volta generalizzazioni di inferenze tecniche sperimentalmente controllate, l'assetto ipoteticodeduttivo della giustificazione pedagogica assume un carattere iperbolico. Si tratta di un determinismo tutt'altro che rigido e assoluto, smaliziato com'è dallo sviluppo critico delle scienze sociali e dal superamento del positivismo, pronto sovente a integrarsi, come nel caso della teologia cattolica e dell'etica laica, con la celebrazione della libertà umana. Ciò che conta è che quest'ultima sia concepita in modo da non interferire con le possibilità di programmazione, determinazione e controllo da esercitarsi sulla ragione dei ragazzi. Ma tutto quello che attiene al singolare, all'individuale, al contingente, al casuale, al residuale, al latente, all'ambiguo, non viene minimamente legittimato sul piano di una specifica valenza epistemologica. Occorre semplicemente ricomprenderlo induttivamente all'interno di un certo ordine statistico. I « disegni » della ricerca dovranno essere cauti e sofisticati, ma, sia pure entro un quadro stocastico e multifattoriale, rimane ferma la regola della spiegazione causale, in quanto supporto logico di qualunque previsione e applicazione. Solo un'educazione intellettiva finalizzata a questo modello rende possibili autonome capacità di sostegno dei processi di modernizzazione che da esso sono derivati. In ciò le pedagogie empiriste si autocomprendono, per lo meno riguardo ai loro esponenti di sinistra di area continentale, come eredi dell'illuminismo laico e progressista. La scienza, nella sua funzione critica ed emancipatoria, è l'unico valore assoluto. 4)
I metodi e le tecniche della ricerca
I metodi e le tecniche della ricerca seguono la regola dell'approccio quantitativo e sperimentale, ma il dibattito degli anni settanta e ottanta non ripropone più un'accezione posi ti vista di pedagogia sperimentale e di laboratorio psicotecnico (Becchi e Vertecchi, 1984). Si deve a Lucia Lumbelli (1982) una specifica attenzione per la ricerca qualitativa sulla comunicazione didattica (con riferimento all'approccio non direttivo di Carl Rogers), per l'osservazione etologica e l'etnometodologia. Vengono studiati i problemi socioemotivi di gestione della classe (Genovese e Kanizsa, 1989). Susanna Mantovani (1995), grazie alla mediazione tra cognitivismo e psicoanalisi costituita dalla teoria dell'attaccamento di John Bowlby, si è spinta fino alle frontiere dell' in/ant observation di taglio clinico. Quest'ultimo approccio, per l'interesse riservato agli stili affettivi e relazionali nella primissima infanzia, ha il merito di richiamare le prospettive empiriste a tradizioni di altra natura. Resta comunque irrinunciabile una istanza di rigore metodologico, da intendersi come controllo intersoggettivo e falsificazione empirica di ipotesi determinate. Si spiega così la polemica un po' ingenerosa nei confronti delle scuole sperimentali a tempo pieno, dove il concetto di sperimentazione sarebbe stato declassato a quello di innovazione istituzionale. La polemica ha investito anche le generalizzazioni della ricerca teorica, vuote
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di riferimenti a rilevazioni empiriche attendibili. Ricerca è solo quella, peraltro, che muove da ipotesi concettuali. La lezione popperiana, che ha fatto valere anche in campo educativo un esplicito monismo metodologico, è stata pienamente assimilata in Italia: l'approccio qualitativo è legittimato come fase esplorativa volta a suggerire congetture utili per la messa a punto di apparati rilevativi e classificatori che possano essere utilizzati e confutati da pratiche osservative. Parallelamente è proseguita l'indagine docimologica a livello nazionale e internazionale su piccoli e grandi campioni, sostenuta da Visalberghi e Luigi Calonghi. La sofisticazione euristica si esprime sul piano di elaborazioni statistiche raffinate (Lombardo, 1993). La stessa didattica rischia però di esaurirsi nell'uso di strumenti di misurazione (Gattullo, 1967). Lo scopo, oltre che comparare gli standard di produttività scolastica su scala mondiale, come nel caso delle ricerche dell' International Association /or the Evaluation o/ Educational Achievement, è promuovere procedure e decisioni mirate a elevare la qualità dell'istruzione nelle istituzioni scolastiche di massa (Vertecchi, 1993). Prevale il modello comportamentista del mastery learning (Block, 1971), relativo a percorsi individualizzati di apprendimento, connesso alle tassonomie cognitive (Bloom, 1956), con l'indicazione di una programmazione ben distinta in obiettivi, contenuti, mezzi e verifiche. Vengono affinate griglie di analisi del «comportamento insegnante» (Ballanti, 1975). La prospettiva cognitivista, sviluppata in Italia dagli studi di Clotilde Pontecorvo (1986) e Pietro Boscolo (1988), ha privilegiato l'idea di curricolo (Pontecorvo e Fusé, 1981) nella sua derivazione anglosassone, attenta ai diversi contenuti di apprendimento (Stenhouse, 1975), piuttosto che nella sistematizzazione tedesca, troppo astratta e macchinosa (Frey, 1971). Successivamente sono state studiate metodiche conversazionali in contesti specifici di insegnamento (Rabinowitz, 1993), nell' ambito di una originale rielaborazione psicopedagogica della psicologia storica di Lev Vygotskij e della psicologia culturale dell'ultimo Bruner (Pontecorvo, Ajello e Zucchermaglio, 1995). Particolare attenzione era stata in precedenza rivolta alle valenze didattiche della psicologia genetica di Jean Piaget (Tornatore, 1974), mentre oggi la ricerca di base è focalizzata sugli aspetti metacognitivi dei fenomeni di apprendimento (Cornoldi, 1995). Negli anni settanta si era affermata la sintesi, messa a punto da David Ausubel (1968), relativa ai processi di lettura e scrittura, di verbalizzazione e comprensione. Notevole diffusione hanno avuto in seguito sia la psicologia dei media di David Olson (1974), sia la teoria delle intelligenze multiple di Howard Gardner (1983), ripresa e valorizzata in rapporto ai problemi dell'educazione interculturale e dell'inserimento degli handicappati. Gardner (1993) ha il merito di aver condotto una polemica non regressiva contro l'abuso del testing nella scuola e nell'università e i processi di perversione didattica che ne conseguono (si pensi al proliferare anche in Italia, dalla fine degli anni ottanta, di corsi per la preparazione ai test di ammissione ai nuovi diplomi di laurea). 341
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Franco Frabboni (1992) è l'autore che porta a maggior compimento il percorso della ricerca didattica, entro un orizzonte di schietta sensibilità pedagogica nutrita di impianto problematicista. Nei suoi studi ha configurato concretamente una proposta di sistema formativo integrato in cui risultano essenziali gli interventi di educazione extrascolastica. Il suo Manuale di pedagogia generale (1994), scritto con Franca Pinto Minerva, attenta all'epistemologia sistemico-costruttivista, è il frutto più maturo di questa stagione culturale. 5) Il linguaggio e il genere letterario
La questione di quali debbano essere il linguaggio e il genere letterario del discorso pedagogico sembrerebbe risolta de facto dalle aggettivazioni del tecnicismo didattico e de iure dalla filosofia analitica dell'educazione (Barbieri, 1993). I principali esponenti di questa tradizione di ricerca (Scheffler, 1960 e 1973; Kneller, 1966 e 1984; Peters, 1967 e 1973; Hirst, 1983), oscillante tra neopositivismo e analisi informale, hanno perseguito l'obiettivo di rendere più consapevole e rigoroso il linguaggio con cui insegnanti, scienziati, filosofi e amministratori parlano di educazione. L'intento è non solo individuarne elementi quali slogan, metafore, definizioni ambigue e imprecise, termini ed espressioni senza senso perché privi di riscontro e coerenza interna, generalizzazioni indebite, fallacie e contraddizioni, assunti metafisici non dichiarati, principi e raccomandazioni pratico-normative, ma soprattutto approfondirne le implicazioni teoriche e concettuali. Tale approfondimento si prolunga talora in una radicalizzazione della problematica etica, epistemologica e curricolare, come nel lavoro a cura di Robert Dearden, Richard Peters e Paul Hirst, Education and the development o/ reason (1972). Questa tradizione di ricerca non è stata in genere recepita e non ha prodotto un codice specifico del discorso pedagogico; di essa è stata per lo più accolta solo l'esigenza di sostituire ai giochi linguistici privi di regole proprie degli educatori il lessico empiricamente corroborato della psicologia comportamentista e cognitivista. Il genere letterario auspicato è quello del rendiconto scientifico interno a una comunità di ricerca che condivide il metodo dell'indagine sperimentale sui processi di apprendimento e insegnamento. Di fatto, esso si riduce spesso a un aggregato di precetti ed esempi applicativi offerti agli insegnanti in libri e riviste divulgative relativi alle diverse materie dei programmi, ai vari ordini e gradi del sistema formativo, alla preparazione ai concorsi di accesso all'insegnamento. Prevale la regola del consumo di materiali prestrutturati e slogan pedagogici correnti, con integrazioni di politica scolastica. 6) Specz/icità e autonomia. Le categorie dottrinali e la struttura metateorica
Molti esponenti delle tendenze empiriste hanno arrecato un valido contributo alla ricerca sui processi di apprendimento e strutturazione cognitiva, ponendo in luce la loro incidenza sulla formazione dei concetti scientifici. In questo senso è 342
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plausibile la rivendicazione di autonomia avanzata dalla psicologia dell'educazione e dalla pedagogia sperimentale (De Landsheere, 1986): queste non possono limitarsi a far retroagire acquisizioni psicologiche esterne, ma devono realizzare dall'interno delle situazioni scolastiche una produzione di conoscenze nuove e attendibili, senza per questo riuscire a delineare alcuna formulazione teorica dell'oggetto pedagogico. L'autonomia da esse rivendicata è in definitiva soltanto quella già riconosciuta da Dewey a una scienza dell'educazione non deducibile da altre discipline ma alimentata da fonti proprie relative ai problemi della pratica didattica. Le categorie dottrinali sono quelle della psicologia scientifica. Una propria struttura metateorica, tranne le eccezioni ricordate, è non solo assente ma esclusa puntigliosamente: si tratterebbe di uno sterile esercizio ideologico, obsoleto e sospetto, cui si contrappone l'urgenza di indicazioni chiare e praticabili sulle difficoltà concrete che incontrano gli insegnanti. 7) Denominazioni disciplinari e qualzficazioni epistemologiche
La nozione di una pluralità di scienze dell'educazione (Clausse, 1967; Avanzini, 1976) è definitivamente acquisita. Attraverso di essa è stato sancito il passaggio dalla pedagogia tradizionale alla pedagogia scientifica (Mialaret, 1985), con la conseguente vanificazione del concetto stesso di pedagogia. Si tratta di una nozione la cui forza innovativa è irrinunciabile, ma che risulta insufficiente e non ben definita nella sua unità enciclopedica di tipo pragmatico e funzionale (Visalberghi, 1978). La dizione «scienze pedagogiche», di sapore più applicativo (Debesse e Mialaret, 1969-1978), è stata lasciata cadere perché riduttiva e limitante. Del resto, già la «pedagogia come scienza» auspicata da Francesco De Bartolomeis all'inizio degli anni cinquanta era null' altro che la dissoluzione di essa nelle discipline psicologiche e sociali in funzione applicativa, con tutti i guadagni e le perdite, sia di qualificazione culturale sia di adeguatezza operativa, che questo ha comportato. Il retaggio deweyano è stato inteso come appiattimento di qualunque consistenza epistemologica nell'enfasi sulla ricerca, fatta slittare in strategia didattica o nella «ricerca-azione». Da questa insistenza sulla componente della ricerca, nella scia dell'anglosassone educational research, allo scopo di salvaguardarne una qualche specificità è conseguito che research è solo quella empirico-sperimentale e in quanto educational dovrà essere esclusivamente relativa all'insegnamento scolastico. Anzi, nella letteratura di base di lingua inglese, è sempre più corrente la sostituzione di questo attributo e del sostantivo da cui deriva con quelli di instruction e instructional. La stessa sociologia dell'educazione, così essenziale per una ricostruzione del discorso pedagogico, viene valorizzata per una pianificazione dell'istruzione pubblica, ma considerata esterna alla educational research in senso stretto anche quando si limita allo studio delle istituzioni scolastiche, e appartenente a tutti gli effetti al dominio della sociologia, rispetto a cui la ricerca «educativa» non ha alcuna zona di confine da spartire. L'espressione positivista e spiritualista di «scienza dell'educazione» non può 343
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che essere censurata per il suo carattere totalizzante. Quella più specifica di «scienza pedagogica» non farebbe che riproporla, continuando a usare un attributo tanto sospetto per la sua risonanza didascalica e moralista. Il concetto di pedagogia nell' accezione accademica continentale non è sostanzialmente riproponibile nel contesto culturale inglese, anche se vi si può far corrispondere quello di educational theory. Education indica il complesso dei discorsi e delle ricerche sugli interventi formativi, con una specifica caratterizzazione sul versante applicativo, come risulta dalla qualifica di educationist. Pedagogy viene talora usato, tranne rare eccezioni anticonformiste, per indicare gli aspetti prescientifici di tipo pratico dell'insegnamento. Anche in francese l'analogo termine si riferisce alle pratiche didattiche ed è privo della densità culturale che gli aveva assegnato la tradizione romantica. A maggior ragione la nozione di «epistemologia pedagogica» (De Giacinto, 1988) non poteva che essere rifiutata, così come avviene nelle pedagogie idealiste o misticheggianti. L'unica epistemologia che presentasse un certo interesse era relativa alle varie materie scolastiche. È oggi invece presente in Italia, da parte della didattica più matura (Calonghi, 1993), la tendenza a riproporre le stesse richieste di autonomia e scientificità già avanzate dalla pedagogia. Questo orientamento evidenzia che solo un nuovo paradigma può consentire di affrontare quei problemi la cui mancata soluzione è stata responsabile di una contrapposizione ormai superata tra didattica e pedagogia, che si tratterebbe di capovolgere in legittimazione reciproca (Bertolini, 1994). Nel dibattito in lingua tedesca, invece, con il testo Metatheorie der Erziehung (1978), Wolfgang Brezinka ha ribaltato nuovamente in senso positivista l'accezione del termine Erziehungswissenscha/t (Biittemeyer e Moller, 1979). Un rilancio in questo senso era già stato operato da Rudolf Lochner. Quella di Brezinka è una proposta molto aggiornata, consistente nel rifacimento di un testo precedente con riferimenti al razionalismo critico ma sostanzialmente ancorata a un concetto dogmatico di scienza e tecnologia, che rappresenta soprattutto una reazione alle pedagogie del sessantotto ispirate alla psicoanalisi e al marxismo, a Jiirgen Habermas e ai pensatori della scuola di Francoforte. La capacità di ricostruzione epistemologica, nonostante un eccessivo schematismo, il pathos educativo e la polemica anticomunista hanno assicurato all'opera di Brezinka l'attenzione della pedagogia cattolica e liberale. Ma il concetto di scienza dell'educazione, più comunemente, o viene accusato di positivismo o resta legato a una preoccupazione spiritualista (Xochellis, 1973). La filosofia dell'educazione è in genere identificata con la filosofia analitica. Ciò che il concetto di philosophy o/ education così inteso ha consentito di guadagnare in specialismo speculativo è stato perduto sul piano del pluralismo dottrinale. Vige la regola del primato della didattica. È significativo che, allo scopo di evitare l'esito da essa indotto, della propria dissoluzione nel contenutismo delle varie didattiche disciplinari, la didattica stessa finisca con il riproporre sotto altre spoglie una problematica tradizionale di epistemologia pedagogica. 344
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8) Altre implicazioni
Gli orientamenti di matrice empmsta comportano una serie di altre implicazioni: predominio dell'istruzione e del cognitivo sull'educazione e sull'affettivo (confusi con istanze valoriali e sentimentali), appiattimento del concetto di formazione su quello di istruzione, grande attenzione per la fase della preadolescenza, tendenza all'iperscolasticismo, enfasi su abilità cognitive e competenze culturali strumentali, sospetto per l'invadenza di preoccupazioni sociali contingenti che finirebbero con lo stravolgere il mandato istituzionale della scuola; e ancora, grande interesse per l'istruzione a distanza e per una didattica multimediale che sappia valorizzare tutte le risorse offerte da strumenti audiovisivi e informatici (Maragliano, r994; Ghislandi, r995), che convive con la struggente nostalgia per le capacità di scrittura e lettura coltivate dalla tradizione. Un discorso pedagogico così inteso si articola nei molteplici ambiti di indagine della psicologia scolastica, delle didattiche settoriali, delle varie tecniche della ricerca, in particolare docimologiche, e si rivolge quasi esclusivamente al mondo degli insegnanti. La sua collocazione accademica privilegia i corsi di formazione iniziale e in servizio per questi ultimi (Corda Costa, r988), ma non sembra sufficiente per un curricolo universitario orientato verso una cultura pedagogica di base e professionalità specifiche in ambito aziendale ed extrascolastico. II
·
LE
PROSPETTIVE
UMANISTE
E
IL
PARADIGMA
PRATICO
r) Natura e scopo della pedagogia
Sono qualificabili come umaniste le prospettive che considerano irrinunciabile il riferimento a componenti specificamente umane della realtà educativa, in quanto non rilevabili con il metodo delle scienze naturali. Al di là delle diverse configurazioni dottrinali, il loro assunto è quello del carattere sostanzialmente pratico sia dell' esperienza educativa sia del sapere pedagogico. Se le prospettive empiriste assegnano a quest'ultimo natura scientifica, le prospettive umaniste lo concepiscono secondo uno stile filosofico tipico della cultura umanistica, per quanto integrato dai risultati delle scienze empiriche. Scopo della pedagogia non è trattare dati in funzione tecnica, ma esprimere e far valere dimensioni capaci di guidare l'azione educativa proprio in quanto trascendono l'oggettività effettuale. 2) Il personalismo e la pedagogia come scienza pratica
La prospettiva personalista ha continuato a essere diffusa dalla pedagogia cattolica. In questa sede interessa sottolineare i contributi di aggiornamento e apertura alle scienze dell'educazione che i suoi esponenti hanno saputo fornire dalla fine degli anni sessanta a oggi. Tra essi vanno ricordati Aldo Agazzi, Giuseppe Flores d' Arcais, Giuseppe Catalfamo, Pietro Braido e Mario Mencarelli. 345
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La relazione mezzi-fini viene giocata sul versante dei valori, all'interno di un' accezione della pedagogia come scienza pratica che assegna importanza sia al momento prescrittivo sia a quello metodologico. Si possono individuare posizioni differenti rispetto a tale concezione della pedagogia, che si pone in alternativa al modello tecnologico anche se viene supportata dalle rilevazioni sperimentali e dalle tecniche didattiche più avanzate. Per un verso, il carattere di scienza pratica rinvia a una rifondazione filosofica in aperta contrapposizione epocale al nichilismo della razionalità tecnico-scientifica (Acone, 1986) oppure configura la richiesta di un nuovo umanesimo, capace di impegnarsi nell'ambito delle scienze dell'educazione (Nanni, 1986), della ricerca didattica e curricolare (Scurati, 1983), dell'organizzazione scolastica e della condizione giovanile (Corradini, 1995). In altri autori il carattere di scienza pratica non rimanda tanto a una pedagogia di tipo regolativo, integrata da metodologie scientifiche, quanto a una vera e propria disciplina, autonoma e unitaria, di cui si possano formalizzare la struttura teorica e il modello operativo. Le due proposte più importanti, tra loro molto diverse, sono state elaborate da Sergio De Giacinto e dal gruppo trentino composto, tra gli altri, da Gino Dalle Fratte (1988), Franco Bertoldi (1981), Elio Damiano (1993). Educazione come sistema (1977) di De Giacinto (1921-89), per la sua vena pedagogica, la sistematicità e la compiutezza della trattazione, la chiarezza del dettato, la conoscenza di prima mano della letteratura epistemologica internazionale, resta un testo fondamentale. Suo intento essenziale è la formalizzazione della teoria pedagogica allo scopo di ribadire che l'evento educativo presenta, come oggetto diverso da quello delle scienze sociali, le caratteristiche della finalizzazione, della processualità e della compresenza delle variabili, viste tutte in chiave sistemica. La teorizzazione pedagogica non riguarda più i valori della persona (per questo si distingue da qualunque filosofia dell'educazione e da singole teorie educative); sua unità d'indagine è il rapporto educativo, inteso come relazione circolare. Relazioni circolari asimmetriche e compresenza di una molteplicità di variabili si danno in molti altri tipi di rapporto interpersonale. L'unico elemento di specificità resta quello relativo ai fini educativi. Ma l'utilizzazione del concetto di sistema come principio di identità, l'escursione tra livelli diversi di generalizzazione capaci di rendere conto dei rimandi tra teoria pedagogica e prassi educativa, la distinzione sia dalla filosofia sia dalle scienze dell'educazione, l'estensione del punto di vista pedagogico a tutti gli ambiti di esperienza, sono acquisizioni originali e importanti. L'esito è che la pratica educativa, non potendo e non dovendo essere una tecnica, si autocomprende come sequenza di gesti artistici mentre la pedagogia si riconfigura come una specie di poetica. Le condizioni di simili gesti devono però essere organizzate a partire da tutte le conoscenze scientifiche di cui si dispone; in questo modo la teoria pedagogica torna a riproporre la propria connotazione interdisciplinare. Il gruppo trentino (Dalle Fratte, 1986) privilegia una teoria dell'azione incentrata sul versante progettuale. Questo rinvia a una semantica dei valori cristiani
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che riduce l'ispirazione religiosa a una tavola di assiomi normativi. Il riferimento diretto a una sfera di valori sembra volersi equilibrare attraverso la loro esplicitazione e formalizzazione; al tempo stesso, tuttavia, il modello elaborato dal gruppo trentina rifiuta qualsiasi identificazione del discorso pedagogico con un processo di estrapolazione formale, sia perché intende essere uno strumento per l' apprestamento di concreti programmi educativi e conseguenti applicazioni didattiche, sia per salvaguardarsi da una neutralità sentita come incompatibile con la sua vocazione più autentica. La formalizzazione proposta dal gruppo trentina, diversamente da quella di De Giacinto, utilizza per la configurazione del modello procedimenti tecnici di logicismo deontico. Il riferimento a Georg H. von Wright serve ad assicurare un'aggiornata consistenza teorica alla distinzione tra spiegazione e comprensione, collocando su questo secondo versante il tipo di razionalità del discorso pedagogico in quanto relativo ad azioni individuali finalizzate. La qualificazione pedagogica del modello dipende dall'intento progettuale, quindi dal riferimento costitutivo a fini e valori determinati, piuttosto che da una ermeneutica dell'esperienza educativa o da una logica dell'azione didattica in sé considerate. Di esse ancora una volta sembra che non si riescano a demarcare caratteristiche proprie. Il modello risulta così dipendente, quanto al suo apporto conoscitivo, da quello di qualsiasi altra esperienza umana e azione sociale. Alla pedagogia non tocca conoscere, ma agire. 3) Il problematicismo e la pedagogia come filosofia trascendentale
La prospettiva problematicista è stata ulteriormente sviluppata da Giovanni Maria Bertin (1981) nel senso di un'analisi teoretica attenta alle espressioni più avanzate della cultura contemporanea, tesa a individuare le forme antinomiche dei modelli educativi nelle varie aggettivazioni sociali. Dal riferimento originario al pensiero di Antonio Banfi i contributi di Bertin si sono sviluppati con un'accentuazione sempre più esplicita di tendenze esistenzialiste, per quanto contenute da una istanza critico-razionale. Bertin ha ribadito una concezione della pedagogia come filosofia trascendentale dell'educazione, inclinando sempre più verso finalità di progettazione esistenziale tese a mitigare il degrado che caratterizza l'esperienza odierna. Particolarmente valorizzata viene a essere la dimensione estetica e religiosa, oltre a quella etica, sociale e intellettuale. Bertin, che ha proposto anche una originale interpretazione pedagogica dell'opera di Nietzsche, è stato il più convinto assertore di un concetto autentico di filosofia dell'educazione. Altri contributi teorici nell'ambito del problematicismo si devono a Frabboni, che ha fatto valere tale atteggiamento nella pedagogia militante, e a Maria Grazia Contini, che ne ha coltivato l'apertura verso le componenti emotive e relazionali. 4)
La fenomenologia e la pedagogia come scienza eidetica La prospettiva fenomenologica ha conosciuto nuova fortuna, specie negli anni 347
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ottanta, sia in ambito nordamericano - francofono e anglosassone - sia in Italia, dove è stata rilanciata da Piero Bertolini e dal gruppo bolognese dell'Enciclopaideia, di cui fanno parte, tra gli altri, Marco Dallari (1995) e Roberto Farné (1989). Negli Stati Uniti e in Canada la prospettiva fenomenologica viene praticata o come metodo per l'analisi di concrete situazioni scolastiche da parte dei non molti docenti di tendenze continentali presenti nelle Schools o/ Education o come critica postmarxista dell'ideologia scolastica (è il caso della rivista « Phenomenology and Pedagogy »). ];esistere pedagogico (Bertolini, 1988) propone di concepire la pedagogia come scienza rigorosa in senso fenomenologico. L'educazione costituisce una specifica regione antologica. La pedagogia, anziché aggettivazione naturalistica di dati di fatto, è intesa come analisi eidetica. Vengono così a manifestarsi le direzioni di senso intenzionali e originarie che strutturano l'educazione in quanto esperienza intersoggettiva di costituzione del mondo. Le principali di esse sono relative alle categorie di relazionalità, globalità, possibilità e irreversibilità e rivestono una duplice valenza: interpretativa e operativa, cognitiva e prasseologica (Bertolini e Caronia, 1993). Viene superata per questa via la contrapposizione tra versante teoretico e versante pratico tipica del sapere pedagogico, di cui risulta garantita l'autonomia proprio perché esso è salvaguardato da norme e valori esterni, rispetto a cui può svolgere una dinamica di trascendimento. Le ricerche fenomenologiche del gruppo hanno sondato alcune manifestazioni culturali di rilievo dell'esperienza postmoderna: dai nuovi codici artistici all'erotismo, dalla dimensione storico-temporale alla comunicazione linguistica (Bertolini e Dallari, 1988). Angelo Pranza (1988) ha esplorato la dimensione retorica e metaforica; Vanna Iori (1988) ha elaborato la prima trattazione organica della problematica educativa ispirata alle categorie dell'esistenzialismo heideggeriano. 5) Ermeneutica e pedagogia critica
La prospettiva ermeneutica è riconducibile anzitutto alla concezione tradizionale nella cultura tedesca, che rinvia a pensatori come Friedrich D.E. Schleiermacher e Wilhelm Dilthey, della pedagogia come scienza dello spirito in funzione antipositivista (Rorhs, 1971; Bohm e Flores d'Arcais, 1978; De Giacinto, 1986; Borrelli, 1993). Sebbene collegata con la filosofia dei valori, ha spesso costituito una posizione alternativa alle pedagogie di tipo normativa proprio sottolineando la sua destinazione pratica. Si tratta di una prospettiva volta all'interpretazione soggettiva, tendenzialmente relativista, delle diverse situazioni storiche, sociali, culturali in cui si realizza l'esperienza educativa; di queste viene enfatizzata al tempo stesso la fondazione antologica e antropologica. Una prospettiva ermeneutica più avanzata prende invece forma negli anni ottanta in seguito alla nuova attenzione riservata ad autori quali Nietzsche, Heidegger, Gadamer, Ricoeur, Pareyson e si sviluppa in un clima culturale segnato dalla « crisi della ragione», dal «pensiero debole» e dalle tendenze decostruttive del postmoderno.
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Nell'orientamento ermeneutico si individuano strategie differenti, corrispondenti alle sue diverse anime. Una prima strategia è quella decostruttiva: anziché accoglierne il significato più radicale, secondo cui la fine della pedagogia richiede una svolta epistemologica capace di superare il moralismo e il tecnicismo che si implicano a vicenda (Massa, 1987), tale strategia viene di solito capovolta nella denuncia di una crisi inquietante a cui porre rimedio con nuove tecniche e vecchi valori. Una seconda strategia è quella metodologica, praticata, in collegamento con la prospettiva psicoanalitica, come interpretazione clinica di concrete situazioni formative, ma anche di testi narrativi relativi a episodi e storie di formazione (Massa, 1992). Un altro collegamento proposto è stato quello con la semiologia (Gennari, 1992). La strategia metodologica può configurarsi anche come progetto complessivo di una ermeneutica dell'esperienza educativa, a partire da qualunque manifestazione testuale e culturale compresa l'azione in atto. Tale progetto è di particolare interesse per un nuovo modo di intendere sia l'analisi storica e letteraria del discorso pedagogico, sia l'analisi pedagogica dei documenti storici e letterari, delle produzioni cinematografiche e delle nuove forme artistiche. Una terza strategia ambisce alla ricostruzione etica e dottrinale, tanto nell'intento di una rinnovata ontologia fenomenologica attenta alle tendenze epistemologiche più recenti (Malavasi, 1992), quanto entro un assunto di pedagogia critica (Muzi e Piromallo Gambardella, 1995). Un simile assunto è presente nelle proposte di Alberto Granese, di Franco Cambi e del gruppo interuniversitario di ricerca pedagogica, composto tra gli altri da Eliana Frauenfelder, Giuseppe Spadafora, Enza Colicchi Lapresa e Rita Fadda. «Pedagogia critica» significa per questi autori riappropriazione degli «impliciti pedagogici» agenti nella filosofia, nell'epistemologia e nelle scienze - dalla linguistica alla biologia, dalla psichiatria al diritto (Porcheddu, 1990). Gli «impliciti pedagogici» sono costitutivi di quelle discipline senza venire riconosciuti come tali. Individuandoli, la pedagogia può svolgere una critica radicale delle teorie filosofiche, scientifiche ed epistemologiche nei confronti delle quali, invece, si è più spesso posta in relazione di dipendenza. Cambi (1986) insiste sulla caratterizzazione storica, dialettica e razionale del sapere pedagogico, e quindi sulla compresenza della dimensione filosofica, di quella politica e di quella scientifica. Granese, in Il labirinto e la porta stretta (1993), vanifica infine ogni intento di specificazione epistemologica e filosofica. Egli utilizza gli esiti antiteoricisti della decostruzione postmoderna per un ritorno all'antologia religiosa del premoderno, incentrato sulle categorie di cura e salvezza. L' approdo postfilosofico a cui perviene la fine della modernità comporta una pedagogizzazione del sapere e dell'esperienza che fa venir meno la distinzione stessa tra educazione e pedagogia. È significativo che una riconversione di questo tipo d<"li' approccio teorico risulti solidale con una posizione di empirismo didattico: la fine della pedagogia coincide con l'aspirazione a effonderla in ogni ambito, sotto forma di tecnicità o eticità. 349
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6) Implicazioni metateoriche
Rispetto alle questioni di struttura già indicate a proposito delle prospettive empiriste, gli orientamenti umanisti presentano opzioni fondamentali di altro segno. Sia pure con accentuazioni diverse, la regola comune a tutte le posizioni umaniste è quella della essenzialità dei fini, che vengono però intesi come interni (problematicismo, fenomenologia, ermeneutica) o esterni (personalismo) alla grammatica propria del discorso pedagogico. Quest'ultima, pur utilizzando generalizzazioni nomotetiche, privilegia il riferimento all'individuale, nel senso di una soggettività motivata e orientata o di una realtà spirituale libera e responsabile. La giustificazione logica del discorso pedagogico è di tipo apofantico e interpretativo o deontico e prescrittivo. La regola è quella della comprensione idiografica. I metodi e le tecniche della ricerca sono pratiche di analisi testuale e di elaborazione argomentativa, oppure rilevazioni empiriche ausiliarie. Il linguaggio è analogico ed espressivo o retorico e pragmatico, corrispondente al genere letterario del saggio critico o del manifesto auspicativo e mirante alla diffusione di criteri persuasivi e normativi. L'oggetto del discorso pedagogico, sempre sfuggente, è cercato in riferimento a una dimensione trascendentale o progettuale. L'autonomia è intesa come indipendenza dal dogmatismo ideologico o dalla razionalità scientifica. Le categorie dottrinali sono filosofiche o interdisciplinari. La struttura teorica oscilla tra l'informale e il formale. La pedagogia, rivendicando un primato sulla didattica, s'identifica di fatto con la filosofia dell'educazione (AA.VV., 1992) o con l'epistemologia pedagogica, ed è comunque esterna alle scienze dell'educazione. Privilegio dell'educazione, sollecitudine verso l'infanzia e preoccupazione per l'adolescenza, sostegno alla famiglia, enfasi sulla dimensione sociale, articolazione in discipline concernenti le diverse metodologie educative, collocazione accademica in percorsi autosufficienti di preparazione pedagogica: ecco alcune ulteriori implicazioni delle prospettive umaniste accomunate dalla centralità dell'istanza educativa in qualunque contesto istituzionale. III
·
LE
PROSPETTIVE
MATERIALISTE
E
IL
PARADIGMA
CLINICO
r) Un orizzonte di convergenze possibili
L'analisi delle prospettive empiriste e di quelle umaniste ha consentito di rilevare alcune tendenze che concorrono a configurare un nuovo scenario per la ricerca pedagogica oltre l'accanimento assiologico e tecnologico: l'impegno di una didattica antidogmatica, capace di confrontarsi in maniera propositiva con le mutazioni antropologiche del tardo-capitalismo; l'insistenza della psicologia cognitiva più matura sulla dimensione contestuale, storica e discorsiva - in una parola pedagogica - del nesso tra cultura e conoscenza, come attribuzione continua di significati; lo svincolamento dell'analisi fenomenologica da presupposti coscienziali e la 350
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sua attivazione rispetto allo studio spregiudicato dei sistemi di inclusione tra soggetto ·e oggetto nel mondo della vita; l'estensione della sottigliezza formale ad azioni didattiche idiograficamente tematizzate; la teorizzazione sistemica e processuale dell'evento educativo come relazione circolare sovradeterminata; la valenza euristica e teoretica dell'ermeneutica contemporanea riguardo alla narrazione e alla concettualizzazione delle esperienze formative; il radicalismo di una pedagogia critica rispetto alla riqualificazione delle categorie filosofico-scientifiche entro cui vengono trattate le problematiche educative. A queste tendenze si può aggiungere la nuova filosofia anglosassone dell'educazione, che si è lasciata alle spalle la tradizione analitica e si confronta apertamente con le correnti della cultura postmoderna, da J. Lacan a J. Derrida, da M. Foucault a J.-F. Lyotard (Usher e Edwards, 1995; Gitlin, 1995; Kohli, 1995). La decostruzione postfilosofica e postpedagogica deve oltrepassare ogni presupposto umanista ed empirista, ogni pretesa moralista e tecnicista, ogni arretramento nostalgico e consolatorio nel premoderno. Sia il progetto di una egemonia dell'indagine sperimentale sia quello di una fondazione su presupposti filosofici e normativi sono falliti. Ma proprio a partire dalla fine, nella cultura contemporanea, della pedagogia come disciplina teorica e di ricerca che si è troppo compiaciuta di non far valere la sua identità (Massa, 1987), si possono riproporre in maniera non più rigida e contrapposta istanze nuove di sperimentalismo e metaconoscenza. La tolleranza epistemologica e la liberalizzazione metodologica consentono al sapere pedagogico di riappropriarsi di queste sue attitudini fondamentali e riformularle autonomamente, arrecando un contributo originale su entrambi i versanti senza più limitarsi ad acquisizioni strumentali e deduttive. Sono le istanze e i risultati della ricerca più consapevole a valorizzare le possibili convergenze della prospettiva sistemico-costruttivista (diffusa da autori come von Foerster, Prigogine e Stengers, Maturana e Varela, Morin, Bocchi e Ceruti, Fabbri e Munari) con alcuni motivi derivanti dalla fenomenologia, l'ermeneutica e la psicoanalisi, di cui vengono relativizzati gli aspetti dogmatici e unilaterali ancora presenti. Un tale orizzonte può essere prospettato in senso materialista perché ribadisce che l'esperienza educativa (cognitiva e affettiva nel medesimo tempo) è null'altro che una continua generazione, connessione, trasformazione ed estinzione di costrutti pratico-sociali operanti su eventi fisici ed emotivi. Essa non consiste in rappresentazioni di tipo intellettuale, come vorrebbero il razionalismo e l'empirismo, ma in una «macchina teatrale» di strutture materiali a specifica valenza simbolica che si esprimono in sistemi relazionali complessi. Sono la loro autoreferenzialità e processualità, la loro irreversibilità e ricorsività a rendere conto della ricchezza di significati che caratterizza sia i vissuti delle storie di formazione, sia le situazioni educative in quanto tali, dimensioni completamente ignorate e inesplorate dall'ordinamento empirista o metafisicamente inquadrate da quello razionalista. Quello in questione è ovviamente un materialismo critico, privo di qualunque 351
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assolutezza scientifica o filosofica e interessato a problemi di senso e non di realtà a sé stanti. La sua specificità pedagogica consiste nel fatto che solo una molteplicità di processi formativi autopoietici, con le loro intrinseche e peculiari proceduralità, non un insieme di principi oggettivi o soggettivi, può spiegare la configurazione della vita sociale e individuale. Il concetto di apprendimento, così enfatizzato, risulta tuttavia insufficiente perché sembra presupporre delle entità statiche predefinite che possano essere oggetto di modellizzazione o informazione in senso semplicemente interattivo. La conoscenza è riportata alla sua matrice corporea ed emotiva, cioè esistenziale, come nell' approccio « enattivo » di Francisco Varela e prima ancora in quello fenomenologico di Maurice Merleau-Ponty. Tutto questo comporta il passaggio in avanti dal clima decadente del poststrutturalismo a un nuovo strutturalismo ermeneutico e non metafisico, relativo a una pluralità di costrutti convenzionali anziché ad alcune strutture determinanti. Esso si configura infatti come una « micrologia dell'educazione». La prospettiva sistemico-costruttivista chiede di essere ripensata nel dominio delle scienze umane, al di fuori di ogni contrapposizione con quelle naturali. Le sue espressioni più avanzate inclinano a tematizzare tanto il versante affettivo quanto la dimensione storica e quella clinica. È così possibile oltrepassare il modello puramente biologico e il prevalente riferimento alle scienze cognitive - dalla psicologia genetica all'informatica, dalla cibernetica agli studi sull'intelligenza artificiale e alla neurofisiologia - da cui pure sono derivate, per l'epistemologia «della complessità», una diffusione e una legittimazione maggiori rispetto ad analoghe istanze filosofiche. Poter valorizzare, su di un piano interno al lavoro scientifico, il casuale, il contingente, il residuale, il molteplice, il mutevole, - quindi l'individuale, l'ambiguo, il latente - rinvia alla centralità di una dinamica organizzativa sempre provvisoria, invece che a un ordine necessario e garantito. Le condizioni che interessano la pedagogia riguardano le regole minute di strutturazione e destrutturazione in atto, cioè di crescita e cambiamento a partire da una infinità di invarianze ricorrenti. L'attenzione si deve spostare sia sulla strutturazione sempre in /ieri delle procedure che inducono tali processi, nelle loro regolarità e significazioni affettive, simboliche e culturali, sia sulla conoscibilità pedagogica di tale « materialità educativa» (Barone, 1994). Sarebbe insufficiente limitarsi ad applicare alla formazione l'idea di «epistemologia operativa», così com'è avvenuto a suo tempo per l'epistemologia genetica in campo didattico. Essa esige di essere esplicitata non solo nel senso di una epistemologia della formazione, ma soprattutto in quello di una epistemologia pedagogica che coniughi insieme costruttivismo psicologico e strutturalismo teorico sul terreno dei saperi sociali e antropologici. 2) Il marxismo e la pedagogia come teoria emancipatoria
Sino agli inizi degli anni ottanta era ancora fiorente la prospettiva marxista. Essa aveva ricevuto una sollecitazione particolare dall'analisi di Louis Althusser della 352
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scuola come apparato ideologico di stato. In Italia il marxismo, a partire dalla rilettura di Marx e Gramsci operata da Mario Alighiero Manacorda, era stato uno dei protagonisti del dibattito pedagogico del dopoguerra, insieme al pragmatismo e al personalismo (Cives, 1978). Al tramonto dell'età contestataria il marxismo si declina come dialettica interdisciplinare (Granese, 1976), come critica dell'ideologia e dell'epistemologia pedagogica (Broccoli, 1978) e come storia sociale dell'educazione (Santoni Rugiu, 1979). Una proposta di valorizzazione e integrazione dell'epistemologia strutturalista di Althusser con la nuova filosofia della scienza, in netto contrasto con una soluzione filosofica e interdisciplinare, è stata avanzata invece con La scienza pedagogica (Massa, 1975). L'assunto era quello di una disciplina specifica e unitaria, incentrata sul concetto di metodo educativo in quanto struttura funzionale dotata di autonomia relativa rispetto alle determinazioni economiche e ideologiche. Ma il marxismo italiano, specie quello pedagogico (Trebisacce, 1985), era troppo intriso di storicismo e di umanismo per potersi aprire al tema della nascita di una nuova scienza attraverso l'astrazione dell'oggetto di conoscenza. Gli stessi riferimenti a Gaston Bachelard, anziché orientarsi in questa direzione, si limitavano in quegli anni a enfatizzare la problematica dell'educazione scientifica, come avveniva d'altronde nella lettura di Thomas Kuhn o di Piaget. Un'altra ricaduta pedagogica del marxismo è mediata dal riferimento alla scuola di Francoforte, quindi a Th.W. Adorno, M. Horkheimer, H. Marcuse, e poi a ]. Habermas. Questa tendenza era presente nella pedagogia « emancipatoria » di lingua tedesca (Lempert, 1971), ma anche nella «pedagogia» radicale americana, attenta ai testi di Gramsci e Foucault oltre che alla teoria della descolarizzazione di Ivan Illich e alla «pedagogia degli oppressi» di Paulo Freire (Apple, 1979 e 1982; Aronowitz e Giroux, 1985 e 1991; Giroux e McLaren, 1994). È stata riproposta in Polonia dalla «pedagogia della frontiera» di Lech Witkowski, all'interno di una complessa visione filosofica intesa come «antologia dell'ambivalenza», con interessanti rimandi alle concezioni educative di Richard Rorty, e dalla «socio patologia dell'educazione» di Zbigniew Kwiecinski (Kwiecinski e Witkowski, 1993). Sempre negli Stati Uniti si è sviluppata anche una sociologia radicale dell'educazione (Allen Morrow e Torres, 1995), tesa a superare la teoria della riproduzione sociale di Pierre Bourdieu e Jean-Claude Passeron (1970). L'intento comune a queste ricerche è quello di individuare, nella crisi della scuola propria della società tardo-capitalista (Goodlad, 1984) e nelle contraddizioni di quest'ultima, alcuni avamposti di resistenza intellettuale. La prospettiva neomarxista e postmarxista, che si rifà in vario modo al materialismo storico, riportando il concetto di educazione a quello di prassi, intende dunque la pedagogia come teoria ePlancipatoria (Cambi, 1994). Raffaele Mantegazza (1995) ha delineato l'esito di una teoria critica della formazione come pedagogia della resistenza, a partire dalla riflessione sulla Shoah: la pedagogia di Auschwitz porta a compimento quella espropria353
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zione dell'individuo prodotta dalla razionalità occidentale che prosegue tuttora nei modi alienanti di una educazione invisibile. 3) Le componenti storico-sociali
L'interesse della prospettiva neomarxista per le componenti storico-sociali della formazione rende necessario aprire una breve parentesi per segnalare che in questa sede si è evitato di soffermarsi sulla sociologia dell'educazione (Cesareo, 1972; Barbagli, 1972) in quanto del tutto interna alla ricerca sociologica in senso proprio. Essa risulta nondimeno essenziale nel quadro delle scienze dell'educazione, sia per quanto concerne la gestione dei sistemi formativi, in connessione con l'economia dell'istruzione, sia perché richiama le prospettive empiriste alla materialità sociale in cui si inserivano i fenomeni educativi (Sarup, 1994). Tra gli aspetti indagati dalla sociologia dell'educazione vi sono le dinamiche di modernizzazione del sistema scolastico, la socializzazione familiare, la condizione giovanile, la questione femminile, il rapporto tra formazione professionale e mercato del lavoro. Un discorso analogo andrebbe fatto per l'antropologia culturale, soprattutto con riferimento alla centralità dell'educazione multietnica (Callari Galli, 1993). Tra i pedagogisti che si sono occupati di problematiche sociali meritano di essere ricordati Paolo Orefice e Cosimo Scaglioso. Interni alla ricerca educativa sono sia l'apporto degli studi di educazione comparata (Todeschini e Ziglio, 1992), che hanno conosciuto un grande sviluppo internazionale, sia quello delle indagini storiografiche. Quest'ultimo si è caratterizzato per la spiccata attenzione alle condizioni materiali dell'esperienza educativa e del pensiero pedagogico (Fornaca, 1977; Becchi, 1987). Tra i molti autori di diversa impostazione che si sono impegnati in Italia in questo settore si ricordano inoltre Dina Bertoni }ovine, Tina Tomasi, Giovanni Genovese, Franco Cambi, Nicola Siciliani de Cumis, Simonetta Ulivieri, Fabrizio Ravaglioli, Bruno Bellerate e Luciano Pazzaglia. La ricerca storica in pedagogia è approdata a livelli sofisticati, che vanno dalla storia dei modelli di pensiero a quella delle istituzioni, del costume e delle mentalità educative, secondo una linea che ha tra i suoi riferimenti principali il noto contributo dello storico francese Philippe Ariès sulla nascita del sentimento per l'infanzia nell'Europa moderna. 4) Lo strutturalismo e la pedagogia come archeologia dei dispositivi educativi
La prospettiva strutturalista (Laprea, Mezzi, Re Depaolini e Traversari, 1985) si incentra sulla valenza pedagogica di autori quali Lévi-Strauss, Althusser, Lacan e soprattutto Foucault. Suggestioni derivanti dall'approccio foucaultiano erano presenti nel solo testo di schietto interesse pedagogico scritto in Italia da un filosofo esterno alla comunità dei pedagogisti. Si tratta di Educazione (1978) di Fulvio Papi, che illustra con efficacia la « trasfigurazione infelice» del pedagogista nel cognitivismo didattico, in seguito al venir meno del concetto di «educazione buona» pro354
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prio della tradizione idealista. Nel volume Le tecniche e i corpi (Massa, 1986) viene proposta una concezione della pedagogia come conoscenza di strutture latenti e come archeologia del sapere educativo nella sua funzione generativa, piuttosto che applicativa, delle scienze umane moderne, messa appunto in luce da Foucault. L'importanza di Michel Foucault (1926-84) per la ricerca educativa, che le consuete letture antipedagogiche si sono lasciate sfuggire ribaltandosi nella denuncia di un'educazione« cattiva», è legata essenzialmente alla nozione di« dispositivo», introdotta in Surveiller et punir del 1975 e fatta esplodere nella Volonté de savoir del 1976. Un dispositivo non si identifica con una istituzione o una tecnica determinata, non proviene da un potere meramente repressivo, non è l'esito di una progettazione soggettiva intenzionale e consapevole. Esso è capace di produrre effetti di assoggettamento non limitati a dimensioni cognitive proprio in quanto la sua materialità è invisibile e latente, contestuale e diffusa. La nozione di «tecnologia educativa» dello spazio, del tempo, del corpo e delle attività, che a sua volta ne deriva, è cosa del tutto diversa da quella così fallace e riduttiva, sia sul piano esplicativo sia su quello operativo, celebrata dalle prospettive empiriste e dalla programmazione didattica. Oltre a rendere pienamente conto del nesso costitutivo tra il paradigma tecnologico della grande tradizione pedagogica e la fondazione della psicologia scientifica, una nozione di tecnologia educativa così intesa spiazza definitivamente l'illusione umanista di una scienza pratica fondata su una base di valori. Viene così superata qualunque oscillazione tra onnipotenza e impotenza formativa. Il limite che istituisce un'autentica criticità pedagogica, sempre priva di qualunque certezza, è quello del corpo stesso e della sua capacità di resistenza, piuttosto che un'astratta velleità morale e intellettuale rispetto a fini od obiettivi preordinati. In quanto tecnologia dell'educazione, la pedagogia è nul1' altro che una genealogia dello spirito. Oltre alla nozione di dispositivo disciplinare, nella duplice accezione, tipicamente pedagogica, di esercizio di governo e produzione di sapere (Ball, 1990), è tutta una « semiotecnica » come manipolazione emotiva dell'anima a essere concettualizzata nella sua specifica « verità » pedagogica. Quanto alla funzione educativa svolta dal dispositivo di sessualità, oltre che dalle preoccupazioni sanitarie della borghesia essa deriva dalla pastorale cristiana prima, dall'approccio clinico della psicoanalisi e delle scienze umane poi, vale a dire dalla loro configurazione originaria nel senso di una pedagogia scientifica e del suo esercizio sociale (la cultura orientale aveva privilegiato un dispositivo iniziatico). Le istanze erotiche e di potere non sono più viste come interferenti con le pratiche educative, di cui anzi costituiscono le sorgenti più autentiche e significative. Il dispositivo si configura in senso squisitamente sistemico, come un reticolo di strategie, tattiche e procedure specifiche, un gioco di regole proprie dotato di autonoma positività educativa. A partire dalla filosofia greca e dalla problematizzazione del desiderio, il dispo355
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s1t1vo sessuale si declina come ripiegamento in pratiche di soggettivizzazione e stilizzazione esistenziale, come un insieme di « tecnologie del sé » che riguardano sia la vita adulta sia il rapporto con i ragazzi. Al di là della « governamentalità », è la « proceduralità » costitutiva dell'esperienza il vero oggetto che restituisce unità all'intero percorso foucaultiano. Un simile impianto, come ha denunciato Baudrillard, è però carente di una dimensione essenziale per rendere conto della materialità educativa, quella simbolica. 5) La psicoanalisi e la pedagogia come clinica della formazione
È con particolare riferimento alla dimensione simbolica che viene a innestarsi in un orizzonte materialista, anche nel senso della quotidianità dell'educare, delle sue componenti inconsce e istintuali, la prospettiva psicoanalitica. L'incontro tra pedagogia e psicoanalisi (Lombard, 1973) è stato spesso mancato a causa del pregiudizio cognitivista della prima e di quello antipedagogico della seconda (Millot, 1979; Miller, 1980). Va dunque segnalato come un guadagno di entrambe il passaggio dalla vecchia pedagogia psicoanalitica, anche attraverso il suo capovolgimento contestatario, all'emergenza dei temi relativi alla fantasmatica della formazione (Kaes e altri, 1973), alla relazione educativa (Postic, 1979 e 1989) e all'apprendimento mentale (Benedetto, 1994; AA.VV., 1995). Essi s'impongono a partire dalle problematiche dell'analisi didattica e delle dinamiche di gruppo, ma rinviano subito a quelle dello sviluppo infantile e adolescenziale, con esplicite ricadute psicopedagogiche in riferimento ad autori come Wilfred R. Bion e Donald W. Winnicott. Un richiamo costante alla psicoanalisi è presente nel lavoro condotto a più riprese da Egle Becchi sull'idea di infanzia. Il gruppo milanese composto da Riccardo Massa (1992), Angelo Pranza Ù993), Paolo Mottana (1993), Anna Rezzara (1983) e Maria Grazia Riva (1993) ha messo a punto, nelle varie implicazioni epistemologiche, dottrinali e metodologiche, una nuova pratica di ricerca e intervento denominata «clinica della formazione». Essa riporta l'istanza critico-riflessiva a un concreto lavoro sul campo, che presenta nel contempo valenza euristica e formativa. Il gruppo ha documentato sia le ricerche condotte con questa metodologia, sia le esperienze di intervento con formatori aziendali, insegnanti, educatori professionali, operatori sociali e sanitari, giovani e genitori. Da tali esperienze sono derivate indicazioni euristiche circa i modelli di elaborazione cognitiva e affettiva del lavoro di formazione. Il retroterra dottrinale di queste ricerche si prefigge di integrare in una prospettiva neostrutturalista le posizioni più avanzate delle revisioni cognitiviste e psicoanalitiche, utilizzando anche gli studi sulle rappresentazioni sociali oltre ad alcuni contributi dell'antropologia culturale e dell'analisi organizzativa. L'intento di questa apertura multidimensionale è riappropriarsi di un ampio ventaglio di suggestioni allo scopo di arretrare, in setting individuali e di gruppo, a materiali linguistici preteorici che consentano la ricostruzione autonoma di una teoria della formazione.
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Il percorso, a partire da un esplicito contratto e alcune regole fondamentali, utilizza ancoraggi interni (storie personali ed episodi concreti di formazione), esterni (documenti letterari, produzioni artistiche e cinematografiche, riprese audiovisive di situazioni educative e didattiche) e simbolico-proiettivi (composizioni plastiche e grafico-pittoriche, attività corporee ed espressive, drammatizzazioni teatrali, ecc.). È così possibile produrre materiali linguistici e iconici su cui operare attività di categorizzazione dei modelli di comprensione, interpretazione dei codici affettivi e destrutturazione dei dispositivi di elaborazione. Sono questi gli oggetti propri di una latenza pedagogica sempre in atto nelle vicende, nelle rappresentazioni, nelle relazioni e nelle situazioni formative anche non intenzionali. Fondamentale risulta il passaggio dalla nozione di setting clinico a quella di setting pedagogico, visto come matrice del primo. Viene in tal modo esplicitato il carattere clinico proprio dell'intero sapere pedagogico: la ricerca educativa si configura come una semeiotica della formazione e delle sue credenze attraverso modi rigorosi di empiria, piuttosto che come un accesso privilegiato di tipo empatico. Anche il sapere degli educatori rientra tra quelli di cui Carlo Ginzburg ha posto in luce il carattere indiziario rispetto a una molteplicità di « spie » circostan~iate e qualificanti. L'orientamento clinico si allarga, da dimensione euristica di tipo empirico-ermeneutico, a profilo epistemologico complessivo entro cui è possibile ripensare la storia del sapere pedagogico nel suo rapporto vitale con le pratiche educative. 6) Il costruttivismo e la pedagogia come epistemologia
La prospettiva sistemico-costruttivista si è affermata negli ultimi anni anche in pedagogia contribuendo alla sua accezione come epistemologia educativa, come analisi dei sistemi di conoscenza che sono prodotti dai processi di apprendimento e presiedono a essi (Perticari, 1992). Duccio Demetrio (1992) è l'autore italiano che sin dai Saggi sull'età adulta (1986) ha saputo rielaborare tale prospettiva con esiti originali nella ricerca qualitativa (dove ha rivolto particolare attenzione all'approccio autobiografico), nella formazione degli adulti e nell'educazione interculturale. Andrea Canevaro (1988), studioso della «pedagogia istituzionale» di taglio psicosociale (Vasquez e Oury, 1967; Lapassade, 1970), ha elaborato il concetto di« sfondo integratore » nel campo dell'inserimento degli handicappati (Canevaro e Gaudreau, 1988), rifacendosi alla posizione ecologica di Gregory Bateson. La teoria dei sistemi è stata utilizzata dalla cultura francese della formazione (Berbaum, 1982). A parte De Giacinto e Bertolini, essa risultava presente, in chiave didattica, anche in autori quali Renzo Titone, Franco Bertoldi, Umberto Margiotta ed Epifania Erdas. La vocazione sistemica e costruttivista della pedagogia, del resto, era già evidente nella concezione transazionale dell'ultimo Dewey e si è oggi prolungata nell'acquisizione della . nozione di complessità (Cambi, Cives e Fornaca, 1991; De Mennato, 1994). Un caso a sé è costituito dall'ampio studio sociologico di Niklas Luhmann e 357
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Karl Eberhard Schorr, Re/lexionsprobleme im Erziehungssystem (1979). Qui la prospettiva sistemi ca risulta efficace per una critica documentata dell'epistemologia p edagogica tradizionale e dell'establishment che la sostiene. La pedagogia non è più vista umanisticamente o empiristicamente come espressione autonoma di cultura scientifica e filosofica. Essa costituisce il prodotto autoreferenziale delle forme di riflessività a cui ricorre il sistema scolastico per semplificare, attraverso «formule di contingenza» via via più adeguate, la sua crescente complessità, dovuta all'inclusione di tutta la popolazione interessata. Al di là dell'esplicito conservatorismo rispetto ai problemi di selezione e del fastidio per ogni tendenza riformista, l'analisi è sconcertante nell'evocare questi enormi« oggetti pensanti», storicamente determinati, che raggiungerebbero una sorta di autocoscienza assoluta solo nella teoria sociale su base sistemica. Ma la distinzione tra funzione generale e prestazioni specifiche reciprocamente contraddittorie, l'identificazione di «ambiti di coincidenza» tra sistema scolastico, famiglia, università e industria, la denuncia dello scarto semantico del termine «formazione» dall'idea di bildung a quella odierna di prevalente sapore aziendale, la critica del « metodologismo » della didattica umanista e del deficit tecnologico di quella empirista, sfociante nel mito dell'insegnare ad apprendere, la centralità di un approccio ai problemi scolastici in termini di scienza dell'organizzazione costituiscono apporti d'inconsueta potenza teorica. 7) La scienza pedagogica in una concezione aperta e pluralista della ricerca sull'edu-
cazione Il poco spazio a disposizione e la vastità del campo di riferimento hanno imposto a questa analisi alcune limitazioni. Non si è voluto soffermarsi sulle valenze educative implicite nella filosofia, nell'epistemologia e nelle altre scienze, né tanto meno sulle concezioni occasionali di loro esponenti. Neppure si è potuto attardarsi sulle vicende storiche, peraltro evidenti, che hanno indotto gli sviluppi più recenti della ricerca educativa. Analogamente sono state trascurate le questioni istituzionali (quelle scolastiche in primis), e i drammatici problemi, che sono del resto sotto gli occhi di tutti, dell'educazione di bambini, giovani e adulti. Anche l'importante settore dei modelli teorici e operativi, di matrice psicosociale ma interni a una competenza pedagogica, concernenti la formazione aziendale non ha potuto essere trattato. Si è preferito limitarsi all'ambito riconosciuto a livello internazionale come proprio della pedagogia e della sua comunità di ricerca. In linea con gli intenti dell'opera di cui fa parte, si è scelto di privilegiare in questo contributo le componenti filosofiche e scientifiche che la ricerca pedagogica ha espresso negli ultimi decenni. La difficile riconoscibilità del dominio pedagogico è risultata un punto di forza utile a riproporre in maniera aperta e significativa l'intera problematica epistemologica. Per concludere l'analisi delle prospettive materialiste, si può tentare di enuclearne le implicazioni metateoriche come già è stato fatto per gli altri indirizzi. La natura della pedagogia attiene al campo delle scienze psicosociali. Il suo scopo è
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conosclttvo. La regola è quella dell'efficacia epistemica e della comprensione trasformatrice. L'educazione è vista come un processo autopoietico. La relazione mezzifini è un dato costitutivo dell'oggetto di conoscenza e non richiede di essere tematizzata nel senso di una programmazione tecnica o di una prescrizione pratica. La regola è quella della effettualità materiale. Alle insufficienze dei modelli tecnologico ed estetico si sostituisce una giustificazione logica di tipo indiziario e ricostruttivo, incentrata sulla complessità sistemica e sulla sovradeterminazione strutturale a partire da singole situazioni. Rispetto al rapporto tra individuale e generale come pure a quello tra libertà e causalità, le prospettive materialiste tendono a istituire una circolarità continua tra sapere pedagogico ed esperienza educativa, tra saper sapere, saper essere e saper fare, sostituendo a quelle contrapposizioni una dinamica sempre aperta di vincoli e possibilità. La regola è quella della tolleranza epistemologica. I metodi e le tecniche di ricerca sono di tipo clinico e qualitativo, oltre che storico, comparativo e sperimentale: la regola è quella della liberalizzazione metodologica e del pluralismo che ne consegue. Il linguaggio e il genere letterario sono di tipo teorico ed espressivo, aperti all'acquisizione di testimonianze narratologiche ed etnografiche e miranti a una comunicabilità universale culturalmente qualificata. Oggetto specifico della pedagogia è la struttura latente dei dispositivi educativi come sistemi procedurali in atto. La pedagogia tende a essere autonoma da qualsiasi presupposto normativa che non siano le implicazioni della ricerca, messe al vaglio dal suo andamento. Le categorie dottrinali sono aperte a qualunque contaminazione transdisciplinare, contro ogni idiotismo corporativo, ma orientate alla produzione di un nuovo apparato concettuale con una specifica incidenza euristica. La struttura metateorica è tematizzabile in senso archeologico e genealogico, nel quadro di una epistemologia storica non fondazionale. La pedagogia, in quanto scienza pedagogica differenziata, è una delle scienze dell'educazione. Queste ultime sono rappresentate da tutte le scienze psicosociali, tra cui la psicoanalisi e l'antropologia culturale, in quanto si specializzano, dai rispettivi punti di vista, riguardo all'analisi delle componenti educative. La pedagogia è arricchita da un continuo processo di meticciato culturale: ribadire la sua specificità significa sottolineare l'esigenza, anziché di una scienza compatta o dispersa dell'uomo e dell'educazione, di un movimento incessante di contaminazione e individuazione disciplinare. Ogni individuo è sempre, sin dall'inizio, un meticcio, e ogni meticcio può essere tale solo in quanto individuo: questa è la verità del superamento di ogni distinzione pregiudiziale tra scienza, tecnica, arte, filosofia, come tra le diverse discipline e le varie pratiche. Un'autentica pedagogia generale non può che costituirsi come scienza pedagogica particolare, legittimando al proprio fianco sia una vera e propria epistemologia pedagogica, sia una filosofia dell'educazione in quanto disciplina squisitamente filosofica. Le esigenze di connessione e mediazione in senso pragmatico e funzionale non sono da intendersi come imposizione di un punto di vista sovrano, secondo 359
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Il dibattito epistemologico sulla pedagogia e le scienze dell'educazione
un'analogia surrettizia con la politica o l'ingegneria, ma chiedono di essere fatte valere a partire dall'oggetto stesso della disciplina pedagogica. È da esso che deriva un modello trasversale di competenza educativa a elevata valenza professionale. Le istanze normative e statutarie sono del tutto escluse. Un campo siffatto di indagine, cui si affiancano la storia della pedagogia e dell'educazione da un lato, l'educazione comparata dall'altro, è denominabile con l'espressione d'insieme di «pedagogia e scienze dell'educazione», che implica l'esistenza non gerarchizzabile di una scienza pedagogica. Essendo quest'ultima attività di ricerca empirica sui dispositivi dell'azione formativa, la didattica, sia come metodologia generale degli interventi educativi sia come messa a punto di tecniche di istruzione rispetto a contenuti determinati, ne costituisce una istanza fondamentale e una delle estensioni più significative. La nozione di scientificità è priva di qualunque pretesa veritativa, ma implica un'attribuzione di rigore discorsivo e pertinenza tematica, di referenza critica ed efficacia pratica. La razionalità pedagogica è relativa a una pluralità di costrutti dialettici in funzione ermeneutica ed emancipatoria. Questo orizzonte epistemologico impone alla pedagogia una serie di sfide nuove e appassionanti: porsi al di là del primato dell'istruzione o dell'educazione, ridefinire il concetto di formazione, superare la contrapposizione o la riduzione reciproca di cognitivo e affettivo. E ancora: valorizzazione dell'età adulta e della primissima infanzia, ripensamento globale della scuola e riappropriazione della formazione aziendale, attenzione agli aspetti organizzativi ma anche alle dimensioni ludiche ed espressive, presidio di setting educativi in ambito extrascolastico, tematizzazione delle componenti pedagogiche sempre presenti in ogni produzione culturale, fruizione da parte di qualunque pubblico interessato a una esplorazione intellettuale dell'esperienza, articolazione interna a tutto campo, collocazione accademica in nuove facoltà di scienze della formazione (tanto in curricoli specifici di ricerca e professionalità pedagogica quanto in quelli per insegnanti) e nel contempo presenza essenziale nei corsi di laurea in filosofia, psicologia e sociologia. Quanto alle sfide dell'educazione a livello locale e planetario, queste riguardano anzitutto gli interessi materiali, le scelte politiche e i comportamenti di ciascun individuo.
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CAPITOLO
DECIMO
Le teorie sociologiche contemporanee. Il superamento del dualismo e la ricerca di nuove sintesi DI
I
SERENA VICARI
· INTRODUZIONE
Negli ultimi decenni la sociologia ha ottenuto un crescente riconoscimento tra le discipline scientifiche e ha conosciuto una grande espansione del suo campo di intervento. In tutti i paesi industrializzati è aumentato il suo peso nelle università e si sono moltiplicate le aree oggetto di ricerca empirica. Al contempo questa disciplina soffre di ricorrenti crisi, rimane comunque una disciplina dallo statuto teorico controverso, contraddistinta da una pluralità di prospettive teoriche in competizione e da approcci e strumenti metodologici diversi. Grazie agli sviluppi teorici che si sono manifestati negli ultimi anni la sociologia presenta oggi una diversa definizione della natura e dei compiti della disciplina, più chiari confini, ancorché problematici, rispetto alle altre discipline, ma anche una maggiore apertura verso un approccio multidisciplinare nell'affrontare i tradizionali temi dell' analisi sociologica. Le diverse teorie sociologiche hanno percorso di recente un cammino largamente convergente e tendono oggi a muoversi su diversi livelli di analisi e a integrarsi vicendevolmente. Nel delineare questo cammino possiamo distinguere due sviluppi fondamentali. Il primo riguarda l'uscita dall'egemonia del funzionalismo e l'affermarsi di teorie sociologiche alternative che portano il fuoco dell'analisi a livello dell'interazione tra individui. Il secondo interessa il problema dei legami fra le teorizzazioni che riguardano il comportamento dell'individuo e quelle che riguardano la società nel suo complesso e le strutture sociali in particolare. Gli studiosi lavorano quindi all'integrazione tra il livello micro e il livello m acro dell'analisi e tra analisi centrate sull'attore e analisi centrate sulle strutture sociali e si impegnano nella ricerca delle connessioni teoriche tra approcci diversi per produrre composizioni, sintesi teoriche complesse e articolati programmi di ricerca empirica. Si parla di sintesi al plurale perché si guarda con un certo scetticismo al perseguimento di una grande teoria onnicomprensiva mentre viene ritenuto più produttivo lavorare a ipotesi di sintesi teoriche più limitate. Con qualche forzatura possiamo immaginare di posizionare questi sviluppi lungo un continuum temporale e collocare il primo dalla fine degli anni sessanta agli anni settanta e il secondo dagli anni ottanta a oggi.
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Le teorie sociologiche contemporanee. Il superamento del dualismo e la ricerca di nuove sintesi II
·
LA
CRITICA
AL
FUNZIONALISMO
E
LA
«MICROSOCIOLOGIA»
il pensiero di Parsons e la scuola funzionalista che da lui ha preso le mosse hanno avuto una influenza così determinante in sociologia da unificare sotto di sé la disciplina per un certo periodo. L'unica sfida all'egemonia funzionalista era costituita dalla sociologia di impostazione marxista e tuttavia quest'ultima condivideva con il funzionalismo molto di più di quanto l'asprezza del dibattito e la contrapposizione degli orientamenti politici dei due fronti lasciavano supporre. In particolare marxismo e funzionalismo concepivano entrambi la sociologia come una scienza alla ricerca di leggi universali valide in ogni luogo e tempo, secondo quelli che sono stati per lungo tempo i canoni della ricerca scientifica nelle scienze naturali. Le due scuole di pensiero stavano, in altre parole, sulla stessa sponda del fiume che divideva da un lato la scienza sociale «naturalistica» da quella « interpretativa » di scuola weberiana, il cui compito era principalmente la comprensione dell'azione umana a partire da ragioni, intenzioni e significati che l'attore pone alla base del proprio comportamento. 1 Parimenti funzionalismo e marxismo concepivano la società, l'oggetto della disciplina, come un'unità definita in se stessa e costituita da parti interrelate, similarmente a un organismo biologico, di cui si andava a indagare le relazioni che le legavano insieme. Infine, entrambe le teorie condividevano una visione evoluzionistica del cambiamento sociale. La definizione dell'oggetto della sociologia e dei suoi compiti costituivano quindi un terreno comune su cui si potevano combattere le più aspre battaglie, proprio perché il consenso sulle basi epistemologiche non era messo a repentaglio. Nel corso degli anni sessanta e settanta la costruzione funzionalista è presa d'assalto da critiche che provengono da più versanti. Si tratta di critiche di carattere sostantivo, metodologico e logico non esenti da una forte componente ideologica e che, tuttavia, hanno l'effetto di minare profondamente l'egemonia funzionalista. Le prime mettono in luce le difficoltà che il funzionalismo presenta nel trattare il tema del conflitto e del cambiamento sociale, avendo postulato il consenso, la stabilità e l'integrazione del sistema sociale. Le seconde riguardano il problema dei metodi adeguati a studiare le questioni sollevate dai funzionalisti, come per esempio il contributo di una parte di un sistema al sistema sociale nel suo insieme; o il problema della comparazione tra parti di sistemi sociali diversi se una parte di un sistema ha senso solo nel contesto del sistema sociale in cui si trova. Le terze si preoccupano degli aspetti teleologici e tautologici che affliggono il funzionalismo: da un lato, sono carenti definizioni teoriche e dimostrazioni empiriche dei legami tra determinate istituzioni e la funzione che queste svolgono e che dovrebbe spiegare la loro esistenza, dall'altro il sistema sociale tende a essere definito sulla base delle relazioni tra le sue parti e queste dal loro ruolo nel sistema sociale, cosicché ognuno dei due termini risulta definito dall'altro, il che equivale a dire che nessuno viene in effetti propriamente definito. r Si veda il capitolo
IX
del volume
VIII.
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Le teorie sociologiche contemporanee. Il superamento del dualismo e la ricerca di nuove sintesi
Sulle rovine dell'edificio del funzionalismo non si instaura tuttavia una nuova egemonia. La scuola alternativa è la teoria del conflitto, nell'ambito della quale si hanno sviluppi molto significativi, specialmente sulla scia dell'opera di C. Wright Mills; 2 per quanto riguarda gli approcci storici di derivazione marxiana, un importante sviluppo è costituito dal modello di Wallerstein per lo studio del sistemamondo, cioè delle connessioni che legano tra di loro le diverse parti, o paesi, nelle diverse fasi dello sviluppo dell'economia mondiale; mentre il lavoro di Skocpol (1979) sulla interpretazione delle rivoluzioni sociali è emblematico di un ritorno di interesse verso la sociologia storica che permane fino a oggi (Abrams 1982). E tuttavia la rivisitazione critica del modello marxiano non fonda una nuova egemonia su questo versante: questi lavori intellettuali tendono ad avere maggiore importanza per un pubblico interdisciplinare di specialisti, mentre hanno un impatto relativo sulle elaborazioni teoriche della disciplina. Invece, riprendono vigore altre concezioni della natura e dei compiti della sociologia che erano rimaste ai margini e ora riguadagnano una posizione centrale. Si tratta di approcci che hanno in comune il rifiuto a considerare il comportamento umano come il risultato di forze che l'attore non controlla e neppure comprende e che propongono invece il ritorno allo studio del comportamento umano e all'analisi del ruolo attivo dell'attore nella creazione della realtà sociale. Per questi approcci, che vengono chiamati microsociologie, l'oggetto di studio della sociologia è la dimensione soggettiva dell'azione e, a partire da questa, il suo compito è la comprensione dell'interazione sociale nella vita quotidiana degli individui. Si sviluppa l'interazionismo simbolico che studia i processi di costituzione dei soggetti sociali e dei significati simbolici. Vi è una ripresa dell'approccio fenomenologico che si preoccupa di capire ciò che le persone pensano quando interagiscono, come si crea quel mondo di significati intersoggettivi che permettono l'interazione e che creano la realtà sociale e come al tempo stesso questa creazione è limitata da preesistenti strutture sociali e culturali. Nasce l'etnometodologia che guarda piuttosto a quanto gli individui fanno, quali metodi usano nella vita quotidiana per compiere quelle attività che in essa sono implicate. Vi è quindi un cambiamento radicale nel livello dell'analisi: il fuoco si sposta dalle strutture e dalle istituzioni sociali all'attore, dal livello macra della società, al livello micro dell'individuo. Ma è soprattutto il compito della disciplina che cambia: il sociologo non solo deve analizzare il punto di vista dell'attore per fornire spiegazioni delle cause dell'azione, ma si deve soprattutto preoccupare di capire come i membri di una società vedono, descrivono e spiegano l'ordine del mondo in cui vivono. Per gli etnometodologi questo secondo è l'unico legittimo compito dello scienziato sociale (Zimmerman e Wieder, 1970). Vediamo alcuni degli elementi che contraddistinguono questi modelli teorici. 2
Si veda il capitolo
IX
del volume vm.
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Le teorie sociologiche contemporanee. Il superamento del dualismo e la ricerca di nuove sintesi
Le radici dell'interazionismo simbolico devono essere rintracciate nel pragmatismo filosofico di J. Dewey, nonché nella psicologia comportamentista di J.B. Watson. Dal primo, questa scuola trae l'orientamento allo studio dell'individuo in quanto attore libero di accettare, rifiutare o ridefinire le norme e le credenze della società secondo il suo interesse e le sue strategie; mentre del secondo condivide l'importanza attribuita all'osservazione empirica del comportamento e la estende allo studio delle parti dell'azione che riflettono i processi mentali. I principi teorici di base che informano l'interazionismo simbolico si devono al lavoro di G.H. Mead (r8631931) e dei suoi discepoli presso l'Università di Chicago, in particolare a H. Blumer (1900-87) per quanto riguarda i metodi da applicare allo studio dell'interazione. Centrale è il concetto del Sé, che Me ad definisce come il processo in cui si esplica l'abilità peculiare dell'essere umano, e non degli animali, di guardare a se stesso come a un oggetto. Di questo processo Mead distingue due componenti: l'Io e il Me; la prima è la componente attiva e creativa, è l'immediata risposta dell'individuo agli altri, la seconda è la componente che contiene l'effetto della società sull'individuo, quando il soggetto immagina come gli altri lo vedono, riflette sul giudizio che gli altri si fanno di lui e sviluppa dei sentimenti riguardo a sé sulla base di quello che lui pensa che gli altri pensino di lui, quali l'orgoglio nel caso presupponga di essere approvato o la vergogna in caso di riprovazione da parte degli altri. Il Me quindi porta la società all'interno dell'individuo. Negli anni sessanta e settanta il pensiero di Mead fu sviluppato soprattutto da E. Goffman (1922-82) che diventa una figura centrale sia sul piano teorico che su quello empirico della sociologia americana. Nella sua abbondante ed eclettica produzione Goffman ha sviluppato una propria prospettiva autonoma che trascende i confini dell'interazionismo simbolico e continua ad avere grande influenza sui sociologi contemporanei. Goffman si occupa soprattutto della tensione tra la parte spontanea del Sé, l'Io secondo Mead, e il Me, le costrizioni sociali interne al Sé. La tensione deriva dalla differenza tra quello che spontaneamente vorremmo fare e quello che gli altri si aspettano che noi facciamo. Gli individui sono messi continuamente alla prova dalle aspettative degli altri e si trovano a dover rispondere a queste senza esitazioni e coerentemente nel tempo per mantenere stabile l'immagine di se stessi. L'agire degli individui è quindi condizionato prima di tutto, secondo Goffman, da come questi vogliono apparire agli altri (Goffman 1962). Prendendo questo punto di vista Goffman non mette in dubbio la legittimità dello studio dell'agire in rapporto ai fini che l'attore si pone, secondo un'impostazione di derivazione weberiana, ma afferma che nelle società moderne l'attività orientata verso compiti strumentali tende a trasformarsi in attività orientata verso la comunicazione. Da qui la proposta dell'approccio drammaturgico secondo cui la vita sociale può essere meglio compresa attraverso la metafora della rappresentazione teatrale: il Sé risulta essere il prodotto dell'interazione tra l'individuo come attore in scena e gli altri in quanto suo pubblico. Poiché gli individui vogliono presentare un'immagine di se stessi che
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sia accettabile per gli altri mettono in atto tutta una serie di tecniche e metodi, che Goffman chiama di gestione delle impressioni, destinate a mantenere determinate immagini, anche quando questi non riescano a rispondere adeguatamente alle aspettative o debbano ripristinare un'immagine accettabile di se stessi. Goffman affronta anche il problema dell'istituzione come luogo definito da confini stabili che non consentono a coloro che non vi appartengono la percezione di ciò che avviene al suo interno. L'approccio drammaturgico gli consente di analizzare le istituzioni soprattutto dal punto Ò vista delle tecniche di controllo delle impressioni e dei principali problemi che sorgono in questa attività. In quella che è forse l'opera più famosa di Goffman per il pubblico italiano, Asylums (1961), si discutono i risultati di una ricerca su un ospedale psichiatrico. In questo lavoro Goffman elabora il concetto di « istituzione totale » riferendosi a quelle istituzioni che regolano tutti gli aspetti della vita degli individui e in cui lo scambio sociale con l'esterno è minimo, e mostra i modi con cui i diversi tipi di istituzioni totali perseguono lo scopo comune di annientare la personalità di coloro alle quali sono destinate. Oggi il pensiero di Goffman influenza sociologi che lavorano su problemi molto diversi e con approcci molto diversi. I suoi studi sugli aspetti verbali dell'interazione, per esempio, stanno alla base del lavoro di analisi delle conversazioni; questo filone di indagine sociologica ricostruisce, a partire da una analisi molto dettagliata delle conversazioni, i contesti fisici e simbolici che vi sono implicati e mostra come gli attori utilizzino questi contesti per rendere significativa la conversazione e, al tempo stesso nel fare ciò, riproducano i contesti di riferimento (Zimmerman, 1988; Boden, 1990). L'analisi di Goffman sui caratteri degli incontri faccia a faccia, del loro formarsi e riformarsi nel tempo e nello spazio è diventata il punto di partenza per quei teorici contemporanei che ritengono le relazioni spazio-temporali come fondamentali per la comprensione della produzione e della riproduzione della vita sociale, per esempio Giddens e Collins come vedremo più oltre. L'orientamento fenomenologico in sociologia ha le sue radici filosofiche nel lavoro di E. Husserl e nel trasferimento di quella filosofia nella sociologia di A. Schutz (1899-1959). I sociologi di questa scuola ritengono che il compito della disciplina sia di descrivere il mondo per come lo vediamo e lo sperimentiamo, sottolineando il fatto che le nostre percezioni sono intrinsecamente plasmate dai concetti e dalle nozioni di cui disponiamo. Schutz analizza il «mondo della vita quotidiana», cioè quel mondo intersoggettivo che si presenta all'individuo come già interpretato da altri e quindi organizzato e di cui l'individuo fa esperienza e a sua volta interpreta, sulla base delle conoscenze a disposizione e delle sue esperienze precedenti, e si interroga sui modi in cui gli individui arrivano ad avere percezioni simili e quindi costruiscono e mantengono una realtà quotidiana condivisa. Seguendo questa impostazione P. Berger e T. Luckmann (The social construction o/ reality, 1967) analizzano, da un lato, i processi che fanno sì che gli individui guardino alla realtà
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sociale come a qualcosa di ordinato e oggettivo che precede e si impone all'individuo e, dall'altro, i processi che rendono la vita di tutti i giorni significativa a livello soggettivo. La società è al tempo stesso una realtà oggettiva e soggettiva. Il carattere oggettivo della società è dato dal processo attraverso il quale l'agire umano tende a cristallizzarsi in forme fisse e prestabilite che si impongono dall'esterno agli individui ed esercitano un controllo sulla loro percezione e sulla loro azione. Si tratta di un processo di istituzionalizzazione, quale quello che dà come esito il linguaggio; Berger e Luckmann sono interessati al linguaggio per il contributo che questo dà al processo di reificazione; il linguaggio offre agli individui le necessarie definizioni e assume un ordine all'interno del quale la vita quotidiana ha senso. Il carattere soggettivo della società si costruisce nell'interazione e nei processi di socializzazione primaria e secondaria. Nelle relazioni primarie gli individui fanno proprio il mondo sociale delle persone a cui sono affettivamente legati assumendo come gli unici possibili i loro modi di interpretare la realtà, i loro valori e le loro norme. Sull'interiorizzazione di una determinata interpretazione della realtà come l'unica possibile si impiantano in seguito conoscenze, valori e norme relative a specifici ambiti e istituzioni. Gli individui tendono a dare per scontata la realtà così definita e a non metterla in discussione perché una definizione stabile, unitaria e coerente di realtà permette loro di andare avanti nella vita quotidiana senza porsi problemi. Berger e Luckmann storicizzano l'approccio fenomenologico mostrando come nelle società moderne l'individuo sia sottoposto a molteplici processi di socializzazione secondaria, che possono mettere in crisi la definizione di realtà acquisita in precedenza. Schutz aveva parlato di «province finite di significato» per definire contesti diversi della produzione dei significati del mondo sociale, riconoscendo quindi l'esistenza di una pluralità di mondi di vita. I due autori, ma anche B. Berger e H. Keller (The homeless mind, 1973), fanno derivare questa pluralità dalla complessità delle società moderne e dalla mobilità sociale che in esse ha luogo. Da qui fanno discendere tutta una serie di problemi specifici dell'uomo moderno: l'integrazione in un mondo in cui convivono realtà diverse, l'identità, sia come difficoltà di definire se stesso, sia come problematicità di una definizione unitaria. La tematizzazione del problema dell'identità nell'uomo moderno è forse il contributo più rilevante della elaborazione della sociologia fenomenologica. Per quanto riguarda l' etnometodologia, è fondata da H. Garfinkel, che «inventa» questo termine alla fine degli anni quaranta e nel suo libro del 1967, Studies in ethnometodology, sistematizza i concetti fondamentali di questo approccio. E tuttavia è Garfinkel stesso a riconoscere i suoi debiti verso Husserl e Schutz, anche se l' approccio etnometodologico si presenta come molto distinto e originale pure rispetto a queste radici. L' etnometodologia prende come punto di partenza il fatto che la società è una costante realizzazione pratica da parte dei suoi membri; essa definisce il suo oggetto di studio come quel corpo di conoscenze di senso comune e di metodi e procedure pratiche grazie alle quali i membri di una data società danno
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un senso, gestiscono e agiscono nelle circostanze in cui si trovano. Gli individui sono costantemente impegnati in questo processo di realizzazione della società e non possono evitare di esserlo. Quando salutiamo qualcuno e questo ci risponde, non siamo consci dell'attività di definizione della realtà e dei metodi per gestirla che stiamo utilizzando. Ma quando l'altra persona non risponde al nostro saluto, ci rendiamo conto che stavamo cercando di creare una certa realtà (in cui quell'individuo era definito come persona da salutare in base a una certa relazione e a un determinato contesto) e che non abbiamo avuto successo. Possiamo a questo punto tentare di riaffermare quella realtà trovando giustificazioni per la mancata risposta, quali per esempio il fatto che l'altra persona non abbia sentito o che non stia bene. Centrali alla prospettiva etnometodologica sono i concetti di riflessività, indicalità e accounts. Gli accounts sono modi con cui gli attori rendono descrivibile, comprensibile, spiegabile, in breve attribuiscono un senso a ciò che fanno. Secondo Garfinkel, le procedure interpretative che gli attori usano per attribuire un senso alle interazioni concrete manifestano due caratteristiche fondamentali, che egli chiama indicalità e riflessività. Con il primo termine ci si riferisce al fatto che il significato di ogni account è legato al contesto della sua produzione e quindi contiene molti altri significati oltre a quelli che esprime «letteralmente». Il concetto di riflessività si riferisce a quell'operazione di definizione reciproca tra contesto e particolari che awiene nel momento della determinazione del significato. Il significato di azioni, norme, ruoli e categorie sociali dipende dal contesto di quella situazione particolare nella quale esse awengono o vengono usate. Ma la definizione della situazione rimanda circolarmente alla definizione delle prime. È infatti la percezione simultanea del particolare e del contesto nella loro relazione riflessiva che determina la trasparenza delle azioni, cioè la possibilità che esse hanno di essere percepite in quanto azioni prowiste di significato. Garfinkel richiama l'attenzione sul fatto che, nonostante la contestualità del significato delle azioni, gli individui non percepiscono la società come un vorticoso brulicare di particolari indefiniti, ma piuttosto come un mondo sociale relativamente stabile e coerente. Nella vita pratica ognuno di noi viene a patti con il carattere irrimediabilmente indicale del discorso e dell'azione e risolve pragmaticamente l'ambiguità nella routine della vita quotidiana. La comprensione reciproca dei membri di una società è quindi una continua e contingente realizzazione che dipende dal loro lavoro interpretativo ed è questo stesso impegno interpretativo che costruisce l'ordine del mondo sociale. Garfinkel è in grado di dimostrare la rilevanza di quanto viene «dato per scontato» nella vita quotidiana: nei suoi esperimenti cerca di ottenere resoconti «oggettivi», completi e senza rimandi al contesto e dimostra come questa operazione si riveli impossibile. L'irritazione e la frustrazione con cui le persone reagiscono a questi esperimenti mostra inoltre l'attaccamento a quell'ordine sociale che si dà per scontato e l'impegno che i membri di una società sentono verso la realizzazione di quell'ordine di significati.
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Gli etnometodologi sostengono che in questo lavoro interpretativo il sociologo professionale e l'individuo comune non utilizzano teorie e metodi qualitativamente diversi: nel ragionamento pratico di senso comune l'individuo utilizza categorie e schemi di interpretazione per eliminare l'ambiguità dalla realtà e trova conferma di queste categorie e modelli di interpretazione nella realizzazione pratica dell'interazione. Allo stesso modo il sociologo costruisce delle interpretazioni e delle teorie sulla medesima base di credenze e conoscenze legate al mondo della vita quotidiana e le comunica all'interno della comunità dei sociologi perché vengano validate. Spetta quindi a questa corrente sociologica il merito di aver problematizzato sino alle estreme conseguenze la relazione tra pensiero comune e pensiero scientifico. L'approccio etnometodologico continua ad attirare molta attenzione e a essere utilizzato in molti programmi di ricerca. Oggi sono rintracciabili persino diversi tipi di etnometodologie. In particolare due filoni sembrano particolarmente fertili: uno studia le organizzazioni con l'obiettivo di capire il modo con cui le persone assolvono i propri compiti in questi contesti e come in questo processo essi producono l'organizzazione stessa in cui tali compiti vengono svolti (Whalen e Zimmerman, 1987; Clayman, 1988; Boden, 1994). Un altro, a cui abbiamo già accennato, si occupa dell'analisi delle conversazioni con l'obiettivo di arrivare a una comprensione molto dettagliata delle strutture fondamentali su cui si basa l'interazione mutuata dal linguaggio (Atkinson e Heritage, 1984). III
·
I
PROBLEMI
MICRO-MACRO
E
ATTORE-STRUTTURA
Abbiamo visto come con lo sgretolarsi dell'ortodossia funzionalista si riaffermino o nascano approcci teorici alternativi che pongono la costruzione sociale della realtà al centro dell'attenzione della sociologia. Benché non sia possibile in questa sede offrire un panorama completo di questi approcci lo sforzo è stato quello di dar conto della pluralità delle scuole di pensiero che influenzano la produzione teorica negli anni sessanta e settanta. Gli sviluppi successivi sono caratterizzati soprattutto dal cambiamento dei rapporti tra i vari approcci. Assistiamo infatti al passaggio da rapporti di competizione e di lotta per l'egemonia di una teoria generale a rapporti basati su un crescente consenso attorno al pluralismo delle teorie e tendenti alla ricerca delle connessioni: l'attenzione si sposta sulle relazioni tra livelli di analisi e tra teorie diverse. Tale ricerca si inquadra in un rinnovato interesse per la riflessione teorica che caratterizza in generale questa fase e in uno spostamento del centro di gravità della produzione teorica dagli Stati Uniti all'Europa. Il problema teorico centrale di questa fase è il superamento del dualismo nelle teorie sociologiche. Ricordiamo che si parla di microsociologia e di macrosociologia intendendo con questi termini due tipi di approccio all'analisi sociale. Nel primo si pone l'azione individuale a fondamento delle macrostrutture sociali: la società o le istituzioni vanno spiegate a partire dalle attività individuali. Nel capitolo precedente
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abbiamo dato conto di alcune teorie che hanno alla base il primo approccio. Nel secondo tipo di approccio si ritiene invece che tali macrostrutture sociali abbiano una propria dinamica e che i processi di tale dinamica condizionino l'agire individuale: la spiegazione deve quindi partire dalle strutture sociali per comprendere i comportamenti degli individui. Emerge ora un orientamento diffuso verso l'integrazione e la sintesi che relega ai margini del dibattito le posizioni teoriche a questo contrarie. In America la discussione ruota attorno al dualismo micro-macro e ai problemi di raccordo tra macrosociologia e microsociologia. In Europa il problema è stato affrontato principalmente dal punto di vista dei legami tra i concetti di azione, significato e soggettività e le nozioni di struttura e coercizione. In entrambi i contesti si rileggono gli autori classici della sociologia per rintracciare le diverse soluzioni proposte al problema azione/struttura. Anche le ricorrenti crisi della sociologia vengono reinterpretate come derivanti dal perdurare del dualismo, segnali cioè dell'insuccesso nel trattare quello che viene ora definito come il problema centrale della teoria sociale. Per dare ordine all'esposizione, questi diversi tentativi di integrazione e di sintesi saranno raggruppati in due ambiti, quelli che partono da una impostazione strutturale e quelli che si muovono invece dai presupposti delle teorie dell'azione. 1) Le teorie strutturaliste
Nell'ambito delle teorie strutturaliste si possono rintracciare in questi anni due sviluppi fondamentali: la ripresa del funzionalismo e lo sviluppo della teoria dei sistemi sociali. Questi sviluppi si innestano sui contributi offerti dall'analisi fenomenologica e confluiscono ad alimentare uno dei più sofisticati tentativi di applicazione della teoria dei sistemi allo studio della società, quello del sociologo tedesco N. Luhmann. 3 Vediamone alcuni concetti chiave. a) Il modello di Luhmann. Da Parsons Luhmann riprende la concettualizzazione degli oggetti della sociologia in termini di sistemi che si definiscono in relazione ai concetti di ambiente e di mondo. Se il mondo è l'infinita molteplicità e complessità del reale, un concetto analogo al caos in Weber, che rimanda alla assoluta impossibilità di comprendere la realtà indipendentemente da schemi di riferimento, l'ambiente è l'insieme delle possibilità presenti in una situazione concreta e il sistema è l'effettiva selezione e realizzazione di determinate possibilità all'interno di quelle presenti nell'ambiente, in definitiva un insieme di relazioni di senso sufficientemente stabili. È il divario di complessità tra ambiente e sistema che spinge il processo di evoluzione sociale e la progressiva differenziazione del sistema sociale nei vari sottosistemi che si rendono autonomi e si specializzano funzionalmente.
3 Su Luhmann e Habermas si veda anche
il capitolo
1
si veda, inoltre, il capitolo
di questo volume. Su Habermas
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VI.
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Luhmann definisce il concetto di struttura come « quel meccanismo che serve a selezionare un ristretto campo di alternative di comportamento fra tutte quelle possibili allo scopo di consentire delle aspettative» (Sociologia del diritto, 1977 ): è mediante la struttura che il sistema sociale si delimita rispetto all'ambiente in modo da mantenere un ordine dell'agire relativamente stabile e costante in un mondo oltremodo complesso. Le strutture, tuttavia, non hanno solo la funzione di filtro del sistema rispetto a un ambiente eccessivamente complesso ma anche quella di dar senso alla complessità interna dello stesso sistema sociale. Rimane il problema di come si riproduce e si modifica il sistema sociale. Per affrontare la questione Luhmann introduce due altri concetti-chiave: quello di autoreferenzialità e di autopoiesi. «Il sistema può essere definito come autoreferenziale se costituisce in proprio, quali unità funzionali, gli elementi di cui è composto, e se attiva in tutte le relazioni fra questi elementi un rinvio a tale auto-costituzione, che viene quindi in tale modo continuamente riprodotta» (Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, 1984). In altre parole, i sistemi hanno la capacità di delineare le loro identità e di tracciare i confini tra ciò che sono e ciò che non sono, manifestando una loro «autonomia strutturale». Per fare spazio al cambiamento e all'innovazione bisogna dare creatività all' autoreferenzialità; questo avviene con il concetto di autopoiesi che, introdotto originariamente dal biologo cileno H. Maturana per definire l'organizzazione dei sistemi viventi, viene applicato da Luhmann ai sistemi sociali e ai sistemi psichici. Questi sistemi sarebbero in grado di guidare i propri processi di riproduzione, di creare le proprie regole di funzionamento e di organizzazione. Il modello luhmanniano trascende completamente la problematica micro-macro, poiché è in esso assente il soggetto (Addario, 1994); i concetti di ambiente e sistema sono dimensioni analitiche specifiche che dipendono dai criteri di riferimento dell' osservatore. Il sistema è il risultato della selezione di un osservatore che, in base ai propri interessi conoscitivi e a partire dai propri presupposti teorici, prende in considerazione solo determinate relazioni tra le molte esistenti o possibili, tra oggetti anch'essi in precedenza selezionati. L'interazione faccia a faccia e la società sono entrambi sistemi sociali: il sistema sociale come interazione è un sistema in cui diversi sistemi di personalità interagiscono comunicando sulla base di condizioni che sono previste dalla società stessa la quale rappresenta l'ambiente per questo sistema sociale. D'altro canto, il sistema sociale come società è un insieme di sistemi che si struttura in relazione alla molteplicità delle interazioni che rappresentano in questo caso il suo ambiente. b) La teoria generale dell'azione di Habermas. Funzionalismo e teoria dei sistemi vengono recepiti, ma in funzione sostanzialmente critica, anche all'interno dell'opera di un altro sociologo tedesco, J. Habermas, partendo dai presupposti teorici della scuola di Francoforte e, integrando concetti provenienti da approcci diversi, perse370
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gue la formulazione di una teoria generale dell'azione e dell'evoluzione dei sistemi sociali, in contrapposizione alla proposta teorica di Luhmann. Nella sua opera Teoria dell'agire comunicativo (r98r) riprende dalla sociologia fenomenologica il concetto di mondo della vita e lo definisce come il contesto dei processi che portano alla comprensione reciproca attraverso l'azione comunicativa. Nel mondo della vita si sviluppano le comunicazioni intersoggettive sostanziali e i processi dell'agire volto alla reciproca comprensione; il mondo della vita è quindi il luogo dove si costituiscono spontaneamente le fondamentali convinzioni collettive condivise. L'azione comunicativa è definita in contrapposizione all'azione orientata al successo, sia nelle forme dell'agire strumentale di tipo tecnico, sia nelle forme dell'agire strategico in vista del perseguimento di interessi egoistici. L'azione comunicativa è il fenomeno più significativamente umano e l'attività più diffusa. Il mondo della vita è composto dalla cultura, dalla società e dalla personalità. Ognuno di questi ambiti ha i suoi modelli interpretativi e i suoi presupposti: riguardo agli effetti che la cultura ha sulla azione, agli schemi appropriati di comportamento nelle relazioni sociali (la società), ai tipi di persone e di modalità di comportamento (la personalità). L'impegno degli individui nell'agire comunicativo in ognuno di questi ambiti porta alla riproduzione del mondo della vita attraverso il rafforzamento della cultura, l'integrazione della società e la formazione della personalità. Mentre questi elementi sono strettamente interconnessi nelle società arcaiche, il processo di razionalizzazione del mondo di vita comporta una crescente differenziazione tra cultura, società e personalità nel mondo moderno. Al mondo della vita che rappresenta il punto di vista dei soggetti che agiscono nella società, si contrappone il sistema che è il punto di vista di un osservatore esterno, non coinvolto. Il sistema ha le sue radici nel mondo della vita ma sviluppa progressivamente propri caratteri strutturali, quali la famiglia, il diritto, lo stato, l'economia. Il processo di razionalizzazione, qui come nel mondo della vita, comporta una progressiva differenziazione e una crescente complessità. Nella loro evoluzione queste strutture si distanziano sempre più dal mondo della vita, acquistano potere ed esercitano su esso una sempre maggiore influenza. Questo processo, denominato da Habermas « colonizzazione· del mondo della vita», comporta un progressivo controllo del sistema sul mondo della vita e un crescente potere del primo sul secondo. Esso produce patologie e crisi ma non arriva mai a compimento perché la comunicazione tra gli individui tende necessariamente all'emancipazione da questo controllo. Il problema della relazione tra micro e macra, tra individuo e sistema non si pone per Habermas a livello teorico ma è soprattutto una questione di strategia politica. Compito della analisi sociologica è per Habermas rafforzare la capacità autoriflessiva dell'individuo al fine di arrivare a una forma di società più avanzata in cui mondo della vita e sistema entrino nuovamente in una relazione dialettica di arricchimento reciproco. Il problema del rapporto individuo-sistema sociale è prima di tutto per Habermas una questione di prassi, dei modi per liberare le persone 371
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dalla comunicazione distorta dai meccanismi del potere economico e politico e per accelerare l'evoluzione verso forme più avanzate di razionalità. c) La ripresa del funzionalismo parsonsiano. J. Alexander (n. 1947) e i neofunzionalisti riprendono esplicitamente il modello teorico di Parsons a cui riconoscono il primato di schema generale per la comprensione dell'azione sociale e si propongono di integrarlo con concetti e intuizioni mutuate dalla teoria del conflitto e dalla fenomenologia. Secondo Alexander, il cui sforzo teorico è espressamente dedicato al superamento del dualismo in sociologia, solo il modello di Parsons nella sua trattazione del sistema materiale, culturale, politico e dell'interazione, comprende tutte le dimensioni di una teoria sociale generale ed è questa multidimensionalità che va mantenuta e sviluppata sistematicamente (1988). Una teoria della società deve infatti interpretare sia il livello individuale e strutturale, le condizioni materiali e l'interesse personale, sia le idee e i valori morali collettivi. Inoltre lo schema di Parsons contiene la distinzione tra il livello analitico dei principi e dei concetti teorici di base e le presupposizioni a proposito dei rapporti specifici tra variabili che sono empiricamente verificabili. Questa distinzione è accentuata da Alexander che si propone di costruire un modello multidimensionale astratto che sia valido sia a livello micro che a livello macro. Rispetto al problema micro/macro il contributo maggiore di Alexander è stato quello di ribadire il carattere analitico di questa dicotomia: micro e macro sono livelli diversi di analisi di fenomeni empirici concreti di qualsivoglia natura e dimensione. Con questa accentuazione della distinzione fondamentale tra teoria come insieme dei presupposti e dei postulati che collegati logicamente tra di loro costituiscono lo schema generale o modello, da un lato, e, dall'altro, le supposizioni particolari riguardanti i fenomeni concreti che si intende indagare e sottoporre a verifica empirica, Alexander trasforma sostanzialmente il modo di affrontare il problema micro/macro. Relega infatti nel passato la competizione tra teorie microsociologiche e teorie macrosociologiche e la polemica su quale sia il livello fondamentale di analisi da cui partire, mettendo invece a fuoco la mutua interrelazione tra i due livelli e la necessità che la teoria sociologica provveda alla loro integrazione. Il neofunzionalismo si propone come un filone autocritico che cerca di ampliare la capacità euristica ed esplicativa del funzionalismo a partire dal suo nucleo teorico fondamentale. Questo ambizioso programma di costruzione teorica prende quindi le mosse affrontando i problemi associati al funzionalismo. Contrariamente all'enfasi posta da Parsons sui valori e sulla socializzazione ai valori stessi, i neofunzionalisti riaffermano l'importanza dei fattori materiali che interagiscono da una posizione di parità con l'elemento dei valori. Maggiore risalto viene dato agli elementi dinamici e conflittuali tra i sistemi e all'interno degli stessi; il processo di differenziazione viene visto come produttore di squilibri e tensioni che non necessariamente trovano soluzione e ricomposizione. Gli autori neofunzionali372
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sti si impegnano a dare eguale attenzione al problema dell'azione e a quello dell'ordine, tentando di evitare di privilegiare il contributo che all'ordine danno le strutture sociali e la cultura a livello macro, e prestando invece attenzione al livello micro dell'azione. Il modello di Alexander concepisce l'azione come l'elemento contingente del comportamento che può essere distinto analiticamente dalla pura riproduzione. L'azione può essere concepita come un «flusso», un processo all'interno di ambienti simbolici, sociali e psicologici che permeano e sono permeati dall'attore concreto empirico, il quale non è più identificato con l'azione puramente contingente, come nelle tradizioni sociologiche della microsociologia. Gli ambienti dell'azione ispirano l'azione e ne definiscono i confini: per Alexander solo da una corretta concettualizzazione dell'azione può derivare una adeguata concettualizzazione degli ambienti come prodotti dell'azione e viceversa. Il sociologo americano si pone quindi nell'ottica di una costruzione teorica in cui azione e ambiente si definiscono reciprocamente in un rapporto dialettico. È nella elaborazione di una nuova teoria del mutamento sociale che possiamo rintracciare i contributi più interessanti del neofunzionalismo. Vi è prima di tutto il riconoscimento che la teoria della differenziazione soffriva di tre debolezze fondamentali. In primo luogo era molto astratta e mancava di specificità empirica e storica. Secondariamente, non prestava abbastanza attenzione alla tematica del potere e del conflitto. In terzo luogo, tendeva a enfatizzare l'integrazione prodotta dal cambiamento strutturale. In risposta alle critiche del primo punto i neofunzionalisti hanno lavorato all'identificazione di variabili modello di mutamento strutturale complementari alla differenziazione, quali per esempio la de-differenziazione, cioè quel tipo di mutamento strutturale che reagisce alla complessità sociale muovendosi verso livelli di organizzazione sociale meno differenziati, oppure la differenziazione ineguale, nei ritmi e nell'intensità, in «regioni» distinte di una società (Alexander e Colomy, 1990; Colomy, 1992). Per quanto riguarda i temi del potere e del conflitto si è lavorato per includere nel modello le contingenze associate alla mobilitazione e al conflitto tra i gruppi e l'influenza di conflitto e competizione sul processo di differenziazione. Infine sono stati identificati effetti del processo di differenziazione diversi da quelli presunti, secondo i quali istituzioni più differenziate avrebbero necessariamente presentato un livello più elevato di efficacia e/o efficienza. 2) Le teorie dell'azione
Nell'ambito delle teorie dell'azione si possono rintracciare significativi sviluppi teorici a partire dalla teoria della scelta razionale e dall'analisi delle reti sociali, nonché nuove costruzioni teoriche che tentano l'integrazione di approcci diversi. Significative elaborazioni teoriche si sono sviluppate all'interno della teoria della scelta razionale. Nelle sue formulazioni tradizionali questa teoria adottava il modello di attore della teoria economica (un attore razionale ed egoista che cerca di massimizzare le proprie utilità) ed era stata attaccata da coloro che ritenevano compito 373
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del sociologo spiegare soprattutto i comportamenti non razionali e implicanti il riferimento a fenomeni collettivi e ne sottolineavano quindi l'inadeguatezza a questo riguardo. Le formulazioni più recenti, opera soprattutto di ]. Coleman e di ]. Elster, hanno apportato un livello maggiore di sofisticazione alla teoria, lasciando intatto il suo fascino di modello estremamente parsimonioso nei presupposti. Coleman in Foundations o/ social theory (1990) sostiene che una teoria basata sul presupposto della razionalità dell'attore abbia maggiori probabilità, rispetto a qualsiasi altra teoria sociale, di arrivare a ridurre progressivamente l'entità dei comportamenti che non possono essere spiegati al suo interno. Dato come punto di partenza l'azione razionale individuale, Coleman è principalmente interessato a far emergere la dimensione macro dall'aggregazione di comportamenti individuali. Un passo importante in questa direzione è il riconoscimento dell'autorità e dei diritti che un individuo possiede rispetto a un altro. Questo fatto crea strutture di relazioni che fanno sì che un attore non persegua più il proprio interesse ma quello di un altro o di un'altra unità collettiva. Non solo questa è una realtà sociale diversa dall'attore individuale, ma è una realtà che comporta molti problemi particolari. Anche il comportamento collettivo può venire spiegato sulla base del trasferimento del controllo sulle proprie azioni a un altro attore, trasferimento che avviene sempre allo scopo di massimizzare le proprie utilità. Coleman si pone quindi anche il problema delle norme, perché esistono e come si formano, e risponde che le norme vengono costituite e mantenute da chi ottiene benefici se vengono osservate e danno se vengono violate. Questo fa sì che gli attori rinuncino ad alcuni diritti sul controllo delle proprie azioni e guadagnino alcuni diritti sull'azione di altri, ciò che è garantito dalla norma. Coleman riconosce tuttavia che il terreno delle norme è molto infido per la teoria dell'azione razionale. Quando le norme prevedono perdenti e vincenti sono efficaci solo sulla base del consenso attorno al controllo di alcuni sulle azioni di altri, cioè della interiorizzazione della norma, o della sua imposizione, entrambi fenomeni difficilmente riconducibili all'aggregazione di comportamenti individuali. Anche il contributo di Elster (n. 1940) alla teoria della scelta razionale è incentrato sulla spiegazione di azioni apparentemente contraddittorie rispetto al postulato della razionalità dell'attore (Elster, 1989a, 1989b). In alcuni casi queste azioni sono il risultato della interdipendenza delle decisioni e delle azioni di più attori; in questi casi la teoria dei giochi contribuisce a spiegare tali comportamenti e integra la teoria della scelta razionale. Altre azioni «non razionali » possono essere utilmente analizzate, secondo Elster, partendo dai meccanismi cognitivi che alterano la percezione del proprio interesse da parte dell'attore, come per esempio i meccanismi di autoinganno. Si tratta quindi di un approfondimento rispetto al concetto di « razionalità limitata » già elaborato dai ricercatori dell'economia e delle organizzazioni. Altre azioni invece rimandano alla forza di volontà dell'attore. L'argomentazione di Elster è volta a mostrare l'ampiezza dei comportamenti che possono essere com374
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presi all'interno del paradigma della scelta razionale. Rimangono tuttavia dei comportamenti le cui motivazioni non sono riconducibili alla razionalità ma rimandano alle dimensioni affettive o emotive dell'attore o trovano nelle norme sociali la loro spiegazione. Come Coleman anche Elster riconosce che le norme rimangono un problema per la teoria della scelta razionale, che non è in grado di affrontarle adeguatamente. Entrambi sembrano orientarsi verso una soluzione di tipo combinatorio che riconosce l'esigenza di due apparati concettuali diversi, uno per l'analisi dell' azione dove gli strumenti concettuali della teoria dell'azione razionale sarebbero adeguati e uno per spiegare l'ordine sociale; questo secondo dovrebbe essere costituito da una teoria delle norme sociali che spieghi l'istituzione delle norme e i modi con cui queste influenzano i comportamenti individuali e collettivi. In particolare, si rende necessario poter disporre, secondo Elster, di maggiori conoscenze riguardo alla dimensione emotiva che sostiene l'efficacia delle norme sociali. Parallelamente al lavoro teorico svolto per una più sofisticata articolazione della teoria della scelta razionale si è sviluppato negli ultimi anni un ampio programma di ricerca teorica ed empirica che analizza le reti di relazioni fra gli individui. Qui l'unità di analisi non è più l'individuo ma la relazione sociale: si studiano da un lato le proprietà della relazione, quali frequenza, intensità, durata e contenuti di queste e, dall'altro, le proprietà della rete di relazioni che legano gli individui, la sua forma, densità e struttura. A partire dalle relazioni in cui gli attori sono inseriti si spiegano i loro comportamenti e atteggiamenti. L'analisi delle reti sociali (o network analysis) ha alle spalle importanti tradizioni di lavoro teorico ed empirico. Da un lato la scuola di antropologia di Manchester che, formatasi negli anni cinquanta in posizione critica rispetto al funzionalismo allora dominante nella disciplina, rivolge la sua attenzione alla forma e al contenuto delle relazioni tra individui, cioè al tipo di risorse, materiali e non, che questi scambiano nella relazione. Dall'altro la scuola di sociologia strutturale formatasi a Harvard negli anni settanta, che si richiama alla tradizione dell'analisi sociometrica e alla sociologia formale di Simmel, e persegue l'obiettivo di definire e misurare le proprietà delle reti di relazioni che legano attori individuali e collettivi. La ricostruzione della forma delle reti di relazioni porta alla identificazione della struttura sociale come insieme di relazioni entro cui l'attore si trova e che ne vincolano il comportamento. L'analisi di rete è in grado di dimostrare che individui occupanti posizioni strutturalmente equivalenti hanno atteggiamenti e motivazioni simili, indipendentemente dai loro diversi attributi individuali (età, sesso, classe sociale, ecc.). Gli sviluppi recenti nascono all'esterno della tradizione strutturalista ma riconoscono all'analisi di rete il merito di aver proposto una concettualizzazione della struttura sociale non reificata, intesa cioè come insieme di relazioni che si formano nel tempo e nello spazio e che costituiscono i vincoli e le risorse per l'azione. Questi sviluppi teorici partono da approcci teorici microsociologici, quali la teoria dello scambio sociale, e tentano una integrazione con l'analisi di rete. Quest'ultima offre 375
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alle microsociologie la possibilità di analizzare l'azione nel contesto dei diversi tipi di relazioni che l'attore ha attivato e rispetto alla forma della rete in cui queste sono situate. K. Cook (1987) lavora specificatamente alle connessioni tra la teoria dello scambio sociale, specialmente nella versione di Emerson, e l'analisi di rete per lo studio delle problematiche del potere e della dipendenza. La teoria dello scambio si basa su presupposti tratti dalla psicologia behaviorista e dall'utilitarismo. In questo contesto R. Emerson (1925-82) aveva originariamente definito il potere, come quel livello di costo potenziale che un attore può indurre un altro ad accettare, mentre la dipendenza è il livello di costo potenziale che un attore accetta in una relazione (Exchange theory, 1972). Per spiegare il potere, l'analisi di rete guarda alla posizione strutturale dell'attore nella rete, alla sua centralità per esempio; mentre la teoria dello scambio guarda alle risorse che i due attori si scambiano. Invece secondo Cook, che ritiene insoddisfacenti entrambe queste impostazioni, il fenomeno del potere scaturisce dalla rete di scambi in cui gli attori sono inseriti: la determinazione del potere di una posizione/attore si basa su quanto l'intera struttura è dipendente da quella posizione. Questa dipendenza della struttura è funzione sia della centralità strutturale della posizione dell'attore nella rete, sia della natura della relazione di potere (Cook e altri, 1983 ). Questa formulazione prevede esplicitamente un modo per collegare il comportamento di scambio degli attori alle proprietà della rete e per lasciare spazio sia a possibili trasformazioni delle reti di relazioni come esiti delle dinamiche di potere, sia a cambiamenti nella natura delle relazioni di scambio. La rete di relazioni, in quanto struttura sociale nella quale l'attore è inserito, è quindi un contesto che vincola l'azione ma che ne può essere a sua volta trasformato. Anche l'elaborazione teorica di R. Collins ha come punto di partenza l'integrazione tra la teoria dello scambio e l'analisi di rete. Il suo modello è focalizzato sugli individui che sono alla ricerca degli scambi a loro più favorevoli in un mercato sociale, e sulle situazioni, simboli ed emozioni che sono generate nell'ambito delle loro interazioni; in questa impostazione ciò che viene scambiato non si esaurisce in beni utilitaristici ma comprende anche ricompense simboliche ed emozionali. Le interazioni tra gli individui sono rituali naturali, nel senso che sono situazioni di co-presenza, attenzione reciproca e condivisione di significati che producono simboli di appartenenza, energie emozionali e pressioni alla conformità. Collins guarda agli individui che nella loro vita quotidiana entrano ed escono da una successione di rituali di interazione, ogni volta con un particolare insieme di capitale culturale, cioè di risorse simboliche, e di energie emozionali; questo insieme di risorse diventa poi il patrimonio che l'individuo usa per negoziare l'incontro successivo. La vita di ogni individuo può essere quindi concepita come un susseguirsi di rituali di interazione, simili alle scene di un film. Per Collins la struttura macro entra nella teoria dei rituali di interazione in due modi. In primo luogo, ogni incontro genera una situazione sociale che comprende tanti «film» individuali quanti
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sono i partecipanti all'incontro e ogni film contiene la storia dell'individuo nella sua dimensione temporale e spaziale. In secondo luogo, ogni incontro viene strutturato in base alla rete di relazioni di cui gli individui fanno parte, cioè in dipendenza della numerosità dei rituali di interazione che determinano chi sarà in grado di incontrarsi con chi e quale tipo di interazione sarà motivato ad avere. Quella che Collins chiama «struttura locale macro », cioè la rete di esperienze e relazioni propria di qualsiasi individuo è il nesso che collega il livello macro al livello micro: «Quando diciamo che vi sono effetti macro sul micro questo vuoi dire solamente che le interazioni micro svolte altrove hanno un effetto sulla interazione micro svolta qui» (Teorie sociologiche, 1988). Si tratta quindi di una soluzione del problema micromacro di tipo riduzionista che rimane ancorata a una ricerca della spiegazione a livello dell'interazione tra individui. Infine non possiamo concludere questa ancorché sommaria ricognizione sul pensiero sociologico contemporaneo senza citare uno dei più famosi e articolati sforzi di integrare teorie dell'attore e teorie strutturali, quello elaborato da A. Giddens (n. 1939). Anche per Giddens la divisione tra micro e macro teorie è artificiale e dannosa; artificiale perché tende a contrapporre una teoria all'altra alla ricerca di quale livello di analisi debba essere prioritario, e dannosa perché alimenta una divjsione del lavoro tra i sociologi che si occupano delle «libere» azioni degli attori individuali che possono essere studiate con profitto dalla prospettiva teorica dell'interazionismo simbolico o dell'etnometodologia, da un lato e, dall'altro, i sociologi che studiano all'interno di prospettive macro i limiti strutturali che condizionano tale libertà. Il grande fiorire degli approcci microsociologici degli anni settanta ha indotto alcuni studiosi, Collins per esempio (1981), a ritenere che la ricostruzione della teoria sociologica dovesse partire da fondamenta microsociologiche, essendo i processi macro i «risultati» delle interazioni in microsituazioni, una sorta cioè di aggregazione di micro-esperienze. Giddens si oppone nettamente a questo programma e mette in luce come le istituzioni sociali non possano essere né spiegate come aggregati di microsituazioni, né descritte in termini che si riferiscono a tali situazioni. Al tempo stesso queste non sono estranee o esterne ma sono anzi implicate profondamente anche nell'interazione più limitata e transitoria. Inoltre una definizione più precisa del livello micro, con cui si deve intendere una situazione di interazione limitata nel tempo e nello spazio, mette in luce le difficoltà insite nell'analisi di questo livello indipendentemente dal livello macro. Quando studiamo come l'interazione è portata avanti dagli attori, ci appare chiaro che molti aspetti di questa sono sedimentati nel tempo e hanno significato solo se si considera il loro carattere ricorrente e routinario. Anche rispetto allo spazio è impossibile isolare quanto avviene nei contesti dell'interazione faccia a faccia da ambiti spaziali più ampi in cui questi incontri si formano e si riproducono. Secondo Giddens i concetti di tempo e spazio non sono macrovariabili strutturali in qualche modo esterne all'attore ma 377
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sono costitutive dell'identità dell'attore e della struttura dell'interazione; da qui discende l'attenzione che ai concetti di spazio e tempo è riservata nella sua teoria. Giddens sostiene che i problemi a cui ci si riferisce nel dibattito micro/macro riguardano, da un lato, la connessione tra la natura dell'interazione in situazione di interazione faccia a faccia e, dall'altro, i condizionamenti che caratterizzano e spiegano la condotta sociale. Nella «teoria della strutturazione » (La costruzione della società, 1984), Giddens affronta il problema micro/macro partendo dai concetti di integrazione sociale e di integrazione sistemica. La prima riguarda l'interazione in contesti di co-presenza con riferimenti espliciti alla definizione goffmaniana, cioè con riferimenti alle modalità percettive e comunicative del corpo, e denota il grado di reciprocità delle pratiche tra gli attori che può determinare l'apparente «fissità» delle istituzioni. L'integrazione sistemica si riferisce invece alle connessioni tra coloro che sono fisicamente assenti, cioè all'estensione nel tempo e nello spazio delle strutture istituzionali delle diverse società o comunità del sistema, indipendentemente da condizioni di co-presenza. In altre parole abbiamo qui due aspetti della dimensione macra che rimandano alla concettualizzazione di struttura e sistemi sociali che Giddens propone. Giddens definisce la struttura come un insieme di regole e di risorse organizzate in modo da essere usate un numero infinito di volte e con un'esistenza virtuale al di fuori dello spazio e del tempo. La tradizione culturale di una società ne può essere considerata un esempio. Quelli che invece Giddens chiama « sistemi sociali» sono pratiche sociali riprodotte da attori o collettività situate nel tempo e nello spazio. Questi sistemi sono prodotti e riprodotti dagli attori, che nelle loro interazioni utilizzano regole e risorse nella diversità storica dei contesti dell'azione; hanno proprietà strutturali che sono al contempo il mezzo e il risultato delle pratiche che continuamente rendono possibili; essi quindi condizionano l'azione ma al tempo stesso permettono il cambiamento e l'innovazione. La teoria della strutturazione ha al suo centro la dualità e la definizione reciproca di azione e struttura: ogni azione sociale coinvolge la struttura e viceversa. Il punto di partenza sono le pratiche umane e il loro carattere ricorsivo, cioè il fatto che le attività umane sono continuamente ricreate dagli attori sociali attraverso quegli stessi mezzi con cui questi esprimono se stessi in quanto attori. Attraverso queste attività, gli attori riproducono le condizioni che rendono queste attività possibili. Il carattere ricorsivo dell'azione dipende dalle capacità di conoscenza dell' attore, in particolare dalla sua riflessività, cioè dalla capacità non solo di essere presente a se stesso in quello che fa, ma soprattutto di impegnarsi costantemente nel monitorare il flusso delle attività e dei contesti fisici e sociali in cui l'azione si svolge. La sua capacità di conoscenza si esprime in particolare nella consapevolezza delle regole sociali che lo rendono capace di rispondere ma anche di modificare le situazioni in cui è coinvolto. L'attore per Giddens è quindi logicamente dotato di potere in quanto non è più un attore se non ha la capacità di cambiare le cose.
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La teoria della strutturazione è stata utilizzata da Giddens in questi ultimi anni per l'analisi critica del mondo moderno, del potenziale di pericoli ma anche di libertà con cui si confronta l'individuo nella fase di «alta modernità» delle società industrializzate contemporanee (1990, 1991, 1993). Di questa, e delle precedenti elaborazioni teoriche, possiamo evidentemente fornire solo alcune idee significative e che lascino intravedere la complessità degli schemi teorici in cui si inseriscono. L'obiettivo di questa ricognizione era quello di mettere in luce il cammino convergente che la teoria sociologica ha percorso negli ultimi decenni e il dialogo che si è instaurato tra approcci diversi. Carattere comune di· queste costruzioni teoriche è una visione dell'attore autonomo, creativo, capace di interpretare e manipolare le relazioni sociali in cui è immerso e i condizionamenti storico-sociali in cui si trova a operare. Un'immagine che ha recepito appieno i risultati dell'analisi microsociologica dei decenni precedenti. Si tratta di un attore che fa la storia ma non in totale libertà, trovandosi egli ad agire comunque in condizioni prodotte dal passato. Il cammino teorico di questi ultimi anni può essere interpretato come la ricerca della specificazione concettuale del significato e dei modi di operare di questo condizionamento. Poiché però sono diversi i presupposti alla base delle concezioni degli attori e di conseguenza delle concezioni dei condizionamenti a cui questi sono sottoposti, questa ricerca comune si è espressa in una pluralità di approcci. Tale pluralità rimane un elemento che caratterizza la disciplina. IV ·
RI F L E SSI O N I
F I N A LI
SULL O
S T AT U T O
DELLA
D I S C I P LI N A
La sociologia soffre oggi di un paradosso: mentre da un lato viene chiamata a dare un contributo di conoscenza rispetto a un ventaglio amplissimo di problemi, dall'altro sembra di volta in volta deludere le aspettative che si sono formate sulla efficacia di tale contributo, poiché essa non è in grado di offrire soluzioni univoche e definitive ai problemi che le vengono posti. Questo paradosso dipende da una mancata chiarezza sui caratteri della conoscenza nelle scienze sociali. Per far luce su tali caratteri e discutere le possibili fonti del paradosso, è utile riprendere brevemente alcune questioni di base sullo statuto della disciplina. Una riflessione su questo tema deve primariamente fare i conti con la tradizionale distinzione tra scienze naturali e scienze sociali; in passato, in base all'assegnazione della disciplina a una di queste due categorie, è stata impostata la discussione sul carattere oggettivo o soggettivo della conoscenza prodotta. Negli ultimi decenni sono cambiati i termini stessi della questione e la distinzione tra scienze oggettive e scienze interpretative oggi viene guardata con sempre maggiore scetticismo. In primo luogo questo è determinato dal cambiamento della definizione delle stesse scienze naturali. Alla tradizionale visione che vedeva queste scienze come contraddistinte dalla capacità di elaborare spiegazioni e analisi causali in forma di leggi 379
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secondo il modello nomologico-deduttivo, la riflessione filosofica sulle scienze naturali ha sostituito una concezione che riconosce il carattere riduttivo e selettivo dei procedimenti di conoscenza e prevede la presenza di preoccupazioni e compiti ermeneutici pure all'interno delle scienze naturali. Anche nelle scienze naturali la conoscenza scientifica procede attraverso la selezione di fattori e di rapporti tra fattori considerati significativi; questa selezione è fatta in base a criteri relativamente arbitrari e contingenti, che derivano dal contesto storico-sociale e culturale dell' osservatore e dall'interesse particolare che muove la ricerca. Il processo selettivo fa sì che le spiegazioni o generalizzazioni tendano a conformarsi piuttosto al modello probabilistico-induttivo, cioè indichino le probabilità della regolarità di un fenomeno a partire da condizioni necessarie ma non sufficienti al suo manifestarsi. Inoltre è ormai riconosciuto il carattere costitutivo delle presupposizioni che guidano ogni processo di conoscenza: anche le scienze sociali sviluppano quadri di significato che rendono intelligibile il mondo fisico in modi specifici, legati alle presupposizioni su cui si basano e a esse relativi. Questo riconoscimento apre la strada alla coesistenza di una pluralità di modelli teorici diversi, cui la conoscenza scientifica fa ricorso a seconda del carattere dei fenomeni studiati e dell'interesse particolare che la muove. Sostanzialmente questo ravvicinamento tra i due tipi di scienza ha avuto luogo sul terreno della relatività della conoscenza scientifica rispetto ai presupposti valutativi e agli interessi conoscitivi. L'immagine della scienza, e della sociologia in quanto tale, continua a essere legata a concezioni precedenti di tipo positivista e alimenta sempre maggiori richieste di intervento su sempre più numerosi e complessi problemi sociali. La pluralità di modelli teorici viene percepita più come sintomo di incertezza sul proprio statuto che come risultato necessario dell'esistenza di diversi presupposti e teorizzazioni relative alla diversa natura dei problemi da affrontare. La questione oggettività/soggettività rimane un problema fondamentale e irrisolto nelle scienze sociali, alla cui esplicitazione e ridefinizione hanno concorso contributi diversi. La cosiddetta «svolta linguistica» nella teoria sociale ha portato una ridefinizione di questa questione alla luce delle nuove concezioni sulla natura del linguaggio e sul suo peso nella vita sociale. A partire dal riconoscimento del fatto che la comprensione è legata al linguaggio, si sostiene che l'intelligibilità dell'azione e delle istituzioni dipende più dai quadri linguistici di riferimento che non da ciò che Weber chiamava «significato soggettivo». L'azione umana ha significato soprattutto in quanto tale significato è espresso nel linguaggio e il linguaggio non è una proprietà dell'individuo ma della collettività. Analogamente all'analisi di un testo, ogni azione può venire analizzata a partire dal suo significato soggettivo, cioè relativamente alle intenzioni che l'individuo ha per impegnarsi in quell'azione particolare (o l'autore ha per scrivere quel particolare testo), oppure per il suo significato oggettivo che deriva dal significato che altri attribuiscono a quell'azione (o a quel testo); l'azione, come il testo, sviluppa significati oggettivi che trascendono l' orizzonte degli attori individuali. L'analisi sociologica può arrivare a cogliere questi signi-
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ficati non tanto attraverso i metodi delle scienze naturali, quanto attraverso il metodo dell'analisi testuale della linguistica: il ricercatore indaga la realtà sociale a partire da presupposizioni di cui è già in possesso e nel rapporto conoscitivo che instaura con questa realtà mette alla prova la validità di queste presupposizioni, confermandole o sostituendole con altre più adeguate. Il rapporto conoscitivo è di tipo dialettico e produce trasformazioni sia nei pregiudizi del ricercatore che nei significati dell'oggetto stesso; il ricercatore entra quindi, come l'interprete di un testo, nel « circolo ermeneutico» e si pone nell'ottica non più della ricerca della verità oggettiva, ma della ricerca di spiegazioni e interpretazioni «adeguate» e valide sino a prova contraria. Si aprono a questo punto due interrogativi interconnessi: da un lato, come evitare che la relatività del significato si traduca nel relativismo più assoluto per cui ogni spiegazione possa essere accettata come vera; dall'altro, come definire i criteri per cui una spiegazione è migliore di un'altra. Questi due interrogativi rimandano al problema dei criteri che definiscono la validità scientifica della ricerca nelle scienze sociali. Sociologi di diversa formazione e orientamenti rispondono a questo problema ricercando una dimensione intersoggettiva dell'oggettività, costruita a partire dall'esplicitazione delle disposizioni cognitive e normative del ricercatore, della definizione della natura dell'oggetto studiato e della chiarificazione della forma delle domande sollevate a proposito di quell'oggetto. Il successo di tale ricerca, il raggiungimento dell'oggettività scientifica, è determinato in ultima analisi su base convenzionale dal confronto interno alla comunità dei ricercatori. Non mancano orientamenti diversi ed estremi. Da un lato vi è una posizione che non tematizza la natura complessa dello stesso procedimento di costruzione del dato empirico e che tende a dimostrare la teoria sulla base delle evidenze empiriche. Dall'altro vi sono atteggiamenti di tipo radicalmente soggettivistico che, sulla base dello stesso carattere contestuale della teoria sociologica, riconoscono solo uno statuto narrativo-interpretativo al lavoro teorico. Questo disaccordo sulle capacità conoscitive della sociologia contribuisce alla sua immagine di scienza inferma e non ancora adulta, frammentata e conflittuale al suo interno. Se ben inteso, però, esso tende a mettere in luce i limiti del sapere e le difficoltà che esso incontra nell'interpretazione della realtà sociale piuttosto che la supposta immaturità di questa disciplina. Rimane infine il problema di cosa si intende per teoria. A seconda del tipo di definizione adottato avremo aspettative diverse riguardo alla sua capacità di spiegazione del sociale e di intervento efficace sulla realtà. Se per teoria si intende un insieme coerente di proposizioni o generalizzazioni collegate tra loro deduttivamente, la maggioranza dei sociologi sarebbe concorde nel sostenere che in sociologia non esi~te teoria, la costruzione di una teoria di questo tipo potrebbe essere l'obiettivo a cui tendere in un remoto futuro ma al momento attuale essa non è fra i maggiori interessi di questa disciplina. Altri scienziati sociali ritengono invece che que-
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sta non sia neppure un'aspirazione legittima della teoria sociologica e quindi non è un obiettivo che ci si deve o ci si può porre, sulla base di motivi che saranno discussi tra breve. Quale che sia l'obiettivo verso cui muoversi, il restringere la teoria a un insieme di generalizzazioni, appare oggi oltremodo riduttivo. Se guardiamo infatti alle generalizzazioni a cui perviene la ricerca sociale vediamo che queste riguardano conoscenze che gli attori stessi hanno e usano nell'azione, oppure circostanze di cui gli attori possono anche essere ignari e che li influenzano, oppure infine commistioni dei due tipi. Le prime tendono a essere prodotte soprattutto all'interno di alcuni approcci microsociologici, le seconde hanno rappresentato per molto tempo la spiegazione tradizionale in sociologia, quella secondo cui l'azione veniva spiegata a partire da fattori strutturali che la determinavano, fossero queste le norme interiorizzate o la collocazione di classe. La ricognizione svolta fino a questo punto ha documentato la necessità del superamento di questo dualismo e della compresenza di entrambi i tipi di generalizzazione nella costruzione della teoria sociale. La ragione di ciò sta nella stretta relazione tra i due tipi di generalizzazioni: l'attore può apprendere come modificare coscientemente quelle stesse circostanze che nel secondo tipo di generalizzazioni sono ritenute esplicative del comportamento dell'attore. Quindi i due tipi di generalizzazione si presuppongono a vicenda. Giddens parla a questo proposito di «doppia ermeneutica» (1976, 1984) per descrivere il carattere logicamente necessario della intersezione tra i due quadri di significato, quello costituito dalle conoscenze degli attori e quello del meta-linguaggio dello scienziato sociale. Nella pratica delle scienze sociali vi è infatti un continuo « scivolamento » da un quadro di generalizzazioni all'altro. Le teorie e i risultati raggiunti nelle scienze sociali non possono essere tenuti separati dall'universo dei significati e delle azioni che descrivono ma rientrano in quell'universo perché gli attori se ne appropriano. Dalle capacità riflessive dell'attore, dalla natura dell'« oggetto» delle scienze sociali, dipende in ultima istanza la differenza tra queste e le scienze naturali: la molecola osservata al microscopio non solo non sa nulla delle riflessioni che lo scienziato fa sul suo comportamento e delle regole generali o teorie che ne trae ma non potrebbe in nessun modo modificare il suo comportamento anche una volta che ne venisse per assurdo a conoscenza. Dalla logica della doppia ermeneutica, a cui i concetti e le teorie sociologiche obbediscono, derivano tre importanti conseguenze. La prima è che ogni forma di generalizzazione risulta essere instabile rispetto all'altra e questo rende problematico se non impossibile il processo di accumulazione delle conoscenze che è invece intrinsecamente legato alla percezione del lavoro scientifico. Le «soluzioni» dei problemi sociali sono necessariamente parziali, perché essendo forme di riduzione della complessità, hanno una validità temporanea e sono costantemente rimesse in discussione. La seconda è che in sociologia il compito preminente della teoria non è tanto
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l'elaborazione di generalizzazioni, ma soprattutto la costruzione dei mezzi concettuali per l'analisi della coscienza pratica e discorsiva dell'attore: ciò che gli attori sanno del perché agiscono in un certo modo, ciò che sono in grado di dire e ciò su cui si basano tacitamente, per agire nei vari contesti della vita sociale. La maggioranza delle domande che ci poniamo sulla realtà sociale non necessitano di generalizzazioni ma cercano risposte a partire dall'interpretazione dei significati dell'azione e dei suoi contesti. Queste domande sono però abbastanza lontane da quelle di chi richiede lo studio di un problema sociale in vista della sua risoluzione. La terza conseguenza riguarda il carattere intrinsecamente critico della teoria sociale. In una visione tradizionale il fatto che le teorie e le « scoperte » delle scienze sociali possano venire utilizzate per risolvere problemi sociali rappresenta una possibilità: il politico o il burocrate possono scegliere di affrontare un dato problema a partire dalle indicazioni della teoria sociale, e possono farlo sia per modificare i rapporti di dominio e subordinazione esistenti o le strutture di disuguaglianza, e quindi in senso critico ed emancipatorio, sia per mantenerle o rafforzarle. In un senso meno « tecnico » possiamo affermare che ogni teoria che « sveli » la natura e i meccanismi di subordinazione e disuguaglianza ha una funzione critica nella società, poiché offre potenzialmente i mezzi per modificare queste strutture. Questo non è tuttavia il significato che qui interessa maggiormente. Il fatto che lo scienziato sociale e l'attore sono coinvolti nel reciproco gioco interpretativo di cui abbiamo parlato comporta che le elaborazioni dei sociologi abbiano necessariamente conseguenze pratiche e politiche nella vita sociale e che vi sia una interdipendenza profonda e logicamente necessaria tra teoria e pratica sociale. Tornando ora al confronto tra le scienze naturali e le scienze sociali per valutare l'efficacia delle conoscenze delle diverse scienze nella gestione della realtà sociale, possiamo immettere nella nostra valutazione un elemento nuovo. Fintanto che valutavamo scienze naturali e scienze sociali secondo uno stesso modello, le realizzazioni delle prime, con lo sviluppo tecnologico che le ha accompagnate, ci apparivano quasi incomparabilmente superiori a quelle delle seconde. Quando però riconsiderassimo la questione alla luce di questa relazione reciproca e quindi del continuo trasferimento di conoscenze tra i quadri di significato dell'attore e le teorizzazioni dello scienziato sociale, l'impatto delle scienze sociali potrebbe risultare almeno parimenti significativo. Nel costruire la realtà, nel rapporto quotidiano con gli altri e con le cose, gli individui utilizzano costantemente, anche se a volte incoscientemente, quadri di significato e schemi di interpretazione che la sociologia, insieme con altre forme specifiche di conoscenza della realtà sociale, ha partecipato a creare.
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CAPITOLO
UNDICESIMO
Tendenze del pensiero economico contemporaneo DI
GIORGIO RODANO
I
·
PREMESSA
Comprimere in poche pagine l'illustrazione delle mille tendenze in cm s1 articola il pensiero economico contemporaneo è compito arduo. Nel proporre una ricostruzione degli sviluppi degli ultimi decenni sono stati privilegiati i temi della macroeconomia (nei suoi n.~porti con la microeconomia), una disciplina che avendo subito profonde trasformazioni nella seconda metà di questo secolo consente di far luce sui più generali cambiamenti intervenuti in tutta la scienza economica. La storia dell'economia come di ogni altra disciplina scientifica ha un carattere fortemente unitario. Le scansioni temporali contribuiscono senza dubbio alla chiarezza dell'esposizione, ma non devono farne dimenticare l'intrinseca coesione e complessità; i continui rimandi che il lettore incontrerà nella trattazione non sono perciò né voluti né casuali ma, semplicemente, inevitabili.' Come termine a qua da cui prendere le mosse nell'analisi può essere indicata la metà degli anni sessanta, periodo in cui la scienza economica cominciava a uscire a fatica da una grave crisi che ne aveva messo in discussione i fondamenti teorici, per precipitare però in un'altra crisi da cui sarebbe emersa profondamente trasformata. La prima crisi, di cui attorno a quella data si intravedeva l'epilogo, era stata innescata nel 1960 dall'uscita (contemporaneamente in Italia e a Cambridge) del libro di Piero Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci, un testo pensato, recitava il sottotitolo, come «premessa a una critica della teoria economica »; l' obiettivo della critica di Sraffa era la cosiddetta economia neoclassica, una delle strutture portanti del pensiero economico dell'epoca. La seconda crisi, quella di cui pochi anni dopo si sarebbero cominciate a cogliere le prime avvisaglie, ne avrebbe colpito con violenza l'altra struttura portante, l'economia keynesiana. II
· IL
DIBATTITO
SU
SRAFFA
La produzione scientifica di Piero Sraffa (1898-1983) si riduce a un numero limiI Un'agile e illuminante lettura della storia del pensiero economico del Novecento fino agli
anni sessanta è quella di Napoleoni e Ranchetti, 1990.
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tato di lavori, in genere di pir cola o piccolissima mole, ma di grande densità e spessore. Il suo programma scientifico, perseguito con coerenza nell'arco di tutta la vita, si articola attorno a due tematiche: r) la critica della teoria neoclassica (marginalista) sia nella sua versione « inglese» (marshalliana) sia nella sua versione « austriaca» (hayekiana); 2) la ripresa dell'approccio classico, proposto tra Sette e Ottocento da Smith, Ricardo e Marx e sommerso e dimenticato, alla fine del secolo scorso, con l'affermarsi del marginalismo. 2 Di quest'ultimo Sraffa attacca in particolare due aspetti: ne contesta la teoria della distribuzione, che vede le remunerazioni del lavoro e del capitale come funzioni dei rispettivi contributi al prodotto (funzioni cioè delle due «produttività marginali»), e critica la stessa possibilità di concepire il capitale come grandezza unitaria indipendentemente dalla determinazione dei prezzi e dalla distribuzione del reddito. I costrutti teorici elaborati da Sraffa, e da lui considerati rilevanti per la critica al marginalismo, sono il «ritorno delle tecniche» e la «riduzione a quantità "datate" di lavoro». Il primo costrutto afferma che una tecnica scartata al crescere del saggio di profitto, perché non più conveniente, può tornare nuovamente vantaggiosa, ed essere perciò riadottata, in corrispondenza di un saggio di profitto ancora più alto. Comunque si misuri l'intensità di capitale corrispondente alle due tecniche, viene contraddetta la conclusione dei marginalisti che tale grandezza deve essere una funzione monotòna decrescente del saggio di profitto (del prezzo del «fattore» capitale), nel senso appunto che le imprese tendono a economizzare l'impiego del fattore divenuto relativamente più costoso (Sraffa, 1960). Un discorso simmetrico vale per l'altra variabile distributiva, il salario. Per quanto riguarda la riduzione a quantità « datate » di lavoro/ si può mostrare mediante essa che la nozione di capitale, inteso come grandezza indipendente dai prezzi e dalla distribuzione, non può essere rigorosamente fondata in un «mondo» in cui vi sia più di un bene. Si tratta di due risultati che negli anni sessanta colsero di sorpresa la maggioranza degli studiosi e vennero presi molto sul serio nel dibattito di quel periodo sia dai seguaci sia dagli avversari di Sraffa. La discussione tra loro fu per qualche tempo molto accesa, coinvolgendo studiosi di primo piano, in Europa come negli Stati 2 Per orientarsi sull'opera di Sraffa e sul suo ruolo nella storia dell'analisi economica sono utili due lavori, un po' <<partigiani>> ma ricchi e docu· mentati, di Alessandro Roncaglia, che di Sraffa è stato appassionato allievo ed è attento conoscitore (Roncaglia, 1975 e 1995). 3 L'espressione può apparire oscura per i non specialisti. In breve si tratta di ciò. I prezzi delle merci (i <>) sono determinati da Sraffa sulla base dell'uguaglianza contabile, per ogni merce, tra ricavi e costi, nei quali ultimi sono compresi i profitti, assumendo la norma dell'unicità del saggio del profitto per i diversi capitali e assumendo come esogena una delle due variabili distributive, per
esempio il salario. Le merci che compaiono tra gli elementi di costo sono le stesse che compaiono tra i prodotti (di qui appunto il titolo del libro di Sraffa). Dato che il prezzo di ogni merce risulta essere una funzione del costo delle varie merci e del lavoro impiegati nel produrla, diviene possibile sostituire i prezzi delle merci che compaiono dal lato dei costi con i loro costi, ossia con delle espressioni che sono a loro volta funzioni dei costi delle varie merci e del lavoro impiegati per produrle (sarebbero le merci e il lavoro impiegati nel periodo precedente). Ripetendo l'operazione, e procedendo così a ritroso nel tempo, si ottiene per il prezzo di ogni merce un'espressione che (a meno di un<< resi-
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Uniti. 4 La conclusione di quel dibattito appare in un certo senso sorprendente. Su entrambi i punti si finì con l'ammettere, anche da parte di chi le aveva in precedenza contrastate, che le implicazioni dell'analisi di Sraffa erano corrette. Tuttavia, contrariamente a quanto Sraffa aveva sperato, questo non comportò un tramonto del marginalismo e una ripresa dell'impostazione classica. Negli anni successivi più di uno studioso ha cercato di portare avanti il programma scientifico di Sraffa sia sul versante critico (del marginalismo) sia su quello costruttivo (in chiave di approfondimento dei risultati di Sraffa e di ripresa dell'impostazione classica). Si sono formate delle scuole sraffiane, spesso conosciute, soprattutto all'estero, con l'etichetta di « neoricardiane », 5 che non sono però riuscite a conquistare il centro della scena. Nei primi anni settanta, in particolare in Italia, gli sraffiani sono stati per qualche tempo il gruppo egemonico, ma quasi immediatamente all'estero, e con un po' di ritardo anche nel nostro paese, le impostazioni teoriche neoclassiche sono tornate ad affermarsi fino a dominare nei decenni seguenti il quadro scientifico internazionale, anche se - come vedremo - la continuità dell'impostazione generale si è accompagnata a radicali cambiamenti nel metodo e nei risultati. Di fatto, con gli anni settanta l'economia neoclassica è entrata in una fase di profonda trasformazione e gli studiosi di questo indirizzo sono stati costretti a riconoscere l'esistenza, accanto a quella principale, di correnti minori. Il giudizio sulla loro rilevanza è stato lasciato alle capacità selettive della storia, ma a distanza di trent'anni essa sembra inferiore rispetto a quanto avevano sperato Sraffa e i suoi allievi. III
·
FORMALISMO
E
ASTRAZIONE
Spiegare l'eclissi dell'approccio sraffiano dopo i suoi iniziali successi non è semplice, ma è un problema che non è il caso di delegare agli storici delle dottrine, perché cercando le risposte si possono mettere in luce alcune caratteristiche significative del pensiero economico contemporaneo. Ci si limiterà in questa sede a poche e probabilmente inadeguate osservazioni. Senza dubbio ha contato il mutamento di strategia dei difensori dell'impostazione neoclassica. Inizialmente essi avevano tenduo>> di merci che può essere reso trascurabile) contiene soltanto varie quantità << datate >> di lavoro, ciascuna moltiplicata per un coefficiente che dipende dal saggio del profitto. n primo termine di questa espressione rappresenta il lavoro direttamente impiegato nella produzione, gli altri rappresentano il lavoro incorporato nelle merci che costituiscono il capitale impiegato. Il loro <> nella determinazione del prezzo (e anche nella misura del capitale) dipende dalla <> in cui il lavoro è stato prestato: quanto più si retrocede nel tempo, tanto più il contributo di una unità di lavoro diventa importante, perché il coefficiente che dipende dal saggio del profitto diventa sempre più grande a
mano a mano che si procede a ritroso. 4 Vi parteciparono anche, sul fronte dei difensori delle posizioni neoclassiche, due futuri premi Nobel, Paul Samuelson (che lo vinse nel 1970) e Robert Solow (che lo vinse nel 1987). Merita pure di essere sottolineato che un ruolo di primo piano fu svolto da studiosi italiani, tutti schierati dalla parte di Sraffa: ricordiamo, tra gli altri, Pierangelo Garegnani, Luigi Pasinetti e Luigi Spaventa. Tutta la discussione è conosciuta in letteratura come il <>. Per un'elegante ed esauriente rassegna si veda Harcourt, 1972. 5 Per una rassegna si può consultare Roncaglia, 1990.
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tato un contrattacco frontale, cercando di mostrare l'incoerenza logica di alcuni risultati ottenuti da Sraffa. Su questo terreno furono battuti: dal punto di vista formale quei risultati erano inattaccabili. Successivamente i neoclassici passarono a una linea di difesa meno aggressiva, analoga a quella che nei decenni precedenti si era mostrata di non poca efficacia per riassorbire le idee «eretiche» di Keynes: cercarono, cioè, di mostrare che l'approccio sraffiano non è incompatibile con quello neoclassico, di cui anzi può essere considerato un caso particolare. In questo quadro le idee di Sraffa avevano diritto a uno spazio, perché giudicate utili, capaci di arricchire la conoscenza economica. 6 I neoclassici accettarono l'esistenza di una scuola « neoricardiana », così come erano divenuti tolleranti nei confronti delle scuole di economia « marxista ». Questa è, però, solo una parte della spiegazione. Una caratteristica importante del pensiero economico degli ultimi decenni è che esso ha per un verso accresciuto enormemente il suo impiego di linguaggi formalizzati? e per un altro è venuto acquistando una sempre più chiara consapevolezza che «c'è un tradeo/f fra la trattabilità analitica di un modello e il grado in cui esso incorpora i complessi dettagli della realtà, e che questo tradeol/ non favorisce il secondo termine» (Baumol, 1991a). Quanto più l'analisi economica si avventurava in terreni fino ad allora inesplorati, tanto più era portata, per tenere sotto controllo le crescenti complicazioni analitiche, a lavorare con modelli semplificati, sfrondati di tutti i particolari non essenziali per il problema in esame. Oggi è divenuta pratica comune fare uso di modelli a un solo bene, immaginare consumatori immortali o, all'opposto, destinati a esaurire la loro esistenza in due soli periodi, ipotizzare situazioni in cui si produce senza capitale, o addirittura senza lavoro, e così via. Il pensiero economico contemporaneo ha rinunciato alla pretesa di costruire una teoria universale e onnicomprensiva dei fatti economici, una teoria generale se!/ contained. La maggioranza degli economisti degli anni novanta non ritiene sia possibile andare al di là di uno spazio disciplinare organizzato attorno a «teorie di media portata», limitandosi a sperare, senza crederci troppo, «che queste si cumulino m reti teoriche sempre più vaste» (Sal6 Un esempio tipico di questa rinnovata strategia neoclassica è quello di Hahn, 1982, secondo cui l'analisi di Sraffa sarebbe formalmente legittima e rigorosa, ma irrilevante in quanto critica della teoria neoclassica, s~ quest'ultima viene riformulata in modo corretto. E lo stesso Hahn a sottolineare con forza come l'analisi di Sraffa vada ricondotta, come caso particolare, all'interno della teoria neoclassica dell'equilibrio economico generale. 7 Nei lavori che compaiono oggi nelle riviste specializzate c'è molta più matematica di quanto awenisse cinquanta o anche trenta anni fa. Negli anni dell'immediato dopoguerra, chi faceva uso di equazioni o formule sentiva il dovere di giustificare il suo atteggiamento, spiegando (magari in modo altero e sprezzante, come Samuel-
son, 1947) che la formalizzazione non andava a scapito del realismo. Di solito le trattazioni formalizzate venivano relegate in apposite appendici. Oggi la situazione appare completamente rovesciata, e c'è chi, come William Baumol (n. 1922), pur riconoscendo i grandissimi successi ottenuti applicando la matematica all'economia e pur ritenendo che l'impiego della matematica promette di essere ancora fecondo, tuttavia si preoccupa che l' onnipresenza dei metodi matematici finisca con lo scoraggiare altri approcci, basati per esempio su ricerche empiriche e storiche (Baumol, 199ra). Se è espressa da Baumol, che all'inizio degli anni cinquanta era uno dei pionieri dell'impiego sistematico della matematica nell'economia, tale preoccupazione va presa sul serio.
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va ti, 1995). Ancor più diffuso è l'atteggiamento «che limita l'ambizione teorica della [. .. ] disciplina alla costruzione di modelli, di "meccanismi", da riporre in un grande armadio degli attrezzi da cui possono essere prelevati (a discrezione dell'interprete) quando si affronta un problema di ricerca » (ibidem). La coerenza tra i vari modelli non è richiesta, e probabilmente non è neppure possibile: per ogni problema si deve cercare il modello adatto, ma è illusorio pensare di costruire un modello universale dell'economia valido per tutti i problemi. 8 Oggi questo modo di ragionare è piuttosto diffuso, ma negli anni sessanta, quando ferveva il dibattito su Sraffa, le cose non stavano affatto in questi termini. Molti allora ritenevano che il programma scientifico di costruire una teoria universale e onnicomprensiva dei fatti economici fosse non solo legittimo, ma anche a buon punto nella sua realizzazione. Essi pensavano alla maestosa costruzione .teorica dell'equilibrio economico generale, che in effetti nel ventennio tra il 1950 e il 1970 sulla scia· dei fondamentali lavori di Kenneth Arrow (n. 1921, Nobel 1972) e Gerard Debrew (n. 1921, Nobel 1983), aveva occupato saldamente il centro della scena della teoria economica e aveva rappresentato il quadro di riferimento attorno a cui gli studiosi neoclassici costruivano le loro proposizioni e i loro risultati. Era questo quadro teorico-culturale a essere messo in discussione dalla critica di Sraffa. Ma appunto il quadro, anche sotto la spinta di quella critica, stava cambiando. 9 Vi era, del resto, anche una spinta endogena al cambiamento, che riguardava gli stessi studiosi di parte neoclassica e la stessa teoria dell'equilibrio generale. Le versioni più rigorose di tale teoria, in particolare quella di Debreu - il cui lavoro fondamentale, Theory o/ value: an axiomatic analysis o/ genera! equilibrium (1959), è quasi contemporaneo a quello di Sraffa - , si caratterizzano per una impostazione strettamente assiomatica priva di ogni intento descrittivo. L'interesse di Debreu era tutto focalizzato sulla struttura logico-formale della teoria, non sul suo contenuto empirico. Egli stava compiendo un altro passo lungo una strada che la scienza economica aveva imboccato da tempo e che tendeva a configurarla come una disciplina logico-deduttiva, il cui contenuto empirico era sempre meno identificato da un proprio spazio fenomenico di ricerca (le imprese, i consumatori, i mercati, la moneta, ecc.) e sempre più da un metodo di indagine, da un «punto di vista» con
8 Gli economisti sembrano essere arrivati, sul loro terreno, a una conclusione analoga a quella del «secondo>> Wittgenstein, che rinuncia a costruire un linguaggio universale e oggettivo, perché riconosce come erronea la sua tesi precedente che postulava la possibilità di stabilire una corrispondenza biunivoca tra il mondo r~ale e la rappresentazione che il pensiero ne dà. E degno di nota che Wittgenstein sia arrivato a tale revisione concettuale anche grazie agli stimoli dell'incessante confronto con Sraffa, come riconobbe con gratitudine lo stesso Wittgenstein nella pre-
fazione alle Ricerche filosofiche. 9 Per rendersi conto di come le cose appaiano oggi diverse, si può riferire l'opinione di un grande studioso della teoria dell'equilibrio generale, Douglas Gale, il quale osserva appunto che la posizione di tale teoria è attualmente assai più marginale che in passato, al punto che <> (Gale, 1993).
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cui si guarda alle attività umane. In questo percorso la teoria economica si è fatta sempre più «imperialista», ha teso a invadere terreni prima esclusivamente riservati a discipline contigue, come il diritto, la sociologia, le scienze politiche e la storia, ma per far ciò ha mutato profondamente forme e contenuti, e persino risultati, diventando sempre più diversa (vedremo più avanti in che senso) dall'impostazione neoclassica originaria, quella criticata da Sraffa, ma diventando anche sempre più intrattabile per le categorie « ottocentesche » dell'impostazione classica che Sraffa voleva riportare a nuova vita. 10 Questa tensione. interna al cambiamento nel corso dei decenni ha fatto sì che la scienza economica degli anni novanta appaia molto diversa da quella di trent'anni fa. L'eclissi del dibattito su Sraffa, se si eccettuano alcune aree sostanzialmente «provinciali», è stata però molto rapida: già nei primi anni settanta le idee di Sraffa non erano più di moda. La causa contingente va probabilmente cercata nel fatto che Sraffa poneva questioni di «lungo periodo» mentre in quegli anni l'interesse degli economisti tornava a focalizzarsi sul «breve periodo». Le questioni che appassionavano lo studioso come l'uomo della strada erano l'inflazione e la disoccupazione (i due indici del malessere dei sistemi economici), anzi quella compresenza dei due fenomeni, imprevista dalla teoria ma così diffusa in quegli anni nelle economie di mercato, per la quale fu coniato allora il neologismo stag{lation. Il lungo periodo poteva aspettare, tanto più che, come aveva detto una volta Keynes, «nel lungo periodo saremo tutti morti». Il dibattito si spostava su un'altra grande malata della teoria economica: la macroeconomia keynesiana. IV ·
LA
SINTESI
NEOCLASSICA
Sul versante empmco le politiche keynesiane sono state messe in crisi dall'inatteso fenomeno della stag{lation. La teoria prevedeva infatti che tra inflazione e disoccupazione vi fosse una relazione inversa, sintetizzata nella famosa curva di Phillips, sicché l'aumento dell'una si doveva accompagnare a una diminuzione dell'altra.U Forti di questa convinzione, gli economisti keynesiani degli anni sessanta raccomandavano, nel loro ruolo di advisors dei governi, l'adozione di politiche di gestione della domanda aggregata capaci di tenere alto e stabile il livello di attività economica e bassa la disoccupazione, sia pure a prezzo di un po' di inflazione, conro Sul tema dei rapporti tra l'economia e le altre discipline sia consentito il rinvio a Boitani e Rodano, 1995. n La curva di Phillips è una relazione empirica (cioè risultante dai dati statistici) fra tasso di disoccupazione e tasso di inflazione: quanto più alto è il primo tanto più basso è il secondo, e viceversa; in corrispondenza di tassi di disoccupazione molto alti il tasso di variazione dei prezzi può risultare negativo. La curva di Phillips è stata osservata
e <<stimata» per la prima volta alla fine degli anni cinquanta relativamente ai dati statistici del Regno Unito (si veda Phillips, 1958). Successivamente è stata stimata anche per tutti gli altri principali paesi. Nei primi studi le relazioni osservate e stimate erano tra tasso di disoccupazione e tasso di variazione dei salari nominali. In seguito sono state osservate e stimate anche relazioni tra tasso di disoccupazione e tasso di variazione dei prezzi.
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siderata un costo sociale inevitabile, ma da accettare di buon grado. Quando, per qualche motivo, l'economia avesse mostrato segni di surriscaldamento, si doveva manovrare la domanda aggregata in chiave restrittiva, per riportare sotto controllo la dinamica dei prezzi. 12 Col suo simultaneo aumento di inflazione e disoccupazione, la stagflation scosse la fiducia dei governi nelle politiche keynesiane e contribuì a diffondere tra gli studiosi dubbi sulla validità della teoria economica su cui si fondavano. Sul fronte della teoria, alla fine degli anni sessanta molta acqua era passata sotto i ponti della macroeconomia da quando, circa trent'anni prima, John Maynard Keynes aveva di fatto «inventato» un modo tutto nuovo di guardare ai fatti economici per comprendere il problema della disoccupazione di massa, la cui diffusione in tutte le economie avanzate suggeriva l'esistenza di un gigantesco «fallimento del mercato», attivo su scala aggregata. L'approccio dominante ai problemi macroeconomici era ancora quello della cosiddetta «sintesi neoclassico-keynesiana » (spesso abbreviata in «sintesi neoclassica »), elaborata, in Inghilterra e negli Stati Uniti, da uno stuolo di studiosi molti dei quali sarebbero stati in seguito insigniti del Nobel. Aveva iniziato, agli albori della «rivoluzione keynesiana », John R. Hicks (1904-89, Nobel 1972) con un lavoro in cui venivano poste le basi di quello che è ancor oggi il più noto modello macroeconomico, il modello IS-LM (Hicks, 1937). Quest'ultimo h'a costituito per anni la base della macroeconomia studiata nei libri di testo e a lungo è stato considerato la rappresentazione standard della teoria keynesiana. Dopo Hicks, il modello era stato perfezionato e arricchito, tra gli altri, da Meade (190795, Nobel 1977), Modigliani (n. 1918, Nobel 1985), Samuelson (n. 1915, Nobel 1970), Klein (n. 1920, Nobel 1980), Patinkin (n. 1922), Tobin (n. 1918, Nobel 1981) e lo stesso Hicks. Negli anni sessanta la versione di riferimento del modello IS-LM era la magistrale sintesi elaborata da Franco Modigliani: un /ramework costruito esplicitamente in termini di equilibrio generale, con quattro mercati (dei beni, dei titoli, della moneta e del lavoro), permette di esplicitare le ipotesi cruciali con cui discriminare tra risultati keynesiani e risultati neoclassici; i primi sono la possibilità di disoccupazione involontaria e la non neutralità della moneta (ossia la capacità di quest'ultima di influenzare le variabili reali del sistema), i secondi sono il pieno impiego automatico e la neutralità della moneta (Modigliani, 1963). Il modello identifica un'i-
12 Ecco come veniva descritta, vent'anni dopo, la situazione della macroeconomia in quel periodo. «Gli anni sessanta erano un'epoca di grande ottimismo per gli studiosi di macroeconomia. Molti economisti consideravano morto il ciclo economico. li modello keynesiano era il paradigma dominante e forniva tutte le istruzioni necessarie a maneggiare le leve della politica monetaria e di quella fiscale per controllare la domanda aggregata.
Quando la domanda era stimolata in modo eccessivo si verificava !"'inflazione", quando era "insufficiente" si verificava la disoccupazione. Il solo dilemma che dovevano fronteggiare i responsabili delle politiche era quello di determinare l'allocazione più desiderabile lungo questo tradeo// tra inflazione e disoccupazione, ovvero lungo la curva di Phillips. » (Plosser, 1989).
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potesi cruciale per il verificarsi di risultati keynesiani: quella di rigidità dei salari nominali verso il basso, ossia il fatto che, in presenza di disoccupazione involontaria (una situazione in cui non sono occupati tutti coloro che sono disposti a lavorare al salario di mercato), il salario nominale non si riduce. Se invece i salari nominali sono flessibili, ovvero reagiscono appropriatamente alla presenza di uno squilibrio tra domanda e offerta nel mercato del lavoro, allora i risultati del modello sono neoclassici. Un'implicazione ben conosciuta della teoria microeconomica tradizionale (neoclassica) è che, quando in un mercato (concorrenziale) si verifica un eccesso di offerta sulla domanda, il prezzo tende a scendere, per lo meno se il mercato è perfetto ed è libero di funzionare; avviene il contrario nel caso di un eccesso della domanda sull'offerta. Se il prezzo non scende, significa che è all'opera una qualche forma di rigidità o di attrito. Si tratta tuttavia di fenomeni che, sempre secondo la teoria tradizionale, hanno diritto di esistenza solo nel breve periodo. Nel lungo periodo, infatti, le forze del mercato finiscono sempre con l'affermarsi, e di fronte all'eccesso di offerta il prezzo scende fino al conseguimento dell'equilibrio. Se si applica questo risultato al mercato del lavoro, ne deriva una chiara implicazione per il modello macroeconomico standard degli anni sessanta: l'economia è keynesiana solo nel breve periodo, quando i meccanismi equilibratori del mercato non hanno ancora avuto modo di manifestarsi a pieno; nel lungo periodo, invece, la descrizione corretta del sistema economico è quella neoclassica (Patinkin, 1965). Sul fronte delle politiche (macro)economiche, le manovre di stabilizzazione, miranti a realizzare il pieno impiego con la gestione della domanda aggregata, si configurano allora come delle « scorciatoie» che consentono di ridurre il tempo necessario a conseguire un obiettivo che il mercato realizzerebbe spontaneameme in un periodo più lungo. Di esse vanno confrontati, perciò, benefici e costi: di questi ultimi, il principale è costituito dalle tensioni inflazionistiche che le politiche di espansione della domanda introducono nel sistema. Si tratta del tradeoff, già richiamato in precedenza, descritto dalla curva di Phillips. Alla fine degli anni sessanta la curva di Phillips era, insieme al modello IS-LM, una delle componenti della descrizione standard del sistema macroeconomico. I keynesiani se ne servivano, appunto, per dar conto del fenomeno dell'inflazione. Ma l'incorporazione della curva di Phillips nel modello macroeconomico keynesiano non era stata effettuata in modo rigoroso sul piano teorico. Era più che altro una giustapposizione, suggerita dalla lettura dei dati statistici, che oltretutto prometteva di poter essere sviluppata agevolmente nei grandi modelli econometrici che sembravano allora la «nuova frontiera» della teoria e della politica macroeconomica. Attorno al 1970, però, i grandi modelli econometrici entrarono in crisi: le loro previsioni sugli effetti delle manovre di politica economica cominciarono a risultare, sempre più spesso, sbagliate in modo sistematico. Sempre attorno a quella data, il dibattito sui fondamenti della curva di Phillips cominciò a sollevare dubbi crescenti sulla solidità dell'edificio teorico della macroeconomia keynesiana. 391
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Tendenze del pensiero economico contemporaneo V
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LA
RICERCA
DEI
MICROFONDAMENTI
Proprio in quegli anni cominciava ad assumere crescente importanza il tema della cosiddetta « microfondazione » della macroeconomia. Si trattava di una linea di ricerca che aveva l'obiettivo di riesaminare le relazioni di comportamento degli operatori aggregati (la funzione del consumo, quella dell'investimento, quella della domanda di moneta, ecc.), cercando di derivarle da processi di scelta razionale degli agenti individuali che tali relazioni sintetizzano. Il tema della microfondazione, che costituisce un aspetto caratteristico di tutto il pensiero macroeconomico contemporaneo, si era venuto sviluppando nel corso degli anni cinquanta e sessanta. 13 Dapprima erano state microfondate la funzione del consumo 14 e quella della domanda di moneta; 15 successivamente, anche se con esiti un po' meno soddisfacenti, era venuto il turno della funzione degli investimenti.16 Tali risultati si inserivano perfettamente nella corrente principale della macroeconomia keynesiana (quella della sintesi neoclassica) e contribuivano ad accrescerne il successo tra gli studiosi. I primi problemi arrivarono quando si cominciò a ragionare sul fondamento microeconomico della curva di Phillips. Per giustificare a livello micro la relazione aggregata sintetizzata dalla curva di Phillips ci si riferiva, di solito, al funzionamento del mercato del lavoro (così come lo si è brevemente tratteggiato in precedenza): una disoccupazione elevata tendeva a deprimere i salari e, viceversa, una bassa disoccupazione poteva essere interpretata come un sintomo di surriscaldamento del mercato del lavoro (una situazione di eccesso della domanda sull'offerta). Alla stabilità dei salari monetari e a una situazione di piena occupazione corrispondeva un tasso di disoccupazione (frizionale e/o volontaria) che sarebbe stato più tardi denominato (da Milton Friedman) «tasso 13 Prima del 1970 la comunità degli studiosi accettava di buon grado modelli che non fossero microfondati. Oggi sull'argomento si è diventati molto più esigenti. La microfondazione è considerata un requisito praticamente irrinunciabile, la cui mancanza viene di solito considerata un difetto che mina alla radice la qualità scientifica di un lavoro. 14 In Friedman, 1957 la funzione del consumo viene microfondata sulla base di un modello di scelta intertemporale di un agente rappresentativo razionale, che considera tra le proprie risorse anche i redditi futuri (in termini di valori attesi) e le cui preferenze riguardano anche il consumo negli anni a venire: è il cosiddetto modello del «reddito permanente>>. Si veda anche Ando e Modigliani, 1963, in cui l'orizzonte temporale considerato per l'agente rappresentativo è quello dell'intero arco della sua vita: è il cosiddetto modello del « ciclo di vita » (lzfe cycle). Gli studi sulla funzione del consumo hanno continuato a essere coltivati fino agli anni più recenti; per una rassegna aggiornata si può vedere Deaton, 1992.
15 Si vedano Baumol, 1952 e Tobin, 1956, che propongono il cosiddetto « approccio delle scorte liquide», e Tobin, 1958, che analizza il ruolo della domanda di moneta in un problema di « scelta di portafoglio» da parte di un agente razionale in una situazione caratterizzata da rischio. I: approccio di Tobin, 1958 è il punto di partenza di una linea di ricerca che avrebbe conosciuto negli anni successivi sviluppi molto importanti. Per certi versi si può dire che la moderna teoria della finanza (Ross, 1989) ha in quel lavoro una delle sue origini. 16 Si vedano i lavori di Jorgenson, 1963 e Tobin, 1969. Anche per quanto riguarda gli investinienti, la ricerca sia sul piano teorico sia su quello empirico è continuata nei decenni successivi, focalizzandosi in particolare sui problemi relativi alla scelta di investimento in condizioni di incertezza. Citiamo solo due titoli: Abel, 1983 sviluppa il tema utilizzando l' approccio dei costi di aggiustamento; Dixit e Pindyck, 1994 sviluppano il tema utilizzando l'approccio dell' option value. Per una nitida rassegna (che copre anche il tema del consumo) si veda Abel, 1990.
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naturale di disoccupazione». A sua volta, la dinamica dei salari nominali spiegava quella dei prezzi attraverso il meccanismo del mark-up. Questa impostazione sembrava adattarsi perfettamente al modello standard della sintesi neoclassica, gettando un ponte tra breve periodo (keynesiano) e lungo periodo (neoclassico)Y Vi era però un punto debole, una falla teorica che si sarebbe rivelata, di lì a poco, il punto di attacco di una grande controffensiva neoclassica che nel corso degli anni settanta avrebbe travolto l'economia keynesiana. La falla era stata rilevata nel 1967 da Edmund Phelps (n. 1953), 18 ma balzò agli onori della cronaca scientifica l'anno dopo, quando Milton Friedman (n. 1912, Nobel 1976), il leader indiscusso delle scuole di macroeconomia, fino ad allora minoritarie, che si opponevano a quella keynesiana, ne fece uno degli elementi portanti del suo Presidential Address alla American Economie Association (Friedman, 1968). In breve, la critica di Phelps e Friedman affermava quanto segue. Un'implicazione fondamentale dell'ipotesi di razionalità delle scelte economiche è che i soggetti, nel prendere le loro decisioni, guardano alle variabili reali, non a quelle nominali: a un lavoratore razionale interessa il salario reale, ossia quanti beni può acquistare con il suo lavoro; se il contenuto della sua busta paga cresce meno dei prezzi dei beni che consuma, egli sa che la sua situazione è peggiorata. Perciò, quando il lavoratore accetta un determinato salario nominale, lo fa avendo in mente un determinato livello del salario reale; e ciò significa che egli si aspetta un determinato livello dei prezzi. Se, poniamo, si prevede un'inflazione del s%, il lavoratore chiederà un adeguamento del salario nominale del 5% e l'impresa, purché ci sia accordo sul livello del salario reale, lo concederà senza problemi. La conseguenza per la microfondazione della curva di Phillips è che il ragionamento esposto poco sopra sul funzionamento del mercato del lavoro è corretto solo se non si prevede inflazione. In particolare, in corrispondenza del tasso naturale di disoccupazione (situazione di pieno impiego) i salari nominali sono stabili solo se l'inflazione prevista è pari a zero. Più in generale, la curva di Phillips deve essere «corretta» (augmented) per tener conto delle aspettative di inflazione. Attorno al 1970 la curva di Phillips è stata un tipico terreno di confrontoscontro tra: macroeconomisti di opposte scuole, con i neoclassici lanciati all' attacco e i keynesiani schierati lungo linee di difesa sempre più traballanti. 19 Ma
I7 Consentiva infatti di smussare un eccesso di dicotomizzazione presente nelle prime versioni del modello, caratterizzate dall'ipotesi di una completa rigidità dei salari nel breve periodo e di una completa flessibilità nel lungo, sostituendole con l'ipotesi che i salari fossero vischiosi, owero che reagissero lentamente agli squilibri tra domanda e offerta, soprattutto per quanto riguarda gli adeguamenti verso il basso. r8 Si vedano Phelps, r967 e 1968.
19 Sul terreno dell'interpretazione teorica, si rilevava che la curva di Phillips non era una relazione stabile di lungo periodo, in quanto la posizione della curva (in un grafico con la disoccupazione in ascissa e l'inflazione in ordinata) dipende dallo stato delle aspettative: se aumentano le aspettative di inflazione la curva si sposta verso l'alto coerentemente, appunto, con l'aumento simultaneo di inflazione e disoccupazione (la stagflation) che mostravano le statistiche in quegli anni. Sul ter-
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quella che sarebbe stata chiamata la «controrivoluzione »20 neoclassica in macroeconomia aveva una portata molto più generale. Nel 1970 uscì un volume collettaneo (Phelps e altri, 1970) che aveva per argomento proprio i fondamenti microeconomici della teoria dell'inflazione e della disoccupazione. I saggi contenuti nel volume, divenuto rapidamente in quegli anni un testo di riferimento essenziale per la comunità degli studiosi, mettevano l'accento su tre elementi da cui una corretta analisi dei fenomeni macroeconomici non poteva prescindere: 1) il fatto che l'ambiente economico è caratterizzato da incertezza e perciò va descritto e modellato tenendo esplicitamente conto di questo aspetto; 21 2) l'esigenza irrinunciabile che le funzioni aggregate siano microfondate sulla base di comportamenti individuali razionali; 3) l'enfasi sul ruolo dei mercati (più propriamente, sulle reazioni degli agenti ai segnali provenienti dai mercati) nel determinare le dinamiche del sistema economico. Questi tre elementi hanno costituito il terreno comune di gran parte della ricerca macroeconomica degli ultimi trent'anni, anche se, come vedremo subito, in tale periodo lo sviluppo della macroeconomia è avvenuto in modo tutt'altro che lineare e unitario. In particolare, gli anni settanta sono stati un periodo di violente controversie tra neoclassici e keynesiani. I primi ottennero inizialmente una clamorosa serie di successi, costruendo le loro teorie sui tre citati elementi, ovvero su quello che potremmo chiamare, per brevità, un «programma riduzionista ». 22 Il parziale recupero dei keynesiani si è verificato con un certo ritardo (soprattutto nei primi anni ottanta) e si è potuto realizzare solo in quanto - come vedremo più avanti - anche i keynesiani hanno finito con l'accettare il «programma riduzionista » misurandosi sul terreno di gioco imposto dai loro avversari.
reno della politica economica, la proprietà della curva di spostarsi faceva insorgere dubbi crescenti sulla possibilità di sfruttare il tradeo/f tra inflazione e disoccupazione. Le scuole neoclassiche erano sempre più convinte del carattere illusorio di tale tradeo//; gli economisti keynesiani erano sempre più in difficoltà nel difendere le possibilità delle politiche di stabilizzazione. 20 L'espressione riecheggia, per contrapposizione, la Keynesian revolution, titolo di un famoso lavoro di un economista keynesiano, futuro premio Nobel, scritto alla fine degli anni quaranta (Klein, 1950). 21 Dal 1970 in poi si fa sempre più consueta, fino a divenire standard, l'assunzione che il sistema economico sia continuamente perturbato dalla presenza di <>. Perciò, nella grande maggioranza dei modelli economici, le relazioni che legano le variabili cessano di essere formulate in termini deterministici e vengono invece descritte in termini probabilistici: sono equazioni << stocastiche >> che hanno a che fare con variabili <>.
22 Come è noto, un programma scientifico è << riduzionista >> quando cerca di ricondurre la spiegazione-descrizione dei fenomeni che studia a pochi elementi fondamentali. L'opzione riduzionistica è stata molto attiva nel pensiero scientifico moderno e contemporaneo (nel senso di <> la biologia alla chimica, la chimica alla fisica, e la fisica alla fisica delle particelle elementari). Il riduzionismo si contrappone al cosiddetto << olismo >>, che afferma invece la possibilità e la rilevanza, per il discorso scientifico, di strutture di livello superiore, che non possono essere ridotte, senza perdita di conoscenza, al livello elementare. In economia, la microfondazione della macra è un tipico atteggiamento riduzionistico (e, dentro questo quadro, si può dire che Keynes aveva, invece, un atteggiamento olistico). Quando poi si afferma che non si può fare alcun ragionamento di carattere macroeconomico che non sia accuratamente microfondato, e per di più sulla base di poche categorie generali, allora l'atteggiamento riduzionistico si fa decisamente marcato.
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Tendenze del pensiero economico contemporaneo VI
·
IL
MONETARISMO
Nella prima fase, la controffensiva antikeynesiana era stata guidata da Friedman e dagli esponenti della sua scuola, i cosiddetti « monetaristi ». Essa si era sviluppata sul terreno della teoria usando come arieti le due nozioni di tasso naturale di disoccupazione (natura! rate) e di curva di Phillips corretta per le aspettative. La convinzione dei monetaristi, sottolineata fin nella terminologia (per esempio, dall'enfasi sull'aggettivo naturale),23 era che il sistema economico fosse governato da forze reali - le preferenze degli agenti, la tecnologia disponibile e l'operare dei mercati, assunti come perfettamente concorrenziali24 - e che tali forze dessero luogo a un risultato ordinato, stabile (nei limiti del possibile) e non migliora bile dalla politica economica; un risultato, appunto, «naturale». Si avverte in questa impostazione la robusta influenza dei risultati ottenuti nei decenni precedenti dalla teoria dell'equilibrio generale, ai quali, del resto, Friedman si richiamava in modo esplicito e dei quali proponeva appunto l'estensione alla macroeconomia. Friedman sapeva bene che nei sistemi economici reali si riscontra una marcata instabilità. La spiegazione delle fluttuazioni economiche - la teoria del ciclo - era stata sempre il punto dolente dei precedenti tentativi di costruire una macroeconomia basata su categorie neoclassiche, mentre costituiva uno dei vanti maggiori dell'approccio keynesiano. Ma Friedman sembrava ora aver trovato una risposta soddisfacente. L'instabilità che si riscontra nei sistemi economici reali e che si esprime nelle caratteristiche fluttuazioni del ciclo economico era secondo lui dovuta, in larga parte, proprio agli interventi discrezionali delle politiche economiche, portate avanti da governi mal consigliati dagli economisti di scuola keynesiana. È il caso dell'inflazione, la cui causa andava ricercata, in ultima analisi, in un'eccessiva creazione di moneta. È il caso delle fluttuazioni del prodotto e della disoccupazione. I governi si illudono - sostenevano i monetaristi - di poter ridurre la disoccupazione con politiche di espansione della domanda aggregata (creando moneta) e pagando il conto con un po' di inflazione; si illudono, in altri termini, di poter sfruttare il tradea// della curva di Phillips. Essi - argomentava Friedman - otterranno qualche risultato solo nel breve periodo, ingannando famiglie e imprese che non si aspettano l'inflazione e quindi interpretano come variazioni reali quelle che sono in effetti
23 La nozione di tasso di disoccupazione naturale ha finito con l'essere accettata anche da economisti che non si ispirano alle idee dei monetaristi e persino da economisti di ispirazione keynesiana. Essi lo interpretano però senza dargli alcuna connotazione << naturale >> (e depotenziandolo dalla carica ideologica dei monetaristi) come il tasso di disoccupazione in corrispondenza del quale l'inflazione non accelera. Lo chiamano anche in un altro
modo, e precisamente con la sigla NAIRU (Non-Accelerating In/lation Rate o/ Unemployment). 24 Gli economisti sanno bene, persino i monetaristi, che i mercati reali non sono perfettamente concorrenziali. Ma l'atteggiamento metodologico di Friedman è che il realismo di un'ipotesi non conta: quel che è importante, e che giustifica l'adozione del modello, è che esso produca delle buone previsioni (Friedman, 1953).
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variazioni nominali. Ma presto esse cominceranno a rivedere le proprie aspettative, 25 e alla fine effettueranno i loro calcoli sulla base dei dati reali corretti, quelli che determinano per i monetaristi l'andamento di fondo del sistema. E si tornerà allora all'equilibrio «naturale», con l'unica sgradita eredità dell'inflazione: insomma si paga un vantaggio temporaneo, la riduzione della disoccupazione, con un costo permanente, l'aumento dell'inflazione. E se il governo si ostina nel perseguimento dei suoi «innaturali» obiettivi, le aspettative di inflazione verranno corrette continuamente verso l'alto e l'inflazione effettiva continuerà ad accelerare. L'attacco monetarista alle posizioni keynesiane era particolarmente aggressivo sul terreno della politica economica, cui contestava il ruolo e l'efficacia delle manovre di stabilizzazione. Qualsiasi misura interventista - sostenevano i monetaristi introduce nel sistema un elemento addizionale di disturbo, che si aggiunge al « rumore di fondo» comunque presente. In questo modo, la politica economica ha l'effetto di confondere gli agenti, inducendoli all'errore, spingendoli a prendere « razionalmente » decisioni sbagliate. Questo vale sia per le politiche espansive che per quelle restrittive. Ne consegue in particolare che, se si è commesso l'errore di surriscaldare il sistema, anche il processo di raffreddamento e di ritorno a una situazione di equilibrio «naturale» caratterizzata da prezzi sufficientemente stabili sarà relativamente lungo e penoso (perché contrassegnato da un aumento temporaneo della disoccupazione oltre il livello «naturale »), dal momento che il processo di revisione delle aspettative richiede tempo. E sarà tanto più lungo e penoso quanto più frequenti saranno gli interventi di politica economica (questa volta in chiave restrittiva), poiché anche in questo caso gli interventi hanno l'effetto di confondere gli operatori sulla natura dei segnali provenienti dai mercati. Le tesi dei monetaristi hanno segnato il ritorno in campo del liberismo in politica economica. Le loro posizioni sono state etichettate, appunto, come « neoliberiste ». Essi si contrapponevano a una concezione della politica economica che era prevalsa, soprattutto in Europa, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Una concezione che, traendo ispirazione e conforto dalle teorie keynesiane, riteneva possibile e utile intervenire, regolando la domanda aggregata con gli strumenti della politica monetaria e di quella fiscale, per stabilizzare il sistema economico, al fine di evitare le grandi depressioni e le fasi di marcata instabilità che avevano caratterizzato il ventennio tra le due guerre. 26
25 I monetaristi adottano l'ipotesi di aspettative <>. Al di là dell'aspetto tecnico, tale ipotesi significa semplicemente che gli agenti correggono gradualmente le proprie precedenti aspettative, imparando dai propri errori di previsione. Nel lungo periodo le aspettative sono, per definizione, corrette. 26 A livello degli studi universitari tale concezione comportava che i temi della macroecono-
mia venissero considerati più importanti di quelli della microeconomia. Gli ultimi trent'anni segnano un riequilibrio su questo terreno e addirittura un rovesciamento di posizioni. Contrariamente a quanto aweniva negli anni cinquanta e sessanta, oggi la parte più dinamica della scienza economica va ricercata nei temi coltivati dalla microeconomia; d'altra parte - come vedremo - la separazione tra macro e micro è venuta sempre più sfumando.
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Ma il contrattacco nei confronti dell'intervento pubblico era molto più ampio: veniva contestata l'ambizione dello stato di promuovere e pianificare la crescita economica, di gestire direttamente l'attività produttiva, di regolare i mercati, di intervenire in tema di distribuzione del reddito. I neoliberisti nutrivano una fiducia incondizionata nelle capacità del mercato di dar luogo a risultati ordinati e ottimali. Sulla scia delle convinzioni ostinatamente predicate dal vecchio Hayek (r889-1992, Nobel 1974), essi ritenevano che persino il formarsi delle istituzioni e delle regole che assistono il funzionamento del mercato dovesse essere affidato all'interazione spontanea degli agenti individuali. In questo senso, la posizione dei monetaristi rappresentava la ripresa, in forma estremizzata, di una tradizione che percorre come un filo rosso tutta la storia del pensiero economico fin dalle sue origini, nel Settecento, e dal suo padre fondatore, Adam Smith. A lui si deve la fortunata e feconda metafora secondo cui il mercato funziona come una «mano invisibile», che guida ogni singolo soggetto a realizzare un risultato complessivo «che non rientra nelle sue intenzioni» e che nessun governo sarebbe in grado di realizzare meglioY I monetaristi erano in prima fila tra coloro che ritenevano, attorno al 1970, che la «mano invisibile» fosse una proprietà dei mercati reali. E difendevano questa loro convinzione in modo assai aggressivo e intollerante. Si può sostenere, con buoni argomenti, che il loro atteggiamento culturale era sorpassato, che andava controcorrente rispetto a una tendenza che, come abbiamo visto, stava orientando la disciplina verso un crescente pluralismo scientifico e culturale. E si può dire che anche la loro posizione politica era terribilmente vecchia; che la «mano invisibile» è una illusione, anche se, come un fiume carsico, torna di tanto in tanto ad affacciarsi sulla scena, 28 soprattutto quando i ricorrenti fallimenti delle istituzioni e delle politiche di intervento pubblico nell'economia tornano a far oscillare il pendolo in direzione della palinodia delle virtù del mercato. La storia economica degli ultimi due secoli si è incaricata a più riprese di smitizzare queste virtù facendo emergere perplessità e dubbi circa la capacità del mercato di produrre ordine, efficienza e benessere. Nello stesso senso aveva operato una grande tradizione di pensiero economico, da Malthus a Kcynes passando per Marx, con contributi significativi provenienti dallo stesso alveo rnoclassico. Ma limitare a questa considerazione il giudizio sui monetaristi sarebbe riduttivo. Essi hanno rappresentato anche l'avanguardia di una schiera di studiosi che, per rubare un'immagine al loro leader, hanno messo del «vino vecchio in
2 7 Smith aggiunge che <do statista che cer· casse di dirigere i privati, circa il modo in cui essi dovrebbero impiegare i loro capitali, non solo si addosserebbe il peso di un'attenzione del tutto inutile, ma si assumerebbe un'autorità che non potrebbe essere affidata con sicurezza non solo a
una persona singola, ma neppure a qualsiasi consigli o o senato; e che sarebbe estremamente pericolosa proprio nelle mani di un uomo a tal punto folle e presuntuoso da ritenersi adatto a esercitarla>> (Smith, 1776, trad. it. 1995). 28 Su questo punto si veda Rodano, 1987.
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botti nuove» (Friedman, 1991). Le «botti», il metodo di analisi basato sui tre punti del «programma riduzionista », si sono rivelate di qualità assai superiore al contenuto che vi avevano introdotto i monetaristi. La scienza economica contemporanea si è spinta molto avanti lungo la strada che quel programma indicava, e percorrendo questo cammino è riuscita a produrre anche molto vino nuovo, di qualità superiore. VII
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LA
NUOVA
MACROECONOMIA
NEOCLASSICA
Per qualche anno, tuttavia, l'iniziativa in campo macroeconomico restò saldamente in mano a studiosi di parte neoclassica in teoria e di parte !iberista in politica. Un articolo innovatore e fecondo sulla teoria dell'offerta di lavoro, che compare nel citato volume collettaneo del 1970 curato da Phelps, era stato scritto da colui che sarebbe stato in seguito considerato il leader indiscusso della macroeconomia neoclassica degli anni settanta: Robert Lucas (n. 1937) premiato nel 1995 con il Nobel. In una serie di saggi che hanno fatto scuola (poi raccolti in Lucas, 1981), egli ha proposto una ricostruzione della macroeconomia basata, oltre che sui tre punti più volte citati del «programma riduzionista », sull'ipotesi di «aspettative razionali». Tale ipotesi, al di là delle technicalities, significa che gli agenti economici, nel prevedere le variabili rilevanti per la propria scelta, fanno il miglior uso possibile di tutte le informazioni disponibili e perciò non commettono errori sistematià. 29 Non è possibile sintetizzare in poche righe il contributo della macroeconomia neoclassica degli anni settanta, spesso etichettata con la sigla NCM (New Classica! Macroeconomics), 30 ma è possibile cercare di metterne in luce le caratteristiche essenziali e la rilevanza per gli sviluppi successivi. Come abbiamo già accennato, un ruolo
29 L'ipotesi di aspettative razionali era stata proposta dieci anni prima, in un articolo profondamente anticipatore (Muth, 196!). Per un lungo periodo, però, il suo utilizzo da parte degli studiosi di economia era stato episodico e marginale. Le cose cambiarono appunto con Lucas, e da quel momento iniziò un animatissimo dibattito, che ne mise in discussione il fondamento logico, il realismo e i problemi analitici. Il dibattito avrebbe finito con l'esaurirsi negli anni ottanta, dopo aver accumulato una massa enorme di contributi, anche se non tutti i problemi teorici e analitici apparivano completamente risolti. È il caso del cosiddetto problema dell'apprendimento. Si tratta in breve di ciò: l'ambiente economico è sottoposto a continui cambiamenti, che dipendono anche dai comportamenti degli agenti, a loro volta condizionati dalle aspettative individuali sul cambiamento dell'ambiente; se le aspettative sono sbagliate, l'ambiente cambia lo
stesso. Come si esce da questa circolarità? È possibile arrivare, attraverso un processo di learning, ad aspettative corrette? Sull'argomento si veda Frydman e Phelps, 1983. Un altro aspetto problematico dell'ipotesi di aspettative razionali è quello della molteplicità di soluzioni che si verifica ogni volta che l'aspettativa riguarda una grandezza futura, con la connessa questione della << selezione>> dell'aspettativa (su questo punto, si veda Blanchard e Fischer, 1989). Nonostante queste difficoltà, però, l'ipotesi di aspettative razionali ha finito con l'affermarsi. Il suo successo è testimoniato dalla sua enorme diffusione: ancora oggi essa è l'ipotesi standard per trattare le aspettative nei modelli macroeconomici, non fosse altro perché, come ha osservato Lucas, 1987, è l'ipotesi implicita in un« assioma di coerenza>> usato nella costruzione dei modelli. 30 Per un'eccellente esposizione si può leggere l'ampio e completo lavoro di Hoover, 1988.
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centrale viene giocato dall'ipotesi di razionalità dei comportamenti individuali e da quella che i mercati (assunti, sulla scia di Friedman, 31 come perfettamente concorrenziali) siano pienamente funzionali ed efficienti. Ne consegue, per esempio, che gli agenti sfruttano al meglio le risorse di cui dispongono (in gergo: massimizzano in modo coerente le proprie funzioni-obiettivo); che utilizzano al meglio anche le informazioni, sicché non fanno errori sistematici di previsione (in gergo: le loro aspettative sono razionali); che le loro decisioni sono basate solo sulle variabili reali e sui prezzi relativi (in gergo: gli agenti sono esenti dalla cosiddetta «illusione monetaria»); che i mercati sono sempre in equilibrio (in gergo: si ha market clearing). Se le cose stanno così, il sistema economico dà luogo a risultati neoclassici anche nel breve periodo: nell'universo concettuale della NCM non c'è spazio per le rigidità nominali, che sono incompatibili, appunto, con le ipotesi di comportamento razionale e di perfetto funzionamento dei mercati. Come già i monetaristi, anche la NCM si trova a dover svolgere un compito preliminare ma ineludibile. Deve fornire una spiegazione del ciclo economico coerente con il suo approccio e compatibile, in particolare, con le ipotesi e le implicazioni illustrate poco sopra. Deve, in altri termini, proporre una interpretazione del ciclo come fenomeno di equilibrio (equilibrium business cycle), nel senso che i soggetti economici non hanno motivo di cambiare le proprie scelte (razionali), sia perché nelle condizioni date massimizzano le proprie funzioni-obiettivo, sia perché in quelle condizioni le loro scelte sono compatibili.32 In realtà, gli economisti della NCM propongono due spiegazioni del ciclo economico, una che pone al centro il ruolo della moneta nel disturbare la percezione dei segnali provenienti dal mercato attraverso i prezzi, e un'altra in cui, invece, il ruolo di elemento perturbatore è svolto dalla dinamica della tecnologia. 31. All'inizio la scuola di Lucas veniva considerata una variante estremista del monetarismo (monetarismo <<mark two>> l'avrebbe chiamata Tobin), che si distingueva dalla versione di Friedman (<<mark one>>) per il fatto di adottare l'ipotesi di aspettative razionali invece di quella di aspettative adattive. Poi è stata chiamata <<scuola delle aspettative razionali>>, ponendo l'accento su un aspetto molto appariscente e carico di implicazioni del suo approccio. Qualche anno dopo, però, l'ipotesi di aspettative razionali ha cominciato a diventare standard per buona parte degli economisti, comprese le nuove generazioni di keynesiani, e allora per distinguere la scuola di Lucas si è affermata la sigla NCM. 32 Abbiamo già osservato che la capacità di dar conto del ciclo economico aveva costituito, nei decenni precedenti, uno dei motivi di attrazione dell'approccio keynesiano e una delle ragioni del successo dei modelli macroeconometrici degli anni sessanta. Ovviamente, il ciclo non era visto come un fenomeno di equilibrio, dal momento che è tipico del modo di pensare degli economisti key-
nesiam ntenere che i mercati si trovino spesso in condizioni di disequilibrio. La loro analisi si concentrava sui <<meccanismi di trasmissione >> degli impulsi perturbatori (in ciò continuando una tradizione che risaliva agli anni trenta, ai lavori pionieristici di Frisch, 1933 e Slutsky, 1937). Notiamo di passaggio che il grande studioso norvegese Ragnar Frisch (1895-1973) è stato il primo economista (con Jan Tinbergen) a ricevere il premio Nobel, nel 1969. Tali meccanismi si basavano sull'identificazione e il calcolo dei cosiddetti <<moltiplicatori>> degli impulsi e sul gioco dei ritardi che contrassegnavano le funzioni aggregate di comportamento. Rappresentativa di questo approccio è la grande famiglia dei modelli basati sulla famosa imerazione <<moltiplicatore-acceleratore>>, formulata da Samuelson alla fine degli anni trenta e da allora riproposta, con innumerevoli variazioni sul tema, da generazioni di macroeconomisti di scuola keynesiana. Invece, fino ai monetaristi e alla NCM, <
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Principale alfiere delle teorie monetarie dell' equilibrium business cycle è ancora Lucas. Egli propone innanzi tutto uno spostamento d'accento nell'analisi, che si riflette anche in un cambiamento nella terminologia: del ciclo economico non interessa tanto la periodicità (che oltretutto non trova un serio riscontro nelle serie storiche) quanto la « persistenza » delle fluttuazioni economiche e il « comovimento » delle principali variabili, ossia il fatto che esse fluttuano assieme: in particolare, il comovimento più vistoso e rilevante è quello (implicito nella curva di Phillips) tra prodotto nazionale e livello dei prezzi. Per spiegare questo comovimento, Lucas riprende l'idea di Friedman che il principale elemento perturbatore dell'equilibrio macroeconomico, e perciò la principale fonte delle fluttuazioni cicliche, è costituito dalle politiche monetarie interventiste. Ovviamente, siccome le aspettative sono razionali, non ci può essere inganno: gli agenti valutano correttamente gli effetti delle politiche economiche del governo, e non commettono errori di previsione sistematici. In particolare sanno che un aumento nell'offerta di moneta, quando viene correttamente anticipato, provoca soltanto un aumento dei prezzi, lasciando immutate tutte le variabili reali. L'ipotesi di razionalità implica infatti che le decisioni degli agenti si basino solo sui prezzi relativi. Tuttavia ci può essere una sorpresa: nel valutare gli effetti delle politiche economiche, gli agenti non possono far di meglio che considerarne gli aspetti sistematici, non quelli casuali. Perciò, se si verifica una fluttuazione casuale nell'offerta di moneta (poniamo un aumento) che non viene annunciata dal governo e perciò non può essere razionalmente prevista, gli agenti osservano un aumento dei prezzi rilevanti per la propria scelta, ma non sanno se quest'aumento sia dovuto a cause generali (appunto una fluttuazione casuale dell'offerta di moneta) oppure a cause «locali», ossia a una variazione dei prezzi relativi. Nel primo caso non devono modificare le proprie scelte, perché i prezzi relativi sono rimasti immutati; nel secondo le devono cambiare. Di fronte a questa inevitabile «confusione» tra prezzi assoluti e prezzi relativi (absolute-relative con/usion), è razionale, per gli agenti, attribuire una parte dell'aumento a cause generali e una parte a cause locali, 33 e comportarsi di conseguenza. Ne deriva il tipico comovimento tra prodotto e prezzi che caratterizza il 33 Per analizzare le implicazioni della relativeabsolute con/usion Lucas adotta quello che nella !etteratura macroeconomica è noto come un «modello a isole>>, formulato per la prima volta da Phelps, 1970. L'idea è quella di concepire il sistema economico come costituito da una miriade di mercati sparpagliati, simili alle isole di un arcipelago. Ciascun mercato è sottoposto a due tipi di shock, uno generale (la politica monetaria) che riguarda tutte le isole e uno locale,. che riguarda solo la singola isola. L'informazione di quel che avviene negli altri mercati arriva nella singola isola con un periodo di ritardo; in particolare, arrivano in ritardo le informazioni sulla politica monetaria e perciò sul livello
dei prezzi. L'osservazione delle serie storiche del livello generale dei prezzi (il cui dato corrente non è conosciuto, ma i cui dati precedenti lo sono) e dei prezzi rilevanti per la scelta (di cui sono conosciuti anche i dati correnti) permette di elaborare una stima precisa di quanta parte della variazione osservata vada attribuita a cause generali (variazione del livello generale dei prezzi) e quanta a cause locali (variazione dei prezzi relativi). I modelli a isole hanno conosciuto una grande diffusione negli anni settanta e nei primi anni ottanta per studiare vari problemi di funzionamento del sistema macroeconomiCo.
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ciclo economico. Naturalmente, questo è solo il nocciolo, l'idea centrale della teoria monetaria del ciclo in equilibrio, teoria che è stata completata e arricchita di moltissimi dettagli nel corso degli anni settanta (Lucas 1972, 1973, 1975, 1977 e 1980). VIII
·
LE
TEORIE
DEL
« CICLO REALE»
Il cambiamento di impostazione proposto da Lucas per studiare le fluttuazioni economiche si rivelò, negli anni successivi, estremamamente fecondo. Tale cambiamento si basava - lo ricordiamo - sull'idea di concepire il ciclo come un fenomeno di equilibrio, compatibile con le scelte razionali degli agenti in condizioni di incertezza, e sull'idea che la spiegazione doveva riguardare soprattutto il fatto che le serie storiche delle principali variabili macroeconomiche presentavano andamenti correlati (« comovimenti »). Meno successo ebbe, invece, la tesi lucasiana che la fonte principale delle fluttuazioni cicliche andasse cercata nelle oscillazioni della politica monetaria. Se si accetta, con Lucas, che contano solo le variazioni inattese dell'offerta di moneta, allora esse sono troppo poco rilevanti per dar vita a fluttuazioni cicliche delle ampiezze osservate. Questo perché le informazioni sulla dinamica dell'offerta di moneta e, più in generale, del livello dei prezzi, sono capillarmente diffuse e tempestive. Negli anni ottanta, a partire dal lavoro pionieristico di Kydland e Prescott (1982), si sviluppò rapidamente una nuova linea di ricerca sulla teoria del ciclo in equilibrio, in cui gli elementi perturbatori che innescavano le fluttuazioni erano rappresentati dai cosiddetti /undamentals del sistema economico. In queste teorie del ciclo reale (rea! business cycle) l'attenzione degli studiosi ha esplorato in particolare l'influenza di shocks nella tecnologia produttiva, ma i /undamentals comprendono, in linea di principio, anche le preferenze dei consumatori, l'evoluzione demografica, la struttura dei mercati e persino gli orientamenti dei policy makers (e, per questa via, la politica economica). 34 In altri termini, le teorie del ciclo reale si fondano sull'idea che per comprendere il ciclo si deve prima considerare un sistema dinamico perfettamente funzionante e vedere quali fluttuazioni si osservano nelle variabili aggregate in risposta a variazioni della tecnologia o delle altre grandezze che costituiscono i dati dell'ambiente economico (Plosser, 1989). Secondo i sostenitori delle teorie del rea! business cycle, solo procedendo in questo modo, ossia studiando l'andamento nel tempo del sistema in seguito alle risposte razionali degli agenti di fronte agli shocks tecnologici, si può stabilire quanta parte delle fluttuazioni economiche vada eventualmente attribuita a un cattivo funzionamento del mercato (market /ailure) e quanta invece possa essere spiegata semplicemente come risultato del funzionamento normale del sistema economico, senza che a essa vada associata alcuna perdita di benessere. 34 Due buone rassegne sulle teorie del ciclo reale sono quelle di McCallum, 1989 e Plosser, 1989.
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È chiaro che l'obiettivo polemico delle teorie del ciclo reale non è costituito dall'approccio lucasiano delle teorie monetarie dell' equilibrium business cycle, con cui sono più numerosi i punti di accordo che quelli di divergenza, 35 ma è, ancora una volta, l'impostazione degli economisti keynesiani. Questi vengono per un verso accusati di costruire teorie del ciclo introducendo elementi dinamici (come l'acceleratore o come varie forme di rigidità nell'aggiustamento dei prezzi e dei salari) entro un modello che è per sua natura eminentemente statico, e perciò incapace di una corretta analisi dinamica (Plosser, 1989); per un altro verso, associano acriticamente, senza una verifica, la presenza di fluttuazioni economiche al cattivo funzionamento del mercato. 36 Al contrario, il modello di base delle teorie del ciclo reale è una semplice versione del modello standard di crescita elaborato dagli economisti neoclassici negli anni cinquanta e sessanta (Solow, 1956 e Koopmans, 1965) integrato con l'ipotesi che la tecnologia non evolva in modo deterministico, ma in modo stocastico per la presenza di un disturbo casuale (Prescott, 1986). La struttura è quella tipica della teoria dell'equilibrio generale di Arrow e Debreu, con soggetti (consumatori e imprese) massimizzanti e mercati perfettamente concorrenziali. 37 Anche i risultati ottenuti mostrano che, per lo meno nel modello, l'evoluzione del prodotto, dell'occupazione e delle scelte di consumo e investimento è ottimale: «non c'è market failure in questa economia ». 38 L'ottimalità delle allocazioni che emergono da un mercato perfettamente concorrenziale era del resto un risultato ben noto della teoria dell'equilibrio generale, esteso a situazioni dinamiche e caratterizzate da incertezza già negli anni cinquanta. 39 35 Nei confronti delle teorie del ciclo reale l'atteggiamento di Lucas era ambivalente: non risparmiava loro né ammirazione né critiche (si vedano Lucas, 1987 e 1993). 36 Secondo Lucas i modelli di ciclo reale consentono di discutere in termini quantitativi la questione seguente: «Quanto dell'osservata variabilità del prodotto è patologico, attribuibile a cattiva politica, e quanto invece è semplicemente upa risposta efficiente a shocks reali imprevedibili? E una questione che diviene ovviamente pertinente una volta che si sia adottata la corretta impostazione teorica, ma che può rimanere nascosta per anni quando la discussione è condotta all'interno dell'impostazione sbagliata.>> (Lucas, 1993). Si noti come per Lucas l'aggettivo «patologico>> vada attribuito a una « cattiva politica>> e non, come sosterrebbe un economista keynesiano, a un cattivo funzionamento del mercato. 37 Grazie alla scelta di un'impostazione corretta - osserva ancora Lucas - «il gergo privato che gli studiosi di macroeconomia avevano sviluppato nel periodo in cui essi erano tagliati fuori dalla corrente principale della scienza economica (moltiplicatori, curve di Phillips e così via) è caduto largamente in disuso. Ci si attende che gli studiosi di macroeconomia di oggi siano capaci di discutere le
loro idee nel linguaggio di Arrow, Debreu e McKenzie. Questo è progresso>> (Lucas, 1993). 38 Plosser, 1989. Gli studiosi del rea! business cycle hanno il problema della corrispondenza tra le proprie teorie e i «fatti>> delle economie reali, quali sono testimoniati dall'andamento delle serie storiche. Su questo hanno svolto un gran lavoro, mettendo a punto anche tecniche econometriche originali e innovative pensate appunto per <> i modelli, ovvero per adattarli alle serie storiche osservate (Kydland e Prescott, 199!). Il loro successo, però, non è stato completo. In particolare, i loro modelli non riescono a dar conto in modo adeguato delle fluttuazioni della disoccupazione, un difetto non di poco conto (Woodford, 1994). 39 Si veda Debreu, 1954- Tale risultato viene spesso presentato dicendo che vi è un'equivalenza tra gli esiti ottenuti da un pianificatore che massimizzi la funzione-obiettivo del consumatore rappresentativo e quelli ottenuti da un mercato perfettamente concorrenziale in equilibrio generale. Tale equivalenza viene sfruttata spesso dagli studiosi odierni, che in molti casi calcolano la << soluzione del pianificatore>> proprio per aggirare le difficoltà analitiche comportate dalla ricerca delle soluzioni di modelli impostati in termini di equilibrio generale.
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Un risultato del genere era in radicale contrasto con l'enfasi posta dagli economisti keynesiani sulle perdite di benessere sociale associate all'esistenza di fluttuazioni economiche. Esso veniva ulteriormente rafforzato sia dai calcoli di Lucas che, basandosi sulla funzione di utilità di un consumatore rappresentativo, mostrava come tali perdite di benessere fossero sul piano empirico « sorprendentemente basse» (Lucas, 1987), sia da alcune importanti novità in tema di analisi statistica delle serie storiche aggregate, in particolare per quanto riguarda la loro « decomposizione » tra fluttuazione di breve periodo (ciclo) e tendenza di lungo periodo (trenci). Al riguardo, in un importante lavoro (Nelson e Plosser, 1982) uscito all'inizio degli anni ottanta si introduceva il concetto di trend stocastico e si presentavano calcoli che suggerivano per le principali serie storiche aggregate un andamento dinamico descrivibile come un random walk. 40 Trascurandone i complicati e controversi aspetti tecnici, si può dire che il lavoro di Nelson e Plosser proponeva una decomposizione delle fluttuazioni economiche tra componente permanente (trend) e componente transitoria (ciclo) che aumentava largamente, rispetto a quel che si era pensato fino ad allora, l'importanza della primaY Tutto cospirava, insomma, a ridimensionare il ruolo delle manovre di stabilizzazione anticiclica che costituivano il cuore delle politiche keynesiane degli anni sessanta. IX ·
LA
DELLA
TEORIA
NEOCLASSICA
POLITICA
ECONOMICA
A essere messo in discussione non era solo il ruolo delle politiche keynesiane, ma anche la loro capacità di conseguire gli obiettivi desiderati. Uno dei più noti e dibattuti risultati ottenuti dagli economisti della NCM è proprio la cosiddetta «proposizione di inefficacia» delle politiche di stabilizzazione (policy ine//ectiveness proposition). In breve, essa afferma che nel modello macroeconomico standard dei primi anni settanta l'unica componente delle politiche economiche capace di influenzare le variabili reali del sistema (il livello del prodotto e dell'occupazione) è quella imprevista; ma, data l'ipotesi di aspettative razionali, l'unica componente imprevista è quella imprevedibile perché casuale; le politiche sistematiche sono sempre correttamente anticipate dagli agenti economici, e perciò sono inefficaci (Sargent e Wallace, 1975). 42 40 Una serie di dati (per esempio una serie storica) è un random walk se ogni dato viene ottenuto dal precedente con l'aggiunta di un disturbo casuale indipendentemente distribuito (owero un white noise). 41 Il dibattito suscitato dal lavoro di N elson e Plosser è stato molto vivace nella seconda metà degli anni ottanta sia per le innovative prospettive analitiche ed econometriche, sia per il carattere controverso dei risultati. Per un'illustrazione delle
prime si può vedere Stock e Watson, 1988; per un'introduzione ai secondi il primo capitolo di Blanchard e Fischer, 1989. 42 Un segnale significativo di quanto sia cambiata la macroeconomia negli ultimi anni, anche in conseguenza dei poderosi scossoni che le sono stati inferti dalla NCM, è costituito proprio dal mutamento di quello che viene considerato il modello macroeconomico standard. Nei primi anni settanta esso era una delle numerose varianti del modello
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La proposizione di inefficacia riguarda le politiche di gestione della domanda aggregata (demand management) ed è valida - come abbiamo detto - nel modello macroeconomico standard. Quest'ultimo è costituito da due equazioni: una curva di domanda aggregata, ricavata dal modello IS-LM, e una curva di offerta aggregata, che incorpora l'ipotesi del tasso naturale di disoccupazione e afferma in sostanza che il prodotto si stacca dal suo livello naturale (di pieno impiego) se i prezzi correnti sono diversi da quelli attesi. 43 In omaggio alla moda del tempo, il modello è stocastico, nel senso che entrambe le relazioni, sia la domanda che l'offerta aggregata, sono perturbate dalla presenza di disturbi casuali. Esso determina, date le « realizzazioni » dei disturbi, i valori di equilibrio di due variabili: il prodotto nazionale e il livello dei prezzi. Alla proposizione di inefficacia è interessata, ovviamente, solo la prima variabile. Calcolando la cosiddetta « forma ridotta » del modello, ossia risolvendolo in funzione dei parametri e delle variabili esogene, il livello del prodotto risulta funzione dello scarto tra valore corrente e valore atteso delle variabili di politica economica. Il resto del lavoro è svolto dall'ipotesi di aspettative razionali: quello scarto, ossia la parte imprevista della politica economica, può essere solo casuale. La «forma ridotta» del livello dei prezzi, invece, non presenta tale caratteristica; pertanto, riguardo ai prezzi, le politiche sono efficaci. In sostanza, la NCM ricava un risultato analogo a quello già ottenuto dai monetaristi: le politiche di stabilizzazione falliscono nel loro intento per quanto riguarda il prodotto, ma lasciano come eredità del tentativo una maggiore inflazione. La policy ine/fectiveness proposition non è l'unico e, forse, neppure il più importante e fecondo risultato prodotto dalla NCM in tema di teoria della politica econo-
AD-AS (domanda e offerta aggregata) di più o meno diretta derivazione keynesiana. Oggi si disputano la scena due modelli, che hanno in comune il fatto di essere entrambi esplicitamente dinamici ed esplicitamente fondati sul comportamento razionale degli agenti. Uno è il cosiddetto modello di crescita ottimale che va sotto il nome di Ramsey (elaborato appunto da Ramsey, 1928 e riproposto negli anni sessanta da Koopmans, 1965 e Cass, 1966). L'altro è il modello a << generazioni coesistenti » (overlapping generations), proposto originariamente da Samuelson, 1958 e Diamond, 1965. La principale differenza tra i due è che nel primo si assume che l'agente-consumatore rappresentativo abbia un orizzonte temporale infinito, mentre nel secondo si assume che ogni agente viva due periodi e che in ogni periodo nasca una nuova generazione. Per un'ampia e aggiornata illustrazione dello stato della macroeconomia ai giorni nostri il riferimento migliore resta ancora Blanchard e Fischer, 1989. 43 Si può mostrare che questa funzione di offerta aggregata è formalmente equivalente a una
curva di Phillips <> per tener conto delle aspettative. Essa viene microfondata da Friedman assumendo che il salario nominale venga determinato da un mercato del lavoro in equilibrio perfettamente concorrenziale e che i lavoratori, a differenza delle imprese, non conoscano il livello dei prezzi rilevante per le loro decisioni. Invece Lucas la ricava partendo dalla base microeconomica di un modello a isole. Vedremo più avanti che una curva di offerta aggregata con caratteristiche analoghe viene ricavata dagli economisti keynesiani in un contesto di mercati imperfetti e di salari fissati dalla contrattazione (ovviamente, al posto del natura! rate, nel loro caso abbiamo il NAIRU). Il versante della domanda aggregata è invece molto meno controverso. Gli studiosi delle varie scuole di pensiero accettano senza molti problemi il /ramework costituito dal modello IS-LM, e talvolta si servono, per semplicità, di una rudimentale equazione quantitativa secondo cui, come è noto, il prodotto nominale è uguale all'offerta di moneta moltiplicata per la sua velocità di circolazione.
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mica. In un influente e famoso lavoro del 1976, Lucas impiegò l'ipotesi di aspettative razionali per spiegare come mai, all'inizio degli anni settanta, i grandi modelli macroeconometrici avessero cominciato a fornire previsioni sistematicamente sbagliate quando si trattava di valutare le implicazioni delle possibili alternative di politica economica. Quella che è ormai nota come policy evaluation proposition o, più semplicemente, «critica di Lucas » consiste in ciò: i modelli macroeconometrici danno risultati sistematicamente distorti in materia di valutazione delle alternative di politica economica perché i parametri delle loro equazioni non sono invarianti rispetto alle regole di politica economica di cui devono valutare le conseguenze. Dietro quelle equazioni, cioè, vi sono le risposte razionali degli agenti basate sui /undamentals che costituiscono l'ambiente economico, e tra questi /undamentals vi sono appunto anche le regole di politica economica. 44 Quando queste cambiano, cambiano anche le risposte degli agenti, e ciò altera i parametri delle equazioni. L'influenza della «critica di Lucas » sulla ricerca economica ed econometrica degli anni successivi è stata enorme. In negativo, ha avuto un effetto devastante sulla metodologia econometrica applicata alla macroeconomia che veniva usata fino ad allora. In positivo, ha promosso la ricerca in direzioni nuove e lo sviluppo di tecniche di stima, di analisi e di previsione che, assumendo come proprio oggetto i /undamentals invece delle «forme ridotte», fossero in qualche modo «corazzate» rispetto a quella critica. 45 Più in generale, il lavoro di Lucas ha esercitato una notevole influenza sulla ricerca macroeconomica, nel senso appunto di enfatizzare l'esigenza, già presente da qualche anno, dei microfondamenti dei modelli macro. Ma l'influenza più importante (dal nostro punto di vista) è stata quella esercitata sulla teoria della politica economica. Prima della critica di Lucas si era soliti impostare il problema del policy maker in analogia con l'approccio standard elaborato dalla scienza economica per analizzare i problemi di scelta razionale dei soggetti privati (consumatori, imprese, ecc.). In altri termini, esso veniva formalizzato come un problema di ottimo vincolato. Le preferenze del decisore pubblico erano descritte da una «funzione di perdita» (loss /unction) i cui argomenti erano le grandezze da minimizzare, come per esempio l'inflazione e la disoccupazione, e gli S!rumenti a disposizione del decisore pubblico (offerta di moneta, variabili fiscali, ecc.).
44 Si noti l'analogia con l'approccio metodologico che è alla base della teoria del ciclo in equilibrio di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente. 45 Per un'illustrazione di questo indirizzo di ricerca in econometria si vedano Hansen e Sargent, 1980 e Sargent, 1981 e 1982. Quando si occupa di problemi macroeconomici, l'econometria odierna lavora molto meno con grandi modelli: preferisce stimare le cosiddette <<equazioni di Eulero», che descrivono appunto le risposte ottimali in tema di consumo, investimento e domanda di moneta,
oppure lavorare con altre tecniche, come quella usata da Lucas per studiare le perdite di benessere del ciclo, o come quelle basate sulla « calibrazione >> (vedi nota 38). Un'altra linea di ricerca prende le mosse dall'osservazione di Sims che la critica di Lucas è corretta ma non molto rilevante, nel senso che si riferisce solo ai «cambiamenti di regime>> della politica economica, che sono relativamente infrequenti. La tecnica econometrica proposta da Sims è quella della stima dei cosiddetti vettori autoregressivi, conosciuti di solito con la sigla VAR (Sims, 1980).
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Il vincolo era costituito da una descrizione del sistema economico (un modello) che specificava gli effetti delle variabili-strumento sull'intero sistema e perciò, in particolare, sulle variabili-obiettivo. 46 La soluzione del problema permetteva di calcolare regole ottime di politica economica, che avrebbero consentito al decisore pubblico di effettuare le scelte adeguate nelle varie circostanze, in funzione dell'andamento delle variabili esogene e della passata evoluzione del sistema economico. La critica di Lucas mette in crisi questo approccio. Essa mostra che le equazioni che sintetizzano il comportamento dei soggetti privati (e che compaiono nel modello che descrive il vincolo del decisore pubblico) sono basate sulle risposte ottimali di quei soggetti rispetto all'ambiente in cui operano. Ciò significa che dipendono a loro volta dalle regole di politica economica (le quali fanno parte dell'ambiente) e perciò cambiano quando queste ultime vengono modificate. Questo punto venne reso esplicito in un famoso lavoro di Kydland e Prescott del 1977, in cui si affermava appunto che le politiche economiche ottimali, ossia definite secondo il procedimento appena esposto, sono temporalmente incoerenti (time inconsistent). Un semplice esempio può illustrare l'idea. Poniamo che il governo annunci per l'anno successivo una politica monetaria «austera» al fine di contenere l'inflazione. Se il pubblico si regola sulla base dell'annuncio e perciò prevede per l'anno successivo un'inflazione bassa, al governo conviene fare una politica economica più espansiva, sfruttando il tradeo/f della curva di Phillips e il fatto che le aspettative del pubblico sono per una inflazione bassa. E ciò, si badi, anche se ex ante il piano che prevedeva la politica austera era ottimale. Insomma, se il pubblico crede all'annuncio, al governo conviene ex post rinnegare il suo piano. 47 Il tema dell'incoerenza temporale ne richiama immediatamente un altro: quello della credibilità della politica. Per restare all'esempio precedente, è chiaro che il pubblico, se si comporta secondo i principi della razionalità, non può credere all'annuncio del governo, poiché è in grado di prevedere che a quest'ultimo conviene rinnegare il proprio annuncio. Sono credibili soltanto gli annunci di politiche temporalmente coerenti, tali cioè che al governo conviene tener fede al proprio impegno. Nell'esempio su cui stiamo ragionando, il governo dovrà annunciare una politica un po' meno austera di quella che sarebbe ottimale secondo il calcolo ex ante, ma che abbia la caratteristica di non essere rinnegata ex post e perciò di essere credibile dal pubblico. In conseguenza di ciò, nel sistema vi sarà più inflazione di quel che sarebbe possibile. Nonostante l'inflazione dipenda, nel modello, dall'offerta di 46 Di solito il modello e la funzione di perdita erano dinamici, nel senso che avevano una dimensione intertemporale, e potevano essere stocastici, ossia perturbati da disturbi casuali. Perciò il problema di ottimizzazione vincolata andava risolto con tecniche matematiche adeguate (come il controllo ottimo e la programmazione dinamica), che verso la fine degli anni sessanta cominciavano
a far parte del patrimonio di strumenti padroneggiato dagli economisti. 47 L'ipotesi che si fa di solito è che la funzione di perdita del governo sia tale da rispecchiare le preferenze del pubblico (si parla in questo caso di ipotesi che il governo sia «benevolente>>). Esso rinnega il suo precedente piano ottimale e inganna il pubblico nell'interesse di quest'ultimo.
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moneta e nonostante quest'ultima sia sotto il controllo del governo, non si può ridurre l'inflazione a zero, appunto per un problema di credibilità. Un aspetto tutt'altro che secondario dell'analisi appena presentata è che in essa non si ha più un decisore pubblico visto come una sorta di «demiurgo», capace con le sue iniziative di influenzare i risultati di un sistema economico, visto a sua volta come una sorta di grande meccanismo che può essere manovrato utilizzando accortamente determinati strumenti. Dal meccanismo indistinto emergono soggetti razionali, capaci di prevedere e di reagire, e al tempo stesso il demiurgo diventa, per certi aspetti, un soggetto economico come gli altri. La politica economica può essere allora modellata come un «gioco», in cui si confrontano due soggetti, il governo da una parte e il pubblico dall'altra: ciascuno dei due ha una propria funzione-obiettivo, dispone di strumenti di azione, è razionale e tiene conto, nel decidere la propria strategia, del fatto che il risultato del gioco dipende, secondo una stretta interdipendenza, dal comportamento congiunto di entrambi (è un « equilibrio» del gioco). Da questa impostazione ha origine un importante filone di ricerca in tema di teoria della politica economica che, a tutt'oggi, è ancora molto vivace e attivo. Procedendo di conserva gli innovativi sviluppi conseguiti dalla teoria dei giochi, questo filone di ricerca affronta via via il tema della «reputazione» del policy maker, quello dei «segnali» che possono essere inviati al pubblico per costituire tale reputazione, quello dei vincoli istituzionali che, limitando le possibilità che il policy maker riveda le proprie decisioni, ne rendono più credibili gli annunci, quello dei rapporti tra diverse articolazioni del decisore pubblico (Banca centrale, Tesoro), e così via. 48 X
· LE
SCUOLE
KEYNESIANE
La fine degli anni settanta ha rappresentato senza dubbio l'apogeo della macroeconomia neoclassica, il momento di massimo consenso per le sue impostazioni e per i suoi risultati. 49 La fiducia nella capacità del mercato di realizzare allocazioni ottimali ha raggiunto in quegli anni il suo apice, al pari della sfiducia nella capacità delle politiche economiche di migliorare le allocazioni esistenti. Nelle università e nei centri di ricerca, i giovani studiosi si formavano seguendo quelle impostazioni; molti governi importanti cominciavano a fare politica eco-
48 Su questi argomenti si vedano Persson e Tabellini, 1990 e i saggi raccolti in Persson e Tabellini, 1994. 49 Questa affermazione non va presa troppo alla lettera. Molti importanti risultati neoclassici hanno visto la luce nel decennio successivo e anche in seguito. Si pensi alla teoria del rea! business cycle, di cui ci siamo occupati nel par. vm, agli sviluppi richiamati nel testo in tema di teoria della politica
economica, o ancora alla ripresa degli studi di teoria della crescita a partire dai contributi fortemente innovativi di Romer, 1986 e di Lucas, 1988 sulla cosiddetta <
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nomica ispirandosi più o meno direttamente ai principi del monetarismo e del neoliberismo: era l'apparente trionfo di chi credeva nella « mano invisibile ». Ma sempre in quegli anni - come vedremo più avanti - i l clima cominciava a cambiare. Si iniziava a fare uso crescente, per guardare ai fatti economici, di nuovi strumenti analitici, con risultati che gradualmente erodevano il primato culturale della NMC. Al tempo stesso, mentre si incrinava la fiducia nella mano invisibile, emergevano nuovi argomenti per giustificare gli interventi di politica economica (sia pure in forme diverse da quelle del passato). Negli anni ottanta le idee dei keynesiani avrebbero riacquistato credito, anche perché sorrette da una struttura teorica completamente rinnovata, soprattutto sul terreno della microfondazione. Certo è che, all'inizio degli anni settanta, le tesi keynesiane, che avevano dominato il decennio precedente, apparivano decisamente minoritarie. Particolarmente in difficoltà si trovavano quegli studiosi che si ispiravano alle idee della « sintesi neoclassica », proprio perché i nuovi sviluppi della macroeconomia, suscitati dalle idee innovative di Friedman e di Lucas, ne avevano minato alla radice il modello di riferimento. Vi erano però altre scuole keynesiane. Un indirizzo di ricerca era quello dei cosiddetti post-keynesiani, che si ispiravano, oltre che a Keynes, a un altro grande studioso degli anni trenta, Michal Kalecki (1899-1970), e alle idee degli economisti che erano stati allievi di Keynes e avevano fatto scuola a Cambridge negli anni cinquanta: Kaldor (1908-86), Kahn (1905-1989), Shackle (1903-92) e Joan Robinson (1903-83). Da sempre diffidenti nei confronti dei keynesiani della «sintesi» (per i quali avevano coniato l'epiteto di « keynesiani bastardi»), tendevano a uno sviluppo della disciplina su posizioni esplicitamente non neoclassiche fino alla ricerca, da parte di alcuni di loro, di una convergenza con l'impostazione di Sraffa. Emblematico è il caso di Pasinetti (n. 1930), esponente di punta, a un tempo, della scuola keynesiana di Cambridge e della scuola neoricardiana. Negli anni settanta i post-keynesiani erano attivi anche negli Stati Uniti con nomi di prestigio come quelli di Sidney Weintraub (1914-83), Paul Davidson (n. 1930) e Hyman Minsky (1919-95). Le loro analisi erano innovative e stimolanti, i loro risultati a volte notevoli.50 Tuttavia essi non sono riusciti a conquistare il centro della scena, saldamente presidiata dalla NCM. I post-keynesiani sono una corrente significativa del pensiero economico moderno, ma non ne sono la corrente principale. Probabilmente ha nuociuto loro una strategia di ricerca che rendeva problematico il confronto con la main stream: mancavano cioè categorie concettuali comuni, e tale mancanza si rifletteva anche a livello del linguaggio. Un'altra corrente importante del pensiero keynesiano degli ultimi decenni è . quella che ha dato vita alla cosiddetta teoria del «disequilibrio» o degli « equilibri non walrasiani », in cui il collegamento-confronto con le scuole neoclassiche è molto più diretto. A livello macro, la teoria del disequilibrio prende l'avvio da un 50 Si vedano, per esempio, Davidson, 1972, Weintraub, 1978 e Minsky, 1982.
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aspetto problematico della sintesi neoclassica, e precisamente dall'osservazione di uno dei suoi massimi esponenti, Don Patinkin, che, data la rigidità dei salari nominali, il modello standard della sintesi neoclassica non dà luogo, quando vi è disoccupazione, a un risultato che possa essere definito di equilibrio (Patinkin, 1965). A livello micro, essa prende le mosse da un punto critico della teoria dell'equilibrio generale, secondo la quale gli scambi avvengono solo in equilibrio (market clearing). Ciò, per un verso, richiede un meccanismo di coordinamento forte (il famoso « banditore » walrasiano) e per un altro verso toglie ogni funzione alla moneta: quando tutte le decisioni sono compatibili, è come se ci trovassimo in una gigantesca economia di baratto. Se invece si rimuove l'ipotesi di market clearing, se si ammette cioè che le transazioni possano avvenire anche a prezzi «falsi» (ossia non di equilibrio), allora la moneta acquista un ruolo essenziale come mezzo per effettuare gli scambi. 51 La teoria del disequilibrio studia appunto il funzionamento del sistema macroecoL l1HCO assumendo prezzi (e salari) fissi. L'idea è che, in assenza di un meccanismo di afl"~iustamento istantaneo dei prezzi (in assenza cioè del banditore walrasiano), i prezzi richiedono tempo per essere adeguati quando si presentano squilibri tra domanda e offerta, sicché le transazioni avvengono anche a prezzi «falsi». Diventa allora legittimo studiare come funziona il sistema nell'ipotesi speculare a quella di market clearing adottata dalla NCM, l'ipotesi cioè in cui i prezzi sono fissi e l'aggiustamento riguarda le quantità prodotte e vendute. A partire dai primi anni settanta, numerosi studiosi hanno contribuito allo sviluppo di queste ricerche, che proseguono tuttora. 52 Anche se neppure la macroeconomia dei prezzi fissi è riuscita a imporsi come filone di ricerca dominante, i risultati da essa conseguiti sono stati importanti. Per esempio, ha fornito una definizione rigorosa di «domanda effettiva», che è quella che si manifesta nel mercato quando i prezzi non sono quelli di market clearing, sicché alcuni soggetti sono «razionati» rispetto alle decisioni che avrebbero preso nelle condizioni dell'equilibrio walrasiano (rispetto, cioè, alla loro domanda « nozionale »). Ne deriva, in particolare, la distinzione tra «disoccupazione classica», che è quella provocata dalla rigidità dei salari nominali, e « disoccupazione keynesiana », che è quella che si verifica quando le imprese sono razionate da una insufficiente domanda effettiva. La macroeconomia dei prezzi fissi presenta però numerosi punti deboli. Ne indichiamo soltanto due: 53 r) la teoria non spiega la formazione dei prezzi e il motivo 5I Il vincolo di bilancio degli agenti si spezza in due. Non si hanno più merci sia dal lato della domanda sia dal lato dell'offerta, bensì si vendono mer.ci per ottenere moneta e si usa moneta per acquistare merci. In ciò consiste, molto in sintesi, l'ipotesi di «dualità delle decisioni>> che è al centro dell'analisi di Clower, 1965 e che costituisce uno dei punti di partenza della teoria del disequilibrio. Oltre alle citate rifles-
sioni di Patinkin e di Clower, tale teoria si ispira anche all'originale rilettura di Keynes proposta da Leijonhfvud, 1968. 52 Si vedano, tra gli altri, Barro e Grossman, 1971, Benassy, 1975 e 1986; Drèze, 1975; Malinvaud, 1977· 53 Per una breve ma chiara illustrazione di questi e di altri punti deboli si rinvia a Napoleoni e Ranchetti, 1990.
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per cui essi non reagiscono, per lo meno nel breve periodo, agli squilibri tra domanda e offerta (si limita appunto a postulare il fenomeno e a studiarne le implicazioni); 2) l'ipotesi di prezzi fissi appare comunque incompatibile con l'ipotesi di razionalità degli agenti, il che significa che, per lo meno nel lungo periodo, qualche meccanismo di aggiustamento va preso in considerazione. Questi punti deboli hanno suscitato nuove importanti ricerche. A livello micro, e precisamente in tema di teoria dell'equilibrio generale, sono stati il punto di partenza della riflessione sui cosiddetti «equilibri non walrasiani », costruiti sull'assenza del banditore e sulla presenza di «congetture» formulate dai soggetti economici, basate sui vincoli di quantità da loro percepiti ai prezzi correnti. 54 A livello macro la ricerca ha condotto a formulazioni in cui, assumendo un ambiente di concorrenza imperfetta, i prezzi vengono fissati in listini e i salari in contratti. La versione più semplice di tale approccio sfocia in una curva di offerta aggregata formalmente identica a quella ricavata da Friedman e dalla NCM: il prodotto si stacca dal livello di equilibrio di lungo periodo (definito questa volta non dal natura! rate ma dal NAIRU) se i prezzi correnti sono diversi da quelli attesi. La forma è la stessa, ma la logica microeconomica sottostante è assai diversa, e - come vedremo subito - sono assai diverse anche le implicazioni di politica economica. Le formulazioni della curva di offerta aggregata basate su listini e contratti (spesso presentate come versioni « keynesiane » dell'offerta aggregata) sono state, nei primi anni ottanta, al centro di un impegnativo lavoro teorico mirante a mostrare i limiti di validità della proposizione di inefficacia formulata dalla NCM. In particolare è stato dimostrato (Buiter, 1980) che se l'aggiustamento dei prezzi avviene gradualmente, ovvero se i prezzi sono «vischiosi », allora le politiche di gestione della domanda aggregata (anche se completamente previste) sono efficaci nel breve periodo: lo stesso risultato standard dei modelli della sintesi neoclassica degli anni sessanta. Altri casi di efficacia del demand management si hanno quando i listini dei prezzi e/o i contratti di lavoro non vengono rinnovati simultaneamente ma sono « scaglionati» nel tempo. 55 Nel gran dibattito tra neoclassici e keynesiani che animava quegli anni, questi risultati sull'efficacia delle politiche macroeconomiche segnavano un punto a favore di questi ultimi. I keynesiani, però, dovevano fare ancora i conti con un'obiezione tipicamente neoclassica e in apparenza molto forte, così sintetizzabile. Listini e contratti sono esempi di «rigidità nominali», di situazioni, cioè, in cui i prezzi non si aggiustano tempestivamente a fronte di squilibri tra domanda e offerta. Ogni volta che si verifica una situazione del genere (o anche quando si verifica una «rigidità 54 Questa linea di ricerca è stata esplorata soprattutto da Frank Hahn (n. 1925), che si poneva l'obiettivo esplicito di fornire un rigoroso fondamento micro alla macroeconomia keynesiana (si veda al riguardo la sua nozione di <<equilibrio con-
getturale >> in Hahn, 1978 e più in generale i saggi raccolti in Hahn, 1984). Si veda però anche Hart, 1985. 55 Si vedano Fischer, 1977 e 1980, Phelps e Taylor, 1977; Taylor, 1985.
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reale», ossia un mancato aggiustamento dei prezzi relativi) vi sono delle transazioni che non vengono effettuate, nonostante esse siano mutuamente vantaggiose. Ciò è in contrasto con il principio di razionalità che è un punto cardine di tutto il ragionamento economico, una struttura portante dell'intera disciplina. Perciò un modello economico rigoroso deve assumere che tutte le transazioni potenzialmente vantaggiose siano state effettuate, oppure, in subordine, deve spiegare perché esse non vengono effettuate. 56 In altri termini - questo è il nocciolo dell'obiezione neoclassica - nei modelli proposti dai keynesiani le politiche sono efficaci, ma solo perché questi modelli non sono microfondati in modo corretto. La nuova economia keynesiana degli anni ottanta (NEK) ha raccolto la sfida. La sua strategia si è basata su una sorta di rovesciamento dell'obiezione neoclassica. Gli economisti della NEK hanno infatti cercato di mostrare che sono i modelli della NCM ad avere delle fondamenta fragili perché basate su una microeconomia « vecchia» e superata dagli sviluppi più recenti della teoria. È di questi sviluppi che dobbiamo ora occuparci, anche se, per motivi di spazio, saremo costretti a un'esposizione inevitabilmente incompleta e contratta. 57 XI
·
I
PROGRESSI
DELLA
MICROECONOMIA
Le storie parallele della macro e della microeconomia nell'ultimo trentennio risultano per un verso profondamente diverse, ma per un altro assai simili. Ciò che differenzia l'evoluzione recente della micro da quella della macro è la rilevanza decisamente inferiore delle controversie tra scuole di pensiero. Non c'è nulla di paragonabile alla pluriennale con/rontation tra neoclassici e keynesiani, e questo per un motivo molto semplice: con l'eccezione di Sraffa e delle scuole sraffiane, la microeconomia era ed è rimasta sostanzialmente neoclassica. L'elemento che accomuna micro e macroeconomia è costituito dal profondo cambiamento che ha interessato entrambe le discipline. Per riprendere un'abusata immagine, lo studioso che si risvegliasse oggi dopo un sonno trentennale avrebbe forti difficoltà a orientarsi; e non tanto per il pur robusto progresso degli strumenti analitici e della formalizzazione (su questo terreno gli studiosi di microeconomia degli anni sessanta erano tutt'altro che sprovveduti), quanto per il mutamento dei temi caratterizzanti, delle aree di ricerca dinamiche e perciò «forti», capaci di attirare energie intellettuali e di spostare in avanti la « frontiera» del sapere scientifico. 56 La stessa obiezione è stata rivolta alle teorie del disequilibrio e ha probabilmente contribuito a spiegare il limitato successo, tra gli studiosi, di quell'approccio. 57 Per la nuova economia keynesiana vengono qui segnalati alcuni utili riferimenti bibliografici. Hargreaves Heap, 1992 è un'eccellente introduzione didattica al confronto tra macro neoclas-
si ca e macro keynesiana, con l'attenzione rivolta soprattutto agli sviluppi degli ultimi vent'anni. ARBODEGA, 1996 è un'ampia rassegna su tutti i principali temi esplorati dalla NEK. Va ricordato infine Mankiw e Romer, 1991, un'ampia raccolta in due volumi di alcuni dei più importanti contributi originali degli economisti della NEK.
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Sul terreno dei contenuti, le tematiche più dinamiche che hanno caratterizzato la ricerca recente in microeconomia sono state: la teoria dell'impresa (e quella, strettamente connessa, delle forme di mercato diverse dalla concorrenza perfetta); la teoria economica dei contratti e delle istituzioni; lo studio delle implicazioni economiche dell'informazione e, in particolare, dell'informazione asimmetrica. 58 Sul terreno degli strumenti analitici, le novità degli ultimi decenni riguardano la grande diffusione sia della teoria dei giochi, sia dell'impiego dei metodi di ottimizzazione intertemporale in condizioni di incertezza. Cominciando da questi ultimi, si può dire che con essi la microeconomia si fa adulta, cessa di «baloccarsi» con un mondo semplificato (perché statico, deterministico e privo di interdipendenze) e comincia ad attrezzarsi per studiare problemi di ben maggiore complessità. L'incertezza era entrata a far parte della microeconomia relativamente presto. Già nei primi anni cinquanta Arrow e Debreu avevano trovato il modo di incorporarla nell'analisi di equilibrio generale. La soluzione da loro proposta, quella di distinguere le merci per lo stato di natura e di farle scambiare nei cosiddetti mercati contingenti, era geniale e feconda, ma finiva di fatto con l'eliminare il problema. Il discorso sarebbe stato ripreso diversi anni dopo, quando si incominciarono a studiare problemi di equilibrio generale con mercati incompleti, in cui cioè le economie sono « sequenziali » e gli equilibri risultanti sono «temporanei» e dipendono dalle aspettative. 59 In questo modo, però, si è finito con l'aprire un vero e proprio vaso di P andora, e il tema dell'incertezza è divenuto pervasivo, diffondendosi come un virus in tutta l'analisi economica con conseguenze rilevantissime. Ne citiamo due soltanto: per un verso, ha imposto una riflessione
58 Appare degno di nota che due raccolte di articoli sui temi salienti della microeconomia apparse in Italia negli anni novanta abbiano dei titoli costruiti attorno a queste parole chiave: impresa, istituzioni e informazione in Franzini e Messori, 1991; razionalità, impresa e informazione in Filippini e Salanti, 1993. 59 Il modello Arrow-Debreu si basa su <> (Hahn, 198!). Nel modello Arrow-Debreu, <
i beni determina tutto. Il famoso banditore walrasiano ha un grosso lavoro da svolgere per trovare l'equilibrio ma deve farlo una volta sola>> (Tobin, 1980). Owiamente - aggiunge sempre Tobin - <<non viviamo in un mondo come quello ipotizzato da Arrow-Debreu >>. Un'alternativa possibile è quella di assumere che i mercati non siano <>; per esempio, che non esistano mercati <>, in cui si scambiano oggi beni a consegna futura, e mercati <>, in cui si scambiano oggi merci che dipendono dalla realizzazione di un particolare stato di natura. Ci troviamo in questo caso in una <<economia sequenziale >>, in cui i mercati si tengono a ogni data (per esempio ogni <<sabato>>). L'equilibrio generale che si determina in una economia sequenziale viene chiamato <<equilibrio temporaneo>> (Radner, 1968; Grandmont, 1977). Quello del modello ArrowDebreu viene chiamato <<equilibrio intertemporale >>. Come si è detto, l'equilibrio temporaneo dipende dalle aspettative che gli agenti formano sui valori futuri dei prezzi. E proprio questo aspetto della teoria dell'equilibrio generale che è stato preso come base di riferimento dalla NCM.
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sempre più approfondita sul modo di rappresentare le preferenze,60 che arriva u::.: a coinvolgere la stessa nozione di razionalità strumentale, uno dei capisaldi L,Jla scienza economica; 61 per un altro verso ha aperto la strada al tema del ruolo economico dell'informazione, uno degli aspetti che più caratterizzano il pensiero economico contemporaneo. L'incertezza può essere «esogena», ossia dipendere dall'ambiente esterno al sistema economico (ed è quella di cui ci siamo appena occupati), oppure può essere «endogena», ossia riguardare il comportamento degli stessi soggetti economici in situazioni caratterizzate da interdipendenza. Questo secondo tipo di incertezza ci porta nel campo della teoria dei giochi che, come è noto, «si occupa dell'analisi delle interazioni consapevoli tra agenti. Ciascun giocatore si comporta strategicamente, nel senso che, decidendo quale corso di azioni intraprendere, egli ne considera i possibili effetti sugli altri giocatori e il fatto che questi ultimi si comportano allo stesso modo» (Montet, 1991). Dopo aver suscitato all'inizio grandi speranze tra gli studiosi di economia, la teoria dei giochi aveva conosciuto un lungo periodo di eclissi, tanto che, nei primi anni sessanta, si poteva correttamente scrivere che, fino ad allora, non vi erano stati «tentativi seri di applicare la teoria dei giochi a questioni di mercato ed economiche in genere» (Napoleoni e Ranchetti, 1990). Oggi il panorama è completamente cambiato: la precedente affermazione suona «del tutto anacronistica, dopo anni di riscoperta, di sviluppo e ora di dominio della teoria dei giochi nella letteratura economica» (Montet, 1991). L'anno di svolta è stato probabilmente il 1960, quando uscì The strategy o/ con/lict di Thomas Schelling, un libro che non si occupava di questioni economiche in senso stretto, ma che negli anni successivi avrebbe esercitato una crescente influenza sul lavoro degli economisti. Prima di allora lo sviluppo della teoria dei giochi avevà interessato soprattutto i matematici. La stessa nozione di «equilibrio di Ì\'"sh », che oggi è di pervasiva applicazione in tutta la teoria economica, era stata elaborata da
6o Si tratta dell'importante dibattito sulla teoria dell'utilità attesa. Tale teoria, formulata negli anni quaranta (Von Neumann e Morgenstern, 1944), è divenuta rapidamente la rappresentazione standard delle preferenze in condizioni di incertezza e lo rpnane ancor oggi, nonostante l'emergere di crescenti difficoltà sia sul piano logico sia su quello empirico. Per un'illustrazione di alcuni dei problemi aperti in tale rappresentazione, e per alcune ipotesi di soluzione, si vedano per esempio Sugden, 1987, Ma china, 1987; Hey, 1991. 61 In realtà, dubbi sulla nozione di razionalità strumentale proposta dagli economisti neoclassici (secondo cui il soggetto economico si comporta come se fosse in grado di risolvere complessi problemi di massimo vincolato in un'ottica intertemporale e in condizioni di incertezza) sono stati sollevati già parecchi anni fa da Herbert Simon (n.
19/!, uno studioso dagli interessi vasti, non sol-
tanto ennomici (sufficienti comunque a fargli ottenere il : iobel nel 1978). Sulla sua nozione di« razionalità limitata>> si veda Simon, 1972. Nel testo ci si riferisce, però, al fatto che in condizioni di incertezza la scelta dipende dalle aspettative, sicché, se la soluzione nelle aspettative non è unica, emerge un problema di selezione che mina lo stesso procedimento neoclassico di formazione della scelta. Un problema del genere diviene ancora più rilevante quando si considerano le situazioni di imerdipendenza studiate dalla teoria dei giochi, dove appunto il problema della molteplicità degli equilibri diventa assai frequente e, al tempo stesso, il ricorso a una nozione <> di razionalità diventa essenziale per definire l'equilibrio del gioco (per una discussione di questo punto si veda Hargreaves Heap e Varoufakis, 1995).
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un giovane matematico, appunto John Nash, all'inizio degli anni cinquanta (Nash, 1951), ma era stata trascurata per anni dalla stragrande maggioranza degli economi-
sti. La penetrazione della teoria dei giochi nella scienza economica è andata accelerando a mano a mano che si mettevano a punto concetti e strumenti adeguati a trattare i problemi di cui appunto gli economisti cominciavano a occuparsi. La prima svolta si è avuta con il passaggio dell'interesse degli studiosi dai giochi «a somma zero», adatti a descrivere situazioni di puro conflitto, a quelli «a somma diversa da zero», adatti a descrivere situazioni (molto più attraenti per l'economista) in cui le possibilità di conflitto e di cooperazione si intrecciano in modi più o meno complessi. Le svolte successive sono legate a vari arricchimenti della teoria dei giochi, divenuta via via capace di trattare situazioni di interazione che si prolungano nel tempo (giochi dinamici), in cui le strategie si fanno più complesse ammettendo la possibilità di minacce e promesse, punizioni e ricompense; e anche situazioni caratterizzate da incertezza (giochi con informazione incompleta), e così via. Inizialmente, il campo privilegiato delle applicazioni economiche della teoria dei giochi era la teoria dell'oligopolio, ma gradualmente la teoria dei giochi ha invaso moltissimi rami della scienza economica e l'interazione tra studiosi di teoria dei giochi e studiosi di economia si è fatta sempre più stretta, con stimoli reciproci. Una testimonianza significativa di questa collaborazione scientifica è l'assegnazione del Nobel per l'economia nel 1994 a tre studiosi di teoria dei giochi: Nash, Harsanyi e Selten. Se negli ultimi vent'anni la teoria dei giochi ha dato un forte impulso al rinnovamento della scienza economica, un contributo non meno significativo è venuto anche da altre direzioni, per esempio da un articolo anticipatore sulla natura dell'impresa scritto da Ronald Coase (n. 1910, Nobel 1991) addirittura nel 1937 (Coase, 1989). In questo articolo e in un altro lavoro dello stesso autore scritto oltre vent'anni dopo (Coase, 1960), 62 viene messo a punto un concetto tra i più trascurati dalla microeconomia tradizionale e tra i più fecondi per il pensiero economico contemporaneo, quello di « costo di transazione» ovvero di costo che si sopporta per il funzionamento del mercato. Ogni transazione economica, in particolare ogni atto di scambio, richiede per essere perfezionata una vasta gamma di attività, che la precedono, l'accompagnano e la seguono. «Esse consistono, per esempio, nella preliminare raccolta di informazioni sulle alternative disponibili, nella loro elaborazione per individuare la scelta migliore, nella verifica della conformità delle prestazioni agli impegni assunti, e così via», tutte attività che, appunto, sono costose (Franzini e Messori, 1991). Un terzo grande impulso al recente rinnovamento della teoria economica è venuto, infine, dalla considerazione dell'informazione asimmetrica. Le implicazioni economiche di quest'ultima si sono imposte all'attenzione degli economisti quando 62 Coase è uno di quei rari studiosi (un altro è Sraffa) che ha scritto pochi saggi ma tutti
molto importanti.
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uscì il famoso articolo sul «mercato dei bidoni» (Akerlof, 1970), ma da allora il tema dell'informazione asimmetrica si è diffuso dapprima nella microeconomia 63 e successivamente anche nella macra, svolgendo un ruolo importante, per !imitarci a due soli campi, nella nuova teoria dell'impresa e nelle moderne teorie del mercato del lavoro. Si dice che l'informazione è asimmetrica quando gli agenti sono imperfettamente informati non riguardo alle condizioni generali del sistema economico (in gergo: rispetto alle realizzazioni dello stato del mondo), ma riguardo alle caratteristiche o al comportamento degli agenti con cui interagiscono. Più precisamente, considerando una transazione (per esempio, l'acquisto di un bene o di un servizio, o un rapporto di lavoro), si ha informazione asimmetrica quando uno dei due soggetti, di solito chi vende, sa qualcosa di rilevante che l'altro soggetto (il compratore) non conosce. Gli studiosi hanno considerato due situazioni caratteristiche: r) il caso di adverse selection, quando l'informazione riguarda la qualità del bene o del servizio (per esempio, l'acquirente di un'auto usata non sa se quest'ultima si rivelerà o no un «bidone»; l'impresa che deve assumere un lavoratore non sa quanto quel dipendente si rivelerà capace e abile sul lavoro, ecc.); 2) il caso di mora! hazard, quando l'informazione riguarda l'azione svolta da uno dei due soggetti (per esempio, l'impresa non è in grado di verificare quanto si impegna il proprio dipendente). XII E
·
COSTI
DI
TRANSAZIONE
INFORMAZIONE
ASIMMETRICA
La considerazione dei costi di transazione e dell'informazione asimmetrica ha modificato in modo profondo la concezione degli economisti sul funzionamento del mercato e sulla sua capacità di realizzare allocazioni ottimali. Abbiamo visto, parlando dell'obiezione neoclassica all'approccio keynesiano dei prezzi fissi, che tale capacità si basa sull'idea che ogni volta che esistono opportunità di transazioni reciprocamente vantaggiose i soggetti, essendo razionali, ne approfitteranno. Perciò il mercato realizza allocazioni ottimali, in quanto tutte le possibilità di ottenere vantaggi reciproci verranno sfruttate, sicché alla fine non è più possibile migliorare la posizione di un soggetto senza peggiorare la situazione di almeno un altro soggetto. 64 Questo ragionamento, però, è basato solo sull'esistenza di un vantaggio e perciò di un incentivo, per i soggetti coinvolti, a perfezionare la transazione. Non considera, invece, le difficoltà e i costi che possono ostacolare la transazione e spesso addirittura impedire che essa vada in porto.
63 Si veda per esempio, tra gli altri, Rothschild e Stiglitz, 1976. 64 In questo caso gli economisti dicono che l'allocazione risultante è << ottimale nel senso di
Pareto>> o, più brevemente, « pareto-ottimale >> (con la minuscola: il cognome dell'illustre studioso italiano dell'inizio del secolo è diventato un termine gergale nel « lessico familiare >> degli economisti).
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La microeconomia tradizionale aveva preso in esame diverse cause di market failure: 65 forme di mercato non concorrenziali, esternalità, beni pubblici. Esse avevano in comune il fatto che l'incentivo dei soggetti era insufficiente a sfruttare le opportunità di transazioni vantaggiose. Per esempio, nel caso dell'esternalità, 66 l'azione del soggetto che la provoca è determinata dalla considerazione dei vantaggi e dei costi personali, e non dei vantaggi e costi che quell'azione fa ricadere su altri soggetti. Con costi di transazione e informazione asimmetrica, invece, è il discorso dei costi che ostacolano il perfezionamento delle transazioni che balza in primo piano. Nel caso dei costi di transazione ciò è immediatamente evidente. Molti scambi che pure, in potenza, sarebbero reciprocamente vantaggiosi, non vengono effettuati perché costa troppo realizzarli; in altri termini, perché il mercato in cui essi dovrebbero essere eseguiti non esiste. 67 Nel caso dell'informazione asimmetrica si arriva a una conclusione simile. Prendiamo a titolo di esempio il mercato delle auto usate (il mercato dei «bidoni» studiato da Akerlof). L'acquirente non conosce la qualità della singola auto ma solo la qualità media di un'auto usata di quel tipo ed età. Sarebbe disposto perciò a pagare il prezzo corrispondente a questa qualità media, ma sa che per quel prezzo il venditore non è disposto a disfarsi delle auto di qualità superiore alla media, sicché la qualità media delle auto effettivamente in vendita è inferiore. Questa considerazione deve indurlo a pagare ancora di meno. Ma allora il ragionamento appena fatto si ripete, con la conseguenza che, alla fine, il mercato seleziona soltanto le auto di qualità più bassa, appunto i «bidoni». È un tipico esempio di adverse selection. A causa dell'informazione asimmetrica tutte le auto usate di migliore qualità rimangono invendute, nonostante che, se gli acquirenti fossero informati sull'effettiva qualità della singola auto, sarebbero pronti a pagare il prezzo corrispondente. Ovviamente esistono dei rimedi: nell'esempio considerato è sufficiente certificare la qualità dei beni venduti, oppure introdurre clausole di garanzia del tipo «soddisfatti o rimborsati», ma in questo modo si riduce il problema dell'informazione asimmetrica accrescendo i costi di transazione. Altre forme di soluzione del problema consistono nel fornire al compratore «segnali», indiretti ma credibili, della qualità di ciò che dovrebbe acquistare (Spence, 1974), o nel costruirsi, da parte del 65 Market /ailure è un'espressione usata dagli economisti, che la riferiscono a situazioni in cui il mercato non realizza un'allocazione pareto-attimale (Ledyard, 1987). La corrispondente espressione in italiano, <
66 Anche<< esternalità>> è un'espressione gergale. Si dice che all'azione di un soggetto è associata una esternalità quando quell'azione influenza la funzione-obiettivo di un altro soggetto per una via diversa dal mercato (insomma esterna al mercato). Esempi tipici di esternalità (negative) sono l'inquinamento dell'ambiente e la congestione del traffico. 67 Su questo argomento si vedano le considerazioni svolte in Arrow, 1969.
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venditore, una «reputazione» di affidabilità, un argomento, quest'ultimo, studiato dagli sviluppi moderni della teoria dei giochi. 68 È superfluo sottolineare come anche queste forme di soluzione del problema dell'informazione asimmetrica siano costose. La risposta più diretta ai problemi derivanti dall'esistenza di costi di transazione e di informazione asimmetrica, soprattutto quando la transazione è «ripetuta», ovvero configura un rapporto di lungo periodo, consiste nell'adottare soluzioni diverse dal mercato, in cui tali problemi si presentano in forma meno virulenta. La prima di tali soluzioni è, appunto, il contratto a lungo termine (Hart e Holmstrom, 1987), con cui si perde in flessibilità (il contratto, per definizione, non assicura l'equilibrio continuo tra domanda e offerta), ma si risparmia sui costi di transazione. Per quanto riguarda l'informazione asimmetrica, il contratto è una soluzione soltanto parziale. Tutte le volte che una delle due parti coinvolte non è in grado di verificare in misura completa l'esecuzione da parte dell'altra di quanto prescritto dal contratto il problema dell'informazione asimmetrica continua a essere presente. Si tratta di quello che gli economisti chiamano problema del «principale-agente» o del rapporto di «agenzia», un argomento proposto per la prima volta da Stephen Ross (1973) e che ha suscitato negli ultimi vent'anni una gran mole di studi e di applicazioni (Rees, 1987). Un altro problema lasciato irrisolto dal contratto è costituito dal fatto che quando quest'ultimo riguarda un rapporto di lunga durata non può in genere prevedere tutte le eventualità che potranno verificarsi, specificare tutti i comportamenti da adottare nei vari casi e definire le procedure di accertamento e di eventuale sanzione; in tal caso si dice che il contratto è «incompleto» (Hart, 1987 ). Questo problema, unito a quello, ugualmente peculiare delle transazioni che danno vita a rapporti di lunga durata, dei cosiddetti investimenti «specifici» (tali che hanno valore solo per quella transazione, e di cui quindi non si può recuperare integralmente la spesa nel caso di interruzione del rapporto), può rendere conveniente la costituzione di un'impresa, ossia di un'organizzazione in cui il rapporto di scambio viene sostituito da un rapporto gerarchico (Hart, 1989 e 1991). La moderna teoria dell'impresa è un po' il punto di incontro e di fusione di gran parte delle tematiche presentate in questo paragrafo e nel precedente. 69 Qui ci limitiamo a sottolineare quanto la concezione dell'impresa sia cambiata dagli anni cinquanta e sessanta. Allora essa era vista come un soggetto che massimizza la propria funzione-obiettivo (il profitto) subordinatamente al vincolo costituito da una funzione di produzione e ai vincoli provenienti dai mercati (i prezzi di inputs e outputs); insomma una «caricatura» dell'impresa moderna (Hart, 1989). Oggi la concezione dell'impresa è estremamante ricca e articolata: fa riferimento alla teoria dei . 68 n tema è stato esplorato in un articolo mnovativo da Kreps e Wilson, 1982. Per una pre· sentazione più semplice si veda Hargreaves Heap e Varoufakis, 1995.
69 Per un'ampia e approfondita trattazione si rinvia a Schmalensee e Willig, 1989, oppure al bel manuale di Tirole, 1988.
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contratti come alla teoria del principale-agente, ai costi di transazione come al problema degli investimenti specifici (Williamson, 1989), alla questione dei property rights (Alchian, 1987) come alla teoria dei giochi (Kreps, 1990). In conclusione, nel pensiero economico contemporaneo l'impresa non è considerata soltanto come un soggetto che opera nel mercato, ma anche (e forse soprattutto) come una soluzione organizzativa che si pone in alternativa al mercato stesso. L'impresa è una istituzione che compete con altre soluzioni istituzionali, una sola delle quali è il mercato, sulla base del confronto, per ciascuna, tra benefici e costi necessari per il proprio funzionamento. Questa concezione, nonostante il suo «stile» neoclassico, si articola in contenuti che ormai hanno ben poco in comune con la microeconomia (neoclassica) degli anni cinquanta e sessanta; in particolare è evidente l'indebolimento, rispetto a quel periodo, del «legame tra mercato ed efficienza, anche se permane la fiducia nella razionalità individuale» (Franzini e Messori, 1991). XIII · IL DECLINO DEL PARADIGMA DELLA CONCORRENZA PERFETTA
La presentazione dei temi più rilevanti della microeconomia negli ultimi decenni, svolta nei paragrafi precedenti, è largamente incompleta. Sul piano dei contenuti non sono stati citati, per esempio, gli sviluppi recenti della teoria dell'equilibrio generale, che ancora negli anni sessanta era l'indiscussa regina della ricerca microeconomica, e che (come testimoniano i lavori raccolti in Malinvaud e altri, 1993) continua ancor oggi a rappresentare, sia pure in una posizione più decentrata (e specialistica), un'area di ricerca assai vitale. 70 Nulla si è detto circa la politica microeconomica71 e numerosi altri argomenti. 72 In parte si tratta di una scelta obbligata, dovuta a motivi di spazio, in parte di una scelta consapevole e voluta, in quanto consente di esplicitare meglio il mutamento di clima generale provocato dall'imporsi al centro della ricerca microeconomica dei temi di cui ci siamo occupati nei paragrafi precedenti. 70 Per approfondimenti si rimanda alla lettura, tecnicamente impegnativa, dei lavori contenuti nei tre volumi curati da Arrow e Intriligator, 1981-86. 71 Sono state escluse dalla nostra trattazione sia la social choice, un'altra delle regine della ricerca negli anni cinquanta e sessanta, ma su cui si è continuato a lavorare anche negli anni più recenti, andando a toccare, tra l'altro, un tema delicato e importante come quello dei rapporti tra economia ed etica (su cui si vedano, per esempio, Sen, 1982 e 1987 e Zamagni, 1995), sia la public choice, l'approccio che studia il decisore pubblico come è, secondo le sue funzioni-obiettivo, e non come soggetto che cerca di massimizzare una qualche funzione del benessere sociale (come fa invece la social choice). Lo sviluppo della public choice è stato uno dei fenomeni culturali più vistosi e rilevanti, con
notevoli implicazioni per la scienza economica e per numerose discipline <>, come il diritto e la politica (sull'argomento una reference essenziale è Mueller, 1989). Infine è stata tralasciata la teoria della politica microeconomica (microeconomic policy analysis), un altro terreno di ricerca estremamente dinamico e, probabilmente, di grande futuro, sul quale si può vedere almeno l'illuminante lavoro di Stiglitz, 1989 sul ruolo economico dello stato. 72 Ci limitiamo a indicare due testi. Il primo è la raccolta curata da Hey, 1989 dedicata specificamente ai temi emergenti della micreoconomia; il secondo è il ricco volume curato da Greenaway, Bleaney e Stewart, 1991, che raccoglie i contributi di numerosi studiosi di primo piano e che vuoi essere, come recita il titolo, una sorta di << vademecum » sul pensiero economico contemporaneo.
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Non è semplice dar conto in poche righe della natura di questo cambiamento, anche se si spera che, leggendo le pagine precedenti, qualche idea in proposito il lettore se la sia fatta. Si può cercare, comunque, di delineare un quadro sintetico di confronto tra la situazione di «ieri» (trent'anni fa) e quella di «oggi». N egli anni cinquanta e sessanta, all'epoca dei trionfi della teoria dell'equilibrio generale, vi era una sostanziale identificazione, nella coscienza comune, tra economia neoclassica e «mano invisibile». La microeconomia disponeva di un paio di strumenti-concetti chiave, la teoria della scelta razionale e il metodo dell'equilibrio, di cui si serviva per analizzare il suo mondo, concentrando le proprie energie sullo studio del mercato (ovviamente concorrenziale) visto sia come il miglior meccanismo allocativo possibile, sia come una accettabile approssimazione del funzionamento dei sistemi economici reali. È chiaro che non tutti la pensavano così, ma la maggioranza degli studiosi di microeconomia avrebbe condiviso una siffatta «visione» del mondo. Le eccezioni, le forme di mercato non concorrenziali, le esternalità e i beni pubblici, tutti esempi di market failure, erano conosciute e studiate, ma appunto come eccezioni che arricchivano di chiaroscuri il quadro senza turbarne la sostanziale armonia. Nel volgere dei decenni gli strumenti-concetti chiave sono rimasti gli stessi, anche se, come abbiamo visto, sono diventati più ricchi, più potenti e anche più complessi e problematici. È proprio in questo senso che la microeconomia è rimasta fondamentalmente neoclassica. 73 Al contrario, l'identificazione con la mano invisibile è ormai quasi completamente scomparsa, se non nella coscienza di tutti gli studiosi, certo in quella di una loro rappresentanza, abbastanza numerosa e certamente dinamica. Sono sempre di più gli economisti convinti che le cause di market fatlure (i costi di transazione, le forme di mercato non concorrenziali, le esternalità, i beni pubblici, l'informazione asimmetrica) non vanno viste come eccezioni, perché sono piuttosto la regola, sono caratteristiche essenziali del funzionamento dei sistemi economici reali e vanno perciò considerate e studiate in quanto fenomeni rilevanti e diffusi. In questo quadro concettuale, la concorrenza perfetta continua ad avere uno spazio, ma ha perso il suo ruolo centrale nell'analisi. Innanzi tutto tende a essere soppiantata dalla nozione, più generale e moderna, di « contendibilità » (Baumol, 1991b). Al di là della rilevanza empirica, quest'ultima rappresenta uno degli sviluppi più innovativi in tema di teoria della concorrenza verificatosi nel periodo che stiamo considerando. Si dice che un mercato è contendibile (contestable market) quando, 73 Implicita in questa affermazione è una definizione <> di paradigma neoclassico, che sarebbe fondato, appunto, sull'ipotesi pivot di comportamento razionale e sui metodi di analisi che ne derivano. Non tutti sarebbero d'accordo con questo tipo di definizione. Per esempio, Stiglitz, 1991 riserva all'approccio neoclassico una defini-
zione decisamente più restnttlva; essa è centrata sull'ipotesi pivot di <>, cui viene contrapposto, come paradigma alternativo, quello che concentra l'attenzione sulla dualità <>.
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per l'assenza di barriere all'entrata e all'uscita, consente una particolare forma di concorrenza (detta hit and run, ovvero «mordi e fuggi») per cui alla fine le imprese presenti nel mercato non conseguono (extra)profitti, e questo indipendentemente dal numero e dalle dimensioni delle imprese che vi operano. La contendibilità, dunque, è una proprietà più generale di quella della concorrenza perfetta. La condizione cruciale perché un mercato sia contendibile è costituita dall'assenza di barriere all'uscita ovvero dall'assenza di costi non recuperabili (sunk costs). Con questa espressione ci si riferisce ai costi che l'impresa sopporta per poter entrare in un mercato (per iniziare a svolgere una determinata attività) e che non è in grado di recuperare integralmente nel momento in cui decide di uscirne (di cessare quell'attività). Un confronto tra la nozione di concorrenza perfetta e quella di contendibilità mostra che quest'ultima, al contrario della prima, è basata su una concezione dinamica del funzionamento del mercato e fa leva sull'interdipendenza strategica tra le imprese, in linea con il modo di pensare che è stato reso familiare dalla teoria dei giochi. Inoltre la concorrenza perfetta perde sempre più terreno, negli interessi degli economisti, a favore dei mercati non concorrenziali. Il declino dell'ipotesi di concorrenza perfetta ha radici lontane. Senza voler tornare indietro fino a Sraffa (1926), il cui lavoro aprì la strada alla prima grande fioritura di studi sulla concorrenza imperfetta, ci si può riferire a un altro testo molto influente di Arrow (1959), in cui si mostra la dipendenza cruciale dell'ipotesi di concorrenza perfetta da quella del banditore. Rimuovendo quest'ultima (che è accettabile solo nei cosiddetti auction markets, rappresentati nelle realtà economiche effettive solo dai mercati di alcune attività finanziarie e di alcune materie prime), diventa inevitabile considerare e studiare situazioni (quelle dei cosiddetti customer markets) in cui i prezzi sono fissati dai venditori. 74 Va subito aggiunto che il processo di detronizzazione della concorrenza perfetta si è enormemente accelerato, negli ultimi decenni, in seguito agli stessi sviluppi considerati nel paragrafo precedente, e in particolare agli studi sul ruolo economico dell'informazione asimmetrica. 75 7 4 Sulla distinzione tra auction markets (mercati d'asta) e customer markets (mercati di clientela) si veda il bel libro di Okun, 1981. 75 Quando la qualità è incerta i prezzi assumono anche un ruolo informativo (si veda, per esempio, Stiglitz, 1987), sicché non possono più svolgere in modo efficiente il ruolo di equilibratore tra domanda e offerta (Stiglitz, 1985). La questione del ruolo informativo dei prezzi è discussa più in generale in Grossman, 1989. Certo è che la nuova microeconomia ha cambiato «drammaticamente» la nostra nozione di prezzo. «Abbiamo insegnato per anni che il prezzo è un indicatore di scarsità, e che può essere utilizzato come guida per la realizzazione di allocazioni efficienti [. .. ]. Ora dobbiamo insegnare che il prezzo
è anche altre cose: in un mondo caratterizzato da agenti price maker il prezzo è prima di tutto una variabile di scelta che consente al soggetto decisore di perseguire il massimo della propria funzione-obiettivo; e in un mondo caratterizzato da agenti price taker è sufficiente che vi sia informazione asimmetrica perché il prezzo fornisce prima di tutto segnali sulla qualità di ciò che viene scambiato. Queste funzioni attribuite al prezzo coesistono in modo contrastato e problematico. Da questa sorta di "sovraccarico" le tematiche del market failure scaturiscono in modo quanto mai naturale. Invece di essere le eccezioni, i curiosa, postulati dalla teoria tradizionale, diventano la regola, il caso generale delle moderne economie di mercato>> (Rodano, 1996).
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Lo stesso mercato viene ormai considerato un meccanismo allocativo accanto ad altri meccanismi istituzionali, la cui importanza, nella ricerca teorica come nella comprensione della realtà economica, acquista sempre maggiore spazio. 76 Mentre nella microeconomia tradizionale, il ragionamento ruotava attorno alla scelta razio" nale e allo scambio atomistico, nella microeconomia odierna la questione della scelta razionale rimane centrale, ma l'ambiente in cui essa si esercita si è fatto molto più complesso: è un ambiente dinamico (per cui la scelta ha una dimensione intertemporale), caratterizzato da incertezza, spesso da informazione asimmetrica, in genere da interdipendenze (per cui la scelta va analizzata con gli strumenti della teoria dei giochi). Di conseguenza, lo scambio atomistico non è più l'oggetto privilegiato dell' analisi, ma è in genere sostituito dal contratto e dalla soluzione istituzionale, per lo studio dei quali, di nuovo, è indispensabile far ricorso agli strumenti della teoria dei giochi. XIV
·
LA
NUOVA
ECONOMIA
KEYNESIANA
Siamo ora in grado di riprendere il discorso sull'evoluzione recente della teoria macroeconomica al punto in cui l'avevamo interrotto qualche pagina fa. Il tema - lo ricordiamo - era quello del programma di ricerca della nuova economia keynesiana (NEK). Molto in sintesi, esso persegue due obiettivi: I) mostrare che un'economia che non rispetta i canoni tradizionali (riproposti energicamente dalla NCM) del market clearing e della concorrenza perfetta può reggersi pur tuttavia su solide fondamenta microeconomiche, più valide anzi di quelle su cui si basano i risultati della macroeconomia neoclassica; 2) studiare le implicazioni macro di questo nuovo /ramework, in particolare per quanto riguarda i classici problemi della disciplina: le fluttuazioni cicliche, la disoccupazione e il ruolo della politica economica. Il primo punto di questo programma è decisamente a uno stadio più avanzato del secondo, cosa che del resto non deve meravigliare, visto che la ricerca NEK prosegue attivamente anche ai giorni nostri. La questione cruciale può essere così formulata: perché variazioni della domanda aggregata vengono in larga misura accomodate da aggiustamenti delle quantità invece che da aggiustamenti dei prezzi relativi? Ovvero, come possono essere giustificate, sul piano del comportamento razionale, le rigidità di prezzi e salari? Si deve distinguere tra rigidità nominali e rigidità reali; si ha, per esempio, una rigidità nominale quando di fronte a una diminuzione (annunciata) dell'offerta di moneta i prezzi non scendono; ne consegue una diminuzione della domanda aggregata e perciò del prodotto e dell' occupazione. 76 Negli ultimi decenni la teoria economica delle istituzioni è stato un campo di ricerca in forte espansione. Per un approccio in termini di teoria dei giochi si veda Schotter, 1981. Per un approccio
che, invece, coniuga l'analisi economica con quella storica si veda North, 1990 e 1991 (l'autore è stato insignito del premio Nobel nel 1993).
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La risposta NEK coinvolge numerose acquisizioni della moderna microeconomia, quella - per intenderei - del market /ailure. Innanzi tutto si assume un mercato non concorrenziale,77 con i prezzi, dunque, che vengono fissati dalle imprese. Poi si analizza dal punto di vista della singola impresa la decisione di cambiare il prezzo e si mostra che in presenza di un piccolo costo associato al cambiamento del prezzo (small menu cast) può essere ottimale per l'impresa decidere di !asciarlo immutato, perché la perdita associata al mancato adeguamento è inferiore al menu cast (Akerlof e Yellen, 1985). Mentre tuttavia a livello micro (sul profitto della singola impresa) la perdita è trascurabile, a livello macro (sul prodotto aggregato e sull'occupazione) essa non lo è. Sul piano macroeconomico, cioè, si manifesta una esternalità: il costo sociale del non aggiustamento eccede largamente il costo privato (Mankiw, 1985). Se tutte le imprese si coordinassero per adeguare i prezzi, la perdita sociale sarebbe trascurabile, ma non ci sono incentivi individuali al coordinamento. 78 Naturalmente vengono considerate anche altre cause per giustificare il mancato adeguamento dei prezzi. Anche in questo caso un ruolo importante è svolto dall'informazione asimmetrica (Stiglitz, 1979). In tema di rigidità dei salari, i successi più importanti della NEK riguardano la rigidità reale. In questo campo si sono ottenuti risultati fortemente innovativi fin dai primi anni settanta, quando è stata proposta la teoria dei cosiddetti « contratti impliciti». L'idea è piuttosto semplice: in condizioni di incertezza sullo stato del mondo, se i lavoratori sono contrari al rischio, diviene vantaggioso stipulare un contratto che di fatto li assicuri almeno in parte nei confronti del rischio di impresa. È chiaro, allora, che se il salario svolge tale funzione non può svolgere quella di equilibrare il mercato del lavoro.7 9 Anche gli altri temi della microeconomia del market /ailure si sono rivelati fruttuosi in questo campo. Per esempio, l'approccio delle forme di mercato non concorrenziali, insieme con i progressi della teoria dei giochi, ha condotto al grande sviluppo dei modelli economici del sindacato (Oswald, 1985).
L'approfondimento del tema dell'informazione asimmetrica ha a sua volta permesso di mettere a fuoco un risultato decisamente controintuitivo: una forma di rigidità salariale in cui sono le imprese, non i lavoratori, a impedire la diminuzione del salario in presenza di disoccupazione. È il tema dei cosiddetti «salari-efficienza» (Akerlof e Yellen, 1986). Anche in questo caso l'idea di base è semplice. Si assume che l'impresa non conosca le caratteristiche del lavoratore (le sue capacità e/o il suo 77 Le principali forme di mercato prese in considerazione per modellare un sistema macroeconomico non perfettamente concorrenziale sono la concorrenza monopolistica e l' oligopolio; si vedano Blanchard e Kiyotaki, 1987; Dixon, 1988; Dixon e Rankin, 1991. 78 Il tema del coordination /ailure ha acquistato un'importanza crescente nella macroeconomia
della NEK, anche in riferimento al problema della pluralità degli equilibri. Tale problema emerge, come risultato tipico, nei cosiddetti «giochi di coordinamento>>. Per una loro applicazione alle problematiche macroeconomiche si veda Cooper e John, 1988. 79 Per gli sviluppi successivi di tale teoria si veda la rassegna di Azariadis e Stiglitz, 1983.
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impegno), ma che tali caratteristiche siano rivelate, almeno in parte, dal salario che
il singolo lavoratore è disposto ad accettare, nel senso che le qualità e/o l'impegno del lavoratore crescono in funzione diretta del salario. 80 Dal punto di vista della funzione-obiettivo dell'impresa, una diminuzione salariale provoca due effetti contrastanti: riduce il costo dei lavoratori occupati (e ciò aumenta i profitti), ma ne riduce anche la qualità e l'efficienza (e ciò riduce i profitti). Vi sarà allora un livello del salario, appunto il «salario-efficienza» al di sotto del quale le imprese non sono disposte a scendere (Solow, 1979). Un altro esempio di microfondazione secondo linee diverse da quelle tradizionali riguarda il mercato dei prestiti, dove si mostra che una situazione di eccesso di domanda di prestiti sull'offerta, owero una situazione di « razionamento » del credito, può essere di equilibrio e non accompagnarsi quindi a un incremento del tasso di interesse (secondo quanto postulato dalla teoria tradizionale). Anche in questo caso viene chiamata in causa l'informazione asimmetrica, secondo una linea di ragionamento analoga a quella appena vista a proposito dei salari-efficienza. Un aumento del tasso di interesse ha due effetti sul profitto (atteso) delle banche: un effetto reddito (positivo), perché su ogni lira di prestito che va a buon fine la banca guadagna di più; ma anche un effetto di « selezione awersa » (negativo), perché l'aumento del tasso di interesse scoraggia i clienti più sicuri e attira quelli più rischiosi (per i quali, cioè, è più alta la probabilità che il prestito non vada a buon fine); vi sarà allora un tasso di interesse che massimizza il profitto atteso dalla banca, al di sopra del quale essa non si spinge neanche se vi è un eccesso di domanda (Stiglitz e Weiss, 1981). Risultati simili sono stati ottenuti per il mercato azionario, nel quale pure emerge la possibilità di un razionamento di equilibrio (Greenwald e Stiglitz, 1988a). Mentre sul terreno della microfondazione della rigidità dei prezzi, dei salari e del tasso di interesse la NEK ottiene risultati validi e innovativi, sul terreno della costruzione di una teoria del ciclo che tenga assieme tutti questi risultati la ricerca segna il passo. La NEK non è ancora riuscita a costruire una teoria completa, che sia capace di dar conto di tutti i principali fatti stilizzati che normalmente vengono associati alle fluttuazioni economiche. Qualche anno fa si sosteneva che i nuovi key-
8o La relazione crescente tra produttività del lavoro e salario pagato al lavoratore è stata argomentata in vari modi. Nella spiegazione di Weiss, 1980 si considera una situazione in cui è la produttività dei lavoratori che non è omogenea, sicché sorge un problema di adverse selection. Ciascun lavoratore ha un proprio livello di salario per cui accetta il posto, che cresce con la produttività del lavoratore stesso. In questo caso il salario (il prezzo) dà informazioni sulla qualità del lavoro (della merce). Nella spiegazione di Shapiro e Stiglitz, 1984 si considera una situazione in cui l'impegno del lavoratore non è monitorabile (se non a costi ele-
vati) sicché sorge un problema di mora! hazard. Un salario maggiore di quello di market clearing (e la connessa presenza della disoccupazione) comporta un costo per il lavoratore che viene licenziato e lo induce a impegnarsi per non esserlo. Se il salario fosse quello di market clearing il costo del licenziamento sarebbe nullo. Non direttamente legata al tema dell'informazione asimmetrica è invece la spiegazione di Salop, 1979; essa fa riferimento alla riluttanza dei lavoratori a lasciare un posto ben pagato, il che consente alle imprese di ridurre i costi di turn-over pagando un salario maggiore di quello di market clearin g.
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nesiani dispongono di buone teorie parziali, semilavorati (building blocks) che attendono ancora di essere incorporati all'interno di una teoria complessiva (Greenwald e Stiglitz, 1988b). 81 Qualche progresso è stato fatto nel frattempo, ma non si è ancora in vista del traguardo. 82 In compenso, in tema di teoria del ciclo gli economisti hanno esplorato anche altre strade. Ne citiamo due. La prima è quella che studia le implicazioni della dinamica non lineare, che come sanno bene i matematici è capace di generare, partendo da equazioni relativamente semplici, andamenti temporali estremamente complessi. Dal punto di vista che qui ci interessa, si possono avere andamenti ciclici endogeni, che non hanno bisogno di un impulso esterno, e anche dinamiche caotiche (Benhabib, 1992). In questo filone di ricerca lavorano studiosi di ispirazione sia neoclassica sia keynesiana. L'altra linea di ricerca che vogliamo citare si contrappone esplicitamente all'approccio del rea l business cycle ed è quella perseguita da Edmund Phelps in un lavoro del 1994. Essa è fortemente imparentata con temi di ricerca tipici della NEK - per esempio fa uso della teoria dei salari-efficienza - ma ottiene spesso risultati, anche sul terreno della policy, significativamente diversi da quelli della teoria keynesiana tradizionale. XV
·
QUATTRO
CONSIDERAZIONI
PER
CONCLUDERE
Per concludere questo rapido excursus su un trentennio di ricerche nel campo dell'economia ci siano consentite ancora quattro brevi considerazioni. La prima riguarda quello che è stato un po' il filo conduttore di questa analisi, ovvero il tema dei rapporti tra micro e macro. Verso la metà degli anni settanta si poteva pensare a una prospettiva di riassorbimento della seconda nella prima. Così non è stato, anche se i confini tra le due discipline si sono fatti molto meno netti che in passato. La fusione non è avvenuta, ma è in atto un vigoroso processo di integrazione. Certo è che nel corso di questi trent'anni i rapporti tra micro e macro non hanno seguito un trend lineare; si è avuto piuttosto un andamento ciclico. In una prima fase, quella degli anni settanta, dominata dalla NCM, la microeconomia della concorrenza perfetta ha imposto agli studiosi di macra di cambiare e di adeguarsi. Successivamente, però, negli anni ottanta, è stata la macroeconomia a dettare i temi della ricerca e a spingere la micro a rinnovarsi, a cercare nuove strade, a dotarsi 81 Il che non vuoi dire che non si siano ottenuti risultati anche molto interessanti. Ne citiamo uno soltanto. A partire dalla teoria economica del sindacato, e passando per i cosiddetti modelli insider-outsider (Lindbeck e Snower, 1988), si è spiegata la « persistenza >> della disoccupazione al di là delle fasi acute del ciclo, un fenomeno particolarmente rilevante per le economie europee degli anni ottanta. Una eccellente lettura su questo argomento è Blanchard, 1991.
82 Anche sul terreno della politica economica non sembra che ci siano grandi novità. Le implicazioni di policy dei modelli NEK sembrano molto simili a quelle dei modelli degli anni sessanta: le politiche di gestione della domanda aggregata sono efficaci, anche se agiscono secondo canali diversi da quelli considerati allora (Greenwald e Stiglitz, 1988b). Per una sintetica riflessione critica sui risultati ottenuti dalla NEK si veda anche Rodano, 1996.
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degli strumenti teorici per descrivere un mondo che appariva sempre meno comprensibile all'interno delle categorie concettuali dell'equilibrio generale di concorrenza perfetta. In un certo senso, si è cominciato a « macrofondare » la micro, secondo un suggerimento del vecchio Hicks (1979). Negli ultimi anni, questa fecondazione reciproca tra micro e macro sta producendo risultati importanti, che hanno cominciato a cambiare il nostro modo di atteggiarci nei confronti dei fenomeni dell' economia e delle possibilità della politica economica. La seconda considerazione che vogliamo svolgere in questo paragrafo conclusivo riguarda appunto la politica economica. In questi trent'anni si sono confrontate due linee «vecchie» e due linee «nuove». Le linee vecchie si scontravano sull' efficacia delle politiche della domanda aggregata, con i macroeconomisti neoclassici schierati su un fronte e vecchi e nuovi keynesiani schierati sull'altro. Ma sia gli uni che gli altri hanno prodotto di meglio. I primi sono andati molto avanti nell'esplorazione dei nessi tra politica economica e teoria dei giochi (si veda supra, par. rx), e lungo questa via si sono incontrati con una parte dei keynesiani. Questi ultimi, ragionando sulle implicazioni degli equilibri multipli e del ruolo delle aspettative nel determinarli, suggeriscono che vi sia un nuovo spazio e, soprattutto, un nuovo ruolo per le politiche economiche, diverso da quello previsto dai keynesiani tradizionali (ma forse più vicino alle idee originali di Keynes). Le politiche, cioè, possono agire per dare un punto di riferimento esterno al mercato, sulla base del quale gli agenti possano coordinarsi e condurre il mercato a «selezionare» un equilibrio superiore; e in quest'ambito il lato dell'offerta è altrettanto, se non più importante di quello della domanda (Hargreaves Heap, 1992). Tra neoclassici e keynesiani l'accentuazione rimane diversa: i primi tendono a sottolineare i limiti delle politiche, i secondi tendono a sottolinearne le possibilità, ma il terreno di ricerca è ormai largamente comune. Quanto appena detto ci conduce alla terza considerazione, che riguarda l'attenuarsi dei conflitti. «Una delle caratteristiche - forse, in prospettiva, sarà ricordata come la principale caratteristica - della teoria economica nell'ultimo decennio è quella del decantamento delle controversie e del graduale ristabilimento di una qualche forma di consenso nella professione, per la prima volta dopo la metà degli anni sessanta» (Bleaney, 1991). Si tratta di un giudizio forse un po' troppo netto, ma che con qualche cautela può essere condiviso. Molti fattori hanno alimentato questa tendenza al convergere delle valutazioni scientifiche. Certamente ha contato il /atto storico di maggiore rilevanza verificatosi alla fine degli anni ottanta, ovvero la scomparsa delle economie pianificate nell'Europa dell'Est; un avvenimento, appunto, che ha comportato un'enorme riduzione della tensione ideologica tra le diverse scuole di pensiero economico. Un altro fattore non trascurabile riguarda invece la storia delle idee. La complessità del discorso scientifico nel campo dell'economia ha raggiunto livelli tali che la maggioranza degli studiosi ha rinunciato a proporre una «teoria generale» di portata analoga al modello Arrow-Debreu in
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microeconomia e al modello AD-AS della sintesi neoclassica in macreoconomia. Il discorso in termini generali è retrocesso, quando sopravvive, al livello di ciò che Schumpeter chiamava la «visione preanalitica », un livello fecondo e importante, ma che non trova spazio nella comunicazione scientifica. Insieme alla teoria generale è retrocessa a quel livello anche l'ideologia. Questo mutamento si riflette - questa è la quarta e ultima considerazione anche nel linguaggio usato dagli economisti, che si è fatto sempre più asettico e specialistico. Probabilmente ciò comporta un vantaggio e uno svantaggio per il progresso della disciplina: da un lato, si facilita la comunicazione del risultato scientifico, in una forma depurata dalle incrostazioni ideologiche e che perciò può essere più agevolmente sottoposta al vaglio della comunità scientifica; dall'altro, per l'avanzare degli specialismi, il numero di coloro che sono effettivamente in grado di valutare un singolo risultato si riduce drasticamente. La ricerca del rigore e della generalità è stata e resta una molla fondamentale nel procedere della ricerca scientifica. Ma se un tale atteggiamento viene spinto troppo avanti, vi è il rischio che, per questa via, non si ottenga maggiore informazione, ma solo maggiore complicazione. Si tratta forse già di qualcosa di più che un rischio, a leggere molti lavori che vengono pubblicati nelle riviste specializzate. Per fortuna, vi è anche una tendenza che va nella direzione opposta. Probabilmente per gli stessi motivi, si viene affermando tra gli economisti la consapevolezza che la qualità di una teoria o di un risultato non si misura tanto sulla sua generalità, quanto sulla sua capacità di spiegare un fenomeno, di chiarire i termini di un problema, di indicarne la soluzione, senza che la strada percorsa a questo scopo debba per forza essere l'unica strada percorribile. I fisici si sono abituati da tempo alla coesistenza di rappresentazioni incompatibili dello stesso fenomeno (e non litigano più sulla natura dell'elettrone - se sia un'onda o una particella). Con il tramonto delle ideologie, un analogo atteggiamento pluralistico si va facendo strada anche tra gli economisti. Essi si stanno abituando a ragionare in termini di modelli parziali e (parzialmente) incompatibili, nella fiducia che ciascuno di quei modelli possa contribuire a mettere a fuoco aspetti importanti della realtà in cui viviamo.
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MACORINI
PREMESSA
Il progredire delle civiltà mira ad ampliare e innovare, con invenzioni geniali, la diffusione delle conoscenze. Una cinquantina di secoli fa alla cultura orale delle protostorie si affianca la scrittura: i messaggi umani diventano duraturi nel tempo e nello spazio. Cinquecento anni or sono l'invenzione della stampa rappresenta la massima innovazione tecnologica per lo sviluppo della cultura. Un secolo fa, con le telecomunicazioni, i messaggi cominciano a diffondersi istantaneamente al di là degli orizzonti e attraverso i continenti. Cinquant'anni or sono, grazie alla televisione, è l'irruzione di casa in casa delle immagini dal mondo. Nel prossimo decennio ogni personal computer collegato alle reti internazionali a larga banda consentirà di corrispondere e scambiare dati e parole, immagini e suoni, informazioni, conoscenza e beni. Ciascuna tecnologia che in passato ha ampliato i vincoli naturali della comunicazione umana ha comportato anche mutazioni profonde nelle strutture del pensiero. È lecito interrogarsi su quali saranno le trasformazioni che produrrà la prima rivoluzione culturale mondiale, che ora è incominciata. II
· LA
COMUNICAZIONE
ORALE
La comunicazione orale, che ha accompagnato la nascita dell'agricoltura e dell' allevamento, dei primi agglomerati urbani, del primo artigianato e delle prime esplorazioni, impone che le conoscenze, una volta acquisite, siano trasmesse in modo ripetitivo, senza varianti, per evitare che siano distorte o perdute; quindi modelli di pensiero fissi, scanditi in formule, sono indispensabili per la salvaguardia del sapere. Ciò vale per il rapsodo, che canta materiale poetico preesistente, ma modulandolo con il proprio stile personale, come avviene oggi nel jazz, quando temi noti vengono proposti nelle variazioni di singoli virtuosi, o anche nella diversa interpretazione che attori diversi possono dare di uno stesso personaggio teatrale. Ma vale anche per l'artigiano, ceramista o metallurgista: ne sono prova casi come quello dell' analogia fra la scena di fucinatura in un bassorilievo egizio della tomba di Ti, faraone della v dinastia (circa 2500 a.C.) e la scena in una pittura tombale risalente
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Sistemi di comunicazione
alla XVIII dinastia (circa 1500 a.C.): esse ci mostrano come in Egitto nel corso di un millennio utensili e prodotti metallici rimasero quasi immutati e che sia l'ambiente sia gli attrezzi permangono durante mille anni con insignificanti modifiche. (Né si creda, peraltro, che nella nostra società di comunicazioni rapide il passaggio di un'innovazione tecnologica dalla ricerca di laboratorio alla sua adozione nella produzione industriale, fattore essenziale dello sviluppo, sia immediato. Per restare nel campo dei materiali: l'alluminio, la cui nascita ufficiale era avvenuta nel 1827 per opera del chimico tedesco Friedrich Wohler, è stato utilizzato su larga scala soltanto dopo la seconda guerra mondiale; la maggior parte dei polimeri è stata scoperta fra il 1930 e il 1950, ma l'industria delle plastiche ha cominciato a funzionare a pieno regime solamente negli anni sessanta; la prima purificazione del silicio avvenne alla fine degli anni quaranta, ma l'industria del silicio è decollata soltanto negli anni settanta. Oggi ci sono già nei laboratori materiali a memoria di forma, detti «intelligenti», macchine quasi invisibili prodotte dalla micromeccatronica; ma per un loro impiego industriale bisognerà aspettare il prossimo secolo.) Tuttavia Socrate, che vive all'incirca tre secoli dopo la diffusione dell'alfabeto greco e che non lascia testimonianza scritta, esalta il primato della parola e del dialogo contro la scrittura «disumana», perché, come gli fa dire Platone nel Fedro, la scrittura « non produrrà che l'oblio nelle anime di coloro che la conoscano, facendo disprezzare la memoria. Confidando in questo ausilio estraneo abbandoneranno a caratteri materiali la cura di conservare i ricordi, la cui traccia avrà perduto lo spirito ... ». Non vi è dubbio che la funzione esercitata dalla memoria in una cultura orale può essere molto diversa da quella esercitata in una cultura basata sulla tradizione scritta, ma è curioso notare come, nel corso delle epoche, ogni innovazione tecnologica atta a trasformare la cultura sarà accolta con analoga diffidenza: il libro ieri («Se la Provvidenza ha permesso all'uomo di inventare la polvere da sparo insieme alla stampa - scriveva un ministro di Luigi XVI - è solo per proporzionare il rimedio al male. »; e il prete di un sonetto di Gioacchino Belli: «I libbri n un so' robba da cristiani l Fiji, per carità, nun li leggete»), il computer oggi, che rischia di farci dimenticare, come in un celebre racconto di fantascienza, le quattro operazioni. Ma la comunicazione orale manterrà nel tempo il suo primato perché le testimonianze verbali possono essere contraddette, come affermava Socrate e come avviene negli interrogatori giudiziari, e godranno per secoli maggiore credibilità di quelle scritte. Ancora oggi diciamo «Ti do la mia parola», e il primato della parola afferma il suo valore assolutorio nella confessione cattolica e il suo valore terapeutico nella pratica psicanalitica. La diffusione del telefono e soprattutto della radio ha creato una nuova forma di cultura orale, che è stata definita« oralità secondaria» (Ong, 1982) e che ha molte somiglianze con quella antica. Essa suscita un forte senso comUnitario di appartenenza a un gruppo, una sorta di adesione partecipatoria, che è stata accortamente
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utilizzata a fini politici negli anni trenta, quando l'era della prima diffusione della radio coincide con l'era dei dittatori, delle adunate oceaniche, della suggestione oratoria ampliata a dismisura, che Charlie Chaplin ha interpretato con realismo grottesco nel film Il grande dittatore. Oggi gli squilli dei telefoni cellulari nelle situazioni e nei luoghi più inopportuni dimostrano che i cultori della oralità secondaria privilegiano la loro appartenenza al gruppo dei telecomunicatori mobili. III
·
LA
COMUNICAZIONE
SCRITTA
Con la scrittura quale nuovo mezzo di comunicazione, il senso della vista diviene preminente su quello dell'udito e l'alfabeto fonetico elaborato dai greci, che a differenza dell'alfabeto semitico, ebraico e arabo, introduce anche le vocali, risulta il sistema più adatto a dare al suono forma visiva e da qui probabilmente deriva la sua affermazione (Cohen, 1958; Cardona, 1986). Questa riduzione del suono a spazio consentirà alla scrittura di apparentarsi talvolta con la decorazione e la figurazione, dall'attività grafica dei monaci irlandesi, ove le pagine degli Evangeliari sembravano assumere i modi dell'oreficeria e gli smalti delle vetrate, fino al graffitismo di scritture improbabili, ma spesso non prive di suggestione, che troviamo sui muri di casa o nelle stazioni della metropolitana. L'aspetto figurativo della scrittura, evidente nelle calligrafie classiche araba e cinese, andrà perduto nelle due successive tecnologie di comunicazione scritta, la stampa e il computer, mentre permane una fusione dell'aspetto visivo con quello sonoro almeno in un'espressione letteraria: la poesia. Scrive il poeta e saggista messicano Octavio P az: «All'origine e per millenni la poesia è stata un'arte orale. L' apparire del libro ha segnato il grande mutamento: si cominciarono a leggere le poesie anziché ascoltarle. Ma la lettura di una poesia non è mai del tutto silenziosa: nel leggerla ne recitiamo mentalmente i versi. Nella nostra testa risuonano i metri e le rime, le assonanze e le allitterazioni, le frasi si uniscono e si sciolgono per unirsi di nuovo. Lettura ritmica e che chiamiamo silenziosa per analogia con la musica silente delle stelle che, con lo spirito, ascoltavano i pitagorici. Fusione di udito e di vista: ascoltiamo mentalmente le parole della poesia e, allo stesso tempo, vediamo la disposizione simmetrica delle strofe e il tracciato dei segni sulla carta. Grazie alla scrittura... la poesia è un'arte visiva che non smette di essere ritmo, suono. » (El pacto verba!). Al di là della poesia, l'uso della scrittura è funzione della sua utilità in una determinata società, quindi il messaggio scritto ha anzitutto valore ufficiale: religioso come i comandamenti incisi nella pietra, giuridico come le tavole di bronzo delle leggi, politico come gli editti dei principi, magico come le iscrizioni tombali che augurano ai defunti una vita al di là della morte. Ma a trenta secoli dalla prima diffusione della scrittura e alla vigilia del terzo millennio, in questo nostro pianeta
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Sistemi di comunicazione
abitato da quasi sei miliardi di persone vive un miliardo di analfabeti. Accanto a costoro, vi sono fasce di analfabetismo funzionale, cioè altri milioni di persone i cui livelli di conoscenza sono insufficienti per trovare una anche umile occupazione. Il divario più drammatico del nostro tempo, più ancora di quello tra chi ha e chi non ha, è il divario che divide chi sa da chi non sa: almeno leggere e scrivere. IV
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LA
COMUNICAZIONE
STAMPATA
Nella seconda metà del Quattrocento vengono scoperti due nuovi continenti: quello geografico, l'America di Cristoforo Colombo, e quello culturale, la stampa a caratteri mobili di Johann Gutenberg. In questo capitolo, che deve condurci rapidamente a esaminare i mezzi di comunicazione quali sono alla fine del xx secolo, è superfluo enumerare gli effetti della stampa. Le opere di Elizabeth Eisenstein (1979), di Marshall McLuhan (1962 e 1964) e quelle di Walter J. Ong (1967, 1971, 1982) illustrano ampiamente quanti e diversi essi siano stati: la diffusione della stampa ha consentito al Rinascimento italiano di diventare europeo; ha fornito supporto alla Riforma protestante e ha riorientato la pratica religiosa cattolica; ha influenzato lo sviluppo del capitalismo moderno, della vita familiare e di quella politica; ha favorito infine la nascita della scienza moderna e ha ampliato ogni forma di conoscenza. Conviene trattare qui soltanto qualche concetto che prelude agli sviluppi successivi. Nella stampa a caratteri mobili, i caratteri tipografici preesistono alle parole che andranno a formare: la «composizione» dei caratteri introduce la parola in un processo industriale e la fa diventare prodotto. La composizione tipografica è una prima catena di montaggio che, con vari passaggi prestabiliti, produce oggetti complessi e identici, i libri stampati. Alla fine del XVIII secolo la rivoluzione industriale applicherà ad altri tipi di manifatture quelle tecniche che gli stampatori usavano già da trecento anni (Ong, 1982). La stampa pone la parola nello spazio, lo spazio regolare delle interlinee e dei margini, a scandire «i bianchi», cioè le pause, esaltate dalla maestria tipografica di Gian Battista Bodoni, gli «atomi di silenzio» invocati da Stéphane Mallarmé, ma consente anche «parole in libertà» sparse sulla pagina per essere dette, recitate, cantate, urlate da ET. Marinetti e compagni futuristi e che tanta parte avrebbero avuto nella grafica pubblicitaria del Novecento. Così come la stampa a caratteri mobili ha dato vita a un nuovo prodotto a larga diffusione, il libro (quando la traduzione del Nuovo Testamento, curata da Lutero nel 1522, salì dalle 5000 copie della prima edizione alle wo.ooo della seconda il destino del libro come oggetto di largo consumo era già ben delineato); analogamente l'introduzione delle macchine da composizione e da stampa trasformò l'attività dello scrivere in un'industria. Monotype e linotype, rotative e processi fotografici di riproduzione delle imma430
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gioi consentirono l'introduzione sul mercato di prodotti di comunicazione di massa quali i quotidiani, i settimanali, i mensili, che fecero la loro comparsa accanto ai libri veri e propri man mano che il perfezionamento delle tecniche riduceva l'intervallo fra la preparazione dei testi e delle immagini e la presentazione del prodotto confezionato. Questa editoria ha avuto il suo periodo di splendore alla fine della seconda guerra mondiale e ha contribuito alla diffusione di informazioni e di idee, di cultura e di ideologie. Frattanto la comunicazione aveva trovato altri mezzi, nuove forme: i suoni erano entrati nei dischi, le immagini erano diventate cinematografia. Con la diffusione delle telecomunicazioni nella prima metà di questo secolo e quella dell'elettronica nella seconda metà il panorama dei mezzi di comunicazione cambia radicalmente. V
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LE
COMUNICAZIONI
A
DISTANZA
Alla svolta del secolo il telegrafo e il telefono già collegavano siti lontani: era stato posato il primo cavo sottomarino intercontinentale lungo 3500 chilometri fra l'Inghilterra e l'America (1866) e una linea di 1520 chilometri collegava New York a Chicago (1892), ma un grave vincolo era rappresentato dal costo delle comunicazioni a distanza, poiché la messa in opera degli impianti comportava l'installazione di cavi e relativi amplificatori di delicata manutenzione e sistemi di palificazione, spesso di malagevole posizionamento. Contemporaneamente a queste applicazioni pratiche si erano approfonditi gli studi di elettrodinamica, sulla base delle ricerche di J.C. Maxwell, in particolare per merito di R.H. Hertz, che nel 1886 riuscì a effettuare la trasmissione a distanza di «oscillazioni elettriche molto rapide » e che in suo onore sarebbero state chiamate onde hertziane. «Da tutti gli esperimenti menzionati - scrisse Hertz - si è avuta per la prima volta la prova della propagazione nel tempo di una presunta forza a distanza. Questo fatto rappresenta l'acquisizione filosofica procurata dagli esperimenti, che in un certo senso è la più importante. » Ma Hertz non aveva previsto, anzi aveva escluso, la possibilità di applicazioni pratiche della sua scoperta, cioè lo sviluppo della futura radiotecnica, che avrebbe avuto ben altra importanza per le comunicazioni fra gli uomini e fra i popoli. Chi riuscì a dimostrare, fra lo scetticismo della scienza ufficiale, che nella trasmissione senza fili si poteva superare la curvatura terrestre fu Guglielmo Marconi. Anche se le polemiche sulla priorità e l'originalità dell'invenzione della radiotelegrafia perdurano tutt'oggi, un'aureola di gloria accompagnò Marconi sia per le imprese più spettacolari, quali i servizi radiomarittimi transatlantici che consentirono, per esempio, il salvataggio di una parte dei passeggeri del « Titanic » (1912), sia per le intuizioni più innovative, quali i controlli a distanza per mezzo di trasmissioni radiotelegrafiche: la famosa accensione di una lampada in Australia con un comando dato a 2o.ooo chilometri di distanza. Da quel momento comunicazione e controllo diventarono una sola entità (Degli 431
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Sistemi di comunicazione
Antoni, 1996). Una tappa fondamentale nella comunicazione era raggiunta: correnti deboli trasportate a grandi distanze da onde elettromagnetiche riuscivano a comandare le cosiddette correnti forti, quelle che permettono di illuminare gli edifici e di far funzionare i motori elettrici. In breve le telecomunicazioni da telegrafiche divennero telefoniche. La telescrivente, diffusa nel periodo fra gli anni venti e gli anni trenta, parallelamente alla diffusione della telefonia automatica e della teleselezione, soppiantò il sistema telegrafico. Con la telefotografia le immagini furono trasformate in impulsi elettrici trasmissibili a grande distanza e ritrasformate in segnali visibili. Di più recente introduzione, il facsimile, ovvero facs (ma sarebbe più appropriato definirlo telefotocopia), ha modificato consuetudini di lavoro sia per la facilità di trasmettere, oltre ai testi, schemi, figure e formule complicate, sia nei rapporti con l'estero, perché i messaggi scritti possono ignorare, a differenza della telefonia, i fusi orari, sia perché è più facile interpretare un testo in lingua straniera piuttosto che conversare direttamente. Oggi vi sono più di 6oo milioni di telefoni in tutto il mondo, ma si stima che i due terzi della popolazione mondiale non abbia accesso a servizi telefonici: la sola città di Tokio ha più apparecchi telefonici dell'intero continente africano. La diffusione di telefoni cellulari potrebbe consentire ad abitanti di vaste zone oggi isolate di entrare in contatto con il resto del mondo, ma le ragioni degli interessi economici rendono improbabile l'attuazione rapida di questa prospettiva. VI
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TRE
NEOLOGISMI
DEGLI
ANNI
CINQUANTA
Era da poco finita la seconda guerra mondiale quando tre neologismi si sparsero dagli Stati Uniti nel mondo, computer, cibernetica, automazione, a indicare campi innovativi distinti, ma partecipi di uno stesso contesto e di un unico processo logico. Accanto a questi un altro nuovo termine, informatica, nacque in Francia, non solo per il prestigio della francophonie, ma perché catturava concettualmente aspetti diversi connessi con lo sviluppo degli elaboratori elettronici. Caratteristica prima del computer, a differenza di tutte le altre macchine, dall' aratro al rasoio elettrico, ideate e costruite per eseguire compiti specifici, è quella di essere una macchina «aperta», il cui ambito applicativo può essere definito di volta in volta attraverso i programmi. Seconda vantaggiosa caratteristica del computer è di consentire lo svolgimento di uno stesso compito con macchine che, di generazione in generazione, sono diventate sempre più piccole e meno costose: dalle 19.000 valvole termoioniche e le 13 tonnellate di peso del primo calcolatore elettronico, l'ENIAC del 1946, ai microprocessori introdotti negli anni settanta, che hanno promosso l'avvento del personal computer. Il fenomeno, detto downsizing, è tuttora in corso: l'industria leader dei microprocessori, l'americana Intel Corporation, produceva alla metà degli anni novanta il microprocessore Pentium, che inglobava 3,3 milioni di transistor, e annun432
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Sistemi di comunicazione
ciava la generazione successiva, Pentium Pro, con 5,5 milioni di transistor. Un altro aspetto fondamentale che contraddistingue il computer è il fatto che esso non opera sulla materia, bensì su quella entità impalpabile che è l'informazione e si rivolge quindi alla sfera intellettiva, sia sostituendosi alla persona umana in compiti di routine, sia affiancandola per migliorarne le prestazioni. li primo luogo ove nasce la necessità di razionalizzare le comunicazioni e i controlli per diminuire i costi e adeguare a mano a mano i prodotti alle richieste del mercato è la fabbrica. Agli inizi del secolo F. Taylor (r856-r9r2) era stato il banditore di quegli enunciati, la cui traduzione concreta fu la catena di montaggio. La fabbrica completamente automatica invece resta il sogno non ancora realizzato. La stessa progettazione e fabbricazione dei computer, nel duplice aspetto di macchine (hardware) e di programmi (software), muta la propria natura man mano che l'automazione si impone nella produzione industriale e si estende alle attività intellettuali di comunicazione e controllo aziendale. Da poche imprese costruttrici negli anni settanta - in testa l'IBM - si passa negli anni novanta a decine di migliaia di imprese di tutte le dimensioni. Grazie alla microelettronica si calcola che il costo dell'elaborazione dei dati si riduca di un fattore medio di circa dieci ogni cinque anni, ovvero cento ogni dieci anni, mille in quindici anni. N asce in un garage il primo personal computer, grazie a Steve Job, mitico fondatore della Apple. VII
·
LA
COMUNICAZIONE
INFORMATICA
Elencare campi di applicazione della comunicazione informatica basata sull'impiego del computer sarebbe fatica vana, poiché essa pervade ormai i settori e i prodotti più disparati. Conviene invece distinguere le due principali tecnologie di impiego, cui si è già accennato. La prima è l'informatica di organizzazione, che riguarda essenzialmente le applicazioni amministrative e gestionali, e che perciò può essere rivolta tanto alla gestione di una produzione industriale quanto al funzionamento di una struttura ospedaliera: scopo comune è sostituire il lavoro umano con quello del computer e fare lo stesso lavoro con meno persone o, con le stesse persone, fare più lavoro. La seconda è l'informatica individuale, per assistere chi svolge attività specialistica e ha compiti difficilmente procedurizzabili. Nel caso della fabbrica potrà trattarsi, per esempio, di supporti all'attività di progettazione, designata con gli acronimi CAD (Computer Aided Design) e CAE (Computer Aided Engineering). Nel caso dell'ospedale si tratterà di supporti all'attività diagnostica del medico, per esempio l'analisi automatica di tracciati e radiografie, o anche alla terapia con il monito raggio e l'automazione di trattamenti che richiedono particolari cautele. Un campo di comunicazione informatica che assume importanza sempre maggiore è l'impiego del computer come «macchina per insegnare». Anche in questo campo molte sono le possibilità di impiego. Il computer può essere uno strumento eccellente per gestire corsi di autoistruzione, strutturati in una varietà di percorsi 433
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Sistemi di comunicazione
alternativi che tengano conto delle diverse capacità degli allievi; può essere strumento ausiliario nell'insegnamento tradizionale per far compiere agli allievi esercitazioni guidate, come awiene in certi metodi di insegnamento delle lingue; può essere impiegato per simulare ambienti reali, ma non disponibili a fini didattici per motivi di costo o di tempo o di pericolosità. L'addestramento professionale può essere eccellente obiettivo della simulazione: di una cabina di pilotaggio, di un impianto industriale, di mutazioni biologiche o trasformazioni ambientali che nella realtà si svolgono in tempi lunghi e che la simulazione invece può contrarre. Infine il computer nella didattica può essere usato per valutare il livello di apprendimento tramite test individuali proposti agli allievi, per l'analisi dei risultati ottenuti e suggerimenti per eventuali azioni di recupero. L'impiego del computer nella scuola per l'insegnamento, nelle aziende per l'addestramento e l'aggiornamento, dovunque per la pratica professionale, pone il problema dell'alfabetizzazione informatica, che ha aspetti sia culturali sia sociali. Alla metà degli anni ottanta nelle scuole americane esisteva un computer ogni I25 allievi, alla metà degli anni novanta uno ogni 12. Nell'ambito privato, alla metà degli anni novanta possiede un computer domestico il 43% delle famiglie bianche, ma solo il 16% delle famiglie dei neri e il 15% di quelle ispaniche; nelle famiglie con reddito annuo inferiore ai 2o.ooo dollari soltanto il 15% possiede un computer, ma ben il 74% di quelle al di sopra di 75.000 dollari di reddito annuo. VIII
·
LA
COMUNICAZIONE
TELEMATICA
Agli inizi il computer era una macchina isolata, utilizzabile solo nel luogo dove era installata. Ma, come si è visto, con il crescere della potenza di elaborazione sono rapidamente diminuiti i costi, e di conseguenza sono state introdotte soluzioni centralizzate. Verso la metà degli anni sessanta, gli utenti potevano accedere da lontano mediante terminali remoti collegati per via telefonica a un'unica grande macchina posta al baricentro dell'organizzazione (main/rame). Negli anni settanta la diffusione del minielaboratore consentì di superare la rigidità del servizio centralizzato acquisendo una propria capacità di elaborazione; ma per accedere ai dati forniti dagli altri elaboratori era necessario il collegamento fra i diversi poli di elaborazione, mainframe e mini. Nacquero così i sistemi distribuiti e con essi la telematica, neologismo ottenuto dalla sintesi di telecomunicazioni e informatica. La diffusione, agli inizi degli anni ottanta, del personal computer consente di raggiungere nuovi livelli di elaborazione, utilizzando sia le capacità locali, cioè il proprio personal, sia quelli esistenti nella rete cui esso è collegato. Nascono le banche dati consultabili in linea. Con l'inizio del decennio successivo, anni novanta, l'informazione si arricchisce di nuove dimensioni: i suoni e le immagini. Nasce la multimedialità e quindi non solo la necessità di un forte aumento della potenza dei computer, ma anche di una nuova tecnologia che trasporti l'informazione, quella 434
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Sistemi di comunicazione
delle reti digitali integrate (ISDN, Integrated Services Digita! Network). Conviene forse ricordare che il telefono, la radio e la televisione sono nati e si sono sviluppati su basi analogiche, che corrispondono cioè alla natura continua dei fenomeni sonori e visivi che noi percepiamo. Il computer è invece intrinsecamente digitale, ossia opera su valori discreti, il cui « quantum » è il bit. Nella comunicazione telematica tutti i processi di trattamento dell'informazione sono digitalizzati e tutti i segnali che viaggiano sulle linee sono digitali: ciò comporta sia grandi potenze di elaborazione sia reti ad alta capacità di trasmissione. Per esempio, per memorizzare una normale pagina di testo di 2000 battute occorrono 16.ooo bit. Per un secondo di parlato di buona qualità occorrono, in forma digitale, 64.000 bit. Per un secondo di alta fedeltà in stereofonia sono necessari 1,4 milioni di bit. Per registrare un'immagine a un livello medio di definizione occorrono dai 5 ai IO milioni di bit. Se si passa poi alla televisione ad alta definizione, HDTV, bisognerà arrivare a wo milioni di bit al secondo (Occhini, 1996). Oggi la telematica sta penetrando settori diversi e apparentemente lontani, dall'editoria (il libro elettronico, il giornale elettronico) all'entertainment economy che sta rimodellando, specialmente negli Stati Uniti, vasti campi d'investimento per attività d'impiego del tempo libero. Perciò lo sviluppo della telematica sta modificando non solo le nostre consuetudini di accesso alle informazioni, crescenti in misura esponenziale, ma muterà anche molti aspetti della nostra vita quotidiana migliorando opportunità esistenti e offrendone altre completamente nuove. Vi sono già oggi servizi informativi telematici che si rivolgono a tutto il pubblico. Teletext, noto in Italia come Televideo, è un servizio unidirezionale che consente di richiamare sullo schermo televisivo un certo numero di informazioni, dalle quotazioni borsistiche alle previsioni meteorologiche, agli orari dei treni e degli aerei. Videotex, noto in Italia come Videotel, è un servizio bidirezionale e si avvale, per la comunicazione nei due sensi, del collegamento telefonico; lo stesso servizio con il nome di Minitel si è diffuso in Francia negli anni ottanta in milioni di esemplari offrendo servizi di ogni tipo, in particolare per vendere e acquistare a distanza. Servizi di teleshopping e telemarketing sono ormai abituali su tutte le reti televisive. Vi sono servizi informativi telematici dedicati a professionalità specifiche. Per il sistema giuridico, per esempio, il servizio informatico della Corte di Cassazione italiana contiene più di trenta archivi, dove si può reperire tutta la legislazione nazionale completa dall'Unità d'Italia, tutta la legislazione delle Regioni, la giurisprudenza dei tribunali più importanti e la dottrina con le opinioni dei giureconsulti. Analoghe banche dati esistono per la ricerca scientifica, per quella medica, per quella ambientale e altre ancora. Un altro aspetto che può modificare positivamente la vita quotidiana è il contributo della telematica all'evoluzione dei rapporti fra il cittadino e la pubblica amministrazione: l'obiettivo è far sì che il cittadino possa rivolgersi per qualsiasi sua esigenza di informazioni o certificazioni a un unico sportello telematica self service, 435
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analogo a uno sportello Bancomat, che gli eviti di peregrinare da un ufficio all'altro grazie all'interconnessione dei vari sistemi informativi e delle varie banche dati cui il terminale è collegato. C'è però il timore che le strutture burocratiche non siano propense a favorire la propria almeno parziale autoeliminazione. Il settore in cui le tecnologie telematiche hanno avuto più diffusa applicazione è quello finanziario. Banca e computer si integrano agevolmente per dar luogo alla banca telematica poiché il danaro stesso è informazione, indipendentemente dai suoi supporti tradizionali: ne è esempio la diffusissima carta di credito (meglio se smart card, con miniprocessore incorporato per evitare le contraffazioni). Oggi ci stiamo avviando verso una società senza contante, dove gli scambi di danaro avvengono con messaggi istantanei: POSTEL (posta elettronica), EFT (Electronic Fund Trans/ert), ED! (Electronic Document Interchange). Questi sviluppi si addicono particolarmente al mondo della finanza, che possiede le stesse caratteristiche immateriali, simultanee, planetarie delle nuove tecnologie. La globalizzazone degli scambi dovrebbe favorire, secondo Bill Gates (1995) un «capitalismo senza attriti»; invece secondo il segretario generale delle Nazioni Unite, Butros Ghali, «il reale potere mondiale sfugge per gran parte agli Stati e la globalizzazione implica l'emergenza di nuovi poteri che trascendono le strutture statali: il potere dei mercati finanziari e il potere delle reti di comunicazione» (La Baume e Bertolus, 1995). IX ·
L'ISTRUZIONE
A
DISTANZA
L'impiego della telematica ha importanza strategica globale per l'insegnamento e per l'addestramento, considerate alcune caratteristiche peculiari della nostra epoca. Anzitutto l'aumento della popolazione giovane a causa dello sviluppo demografico, in particolare nei paesi emergenti. In secondo luogo la necessità dell'aggiornamento continuo delle competenze in ogni campo produttivo, sia che si tratti di professioni sia di mestieri. Ne deriva la necessità di «imparare a imparare», come tecnica specifica di autopromozione: l'acquisizione del sapere consolidato non basta più. Questa necessità, che dovrà durare per tutta la vita attiva dell'individuo, richiede la disponibilità di un gran numero di docenti e formatori qualificati, che saranno sempre in numero limitato, e di materiale didattico adeguato, cioè costoso. Da ciò deriva l'opportunità di creare sistemi aperti di istruzione a distanza, di cui è autorevole prototipo la Open University inglese, che opera con successo da più di un quarto di secolo. Sistema aperto a distanza è un sistema che consente di imparare anche lontano dai centri di insegnamento; di scegliere tempi e periodi di studio adattati alle proprie attività abituali e non vincolati da quelle dei docenti; di adeguare alle proprie capacità e attitudini individuali il ritmo di apprendimento. Gli strumenti dei sistemi aperti di istruzione a distanza sono: le trasmissioni radiofoniche e televisive che possono anche essere distribuite in audio e video cassette; reti di personal computer
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che consentano agli studenti di dialogare sia con i docenti sia fra loro; testi a stampa scanditi in unità di apprendimento e contenenti esercizi di autovalutazione; strumenti per esercitazioni pratiche (kits) da svolgere singolarmente o in gruppo. Nei paesi dell'Unione Europea la necessità di sviluppare una dimensione multimediale dell'istruzione e della formazione con l'impiego di tecnologie didattiche innovative viene asserita già nel Trattato di Maastricht, che incoraggia specificamente lo sviluppo dell'istruzione a distanza (articolo 126) e stimola la formulazione di programmi operativi. L'esperienza della Open University viene infatti ripresa e ampliata dal European Open University Network (EOUN), avviato alla fine del 1994 con il concorso di 17 istituzioni appartenenti all'Associazione europea per l'insegnamento a distanza e che si sviluppa entro tre direttive principali: le ricerche sui metodi didattici, le ricerche sulle reti telematiche, la formulazione di programmi di base per gli studenti e di programmi di insegnamento per i nuovi insegnanti multimediali (train the trainer). Mentre nel suo discorso programmatico sullo Stato dell'Unione del gennaio 1996 il Presidente Clinton annunciava che entro il 2000 ogni scuola del paese sarà collegata a una banca dati, l'Unione Europea cercava di rimontare i propri ritardi nel campo dell'istruzione, della formazione professionale di base e della formazione permanente proclamando il 1966 European Year o/ Li/eLong Learning e pubblicando un Libro Bianco sull'istruzione e la formazione intitolato Teaching and learning: toward the knowledge-based society. Vi si indagavano le ragioni molteplici dell'inadeguatezza dell'istruzione scientifica e tecnica in Europa: all'insegnamento delle tecnologie non è dedicata l'attenzione necessaria perché le discipline tecnologiche non sono considerate «accademiche»; manca lo stimolo alla ricerca personale, alla sperimentazione, alla scoperta; mancano i collegamenti fra scuola, industria e mercato; risulta difficile fornire corsi di insegnamento per i nuovi campi interdisciplinari di ricerca, spesso i più promettenti per le vocazioni giovanili. Infine vi sono troppi ostacoli, nel nostro mercato comune, alla mobilità delle persone e al trasferimento delle idee ed è questo un paradosso dell'Europa: beni, capitali e servizi possono muoversi più agevolmente delle persone e del loro know-how. X
· LA
MULTIMEDIALITÀ
INTERATTIVA
Se negli anni ottanta il panorama dell'industria informatica è stato dominato dalla diffusione del personal computer, negli anni novanta si registra un fenomeno analogo per i sistemi multimediali. n concetto di multimedialità interattiva si basa sulla possibilità di accedere, attraverso l'elaboratore elettronico, a una varietà di media - testi, grafica, animazione, audio - utilizzando programmi che consentano un dialogo sia fra interlocutori diversi sia con l'elaboratore. La multimedialità interattiva è dunque uno stadio intermedio fra i sistemi informatici tradizionali e i sistemi di realtà virtuale che 437
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Sistemi di comunicazione
si stanno affacciando sul mercato. Attraverso la multimedialità (ove il prefisso« multi» sta a indicare la tendenza a un utilizzo coordinato di tutti i sensi di percezione della persona, vista, udito, tatto e, sperimentalmente, olfatto) l'operatore diviene autore, capace di creare situazioni, scoprire punti di vista diversi e nuovi collegamenti fra i concetti e fra gli oggetti. Nell'esperienza multimediale si modificano non solo le entità trattate ma, al di là di fatti e informazioni, si plasmano comprensione, conoscenza e perfino sentimenti (Maiali, 1996). Lo sviluppo delle tecnologie laser ha permesso di realizzare dispositivi atti a memorizzare dati video e audio in maniera compatta ed efficiente. Agli inizi degli anni ottanta era stato introdotto sul mercato il CD-DA (Compact Disc-Digita! Audio), divenuto lo standard e che può memorizzare fino a 72 minuti di audio digitale di alta qualità. Poi è apparso il CD-ROM (CD-Read Only Memory), che può memorizzare fino a 6oo MByte di testo (l'equivalente di 25.000 pagine dattiloscritte) o 7000 immagini fisse, ovvero da 6 a 72 minuti di immagini in movimento, a seconda dello schema di compressione utilizzato. L'enciclopedia Encarta prodotta da Microsoft è disponibile su un singolo CD-ROM del peso di circa 30 grammi, comprende 26.ooo argomenti con 9 milioni di parole di testo, 8 ore di audio, 7000 fotografie e disegni, 8oo carte geografiche, 250 tabelle e grafici interattivi e 100 spezzoni di animazione e video; costa meno di 100 dollari. Alla fine degli anni ottanta appare il CD-I (cD-Interactive), che richiede meno spazio per la memorizzazione, è di facile utilizzo ed è ormai venduto come bene di consumo. Dal 1990 sono disponibili sul mercato apparecchiature CD-ROM wo (CD-ROM Write Once), che consentono di incidere su dischi compatibili con gli standard CDROM informazioni multimediali senza ricorrere a centri di produzione esterni. Si realizza così la confluenza fra tecnologie multimediali e tecnologie della comunicazione: l'utente può memorizzare le proprie immagini video e inviarle ad altre persone collegate al suo sistema; può dialogare con un suo interlocutore in una sede lontana vedendo sullo schermo del computer la sua immagine; può fare operazioni di editing su testi condivisi, per esempio dati aziendali o progetti di campagne pubblicitarie. La nascita del cosiddetto Set Top Box, ovvero di un elemento da associare ai televisori per leggere dischi ottici su cui sono registrati programmi multimediali interattivi, potrà portare la multimedialità interattiva ai livelli del mercato di massa. I Set Top Box sono personal computer destinati a favorire l'interazione con il loro utente attraverso lo schermo del televisore e una opportuna tastiera. La visione avverrà attraverso un monitor, di resa superiore a quella del normale schermo televisivo. In quanto computer, il Set Top Box si potrà connettere con le grandi reti. Se ciò avverrà a prezzi d'acquisto accessibili, ne potrebbe seguire una dinamica imprevedibile nel mondo della televisione: la «TV dei 500 canali» diverrebbe superflua e l'industria dei computer avrebbe definitivamente la meglio sull'industria dei televisori.
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Sistemi di comunicazione XI
·
L'EMERGENZA
DELLA
VIRTUALITÀ
Tutte le tecnologie fin qui citate sono state assemblate per dar vita alla Realtà Virtuale (Rv), che muove negli anni novanta i primi passi. La RV è un insieme di tecniche di creazione e fruizione di modelli computabili, mediante le quali è possibile generare realtà «immateriali» percepibili sensorialmente a livelli diversi di realismo e che quindi danno l'illusione di esistere effettivamente (Gardin, 1996). Conviene però distinguere fra il virtuale e l'artificiale: dove il primo mira a creare pezzi di realtà esistenti, il secondo crea realtà che non hanno alcuna attinenza con il reale, come è avvenuto nell'arte fantastica medioevale o, per i moderni, nei pittori dell'immaginario, da Piranesi a Goya, dai Simbolisti ai Surrealisti (si veda a questo proposito l'esemplare studio di G. Briganti, 1977). Gli architetti sono stati cultori dell'arte del virtuale pre-informatico (si pensi al palcoscenico palladiano del Teatro Olimpico di Vicenza, dove il sapiente uso della prospettiva crea l'illusione della profondità) e la cinematografia è per ora l'esempio più significativo e tecnicamente riuscito nella costruzione sia del virtuale sia dell'artificiale. Se concentriamo l'attenzione su uno solo dei nostri sensi, l'udito, anche il telefono costituisce una realtà virtuale, un universo buio in cui molte persone, distanti anche migliaia di chilometri, possono interagire con le loro voci. Se ci concentriamo soltanto sulla vista, il computer impiegato come word processar, collegato entro una rete telematica, crea un universo visivo in cui le persone possono interagire scambiando messaggi in tempo reale attraverso la posta elettronica. Nella grafica per il supporto alla progettazione avviene un'immersione più profonda: poter entrare in un edificio virtuale corrispondente a quello che sarà un futuro edificio reale, percorrere strade che potrebbero essere costruite, sono opportunità per cui l'architettura e l'urbanistica costituiscono larghi settori applicativi per le tecnologie della realtà virtuale. Attualmente però la maggior parte delle realizzazioni virtuali sono prototipi o comunque macchine a utilizzo sperimentale. Uno dei pochi settori per i quali esistono applicazioni già industriali della realtà virtuale è l'attività sportiva. Ne è buon esempio il golf, ove un giocatore colpisce con una mazza reale una pallina reale e su uno schermo la vista del campo consente di controllare la traiettoria del colpo e la posizione di caduta della pallina. L'intrattenimento, a cominciare dai videogiochi, è un altro campo di promettente sviluppo della realtà virtuale e le opportunità d'impiego diverrano ben più vaste quando la disponibilità di reti telematiche a basso costo e larga banda renderanno possibili giochi partecipativi in ambienti condivisi in cui ciascuno dei partecipanti al gioco potrà stare a casa propria. La grande sfida della realtà virtuale è però la simulazione dell'uomo. Oltre agli aspetti esteriori umani, i movimenti, gli atteggiamenti, i comportamenti e la mimica, vengono simulate l'anatomia e la fisiologia del corpo umano, al fine di realizzare protesi elettroniche o informatiche, di supplire a incapacità fisiche, di fornire pos439
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Sistemi di comunicazione
sibiltà di lettura ai ciechi o di scrittura a persone con gravi limitazioni motorie. Azioni cinematografiche e televisive non solo possono svolgersi in ambienti completamente virtuali, ma persino consentire incontri fra attori reali e personaggi virtuali. Tuttavia alla realtà virtuale si addice l'immaterialità, la possibilità di rappresentare nel video di un computer qualsiasi cosa possa essere conosciuta o immaginata da mente umana: atomi, molecole, cellule, virus, organi, individui, uffici, organizzazioni, collettività. Si formano città virtuali, cioè modelli di città che con entusiasmo anticipatorio Giovanni Degli Antoni illustra così: «I giocatori partecipano alla costruzione di quelle città, viaggiano virtualmente nel loro interno (nel caso di realtà virtuale di tipo immersivo potranno visitare i luoghi e. non solo osservarne una descrizione testuale). In quelle città si formano gerarchie, interessi, organizzazioni; si diffonde cultura, si discute fra persone di lingue differenti, si vende, si impara a creare pubblicità, si costruiscono delle leadership. La timidezza non ferma nessuno in quelle città: persino l'eros vi ha fatto la sua comparsa. Lentamente (già ci sono i primi sintomi) quelle città usciranno dalla nozione di gioco per entrare nella realtà produttiva. Diventeranno dei modelli di città, visitabili da chi è in rete, criticabili, discutibili e che potranno far riferimento a dati reali di inquinamento, di carico umano, di consumo energetico, di aspetti politici ... Un'economia virtuale non potrà non comparire. Il rapporto fra quella economia e l'economia reale, fra il gioco e l'istruzione, fra la scuola e il divertimento, fra la produzione non inquinante all'interno delle realtà virtuali e la produzione inquinante al di fuori di esse diventeranno inevitabilmente elementi di valutazione. La progettazione di città reali verrà effettuata e sperimentata da tutti i cittadini prima di passare a una costruzione concreta. I cittadini potranno, per una parte delle loro attività, vivere in entità virtuali prima che queste siano fisicamente esistenti. Se la buona volontà prevarrà e se lo spontaneismo creativo non sarà sostituito troppo presto da regole che intendono solo ricordare chi ha il potere, allora quelle realtà virtuali diventeranno la base per un'evoluzione sociale drammaticamente importante. Certamente, compariranno conflitti sia fra le organizzazioni virtuali sia al loro stesso interno ... ma nel frattempo la cultura del passato avrà resistito e si sarà integrata con la cultura del futuro. » (Degli Antoni, 1996). XII
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L'AFFERMAZIONE
DELLE
RETI
Se caratteristica comune a tutti i mass media è la comunicazione « da uno a molti», sia che si tratti di messaggi statici, come i manifesti stradali e i giornali, sia di messaggi dinamici, come quelli della radio e della televisione, le reti invece consentono la trasmissione della comunicazione, quale essa sia, «da molti a molti». La rete più nota, Internet, che fino a pochi anni or sono era una sorta di club per superesperti di informatica, è diventata nella seconda metà degli anni novanta 440
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Sistemi di comunicazione
uno strumento facilmente accessibile per lo studio e il lavoro, l'intrattenimento e il commercio. Internet era nata per garantire sicurezza alle comunicazioni militari statunitensi nel periodo della guerra fredda e nella prospettiva di un possibile conflitto nucleare. Ai primi collegamenti entro un piccolo gruppo di laboratori militari si aggregarono centri universitari via via più numerosi e alla fine degli anni ottanta esistevano alcune migliaia di reti minori che usavano il protocollo Internet. Dai collegamenti fra quelle reti nasce l'Internet attuale, che conta circa 5o.ooo reti diverse sparse per il mondo e tutte collegate fra loro. Uno dei progressi più importanti di Internet è stato World Wide Web, nota anche come www ovvero semplicemente « Web », la ragnatela digitale elaborata al CERN (Centro Europeo di Ricerca Nucleare) di Ginevra, composta da documenti in cui testo, immagini, suono e video sono organizzati in pagine alle quali è possibile accedere. Il programma di lettura più famoso è Mosaic. Mosaic è un programma sviluppato dall'Università dell'Illinois, è di dominio pubblico ed è gratuito e ha contribuito a dimostrare come Internet possa essere utilizzato anche da un pubblico di massa e non solo da utenti specializzati. Alla metà degli anni novanta si calcola che la popolazione mondiale di utilizzatori di Internet sia di 50 milioni di utenti collegati attraverso oltre 4 milioni di computer. Si prevede che alla fine del secolo essa potrà raggiungere i 500 milioni di utenti. XIII
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LE
MINACCE
NELLE
RETI
Lo sviluppo delle reti ha creato problemi sociali di vario tipo, in particolare di carattere giuridico, primo fra tutti il problema della sicurezza contro i crimini informatici. Tralasciando qui il sabotaggio alle apparecchiature e lo spionaggio a fini mili~ tari, politici o finanziari, si possono ricordare i frequenti attacchi ai dati con l'inserimento di programmi fraudolenti nel sistema informatico, dei quali il più noto è il virus del calcolatore. Un virus è un programma in grado di «infettare» altri programmi, modificandoli in modo che includano una copia di se stesso; ogni programma infetto agisce, a sua volta, come un virus e in questo modo il virus informatico si diffonde all'interno di un sistema o di una rete di elaboratori. Altrettanto nota è l'azione dei pirati informatici, solitamente studenti che riescono ad accedere a sistemi protetti mettendo in atto una sfida tecnologica fra le proprie capacità personali e il sistema di sicurezza da aggirare. A questi attacchi illegali corrispondono procedure per assicurare integrità fisica, integrità logica e segretezza alle informazioni. Molto meno protetta nell'esplosivo sviluppo delle comunicazioni multimediali risulta invece la proprietà intellettuale nei successivi passaggi dall'opera originale dell' autore ai diritti dell'editore di pubblicarla o riprodurla, al suo trasferimento in opera cinematografica o televisiva compiuto da sceneggiatori e registi, alla sua distri441
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Sistemi di comunicazione
buzione in videocassette o videodischi, alla sua disponibilità in banche dati accessibili entro reti telematiche, che sono per loro natura internazionali, mentre la legislazione in questo campo è ancora per larga parte nazionale. In nome di un'assoluta libertà di comunicazione le reti possono ignorare gli interventi di censura legale. Alla morte di François Mitterand, per esempio, fu vietata la vendita di un libro scritto dal medico personale del presidente francese in cui si rivelava che questi aveva tenuto nascosta la sua malattia per ben quindici anni, perché l'autore avrebbe violato il segreto professionale. Ciò non impedì però che il testo divenisse immediatamente disponibile su Internet. In nome della stessa libertà, sulle reti si possono veicolare messaggi di adescamento di minori, istruzioni per la fabbricazione di materiale terroristico, appelli che incitano all'odio razziale. XIV · VERSO
LE
RETI
GLOBALI
All'inizio degli anni novanta grande impulso allo sviluppo delle reti aveva dato il programma elettorale dell'allora Governatore dell'Arkansas Bill Clinton, che nel 1992 aveva firmato il documento intitolato Technology: the Engine o/ Economie Growth. In esso veniva fra l'altro proposta la creazione di una rete nazionale di comunicazione multimediale (National In/ormation In/rastructure, Nn) capace di grandi quantità di flussi di dati scritti e sonori, di grafica e video fra le università, le imprese, i centri di ricerca industriale, i centri sanitari e infine semplicemente fra i cittadini; molto di più quindi dell'Internet che conosciamo oggi. La rete NII rappresenta l'avvio dell'avveniristico scenario delle Autostrade Elettroniche, che dovrebbero costituire uno stimolo per l'economia statunitense, così come era stata in epoca roosveltiana la costruzione delle autostrade interstatali. Impresa gigantesca, se si considera che persino Bill Gates, il già citato grande tycoon di Microsoft, che pure dichiara un ottimismo di fondo a ogni pagina del suo libro The road ahead, osserva: « La cifra necessaria per la connessione, in un'abitazione degli Stati Uniti, di un'applicazione informatica (come una TV o un PC) con l'autostrada è oggi stimata intorno ai 1200 dollari, duecento in più o in meno a seconda dell'architettura e dei dispositivi scelti. Questa somma comprende la spesa necessaria per far arrivare le fibre in ogni quartiere, i server, i commutatori e l'elettronica domestica. Considerando all'incirca cento milioni di abitazioni negli Stati Uniti, questo corrisponde a un investimento di quasi 120 miliardi di dollari in una sola nazione.» Ma il piano per la NII è la base di un programma ancora più ampio che dovrebbe coinvolgere il maggior numero possibile di paesi e trasformare la NII in Gli, Global In/ormation In/rastructure. In Europa già il Libro bianco sulla crescita promosso da Jacques Delors (1993) aveva proposto una serie di iniziative basate sulla cooperazione fra pubblico e privato per promuovere lo sviluppo di reti di comunicazione transeuropea. L'anno successivo (1994) il rapporto di una commissione europea p re442
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Sistemi di comunicazione
sieduta da Martin Bangemann intitolato «La via europea alla società dell'informazione» presentava raccomandazioni per interventi operativi su scala continentale. L'anno ancora successivo, 1995, nella conferenza G7 a Bruxelles, dedicata appunto alla società dell'informazione, il vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore introduceva ufficialmente l'iniziativa della Global Information Infrastructure. Per verificare la fattibilità della GII, sono stati individuati undici progetti pilota, ciascuno affidato a uno o più paesi del gruppo G7, da mettere in opera entro la fine del secolo. Il primo, e più ambizioso, è il progetto «Inventario Globale», affidato al Giappone, che già sta sviluppando un inventario internazionale delle telecomunicazioni (International Telecommunications Inventory), e al quale partecipano sia la Commissione Europea sia la task force statunitense della NII. Obiettivo del progetto è di creare e fornire un inventario multimediale accessibile elettronicamente che documenti gli studi nazionali e internazionali rilevanti per la promozione e lo sviluppo di una società globale dell'informazione, nonché le ricerche sui fattori sociali, economici e culturali determinanti per il suo sviluppo. I dieci progetti pilota settoriali riguardano: l'Interoperatività Globale delle reti a larga banda, gestito da Canada, Germania, Giappone e Regno Unito; l'Educazione e Formazione interculturale (Francia e Germania); le Biblioteche Elettroniche (Francia e Giappone); i Musei e le Gallerie Elettroniche (Italia e Francia); l'Ambiente e la Gestione delle Risorse Naturali (Stati Uniti); la Gestione Globale delle Emergenze (Canada); le Applicazioni Globali per la Sanità (Francia, Germania, Italia); il Governo in Rete (Regno Unito e Canada); il Mercato Globale per le Piccole e Medie Imprese (Commissione Europea, Giappone e Stati Uniti); i Sistemi di Informazione Marittima (Commissione Europea e Canada). Questi programmi di collaborazione intercontinentale che ci introdurranno al ventunesimo secolo sono tutti di grande interesse, ma né mutano né nascondono la situazione esistente: oggi importanti segmenti del mercato mondiale della diffusione della comunicazione elettronica sono sempre più dominati da attori statunitensi e giapponesi sia per i servizi commerciali, sia per l'intrattenimento e i videogiochi. Imprese come CompuServe, America OnLine, Apple hanno già invaso il mercato europeo dei servizi on fine destinati ai consumatori finali. Non solo, società come Microsoft, Sony e IBM si assicurano i diritti di digitalizzazione di tesori culturali europei. L'Europa, che ha deciso di liberalizzare le strutture e i servizi di telecomunicazione entro il 1998, tenta di recuperare lo svantaggio con un programma comunitario pluriennale (1996-99) denominato INF02ooo. L'obiettivo è di incoraggiare i fornitori europei di informazione a sviluppare nuovi prodotti multimediali per favorire la transizione dalla pubblicazione su carta a quella elettronica e ai servizi multimediali interattivi.
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Sistemi di comunicazione XV
·
VERSO
LA
SOCIETÀ
INFORMATIZZATA
Domani, secondo il direttore dei Media Lab al MIT Nicholas Negroponte (1995), potremo avere accesso diretto alle pagine di qualche centinaio di libri delle maggiori biblioteche del mondo; avremo a disposizione 15.000 canali televisivi; i giornali potranno essere trasmessi on line e confezionati ad personam con le notizie rispondenti agli specifici interessi di ciascun lettore che a richiesta potrà approfondire ulteriormente ogni argomento. Anche se le cose non andranno proprio così, è ben certo che i nuovi sistemi di comunicazione trasformeranno i due aspetti fondamentali della diffusione della cultura con l'offerta di nuovi prodotti e modalità diverse della loro fruizione. I nuovi prodotti dell'editoria elettronica sono già in grado di rispondere alle esigenze che nascono in quest'epoca dei consumi di massa e della civiltà dello spettacolo e che il libro invece, prodotto elitario di una cultura egemone, non può più soddisfare. L'editoria elettronica può oggi riunire nei suoi prodotti le qualità originarie dell' oralità, della figurazione e della scrittura e offrire inoltre informazioni costantemente rinnovabili di fronte a libri scritti «una volta per sempre». Questi nuovi prodotti presuppongono un ripensamento dell'attività editoriale sia per quanto riguarda la collaborazione degli autori - scrittori, grafici, musicisti, informatici, registi, scenografi - sia l'organizzazione di ricerca dei materiali originali per costruire nuove opere e garantirne il costante aggiornamento. Per quanto riguarda le modalità della loro fruizione, la libera navigazione nelle mappe degli ipertesti elimina ogni struttura gerarchica dello scibile, quale era concepito dagli alberi di classificazione. L'ipertesto infatti è un testo elettronico a blocchi non sequenziali, connessi fra loro da archi Uinks), che possono descrivere sia la configurazione di un'intera rete sia tracciare le scelte di un particolare lettore per una particolare finalità di lettura. Campo privilegiato dell'editoria elettronica è perciò quello delle opere di consultazione, enciclopedie e dizionari, ma anche quello dei libri per ragazzi, dei videogiochi, degli ipertesti narrativi. A fronte della inevitabile decadenza della produzione libraria (nel nostro paese, dove ogni anno l'industria editoriale produce tanti titoli quanti ne produce quella degli Stati Uniti, metà della popolazione non ha letto un solo libro nei precedenti dodici mesi e il 20% di coloro che ne hanno letto almeno uno non ne ricordano l'autore o il titolo), si contrappone, come abbiamo visto, la sémpre più grande espansione delle reti, che potrebbero contrastare non solo l'editoria tradizionale, ma anche la nascente editoria elettronica, data la grande suggestione che suscita nel più vasto pubblico l'informazione immediata e di più facile consumo. La «rivoluzione digitale», che consente di inviare messaggi a un enorme numero di persone sparse per il mondo, pone problemi inquietanti. Anzitutto questi messaggi non sempre costituiscono informazione, ma sono spesso disinformazione o informazione irrilevante ove non è agevole distinguere il vero dal falso o dal444
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Sistemi di comunicazione
l'infondato: l'abbondanza dell'informazione rischia di distruggere la comunicazione, né ci può essere corrispondenza fra i tempi minimi di trasmissione e i tempi inevitabilmente lunghi del consumo, cioè dell'acquisizione dei dati. Il premio Nobel per la fisica Murray Gell-Mann, contrapponendo in un suo magistrale saggio (1995) il concetto di informazione a quello di conoscenza, sottolineava come sia oggi desiderabile che l'umanità riesca infine a raggiungere un certo livello di unità culturale, ma a condizione che questa unità sia raggiunta nel rispetto della diversità: così come è folle distruggere in pochi decenni la biodiversità, che è frutto di milioni d'anni di evoluzione biologica, così sarebbe folle cancellare alla svelta le diversità culturali, frutto di migliaia d'anni di evoluzione della civiltà. Ma abbiamo di fronte un altro divario, di cui faceva già cenno Michel Carpentier nella prefazione al rapporto Bangemann sulla via europea verso la società informatizzata: «C'è il pericolo di creare una società a due livelli, in cui soltanto una parte della popolazione potrebbe avere accesso alle nuove reti e godere dei benefici che ne deriveranno. Una società divisa, in cui a una parte dei cittadini fosse in pratica negato l'accesso a questi mezzi di comunicazione ne provocherebbe l'esclusione dal mondo del lavoro e da quello sociale.» Carpentier scriveva da alto dirigente dell'Unione Europea e pensando all'Europa: ma nel mondo la società divisa non è un pericolo, è una realtà. Lo scrittore e semiologo Umberto Eco, libero dalle preoccupazioni diplomatiche di Carpentier, ne ha tracciato un quadro impietoso e realistico (Lz/eLong Learning, 1996). Rischiamo di trovarci di fronte a vaste masse di nuovo proletariato, composto da coloro che sono esclusi dall'alfabetizzazione, sia quella tradizionale sia quella informatica; a uno strato di media borghesia, cioè coloro che usano il computer per calcoli ripetitivi o come sistema di scrittura; infine a una ristretta nomenklatura (che Eco a bella posta individua ironicamente con il vecchio termine sovietico) dei pochi che detengono i veri poteri; e stavolta non di un solo paese, bensì del mondo. Ecco dunque il divario più drammatico del nostro tempo, che è divario culturale e insieme divario economico e che non è delimitato da confini geografici, ma diffuso su tutto il Pianeta. Il dibattito mondiale che si è svolto negli ultimi decenni del xx secolo sulla conservazione e la gestione dell'ambiente fisico e delle risorse del nostro pianeta, culminato con il «Vertice per la Terra» di Rio del 1992, era dedicato soprattutto ai limiti esterni che restringono le nostre possibilità di crescita materiale su un pianeta finito. Non è necessario aderire alle tesi (spesso malintese) che furono del Club di Roma per convenire che ogni aspetto materiale della nostra vita è limitato, finito: ma che invece è illimitata la nostra capacità di apprendere e che il progresso scientifico e tecnologico ha la missione di fornire sempre maggiori e migliori conoscenze ai sei miliardi di persone che fra poco vivranno sulla Terra, affinché esse dispongano, assieme ai beni materiali, delle capacità di migliorare le condizioni della propria esistenza. 445
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Sistemi di comunicazione
Programma prioritario per il prossimo secolo è «imparare a imparare», cwe utilizzare le possibilità offerte dai nuovi sistemi di comunicazione per superare i divari culturali che separano i gruppi umani. Se ci sono limiti fisici imposti dalla nostra stessa natura e dall'ambiente in cui viviamo, non ci sono limiti all'apprendimento e alla conoscenza - a condizione che tutti possano accedervi.
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CAPITOLO
TREDICESIMO
La politica della scienza DI PAOLO BISOGNO
I
·
NASCITA
ED
EVOLUZIONE
E CARLO BERNARDINI'"
DELLA
POLITICA
DELLA
SCIENZA
La presenza della scienza in seno alla società ha prodotto, con il suo apporto di razionalità e con il progresso tecnico che ne deriva, uno sconvolgimento nei quadri sociali, e gli usi e abusi delle potenzialità scientifico-tecniche possono oggi estendere il loro dominio dalla natura all'uomo con tutte le conseguenze facilmente immaginabili. In altri termini, le realtà, sia naturali sia sociali, in cui vive l'uomo hanno assunto oggi un carattere pluriscientifico e pluritecnico, che si adegua per misura e per incidenza ai tipi di realtà (individuali e sociali) vissuti dal singolo. Il complesso dei rapporti tra scienza e società che da ciò deriva trova il suo momento di espressione unificante nella politica e le due sfere influiscono reciprocamente divenendo talora complementari. La scienza non può esimersi dall'assumere le proprie responsabilità dinanzi alla politica, e questa non può ignorare la scienza, che, da un lato, le fornisce gli strumenti di studio, analisi e metodi per il raggiungimento dei fini, e, dall'altro, modifica con la sua attività di ricerca e d'innovazione sia i modi del pensare che dell'agire, quindi del vivere. In questa reciprocità va visto il fenomeno della « politicizzazione della scienza» e la necessità di una politica scientifica in senso moderno, che riscatti i laboratori dall'asservimento al «principe». La politica per la scienza (le misure per un ambiente che incoraggi le attività di ricerca) e la politica per mezzo della scienza (lo sfruttamento delle scoperte e delle innovazioni in diversi settori di interesse pubblico) hanno pari valore, nel senso che i fattori scientifici influiscono sulle decisioni politiche e allo stesso tempo condizionano lo sviluppo di vari settori (difesa, economia, vita sociale, ecc.) che di per se stessi non sono scientifici e tecnici. Ragion per cui la politica della scienza viene determinata dal concetto di un'integrazione deliberata delle attività scientifiche e tecnologiche nel tessuto delle decisioni politiche, militari, economiche e sociali: una politica per e con la scienza. Rare volte politica e scienza hanno agito, nel corso della storia, simultaneamente - e solo per brevi periodi di tempo. Sin dalla rivoluzione scientifica del XVII secolo le attività di ricerca hanno avuto bisogno del riconoscimento e del sostegno dello stato '' I paragrafi I-V sono di Paolo Bisogno; i paragrafi VI-VII sono di Carlo Bernardini.
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La politica della scienza
(ecco la ragione della fondazione degli istituti accademici); e questo sostegno veniva accordato non soltanto al fine di favorire un progresso delle conoscenze in sé, ma anche allo scopo di poter utilizzare i risultati della ricerca nel perseguimento di fini pratici, già nel contesto di una politica di «obiettivi nazionali». Ma le autorità pubbliche tendevano a non intervenire direttamente nell'organizzazione del settore e anche in campo scientifico, come già in quello economico, si era convinti che il massimo grado di produttività fosse raggiungibile attraverso un libero sistema di mercato. Prima della rivoluzione industriale, la scienza prometteva più di quanto potesse mantenere (l'impulso alla rivoluzione industriale venne dallo sviluppo tecnologico più che dalla scienza vera e propria). Inoltre, il costo della ricerca non era tale da richiedere forti investimenti pubblici. In questo senso possiamo dire che per tutto quel periodo, a differenza di oggi, gli studi teorici precedevano le conoscenze pratiche, e questi studi erano per lo più di tipo utopistico. Nella New Atlantis di Bacone, nel Fragment sur l'Atlantide di Condorcet, nelle Re/lections an the decline o/ science di Renan, la necessità di un sostegno da parte dello stato per le attività di ricerca fu giustificata dalle promesse della scienza e dal potenziale sfruttamento dei risultati. Nonostante ciò, nei rapporti tra scienza e stato, prevalse la dottrina del laissez-faire, in modo del tutto naturale per via del lasso di tempo tra la ricerca scientifica e la sua applicazione; intervallo necessariamente lungo, con la conseguenza che il coinvolgimento dello stato in questioni scientifiche rimaneva circoscritto a settori che potevano garantire risultati relativamente rapidi. Lo stato lascia la mano all'iniziativa privata e si limita a prowedimenti legislativi, quali, per esempio, il primo accordo internazionale per la tutela dei brevetti (Parigi, 1883). In seguito, a mano a mano che i riflessi del processo scientifico e tecnologico si riverberano in tutti i settori della vita nazionale e la sua promozione richiede investimenti di risorse umane ed economiche sempre più ingenti e a lunga scadenza, è inevitabile che i governi intervengano in maniera sempre più diretta e diffusa. In pratica, l'era di una politica scientifica istituzionalizzata iniziò soltanto quando le autorità scientifiche cominciarono ad avere un'influenza diretta sull'andamento degli affari del mondo, rendendo così lo stato cosciente in un'area di responsabilità che non poteva permettersi il lusso di trascurare. Ciò che infatti caratterizza la scienza moderna, in contrapposizione a quella del passato, è la sua capacità di manipolare, dato che la formulazione e la sperimentazione matematica fanno sì che sia possibile applicare l'azione ai fenomeni naturali in modo da trasformarli; e finché la scienza aveva poca influenza sullo sviluppo economico, militare e tecnico, lo stato non trovava interesse a intervenire nelle faccende della scienza. Nel corso del secondo e terzo decennio di questo secolo vengono istituiti, nei paesi industrializzati più progrediti, i consigli nazionali delle ricerche (in Canada e in Australia nel 1916; nel Regno Unito negli anni venti; e poi, via via, in tutti gli altri paesi). Tuttavia, sebbene la crisi degli anni trenta rendesse taluni consci del ruolo che la scienza poteva avere nello sviluppo economico e sociale, questa con-
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La politica della scienza
sapevolezza non fu così diffusa da rendere maturo l'intervento dello stato per orientare la ricerca scientifica, o per organizzarla in maniera più coerente. Tra paesi avanzati, soltanto la Francia si sforzò di riconoscere la prevalenza o la giurisdizione della politica sulla scienza istituendo, durante il periodo del Fronte popolare, un apposito sottosegretariato di stato, che fu affidato a Irène Joliot-Curie e poi a Jean Perrin. L'assegnazione di incarichi ministeriali a due premi Nobel e la costituzione del Centre National de la Recherche Scienti/ique (CNRS) costituiscono i primi segni sia di un riconoscimento da parte dello stato del ruolo svolto dalla scienza negli affari economici e sociali, sia della preoccupazione del potere politico di integrare tale ruolo nel tessuto delle decisioni governative. II
· LA
POLITICA
DELLA
SCIENZA
NEL
DOPOGUERRA
Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale i governi, impegnati nei programmi di ricostruzione, di ripresa economica, avvertono con sempre maggiore chiarezza il ruolo, ormai centrale, della scienza come forza produttiva e la necessità di orientare lo sviluppo in base a scelte più generali di politica governativa, soprattutto in materia economica. Questa inversione di tendenza è in parte dovuta alla riflessione sul ruolo che la ricerca scientifica aveva rivestito durante la seconda guerra mondiale e, in parte, al nuovo equilibrio politico tra le grandi potenze stabilitosi al termine del conflitto. Il tipo di ricerca scientifica condotto durante la seconda guerra mondiale e soprattutto l'importanza strategica dei suoi risultati, hanno· avuto conseguenze e ripercussioni imprevedibili. Fino ad allora la ricerca militare si era limitata a adattare la tecnologia civile alle esigenze di guerra. Durante e subito dopo il secondo conflitto mondiale, invece, la ricerca scientifica e tecnica, concepita con scopi e per scopi militari, divenne la fonte di nuove scoperte tecnologiche, applicate poi nella vita civile: l'energia atomica, il radar, il motore a reazione, il DDT, gli elaboratori elettronici, ecc. Da allora fu impossibile per il potere politico lasciare la scienza sola con i suoi arnesi; alla fine della guerra, la smobilitazione dei ricercatori, invece di coincidere con la fine della mobilitazione della scienza, diede il via a sforzi sistematici per avvalersi della ricerca nel contesto di obiettivi nazionali e internazionali, segnando una svolta irreversibile nei rapporti tra la scienza e lo stato. Ne derivò l'intervento diretto dei governi nella direzione e nella determinazione delle attività di ricerca e nell'arruolamento dei ricercatori. Le mutate dimensioni delle attività di ricerca (roo.ooo ricercatori nel mondo nel 1940; oltre 1 milione, vent'anni dopo) vanno di pari passo con l'esplodere dello sviluppo tecnologico che ha avuto un'influenza diretta sui rapporti politici tra le nazioni. Il perfezionamento delle armi nucleari, dei razzi e degli elaboratori ha alterato la legge tradizionale dell'equilibrio del potere: è così cominciato il processo di escalation tecnologica, il cui aspetto più spettacolare sono stati la gara per lo spa449
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La politica della scienza
zio e il sistema delle armi strategiche, che in effetti hanno influenzato tutti i settori della ricerca e, quindi, del vivere sociale e individuale. La politica della scienza si è sviluppata in questo contesto di competizione strategica come conseguenza dell'impossibilità di arrivare a una vera pace alla fine della seconda guerra mondiale. In questo senso la politica della scienza è, evidentemente, solo un aspetto di una politica globale determinata dalla rivalità e dalle lotte che dividono le nazioni; e le direzioni che ha seguito hanno sempre rispecchiato ed echeggiato le vicissitudini delle tensioni internazionali. Vi è un legame evidente tra il sorgere delle crisi internazionali (Berlino, Corea, Cuba, Vietnam, Medio Oriente, Afghanistan, ecc.) e l'aumento delle spese di ricerca e sviluppo (dal 1940 al 1960, per esempio, la spesa per ricerca negli USA è più o meno raddoppiata ogni cinque anni). Ma in un altro senso la crescente influenza esercitata dalle questioni scientifiche e tecnologiche sulla politica può essere considerata una causa, oltre che un effetto, del clima internazionale di incertezza. L'equilibrio della paura è stato misurato secondo il progresso della tecnologia; e la proliferazione delle innovazioni tecniche, innanzi tutto nel settore militare, ha fatto sì che nazioni o gruppi di nazioni - in disaccordo per ragioni politiche e ideologiche - abbiano vissuto nell'ansia costante - vera o presunta - di esser superate tecnologicamente dagli avversari. Il ruolo sempre più importante di nuovi procedimenti, il sorgere di settori industrializzati interamente basati sulla scienza, il crescente sviluppo economico che va diffondendosi, la profonda crisi di obiettivi e di metodi provocano, verso la fine degli anni sessanta, un generale ripensamento di tutta la condotta politica e, specificamente, una revisione della nozione di politica scientifica. La prima opzione, storicamente, è stata quella dell'importanza della ricerca per mantenere e sviluppare, con quello scientifico, il potenziale tecnico-economico. L'esplosione dei dibattiti sul /al! out e sul gap tecnologici, sull'atteggiamento sociale nei confronti dell'innovazione, cioè sulla scarsa capacità di alcuni sistemi di sfruttare i risultati della ricerca, sulla redditività degli investimenti di ricerca e sviluppo nel settore civile sono causa e conseguenza al tempo stesso di questa opzione. In quegli anni si svilupparono due tendenze nel campo degli studi di politica scientifica: sul piano organizzativo, fiorirono gli studi teorici per assicurare una migliore gestione dei sistemi di ricerca (J antsch, 1967 e 1971); sul piano accademico, vi furono studi critici sui mezzi adottati per il conseguimento degli obiettivi che i paesi si erano fissati (Skolnikoff, per gli USA, 1967; Gilpin, per la Francia, 1968). Ma, se questi studi teorici e critici mettevano in dubbio le priorità fino ad allora perseguite, gli studi di politica della scienza si svilupparono sulla scia di una politica i cui obiettivi non erano messi in dubbio quanto lo erano le sue procedure amministrative, i suoi mezzi istituzionali o le tensioni che investivano la comunità scientifica, ormai diventata uno dei tanti «gruppi di pressione» (Greenberg, 1967). Più realistici - e al tempo stesso più universali - apparivano gli obiettivi indi450
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cati dalla domanda sociale (la seconda opzione), che recepiva anche la diffusa preoccupazione per le conseguenze negative della tecnica sull'ambiente e sulla stessa società. Si andavano precisando in tal modo, accanto al concetto di livello di vita, i concetti di sicurezza sociale e di qualità di vita, che scienza e tecnica possono contribuire a rendere obiettivi concreti dell'azione generale, fornendo nel contempo rimedi al fall out di segno negativo. L'esigenza di rispondere al nuovo tipo di domande condusse a una revisione dei contenuti stessi della politica scientifica e conseguentemente all'abbandono dei grandi programmi a lungo temine a favore di interventi più immediati, con scelte più concrete e universali: salute, urbanesimo, trasporti, sicurezza del lavoro, comunicazioni, ecc., divennero, secondo le nuove concezioni, «diritti sociali in senso proprio». La mancata correzione di fattori negativi insiti in ogni attività - spesso dovuta al prevalere miope dell'esclusivo interesse economico - aveva diminuito la fiducia, talora ciecamente irrazionale, nella scienza, nei confronti della quale si andava, quindi, diffondendo nell'opinione pubblica un clima di diffidenza e di scetticismo. La causa immediata di questo mutamento di giudizio va ricercata in una serie di episodi verificatisi nel corso degli anni, che mise in luce la crisi di un tipo di rapporti. uomoambiente e l'esigenza del loro radicale mutamento. La pubblica opinione fu, tra l'altro, fortemente colpita dai ripetuti esperimenti di esplosioni nucleari e dai conseguenti timori di azione mutagena e di effetti cancerogeni; dallo smog che a Londra uccise nel 1952 oltre quattromila persone; dal crescente impiego di pesticidi ed erbicidi, a causa dell'influenza che possono subirne i complessi sistemi della vita vegetale e il sottile strato di humus organico indispensabile per l'agricoltura; dalla diffusione del DDT su tutta la biosfera attraverso la catena alimentare (se ne rinvennero tracce consistenti nel grasso dei pinguini e delle foche nell'Artico, nel latte materno, nel plancton marino, ecc.); dall'involuzione biologica di laghi e fiumi (dall'Eire, all'Orta, all'Arai, ecc.); dallo sterminio di alcune specie animali; dalle vicende del Reno e via via fino all'inquinamento da diossina di Seveso. Le accuse alle tecnologie provocarono così un fenomeno di rigetto verso la scienza e la tecnica, immediatamente associate, nell'immaginario collettivo, alle armi nucleari, biologiche e chimiche di vario tipo, alla degradazione dell'ambiente, all'inquinamento. Accanto a tali accuse nei confronti delle conseguenze negative delle applicazioni della scienza e della tecnologia, si delinearono precise formulazioni speculative sulle stesse nozioni di scienza e tecnologia, formulazioni che costituiscono il substrato teorico al fenomeno di rifiuto della scienza (Horkheimer, Adorno, Marcuse, Habermas, Roszak, ecc.). Nonostante tutti questi impedimenti, è comunque viva la consapevolezza che il progredire della scienza non può essere arrestato. Non vi sono alternative alla continuazione della rivoluzione tecnologica, l'unica alternativa valida è un più intenso ritmo dello stesso progresso. Quanto più ampio è il ventaglio delle alternative tecnologiche, tanto maggiori sono le possibilità di proteggere la natura e soddisfare i nostri biso451
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gni. E questa intensificazione degli sforzi dovrà avvenire in funzione di nuove finalità e precisamente di quelle tese allo sviluppo e al miglioramento della società, stabilendo fra esse un armonizzato ordine di priorità. Tutto ciò costituisce la terza opzione. li problema centrale sul quale sembra convergere il generale consenso è quello di controllare e prevedere gli effetti collaterali negativi della tecnologia. Questi due obiettivi possono essere raggiunti soltanto con il concorso della scienza stessa, che è in grado, nelle sue diverse articolazioni ed espressioni, di predisporre strumenti razionali di accertamento, di gestione e di previsione. È comunque evidente che, al fine di perseguire controlli e valutazioni sulle ricerche scientifiche e sulle applicazioni tecnologiche, non sono sufficienti il volere dei singoli o degli enti e istituzioni nazionali, ma è indispensabile la collaborazione internazionale. Le basi per questa collaborazione della comunità scientifica internazionale possono essere individuate in quegli organi nazionali - i consigli nazionali delle ricerche, le accademie o istituzioni equivalenti - che possono e debbono aprirsi a più ampie partecipazioni, una volta che siano state superate le barriere del sospetto e le frontiere dell'individualismo. III
·
LE
TENDENZE A
DELLA
LIVELLO
POLITICA
DELLA
SCIENZA
INTERNAZIONALE
Negli anni ptu recenti, nei paesi tecnologicamente avanzati, la ricerca scientifica e tecnologica ha acquisito progressivamente maggiore importanza fino a caratterizzarsi come uno strumento essenziale e consueto di politica economica e sociale. Infatti, nonostante le difficoltà dell'economia mondiale, la recessione e le tensioni dei mercati finanziari, i governi della maggior parte dei paesi avanzati hanno investito sempre di più in scienza e tecnologia. Nel decennio 1981-91 (periodo per il quale si dispone di dati comparabili) la spesa per ricerca e sviluppo in percentuale del prodotto interno lordo è passata dal 2,4 al 2,7 negli Stati Uniti, dal 2,1 al 2,9 in Giappone, dall'1,7 al1'1,9 nell'Unione Europea (ove una diminuzione si è registrata nel solo Regno Unito). Gli avvenimenti politici internazionali degli anni novanta e l'evoluzione del quadro economico internazionale - il collasso del blocco sovietico, l'integrazione delle due Germanie, l'esplosivo sviluppo economico dei Paesi del Pacifico, l'intensificazione della cooperazione europea, l'avvio di un processo di pacificazione in Medio Oriente, per citare i casi più importanti - hanno mutato gli elementi di base delle politiche scientifiche e tecnologiche e ne hanno modificato profondamente le tendenze. Un esame comparato delle politiche scientifiche dei maggiori paesi pone in evidenza alcuni fenomeni ricorrenti. a) Un sensibile calo della spesa per la ricerca per la dz/esa e una sua conversio11e verso il settore civile. La fine della « guerra fredda » ha prodotto un generale riorientamento delle strategie di difesa e, nel quadro di una comune diminuzione delle spese in questo settore, un minore impegno nel campo della ricerca e sviluppo a 452
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scopi militari. Il problema della riconversione è particolarmente avvertito in quei paesi, come gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia, ove la struttura di ricerca per la difesa aveva assunto negli anni notevole consistenza. L'esempio più significativo al riguardo è quello degli Stati Uniti, ove gli obiettivi dell'amministrazione Clinton in questo campo hanno subito un drastico ridimensionamento con l'abbandono del progetto di Difesa Strategica (sm) sostituito da un programma meno ambizioso sui missili balistici. In generale, la transizione verso attività non militari avviene attraverso l'orientamento degli investimenti di ricerca e sviluppo nelle tecnologie cosiddette « duali», utilizzabili, cioè, sia nel settore della difesa sia in quello civile. b) I.:adozione di misure che rendano più efficiente il sistema di ricerca. Questo orientamento, che nasce soprattutto dall'esigenza di far fronte alla crescente competitività sui mercati internazionali, si manifesta in varie forme. Una di esse è quella di introdurre significativi mutamenti negli assetti istituzionali degli oq;::mismi di coordinamento della politica scientifica ai più elevati livelli di governo e òclle stesse strutture amministrative di supporto alla scienza. Negli Stati Uniti, per esempio, sono stati creati nuovi organismi ai vertici del settore: l'Ufficio per la politica scientifica e tecnologica (osTP), diretto dal Consigliere scientifico del Presidente, e il Consiglio nazionale della scienza e della tecnologia, con poteri anche decisionali oltre che consultivi. Organi di consulenza in materia scientifica ad alto livello sono stati creati nel Regno Unito e in Australia, ove gli uffici del Primo ministro sono stati dotati rispettivamente di un Ufficio della scienza e della tecnologia e di un Consiglio per la scienza e l'ingegneria. Un'altra strada seguita è stata quella di modificare attribuzioni e responsabilità ministeriali: in Francia è stato, per esempio, istituito il Ministero della ricerca e dell'educazione superiore, mentre in Irlanda la scienza e la tecnologia sono state poste sotto l'autorità del Ministero dell'industria e dell'occupazione. Infine, un'altra tendenza è quella di trasferire le competenze dai governi centrali a quelli regionali (è quanto avvenuto di recente in Belgio, Spagna, Canada, ecc.). Ristrutturazioni delle istituzioni scientifiche di un certo rilievo si sono realizzate in Norvegia, dove i cinque consigli nazionali delle ricerche sono stati fusi in un'organizzazione unica, responsabile della pianificazione e del finanziamento di tutta la ricerca di base e applicata, in Germania, dove, a seguito dell'unificazione politica, si è proceduto a una trasformazione profonda delle strutture ereditate dal regime socialista. c) La promozione di programmi scientifici e tecnologici concernenti i problemi concreti della società contemporanea. Si sono moltiplicate le iniziative di progetti di ricerca finalizzati specificamente alla soluzione di problemi sociali, come l'ambiente, la sanità, la droga, la criminalità, l'AIDS. d) La riorganizzazione del sistema formativo, specie a livello universitario e postlaurea. Ciò nel tentativo di rendere tale sistema più flessibile e adeguato alle crescenti e diversificate esigenze di qualificazione professionale richieste dal mercato. e) Una crescente preoccupazione per il fenomeno della disoccupazione, che ben può qualificarsi come tecnologica. La ripresa produttiva, ormai avviatasi in tutti i paesi, mol453
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La politica della scienza
tiplica le risorse - specialmente per effetto delle nuove tecnologie dell'informazione che hanno prodotto cambiamenti radicali nella produttività - ma stenta, anche per i medesimi motivi, a generare nuove occasioni di lavoro. Mentre in passato lo sviluppo di nuove conoscenze e tecniche produttive ha sostituito il lavoro umano, ma ha anche permesso la realizzazione di nuovi prodotti, l'apertura di nuovi mercati e l'espansione dell'occupazione in nuovi settori, negli ultimi anni l'accelerazione del cambiamento tecnologico e la globalizzazione dei mercati si sono associate a un aggravarsi dei problemi dell'occupazione. Tutto ciò ha moltiplicato le iniziative in questo campo. Nella primavera del '94 il vertice dei Sette Paesi più industrializzati ha dedicato una riunione ai problemi della disoccupazione; l'ocsE (l'organizzazione internazionale che raggruppa i paesi a più elevato sviluppo economico) e l'Unione Europea hanno approntato studi e approvato risoluzioni sul tema, che mettono in rilievo la notevole portata della disoccupazione tecnologica. Semplici misure di deregolamentazione del mercato del lavoro, che puntino a renderlo più flessibile, non hanno sortito effetti confortanti. Nei settori in cui le conoscenze tecnologiche rappresentano un fattore strategico, scelte di questo tipo - disperdendo il patrimonio di competenze tecnologiche e professionali accumulate da imprese e forza lavoro -possono rivelarsi addirittura controproducenti. Le «raccomandazioni» emerse dal dibattito in sede ocsE comprendono, tra le misure per frenare la caduta dei livelli occupazionali, l'incremento delle risorse per istruzione, ricerca e innovazione, e, più in generale, per ciò che viene definito «investimento immateriale». È stata anche posta in evidenza l'importanza di un'adeguata infrastruttura tecnologica sia nel campo delle comunicazioni e dell'informazione sia in quello della diffusione delle conoscenze tecnologiche alle piccole e medie imprese, lo sviluppo di tecnologie a minor impatto ambientale e il recupero dell'habitat urbano. Inoltre, il rafforzamento del sistema innovativo locale, in termini di competenze generali e di preparazione della forza lavoro, la presenza di infrastrutture avanzate e di servizi, sono tutti elementi che contribuiscono al consolidamento delle attività innovative e costituiscono una premessa al mantenimento e allo sviluppo dell'occupazione. f) Una maggiore attenzione verso i problemi etici sollevati dagli avanzamenti della medicina e dell'ingegneria genetica. Finora i governi hanno risposto a livello istituzionale creando commissioni speciali di studio per la bioetica. g) Una crescente senszbilità ai problemi connessi alla valutazione della tecnologia («technology assessment»). Si vanno diffondendo in tutti i paesi studi sull'impatto economico, sociale e ambientale dell'innovazione, ormai considerati un utile supporto ai processi di decisione politica. L'introduzione del « technology assessment » come verifica dell'impatto esterno- sulle conoscenze, sull'economia, sulla società- della ricerca e della tecnologia è un processo parallelo alla crescita di attenzione verso la valutazione della ricerca (R&.D evaluation). Si va facendo strada l'esigenza di verificare l'efficienza e l'efficacia della spesa pubblica, compresa quella per la ricerca e l'istruzione superiore. In Svezia (il paese europeo con la più lunga tradizione nel campo), in Gran Bretagna, in Francia, negli Stati Uniti e negli altri paesi tecnologicamente avanzati i sistemi di 454
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valutazione della ricerca hanno ormai raggiunto un elevato grado di specializzazione. h) Il ruolo crescente della cooperazione internazionale. Questo processo va interpretato anche come un ulteriore momento della razionalizzazione delle spese per la ricerca, specialmente quando si considerino quei settori di attività il cui sviluppo può avvenire ormai solo con l'esecuzione di programmi di elevatissimo impegno finanziario. z) Una crescente omogeneità degli strumenti di intervento. I governi dei paesi ocsE tendono ormai a ricorrere, per il raggiungimento dei propri obiettivi, ai medesimi strumenti, pur differenziandone l'uso a seconda della percezione delle potenzialità e dei limiti delle strutture nazionali, nonché del tipo di intervento programmato. Nel settore della ricerca di base l'attuale orientamento è quello di concentrare gli sforzi in un numero limitato di aree specializzate. È il caso del Giappone, ma anche del Regno Unito, del Belgio, della Danimarca, del Canada e dell'Australia. Lo strumento più utilizzato è il «centro di eccellenza» (cioè un centro di ricerca di particolare rilievo scientifico a livello internazionale) che riguarda ora non solo la ricerca di base ma anche la ricerca applicata. l) La promozione della collaborazione tra università e imprese. In diversi paesi sono stati varati programmi ad hoc, incrementando i fondi a disposizione e pré.re~ dendo, soprattutto, una semplificazione delle procedure amministrative. m) Una graduale riduzione dei finanziamenti pubblici alla ricerca industriale. La ricerca nell'industria viene finanziata principalmente attraverso i programmi nazionali di ricerca, realizzati in collaborazione fra università, laboratori di ricerca pubblici e privati e aziende, su specifici progetti. Ma negli ultimi anni si è accentuata la preferenza dei governi per il finanziamento tramite incentivi fiscali, soprattutto a carattere automatico. n) Un crescente impegno nella promozione della cultura scientifica. L'obiettivo viene ormai considerato prioritario in gran parte dei paesi con programmi di vario impegno il cui impatto è destinato a produrre effetti nel medio-lungo periodo. IV ·
L A P O LI TI C A
SC I E N T I F I C A I N
I T A LI A
La riflessione sulla scienza e la ricerca in Italia - e sulle politiche adottate dagli anni cinquanta a oggi - abbraccia un periodo storico ricco di avvenimenti e di mutamenti a livello mondiale e nazionale sul piano politico, culturale, sociale ed economico. Per affrontare i temi della politica scientifica in un'ottica storica sono possibili vari approcci: da quello sociologico a quello filosofico, economico o giuridico-istituzionale. La scelta è caduta su un ambizioso tentativo di incrocio tra una proposizione quantitativa dei dati disponibili (indicatori della scienza e della tecnologia) e una presentazione delle tematiche di politica scientifica nel loro evolversi nel tempo e nel loro mutarsi di indirizzo a livello internazionale. Cambiamenti di orientamento sono presenti anche nel dibattito culturale nel nostro paese - talora anche nei comportamenti e negli indirizzi politici - con gli sfasamenti temporali e gli aggiustamenti via via intervenuti. 455
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93
Fonte: Elaborazione deii'ISRDS-CNR su dati ISTAT
Fig. l. La spesa per
R&S
in rapporto al prodotto interno lordo in Italia.
r) Indicatori della scienza e della tecnologia
Cominciamo, quindi, dagli indicatori, cioè dalla propos1z10ne quantitativa dei dati disponibili. Da alcuni anni sono intensificati gli sforzi di comprensione dell'impresa scientifica intesa come sistema che interagisce con altri sistemi (sociale, economico, educativo, ambientale, ecc.), e gli studiosi si sono impegnati a individuare appositi indicatori atti a fornire una dimensione dell'impegno nelle attività innovative e dei risultati, delle ricadute di queste attività. Questo filone di studi sugli indicatori si colloca all'intersezione tra lo sforzo di comprensione dei fenomeni e la loro verifica empirica. Verifica che si compie attraverso strumenti quantitativi provenienti dall'osservazione - non neutrale - di particolari variabili che abbiano· la caratteristica di cogliere gli aspetti più rilevanti del fenomeno. Così alcuni indicatori sono prevalentemente visti come strumenti per valutare il livello, lo stato, le prospettive della produttività scientifica. Altri, o addirittura gli stessi, vengono impiegati per dare una misura del grado di innovazione, di cambiamento tecnologico, di sviluppo di una struttura economico-produttiva. I dati quantitativi, di per sé, non sono sufficienti a descrivere compiutamente i vari aspetti del sistema scienza-tecnologia. Ma se sono analizzati insieme, come indicatori multipli, permettono di acquisire una più profonda e articolata conoscenza. Come indicatori rappresentano sintomi, riflessi indiretti d'un modo di agire, d'un comportamento, d'uno stato. L'approccio quantitativo degli indicatori della scienza e della tecnologia li ripartisce in indicatori di input e indicatori di output. Fra i primi includiamo il personale di ricerca, i finanziamenti della ricerca. Negli indicatori di output vanno inseriti la bilancia tecnologica dei pagamenti, i bre-
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La politica della scienza
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variazione percentuale annua spesa per R&S
Fonte: Elaborazione deii'ISRDS-CNR su dati ISTAT
Fig. 2. La spesa per R&S in Italia dal 1963 al 1993.
vetti, i prodotti ad alta tecnologia, le pubblicazioni scientifiche, il giudizio dei pari e, infine, gli indicatori sulla formazione e sui servizi tecnico-scientifici. Per gli indicatori di input esaminiamo, ora, alcuni grafici relativi alle risorse finanziarie e alle risorse umane impegnate nel sistema di ricerca nell'ultimo periodo (fig. r e fig. 2; fig. 3 e fig. 4). Nel corso degli anni la struttura, le caratteristiche e la dimensione delle risorse finanziarie e umane impiegate nell'attività di ricerca e sviluppo sono mutate, in misura più o meno significativa, nei maggiori paesi industrializzati. L'analisi parte dall'inizio degli anni sessanta, per mancanza di dati comparabili. Probabilmente i dati relativi alla fine degli anni quaranta e agli anni cinquanta, ove disponibili, avrebbero ancor più marcato le trasformazioni che si sono verificate dalla fine della guerra a oggi (per esempio il bilancio del CNR nel 1946-47 non raggiungeva l'r per mille del reddito prodotto nel paese). Sono possibili infine alcune sintetiche considerazioni. a) I paesi che hanno dovuto investire maggiori risorse nella ricostruzione dell'ap457
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Fonte: Elaborazione dell'ISRDS·CNR su dati ISTAT
Fig. 3. I ricercatori in Italia dal 1963 al 1992.
parato economico-industriale nel dopoguerra (Italia-Germania-Giappone) hannò conseguito maggiori progressi in quanto a spese per l'attività di R&s, sia in termini assoluti che relativi alla ricchezza prodotta. Gli anni sessanta e gli anni ottanta sono i periodi in cui il nostro paese ha prodotto i maggiori sforzi: negli anni settanta anche la R&s ha risentito della crisi e dei conseguenti processi di ristrutturazione e razionalizzazione. In definitiva, se da un lato il tasso di incremento delle risorse destinate alla R&s è stato elevato, dall'altro il divario tra l'Italia e i paesi con cui il nostro compete rimane ancora in gran parte da colmare (per esempio il rapporto tra spesa per R&s e PIL in Italia è dell' 1,3 %, mentre nei paesi più avanzati dell'Occidente è doppio). b) Le imprese hanno assegnato sempre maggiori risorse all'attività di R&s, e ciò a causa dell'accentuata competitività internazionale. c) A seguito dell'esempio degli altri paesi industrializzati eccetto il Giappone, anche in Italia si è andata progressivamente sviluppando la presenza dello stato come imprenditore, finanziatore di ricerca; sia attraverso l'attività delle imprese pub-
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La politica della scienza
Composizione percentuale del personale di ricerca nel 1992 (unità in equivalente tempo pieno)
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1980
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Amm.ne pubblica
Imprese
Amm.ne pubblica
Imprese
Amm. ne pubblica
Imprese
Amm.ne pubblica
Imprese
Ricercatori
10.739
8.003
16.111
11.507
29.046
17.953
45.943
28.479
Tecnici
3.417
7.444
10.518
13.349
9.804
17.801
22.466
21.920
Altro personale
3.353
9.373
10.360
13.531
8.832
12.367
10.988
13.059
Totale
17.509
24.820
36.989
38.387
47.682
48.121
79.397
63.458
Totale generale
42.329
75.376
95.803
142.855 Fonte: ISTAT
Fig. 4. li personale di ricerca per qualifica, titolo di studio e settore di esecuzione in Italia.
bliche, sia attraverso finanziamenti dell'attività di ricerca dell'industria privata. d) Gli organismi pubblici di ricerca hanno molto risentito di questi mutamenti di strategia governativa nei confronti della ricerca. Il fenomeno è stato particolarmente accentuato in Italia: CNR ed ENEA nel 1963 disponevano del 41,6% del finanziamento pubblico, che nel 1985 è sceso al 31,3 % per arrivare al 19,3 nel 1992. e) Dalla metà degli anni sessanta a oggi, la ricerca di base ha perso di importanza relativa nei maggiori paesi industrializzati, condizionando negativamente anche le strutture universitarie (in cui si svolge gran parte della ricerca fondamentale). j) Le industrie elettroniche e quelle meccaniche in tutto il mondo industrializzato hanno progressivamente assorbito nel tempo quote crescenti (35-45%) delle risorse per R&s del settore delle imprese. L'Italia si è mossa in senso divergente nel campo elettrico-elettronico e le spese per R&s di queste industrie nel 1993 non superavano il 20%. Le industrie dei mezzi di trasporto h anno invece registrato investimenti notevoli e crescenti in tutti i paesi europei.
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La politica della scienza
1970
1980
1992 Canada
2,3% Altri paesi OCSE 17 •4% Stati Uniti _.-r-nç-----
36,5%
Italia
3,1% Regno Unito
Regno Unito
9,4°/o
8,6%
Germania
19,6%
Fonte: OCSE
Fig. 5. Le domande di brevetto estese all'estero secondo la residenza degli inventori nei Paesi dell'ocsE.
g) Lo sviluppo delle risorse umane addette alla R&s è stato più intenso in quei paesi (Italia, Germania, Giappone) che uscivano perdenti dalla · guerra. Gli indicatori che rapportano il numero dei ricercatori con la spesa in ricerca e con il totale degli occupati sottolineano un maggior equilibrio tra i sistemi scientifici dei vari paesi rispetto a trenta anni fa. h) L'incremento del personale di ricerca in Italia è stato più elevato nel settore pubblico che nelle imprese. z) La percentuale di personale ricercatore universitario impegnato nelle scienze umane e sociali è diminuita negli Stati Uniti, Giappone e Italia negli ultimi 15 anni. Nel 1988 tali discipline coprivano nel nostro paese circa il 30% del personale ricercatore nelle strutture pubbliche e oltre il 41% dei ricercatori universitari propriamente detti. Nel 1993 tali percentuali si mantenevano costanti. Assistiamo al paradosso di un sistema che si autoalimenta in direzione divergente da quella della ricerca mondiale e del mercato delle nuove tecnologie e del lavoro. In definitiva si è andato riducendo il divario, in termini di risorse, fra l'Italia e gli altri paesi industrializzati, ma il livello è ancora notevolmente inferiore, specie nei confronti di nazioni come la Germania, la Francia e il Regno Unito. Passiamo ora agli indicatori di output. Verranno illustrati brevemente i grafici relativi ad alcuni indicatori più significativi. La fig. 5 mostra l'andamento dei brevetti estesi sui mercati esteri dai sette principali paesi industrializzati. Da tutti i dati relativi ai brevetti si rileva che il nostro paese ha conosciuto in questi ultimi 25 anni un sensibile aumento del proprio output brevettuale sui mercati internazionali. Dai 7300 del 1965, paragonabili nel numero alla situazione giapponese alla stessa data, si è passati ai 16.6oo del 1985. Ma, per la diversa
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Fonte: Elaborazione deli'ISRDS su dati UIC
Fig. 6. La bilancia tecnologica dei pagamenti in Italia.
accelerazione delle due economie, i giapponesi nel 1985 vantavano ben 74.000 brevetti. Inoltre la quota dei brevetti italiani è attualmente pari a r/ 5 di quella della Germania e di quella del Giappone, a meno di r/3 del Regno Unito, alla metà della Francia. I dati analitici mostrano come la distribuzione delle attività tecnologiche italiane si sia timidamente spostata verso alcuni settori oggi ritenuti più rilevanti per il futuro, in particolare verso le tecnologie farmaceutiche e quelle informatiche. Nel campo farmaceutico l'Italia sta in effetti diminuendo il divario con i paesi più industrializzati. Tale distanza è tuttavia aumentata per quel che riguarda le tecnologie informatiche. Va, infine, sottolineato che i dati analitici mostrano come i sei principali gruppi industriali italiani detengono una quota dell'attività nazionale pari al 30 %, superiore a quella tenuta in altri paesi da analoghe realtà economiche. La capacità inventiva e innovativa infatti resta in Italia un fenomeno ancora concentrato nelle organizzazioni economiche con maggior potere di mercato e risorse finanziarie. La fig. 6 mostra l'evoluzione dell'indicatore BTP (Bilancia tecnologica dei pagamenti). Dall'esame dei dati analitici si nota una asimmetria tra esborsi e introiti, illuminante circa la posizione tecnologica nazionale. Una prima conclusione rivela
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un'apparente maturità industriale dell'economia italiana negli scambi tecnologici dal lato degli esborsi, cui si accompagna un ritardo dal lato degli introiti. In sostanza l'economia italiana appare in grado di assorbire tecnologia straniera in misura e qualità simili a quelle degli altri grandi paesi industrializzati europei, senza che a ciò corrisponda una cessione di conoscenze in misura e qualità parag~nabili. Ciò può dipendere da due elementi: la debolezza della R&s interna e la specializzazione internazionale del paese. I settori ad alta intensità di R&s investono relativamente di meno in ricerca rispetto agli standard internazionali. Il grafico mostra tuttavia come negli ultimi anni il peso degli scambi di tecnologia con l'estero sia crescente rispetto allo sforzo interno di R&S. La relativa forza del paese in produzioni a tecnologia intermedia - come il macchinario - o tradizionali - come il tessile-abbigliamento - si manifesta nel peso che assistenza tecnica e know how, piuttosto che brevetti e licenze, assumono nella tecnologia che l'Italia cede. Se brevetti, licenze e invenzioni sono assunti come la parte nobile o centrale della BTP e questa, a sua volta, come più nobile rispetto all'assistenza tecnica, allora l'Italia appare come un paese tecnologicamente al passo dal lato degli esborsi e più in ritardo dal lato degli introiti. La debolezza quantitativa e qualitativa delle tecnologie che il paese cede si riflette anche nel peso, relativamente scarso, che gli investimenti diretti all'estero e le vendite di tecnologia assumono rispetto alle esportazioni. Gli investimenti esteri sono oggi una componente più dinamica delle esportazioni di tecnologia, ma non a caso sono motivati da ragioni commerciali, di presenza diretta sui mercati esteri, piuttosto che da ragioni strettamente tecnologiche. La dipendenza dell'industria italiana dalle tecnologie estere, ma anche un'abilità a perseguire strategie di acquisizione di nuove conoscenze, si riflette, piuttosto, nell'attivismo delle imprese nello stringere accordi di cooperazione tecnologica con imprese straniere. Altri sono gli indicatori di output di cui si potrebbe parlare. D'altronde il commercio di beni ad alta intensità tecnologica, la produttività, le innovazioni sul versante economico-produttivo e la bibliometria, il giudizio dei pari sul versante della ricerca fondamentale sono indicatori che confermano le caratteristiche del sistema scienza/tecnologia del nostro paese, composto da una struttura di valore intermedio con isole di eccellenza e che nell'evolversi mostra un graduale ma lento miglioramento. Tutti i modelli che si sono affermati all'orizzonte europeo nel campo della ricerca e della tecnologia, sono stati variamente centrati sull'identificazione del rapporto scienza/cultura/sistema economico/struttura decisionale. Prerogativa imprescindibile e condizionante è stata pure la tradizione storica, politica, organizzativa dei singoli paesi, oltre, naturalmente, allivello economico e di sviluppo che li caratterizzava.
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2) Analisi comparata
Si presenta difficile, quindi, un'analisi comparata che si basi su una semplice assunzione quantitativa dei fenomeni. La prima osservazione è che, rispetto a un periodo di mezzo secolo, la reperibilità dei dati è stata fortemente condizionata dall'idea stessa di misurabilità dei fenomeni scientifici nei loro aspetti programmatori. Ciò significa che più ci allontaniamo dal presente, più il numero lascia il posto alla percezione. È questo un primo postulato: non è possibile una qualsiasi politica che dalla scienza abbia origine e che a essa faccia ritorno - senza che i decisori dispongano di strumenti descrittivi e di valutazione. E veniamo ora al secondo versante del nostro disegno interpretativo, che si accompagna agli indicatori della scienza e della tecnologia, or ora descritti: e cioè, l'evoluzione degli orientamenti di politica scientifica. L'ambizione è che le rispondenze tra i due aspetti, o meglio, i nodi della maglia di lettura proposta, delineino i contorni e le nervature del sistema scienza-tecnologia del nostro paese. Le due caratteristiche che sembrano emergere dall'incrocio dei numeri con i temi, potrebbero essere riassunte, con buona approssimazione, nella prevalenza dell'occasionale e dell'implicito sul programmato e manifesto in primo luogo e, secondariamente, ma non certo per importanza, con un sostanziale ritardo rispetto al delinearsi delle tendenze mondiali o di contesto territoriale più ristretto. Questo filo conduttore di lettura può essere agevolmente identificato se si suddivide il mezzo secolo passa!o in fasi più definite, caratterizzate da una relativa omogeneità di contenuti e di atteggiamenti. I periodi di riferimento possono essere approssimativamente così ripartiti 1945-1955
la ricostruzione lo sviluppo economico la crisi dei valori e l'introduzione del concetto di politica scientifica l'efficienza economica la riqualificazione degli obiettivi di politica scientifica
La prima fase, e non potrebbe essere altrimenti, è legata al periodo della ricostruzione. Gli sforzi e le risorse per la R&s sono modesti, un livello di sufficienza è ancor tutto da conquistare, tuttavia si ripongono molte speranze nel ruolo della ricerca. Basti pensare alla riorganizzazione del CNR e delle università, al ripristino dei laboratori industriali di ricerca e alla rinnovata collaborazione e cooperazione internazionale. La fase della ricostruzione scientifica è però a sua volta anticipatrice di un mutamento di modello economico di sviluppo, basato su produzioni di contenuto tecnologico non avanzato, fortemente legate all'esportazione.
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Con queste caratteristiche di fondo il secondo periodo, quello del cosiddetto boom economico, se da una parte ha consentito una bnisca accelerazione della crescita, ha nello stesso tempo condizionato e limitato una parallela dinamica del sistema scientifico, in quanto sostanzialmente considerata non necessaria ai fini dello sviluppo. Le conseguenze si sono chiaramente manifestate nel terzo periodo, a partire dalla seconda metà degli anni sessanta, quando la necessità di una presenza non occasionale nella competizione scientifica internazionale e il nuovo interesse per l'idea di pianificazione (con nuovi strumenti legislativi, programmatici e operativi) dotano per la prima volta il sistema di ricerca nazionale di una potenzialità fino ad allora sconosciuta. In realtà questa nuova situazione difettava di un livello di coordinamento e di compensazione sistemica degli interventi, già all'epoca denunciati. La quarta fase - che abbraccia buona parte degli anni settanta, anche se con caratteristiche diverse nei singoli periodi - è quella che potremmo definire della ristrutturazione, in prima evidenza industriale, ma anche organizzativa, ideologica e di costume. Tra i vari effetti delle «crisi petrolifere» basti ricordare la progressiva consapevolezza della improponibilità di uno sviluppo indefinito e della complessiva limitatezza delle risorse disponibili. Si sviluppa anche l'interesse per un nuovo ruolo di supporto della scienza e della tecnologia, sia nelle loro applicazioni pratiche sia nel loro contributo strategico rispetto al confronto internazionale. Assumono sempre più importanza le idee di riconversione e di innovazione, si adeguano gli strumenti a disposizione, inseguendo però, una volta di più, alcuni meccanismi « spontanei». Nell'ultima fase, quella degli anni ottanta, al crescere del peso e della performance dell'economia nazionale, corrisponde una crescita quantitativa del sistema scientifico, ma perdurano le debolezze nei settori strategici, la limitata interazione tra i diversi operatori, la carenza cronica di personale qualificato e di meccanismi di formazione, la carenza di programmazione e coordinamento delle attività. Una seconda chiave di lettura considera che le funzioni della politica della scienza non si sono fermate alla scienza stessa, ma hanno influenzato la ricerca applicata, lo sviluppo, la tecnologia: hanno cioè coperto un'area così vasta (industria, università, enti pubblici di ricerca, servizi tecnici) da assumere un carattere orizzontale divenendo così sempre più difficili da gestire e programmare. - Può la politica della scienza essere allo stesso tempo una politica per la scienza e per la tecnologia? - Fino a che punto essa interessa di più il ministero responsabile dell'istruzione che quello dell'industria? - E se la politica della scienza era caratterizzata dalla priorità assegnata alla ricerca strategica e di prestigio (energia atomica, spazio, difesa), fino a che punto questa politica aveva un impatto sugli altri settori? Queste tre domande sono state alla base del dibattito culturale, scientifico, poli-
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tico, sulla politica della scienza, in tutto il mondo. L'esplosione dei dibattiti sulla big science, sul /all aut, sul gap tecnologico, sulla ricerca militare, i movimenti di critica contro la scienza, l'introduzione di nuovi concetti, accanto a quelli di livello di vita e di sicurezza sociale, come la qualità della vita, ecc. sono tutti sintomi di una generale esigenza di rispondere a un nuovo tipo di domande, che orientano la politica della scienza verso i bisogni dell'uomo, già divenute, nelle legislazioni più avanzate, diritti sociali in senso proprio. 3) Considerazioni conclusive
Quali sono i risultati della nostra politica scientifica in questo mezzo secolo di storia? Valutiamo il tratto di strada compiuto riferendolo a cinque questioni che caratterizzano il nostro sistema scientifico. Tre si riferiscono a elementi del sistema (attività di ricerca, di formazione, di gestione); il quarto (problema del Mezzogiorno) è relativo a una parte del sistema italiano; il quinto (collaborazione internazionale) è relativo all'interazione e all'interdipendenza tra il nostro sistema e quello più generale. Sul piano della ricerca, dagli indicatori disponibili riscontriamo un generale appiattimento: isole di eccellenza in un mare di mediocrità. Sul piano della formazione, vi è una duplice carenza: da un lato, una ridotta produzione di ricercatori; dall'altro, un limitato numero di laureati e ricercatori nei settori scientifici strategici per il paese. Sullo sfondo: un insufficiente grado di istruzione del paese. Sul piano della gestione, si riscontrano ancora, nonostante l'intervenuta normativa sull'autonomia delle università e degli enti di ricerca, una centralizzazione burocratica, una rigidità formale che costituiscono un notevole ostacolo allo sviluppo. Per il problema del Mezzogiorno, poi, il fallimento sembra ancor più evidente perché misurabile. La politica delle « riserve » di incentivi e di finanziamenti è ormai superata alla luce dei risultati. Basti riflettere sul fatto che nel Mezzogiorno - in cui risiede oltre un terzo della popolazione e in cui i giovani in « età universitaria » costituiscono oltre il 40 % del totale del Paese - gli investimenti in ricerca si aggirano intorno al 7 % di quel che si investe in Italia; e che, per esempio, le spese per ricerca applicata e per ricerca di sviluppo in Campania - ove nel 1994 oltre il 6o % dei giovani al di sotto dei 25 anni risultava privo di occupazione - oscillano, negli ultimi anni, rispettivamente intorno al 3% e all'I% del totale nazionale. Il cavallo non beve, nonostante che l'abbeveratoio degli incentivi pubblici sia stato ampliato, reso più agibile con il sistema delle riserve. Sembra di poter dire che tutta la capacità di ricerca del Mezzogiorno possa esser soddisfatta dal finanziamento ordinario, che vi sia una saturazione delle esigenze espresse - non certo di quelle esprimibili - rispetto alle risorse offerte. È giunto il momento di elaborare e concordare una diversa politica scientifica per il Mezzogiorno. Anche per la collaborazione internazionale la situazione non è soddisfacente e vi sono molti passi in avanti da fare.
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I dati disponibili testimoniano lo sforzo che il paese ha compiuto per inseguire i paesi più avanzati: il tasso di crescita è stato elevato ma il distacco è più o meno costante. Va ricordato che nell'immediato dopoguerra lo sforzo della ricostruzione assorbì in Italia tutte le energie dello stato e gli investimenti nella ricerca furono molto limitati (nel 1959, solo lo 0,3 % del PIL viene destinato alla ricerca scientifica): si sceglieva di investire nel presente. Mentre, altri paesi europei, pur prostrati dalla guerra investirono subito nel futuro, nella ricerca (Francia, Germania, Regno Unito, Paesi Bassi nel 1959 impegnarono l'I% del PIL nella ricerca scientifica). Da una semplice lettura dei dati, appare che il sistema scientifico italiano si collochi intorno a una soglia naturale che ancor oggi non raggiunge 1'1,5% del PIL, ben al di sotto dell'obiettivo auspicabile. Il fenomeno di livellamento generale, con poche eccezioni, che caratterizza strutturalmente il nostro sistema di ricerca, non costituisce solo un paradosso, ma anche un segnale di allarme che deve trovare risposta sia progettuale che morale. Sviluppo, in senso generale, significa che la grande maggioranza di una popolazione gode di standard elevati producendo funzioni di qualità mediamente elevate. Il fatto che in Italia molti sub-sistemi sociali, tra cui quello della ricerca, siano caratterizzati da standard qualitativi mediamente bassi pone, quindi, un problema generale di sviluppo ed esorta a evitare una retorica che confonda la vivacità economica di un popolo con il suo pieno sviluppo civile e culturale. V
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EPILOGO
In uno scenario a medio termine si prevede che i prossimi decenni siano marcati da tre rivoluzioni, che modificheranno profondamente i modi del pensare e dell'agire, quindi del vivere: quella informatica, quella biologica e quella dei nuovi materiali. Attraverso una cultura di tipo interdisciplinare e mediante tecnologie sempre più sofisticate, la società tende sempre più marcatamente all'informatizzazione: una rivoluzione informatica dovrebbe riuscire a realizzare una rete informativa globale diffusa in ogni parte del sistema sociale. La rivoluzione biologica, invece, tende a una manipolazione più complessa, a trasferire il patrimonio genetico di un organismo a un altro per correggerlo o modificarlo, per rimediare, cioè, a disordini genetici, o addirittura, per costruire nuove specie vegetali e animali. Essenziale è la possibilità, mediante le tecniche di ricombinazione del DNA, di mutare il contenuto di informazione delle cellule attraverso la modifica delle istruzioni di programma. Ciò comporta l'ipotesi che la cellula produca o modifichi qualsiasi struttura proteica esistente in natura: la cellula si trasforma così in una specie di impianto di produzione di composti molecolari. Con l'integrazione dell'informatica, dell'elettronica, della robotica nella produzione industriale si accresce enormemente la gamma di prodotti, possibilità e
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opzioni; si espandono parimenti esigenze e innovazioni, si arricchisce il significato e la qualità del vivere modificando obiettivi sociali e aspirazioni individuali. La rivoluzione dei nuovi materiali porta al superamento della fase in cui, attraverso la scienza e la tecnologia dei materiali, si maturano le competenze per predisporre materiali atti a far fronte a funzioni caratteristiche di cui dovrà disporre il nuovo prodotto; il materiale non deve più costituire un vincolo per la progettazione, esso stesso dovrà tendere a divenire struttura. Materiale e struttura si avviano a identificarsi, non solo concettualmente ma anche di fatto. Per esempio, quando una lega a memoria di forma, fissata sulla superficie di un satellite, si apre nello spazio e diventa antenna, o quando una lega superplastica, soffiata contro lo stampo, diventa scocca di un teleruttore; e quando la flessibilità strutturale delle materie plastiche si traduce direttamente nelle funzioni più disparate. Allora, mentre le funzioni cui il materiale è preposto acquistano un peso crescente, la struttura diventa più leggera e compatta. Il materiale diviene esso stesso oggetto del progetto. Le conoscenze tecniche sempre più approfondite e i nuovi sviluppi delle metodologie sperimentali consentono, infatti, di progettare e produrre ab initio (con metodi che si potrebpero,definire di ingegneria molecolare) molecole o sistemi supermolecolari con pre~edibili comportamenti e proprietà. Ciò significa che nell'ambito del progetto, il materiale, da vincolo qual era, configurerà un linguaggio concreto, una sorta di DNA, in termini del quale il progettista potrà esprimersi con una versatilità, una immediatezza e una libertà che, in prospettiva, troveranno un limite solo ·nella creatività e nella fantasia dell'invenzione. Le tre rivoluzioni in atto, quella informatica, quella biologica e quella dei nuovi materiali, paiono avere un minimo comune denominatore, che le condurrà a interagire in un nuovo tentativo epistemologico, oltre che scientifico e tecnologico, di unificazione del sapere. La sostanza comune è rappresentata dall'informazione, dal trattamento, dall'elaborazione, dalla ricombinazione del messaggio informativo, dal contenuto euristico dell'informazione. Si può dire, per ora, che si intravedono simiglianze, intrecci e percorsi comuni tra le leggi della natura e quelle del corpo sociale. Non si conoscono sufficientemente gli enzimi sociali; ma gli studi sull'intelligenza artificiale e quelli sulla filosofia degli automi consentono di sottolineare, almeno sul piano metodologico, le interconnessioni e i possibili passaggi tra i diversi livelli concettuali di memoria (genetica), di progetto (biologico), di anticipazione del futuro quale dimensione già presente nell'uomo, di previsione scientifica, di previsione tecnologica. Ma molto differenti sono ancora i modelli e le procedure. Italo Calvino scriveva in Lezioni americane: «... il cristallo, con la sua esatta sfaccettatura e la sua capacità di rifrangere la luce, è il modello di perfezione che ho sempre tenuto come emblema e questa predilezione è diventata ancor più significativa da quando si sa che certe proprietà della nascita e della crescita dei cristalli somigliano a quelle degli esseri biologici più elementari, costituendo quasi un ponte tra il mondo minerale e la mate-
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ria vivente [ ... ] i modelli per il processo di informazione negli esseri viventi sono da un lato il cristallo (immagine di invarianza e di regolarità di strutture specifiche), dall' altro la fiamma (immagine di costanza d'una forma globale esteriore, malgrado l'incessante agitazione interna)». Profonde distinzioni, per esempio, separano il trattamento elettronico da quello biologico dell'informazione: la fisica del solido da un lato, la biofisica molecolare dall'altro; le procedure sequenziali si contrappongono a quelle in parallelo; il bit d'informazione a sistemi complessi. La sintesi consisterebbe nel riprodurre l'ordine del vivente allo scopo di ricavare macchine operative, proprio come è stato immobilizzato l'ordine dei cristalli per sviluppare l'elettronica. Questa, partendo dai cristalli atomici simmetrici dai motivi periodici semplici, modifica localmente le proprietà elettriche sino a integrare nel solido stesso - in pratica in una piastrina di silicio - dei circuiti complessi capaci sia di memorizzare informazioni elementari che di effettuare operazioni di base. Attraverso le varie generazioni di calcolatori si è via via progredito nel senso della integrazione, guadagnando in miniaturizzazione, affidabilità, rapidità, costo. Ma in prospettiva, al di là di certi limiti, non sembra sia più possibile andare: si dovrà abbandonare la fisica del solido e percorrere sentieri nuovi verso la chimica e la biologia. Invece di lavorare su cristalli atomici, si potranno utilizzare materia molecolare, catene polimerizzate o cristalli organici. Passare dal mondo atomico a quello molecolare significa avanzare di un grado nella complessità e, quindi, nella flessibilità e funzionalità. Quando entra in gioco la complessità è necessario introdurre concetti completamente nuovi, tutti correlati alla struttura, ma in un senso più ampio di quanto non fosse concepibile qualche decennio fa. Chiari segni indicano la differenza: le leggi che determinano le strutture in fisica non sono di natura puramente fisica, come le leggi di Newton o di Maxwell: esse sono logiche, connesse con l'informazione, l'entropia, la strutturazione di sistemi complessi in livelli. Tali leggi - che alcuni sostengono essere valide dai jet di adroni ai cluster di galassie - non rientrano nella meccanica né classica né quantistica. Il punto di vista è rafforzato dal fatto che esattamente le stesse leggi emergono da vari sistemi organizzati completamente diversi dalla fisica, come per esempio, la linguistica matematica. I primi studi sulla complessità consentono di indicare alcune linee del nuovo modello di riferimento in cui il principio di organizzazione non è totalizzante, ma consente un certo margine all'aleatorio e al disordine: nella sua attività l'organizzazione modifica situazioni preesistenti e produce necessariamente disordine. Alla riorganizzazione sottostà, per il principio di opposizione, di antagonismo, il disordine; senza il disordine l'organizzazione non potrebbe essere. L'oggetto elementare diviene allora la molecola, la cui architettura rappresenta un livello d'integrazione superiore all'atomo. Ma queste strutture complesse offrono numerose possibilità per la costruzione di sistemi che trattino l'informazione. Che cosa occorre? Calcolo e memoria: funzioni, cioè, capaci di occupare due stati diversi e di consentire la propagazione di un flusso energetico che agisce su questi diversi oggetti.
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Circuito di calcolo e niente memoria: il meccano, anzi il volano dell'informatica può continuare. E quindi, sul piano delle ipotesi operative a breve-medio termine, non possiamo trascurare le tecnologie dei cosiddetti biocalcolatori, cioè la memorizzazione e il recupero dell'informazione mediante microrganismi suscettibili di trasformazioni per assicurare talune funzioni logiche. Si ricordano qui le macchine evolutive, strumenti biochimici fondati sulle rotture di simmetria, costruite da Manfred Eigen, premio Nobel per la chimica, nei laboratori del Max Planck Institute di Gottingen. A questo punto si può concludere che la scienza e la tecnologia di una società tendono a soddisfare i bisogni immediati che la società concepisce come propri: la scienza e la tecnologia sono dunque l'immagine della società. D'altra parte il problema dell'equilibro scienza-tecnica si pone come centrale in tutti i tempi e in tutte le culture, pur nella varietà dei momenti storici. E tale problema acquisisce, con il passare dei secoli, un sempre maggiore rilievo, così come avviene per le tendenze e gli sviluppi della ricerca che è condizionata e orientata dalle esigenze, dalle sollecitazioni pratiche e dall'evoluzione culturale della società. Non è possibile, pertanto, tracciare una linea del progresso sulla base della sola storia della scienza o dei dati forniti dallo sviluppo tecnologico: ogni indicazione circa le tendenze deve tener conto delle mutate situazioni culturali e delle concezioni filosofiche che le ispi· rano. Se si intende affrontare il problema dei nuovi bisogni dell'uomo, cioè di una diversa visione e concezione della vita e del mondo, si devono operare scelte essenziali in ordine al modo di intendere l'uomo e la società. Solo dopo ci si può chiedere quali siano i mezzi per mutare il meccanismo sociale. Si è generalmente d' accordo che la maggior parte dei sintomi di cattivo funzionamento della società odierna siano espressione del fatto che un mondo ristretto, composto di piccoli gruppi, si è dilatato, in un tempo relativamente breve, sino a divenire una grande società. Questa trasformazione non guidata, in taluni ambiti tumultuosa, in altri accelerata, ma sempre ineguale, ha causato disordini, incongruenze, problemi in ogni parte della vita sociale. Infatti la tendenza al superamento di molteplici confini (geografici, politici, ideologici, razziali, religiosi, di costume, ecc.) provocata dall'azione raziocinante della scienza e dalla diffusione dell'informazione, suscita contrasti e squilibri perché muta il quadro di riferimento logico-psicologico dell'individuo e della società. E se è vero che l'ambiente sociale stimola con le sue richieste le risposte della scienza è anche vero che la società è talmente influenzata dai risultati scientifici da modificare le sue esigenze e le sue sollecitazioni. Le tecnologie dell'informazione hanno anche il compito del «controllo» dei sistemi complessi che ormai costituiscono la struttura sociale. È interessante notare che le tecnologie dell'informazione rispondono a esigenze poste in luce in primo luogo dalla filosofia e dalla politologia. Le grandi intuizioni di Popper e Kelsen si concentrano nell'idea di controllo sia in epistemologia sia nella teoria della politica.
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In epistemologia si tratta di escogitare e perfezionare regole (le regole del metodo) funzionali al controllo delle teorie, in modo da avanzare verso teorie con maggior potere esplicativo e previsivo. Parimenti, nella teoria della politica si tratta di esplicitare quelle regole (le regole della democrazia) che, tradotte in istituzioni, permettono il controllo dei governanti. È evidente come tali obiettivi possano essere realizzabili con una forte informazione della società e dei suoi processi organizzativi. Tale «funzione di controllo» va estesa anche all'area dei problemi complessi indotti dalla rivoluzione biologica e da quella dei nuovi materiali. Appare ormai urgente tradurre i « valori » in un sistema di regole che consentono il controllo sociale, cioè l'orientamento dell'impulso ad attività tese a costruire nuove specie vegetali e animali, nuove forme vitali (regole etiche) e la valutazione dell'impatto sociale dell'impiego dei nuovi materiali (regole di economia sociale) per gli aspetti sia di produttività sia di creatività. Il giudizio degli esperti è ormai convergente: dopo l'era agricola e quella industriale, siamo entrati nell'era dell'informazione. Questa capacità trasformativa, questa rivoluzione informatica è concentrata sulle sponde del Pacifico (Stati Uniti e Giappone) e nell'Europa occidentale. Ancora una volta gli altri paesi non partecipano se non di riflesso, subiscono questa evoluzione accelerata, non collaborando né alla scelta degli obiettivi né alla ricaduta tecnologica, riducendosi a un mercato passivo. Ciò significa che un altro tipo di gerarchia internazionale, ben più rigida e totalizzante di quella passata del prepotere militare e commerciale, si va imponendo: quella del divario scientifico e tecnologico. Questo, a sua volta, provocherà un incremento vertiginoso delle risorse impegnate per la formazione e la ricerca; cioè, un potenziamento del ruolo delle imprese di trattamento e trasmissione delle informazioni e uno spostamento massiccio dell'occupazione verso i servizi relativi all'informazione. Tutto ciò in un sistema sociale notevolmente più complesso e articolato, che vedrà aumentare l'interdipendenza internazionale e sorgere gravi problemi di rigidità strutturale, che occorrerà superare per recuperare flessibilità e reattività. Questo, per le società avanzate, è il problema degli ultimi anni del secolo. VI
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LA
POLITICA NEGLI
DELLA
ULTIMI
RICERCA
IN
FISICA
TRENT'ANNI
La ricerca scientifica nel campo della fisica rappresenta, in una certa misura, un caso a sé nel panorama delle attività internazionali di ricerca. Dopo la seconda guerra mondiale, un impulso nuovo viene dalla constatazione che i grandi laboratori di ricerca, finanziati dallo stato, con impianti a disposizione della comunità intera, permettono sviluppi che a nessun laboratorio universitario o dell'industria sono possibili, nemmeno nelle più aperte forme di collaborazione. È, purtroppo, il « Progetto Manhattan » per la realizzazione della bomba atomica a fornire questo nuovo modello; ma la tendenza ha indubbiamente i suoi meriti. Negli Stati Uniti, 470
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la svolta corrisponde a un vero mutamento nella linea politica dell'amministrazione federale: il finanziamento pubblico supera, nei primi anni cinquanta, la spesa per la ricerca dell'industria privata. Con questo, muta anche, almeno in parte, l'obiettivo degli investimenti perché l'industria americana - per quanto lungimirante e meno condizionata, rispetto ad altri paesi, dagli investimenti strettamente produttivi - è certamente molto lontana da interessi di frontiera come quelli che pesano, per esempio, sulla fisica delle particelle elementari o sulla fisica dell'universo. Accade così che l'amministrazione federale reperisca i fondi necessari per costruire laboratori dotati di grandi acceleratori, incominciando la scalata verso la produzione di fasci di particelle di energia e intensità sempre crescenti, in concorrenza con i rari e occasionali raggi cosmici. Un punto d'arresto a questa continua scalata è segnato dalla scelta politica del 1993 di non finanziare il più grande acceleratore del mondo, il cosiddetto ssc (Superconducting Super Collider), di cui era già iniziata la costruzione. Oggi possiamo descrivere lo sviluppo americano nel settore come una parabola completa, al termine della quale esso viene bloccato per ragioni economiche (peraltro deboli, se il confronto è con altre spese, per esempio con quelle militari). Va detto che una parte non trascurabile del fallimento del programma dei fisici americani è da ascrivere all'imposizione, da parte dell'amministrazione, di nuovi criteri di gestione assai più burocratici e dispersivi di quelli comunemente adottati nella comunità scientifica. Il caso del ssc è un esempio di ritardi e spese inutili provocati, nella fase di avvio del progetto, dalla incompatibilità di regole indiscriminate ed esigenze di efficienza (basti pensare alla flessibilità necessaria per modificare in corso d'opera un progetto che non ha precedenti). Ma gli Stati Uniti non sono stati certo i soli a imboccare la strada dei grandi laboratori (Berkeley, Brookhaven, Argonne, Cambridge, Stanford, Cornell, sino al Fermi Lab, presso Chicago). Nell'Unione Sovietica sorgono grandi centri di ricerca (Dubna, Novosibirsk, Serpukhov), e così in Europa (Saclay, Orsay in Francia; Rutherford, Harwell, Culham in Inghilterra; Amburgo, Garching in Germania; Frascati in Italia, per citarne solo alcuni) e, più tardi, in Giappone e anche in Cina. Inoltre, la fisica spaziale, la fisica dei plasmi e della fusione nucleare, l'astrofisica si avviano su una dimensione nazionale anziché locale, e poi su una sovranazionale. Già negli anni cinquanta, prende corpo, come laboratorio europeo, il CERN, Centro Europeo di Ricerca Nucleare, che ha sede a Ginevra ed è finanziato dai governi europei; il CERN è oggi la più grossa struttura di ricerca internazionale· e, fra qualche anno, disporrà del più grande acceleratore esistente (LHc, per Large Hadron Collider), dopo l'interruzione del ssc americano. Anche gli astronomi godono da qualche tempo di strumenti e osservatori di grandi dimensioni, dopo i fasti dei celebri telescopi di Mount Wilson e Mount Palomar, fino a quello di Zelencukskaja nel Grande Caucaso; con osservatori come quello di Jodrell Bank presso Manchester e altri analoghi, di Effelsberg presso Bonn e di Arecibo in Portorico, anche la radioastronomia raggiunge le dimensioni di big science, fino a comportare la realizzazione 471
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di strumenti come i radiotelescopi collegati, distribuiti su una base di 10.200 km che va dalla Spagna alle Hawaii (VLBI, Very Long Base Inter/erometers). Le dimensioni delle imprese strumentali astronomiche in tutte le parti dello spettro elettromagnetico, dall'infrarosso ai raggi gamma, diverranno notevoli non appena i satelliti incominceranno a porre in orbita strumenti astronomici di vario tipo. 1) La comunità dei fisici e il suo impatto sociale
I fisici costituiscono una comunità internazionale molto forte tra le altre comunità scientifiche. Ma sono anche un gruppo rispettato negli ambienti politici per molteplici motivi, non ultimo quello di essere stati utili al potere militare costruendo la bomba atomica. Secondo una frase ormai celebre di Robert Oppenheimer, essi «hanno conosciuto il peccato»; ma sono anche stati, successivamente e già alla fine della seconda guerra mondiale, gli animatori principali della rinuncia consapevole alle armi nucleari, particolarmente nel «Movimento Pugwash » (Nobel 1995 per la pace), che prese le mosse dal Manifesto Einstein-Russell del 1953. I fisici contribuiscono molto allo sviluppo di tecnologie attraverso le ricadute della ricerca fondamentale, o addirittura lavorando direttamente a problemi di tecnologie avanzate che, solo occasionalmente, forniscono risultati rilevanti per le conoscenze di base (come nel caso di Arno A. Penzias e Robert W. Wilson della Beli Telephone, premi Nobel nel 1978 per avere capito che un certo «rumore» elettromagnetico ineliminabile nelle loro apparecchiature era dovuto alla radiazione di fondo che pervade l'universo). A differenza di altre comunità, quella dei fisici collabora con facilità al di sopra delle divisioni nazionalistiche, perfino quando i rapporti internazionali sono tesi (come all'epoca di Nikita Kruscev e dell'abbattimento dell'aereo-spia U2 americano in territorio sovietico), è quindi utile ai rapporti diplomatici e alla distensione. Il sostegno alle attività di ricerca non è così integrato nella cultura contemporanea come, per esempio, quello che riguarda l'istruzione o la salute. Il motivo principale è che, in ogni paese, si riproducono e si agitano forti movimenti di opinione contro la scienza, particolarmente contro la fisica, la chimica e la genetica; e il motivo che suscita queste reazioni è sempre lo stesso: la scienza modifica la realtà naturale. Di fronte alla radicata quanto gratuita convinzione della grossa parte della pubblica opinione che la realtà naturale sia «buona» in sé, ogni argomentazione basata su valutazioni dei rapporti tra benefici e rischi delle innovazioni tecnologiche diviene assai ardua da sostenere, anche quando l'evidenza dei fatti è schiacciante (come nel caso dei comfort di cui gode la popolazione dei paesi sviluppati da qualche decennio in qua, o nel caso dell'allungamento della vita media). Il tratto, per così dire «fideistico», dell'opposizione è abbastanza evidente nell' attribuzione di tutti i mali alla scienza in sé piuttosto che alle politiche produttive dei vari paesi e ancor più ai gruppi industriali multinazionali (per non dire a una certa anarchia dei produttori). In altri termini, la scienza funge da capro espiatorio 472
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in un clima di recriminazione e disapprovazione generato da altri fattori, sui quali gli scienziati non hanno alcun controllo. La questione reale è infatti il «controllo delle tecnologie», che richiede sia competenze sia capacità politica. La conseguenza più immediata di un tale problema generale è che l'impresa scientifica, non essendo considerata come un interesse permanente e comune, è soggetta alle fluttuazioni umorali dell'opinione pubblica e ai problemi del consenso; inoltre, le parti che maggiormente soffrono di tagli di spesa sono proprio quelle a carattere più fondamentale, più lontane da interessi industriali e meno immediatamente comprensibili al pubblico. Nel Regno Unito, per esempio, la tentazione di ridurre le cifre destinate a impegni sia interni sia internazionali è una costante (e spesso una soluzione) dei programmi economici; negli Stati Uniti, la cancellazione del ssc è stato un riflesso di politiche economiche che privilegiano lo sviluppo del mercato e del profitto privato; e anche in Italia le difficoltà economiche dei governi riportano alla tentazione di tagliare gli investimenti di ricerca fondamentale o, peggio ancora, al dirottamento di parte dei fondi verso industrie assai poco attrezzate per lo sviluppo dell'innovazione. Le politiche della ricerca, dunque, sono fortemente condizionate da fattori esterni e l'opinione pubblica considera la scienza un lusso nel migliore dei casi, una «minaccia» nel peggiore. 2) Valutazioni di tendenza
Gli aspetti dell'impresa scientifica che maggiormente toccano la pubblica opinione sono, al di là della spettacolarità di alcuni risultati e del gergo pittoresco che talvolta li sottolinea (buchi neri, quark, frattali e via discorrendo) quelli storici e quelli epistemologici. E qui gli scienziati hanno una colpa non marginale, quella di considerare questi aspetti come secondari e persino fastidiosi. Come ha sostenuto il biologo François Jacob, l'umanità è ancora pervasa dal pensiero mitologico inteso come «sistema interpretativo », il che blocca lo sviluppo del pensiero razionale collettivo come sistema interpretativo di natura ed efficacia radicalmente diversa; e non si tratta, come si potrebbe pensare, di un atteggiamento solo popolare, ma esso è proprio della maggior parte degli intellettuali (non di scienza) contemporanei, sostenuti da diffusi discorsi su misteri inquietanti e da paure innate. In tutto il mondo, però, i sistemi d'istruzione secondaria sono ancora in forte ritardo nell'analisi del modo di pensare che sottostà alla cultura di oggi, così che una crescita intellettuale collettiva sembra molto lontana. Di nuovo, le conseguenze sulle politiche della ricerca, benché apparentemente remote, sono alla fin fine assai gravi e, spesso, imprevedibili .. Tra le vicende che hanno pericolosamente accomunato scienza e paure si può sicuramente annoverare, specie nel caso della fisica, quella dei reattori nucleari per la produzione di energia a uso industriale e domestico. I reattori hanno avuto una matrice tale da mescolare, nella pubblica opinione, usi militari, ricerca scientifica e 473
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interessi industriali: la pubblica riprovazione di uno di questi elementi trascina inevitabilmente con sé gli altri due e diviene pretesto per un rifiuto più esteso. Dove uno stato compatto e forte sebbene democratico ha sviluppato tutti e tre questi settori, come in Francia, nemmeno la catastrofe russa di Chernobyl ha potuto intaccare i programmi; al contrario, in Italia, dove un programma militare non c'è mai stato ma la ricerca fondamentale in fisica nucleare è stata di primo piano, lo sviluppo dei reattori si è interrotto, una prima volta nel 1963 per violente controversie politiche con il «caso Ippolito » e poi, definitivamente, per malinteso referendum popolare nel 1987. Al di là delle opinioni individuali, è difficile capire quale sia l'impatto di queste vicende sullo sviluppo della ricerca; si può però affermare, forse, che anche su questi argomenti i conflitti politici e sociali sono alquanto scomposti e, quando divampano, lasciano una duratura scia di indifferenza e di incapacità di recupero. Le incertezze e le fluttuazioni, che hanno costellato la storia degli ultimi decenni toccano comunque profondamente un problema che è determinante nello sviluppo della politica scientifica: quello della formazione dei giovani scienziati. Va sottolineato che, quando un settore di ricerca viene depresso per fattori esterni e non per esaurimento dell'interesse culturale, la perdita di competenze è molto rapida mentre, invece, la loro ricostituzione è molto lenta. A ogni paese sviluppato converrebbe di gran lunga investire nel mantenimento di una varietà di competenze scientifiche di tutti i tipi, anche quando il settore non promette vantaggi immediati; se, per esempio, non appare più ragionevole indirizzare giovani ricercatori verso una specializzazione di base nello studio dell'emissione termoionica o dell'acustica, al contrario appare indispensabile mantenere in vita con forze fresche un settore, come quello dei gas ionizzati e delle macchine a plasma, per le difficoltà intrinseche che ne rallentano inevitabilmente lo sviluppo e per lo scarso interesse che i gruppi industriali dimostrano per i programmi di durata troppo lunga. Uno dei rischi dei settori « difficili» è infatti quello dell'invecchiamento degli esperti, ed è compito della comunità favorire l'afflusso di giovani di buone capacità e provvedere al finanziamento delle loro ricerche anche (ma non soltanto) in vista delle applicazioni produttive. Vi è poi un fenomeno recente che merita qualche considerazione: nei paesi con buone strutture universitarie la formazione ai più elevati livelli di conoscenze è accessibile a tutti, talvolta dietro il pagamento di contributi o tasse assai elevati. Paesi meno sviluppati possono avere un forte interesse a ~nviare i loro giovani migliori a studiare in quelle strutture universitarie, dietro promessa di un impiego con alta retribuzione al ritorno in patria presso laboratori industriali specializzati concepiti per battere sui mercati la concorrenza. Dunque, i paesi forti contribuiscono con le loro strutture consolidate alla formazione di intelletti che faranno la fortuna della concorrenza: questo è un tipo di internazionalizzazione che forse va al di là delle intenzioni politiche di qualunque governo e, in questo senso, costituisce un pro474
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blema, insolubile, a meno di voler introdurre misure restntttve inaccettabili per i paesi democratici. Sta di fatto, che dietro un investimento modesto per la formazione di poche centinaia di specialisti (sia pure con stipendi sufficientemente allettanti), molti paesi asiatici che non hanno strutture formative di ricerca fondamentale arrivano a invadere il mercato con prodotti di elevata qualità a costi più bassi. Questa via è diversa da quella della rinascita postbellica del Giappone, centrata sulla «imitazione» delle tecnologie avanzate e comunque guidata, dall'interno, da eccellenti ricercatori noti in tutto il mondo. VII
· ITALIA
Gli anni sessanta rappresentano, per la fisica italiana, un periodo d'oro nel quale prendono corpo molti sogni dei ricercatori che avevano contribuito a ricostruire un ambiente ristretto dal fascismo e dalla guerra. Ma, con il finire del decennio, la ricerca in questo settore deve scontare le conseguenze di due vicende che ne hanno ritardato lo sviluppo: il « caso Ippolito » sul problema del controllo delle risorse energetiche, una vicenda di interesse nazionale, anche se con matrice « multinazionale», e la «contestazione giovanile del '68», di portata internazionale. Quest'ultima vicenda non ha avuto sin ora l'attenzione che forse meritava per quanto riguarda i suoi effetti di lungo periodo sulla ricerca; molto probabilmente, il punto di vista degli storici è ancora viziato dall'idea, tipica di un certo paternalismo abdicatario, che la ribellione giovanile debba essere accettata in quanto segno di una vitalità di per sé positiva. Il caso Ippolito, invece, è un buon esempio di come il potere politico abbia annullato, anche in tempi recenti, ogni tentativo di raggiungere livelli di autonomia di iniziativa e di pensiero (sconosciuti e perciò invisi) alla burocrazia statale così come al potere dei privati imprenditori. In tale periodo i progressi della ricerca in fisica riguardano, negli aspetti più vistosi, il settore nucleare e delle particelle elementari, nel quale domina la figura eccezionale di Edoardo Amaldi (1908-89) e si distinguono personaggi internazionalmente noti come Gilberto Bernardini (1906-95), Marcello Conversi (1917-88), Antonio Rostagni (1903-88). La circostanza favorevole è il prestigio ereditato dalla scuola di Enrico Fermi (1901-54), che ha avuto parte molto significativa nella creazione della cosiddetta big science grazie alle scoperte sull'azione dei n eu troni lenti (anni trenta) e poi alla presenza attiva nelle ricerche sui raggi cosmici (Laboratori di Plateau Rosà e della Marmolada). Ma il grande salto avviene con lo sforzo per la costruzione di un elettrosincrotrone da rooo MeV nei Laboratori nazionali di Frascati, presso Roma. L'acceleratore, completato sotto la direzione di Giorgio Salvini, entra in funzione nel 1959 e produce immediatamente risultati di un certo rilievo che circolano nel giro internazionale degli specialisti. I Laboratori di Frascati sono sotto la giurisdizione del Comitato Nazionale per l'Energia Nucleare (allora CNEN, oggi ENEA), di cui è segretario generale Felice Ippolito; passeranno all'Istituto Nazionale 475
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di Fisica Nucleare (INFN) negli anni settanta, quando questo ente si sgancerà completamente dal CNEN rilevando la parte relativa alla ricerca fondamentale (mentre al CNEN resterà la parte riguardante lo sviluppo dei reattori per la produzione di energia elettrica). Nei primi anni sessanta, presso i Laboratori di Frascati viene sviluppato un nuovo tipo, del tutto inedito, di acceleratore di particelle, l'anello di accumulazione per elettroni e positroni, su un'idea di Bruno Touschek (1920-78), un fisico austriaco trasferitosi in Italia nel 1953. L'anello da 200 MeV, detto AdA, è un successo quasi immediato: Amaldi, Ippolito e Salvini si adoperano perché sia finanziato e costruito in tempi brevi. Già nel 1961, il buon funzionamento del piccolo prototipo suggerisce l'opportunità di realizzare una macchina di più grandi dimensioni, un anello per fasci di elettroni e positroni da 1500 MeV che verrà denominato Adone e sarà completato alla fine del 1967 sotto la direzione di Fernando Amman (uno dei costruttori dell'elettrosincrotrone di Frascati). Con Adone, i fisici italiani si trovano in una posizione assolutamente unica: una variante di macchine di questo tipo, ma per soli elettroni, costruita negli Stati Uniti grazie a una collaborazione tra Princeton e Stanford, stenta a funzionare e comunque non sfrutta (in assenza dei positroni) i vantaggi che questi impianti offrono dal punto di vista della qualità della fisica. I francesi (con i quali il gruppo di AdA ha collaborato intensamente) realizzano a Orsay, presso Parigi, un anello più modesto di Adone; e così pure i russi di Novosibirsk, sebbene con difficoltà tecnologiche rilevanti. A partire dagli anni settanta, acceleratori di questo tipo soppiantano quasi tutti quelli esistenti, diffondendosi nei grandi laboratori di tutto il mondo, negli Stati Uniti come in Europa, in URSS, in Giappone e in Cina. La loro qualità principale è di essere decisamente più economici, pur raggiungendo energie impensabili con i vecchi sincrotroni; ma, soprattutto, essi aprono la strada ad aspetti della fisica delle particelle elementari che, fino ai primi anni sessanta, sembravano inaccessibili, ed erano quelli che avevano guidato la proposta lungimirante di Touschek. La costruzione dell'anello fu però messa in serio pericolo dal « caso lp polito »; come ha scritto Amman: «Nell'estate del 1963 l'atmosfera al CNEN stava diventando sempre più soffocante [. .. ] Il successivo recupero fu molto lento e certamente quel fatto ebbe conseguenze di lungo termine sul programma Adone, a parte gli immediati ritardi negli ordini di altri componenti, come i magneti». Merita forse la pena di ricordare che il posto di Ippolito fu preso da un funzionario ministeriale che non aveva mai avuto rapporti con il mondo della ricerca. Più tardi, accadde che le prime prove di macchina su Adone coincidessero con l'inizio del '68, anno in cui molte delle attività, già difficili sul piano tecnico a causa della loro novità, furono sensibilmente rallentate dalla «contestazione». Si giunse, più tardi, alla paralisi prolungata. In una meticolosa biografia di Touschek, Amaldi scriverà: «Non appena Adone era stato in condizione di funzionare, uno sciopero aveva impedito la sua utilizzazione dal 30 maggio 1969 al 19 settembre e anche nei mesi successivi il lavoro
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era stato ripreso ma senza l'impegno e l'entusiasmo che le caratteristiche della macchina avrebbero meritato. » Indubbiamente, le cose andarono meglio che altrove: il Laboratorio internazionale di genetica di Napoli, messo in piedi da Adriano Buzzati Traverso, fu completamente sfasciato dalla contestazione. I Laboratori nazionali di Frascati non sono la sola sede in cui si sviluppa la fisica programmata nell'INFN. Nei Laboratori nazionali di Legnaro, presso Padova e nel Laboratorio del Sud (Catania) si svolgono attività nel campo della fisica sperimentale dei nuclei, con partecipazione di ricercatori di tutte le università italiane, con l'impiego di acceleratori di ioni del tipo detto di «bassa energia». Così pure, presso i Laboratori nazionali di Frascati, ma sotto la giurisdizione del CNEN, prima e, poi, dell'ENEA, l'Italia partecipa ai grandi programmi di sviluppo della fisica dei plasmi con l'obiettivo di realizzare reattori a fusione in impianti a confinamento magnetico (Tokamak). Analoghe attività si svolgono sia a Padova che a Milano, con la partecipazione del CNR e dell'università. Amaldi, già negli anni cinquanta, era stato uno dei sostenitori, forse il più determinato, della realizzazione del CERN. Il CERN era entrato in funzione nel r96o con un sincrotrone per protoni da 30 GeV che aveva subito prodotto risultati di grande rilevanza in concorrenza con acceleratori americani e sovietici dello stesso tipo già esistenti. La presenza dei fisici italiani al CERN era stata ed è assai rilevante (si pensi alla difficilissima realizzazione e all'impiego di un anello per protoni e antiprotoni che ha fruttato il Nobel a Simon Van der Meer e, nel r984, a Carlo Rubbia, per la nonché alla realizzazione dell'anello per elettroni scoperta del cosiddetto mesone e positroni detto LEP, sotto la direzione di Emilio Picasso). Il CERN è ora avviato, con il contributo italiano, sia finanziario sia di personale, alla realizzazione dell'anello, denominato LHC (cui si è già fatto cenno), che entrerà in funzione dopo il 2000 e sarà la più grande macchina acceleratrice disponibile al mondo. li settore sulla «Struttura della materia», che si occupa della ricerca sulle proprietà microscopiche dei materiali di ogni genere, è quasi inesistente, in Italia, sino al dopoguerra, sebbene alcuni nomi italiani di spicco compaiano, all'inizio del secolo, fra gli autori di scoperte nel campo degli effetti ottici. Tuttavia, già all'inizio degli anni sessanta, un numero non trascurabile di persone hanno coltivato questo filone nelle varie sedi universitarie, dando vita, nel r962, a un Gruppo Nazionale Struttura della Materia (GNSM), come organo del Consiglio nazionale delle ricerche. Tra i fondatori del GNSM troviamo Piergiorgio Bordoni, Giorgio Careri, Luigi Giulotto, Adriano Gozzini e Daniele Sette. L'impresa è ben più difficile di quella del settore nucleare, per la grande varietà dei campi di ricerca e per il fatto che manca in questo settore l'aggregazione prodotta dall'impiego di grandi impianti come gli acceleratori. Nel corso di vent'anni, tuttavia, queste attività raggiungono notevole interesse e importanza sul piano internazionale, coinvolgendo un numero consistente di ricercatori, come emerge dalla rassegna di Giulotto durante un convegno tenutosi a Pavia nel r982. In quello stesso convegno, Rostagni, uno dei fondatori dell'INFN, metteva
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in guardia i suoi colleghi nel campo della struttura della materia contro i pericoli che nascono dalla tendenza del CNR a tenersi lontano dall'università, naturale vivaio dei ricercatori, con la costituzione di centri autonomi. La tendenza non ha però cessato di intralciare quella cooperazione necessaria per fare fronte a uno sviluppo massiccio di risultati, rivelatisi peraltro assai più considerevoli di quelli della fisica delle particelle elementari dal punto di vista applicativo e delle industrie. Solo in tempi molto recenti, e particolarmente per la perseverante opera di Carlo Rizzuto, si arriverà alla costituzione di un INFM (Istituto Nazionale di Fisica della Materia) sul modello INFN - tuttavia non senza contrasti, dovuti non di rado alle « cattive abitudini» determinate dal fatto che il CNR ha offerto e offre opportunità al riparo da una competizione più vivace. Fortunatamente, l'università si dimostra luogo sufficientemente adatto alla circolazione delle idee, così che i ricercatori più giovani trovano in essa un luogo appropriato al confronto e possono lavorare, senza troppi svantaggi rispetto ai grandi laboratori di altri paesi, a problemi di punta (da quelli dei semiconduttori a quelli dei superconduttori, alle transizioni di fase, alla fisica dei materiali biologici, ecc.). Anche nel campo dell'astronomia, dell'astrofisica e della cosmologia avviene una transizione abbastanza rapida dalla classica astronomia posizionale e fisica solare degli osservatori astronomici - autonomi ma collegati alle università da interessi sia scientifici sia didattici - all'impiego di strumenti nazionali e internazionali di ricerca. Negli ultimi trent'anni i ricercatori italiani si distinguono, oltre che nel campo teorico, anche nei settori in cui si rilevano dati in bande dello spettro elettromagnetico diverse da quella ottica (radio, infrarosso, X e gamma) con strumenti basati a terra, su pallone o su satellite, nell'ambito di collaborazioni internazionali. L'astrofisica ha un forte fascino e attira le giovani leve: il numero cospicuo di ricercatori di livello internazionalmente riconosciuto sta dunque a indicare che qualcuno ha avuto cura di fornire loro insegnamenti e prospettive solidi e di alta qualità. Indubbiamente, la figura centrale di questo ambiente, dal dopoguerra in poi è stata quella di Livio Gratton (I9I0-9I), di cui la maggior parte degli astrofisici oggi attivi sta raccogliendo l'eredità. Così pure, bisogna ricordare tra le grandi imprese quella compiuta da Marcello Ceccarelli con la realizzazione del radiotelescopio di Medicina (una località nei pressi di Bologna). Occorre anche ricordare che, nel campo della rivelazione di radiazioni provenienti dal cosmo, l'Italia ha avuto scienziati di grandissima fama come Giuseppe Occhialini (1907-93) e Bruno Rossi (1905-93) sebbene quest'ultimo sia stato costretto a lasciare l'Italia per le persecuzioni razziali e non sia più tornato dagli Stati Uniti. In settori contigui, come quello della rivelazione di onde gravitazionali di origine cosmica (specie in esplosioni di supernovae), si trovano - a partire dagli anni settanta - gruppi di sperimentatori almeno in parte provenienti dalla fisica delle particelle elementari (tra questi, lo stesso Amaldi, con Guido Pizzella e un nutrito gruppo di collaboratori, che costruiscono le prime grandi antenne a bassa tempe-
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ratura). Più recentemente, il coinvolgimento dell'rNFN è divenuto diretto, con il progetto Virgo per la realizzazione di un rivelatore interferometrico. Infine, anche nel campo della rivelazione di neutrini cosmici, particolarmente di quelli solari, è di nuovo l'rNFN a essere attivo con i Laboratori sotterranei del Gran Sasso, che sono i più importanti nel settore e attirano l'interesse internazionale. 3) Altre strutture di ricerca: l'università
Sono molte dunque le strutture istituzionali che danno sostegno a una grande varietà di attività di ricerca in questo campo: l'università, il CNR, l'rNFN, gli osservatori astronomici, l'Agenzia Spaziale (Asr), l'Istituto Nazionale di Geofisica (ING). Curiosamente, se i fisici delle particelle elementari si caratterizzano per le capacità organizzative che permettono di sfruttare le grandi strutture nazionali e internazionali nel più efficiente e cooperativo dei modi ottenendo risultati di rilievo mondiale, gli astrofisici sembrano compensare con la varietà delle strutture di riferimento una tradizionale conflittualità accademica che, in tal modo, non impedisce ai singoli gruppi di raggiungere un buon posto nello sviluppo di questo settore di conoscenze. Da questo punto di vista, perciò, è semmai il settore della struttura della materia che appare ancora debole sul piano organizzativo, il che ha certamente un qualche interesse per la cosiddetta « sociologia della scienza». L'università è la sede privilegiata di tutti quei ricercatori che non hanno bisogno di grandi strumenti e servizi per la loro attività quotidiana: i cosiddetti « teorici». Nel campo della fisica teorica e, più recentemente, della fisica matematica, gli studiosi italiani hanno certamente un posto rilevante. In questo si deve riconoscere, anche se indirettamente, un effetto dell'antica tradizione universitaria di studi matematici che, prima della seconda guerra mondiale, aveva dato all'Italia un ragguardevole numero di maestri e studiosi di primissimo piano. Il fascismo e la guerra hanno avuto un effetto devastante sulla scuola matematica, coincidendo con gli anni dell'emarginazione della vecchia generazione di matematici, in assenza di una generazione di allievi di spicco che traghettassero le competenze attraverso questo lungo periodo buio, in contrasto con qualche scoperto simpatizzante del regime. Al contrario, la scuola di fisica era, in quello stesso periodo, appena nata e, solo alla fine della guerra, poté contare su una ripresa dei contatti tra i suoi componenti, dispersi ma fortemente attivi e inseriti in attività internazionali di frontiera. I fisici teorici italiani sono presenti nel campo delle particelle elementari con numerosi personaggi di spicco, molto mobili tra laboratori e università di tutto il mondo, ben inseriti e legati all'attività sperimentale alla quale forniscono ininterrottamente idee e proposte. La loro circolazione è stimolata e favorita dall'rNFN, che ha cura di agevolare tutto il lavoro che ruota attorno alle possibilità strumentali di cui si è dotato o a cui partecipa (Laboratori nazionali, CERN, altri acceleratori sparsi nel mondo). Per restare ai nomi di maggior spicco, vanno ricordati certamente Gian Carlo Wick (1909-92) e Giulio Racah (1909-65), molto vicini al gruppo di Fermi, 479
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poi emigrati; tra coloro che non hanno scelto di lasciare l'Italia, Bruno Ferretti, Giampiero Puppi e Luigi Radicati; nella generazione successiva, Raul Gatto, poi passato all'università di Ginevra, Gianni Jona-Lasinio, Tullio Regge e Bruno Touschek; e ancora, Nicola Cabibbo, Francesco Calogero, segretario generale del Movimento Pugwash per il disarmo e Nobel per la Pace 1995, Luciano Maiani, Giorgio Parisi e molti altri che sarebbe giusto ricordare in una più estesa rassegna. Più recentemente, figure di studiosi di spicco sono emerse nell'ambito di una sorta di rinascita di un'antica scuola di meccanica razionale e di fisica matematica, che affronta problemi d'avanguardia, tuttora oggetto di grande interesse internazionale anche al di fuori del campo della fisica (caos deterministico e problemi non lineari in generale, per esempio). Va anche detto che la fisica teorica nel campo della struttura della materia ha avuto forse miglior sorte delle attività sperimentali nello stesso settore, con risultati di notevole interesse nella meccanica statistica e nei modelli che raccordano le idee della fisica contemporanea con quelle della biologia (particolarmente, reti neuronali). 4) Le condizioni di lavoro
In Italia i ricercatori universitari, per antica tradizione, godono di una certa libertà, contenuta dal fatto che, pur non essendo licenziabili per inoperosità (al pari di molti dipendenti pubblici e a differenza di ciò che accade in altri paesi in cui l'università è privata), tuttavia non fanno carriera e non raggiungono posizioni di prestigio se non sono scientificamente produttivi. La libertà è esplicitamente riconosciuta nel fatto che essi non sono soggetti (a differenza di altri dipendenti pubblici) a orari d'ufficio, non percepiscono perciò straordinari, ma hanno una notevole mobilità e registrano un'elevata presenza nei laboratori. In questo, tutto il settore scientifico dell'università e non solo quello della fisica si differenzia significativamente da altri settori che, in un certo senso, «approfittano» con maggiore spregiudicatezza della libertà concessa, talvolta a danno degli studenti (nei dipartimenti scientifici, infatti, gli studenti - almeno quelli vicini alla laurea - fanno in genere vita in comune con i docenti, attuando forme non istituzionalizzate di tutoraggio). Se queste libertà sono talvolta intese come carenza di regolamentazione e danno luogo a proteste, nella prassi dei dipartimenti scientifici sono invece presenti in forma spontaneamente controllata. All'epoca in cui Ippolito era segretario generale del CNEN (prima, cioè, del 1963), la prassi dimostrava con tale evidenza i suoi vantaggi da suggerirne l'estensione anche agli altri enti di ricerca; e, in effetti, per tutto ciò che riguardava la ricerca fondamentale, la libertà dei ricercatori era generalmente riconosciuta; inoltre, le strutture amministrative erano vere strutture di servizio condotte con criteri di efficienza e tempestività. Per esempio, quando fu presa la decisione di costruire il prototipo dell'anello AdA a Frascati, il finanziamento del magnete fu deliberato e reso operativo in circa una settimana; l'anello, costruito nelle sue parti (un complesso di circa ro t di ferro e componenti pregiati come impianti da
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vuoto spinto, cavtta a radiofrequenza e torre di sostegno) entrò in funzione per le prime misure appena n mesi dopo, nel febbraio 1961. Oltre ai vertici degli enti (particolarmente, Amaldi, lppolito e Salvini), la solerzia toccava tutti gli uffici e i servizi tecnici, disponibili a prendersi le responsabilità esecutive in perfetta simbiosi con i ricercatori più direttamente interessati. Questo aspetto, che si è profondamente deteriorato negli anni, non è affatto secondario per la corretta esecuzione di programmi di ricerca. I primi a discostarsi dalla prassi allora in vigore furono il CNEN (ora ENEA), quando Ippolito fu sostituito (nel 1965) con un funzionario del Ministero del tesoro di formazione non scientifica, e poi il CNR. Entrambi questi enti ridussero deliberatamente, sebbene con diverse modalità, i loro rapporti di stretta convivenza con l'università, rivendicando un'illusoria autonomia (spesso utile solo a mettersi al riparo da confronti) dall'ambiente accademico e « dimenticando » progressivamente quel provvidenziale «uso » della libertà che, accompagnato da un obiettivo di mobilità fra le diverse strutture affini, li avrebbe salvati dall'imposizione di normative assai poco appropriate. Nel caso del CNR, a differenza dal caso del CNEN-ENEA, il distacco fu spesso compiuto, paradossalmente, a dispetto del fatto che le strutture di controllo dell'ente fossero dominate dagli universitari. È ben vero che la situazione italiana è difficile perché la mancanza di senso dello stato porta molti a trarre spregiudicatamente vantaggio dagli spiragli della normativa; e che, perciò, i legislatori e i burocrati tendono a disegnare norme che assicurino un contenimento preventivo degli abusi, al contrario di ciò che accade altrove, in paesi in cui l'abuso, anche piccolo, è punito molto severamente e le restrizioni preventive sono assai minori. Ma è eccessiva la pretesa di concepire le regole in modo uniforme, per tutti i dipendenti dello stato, indipendentemente dalle modalità specifiche del loro lavoro. E infatti, quando la normativa toccherebbe una comunità estesa e potente come quella universitaria, da cui gli stessi burocrati provengono o a cui aspirano, la deroga è assicurata. Ma per gli enti di ricerca la cosa è diversa: per dirla con un linguaggio non canonico, essi non hanno «protettori» nell'amministrazione statale, ma solo «vigilanti» (non necessariamente competenti nello specifico delle attività): il Ministero dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica non è certo uno dei ministeri «forti», in qualsiasi governo, e sembra quasi preposto alla sola limitazione del danno che deriverebbe da proposte parlamentari eccentriche o da tagli poco responsabili nelle leggi finanziarie. Come si è già detto, il CNR e l'ENEA molto presto commisero l'errore di recidere i legami stretti, di convivenza e di cooperazione, con l'università; cioè, anche con quel vivaio di giovani che avrebbe rinnovato il personale di ricerca. Molti giovani brillanti incominciarono a sospettare che i posti disponibili presso queste strutture non universitarie fossero meno appetibili di quelli universitari, per ragioni di ambiente e di prestigio scientifico ma anche per le imposizioni dovute a norme meno liberali. Già negli anni settanta questa valutazione dello stato delle cose era ormai consolidata, così che i numerosi centri costituiti fuori dell'università dal CNR
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La politica della scienza
cominciavano a invecchiare e a isolarsi ai margini della comunità scientifica, al pari dei laboratori del CNEN. Se si possono fare eccezioni a questa valutazione sommaria, balza subito· agli occhi il fatto che quelle eccezioni corrispondono ai casi in cui, per autonoma decisione dei ricercatori, i rapporti con l'università e con gli studenti sono stati gelosamente preservati, a dispetto del disinteresse centrale per il problema (come è accaduto per alcuni laboratori del CNR nel settore dell'astrofisica o della biofisica, di lunga e consolidata tradizione scientifica). Un'analisi a parte meriterebbero i cosiddetti Progetti Finalizzati del CNR, che hanno costituito una dispersione non trascurabile di denaro pubblico a causa dei meccanismi di scelta, gestione e valutazione inappropriati agli scopi. Solo nel caso dell'rNFN tutto questo ha tardato ad avvenire. Tale istituto, a parte i Laboratori nazionali, ha sede nelle università e impiega nelle sue strutture ricercatori e docenti universitari oltreché ricercatori dipendenti propri. È probabile che l'rNFM segua il modello INFN e la sua tradizione di cooperazione ormai consolidata. Commissioni governative di studio sugli enti di ricerca, come la commissione Giannini (dal nome del giurista Massimo Severo Giannini che l'aveva presieduta), avevano riconosciuto un modello di efficienza sia scientifica sia gestionale e amministrativa nella struttura dell'rNFN e ne avevano suggerito l'estensione almeno a tutti gli enti preposti all'attività di ricerca di base, incontrando su questo punto grossi ostacoli di matrice politica. I presidenti del CNR e dell'ENEA sono stati sinora di nomina governativa, nella più stretta tradizione della cosiddetta « lottizzazione », che non di rado ha esteso al governo di queste strutture il criterio politico della fedeltà alla maggioranza parlamentare e di governo. Il contatto degli enti con un ambiente autonomo come l'università potrebbe infatti mettere in serio pericolo scelte dettate da interessi non scientifici, a beneficio di soggetti estranei (industrie private o altri enti pubblici) fortemente legati al potere politico. L'rNFN, al contrario, ha un presidente elettivo, scelto dai colleghi come scienziato di spicco tra quelli attivi nella ricerca promossa dall'istituto; la scelta avviene attraverso una votazione che spetta al Consiglio direttivo, costituito dai Direttori delle Sezioni e dei Laboratori nazionali e da qualche rappresentante ministeriale (talvolta, i ministri designano altri professori, fisici anch'essi, a rappresentarli). Non vi sono mai state, sin ora, ombre di sospetto sulle capacità operative dell'rNFN e sulla sua possibilità di continuare ad autoregolarsi. Ma, all'inizio degli anni ottanta, il CNR viene sottoposto a verifiche burocratiche della presenza in servizio dei ricercatori in orario d'ufficio, dopo che l'ENEA, già da tempo, aveva dovuto adottare la normativa degli impiegati di enti «produttivi» (nel senso dei servizi) in quanto la gran parte della sua attività era stata burocraticamente etichettata come attività di servizio e non di ricerca, sia pure applicata. Il disagio è molto forte: le strutture interne si gerarchizzano, l'autonomia dei ricercatori è scarsa, la separazione tra settori di attività dello stesso ente aumenta. La gerarchizzazione produce spesso reticenze, per esempio su problemi come quelli che
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riguardano i rischi ambientali; la scarsa autonomia conduce spesso a continue elaborazioni di programmi cartacei al posto delle attività di laboratorio; e così via. Ma i governi non sembrano percepire la differenza esistente tra i vari settori dell' amministrazione sulla base delle diverse specificità; tutto quello che esigono è l'adesione degli interessati alle norme, che conduce a uno scadimento delle attività. Così nel 1994 viene imposto anche all'rNFN il controllo d'orario sui ricercatori, confermando la cronica incapacità dei responsabili politici italiani di occuparsi, nella sostanza, di una politica scientifica che faccia fronte ai problemi dello sviluppo culturale del paese, e un loro interesse limitato a manifestazioni di esasperazione formale dissociate dalle necessità reali. 5) Tendenze
La situazione della ricerca scientifica italiana alla fine degli anni novanta non è positiva. In qualche modo, le difficoltà che De Gasperi aveva prospettato nel 1946 dicendo che al «popolo italiano [ ... ] carico di affanni [.. .] parrebbe ironia parlare di cultura e ricerca scientifica», permangono a distanza di cinquant'anni dalla guerra. E sono difficoltà culturali dei politici e della pubblica opinione. Ancora oggi è purtroppo valido il commento che, nel 1955, Luigi Morandi (chimico, fratello del leader socialista Rodolfo Morandi) faceva sull'assenza di ogni riferimento alla ricerca nel famoso «piano Vanoni »: «Io credo che i politici non conoscano bene la natura della realtà: forse, se la conoscessero, non sarebbero uomini politici; reazionari o rivoluzionari, essi sono tutti romantici. Vivono in un mondo di illusioni, in un mondo che può essere rappresentato dalle proiezioni delle personalità loro e di quelle dei loro avversari». Uno dei problemi più grossi è la debolezza del sistema industriale italiano, che dovrebbe comprendere nei suoi interessi lo sviluppo del complesso italiano della ricerca sia fondamentale sia applicata, al fine di promuovere l'innovazione. Al contrario, gli industriali italiani sembrano puntare su quella che si chiama l'innovazione di processo, occupandosi poco o niente dell'innovazione di prodotto. Mentre è soprattutto sull'innovazione di prodotto che si basano le fortune economiche di un paese attivo; non soltanto di questo non si vede traccia nelle tendenze in atto, ma addirittura si verifica una progressiva « perdita di specializzazione » degli addetti, con un calo sensibile del personale maggiormente qualificato. La ricerca fondamentale, finanziata dallo stato, si trova così ad agire in condizioni di sempre maggiore isolamento, su uno sfondo che è rimasto provinciale, dedito ad attività di puro mercato, tecnologicamente immaturo. Difficile escogitare rimedi: toccare la cultura di un ambiente «esperto» che, per altri versi, ha i suoi intendimenti e i suoi poteri nel governo dell'economia, richiederebbe un'attenzione politica che non sembra oggi vicina alla prassi e alle tradizioni migliori ma che è rivolta esclusivamente a problemi normativi, in una congerie di leggi e leggine che supera numericamente le regole di ogni altro paese al mondo.
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Bibliografia
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CAPITOLO PRIMO
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CAPITOLO TERZO Sviluppi semantici nella filosofia del linguaggio Nota bibliografica introduttiva Numerosi testi classici della filosofia del linguaggio di impostazione semantica sono reperibili nelle seguenti antologie: Semantica e filosofia del linguaggio, a cura di L. Linsky; La struttura logica del linguaggio, a cura di A. Bonomi.
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Per una ricostruzione storica della filosofia analitica del linguaggio, nelle sue varie componenti, si possono consultare il volume di E. Picardi, Linguaggio e analisi filosofica, e lo scritto di D. Marconi La filosofia del linguaggio, contenuto nell'opera, diretta da P. Rossi, La filosofia. Il ruolo svolto dal pensiero di Frege è al centro del volume di M. Dummett Filosofia del linguaggio. Saggio su Frege. Sempre di Dummett va segnalato (sotto questo punto di vista), il volume Alle origini della filosofia analitica. Un'esposizione delle tecniche della semantica modellistica e della loro applicazione alle lingue naturali è al centro del manuale di G. Chierchia e S. McConnell-Ginet Significato e grammatica. In generale, i problemi trattati nella presente sezione sono esposti nella raccolta di saggi Introduzione alla filosofia analitica del linguaggio, a cura di M. Santambrogio e nel volume in corso di stampa di P. Casalegno Introduzione alla filosofia del linguaggio. Per quanto concerne più specificamente l'applicazione della nozione tarskiana di verità alle lingue naturali, si può fare riferimento al volume di D. Davidson Verità e interpretazione e a quello di G. Usberti, Verità e paradosso. Le linee fondamentali della teoria di Chomsky sono esposte nel volume di V.]. Cook La grammatica universale. Sui rapporti fra linguistica e logica si possono consultare alcuni scritti contenuti nella raccolta Intorno alla linguistica, a cura di C. Segre. Alle origini delle attuali semantiche per la logica modale si colloca il testo di R. Carnap Significato e necessità. Un'esposizione degli elementi fondamentali delle semantiche a mondi possibili è fornita nel volume di G.E. Hughes e M.]. Cresswell Introduzione alla logica moda/e. Vari saggi rappresentativi del dibattito sul rapporto fra modalità e quantificazione sono pubblicati nel volume Individui e mondi possibili, a cura di Daniela Silvestrini, mentre per la semantica delle espressioni temporali si può consultare l'antologia La logica del tempo, a cura di C. Pizzi. Lo scritto di W. Quine Parola e oggetto rappresenta un importante punto di riferimento per la teoria della denotazione. Per quanto riguarda più specificamente i nomi propri, un momento di svolta è rappresentato dal testo di S. Kripke Nome e necessità. A queste tematiche sono inoltre collegati gli scritti di H. Putnam contenuti in Mente, linguaggio e logica. Le questioni generali della teoria del riferimento sono esposte nel volume di A. Bonomi Le vie del riftrimento.
Un'introduzione ai problemi della pragmatica è fornita nel volume di S. Levinson Pragmatica. Sono inoltre disponibili in traduzione italiana due opere fondamentali per la teoria degli atti linguistici, e cioè Come fore cose con le parole, di J.L. Austin e Atti linguistici di J. Searle. Altri scritti importanti in quest'area di indagine sono riprodotti nell'antologia, curata da M. Sbisà, Gli atti linguistici. I problemi che il lessico solleva nella teoria semantica sono affrontati da D. Marconi nel volume Dizionari ed enciclopedia. Alcuni saggi classici dedicati all'analisi degli atteggiamenti proposizionali, e soprattutto alla distinzione fra l'interpretazione de re e l'interpretazione de dicto di questi enunciati, sono contenuti nell'antologia Riftrimento e modalità a cura di L. Linsky. In particolare, in questo volume si possono trovare i fondamentali scritti di Quine, Kripke e Hintikka sui rapporti fra quantificazione e contesti intensionali. Alla semantica degli enunciati esprimenti atteggiamenti proposizionali è per intero dedicato il volume di A. Bonomi Eventi mentali.
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INDICE
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Arrow, Kenneth, 388, 402, 412, 420, 425 Asch, Shalom, 329 Assunto, Rosario, 207 Astrup, 291 Austin, John Langshaw, 15, 73,
DEI
NOMI
II4, 122 Ausubel, David, 341 Bachelard, Gaston, 198, 353 Bachmann, Ingeborg, 191 Bachtin, Michail, 142 Bacone, Francesco, 205, 448 Badaloni, Nicola, 206, 235-236 Balibar, Etienne, 228, 233, 256 Balandier, Georges, 292 Bandura, A., 327-328 Banfi, Antonio, 195, 347 Bangemann, Martin, 443, 445 Bar-Hillel, Yehoshua, rr4, 134 Barié, Giovanni Emanuele, 197 Barone, Francesco, 202-203 Barth, Karl, 207 Barth, Fredrick, 262 Bartlett, F.C., 316 Basso, Lelio, r84 Bataille, Georges, 40, 63 Bateson, Gregory, 357 Baudelot, Christian, 228 Baudrillard, Jean, 6o-6r, 356 Bausola, Adriano, 202 Beccaria, Cesare, 76 Becchi, Egle, 356 Bedeschi, Giuseppe, 4 Bellelli, G., 324 Bellerate, Bruno, 354 Belli, Gioacchino, 428 Bellone, Enrico, 203, 207 Bence, G., 24 Benedict, Ruth, 265 Benjamin, Walter, 4, 7-9, 12, 147-148, r6r, r66, r82, r86, 224, 250, 289, 292 Bensaid, Daniel, 251 Bensoussan, G., 232 Bentham, Jeremy, 76, 85 Beonio Brocchieri Fumagalli, Maria Teresa, 206 Berg, Alban, ro
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Berger, B., 366 Berger, P., 36 5-3 6 6 Bergson, Henri, 44, 48, 59, 204, 210 Berlin, Brent, 271 Berlin, Isaiah, 92, r84 Bernardi, Bernardo, 29 5 Bernardini, Carlo, 44 7 Bernardini, Gilberto, 475 Bernhard, Thomas, 191 Berti, Enrico, 201-202, 212 Bertin, Giovanni Maria, 347 Bertoldi, Franco, 346, 357 Bertolini, Piero, 337, 348, 357 Bertoni }ovine, Dina, 354 Betti, Emilio, 32 Bhabha, H.K., 294 Bhaskar, Roy, 257 Bianco, Franco, 201 Biasutti, Renato, 296 Bidet, Jacques, 232, 254-256 Billig, M., 330 Binswanger, Ludwig, 38 Bion, Wilfred R., 356 Bisogno, Paolo, 447 Black, Max, 29, 58 Blanchot, Maurice, 40-43, 49, 56, 63 Bloch, Ernst, 8, 12-13, 24, 144, r69, 207, 214, 219-220, 223-224, 227, 233, 238-239 Bloom, Harold, 155-156 Blumenberg, Hans, 29-30 Blumer, H., 364 Boas, Franz, 259, 260, 263, 265, 267, 270, 277, 289 Bobbio, Norberto, r84, 237-238 Bocchi, G., 351 Bodei, Remo, 194 Bodoni, Gian Battista, 430 Bohannan, Pau!, 278-280 Bonhoeffer, Dietrich, 207
Indice dei nomi Bonomi, Andrea, n2 Bontadini, Gustavo, 175-176, 207 Boon, James, 291 Bordono, Piergiorgio, 477 Borghi, Lamberto, 338 Borkenau, Franz, 5 Boscolo Pietro, 341 Bosio, Gianni, 305 Bourdieu, Pierre, 152, 353 Bowlby, John, 313, 340 Boyle, R.R., 58 Bozzi, Silvio, 207 Braido, Pietro, 345 Brecht, Bertold, 8 Brelich, A., )oo Brezinka, W~lfgang, 344 Briganti, Giuliano, 439 Broadbent, D.E., 317 Bruner, E., 272 Bruner, }.S., 320, 323, 341 Buber, Martin, 50 Bubner, Rudiger, 143-144 Bucharin, N., 226 Buci-Glucksmann, Christine, 232 Buhler, Karl, 306 Bultmann, Rudolf, 25, 28 Burgio, Alberto, 254 Buttitta, Antonino, 304 Buzzati-Traverso, Adriano, 477 Cabibbo, Nicola, 480 Cacciari, Massimo, 156, 165, 181184, 187-189, 192, 208, 2II Caillois, Roger, 40 Callinicos, Alex, 257 Calogero, Francesco, 480 Calonghi, Luigi, 341 Calvino, Italo, 467 Camaioni, L., 321 Cambi, Franco, 349, 354 Canevaro, Andrea, 357 Canguilhelm, Georges, 43, Caprara, G., 321, 326 Caracciolo, Alberto, 165, 199-202 Carchia, Gianni, 140, 207 Careri, Giorgio, 477 Carnap, Rudolf, 15, 67, II5-II6, 122, 125, 127, 129-130 Carneiro, Robert, 265 Carpentier, Miche!, 445 Carpitella, Diego, 304 Cartesio (René Descartes), 6, 20, 21, 27, 65, 173 Caruso, Paolo, 277 Casari, Ettore, 203 Cassirer, Ernst, 58, 198, 295 Castelli, Enrico, 209 Catalfamo, Giuseppe, 345 Cavell, Stanley, 151 Cazzaniga, Gian Mario, 235 Cazzullo, A., 58
Ceccarelli, Marcello, 478 Cerroni, Umberto, 235 Cerulli, Ernesta, 295 Ceruti, Mauro, 351 Cesa, Claudio, 206 Chaplin, Charlie, 429 Chesi, Francesco Saverio, 179 Chomsky, Noam, n8, 123, 320, 323, 338 Church, Alonzo, 125 Cirese, Alberto Mario, 303-304 Clemente, P., 294, 304-305 Clifford, ]., 290, 292 Clinton, Bill, 437, 442 Coase, Ronald H., 414 Cocchiara, Giuseppe, 296, 299 Cohen, Gerry A., 251 Coleman, ]., 302, 374-375 Colicchi Lapresa, Enza, 349 Colletti, Lucio, 160, 235-237 Colli, Giorgio, 161-164 Collins, R., 365, 376-377 Colombo, Cristoforo, 430 Condorcet, Jean-Antoine-Nicolas, 448 Connor, Steven, 149 Contini, Maria Grazia, 347 Conversi, Marcello, 475 Cook, James, 263 Cook, K., 376 Cordeschi, Roberto, 317 Cornoldi, C., 321 Cotroneo, Girolamo, 203 Couklin, Harold, 269 Cristin, R., 201 Croce, Benedetto, 32, 199, 206, 210, 226 Curi, Umberto, 2n Cusano, Nicola, 183 Dal Lago, Alessandro, 172 Dallari, Marco, 348 Dalle Fratte, Gino, 346 Dal Pra, Mario, 206 Damascio, 183 Damiano, Elio, 346 Danto, Arthur C., 152-153, 157 Davidson, Donald, 66-68, 123 Davidson, Pau!, 408 Dazzi, N., 313 Dearden, Robert, 342 De Bartolomeis, Francesco, 343 Debord, Guy, 152, Debreu, Gerard, 388, 402, 412, 425 De Gasperi, Alcide, 483 De Giacinto, Sergio, 346-347, 357 De Giovanni, Biagio, 183, 235 Degli Antoni, Giovanni, 440 De Grada, E., 330-331 Dei, F., 305
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Deleuze, Gilles, 41, 43-47, 61, 172 Della Volpe, Galvano, 160, 235, 238, 254 Delors, J acques, 442 De Man, Pau!, 143, 155 de Martino, Ernesto, 295-301, 303-305 Demetrio, Duccio, 357 Denes, F., 333 De Renzi, E., 333 Derrida, Jacques, 17, 23, 32, 35, 38, 41, 52-57. 63, 65, 68-69, 154156, 173-174. 190, 213, 251, 351 Descartes -+ Cartesio Dewey, John, 68-69, 213, 338, 343, 357. 364 Dickie, George, 152-153 Di Lisa, M., 235 Dilthey, Wilhelm, 31-32, 187, 201, 348 Dionigi l'Aeropagita, 65 Doise, W., 330 Dolgin, Janet, 267 Dollard, ]., 326 Dostoevskij, Fedor Michajlovic, 156, 189, 207 Driesch, H.A.E., 307 Dumont, Louis, 267, 288 Durkheim, Emile, 270, 281, 302, 330 Dussel, Enrique, 257-258 Dworkin, Ronald, 96, 103 Dufrenne, Mikel, 57 Eagle, M.N., 3n Easton, David, no Eckhart, John, 183 Eco, Umberto, 58, 148-149, 170, 173-175. 201, 445 Eggan, F., 276 Eichmann, Adolf, 25 Eigen, Manfred, 469 Einstein, Albert, 472 Eisenstein, Elizabeth, 430 Eliade, 295 Eliot, Thomas Stearns, 150 Elster, John, 252-253, 374, 375 Emerson, Ralph Waldo, 156 Emerson, R., 376 Empedocle, 163 Engels, Friederich, 233 Eraclito, 163, 2n Erdas, Epifania, 357 Erikson, E.H., 310 Eschilo, 2n Esiodo, 38 Esposito, Roberto, 183 Establet, Roger, 228 Euripide, 2n Evans-Pritchard, Edward E., 262263, 273-275. 281, 286, 288
Indice dei nomi Eysenck, Hans Jiirgen, 313, 326327 Fabbri, 351 Fabbrichesi Leo, Rossella, 197 Fabian, Johannes, 291 Fabietti, Ugo, 259, 284, 291, 294 Fadda, Rita, 349 Fairbairn, W.R.D., 311 Fardon, Richard, 291 Farné, Roberto, 348 Farr, R., 330 Featherstone, M., 291 Fechner, Theodor Gustav, 306 Feher, Ferenc, 247 Fermi, Enrico, 475, 479 Ferraris, Maurizio, 213 Ferrarotti, Franco, 159 Ferretti, Bruno, 480 Festinger, L., 329 Feyerabend, Paul K., 17, 20, 186, 203, 288 Finelli, R., 235 Fink, Eugen, 29 Fiske, 329 Flavell, J.H., 321 Flores d'Arcais, Giuseppe, 345 Fodor, Jerry A., 334 Foerster, Friedrich Wilhelm von, 351 Formaggio, Dino, 158, 188 Foucault, Miche!, 23,36-43,45,47, 68, !78, !87, 197, 35J, 353-355 Frabboni, Franco, 342, 347 Frake, Charles 0., 269-270 Francioni, G., 235 Franza, Angelo, 348, 356 F rauenfelder, Eliana, 349 Frazer, James G., 259, 281, 285 Frege, Friedrich Gottlob, 114, 117-119, 126-127, IJ2, 134-136, 207 Freire, Paulo, 353 Freud, Sigmund, 6, 43-44, 46, 52, 6!, 141, 228, 311-312 Friedman, Milton, 393, 395, 399-400, 408, 410 Frisipato, 136 Frison, Lorimer, 290 Frith, U., 321 Fromkin, VA., 314 Fromm, Eric, 3, 5, 24, 47, 310 Gadamer, Hans Georg, 15, 18, 19, 29-35, 42, 63, 68, 141, 143-144, 147-148, !65-167, 178, !87, 200201, 268, 294, 348 Gadda, Carlo Emilio, !20-I2I Galanter, E., 316, 318 Galimberti, Umberto, 179-18o Gallini, Clara, 298 Gardner, Howard, 341
Garfinkel, H., 366-367 Gargani, Aldo Giorgio, 154, J60-I6I, 191-192 Garin, Eugenio, 205-206 Garroni, Emilio, 145, 190 Gates, Bill, 436, 442 Gatto, Raul, 480 Gazzaniga, M.S., 334 Geertz, Clifford, 267-268, 270, 272, 279, 280, 288, 290 Gehlen, Arnold, 33, 147-148, 247 Gell-Mann, Murray, 445 Gellner, Ernest 283-284, 293 Gennaro, A., 321, 326 Genovese, Giovanni, 354 Gentile, Giovanni, 32, 176, 179 Gentile, Marino, 201 Gerlach, Kurt Albert, 5 Gerratana, Valentino, 219, 235 Geschwind, N., 333 Geymonat, Ludovico, 185, 203, 237 Ghali, Butros, 436 Giannini, Massimo Severo, 482 Gianquinto, A., 235 Gibson, J.J., 319 Giddens, Anthony, 257, 365, 377-379, 382 Gillet, G., 331 Gillies, D., 186 Ginzburg, Carlo, 357 Giorello, Giulio, 185-186, 203 Girard, René, 156 Giulotto, Luigi, 477 Givone, Sergio, 156, 189-190, 192, 201 Gluckman, Max, 262, 273, 292 Glucksmann, André, 231 Godelier, Maurice, 228, 234 Goethe, Johann Wolfgang, 189, 198 Goffman, Erving, 364-365 Gogarten, Friedrich, 202 Gohler, 242 Goodenough, Ward, 269, 271 Gore, Al, 443 Gozzini, Adriano, 477 Goya, Francisco, 439 Gramsci, Antonio, 165, 214, 216, 219-220, 225, 227, 232, 237-238, 256, 299. 303-304, 353 Granese, Alberto, 349 Gratton, Livio, 478 Greenberg, J.R., 3II Gregory, Tullio, 206 Griaule, Marcel, 290 Grice, H. Pau!, 73, 121 Grossmann, Henryk, 5 Grottanelli Vinigi, Lorenzo, 295-296, 299-300
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Gruenberg, Karl, 5 Griinbaum, Adolf, 313 Guattari, Félix, 46-47 Guerragio, A., 237 Guntripp, H., 311 Gutenberg, Johann, 430 Habermas, Jiirgen, 5, II, 13-18, 22, 24, 32-33. 42, 61, 154. 201-202, 243-245, 247-248, 254. 256, 344· 353. 370-371, 451 Haman, Johann Georg, 19 Hare, Richard, 76, 79 Harré, R., 331 Harris, Marvin, 265-266, 270 Harsanyi, John, 76, 78-79, 82, 414 Hart, Herbert, 8o, 90 Hartman, Geoffrey, 155 Hartmann, Eduard von, 224 Hartmann, H., 310 Haudricourt, André-Georges, 271 Havelock, 56 Haug, W.F., 239, 256 Hayek, Friedrich A. von, 91, 93. 231, 397 Hebb, D.O., 332-333 Hécaen, H., 333 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 6, II, 15, 31, 35, 37, 40-42, 4445, 48, 51-52, 103, 109, 157, 171, 176, 181, 183, 187, 190, 192-193. 197' 200, 214, 220, 224, 226, 239. 242, 244 Heidegger, Martin, 3, 5, 10-11, 17, 19-20, 25, 28-35. 37, 40, 48-49, 51-53, 55-57, 59· 65, 69, 144. 147-149, !61, 164-!68, 170, 172, !76, !78-!80, !88, 190, 192, 200-201,
208,
212,
213,
238,
241, 255, 348 Heider, F., 329-330 Heller, Agnes, 24-25, 61, 247-248 Helmholtz, HL. von, 306 Herder, Johann Gottfried, 19 Herskovits, 302 Hertz, Robert H, 431 Hesse, M., 58 Hicks, John R., 390, 425 Hill, Christopher, 254 Hintikka, Jaakko, 21, 127 Hirst, Pau!, 342 Hobbes, Thomas, 14, 205-206 Hobsbawm Eric J., 217- 218, 254 Hollis, M., 282 Holzkamp, K., 324 Hook, S., 309, 313 Horkheimer, Max, 4-7, 10-11, 1314, 151, 223, 240, 243, 353, 451 Horney, K., 310 Horton, Robin, 283, 286 Howitt, A., 290
Indice dei nomi Hsu, Francis L.K., 2SS Hubel, D.H., 332, 334 Humboldt, Karl Wilhelm von, I9, 32 Hume, David, 44, SS Husserl, Edmund, 9, 22, 25, 2S29, JI, 37, 4S-49, 52-54, 56-57, 59. I65, I72, I90, I95. I97-I9S, 2II-2IJ, 365-366 Hyppolite, Jean, 43, 52 lllich, Ivan, 353 Iori, Vanna, 34S Ippolito, Felice, 475-476, 4So-4SI Iser, Wolfgang, I43 Jacob, François, 473 Jacobi, Friedrich Heinrich, 200 Jacobson, E., JII James, William, 6S, I75, 2I3 Jankélévitch, Vladimir, 57, 59 Jaspers, Karl, 25, 27, 30, 57, ISO, I99. 202 Jauss, Hans Robert, I4I-I44. I4S Jensen, Adolph Ellengard, 295 Jervis, Giovanni, JII-JI2, 3I4 Jesi, Furio, 300 Job, Steve, 433 Joliot-Curie, Irène, 449 Jona-Lasinio, Gianni, 4So J onas, Hans, 2S Joyce, James, I49-I50 Jung, Cari Gustav, ISo Kafka, Franz, IS2 Kahn, Richard Ferdinand, 40S Kalecki, Michal, 40S Kaldor, Nicholas, 40S Kallscheuer, Otto, 24I Kant, Immanuel, 6, II, I7, I9, 35, 40, 44, 53, SI, S5, 109, I44-I45, I50, I56, I6I, I92, 209, 2IO, 2I2, 239 Kautsky, Karl, 2I6, 252 Kay, Pau!, 27I Keller, H., 366 Kelley, H., 330 Kelly, G.A., 32S Kelsen, Hans, 469 Kelvin, Lord, 207 Kemnitzer, David, 267 Kerény, Karoly, 300 Kernberg, 0., 3n Keynes, John Maynard, 3S7, 3S9-390, 397. 425 K.ierkegaard, Si:iren Aabye, I56, ISI, 2I2 Kilani, Mondher, 264, 272 K.is, ]., 24 Klee, Pau!, IS2 Klein, L.R., 390 Klein, G.S., 329 Kluckhohn, Clyde, 275, 302
Koffka, Kurt, 307 Kohlberg, Lawrence, 33S Kohut, Heinz, 2So, JII-312 Kojève, Alexandre, 40 Konorski, J., 333 Korsch, Karl, 5 Koselleck, Reinhart, I42 Krahl, Hans-Jurgen, 24I, 242 Kripke, Saul, I27, I36-I3S Kriss, E., JIO Krober, Alfred L., 259-260, 302 Kruscev, Nikita, 472 Kuhn, Thomas, JI, 2S7, 307, 353 Kundera, Milan, I49 Kvale, S., 324 Kwiecinski, Zbigniew, 353 Kydland, F.E., 40I, 406 Kymlicka, Will, 106 Labica, Georges, 232, 256 Labriola, Antonio, 226, 25S Lacan, Jacques, 40, 22S, 35I, 354 Lakatos, Imre, 252, 30S Lanternari, Vittorio, 293, 295, 299, JOI, 303-305 Laporta, Raffaele, 339 Latouche, Serge, 2S4 Latour, B., 2S9 Laudan, L., 30S Leach, Edmund, 262, 273-275, 27S Leahey, T.H., 3I5·3I6 Lefebvre, Henri, 232, 267 Lenin, Nikolaj, 2I6, 226, 245 Leont'ev, A.N., 323-324 Leopardi, Giacomo, 206 Lévinas, Emmanuel, 4I, 47-52, 56, 65, 2IO, 257 Lévi-Strauss, Claude, 6I, 205, 260262, 27I, 274-27S, 2S6-2SS, 290-29I, 300, 305, 354 Lévy, Bernard-Henri, 23I Lévy-Bruhl, Lucien, 2S6, 295, 297 Lewin, Kurt, 32S-329 Linton, Ralph, 302 Lochner, Rudolf, 344 Locke, John, SI, 9I, 94, 205 Loewenstein, R.M., 310 Loewith, Karl, 2S, 30 Lombardi Satriani, Luigi M., 303·304 Longino Cassio, I56 Lo Piparo, Franco, 235 Losurdo, Domenico, 239, 249, 254 Lounsbury, Floyd, 269-27I Li:iwenthal, Leo, 5 Lowie, Robert H., 259-260 Lowy, M., 233 Liibbe, Hermann, I47 Lucas, Robert, 39S, 400, 403,
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405, 40S Luckmann, T., 365-366 Lucrezio, 44, 2IO Luhmann, Niklas, I5, IS, 243, 357. 369-37I Luhics, Gyorgy, 5-6, S, 12-13, I44, 2I4, 2I9·222, 227, 233-234. 2JS240, 247-24S Lukes, S., 2S2 Lumbelli, Lucia, 340 Luporini, Cesare, 206, 236 Luria, A.R., 333, 335-336 Lutero, Martin, 430 Lyotard, Jean-François, 60-63, I50, 35I Machiavelli, Niccolò, I4, 210 Madntyre, Alasdair, 24, 70-72, 104-105 Macorini, Edgardo, 427 Mahler, M., JII Maiani, Luciano, 4So Maiers, W., 324 Maimon, S., 200 Maitland, F.W., 263-264 Maler, Henri, 25I Malevii', IS2 Malinowski, Bronislaw, 266, 273, 275-277. 2S5, 290 Mallarmé, Stéphane, 430 Malthus, Thomas Robert, 397 Manacorda, Mario Alighiero, 353 Mancini, I., 20I, 207-20S Mangione, Corrado, 203, 207 Mano, Thomas, 6 Mannetti, 330 Mantegazza, Raffaele, 353 Mantovani, Susanna, 340 Mao Tse Tung, 2I6, 220, 22S, 23I Marcel, Gabriel, 57, 20S Marconi, Diego, 69, 209 Marconi, Guglielmo, 43I Marcuse, Herbert, 4-5, I0-12, 47, I60, I66, 240, 353, 45I Maréchal, Joseph, 2II Margiotta, Umberto, 357 Marinetti, Filippo Tommaso, 430 Marion, Jean-Luc, 6o, 63, 65-66 Maritain, Jacques, 2I2 Markus, Gyi:irgy, 24, 247-24S Marquard, Odo, I45-14S Marramao, Giacomo, ISJ-IS4 Marx, Karl Heinrich, 3, 5-6, n, I3, I5, I7·IS, 40, 6I, SS, 100-10I, I4I, I66, I90, I9S, 200, 2I4·2I6, 2IS, 220-222, 225-227, 23I-242, 244-246, 24S-253. 255-25S, 26I, 266-267, 3I4, 324, 353. 3S5, 397 Marx, Werner, I65 Masini, Ferruccio, 205 Massa, Riccardo, 337, 356
Indice dei nomi Massimo il Confessore, 65 Masullo, A., 201, 2u-212 Mathieu, Vittorio, 203, 210 Maturana, Humberto, 351, 370 Mauss, Marcel, 61 Maxwell, James Clerk, 431, 468 McCloskey, M., 335 McLuhan, Marshall, 430 Mead, Georg Herbert, 15, 53, 197, 3I2, 364 Mead, Margaret, 265 Meade, James Edward, 390 Mecacci, Luciano, 306, 309, 322, 332, 335 Meillassoux, Claude, 292-293 Melchiorre, Virgilio, 2u -212 Mencarelli, Mario, 345 Merleau-Ponty, Maurice, 40, 48, 61, 63, 192, 195, 352 Metelli Di Lallo, Carmela, 339 Meyer Fortes, 262, 273 Middleton, John, 273 Mill, John Stuart, 135-136 Miller, D., 292 Miller, G.A., 316, 318 Miller, ]. Hillis, 155 Miller, N.E., 326 Mills, Charles Wright, 24, 363 Minazzi, F., 203 Minsky, Hyman, 408 Mischel, W., 326 Mitchell, S.A., 3II Mitterrand, François, 230, 442 Mocchi, Mauro, 159 Modell, A., 3u Modigliani, Franco, 390 Moll, L.C., 323 Moltmann, Jiirgen, 13 Mondrian, Piet, 182 Moneta, Giuseppina Chiara, 165 Montague, Richard Merrit, u8, 123, 127, 130, 131 Montaleone, Carlo, 259 Montinari, Mazzino, 161, 162 Moore, George Edward, 69 Morandi, Luigi, 483 Morandi, Rodolfo, 483 Moravia, Sergio, 204-205 Morgan, Lewis H., 259, 290 Moretto, Giovanni, 199 Morin, Edgar, 351 Moro, Tommaso, 14 Morris, Charles, 15, II4, 121, 198 Moscovici, S., 330 Mothersill, Mary, r57 Mottana, Paolo, 356 Mountcastle, B.V., 332 Mugnai, M., 235 Muller, Max, 281 Munari, 351
Munster, A., 233 Murdock, George P., 261-262, 273, 276 Musatti, Cesare, 315 Nagel, Thomas, 97, 313 Nancy, Jean-Luc, 6o, 63-65 Nash, John, 414 Natoli, Salvatore, 178-179 Natorp, Pau!, 30 Needham, Rodney, 276, 279 Negri, Antimo, 203, 206 Negri, Antonio, 160 Negroponte, Nicholas, 444 Neisser, U., 319 Nelson, C.R., 403 Newell, A., 318 Newton, Isaac, 468 Nietzsche, Elisabeth, 162 Nietzsche, Friedrich Wilhelm, 29, 37, 40, 43-44, 47, 52-53, 6r, 65, 69, 141, 161-168, 170, 172, 176178, r8o-182, 192, 202, 205, 208, 2!2-213, 238, 314, 347-348 Nozick, Robert, 72, 91-93, 95-96, 98, 100 Occhialini, Giuseppe, 478 Oldrini, Guido, 254 Olivetti, Marco Maria, 209-210 Olson, David, 341 Ong, Walter ]., 56, 430 Oppenheimer, Robert, 472 Orefice, Paolo, 354 Pacchi, Arrigo, 206 Paci, Enzo, r6o, 171, 173, 184, 188, 190, 197-198 Padovani, Umberto Antonio, 201 Paggi, Leonardo, 235 Paivio, A., 319 Palmonari, A., 330 Papi, Fulvio, 195-198, 354 Pareyson, Luigi, 156, 166, 173, 188-190, 200-202, 209, 348 Parisi, Giorgio, 480 Parmenide, 163, 177, 2u Parrini, Paolo, 203 Parsons, Talcott, 18, 362, 369, 372 Pasca!, Blaise, roo, 207 Pasinetti, Luigi, 408 Passeron, Jean-Claude, 353 Patinkin, Don, 390 Pavese, Cesare, 300 Paz, Octavio, 429 Pazzaglia, Luciano, 354 Peirce, Charles Sanders, 15, 19, 2022, 33-34, 55-56, 68, 174-175, 187, 197-198, 213 Pellicani, Luciano, 203 Penzias, Arno A., 472 Penzo, Giorgio, 202 Pera, Marcello, 202-203
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Pericle, 26 Perniola, Mario 147, 152, 165, 188 Perrin, Jean, 449 Peters, Richard S., 342 Pettazzoni, Raffaele, 294-296, 299 Phelps, Edmund S., 393, 398, 424 Phillips, A.W., 389, 391-393, 395, 400, 406 Piaget, Jean, 15, 341, 316, 320-323, 353 Piana, Giovanni, 198, 201, Picasso, Emilio, 477 Pinto Minerva, Franca, 342 Piovani, Pietro, 207 Piranesi, Giovan Battista, 439 Pizzamiglio, L., 333 Pizzella, Guido, 478 Pizzorno, Alessandro, 109 Platone, 35, 38, 41, 44, 46, 54, 62, 162-164, 176, 183, 190, 192, 197, 2!l
Plechanov, Georgij Valentinovic, 226, 252 Plosser, C.I., 403 Plotino, 193, 2u Polanyi, Karl, 265, 267 Polloch, F riedrich, 5, ro Ponsetto, A., 201 Pontecorvo, Clotilde, 341 Popper, Karl Raimund, 15, 20, 203, 215, 231, 235-237, 252, 286, 313, 469 Poulantzas, Nikos, 228, 233 Prescott, E.C., 401, 406 Prestipino, Giuseppe, 254 Preve, Costanzo, 238, 254 Pribram, K., 316, 318 Prigogine, Ilya, 351 Prini, Pietro, 208-209 Prior, Arthur Norman, 128 Proclo, 183 Proust, Marcel, 9, 149 Puppi, Giampiero, 480 Putnam, Hilary, 67-68, 175 Pylyshyn, Z.W., 319 Queneau, Raymond, 40 Quine, Willard Van Orman, 66-6?, 125 Quiniou, Yvonne, 256 Racah, Giulio, 479 Radcliffe-Brown, Alfred R., 260-261, 262, 273 Radicati, Luigi, 480 Raffaello, 204 Rambaldi, Enrico, 206 Ramsey, Frank Plumpton, u2 Rapaport, D., 309-310, 314 Raulett, G., 233 Ravaglioli, Fabrizio, 354 Rawls, John, 24, 72, 74-75, 77,
Indice dei nomi 79-83, 85-91, 94, 96, 98, 103, 106-108, 184, 238, 253-254 Reagan, Ronald, 230 Redfield, Robert, 302 Regge, Tullio, 185, 480 Reich, Wilhelm, 47 Reichelt, H., 242 Reichenbach, Hans, 67, 114 Remotti, Francesco, 259, 264, 276, 303-305 Renan, Joseph-Ernest, 448 Rezzara, Anna, 356 Ricardo, David, 385 Ricoeur, Pau!, 57-59, 150, 172, 190, 209, 212, 314, 348 Riedel, Manfred, 28 Riesman, Pau!, 272 Rigobello, Armando, 208-209 Ritter, Joachim, 145-147 Riva, Maria Grazia, 356 Rizzuto, Carlo, 4 78 Robelin, Jean, 233, 254, 256 Robertson Smith, William, 281 Robinson, Joan, 408 Rodano, Giorgio, 384 Roemer, John, E., 252- 253 Rogers, Cari, 340
Rogoff, B., 322 Ronchi, Rocco, 42 Rorty, Richard, 24, 67-70, 72, 170, 175, 191, 353 Rosaldo, Michelle, 272 Rosaldo, Renato, 290 Rosenzweig, Franz, 9, 182 Ross, Stephen A., 417 Rossi, Bruno, 478 Rossi, Mario, 207, 235 Rossi, Paolo, 204 Rossi, Pietro, 202, 205 Rossi-Landi, Ferruccio, 198 Rostagni, Antonio, 475, 477 Roszak, 451 Rousseau, Jean Jacques, 81, 86, 239 Rovatti, Pier Aldo, 48, 168, I?I174, 198 Rubbia, Carlo, 477 Ruggenini, Mario, 165, 177-179, 201 Rushdie, Salman, 149 Russell, Bertrand, 69, n2-113, 115, 133, 135, 472 Ryle, Gilbert, 114 Sacristan, Manuel, 257 Sahlins, Marshall, 263-265, 267 Said, Edward, 291 Salvini, Giorgio, 475-476, 481 Salvucci, Pasquale, 206 Samuelson, Pau! Anthony, 390 Sandel, Michael, 103-104
Sandkuhler, H]., 256 Santinello, Giovanni, 207 Santucci, Antonio, 213 Sapir Edward, 270 Sartre, Jean-Paul, 40, 48, 156, !60, !69, 211, 215
Sasso, Gennaro, 210 Saussure, Ferdinand de, 52, 54-55, 261
Scaglioso, Cosimo, 354 Schelling, Friedrich Wilhelm, 183, 190, 193, 198
Schelling, Thomas, 13, 66, 183, 190, 193, 198, 413
Schlegel, Friedrich, 32 Schleiermacher, Friedrich D.E., 32, 348 Schlick, Moritz, 129-130 Schmitt, Cari, 182 Schneider, David M., 267, 279 Schoenberg, Arnold, 10 Schopenhauer, Arthur, 181 Schorr, Karl Eberhard, 358 Schutz, Alfred, 267, 365-366 Schwartz, Yves, 233, 256 Scoto, Duns, 45 Scoto Eriugena, 183 Scruton, Roger, 158 Searle, John Roger, 15, 21, 72-73, 122
Selfridge, 0., 333 Selten, R., 414 Semerari, Giuseppe, 198, 201 Sen, Amartya, 96-97 Seppilli, Tullio, 301, 303 Service, Elman R., 265, 273 Sette, Daniele, 477 Settembrini, Domenico, 203 Sève, Lucien, 231, 256 Severino, Emanuele, 165, 175-177, 180, !87-188, 206
Shackle, 408 Shaw, J.C., 318 Sheehan, Thomas, 165 Shusterman, Richard, 151 Siciliani de Cumis, Nicola, 354 Signorelli, 301, 303 Simmel, Georg, 12, 195, 210, 375 Simon, Herbert A., 318 Sini, Carlo, 3, 159, 165, 173, 189, 196-198, 201
Sinnreich, ]., 58 Skinner, Burrhus F., 313, 320, 331, 338
Skocpol, T., 363 · Smith, Adam, 85, 293, 385, 397 Smorti, A., 331 Socrate, 42, 134, 163, 428 Solinas, Pier Giorgio, 300 Spadafora, Giuseppe, 349
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Spence, D.P., 331 Spencer, Herbert, 261 Spengler, Oswald, 208 Sperber, Dan, 267 Sperry, R.W., 334 Spinoza, Baruch, 43-44, 198, Spirito, Ugo, 295 Spranger, Eduard, 307 Sraffa, Piero, 384-408, 420 Stalin, 216 Starobinski, Jean, 143 Stefanini, Luigi, 201 Stegagno, 332 Steiner, Hillel, 97 Stengers, l., 351 Stern, D.N., 313 Steward, Julian, 265 Stirner, Max, 202 Strawson, Peter Frederick, 73 Strelau, ]., 327 Tagliagambe, S., 237 Tait, David, 273 Tarski, Alfred, 66, 116, 122-123 Taylor, Charles, 103 Taylor, S.E., 329 Taylor, Frederick Winslow, 433 Tentori, Tullio, 295, 300-303 Terray, Emmanuel, 228 Tertulian, N., 233 Tessitore, Fulvio, 207 Teuber, H.L., 333 Texier, Jacques, 232, 256 Thatcher, Margaret Hilda, 230 Thompson, Edward P., 254 Timpanaro, Sebastiano, 314 Tito, 216 Titone, Renzo, 357 Tobin, James, 390 Togliatti, Palmiro, 219, 225 Tolman, Edward Chace, 317-318, 324
Tomasi, Tina, 354 Tosel, André, 214, 232, 256 Touschek, Bruno, 476, 480 Trincia, F.S., 235 Tronti, Mario, 160 Tullio-Altan, Carlo, 295, 302-303 Turner, Vietar, 262, 272 Tylor, Edward B., 259, 281 Ulivieri, Simonetta, 354 Urs von Balthasar, 65 Vacca, Giuseppe, 235 Vadée, Miche!, 251 Vallar, G., 335-336 Vajda, M., 24 Van der Meer, Simon, 477 Vanderveken, D., 73 Vanni Rovighi, Sofia, 207 Van Parijs, Philippe, 252 Varela, Francisco, 351-2
Indice dei nomi Varnhagen, Rachel, 25 Vasa, Andrea, 206 Vasoli, Cesare, 206 Vattimo, Gianni, 140, 147-148, 165-172, 174, 187-188, 201, 213 Veca, Salvatore, 7 4, 184, 202, 238 Vegetti, Mario, 205 Verra, Valerio, 165, 200 Viano, Carlo Augusto, 202, 205 Vicari, Serena, 361 Vico, Giambattista, 15, 56, 150 Vidoni, F., 237 Vincent, Jean-Marie, 234 Visalberghi, Aldo, 338, 341 Vitiello, Vincenzo, 165, 188-189, 192-194, 201 Volpi, Franco, 16-17, 165, 212 Vygotskij, Li~v S., 307, 316, 320323, 341 Wagner, Roy, 280, 293
Wahl, Jean, 48 Wallerstein, Immanuel, 216, 233, 363
Walzer, Michael, 98-102, 105, 109 Watson, John Broadus, 308, 315316, 364
Weber, Alfred, 301 Weber, Max, 18, 72, 201, 238, 255, 284-285, 287, 369
Weil, Felix, 5 Weil, Hermann, 5 Weintraub, Sidney, 408 Weitz, Morris, 152 Weizsiicker, Cari Friedrich von, II, 13
Wertsch, ].V., 322 White, Hayden, 29, 150 White, Leslie A., 265 Whitehead, Alfred North, 171, 179, 197
Whorf, Benjamin Lee, 270
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Wick, Gian Carlo, 479 Wiesel, Torsten N., 332, 334 Wilson, R.B., 282 Wilson, Robert W., 472 Winnicot, Donald W., 356 Witkin, H., 329 Witkowski, Lech, 353 Wittfogel, Karl August, 5 Wittgenstein, Ludwig, 15, 19-20, 22-23, 34-35, 55, 58, 63, II2, II4II5, 120, 161, 178-181, 187, 191, 203, 209, 213, 283, Wohler, Friedrich, 428 Woolf, Virginia, 149 Worsley, Peter, 293 Wright, Eric 0., 252 Wright, Georg H. von, 347 Wundt, Wilhelm, 306 Zecchi, Stefano, 158, 188-189, 201 Zenone, 163 Ziff, Pau!, 152
INDICE
Aberrazione cromatica, II 391 della luce, III 202 sferica, II 391 Abito, I 227; II 27 Abitudine, I 343-344, 499, 510; II 476, 478; III 31, 46-47, 112; IV 199; VI 124, 171; VII 55, 57; VIII 21; XI 282 Accademia, II 212-214; IV 42-43 Accademia del Cimento, II 393, 395 Accelerazione, II 168 centrifuga, II 517 Accomodamento, VIII 509 Accomodation space, x 462 Acetabularia, IX 6o Acidi, II 423 Acidi nucleici, x 231, 249, 260, 4II, 413, 416 base azotata, x 414-415 gruppo fosforico, x 414 gruppo saccaridico, x 414 Acido-alcali, antagonismo, II 424 Acqua, I 35, 37, 57, 67, r84, 230, 232, 401, 528, 530, 544 Acrasiale, IX 63 Acustica, I 44, 298; v 318 numero di Mach, v 319 Ad hocneità, x 12, 14 Ad-aptation, x 234 Adattamento, VI 23, 28, 36, 4344; VIn 509; x 227, 229, 234 "stampo indiretto", teoria, x 259 distinzione da adattabilità, IX 77 Adattamento enzimatico, x 259 Addizione, teoria Presburger, x 82 Adeguatezza, VIII 257 Adenina, IX 51 Adenosin monofosfato ciclico, v. AMP-ciclico Adia/ora, I 267
ANALITICO
Adone, XI 476 Adroni, x 309, 326 Adverse selection, XI 415 AE, forma, x 88 Aeroplano, v r86 Afasia, I 256 Affetto, II 274; VI 89 Affinità chimica, x 364 Agassi, critica alle tesi poppedane, IX 292-295 Aggiunto, IX 223, 251 destro, IX 223 sinistro, IX 223 Aggiunzione, IX 223 Aggressività, VIII 25, 489; IX ro6107; XI 326 Agire, XI 24 5 sgg. Agnosticismo, IV 432 Agonismo, I 330 Agostinismo, II 293 Agricoltura, I 303 programma di riorganizzazione in URSS, IX 413 sgg. Agrimensura, o gromatica, I 303 AIDS, x 413 Aisthesis, I 130, 131; XI 142, 144, 151 Aida, I 131, 142 Albero filogenetico, IX 24-25; x 422 genealogico, VI 264; x 422 genealogico-enciclopedico, III 271 Alcali, II 423 Alchimia, I 291; II 422; III 79 sgg. critica meccanicistica, II 422 Alchimistica, tradizione, II 421-422 Alessandrismo, II 53, 56 Algebra, II 231, 367, 514; III 170; IV II9, 146-150 teorema fondamentale, III 177 Algebra astratta, assiomatizzazione, VIII 405
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Algebra commutativa, x 120 Algebra delle grandezze finite, III 177 Algebra di Boole, v 210 sgg.; VIII 395; IX 146-147, 159, 228-229, 232 Algebra di Heyting, IX 147, 229, 238, 241 Algebra e logica, III 132, 136; IV 150-171; v 197, 250 Algebra omologica, x 120 Algebra simbolica, II 84; III 177; v 197, 207 Algebra sincopata, II 84 Algebra tecnica, v 197 Algebre cilindriche, VIII 369 Algebre poliadiche, VIII 369 Algebrica nel senso categoriale, teoria, IX 24 7 Algoritmi genetici, x 195 evoluzione prebiotica, x 195 sistemi a classificatori, x 195 sgg. sistemi dinamici complessi, x 195 Algoritmi infiniti, III 177 Algoritmo, VIII 352-353, 360 Alienazione, v 77, So; VIII 538; IX 505; XI 222, 257, 324 Allegorica, interpretazione, I 279 Allocazione pareto-ottimale, XI 416 Allopatrico, processo, x 222 Allotipi umani, x 264 Allucinazione, VI 168 Altered self hypothesis, x 276 Altro, XI 50 Altro-da-sé, I 281 Alzheimer, morbo, x 205 Ambiente, VII 32 influenza, III 96, 310; VII 46, 69; VIn 21, 30-31, 473, 496, 498
Indice analitico Amicizia, I 68 Aminoacidi, IX 24, p; x 414, 420 mutagenesi sito-specifica, x 414 sequenator, x 414 Aminoacido, tripletta, IX 51 Amnesia, VI 321; x 209 Amore, I r68, 175, 369, 373, 379, 388, 424, 473, 485, 488, 494, 509, 523, 546, 5p, 554; II 38, 67, 106, 117, 128, r88, 447, 474; m 299, 332; IV 31, 51, 55, 224, 263, 279, 362, 456, 492; V 52; VII 153 Amore di sé, m 301, 324 Amor proprio, III 301, 397 AMP-ciclico, IX 62; x 203 Ampiezza, IX 143 Analfabetismo di ritorno, III 410; VI 237 Analisi, IV 392 sgg.; v 167 sgg.; VI 355 continuità VI 35-356, 360-361, 364 continuo aritmetico, VI 361 continuo geometrico, VI 361, 370 infinità, VI 369 metodo, I r8r; II 222, 285, 353359; III 86, 324 Analisi classica, v I 67 sgg. Analisi componenziale, v. etnascienza Analisi conformazionale, IX r6; x 401-402 Analisi costruttiva, IX 175 Analisi elettrofonetica, x 263 Analisi funzionale, x 121 assiomatizzazione, VIII 405 Analisi indeterminata di secondo grado, III 179 Analisi infinitesimale (v. anche calcolo infinitesimale), II 314, 366-367, 499; III 48, 169, 170, 177, r8o-r8r; IV n8, 392-393; V 426; VI 154; VIII 292 Analisi linguistica, pragmatica, VII 226 semantica, VII 226-228 semiotica, VII 226 sintattica, VII 226 Analitica trascendentale, III 450456; VII 312 Analiticità, VII 231-234 e sinonimia, VII 232, 238 Analizzatore differenziale, x 148 Analogia, I 72, 448; II 272; III 42, 454; IV 225 principio, IV 109 Anamnesi, I 134 Ananke, v. necessità Anarchismo metodologico, IX 339 sgg.
Anatettici, fenomeni, x 465 Anatomia, I, 244; II 92-93; IV 235 scoperte, II 428 Anatomia artificiosa e sottile, II 433 Anatomia comparata, IV 109, n2 sgg., 235, 415; VI 262 Ancora, effetto, x 460 Anelli di Newton, v. Newton Anello, IX 2n Anello AdA, XI 476 sgg., 480 Angiosperme, x 226 Angolo, trisezione, I 201 Angolo acuto, ipotesi, III 159-r6r; IV 121, 126-127, 131 Angolo ottuso, ipotesi, III 159-r6o; IV 131 Angolo retto, ipotesi, III 159, 165; IV 131 Angoscia, I 550; v 142; VII 157-r6r Anima, I 36, 45, 58, 77, 155, r68, 174, 218, 262, 267, 282, 380, 400-401, 448, 453, 460, 462, 465, 470, 520, 523, 525, 530531, 533; II 37, 53, 56, 105, 107, n8, 230, 235, 246, 254, 257258, 273-274; III 43, 50, II3, 125, 239, 242, 327, 389, 458; IV 55·56, 91, 97-98, 325, 416, 440; V 24, IJ7, 120, 137; VI 15, 145, 188, 190, 223; VII 32; XI 180 immortalità, I 218, 451, 46o; II 53, 55, 57-58, 130; III 36, II3, 472; IV 47; V 38, 40, n8-n9; VI 127 tripartizione, I 174 Anima be!Ia, III 489 del mondo, I 183; II 121; v n5, 126 Animalculi, III 248 Animalculismo, II 435 Animismo, x 364 Animistica, concezione, III 225 Anomalie geotermiche, x 452 magnetiche, x 451 Anomia, VI 64 Ansia, XI 326 Antecedente, I 265-266 Antiatomismo, v 328 Anticipazione, I 261, 264; III 454; VII 158-159 Anticodone, IX 53 Anticorpi, x 256, 414, 417 Anticorpi specifici, x 260 Anticorpo monoclonale, x 266 Antigene, IX 61; x 256, 417 ruolo informativo, x 258 Antigene presenting cells, x 276 theta, x 271 Antigeni artificiali, x 257
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Antimateria, VIII 422 Antimeccanicismo, v 321, 332 Antinomia, I 47, r8o, 392; III 458; VII IO; VIII 84, 205-208, 232, 282, 294, 339-340 delle relazioni, VIII 224 di Berry, VIII 224 di Burali-Forti, VIII 224 di Cantor, VIII 224 di Epimenide (o del mentitore), VIII 224, 315 di Kiinig, VIII 196, 224 di Richard, VIII 224 di Russell, VII 122; VIII 195, 224, 248; IX 296 di Weyl, VIII 225 Antinomie di Zenone, II 378 Antiparticella, VIII 422; x 300 Antipsichiatria, XI 47 Antirealismo fenomenologico, x 64-68 Antirealismo, posizioni di van Fraassen v. Van Fraassen Antitesi, III 458-459; IV 210, 313 Antitossina, x 256 Antropogenia, VI 267 Antropologia, IV 24, 325, 432; v p, 370; VI 264; VII 402; VIII 100; XI 375 cognitiva, XI 282 culturale, XI 259-305 della scienza, XI 288 strutturale, VII 393 Antropomorfismo, I 49 Apatia, I 267 Ape nera, danza dell'addome, IX 104 Apeiron, I 37 Apici di Boezio, I 394 Aplotipo, x 273 Aporia, I 50 Apparenza, I 170 Appartenenza, IX 219 Appercezione, III 85, 452; VI r6 Appetito, II 286 Applicazione, XI 32-33 Applicazioni differenziabili, sistema strutturalmente stabile, x 122 teoria, x 122 Apprendimenti successivi, schema, x 219 Apprendimento, VI 19, 35, 39, 41; VIII 472, 474-475, 479-490, 5II; IX 97 sgg.; XI 316, 352, 398 di segni, VIII 489 di soluzioni, VIII 489 mnemonico, I 364, 501; II 109, 202, 298 sociale, XI 327 vicariante, XI 327
Indice analitico Approfondimento, VII 487 Aptene, x 258, 271 Archaea, x 424 Arché, v. principio Archeologia, XI 38 Archeologia concettuale, XI 194 Archetipo, I 183 Archi insulari, x 456 Archimediche, forze, x 448 Architettura, ingegneria, rapporti, x 495 Architettura molecolare, x 364-373 Architraccia, XI 54-56 Area di sviluppo potenziale, XI 322 Aree di superfici, II 382 Argomentazioni matematiche, II 85 sillogistiche, II 85 Argomento antologico (v. anche prova dell'esistenza di Dio), I 423, 460 Aria, I 37-38, 67, 84, 184, 230, 232, 401, 528, 530 funzione nella fiamma, II 424 Aria deflogisticata, m 209 fissa, m 209 infiammabile, m 209 Arianesimo, 1 373 Aristocraticismo, 1 276 Aristocrazia, III 66 Aristotele, teoria dei quattro elementi, critica meccanicistica, II 425 Aristotelica, concezione del moto, II 409 Aristotelismo, II 33, 51, ro6, II3, II5, 121, 134-135, 243, 326; III 318 Aritmetica, I 43, 246; VI 355 struttura logico-deduttiva, VI 357 Aritmetica formalista, critica, VI 407 Aritmetica non standard, IX 190 Aritmetica primitiva ricorsiva, VIII 294 Aritmetizzazione, VIII 315, 353 Aritmogeometria, I 43 Armi chimiche, x 374 Arminiani, II 278-279 Armonia, I 45, 77, 227, 286; III 55; IV 184; IV 265, 273, 33' Arrhenius, equazione, x 394 Arte, I 167, 176, 229, 283; II 25, 38, 190; III 389; IV 24, 31, 223, 326, 331, 384; V 137; VI 59, 156, 159, r86, 190, 202, 227; VII 36, 321; Xl 8, IO, 141-158, 241, 250 teoria istituzionale, XI 152-153 Arte bellica, II 97 Arte estetica, XI 146
Arte per l'arte, XI 152 Arte popolare, XI 151-152 Ascesi, 1 43, 276, 282, 489, 497, 518; II 67, 258; V 137; VI 161; VIII 528 Asintoto, II 378 Aspettative adattive, XI 396 Aspettative razionali, ipotesi, XI 398, 403 sgg. Assenso, I 267 Asserti osservativi, IX 277 Asserti probabilistici, IX 278 Asserti spazio-temporalmente singolari, IX 277 Assi cartesiani, II 231 Assimilazione, VIII 509 Assioma, I 224, 265-266; III 167, 454; IV 175 moltiplicativo, VIII 230, 282, 284 Assiomatica, III 152 Assiomatizzazione, VI r86; VII 379; VIII 407 conseguenze filosofiche, VIII 408 sgg. Assiomatizzazione dell'aritmetica, VI 374 sgg.; VIII 52, 261 della logica enunciativa, VIII 259-260, 300 della logica intuizionista, VIII 301, 330-335 della logica predicativa del primo ordine, VIII 260-261 della matematica intuizionista, IX 174 della teoria degli insiemi, vm 212, 238, 274-275. 278, 309, 405; IX 158 Assiomi, indipendenza, vm 396-397 Associazione, m 46; IV 199; VI 16; Vlll 484-485; Xl 316 Associazionismo, m 389; v 153; VI 37, 41; VIII 473, 478 Assolutezza, I 164, 176, 386; III 86 Assolutismo, II 277 Assoluto, IV 202, 222, 306, 37 4; V 23, 149; VI 54, II5, II9-121; VII 183, 341, 357; Xl II geometria, IV 139 Assunzione sintetica, x 23r Assurdo, 1 163; VI 159 Astenolite, x 448 Astenosfera, x 450, 453 Asteroidi, x 339 Astrazione, I 219, 424, 451; II 352; V 97; VI 35, 190; VII 38, 423; IX 521 Astrofisica, x 332-358 modelli teorici, x 337 origine degli elementi, x 346
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ongrne della vita, x 337 sistemi informatici, x 337 tecnologia, x 332 Astrofisica osservativa, x 341 particellare, x 287 teorica, x 341 Astrolabio Marittimo, II 42 Astrologia, I 290, 293; II 6o, 79 sgg.; III 262; IV 378 Astronomia, I 26, 46, 207, 290, 297; II 408-416; IV 73, 73; VIII 443 sgg. insegnamento, I 351, 493 Astronomia dei raggi cosmici, x 336 dell'infrarosso, x 335 dell'ultravioletto, x 134-335 della regione visibile, x 335-336 delle onde gravitazionali, x 336337 y, x 334 ottica, x 333 X, x 334 transizioni /ree-/ree, x 334 Atarassia, 1 256, 260, 262 Atavismo, VI 210 Atmosfera terrestre, x 332-333 schermatura, x 332 Atomi· elettronegativi, x 364 elettropositivi, x 364 con molti elettroni, x 387, 391 Atomismo, I 151, 530; II 233, 245, 326; III 318; IV 20, 243, 442; V 6r, 121, 306-307, 312, 316 Atomo, I 261, 532; II 124, 246-247; IV 102, 124, 403-404; v r8o, 314, 321; VI 436 sgg., 440; X 360-363 distinzione dal concetto di monade, v. Leibniz modelli atomici, VI 437 sgg., 441 modello di Bohr, VIII 419 nucleo atomico, VI 432 struttura, VI 432 Attaccamento, XI 313 Attenzione, VI 17-18; VIII 497 Attitudine, n r86; VI 104 Attivazione, teoria, XI 332 Attivismo, VIII 29 Attività sensoriale, IV 416-417 Attività, teoria, XI 323 Atto, I 214, 410, 448; VI 171; VIII 484 enunciativo, XI 73 illocutivo, XI 21, 73 linguistico, XI 73 perlocutivo, XI 73 proposizionale, XI 73 Attrattore, IX 39
Indice analitico Attrattori ciclici, x 252 strani, x 252 Attrazione, 1 68; III 361, 436; IV 221; V 124; VII 152 Attributo, n 228, 254, 268; IV 50; XI 46 analitico, VIII 364 iperaritmetico, VIII 364 Attribuzione, XI 330 Attrizione, II 293 Attualismo, VJI 338; VJII 55-60, 8o, 88-91, 108, 112; Xl 226 Auction markets, XI 420 Au/bau, principio, x 382, 385 AURA, dimostratore automatico, x 95 Autarchia, 1 26, 267 Autenticità, VII I 57 Autismo, XI 321 Autoconservazione, n n9, 252; III 239; IV 341; VII 45; VIII 25, 153 Autocontrollo, v 72 Autocoscienza, IV 208, 307, 325; Vl 49; Vll 31, 337; Xl 312 Autoeducazione, I 493, 509; II 478; III 93; Vll 348 Autoefficacia, XI 328 Automobile, v 186 Auto-organizzazione, processi, x 239, 252 Auto-osservazione, VI 14 Autoriferimento, VIII 225 Autorità, I 343, 400, 430, 445, 486, 5II-512; II 186, 294, 468, 478; III 21, 36, 38, I2J, 315, 369, 4II, 470; IV 262, 271, 469-470, 489, 491-492; V 24; VII 56; VIII JO, 41; Xl 81, 374 anonima, VIII 48 coercitiva, VJII 48 Autoritarismo, I 510; n 450, 457; Vl 241; VIII 547; IX 506; XI 6 Autosufficienza dei mezzi, regola, XI 339 Avanti-a-sé, VJI 157 Averroismo, n 51, 53, 105, II5 Avogadro, numero N, v 175 principio, x 361-362 Azione, I 484; n 258, 274, 295; III 489; IV 223; Vl 126; VII 56, 176177; XI 25 teoria, XI 346, 370-383 Azjone a distanza, v 266, 273, 278, 284 Azione comunicativa, XI 371 Azione di massa, postulato, Vlii 476 Azione doxastica, x 27 Azione e reazione, principio, v 323 Azione orientata al successo, XI 371
Bacone, classificazione delle scienze, II 141, 145-146 conoscenza storica, poetica, filosofica, II 146 forme, n 148 induzione, n 147-148 leggi fisiche, carattere matematico, II 148-149 logica, n 146 sgg. obiezioni contro la logica, n 144 opere, n 140-142 pensiero II 140 sgg. polemica contro Aristotele, n 144-145 ricorso all'esperienza, II 145 visione della storia, II 142 Balistica, n 90 Bande, x 316 Baricentri di figure piane, n 382 Barometro, II 389, 394-396 ad acqua, n 396 Barriere riproduttive, x 223 Barwise, teorema, IX 164 Baryonic pancake, x 328 Basaltico, materiale, x 452 Basi nucleotidiche, x 233, 249 Batiderma, x 448 Batimetro, II 42 Batteri, x 412, 424 scoperta, n 434 Batteriofago T4 , IX 45 Bayes, teorema, IX 368 Behaviorismo, vi 13, 15, 35, 38, 44; VJII 472-480, 488, 495; XI 306336, 337, 364, 376 Bellezza, I 328, 335, 345; n 22, 38, 52; III 56, II?, 384, 389, 476; IV 265, 273, 289, 331, 344; V 35; VI 156, 202; VII 487; XI 189 morale, IV 272 Bello, 1 167, 283, 462; II 190; m 475; VI 129, 159; XI 157-158 Bene, 1 103, 164, 167, 261, 267, 343, 370, 448, 528, 546, 559; Il II8, 266; m 44, II8; IV 326, 474; VI II5, 129, 150 pubblico, IV 200; XI 82 Benzene, x 369-370 derivati, x 370-371 struttura, x 370 Berkeley, laboratorio, x 299 Bernard, principio, VIII 132 Bernoulli, teorema, III 187 Bertalanffy, concezione, VIII 158165 princìpi teorici, VIII 163 rifondazione della biologia teorica, VIII 160-165
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Beth, tavole semantiche, x 86 Biblioteca, 1 25, 240 Big Bang, x 319, 323 351, 357, sgg. asimmetria materia -antimateria, x 357-358 densità critica, x 357 densità media, x 357 fluttuazioni di densità, x 357358 orizzonte, x 357 piattezza dell'universo, x 357 Big Bang caldo, x 357 Big science, x 473; XI 465, 471, 475 Bilancia di precisione, III 195 Bilanciamento degli organi, principio, IV 109 Bilanciere a molla, II 397 Bilancieri e isocronismo, III 194 Bilancio energetico, IV 421 Binomio, teorema, n 508 Bioastronomia, x 338 Biochimica, IX II, 19-28, x 4II-442 metodo analitico, IX 20-22 metodo analogico, IX 20 Biochimica topologica, IX 51 Bioetica, XI 204, 454 Biofisica, IX II, 14 sgg.; x 4II-442 Biofori, VI 28o; VJI 162 Biogenetica, V1 261 alberi genealogici, V1 264; x 422 filogenesi, VI 261, 263, 283 induzione somatica, VI 287 legge fondamentale, V1 260, 262, 267, 303 ontogenesi, VI 261, 263, 283, 303, 308-309 sistema naturale, VJ, 263 Biogeni, vm 121 Biologia, IV 379; VI 177; VIII II8I92; IX IO sgg. analisi logico-formale, VJII 172 approccio olistico, IX 126 assiomatica, IX 67 assiomatizzazione, VJII 414 come scienza autonoma, VIII 129-131 complementarità, IX 136 concezione antimeccanicistica, VIII 151-152 descrizione quantomeccanica, IX 16 descrizioni complementari, IX 44 dibattito metodologico, IX 123-138 influenza della meccanica, II 427 modelli, IX 28 sgg.
Indice analitico modelli matematici, IX 34-41 princìpi di Bertalanffy, vm 163 rapporti con la fisica, vm 156 spiegazione composizionista, IX 125-126 spiegazione riduzionista, IX 4041 spiegazione strutturale, IX 4041 storia, x 500 svolta sintetica, IX ro topologia differenziale, IX 36 trattazione logica, VIII 154 Biologia borghese, IX 419 Biologia cerebrale, x 220 Biologia e meccanica quantistica, IX 15-16 Biologia e termodinamica, IX 17 sgg. Biologia molecolare, IX n, 41-48; x 260 fase accademica, IX 58 fase dogmatica, IX 50 obiettivo, IX 50 Biologia teorica, crisi, VIII 157 sgg. rifondazione di Bertalanffy, VIII 160-165 Biometria, VIII 188 Biometrica, scuola, VIII 188 Biopolimeri, x 414 Biosfera, IX 20 Biosintesi, x 412 Bisogno, III 327; v 86; VIII 14, 475, 506; XI 6o, 247, 302 Bivalenza, VIII 264 Bloor, tesi sulla matematica, x 486-477 Bohr, modello atomico, v. atomo principio di corrispondenza, IX 454 Boltzmann, costante, x 297 Borsa di Fabrizio, x 270 Borse di studio, I 360; IV 61 Bosone, VIII 423; x 295 Bosoni intermedi, x 304, 306, 308 Botanica, II 95-96, 426; IV 100, 236 sgg. Bottiglia di Leida, III 206 Bourbakismo, VIII 406 Boyer-Moore, dimostratore automatico, x 96 Boyle, critica delle teorie aristoteliche e paracelsiane, II 425 definizione di elemento, II 426 legge, II 423 Bragg, esperienza, x 377-378 Brahe, tavole dati astronomici, II 87 Bricolage molecolare, x 230 Bricoleur, x 230
Brookhaven, laboratorio, x 299 Buca, teoria di Dirac, x 299 Buchi neri, VIII 457-458; x 334, 345-346 plasma relativistico, x 356 singolarità, x 346 Buchi neri galattici, x 356 massicci, x 356 supermassicci, X 346 Buon ordinamento, teoria, VIII 235 Bussola, II 42 Biitschli, concezione, VIII 123-124 Cabbala, I 415 CAD, XI 433 Caduta, I 373 Caduta dei gravi, v. gravi, caduta CAE, XI 433 Calcinazione, III 208 dei metalli, II 424 Calcolatore elaborazione simbolica, x 157158 funzione di valutazione, x 156157 influenza sulla logica, x 79 minimax, x 155 salto condizionato, x 148-149, 151 simboli generici, x 148 simboli numerici, x 148 simulazione del cervello, x 151-154 Calcolatore e protocolli verbali, x 164, 184 Calcolatore e teoria dei giochi, x 155-156, 161 Calcolatore, albero del gioco, x 155-156, 165 Calcolatori, circuiti integrati, x 161 relé, x 159 Calcolatori elettronici, VIII 418 Calcolatrice, II 310 Calcolo, I 458; II 355, 36o; IV 14 Calcolo booleano, v 214 sgg., 224 interpretazione, v 215 sgg., 234-235 Calcolo delle classi, v 221-222, 251 delle prime e ultime ragioni, v. Newton delle probabilità, IV 79; v 184, 235, 307 (v. anche probabilità) delle proposizioni, v 221-222, 240, 251 delle variazioni, v 170 differenziale assoluto, v 171 funzionale, v 170 infinitesimale, II 382 sgg., 512
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Calcolo L, VIII 343 Calcolo LJ, VIII 343, 345 Calcolo LK, VIII 345 Calcolo N, VIII 343 Calcolo NJ, VIII 343 Calcolo NK, VIII 344-345 Caledonidi, catene montuose, x 447 Calendario, I 26 Calore, I 76; IV 401, 407, 420; v 264, 281-282, 286 natura, III 204, 205 Calore e lavoro, v 292-293, 299 innato, I 322 specifico, IV 401; v 291 Calore, equivalente meccanico, v 281, 292-293, 299 Calorico, m 205 fluido, IV 73, 102, 401; v 264, 286, 292, 297 latente, v 286-287 Calorimetri, III 195 Calvinismo, VIII 526-529, 538 Calzascarpe, strategia, x 244-245 Cambriano, x 447 esplosione, x 226 Camera oscura, II 94 Campo, v 272, 278 matematica, VI 34; VIII 504; IX 186-187 Campo di eccitazione, teoria, VIII 476, 485, 488 Campo di forza-particella, unificazione, x 295 Campo di Yukawa, x 299 Campo elettromagnetico, v 270271; x 295, 296 gravitazionale, v 278 morfogenetico, IX 39 . tetravettoriale, x 304, 306, 308 CAMs, x 268 Canali ionici, x 412-413 Cannocchiale, II 97, 169, 388-390 teoria, II 390-391 Canone, I 261; III 461 Canto, I 348, 500; II 189 Cantor-Bernstein, teorema, VIII 235 Caos, I 23, 32, 42; VI 161 Capacità individuali, III 98 Capitale, v 381-402; XI 385 sgg. fisso, IV 192; v 386 variabile, IV 192; v 386 Capitalismo, III 55; v 96; VIII 517, 526-537, 544; XI 218 sgg. senza attriti, XI 436 Carattere, XI 325 Caratteri ereditari, VIII 181 Carbonifero superiore, x 447 Carey, teoria, x 449
Indice analitico Carica generalizzata, x 307 Carisma, VIII 532, 535 Carità, 1 484, 494; v 136 principio; XI 66 Camot, principio, v 186 Camot-Clausius, principio, VII u6 Carovizzazione, IX 422 Carrier, effetto, x 258 Cartelli di matematica, disfida, II 83 Caitesianesimo, II 256, 265, 458; III 72, 132, 341, 357-358 Cartesio, embriologia, II 435 meccanicismo biologico, II 432 spiegazione della fermentazione, II 423 Cartografia, III 203 Cartwright, antirealismo, x 64 Casati, legge, VI 234-247 Caso, I 69, 156; III 97 ruolo nell'evoluzione, v. evoluzione Castigo, 1 364; II 308, 477; III 26; IV 272; VII 70 Castigo corporale, 1 350, 362, 498; II 477 Casualità, I 145; VII 241 Catalessi, v. assenso Catalisi, x 395-396 costante di dissociazione, x 397 Catalisi acida, teoria, x 397 Catalisi eterogenea, x 396 Catalisi omogenea, x 396 Catalizzatori, x 396-397 Cataloghi stellari, m 202 Catastrofi, IV II 5 elementari, IX 39 teoria, IX 38-40; x 124-125 Catastrofi geologiche, teoria, v II7 Catastrofismo, 339 sgg. Categoria, I 220, 530, 535; m 451453, 456; IV 24, 208, 314, 317, 461; V 49; VI 145, 175; VII 128, 312, 314; XI 269, 274, 279-282 cartesiana chiusa, IX 220 della manifestazione, XI 224 di relazione, XI 224 matematica, IX 199-253 opposta, IX 206 quadro, XI 224 settoriale, XI 224 tipologica, XI 275 Categoriale, VII 36-39 Categorie, esempi, VIII 410 teoria, VIII 410; IX 141, 199-253, 265 Catena alpina, x 446 Catena discendente, VIII 273
Catena polipeptidica, x 414 Catena proteica, IX 51 Catenaria, III 178 Catene gamma e delta, x 275 Catene laterali, teoria, x 256 Catene leggere L, x 26 5 Catene montuose, x 443 distribuzione, x 444 Catene pesanti H, x 265 Catene polipeptidiche, x 265 Cattiva empiria, IV 330 Causa, I 83, 131, 216, 316, 409, 428, 472, 476, 521, 525> 528, 535; II 226, 230, 247, 258, 260, 267-268, 463; III 50, 125, 302, 386, 453, 455, 482; IV 55, 173, 339, 374, 461; v 132, 154> 329; VI 15, 21, 143, 154, 157, 171, 2o8; VII 29, II5, II9, 143, 405, 451, 485; VIII 510, 525, 539; XI 67, 224, 228 finale, I 316 Causalismo e condizionismo, VIII 122 Causalità, IV 230-231, 439; v 315; VI 259-260, 295, 308; VII 236, 427-428, 435, 438; x 297, 299 significato in biologia, IX 13 2 probabilistica, VIII 43 7 Cause, prime e seconde, I 128 Cavalieri, metodo, II 369, 382 CD, x 271 CD-DA, XI 438 CD-I, XI 438 CD-ROM, XI 438 Celle convettive, x 448 Cellula, IV 411, 423, 426, 429 sgg.; VI 271 sgg., 305, 309; IX 22, 6o; x 414 sgg.; XI 466 ciclo di autoriproduzione biosintetica, IX 55 citoscheletro, x 417, 428 contenuto genetico, IX 49 fosforilazione, x 421 mitosi, VI 271 nucleo, VI 271, 309 organuli, x 421 ossidazione, x 421 struttura primaria, x 414 struttura quaternaria, x 414 struttura secondaria, x 414 struttura terziaria, x 414 trasferimenti di energia, x 421 Cellula eucariota, x 24 7 sgg. neuronica, IX III Cellule, fusione, x 425 Cellule autoreattive, x 261 batteriche, x 255 eucariote (eucariotiche), IX 24; x 412, 421, 424
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Cellule nervose, assone, x 431 eccitabilità, x 420, 431, 435 monticolo assonico, x 435, 439 potenziale d'azione, x 431-432, 436 potenziale d'azione, blocco di tensione, x 432 Cellule postsinaptiche, x 438 procariote, x 248, 412, 421, 424 somatiche, x 256, 263 tissutali, x 255 Cellulismo, IV 431 Centro di eccellenza, Xl 455 Cerchio, quadratura, I, 202; v 172 CERN, x 299 Cervelletto, IV 446 Cervello, I 45, 122, 128, 245; II II8; IV 47, 87, 93, 97-98, 446; V II8, 122, 124, 132, 135, 370; VI II, 40, 189; VIII 476; Xl 333 sgg. anatomia, x 204 aree frontali, x 221 aree prefrontali, x 221 modelli e rappresentazioni del mondo, x 217-221 modello, IX n 5 sgg. ricerche, II 427 teorie epigenetiche, x 213 Cervello e pensiero, IX 109-123 Cesura, regola, VIII 346 Chemiadsorbimento, x 397 Chew, proposta, x 301 Chiesa, II 63, 68, 71, 108; IV 476, 478, 487 Chimica, II 95, 421-426; III 169, 203; IV 102, 378, 402 sgg.; v II4; x 359-410 agricoltura, x 368, 373-374 analisi, x 368, 373-374 analisi èlementare, x 368 analisi qualitativa, x 373 analisi quantitativa, x 373 conservazione della massa, x 360 contributi di Newton, v. Newton farmacia, x 368, 373-374 fondazione meccanicistica, II 423 industria, x 360, 368, 371, 373374 insegnamento, II 451; VI 245 leggi, IV 403 leggi stechiometriche, x 360 medicina, x 368 nomenclatura, x 362 scuole, x 372 storia, x 500
Indice analitico sviluppo sociale, x 359 tecnica microanalitica, x 375 tecniche sperimentali, x 359 triadi, x 363 università, x 373 Chimica analitica, x 374 biologica, x 37 4 farmaceutica, x 37 4 industriale, x 374 Chimica inorganica, IV 402; x 362, 374. 405-410
campo dei leganti, x 409 numero di coordinazione, x 407
Chimica organica, x 364-373, 374 pneumatica, III 209 quantistica, x 385-397 Chimica-fisica, x 374, 385-397 idratazione, x 395 Chimografo, IV 444 Chioma di Berenice, X 353 Chirurgia, I rr4, 137 Church, indecidibilità della logica del I ordine, x 82 tesi, VIII 360; IX 172 Church-Rosser, teorema, IX 170 Cibernetica, x 147, I51-152, 172 imitazione del cervello, x I 6 2 modelli a memoria distribuita,
x r62 modelli a reti neurali, x I62I63, I72, I87-I88, I9I, 194, I97I98, 210 omeostato, x I 54
spiegazione intenzionale, linguaggio psicologico, x I89, 191 Cibernetica e psicologia, x I64 Ciclico, andamento, I 68; m 38; V
II5-II6
Cicloide, II 3I2, 374, 376 Ciclo metabolico, IX 19-20 Ciclo reale, teoria, XI 401 sgg. Cinetica chimica, x 392-397 reazioni bimolecolari, x 393 reazioni monomolecolari, x 393 reazioni trimolecolari, x 393 velocità delle reazioni, x 392 Cintura protettiva, VII 459 Circolazione del pensiero, teoria, VI
217, 219
Circolazione del sangue, II 235 scoperta, II 428-432 Circolo dell'arte, XI I 53 Circolo ermeneutico, XI 33, 38I Circolo vizioso, principio, VIII 200, 226
Circoscrizione, x II4 Circuito locale, teoria, x 205 Cistroni, IX 54 Citochine, x 277-280
Citocromo c, IX 24 Citometria di flusso, x 271 Citoplasma, IX 22 Citosina, IX 51; x 250 Cittadinanza, diritto, XI 90, no Cittadino, I 268, 547; II 31, 469 Civiltà, XI n, 30I Classe (v. anche insieme), 1 22; VIII
227-II9, 275
I27, 178; III 409; IV 30 IV
375-379; VI 177; VII 508
Classificazione politetica, XI 282 Clausola ceteris paribus, IX 2 79 Clima, influenza, III 65, 68, 302, 324, 330; VI 210
Clinamen, 1 262; v 61 Clinica della formazione, XI 356 Clonazione, x 412 Co-evoluzione, x 236 COBE, x 320 Cobordismo, teoria, x 122 Codice genetico, IX 51; x 414 Codone, IX 51 Coefficiente di correlazione, VI 24 Coefficienti poliniomiali, formula, II 499 Coerenza, IV 124, 136; VIII 245246
Cogito,
II 224, 253; IV 488; VII 30, 154; XI 21, 27, 57, 210 Cognitivismo, XI 67, 73, 307-337 Cognizione sociale, XI 329 Collettivismo, 1 I76
Colmerauer, linguaggio prolog, x 8o Coloranti, produzione sintetica, x 369
Coloranti sintetici, v 190 Colore, IV 239, 436; v 262 teoria tricromatica, x 439 visione, x 439 Colori, spiegazione cartesiana,
IV
195
Complementarità affinità con la dialettica, IX 4 77 principio, VIII 42I sgg., 430-431; IX
455, 457-459, 468, 477, 478
Complementarità in biologia,
IX
44. I36
differenziale, VIII 39 elementare, VIII 37 4-375 infinita, VIII 28I mobile, VIII 39 totale, VIII 239, 273, 276 Classici, studio, I 350; II 19, 73, Classificazione delle scienze,
Compensazione, XI 145-148 Compensi decrescenti, legge,
II
417
teoria newtoniana, II 420, 520 Colpa, I 106, 422 Combinatori, teoria, IX r67-I74 Combinatorio, calcolo, II 313 Combustione, II 424 Comete, III 202; x 339 Compattezza, teorema, VIII 313, 371; IX 164
Compenetrazione degli opposti, legge, v 429
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indotta, IX 55 Complessificazione, x 250 Complessità, IX 31 Complesso, VIII 26 Completezza, VIII 2I5 teorema, VIII 312, 314; IX 148 Completezza funzionale, VIII 395 rispetto ai modelli, VIII 373 semantica, VIII 257, 262 sintattica, VIII 262 Comportamentismo (v. anche behaviorismo), IX II? Comportamento, basi biologiche, IX 96 sgg. Comportamento cognitivo, VIII 486 operante, VIII 48 3 rispondente, VIII 483 Composizionalità, principio, XI 132 Composizione, IX 20I-203 delle forze, n 48, r67 Composti chimici, x 360 natura, x 359 reattività, x 360 struttura, x 359 Composti organici, teoria, x 365 Computabilità effettiva, VIII 360 Comunicazione, VII 167, 390-391, 400, 446;
XI
22, 24, 6I, I43
a distanza, XI 43I-432 informatica, XI 433-434 mezzi, XI 327, 427-446 orale, XI 427-429 scritta, XI 429-430 stampata, XI 430-43I telematica, XI 434-436 Comunismo, n I29; v 25, 63, 8I, 88, 90-93, 104; VI 57, 66; VII 347, 4II; VIII 76 Comunità, XI 64 dei dotti, IV 213 estetica, XI I48 ideale, XI 22 Comunitarismo, XI 98, 102-I06 Concetti, dinamica, x 470 Concetto, I 102, 2I9, 26I, 410, 453, 526, 532; III I42, I44, 449-452, 457, 462, 48I, 484; IV 243, 3I7; V 27, 50, 9I, I32, I36; VI I48; VII 12, 36, I40-I4I, 330, 380; XI I44 prescientifico, VII 236
Indice analitico Concettualismo, r 426; VIII 226; IX 266 Concezione antropocentrica, Il 326 Concezione del mondo, rx 535563 Concezione standard, rx 304, 306 Concezioni galeniche, n 92 Concorrenza mordi e fuggi, XI 420 Concorrenza perfetta, XI 418 sgg. Condensazione, r 38 di Bose, x 317 Condizionali, r 163, 265 Condizionamento, VII 177; VIII 483-485, 500; XI 316, 327 enterocettivo, VIII 501 Condizionato, vr 113 Condizioni di Prawitz, v. Prawitz Conferenza pansovietica (n), delibere, IX 395-399 Conferma, VII 499, 516 approccio logico-storico, IX 356 paradossi, rx 356 teorie "storiche", rx 355 sgg. Conflitto, VIII 506, 542-543 distributivo, XI no identitaria, XI no teoria, XI 363 Confrontabilità dei cardinali, VIII 234 Confutazione, rx 283-284 Congettura di Fermat, n 371 Coniche, n 373, 383 Connessione, principio, IV 109 Connessionismo, VIII 21 Conoscenza, r 124, 179, 264, 420, 425, 450, 452, 476, 525. 531, 533, 548, 550, 552; II 36, 38, 112, 124, 128, 239. 246, 253. 266, 273-275, 446, 457, 464; III 28, 34, 38-39, no, 346, 384-387, 446-461, 486-487; IV 223; VI 114, 131, 141, 185, 221; VII 104, 428, 488, 492, 510, 514-515; VIII 58, 63, 114-115; XI 244 Conoscenza di sfondo, rx 282283, 357 versioni lakatosiane, rx 358-361 distinzione da credenza, x 480 Conoscenza distribuita, x III Conoscenza globale, teoria, rv 478 Conoscenza filologica, rv 424 Conoscenza matematica, rx 295 sgg. Conoscenza scientifica, m 266 istanza empirica, VII 277 istanza razionale, VII 277
Consapevolezza, r 560 Conseguenza logica, IV 163; VIII 230, 233, 328, 341; IX 240 Consenso, I 273; n 447; vr 57 per intersezione, XI 108 Conservazione del sistema organico, principio, VIII 163 Conservazione dell'energia, principio, IV 433, 443; v 282-283, 289 sgg., 305, 315 Conservazione della massa, principio, v 114, 121; VII 115 Consistenza, VIII 215, 231, 270, 296, 341 dell'aritmetica, VIII 347, 380 Consumo improduttivo, IV 195196 produttivo, IV 195-196 Contabilità, insegnamento, III 363 Contatto, n 233 Contemplazione, II 450; III 380 Contenuto, VI 228 di pensiero, VII 495 di verità, VII 497 Contestable market, XI 419 Contesto, xr 133-134 della giustificazione, IX 305 della scoperta, IX 305 relazione con conoscenza scientifica, x 48 5 Contiguità, teoria, VIII 489 Contingentismo, VI 178-180, 208 Continuità nella retta, sezionabilità, VI 370 sgg. principio, III 234 Continuità di una curva, VIII 410 Continuità evolutiva, teoria, vr 36 Continuità spazio-temporale, vr 374 Continuo, r 44 dei metodi induttivi, VII 244246 ipotesi, VIII 196, 400 Continuo, ipotesi generalizzata, VIII 320, 396-398; IX 158-159 Continuo bidimensionale, dei metodi induttivi, VII 248-252 Contraddizione, r 52; III 34-35; IV 209, 309, 336, 339; v 17, 100, 154, 156, 401; VI 53, 57, 119120; VII 62, 169, 478-479; VIII 109, 212, 214, 268, 289-291, 306; XI 61, 177, 228 principio, r 164, 226, 476; III 31, 386; IV 50, 310; VI 182; VII 48; VIII 290 Contrattazione, teoria, xr 88-89, ro8
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Contratto, n 277-278, 281, 283; III 36, 306, 370; IV 326; XI 421 teoria, XI 88, 108, 412 Contrattualismo, IV 262; VI 63; XI 80-90, 97-98, 103, 184, 256 Contrizione, II 293 Controfattuale, IX 145 Controfattuali, problema x 42-43 Controllo demografico, rv 195 Controriforma, n 61-75 Convenzionalismo, n 249, 253, 285, 355, 360, 463-465; VI 181182; VII 14, 47, 378, 492-493, 507, 509, 517; IX 285 rivoluzionario, rx 367 scientifico, VII 261 Convenzione, VIII 534 Convergenza catabolica, IX 22 Convergenza delle serie, III 180 Conversione, VIII 356; IX 168, 252 fenomeni, v 288 teoria, II 358; III 137; IV 175 Conversione della quantità in qualità, legge, v 429 Convitto, I 513; III 418; IV 215; VI 101; VIII 31 Coordinate non euclidee, VIII 449 Coordination /ailure, xr 422 Copernicana, teoria, sviluppi kepleriani, II 409-415 Copernicanesimo, II n8, 123, 130, 135, 169, 408-410; III 18 Copertura, IX 215 Copione, xr 331 Copula, v 203-204 Corda supersimmetrica, teoria, x 315 Corde, calcolo, r 297 Corpi, n 254, 263-264; III 463; IV 474 quadratici, teoria, x 119 Corpo, r 45, 76, 153, 218, 276, 284, 380-381, 401, 448, 460, 525, 533, 56o; II 53, 105, 109, 230, 235, 257-258, 275; III 89, III, 336, 389; V 24, 52, 154; VI 30, 223; VII 32; XI 63, 180 Corpo nero, v 175; VI 434 spettro, x 294 Corpo rigido, rv 145 Correlazione, principio, IV 114 sgg. Corrente alternata, v 188 Correnti subcrostali, x 446 Correttezza dei programmi, x 97 sgg. Corrispondenza, principio, VIII 420; IX 454 Corroborazione (v. anche teorie scientifiche), VII 466, 500-506, 516
Indice analitico Corruzione, III 38 Corteccia cerebrale, x 207, 209 concezione colonnare, x 216 decodificazione delle sensazioni, x 207 motricità, x 207 nuclei nervosi sottocorticali, x 2II omuncoli, x 207-209 Corteccia occipitale, x 208 colonne di dominanza oculare, x 208 Cortigianeria, II r84 Cosa in sé, III 48r, 483-484; IV 205, 208, 317; V 134, 431; VI I 54 Coscienza, 1 ror, 103, ro6, 327, 386, 527; II II8, 229, 295, 459; III 37, 55-56, 85, 444, 453, 480, 483-484; IV 206, 209, 217, 306, p5, 461; V 27, 51, 124, 149, 153; VI 21, 38, II5, II?, I2I, 131, 142, 152, 172, 179, 187-189; VI 313, 320-321; VII 22-27, 31, 43, 131, r68, 317, 355, 360; VIII 474, 496, 499; XI 44, 52 Cosmo, 1 42, 57, 76 Cosmogonia, 1 23, p, r56; III 436 Cosmologia, 1 51, 2p; VIII 441 sgg.; 337, 356-357 differenze con le altre scienze, VIII 460-464 modelli antichi, VIII 442-443 modelli cosmologici contemporanei, x 357 modelli e filosofia materialistica, VIII 468 modelli statici e dinamici, VIII 450-451 modelli stato stazionario, VIII 453 sgg. modello di De Sitter, VIII 451 modello di Einstein, VIII 448450 modello di Godei, viii 453 modello di Milne, VIII 452 obiezioni alla sua scientificità, VIII 464-467 rapporti con l'astronomia, VIII 464·467 Cosmologia aprioristica, VIII 451, 466 fisica, x 319 naturalistica, III 232 novecentesca, storia, x 500 particellare, x 309 relativistica, modello inflazionario, x 358 scientifica, x 3P stazionarietà, x 3P
Cosmologico, principio, x 321 Cosmopolitismo, 1 268, 276 Costante cosmologica, VIII 450; x 322 Costi di transazione, XI 415 sgg. Costituenti ultimi, VIII 425 Costruibilità, VIII 20r; IX r63 Costruttivismo, VIII 208; IX 234; XI 357 Costrutto personale, XI p8 Costruzione, VIII 200, 295 Coulomb, legge, x 302 Cratoni, x 44 5 Cray, calcolatore, x ro4 Creatore, I 378; II 227 Creazione, 1 57, 388, 408, 415, 460; II 234, 262; IV 480; V 53; VI 172, 221 di razze, VIII r89 Creazionismo, III 219; IV III, II5, 231; V 336, 339, 360 Creazionistica, concezione, III 217 Credenza, III r12; VI 125; VII 310; VIII 489 distinzione da conoscenza, x 480 sgg. Credenze, x i6 sgg. Credenze epistemologiche, x 27 medico-magiche, II 91 ontologiche, x 26, 51 Credo, IX 39-40, II3 Crescita delle popolazioni, modelli, x 134 Crescita e rivoluzioni, x 490 sgg. Cretaceo, x 240 Criptoinduttivismo, x 72 Criptozoico, x 247 Crisi dei fondamenti, VIII 194 Crisi della scienza, Vli 509; VIII 93 Cristallino, IV 434; x 439 Cristallo organico, x 366 Cristianesimo, II 37, 471; III 392; IV 38, 224, 301, 483, 495; V 2223, 30, p, 37, 45, 56, 6o, 142145; VII 396; VIII 59 Critica di Lucas, XI 405 Criticismo, III 448-478; IV 202; v 25; VI 130; VIII 67 Crivello, IX 2r6 Cromatina, IX 56 Cromatografia, x 375 in fase gassosa, x 375· su carta, x 375 su colonna, x 375 Cromodinamica quantistica, x 3II Cromosoma, VIII r8r sgg.; IX 24, 45; x 234 Cronometro marino, III 194 Cronotopo, IV 480 Crosta, x 448
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Cubo, duplicazione, 1 201-202 Cultura, XI 260 sgg. egemonica, XI 304 rinascimentale, II P9 subalterna, XI 304 Culturalismo, IX ro6 Cuore, II po; IV 87; VI r85 ricerche, II 427-428 Cura, VII 157, 177 Curriculum educativo, I 330, 335, 341, 346-347, 355, 364; II 194, 203; III 409; XI 341 Curva isocrona, III 178 Curvatura, x 302 di una curva, II 378 Curve algebriche, II 373 geometriche, II 373 gobbe, III 173 Customer markets, XI 420 Cuvier-Geoffroy, disputa, IX 37 D' Alembert, equazione, III 178 principio, III r85 Dalton, legge, x 36r Dalton plan, VIII 40-41 Danza, I 355; II 291 Darwinismo, v 126; VIII II8 crisi, VI 290 Darwinismo neurale, x 212, 263 memoria, x 213 popolazioni di neuroni, x 213 Datazione, metodi, x 225 Dati di fatto, x 488-489 Dati non intenzionali, x 479 Davis-Putnam, metodo di riduzione, x 90 De Sitter, modello, v. cosmologia Deborin, gruppo, IX 419 Deborin -Stepanov, controversia tra dialettici e meccanicisti, IX 394-395 Debugging, x 91 Decidibilità, VIII 215, 310 Decisione, problema, x 82 procedura, VIII 258, 285 Decisioni meccanizzate, x 8r Declinazione magnetica, IV 26 Decomposizione della luce bianca, II 519 Decoro, 1 548 Decostruzione, XI 52-57, 141, 154156, 349 Deduzione, II 347; IV 210, 302, 304; VII 35, 302, 488; X 83 meccanizzazione, IV r62 naturale, VIII 342-346; IX I?8r82, 249-253 teorema, VIII 343 trascendentale, III 4 52 Definibilità, VIII 200, 250-253; IX r66
Indice analitico Definizione, II 268 impredicativa, VIII 226, 237 predicativa, vm 226 Degradazioni anaerobiche, IX 22 Dei, v. divinità Deismo, II 470; III I5, 2I-25, 36, 38, 42, 52, 59. 75. 97. 245. 302, 392; V I63; VI 112 Deliberazione, Xl 85 Delocalizzazione elettronica, IX I6 Demand management, Xl 404 Demarcazione, criterio popperiano, x I4 Demarcazione naturale, IX 277 Demarcazione tra scienza e non scienza, IX 29I; x 22 sgg. Democrazia, I 92, 228, 330; III 66, 306, 337; IV 485; VI 6I, 254; VII 58, 64, 68; VIII 9, 546; IX 497; Xl 238, 246 progressiva, vm 76-77 Demone, I 340; IV I84; Xl 26 Denaro, v 381-387; XI 210 Denotazione, Xl I24 sgg. Denudazioni, x 449 Deriva dei continenti, X 444 genetica, vm 190 genetica causale, IX So Derivata, II 383, 50I, 514; IV 393 Derivate parziali, m I77 Derivate seconde, terze, ecc., n 512 Descrizioni, teoria, Xl 112 Desiderio, IV 5o; XI 46 Destino, I 262, 278, 559; II 33, 36; lii 18; VII 166; XI I96 Destra hegeliana, v 31-36, 45, 62 Determinanti, ricerche algebriche, II 499 teoria, III I78 Determinanti isotipici, x 264 Determinatezza, assioma, IX I6II63 Determinismo, I I2I, 267; IV 107, 419, 448-449; V 265; VI 164, 173, 175, I79, I88, 208, 210; Vll n; VIII 62, 428; Xl 262 meccanicista, IV 78-79 organico, IX 69 Devoniano, x 246, 447 Diacronia, VII 376-377, 385, 405, 443. 445 Diagnosi, I I35 Diagramma, VIII 372; IX 20I, 207208, 220-225' 238 Diagrammi di flusso, x 98 Dialettica, I 52, 57, 179, 257, 381, 420, 425, 518; II 34, I04, 347; IV 298-299, 308-314; V 18, ?I, 81-83, 97, 104, 140, 425-426,
441; VI 120, 2I2-2I4, 218, 222; VII IOI, 109, 119, 300, 323, 366, 476, 48I-483; VIII 95, 108, III, 493; IX 269; XI 7, 9, 11-12, 34, 46, 171, 181, 200-201, 239 sgg. insegnamento, I 337, 342 Dialettica servo/padrone, IV 306 Dialettica trascendentale, III 456459 Dialogo, I 100; XI 32-33, 35, 42 Diamat, IX 483 Diapirismo, x 444 Diderot-D'Alembert, enciclopedia, III 279 sgg. Dietetica, I 196 Difetto di un poligono, III 163; IV 133 Differenza, v 27; XI 40-57, 155, 166 sgg., 184, I94 principio, XI 82 sgg. Differenza specifica, I 220; III 142; IV 461 Differenziale, calcolo, II 499 simbolo, II 500 Differenziamento cellulare, IX 58 sgg. Diffrazione, n 416 Diffrazione a raggi X, x 414, 418, 427 Dignità, II 30, 38; III 56, 382, 469 Dilatometri, m 195 Diluvio, III 232 Dimensione, IV 322 di uno spazio, VIII 410 Dimenticanza, curva, VI 19 Dimostratore automatico, x 83, 93 sgg. AURA, v. AURA di Boyer e Moore, v. BoyerMoore Dimostratori, test, x 94 Dimostrazione, I 246, 315, 409, 464; II 231, 464; III 128-129; VI 225; VIII 215, 233, 237, 303, 341342; IX 249-253; X 102 sgg. teoria, VIU 217, 291; IX 174 teoria di Gentzen e Herbrand, x 88 Dimostrazione assistita, x 100 sgg. automatica, x 83 computabile, IX ISo e uso dei computer, x 136-I37, I39-140, 158, 173 riduttiva, teoria, VIII 3So Dimostrazioni di correttezza, v. correttezza Dinamica, v 263 fondazione, n 401 principi, II 5I7; v 324
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Dinamica delle forme, IX 38 di gruppo, VIII 506 molecolare, x 4II terrestre, x 444 Dinamismo, v 283, 289-290 fisico, IV 226-227, 232, 242 sgg. Dinamite, v 190 Dinamo, v 187 Dinosauri, estinzione, x 239 sgg. Dio, I 45, 49, 175, 2I5, 232, 278, 282, 369, 378, 381, 386-387, 393. 400, 402, 407·410, 420, 423·424, 447. 464, 472, 474. 476, 489, 520, 531, 535, 537; II 22, 34-35, 67-68, 74, I07, 121, 125, 129, 224, 228, 244. 257. 262, 268-269, 280, 322, 448449; III 24, 26, 44, 49-50, 55, 57. 112, 303, 327. 347. 385, 387, 391, 438, 458, 472; IV 20, 36, 217, 224, 288-289, 307, 352, 363, 387, 467, 473. 479·480; v 32, 52-54, 74, 142-145, 161-163; VI 126, 150-151, 161, 171-172, 178; VII 120, 153, 167, 169, 175, 353-354, 428; VIII 61-62, 64; XI 50, 65, 179. 193 libertà, III 35 Dirac, soluzioni con energia negativa, X 299 soluzioni con energia positiva, x 299 teoria, x 299 sgg. Dirichlet, teorema, VIII 285 Diritti, II 283, 467; m 12, I22, 378; IV 381, 467, 475; XI So, 91 sgg. Diritto, II 28o; IV 212, 326, 328; VI 64; VIII 534 insegnamento, I 359, 363, 513 Diritto civile, II 281 Diritto in sé, IV 326 Diritto naturale, II 276, 286, 447; III 335; IV 353; Xl 254 Dischi protoplanetari, x 340 Disciplina, I 497-498, 510-5n; II 179. 195. 203, 292, 300, 302, 308; IV 6o, 267, 270-27I; VI 74, 100; Vll 342; VIII 22, 37; IX 497 Discontinuità, I 46 dell'energia, principio, VII n6 Discontinuo, I 46; VIII 416. Discorso, I 267; II 344; XI 15 Disegno, insegnamento, I 348; II 184; III 363; IV 280 Disequilibrio, teoria, Xl 408 Dislivello, Xl 304 Disoccupazione classica, XI 409 Disoccupazione keynesiana, XI 409
Indice analitico Disordine naturale, III 271 Disparità, x 246 Disputa, teoria genetica - ipotesi di Lamarck, rx 417 Disputa Newton-Leibniz, v. Leibniz Disputa sul vuoto, n 394 Dissociazione elettrolitica, x 379, 394, 407 Distribuzione, teoria, XI 385 Distribuzione geografica, v 359 Distribuzioni, teoria, VIII 413; x 121 Disuguaglianza, 1 338 Divenire, 1 50, 56, 68, 163; n n8; IV 316, 336, 481; V 140, 424, 188, 190; VII 337; VIII 550 Diversità, x 246 Divertimento, n 300 Divinazione, III 262 Divinità (v. anche Dio), 1 21 49, 91, 104, 261, 267 Divisibilità, 1 155, 227, 261; n 260, 316; VI 175 Divorzio, IV 51 Dizionario, rx 346; xr 173-175 DNA, m-135; rx 31, 42, 48 sgg.; x 231, 267, 412-413, 415 scoperta, rx 47-48 DNA egoista, x 231 DNA ricombinante, x 412-413, 434 Dogma, r 375, 409, 443-445, 472; Il II3, 260; III 22, 31, 61, 77, 302, 392; IV 354, 487; V 26, 53-54 olistico, rx 286 Dogmatismo, IV 206-207; v 440; VII 483 Dolore, 1 158, 261, 521, 525, 537; Il II9; III 36, 57-58, III; IV 199; V 136; VI 140 Dominante, VIII 497 Dominio, x 265 Donatismo, I 385 Donna, 1 328; III 444; v 438 educazione, 1 332-333, 340, 344, 347, 359, 364; Il 201, 305, 309; III 309, 401, 407, 412; IV 215, 267, 455, 46o; VI 73, 238 Dono, IV 291-292 Doppia verità, I 410, 444, 481; n 54-55, II5; V 26, 30, 32-33 Doppietti elettronici, x 399 Dottrina aristotelica delle cause, Il 324 dei quattro elementi, n 326 della soggettività delle qualità sensibili, n 339; (v. anche qualità primarie e secondarie) mnemonica della vita, VI 288 Dovere, m 469; IV 207, 381, 462, 467; VII 314, 317, 360; VIII 21
Downsizing, Xl 432 Drake, interpretazione, x 473 Drive, VIII 481 · Dualismo, n 230, 244, 256, 314; III 45, 480; IV 47, 308-309; V 45; VI 17, 35, 44, 159, 186; VII 76, 172, 322, 332, 352, 354; VIII 25, 91; Xl 6?, !62 ondulatorio-corpuscolare, IX, 408; x 385-386 Dualità, IV 253 principio, IV r6r Dubbio iperbolico, n 224, 228; III 27 Dubbio metodico, n 223-224; III n6; VI 240 Dubinin, critica della genetica, IX 419 Dubna, laboratorio, x 299 Duhem-Quine, tesi, IX 284-285, 326-327 Duplice semenza, III 22 5 Dynamis, I 131, 135 E, carica dell'elettrone, v 172 Ebraico, insegnamento, n 69 Eccentrico, I 249 Eccesso di un triangolo, IV 135 Eclettismo, r 258, 264, 271; IV 358; VI 128; VIII 68, 477; Xl 149 Economia, XI 384-426 assiomatizzazione, VIII 414 insegnamento, III 363 Economia e scienza, v 327 sgg. keynesiana, XI 384 sgg. marginalista, XI 385 marshalliana, XI 385 neoclassica, xr 384 sgg. politica, IV r8o-2oo; v 76, 8o; VII 325, 354 Economia-mondo, XI 217, 258 Economicità del sapere, principio, VI 145 Economie sequenziali, XI 412 Ectropici, fenomeni, VIII 142 Edipo, mito, XI 43 Editoria elettronica, XI 444 Educazione, finalità, I 338-339, 345, 484, 488, 491; Il !83, 289, 296, 473-474; III 310, 352, 4II, 473; IV 51, 214, 264, 271, 289, 347, 459, 4?6, 483-484, 494; VI 215, 240; VII 57, 67, 72, 75, 341, 350; VIII 41, 45 Educazione comune, n 188, 200 di massa, r 496; IV 490 indiretta, n 307; IV 490, 496; VI 98 negativa, III 314, 404, 473; IV 272 permanente, IX 516
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popolare, III 404, 406; rv 66, 496 progressiva, VIII n; IX 497 Efebia, I 352 Effemeride, sofismo, III 249 Effettivo, VIII 351-366; IX 162-167 Effetto, legge, VIII 22-24, 484 Effetto antagonista, x 281 cascata, x 236 elettrometrico, x 400 fotoelettrico, V 177; VI 430, 436; x 385 induttivo, x 400 sinergico, x 281 tautomerico, x 400 termoionico, v 177 Efficienza, principio, XI 86-87 Egemonia, rx 512; xr 227 Eguaglianza, n 281, 283, 289 Eigen, modello, IX 88-89 Eigenbehaviour, x 278 Einstein, modello cosmologico, VIII 448-450 Einstein, Podolski, Rosen, esperimento, x 290-291 Elementi, r 544, 559; III 323 teoria, v 330 sgg. Elemento chimico, x 360 definizione di Boyle, n 426 Elettricità, n 94, 398 fluido, x 364 natura corpuscolare, VI 429; x 364 scoperta, x 364 teoria dualistica, III 206 Elettricità animale, III 206 di contatto, III 207 Elettrizzazione, III 205 Elettrochimica, rv 399; v 189 Elettrodebole, teoria, risultati sperimentali, x 309 Elettrodinamica, irraggiamento, VI 439 Elettrodinamica quantistica, x 302 storia, x 500 Elettrofisiologia, III 241 Elettroforesi, x 375 Elettrolisi, IV 399; v 175, 189; x 364 costante di dissociazione, x 394 legge di Faraday, x 364 Elettroliti, grado di dissociazione, x 394 deboli, x 395 forti, x 395 Elettrologia, III 206; IV 82, 398 Elettromagnetismo, IV 226 Elettrone, v 176; VIII 420; x 380, 387 definizione di Frank, rx 473 e/m, x 380 libero arbitrio, IX 474
Indice analitico scoperta, x 380 spin, x 383 teoria, x 299 Elettroni, indistinguibilità, x 387 Elettronica a stato solido, x 317 Elettronvolt, x 298 Elettroshock, x 209-210 Elettrosincrotrone, XI 475 Elettrotecnica, v 187-188 Elettroterapia, V1 316 Elio, abbondanza, VIII 458 Eliocentrismo, I 45; II 130, 442 ipotesi eliocentrica, I 248 Emanazione, I 282, 378, 393, 520; II
38
Emancipazione, XI 246, 248 Embriologia, II 434-435; IV 257258; V 360; VI 261 sgg., 303 sgg.; IX 63 cartesiana, II 435 chimica, IX 27 molecolare, IX 63 Embrioni planetari, x 339 Emisferi di Magdeburgo, n 396 Emissione stimolata, x 294 Emoglobina, x 414, 422-423 Emozione, VJII 483 Empiria, IV 244 Empiriocriticismo, V1 144; VJI 96109
Empirismo,
I 471; n 447, 450, 466, 479; III 12, 51, 72, 169, 300, 330, 336, 358, 371, 442, 459, 487; IV 86, 88, 96, 100, 461, 464-465, 472; v 146, 312, 365; Vl IO, 117, 127, 140; Vli 25, 44, 53, 301, 423, 430, 439; VIII 83, 108, 546; XI 44, 185
Empirismo costruttivo, v. Van Fraassen Empirismo logico, VI 45; VII 210 sgg.; 459, 490 e metafisica, VJI 211-212 e tecnicismo, vn 252-253 Empirismo radicale, VIII 465 Emulazione, I 362; n 195, 197,
V1
299-
300; VI 459
equivalenza massa-energia,
VI
459
principio di conservazione, in Leibniz, v. Leibniz specifica dei nervi, IV 417 Energia cinetica, n 504-505; III 182 di attivazione, x 394 di Planck, x 304 elettrica, v 187-188 Energia meccanica, v 187-188 dissipazione, v 301 Energia potenziale, II 505; v 295 Energia stellare, conduzione, x 341 convezione, x 341 trasporto radiativo, x 341 Engels, causalità e necessità, IX 452
Engramma, IX 117 ENIAC, XI 432 Entità teoriche, x 57 posizione di Shapere, IX 373 Entropia, v 282, 300, 302-303, 309-310;
Vli
512
sistemi biologici, IX 17 Entropici, fenomeni, vm 142 Enumerazione, regola, II 222 teorema, vm 363 Enunciati, classificazione, vn 221222
analitici, vn 232 ideali, vm 213 legisimili, x 41 osservativi, vn 235 probabilistici, VII 242 protocollari, o protocolli,
III
284-
286
contenuto, m 286-291 rinvii, m 287 successo commerciale, m 291292
sviluppi, m 292-295 Enciclopedia metodica, III 293 Endocrinologia, IX 24 sgg. Energetica, v 313 sgg. Energetista, concezione della vita, VJII 153
VJII 477 IV 234,
422; VI 287; IX 66 teoria, II 434-35 Epigenetica, m 173, 236, 252 Epigenotipo, IX 71 Epilessia, I 128 Epistemologia, VI 178; VII 417, 438-439, 457-518; XI 15, 337-360 negazione, VJI 277
ostacolo epistemologico,
VII
275-276
Epistemologia anglosassone, x 76 borghese, IX 471-472 genetica, VJII 472, 507-512, 352 naturalizzata, x 76 post-neopositivista statunitense, x 76 strutturalista, XI 353 Epitopi, x 278 Epoche di cultura, V1 83; IX 529
Epoché, VII XI
I 256-260; m 34; VI 88; 24-27, 30, 33, 37; VIII 94; 49, 173
Equazione algebrica di quarto grado, II 83 di terzo grado, II 83 generale di quinto grado, m 179
Equazione di Dirac VJII 422 di Schrodinger, v. Schrodinger differenziale lineare omogenea a coefficienti costanti, m personale, VI 12 Equazioni alle differenze finite, Vlii
VJI
416
Equazioni differenziali, m 177; v 169, 260
216, 224, 467, 471
sintetici, vn 232 Enunciato, XI 117 sgg., 131-134 confermabilità, VII 225, 232, 256
significato (vedi anche significanza), VII 230, 232-233 significato conoscitivo, VII 211traducibilità (v. anche traduzione), VII 223 traducibilità completa, VII 224, 230
traducibilità parziale,
Epifenomenismo, Epigenesi, III 225;
177-178
212, 231
300; III 397; VIli 544
Enciclopedia, n 363 collaboratori e lettori,
Energia, m 327; v 282;
VII
224,
230
verificabilità, VII 211-212 Enzima, IX 54; x 238, 411, 414-415 Enzimi, restrizione, x 412-413, 415 Eone, I 378 EOUN, XI 437 Epiciclo, I 249 Epicureismo, n 33; m 318, 343
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alle derivate parziali, III 178, 181 Equazioni indeterminate, o diofantee, I 305 Equazioni integrali, v 170 Equifinalità, VJII 164 Equilibri punteggiati, x 225, 238 Equilibrio, metodo, XI 419 della paura, XI 450 di Nash, XI 413 intertemporaneo, XI 412 omeostatico, IX 26 temporaneo, XI 412 Equilibrium business cycle, XI 399 sgg. Equipollenza, teoria, IV 175 Equipotenzialità, postulato, VJII 476
Equità, principio, XI 82 sgg. Equivalenza, principio, x 302 elementare, Vlll 375 empirica, x 64
Indice analitico Era di Planck, x 325, 326 Eratostene, crivello, I 250 Ercinidi, catene montuose, x 44 7 Eredità dei caratteri acquisiti, vr rn; VIII r87 Ereditarietà, III 173; v 356, 367368; VI 23-24, 88, 263; IX 42 caratteri acquisiti, VI 273, 278, 282, 284 sgg., 288 concezioni, VIII 177 legge, VIII 494 modello corpuscolare-gometrico, vr 273 modello energetico-dinamico, VI 273 per mescolamento, v 367 Ereditarietà intermedia, VIII 182 Eristica, 1 r 68 Erlebnis, VIII 520-521 Ermeneutica, XI 15, 19, 27, 30-36, 57, 68, 70, 148, 155, 167, 189, 197, 2oo-2or, 212-213, 223 sgg., 230, 348 Eroe, rv 39-40 Eroico, furore, II 124 Eros, XI II Errore, I 103, 261, 267, 389, 445, 525, 531, 533; II 236, 274, 359, 361; III 16, 27, 33, 48, 92, II3, 326-329, 332, 337; IV 50; VI 121, 415, 417-418; VII 510; VIII 54 Erudizione, II r84 Es, VIII 489, sor; XI 310 Esattezza, VII 28 Esaustione, metodo, I 207; II 369, 382 Escherichia coli, x 412-413, 415 Esclusione, principio, VIII 423; x 293 Esistenza, I 408, 423, 447-448; v 155; VI 225; VII 166 Esistenza degli enti matematici, VIII 2II, 218 Esistenzialismo, IV 53; v 128, 146183; VII 403; VIII 66, 72-73, 76, 80, 82-87, 90; XI 3, 48 ateo, VII 172-183 Espansione del globo terrestre, x 444 Espansione terrestre, x 449 Esperienza, I 51, 84, 130, 132, 462, 476; II 245; III 385-387, 442, 464; IV 20, 41, 8o-8r, 107, 243, 321, 336, 379; v 152, 156, 331; VI 32, 126, 145, 153, 155, r82; VII 43-47, 67, 129, 404, 462; VIII 17, 93, 499; XI 6o, 244 Esperienza diretta, educazione, 493-494; VIII 18 Esperienza pensante, VI 259
Esperimenti galileiani, tesi di Koyré, x 473 Esperimento, IV 14, 84; VI 145; VII 503; VIII 481 cruciale, v 321, 332 mentale, II 240; VIII 509 scientifico, x 68 Esplicazione, VII 235-239 Esplicazione, explicandum, VII 236 sgg. explicatum, VII 236 sgg. Esplicazione scientifica, III 254 Esplosione primordiale, vm 458 Esplosivi, v 190 produzione III 196 Esponenziale, IX 222 Espressione, VII 449 Espressione indicale, XI 133 Esprit de /inesse, n 317-323; rv 263, 456 Esprit de système, III 260 Esprit géométrique, II 317 Esprit systématique, III 272 Essenza, I 164, r68, 176, 408-409, 428, 447, 546; II 254, 267, 448; III 323, 489; IV 317; VI 225; VII 432 ideale, VII 23, 26 Essenzialismo, vn 517 Esserci, vn 154-157, 174 Essere, I 50, 93, 102, 281, 369, 400, 448, 464, 526, 537, 544; III 489; IV 202, 303, 307, 315, 384, 472; V 33, 55, 134, 440; VI 178, 218; VII 35, 128, 169-171, 336; VIII 61, 84, 88, 90, 550; XI 32, 45-46, 65, r67 sgg., 175-r8o immobilità, 1 50, 52, 54 immutabilità, I 67 infinità, 1 67 primalità, II 128 unità, r so, 52, 54, 56, 68 Essere-in-sé, VII 172, 174, 177 Essere-nel-mondo, VII rs6-158, 172-173 Essere-per-sé, VII 172, 174-175 Estasi, 1 282, 46o; xr 64 Estensionalità, assioma, VIII 240, 270, 274; IX 158-159, 177 Estensione, 1 r63, 530; II 230, 233, 251, 270-271; III 84-85; IV 159, 169; VII 315; VIII 208, 265, 281 Estensione elementare, VIII 372 Esteriorità, rv 319-320 Esternalità, xr 416 Estetica, III 52, 103, II9, 349, 380, 384, 389, 489; IV 34, 343, 345; VI r68, 228; VII 320-322, 388; VIII 64, 95; Xl IO, 140-158, 241 esperienza, 1 534; v 125; VI 8o;
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XI 143-145 ambientale, XI 157 comparata, XI 141 della ricezione, xr 141-143 trascendentale, lii 448-450 Estinzione dei dinosauri, v. dinosauri, estinzione Estinzioni, ciclicità, x 242 di massa, x 241 di sfondo, x 241 Estraniazione, v 67, 79-8o; xr 222 Estroversione, XI 326 Età dell'universo, v. universo Età mentale, VI 97 Etere, I 231, 530, 559; II 418-419, 520; III 204, 239; IV 245, 398, 405-406; v 268-269, 279, 284, 321; VI 448 sgg.; x 296 Eternità, I 50, 232, 380, 408, 415, 474, 530 Eterocarioti, x 266 Eterogeneità degli anticorpi, x 257, 258 Eterogenesi dei fini, legge, VI 17 Eterozigoti, x 228 Etica (v. anche morale), 1 102-104, rs6-r59, 174-175, 227, 262-263, 267, 273, 389-390, 447-449, 525, 529, 546; Il 34, 38, 64, II8, 235-236, 264, 272-275, 464; III 30, 51-58, 72-74, 95-97, 109, II6-II9, 469-474, 489; IV 207, 474, 495; VI Il5, 140; VII 55, 64, 313, 317, 327, 341, 354; VIII 65, 526-537; XI 14, 24, 28, 48, 5I, 59, 6r, 64, 78, 173, 194, 197, 202, 207-213 assoluta, VI u6 della comunicazione, XI 22 Eticità, IV 326; VII 326 Etimologie, I 397 Etnocentrismo critico, XI 298-299 Etnografia, xr 267 Etnologia, xr 290, 294 sgg. Etnometodologia, XI 363, 367 Etnoscienza, XI 266, 269 sgg. Etologia, IX 97 sgg.; x 219 meccanismi innati di scarica, x 219 schema d'azione fisso, x 219 Eucariota, v. cellulà Euclideismo, VII 487; IX 296 Eudosso-Archimede, postulato, VI 373 Eugenetica, VI 24-25; IX 79 Eugeosinclinali, x 455, 458 Eulero, congettura, x 104 formule, III 179 Euristica matematica, v. Polya negativa, IX 320
Indice analitico positiva, IX 320 Eustatismo, x 461 Evaporitici, strati x 467 Eventi psichici, tesi del parallelismo, IX 120 Evento, XI 197 cognitivo, XI 332 Evidenza, I 267; II 222-239, 264; III 27, 37-38, 124, 152, 345; VI 181, 202; VII 35; VIII 236, 390, 532; XI 52 Evoluzione, VI n4-n6; x 238-239 adattamento, interpretazioni, IX 76-77 adattamento e opportunismo, x 227 sgg. assiomatizzazione mosaico, IX 92 caso e necessità, IX 81 sgg. continuità e discontinuità, x 222 sgg. determinismo e indeterminismo, IX 81 fattori, x 229 fenomeno storico, IX 84 macroevoluzione, IX 91 meccanismi evolutivi, IX 90 microevoluzione, IX 91; x 231, 236 problema delle origini, IX 85 sgg. progresso, IX 77 sgg. teoria, IX 13 teoria, trattazione matematica, VIII 189 teoria gerarchica, x 231 sgg. teoria sintetica, IX n, 70 sgg. teoria sintetica, differenze teorie neodarwiniste, IX 74 teoria sintetica ed etologia, IX 99 trasformazioni affini, IX 35-37 Evoluzione biologica e culturale, IX 92 sgg. posizione autogenetica, IX 93 posizione ectogenetica, IX 93 · Evoluzione chimica, IX 24 del bambino, VIII 473 della diversità, x 244 sgg. e algoritmi, x 493 sgg. e materialismo dialettico IX 418 sgg. emergente, VIII 137 molecolare, x 229 prebiotica, IX 21, 86 regressiva, IX 78 Evoluzionismo, v 8, 335 sgg.; VI 59, 64, n2, r88, 257, 264, 266, 275, 285-286; VII 77; IX 69 sgg.; XI 259
Ex-aptation, x 234 Experimentum crucis, IX 286; x 8 Experimentum crucis in debole, x 35 Eziologia, I n6, 122, 131 FAB, x 265 Facies sismiche, x 462 Facoltà, III 86 Facoltà conoscitive, III 272 Facoltà naturale, I 320 FACS, x 271 Faglia di San Andreas, x 454 Faglia nordanatolica, x 454 Faglie trasformi, x 450 Fagocitica, attività, x 256 Fagocitosi, teoria, x 256 Falansterio, VI 50 Falde di ricoprimento, x 449 Fallibilismo, VII 456; XI 20, 236 Fa!! aut, x 240; XI 450, 465 Falsificabilità, VII 463 Falsificatori euristici, IX 299 potenziali, IX 277, 280, 283; x 6, 12, 15 Falsificazione e verificazione, asimmetria, x 7 Falsificazionismo, VII 456-518; x, 6 critiche di Griinbaum, x 8 sgg. debolezza metodologica, x 15 ipotesi ad hoc, x ro sgg. paradosso di Hempel, x 15 revisione, IX 277 sgg., 325, 326 critica olistica, x 8 Falsificazionismo come criterio di scientificità, x 7 F alsificazionismo metodologico, IX 285 Falsificazionismo popperiano, originalità, x 7-8 Falsificazionismo sofisticato, IX 318 Famiglia, I 176, 228; III 121; IV 364; V 86, 434-438; VI 59; VII 345 educazione, I 332, 340, 348, 355, 485, 491; n 34, 188, 194, 200, 297, 309; III 4II, 417; IV 2!6, 282, 380, 455, 484, 490, 496; VI 242; IX 505 Fanciullo, I 349, 511; II 34, 184, 200, 298, 307, 475; III 92, 310, 352, 365, 373; IV 288, 477; VI 92, 105; VII 67, 348, 350; VIII Il
Fantasia, II 232, 241; III 348; IV 24, 31, 57, 327, 331, 373 F araday, legge, v. elettrolisi Fascio di insiemi, IX 214-218, 246 Fascio strutturale, IX 214 Fatalismo, I 284; VIII 263 Fati ca intellettuale, VI 97
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Fato, I 267 Fatti "impregnati di", teoria, IX 294 Fatto, VII 489 Fatto bruto, VI 184 scientifico, VI 184 Fattore di crescita nervoso, v. NGF Fattore di scala R, x 322, 326 Fattoriale, III 188 FC, x 265 Fede, I 374, 381, 409, 422, 445, 459, 472, 474, 484, 551; II 28, 54-55, 65, ro8, 260, 263-264, 320, 322; III 31, 33, 38, 48, 487; IV 31; V 142-143; VI 185 Federalismo, IV 464 Felicità, I 104, 158, r62, r64, 175, 227, 261, 267, 273, 278, 340, 344, 448, 550; II 258, 475; III 28, 36, 55-57, 97-98, 332, 382, 404, 410, 472; IV 183, 197; V 6o; VI 161; XI 76-77 Fenilalanina, IX 51 Fenomeni caotici, attrattori strani, x 136 dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali, x 136 teorie, x 123, 125, 135-136 Fenomeni cognitivi, processi emotivi, x 2II Fenomeni ereditari, III 225 psichici, III 226 Fenomenismo, IV 474; v 153, 156, 331 sgg.; VI 127-128, 140; VII 98, 107, 12J, 136-137, 145, 308, 357 Fenomeno, m 456; IV 414 Fenomenologia, IV 325; VI 22, 32, 221-222; VII 19-39, 127, 147, 149, 151-152, 155, 172, 403; VIII 64, 66-68, 72, 92-96, 99; XI 3, 9, 48, 53, 57, 142, 2Il, 347> 365 sgg. Fenomeno molare, VIII 486 Fenomeno originario, IV 238-239, 242, 247 Fenotipo, x 70-71; x 223 Fermat, teorema, x 104, 137-140 Fermentazione, II 235 spiegazione cartesiana, II 423 Fermento, principio, II 422 Fermi, teoria, x 304 Fermioni, X 295 Feuer, analisi storica, teoria relatività, x 481-483 Feyerabend, causa dell'alienazione, IX 349 critica delle posizioni popperiane, kuhniane e lakatosiane, IX 340 sgg.
Indice analitico riferimento a Hegel, IX 347348 riferimento a Marx, IX 348-349 Fibra, IX 249 Fibre nervose, conduzione saltatoria, x 435-436 nodi di Ranvier, x 435 Fibre nervose mielinate, x 435 Fideismo, VII 108 Figura di regolazione, IX 39 Filantropismo, m 396 Filiale russa della scuola di Copenaghen, IX 465 Filiazione, x 223 Filogenesi, x 237 Filologia, I 242 Filosofia, I 101, 217, 264, 272, 277, 400, 407, 409, 424, 426, 443, 464, 518; Il 37, 53-54, 255, 320, 356, 359; III 14, 47, So, 84, 102103, 348, 462; IV 15, 31, 34, 49, 54, 170, 219, 222, 263, 326-327, 332, 336, 371, 378, 387; v 40, 46, 55, 63, 69, 91, II2, 137, 412, 424, 429, 442; VI 120, 136, 145, 147, 154, 156, 166, 218-219; VII 15, 30, 33, 36, 50-53, 75, n6, 121, 123, 138, 155, 171, 303, 322324, 330, 337, 352-354, 403, 409, 417-418, 439; VIII 63, 67, 87, 99-100, 102; IX 535-563; XI 9-10, 32, 34, 36, 38, 40, 44, 62-63, 65, 69, 164, 173, 176, 178-180, 196, 208 coppie opposizionali, VII 275, 278 insegnamento, I 353, 359, 363, 492; Il 178, 195, 299, 303; III 365 Filosofia analitica, VIII 96-103; XI 66, 69, II2, II5, 140, 337-338, 344 cinese, I 542-562 civile, XI 185 concordataria, VII 278 configurativa, XI 195 critica, Xl 195 del linguaggio, XI II2-139 dell'educazione, XI 344 della biologia, XI 28 della costruzione semantica, XI 195 della natura, II 13; IV 201 della prassi, XI 215, 220, 224227, 234 sgg. della scienza, VII 417; VIII 72, 98, II5 della storia, I 144; m 78, 123; IV 381; V 71; VII 93; XI 243 e scienza, n 214-217; m 91; VI
137, 209; VII 50, 306-309, 448; VIII 50-57, 65, 68; XI 145 ed epistemologia, vn 274-281 indiana, I 517-541; VII 352 popolare, m 389 pratica, XI 195, 202 pubblica, XI 195 Filosofo, I 176; II 125, 216; III 18, 61, 86; IV 303; V 44, 57; VI 171, 177; VII II3, 128, 355; VIII 94; XI 193 Filtro, IX 162 Finalismo, I 234, 316; VI 143, 189; VII 76 Finalità, IV II3, 230-231, 240, 428, 439; VI 291-292, 294 sgg., 30o301, 308 Fine, VII 29 atteggiamento antologico naturale, x 71-73 Finestra sensoriale, XI 33 3 Finitismo, VIII 285-294 Finito, I 37; IV 220 Fisiadsorbimento, x 397 Fisica, II 317; IV 319, 378; VII 129 insegnamento, III 365; VI 245 Fisica borghese, IX 465 Fisica cartesiana, crisi, II 337 Fisica del continuo, v 260, 269270, 284 del discontinuo, v 260, 269; VI 429 della materia condensata, x 287, 316 sgg. delle particelle elementari, x 299 matematica, m 169, 442, 455; IV 157; VI 153-154, 183; VII 38 Fisica nucleare, storia, x 499-500 sviluppo e finanziamenti, x 286 Fisica quantistica, VI 433 sgg.; x 380, 385 sgg. ipotesi di Planck, VI 433 sgg. sviluppi, x 292 sgg. Fisica sperimentale, III 169 Fisica subnucleare, x 287 Fisici idealisti, IX 464 Fisici parigini, n 326 Fisiocrazia, IV 274 Fisiognomica, IV 98, 235 Fisiologia, n 235, 426-434; IV 87, 96, 235, 255, 410 sgg., 426-427, 434, 444 sgg.; v 173, 321, 330331; VI II, 40, 297; VIII 501 storia, x 499 Fisiologia neuronale, x 202-205 attività elettrica cerebrale, x 204 biologia molecolare, x 205
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comportamento, x 203 endorfine, x 202-203 fattore di accrescimento del nervo, x 203 mediatore nervoso, x 202-203 modulatori, x 202-203 molecole ad azione trofica, x 203 organi effettori, x 202 plasticità, x 203 Fissione termonucleare, x 332 Fissiste, teorie, x 444 Flessibilità, x 230 Flogisto, III 208, 32 5 Floyd, formalismo, x 98 Fluidi, n 314 Fluidi vitali, III 253 Fluido elettrico, IV 398-399 teorie, III 206 Fluido galvanico, IV 398-399 Fluido universale attivo, III 243 Fluorescenza, v 176 Flussioni, calcolo, n 508, 513-514 Flusso genico, IX 74 Fluttuazioni quantistiche del campo, x 303 Fobia, XI 326 Foglio-mondo, XI 198 Fok, critica meccanica quantistica, IX 475-476 Follia, VI 209; XI 180 Follicoli ovarici, scoperta, II 435 Fondamenti della matematica, VIII 193-255, 270-305; IX 140, 157-199, 263-273 Fondamenti delle scienze, VII 37; VIII 52 Fondazione, assioma, VIII 274-275 Fondi oceanici, espansione, x 449 sgg. Forcing, VIII 396-399; IX 181-182, 187, 189-191, 246 Forma, I 154, 214, 410; II II7; III 386-387, 449, 482-484, 488; IV 24, 472; V 132; VI 23, 153, 159, 228; VIII 90, 203-204 grammaticale, XI n2 logica, XI II2, II7, 123 normale di Kleene, teorema, VIII 361 normale di Skolem, VIII 308 simbolica, vn 138 Formalismo, VII 141; VIII 202, 210218, 232-234, 249, 280, 286296, 299, 303-305 Formalizzazione, VIII 405; x 81, 103 Formazione anticorpi, x 260 Formazione dei dirigenti, II 75, 414, 448; IV 52
Indice analitico Formula, VII 260, 333; IX 239-245 della Barcan, VIII 389 di Lemmon, VIII 392 Formule di struttura, v 182; x 366, 370 Fortuna, II 34, 101 Forza, I 262; II 117, 124; III 435, 466; IV 55, 221, 340; V 121, 422; VI 142, 149; X 287 concetto, v 325 conservazione, IV 421, 434-435; v 296 nuova definizione, III 182 Forza centrifuga, II 405-407 di gravità II 168, 522 lavoro, v 101, 383-387, 394 perduta, III 185 vitale, II 523; III 252 viva, III r82; v 281, 285, 290 sgg. Forze, attrattive e repulsive, v 173, 294, 296, 321; X 364 Forze centrali, II 518; IV 399 centripete, II r68 deboli, x 297 forti, x 297 magiche, II 9 r naturali, IV 232-233; IV 242, 245, 2p, 439; v 284, 290-291, 294 nucleari, x 297 passive e attive, v. Leibniz penetranti, III 227 vitali, IV 416, 418, 420-421, 425, 431, 439; VI 298-299 Fatino, x 330 Fotoelettrico, effetto, x 296, 298 Fotografia stellare, VIII 444 Fotometri, III 204 Fotone, VIII 419; x 296; x 385 Fotosintesi, x 402 clorofilla, 402 Fototrasduzione, x 438-442, 441 Foucault, pendolo, v 174 Fourier, trasformata, x 377-378 trasformata inversa, x 377-378 Fraintendimento, XI 155 Frame di Minski, x 114 Francoforte, scuola, XI 4-19 Frane orogeniche, x 449 sottomarine, x 449 Frattali, x 133-136 autosomiglianza, x 135 insieme di Mandelbrot, x 135 insiemi di Julia, x 135-136 Frazioni continue, III 179 Freccia, IX 200-253 Free rider, XI 89 Frege, concetto, VII r86 scopo formalizzazione, x 8r
Frenologia, IV 97 sgg.; VI 11, 26 Fronesis, XI 35 Frustrazione, VIII 25, 489, 506; XI 326 Funtore, VIII 356; IX 174, 204-209, 239-240 algebra libera, IX 223 controvariante, IX 205 covariante, IX 205 dimenticante, IX 223 Funzionale, VIII 365; IX 175-178 ricorsivo, VIII 381 Funzionalismo, III 311; VII 134, 388; XI 306 sociologico, VIII 541; XI 361 sgg. Funzionalità, XI 302 teoria, IX 173 Funzionamento, XI 302 Funzione computabile, VIII 352, 358-361 Funzione d'onda, VIII 420, 435436; IX 453-454; X 390 interpretazione probabilistica, IX 454 Funzione di costante, VIII 354 di Galton VI 24 di misura, IX r62-r63 di perdita, XI 405 di selezione, VIII 354 di successore, VIII 354 di variabili complesse, III 178 di verità, VIII 283 di von Neumann VIII 271, 277, 322, 399 elementare, VIII 283 fattoriale, III r88 linguistica, VII 392, 444-445 nervosa, x 262 non matematica, VI 213; VII 135, 138 parziale ricorsiva, VIII 36r; IX !64, 172 predicativa, VIII 284 rappresentabile, VIII 360 referenziale, VII 392 ricorsiva generale, VIII 356 ricorsiva primitiva, VIII 319, 354-355; IX 163 Funzioni cerebrali, localizzazione, x 220 Funzioni di variabile complessa, teoria, v r67 Funzioni di variabile reale, teoria, v r68-r69 Funzioni ellittiche, v r69 Funzioni esponenziali, III r8o Funzioni nervose, localizzazione, x 207-210 plasticità, x 207-210
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Funzioni trigonometriche, III r8o Fuoco, I 37, 45, 57, 67, 76, r84, 230, 232, 267, 278, 401, 528, 530, 544 etereo, IV 102, 105 107 Fysis, I 71, 83, 95, 132, 145, r82 Galassie, VIII 449, 332, 333, 337, 247-356 alone oscuro, x 349-350 alone oscuro, materia barionica, x 349-350 ammasso, x 353 ammasso della Vergine, x 354 cannibalismo, x 352 classificazione, VIII 4 54 controrotazione, x 353 curva di rotazione, x 349-350 evoluzione, x 352 evoluzione, ambiente circostante, x 352 formazione, x 351 Gruppo locale, x 354 mancanza di gas, x 348 massa, 350 massa e luminosità, x 349, 353 massa mancante, x 354 nuclei, x 335 nuclei attivi, x 336 onde di densità, x 349 origine, x 335 periferia, x 349 spettri, x 354 struttura spaziale, x 350 superammassi, x 354 Superammasso Locale, x 354 termalizzazione, x 348 Galassie con bracci a spirale, x 348 disco stellare, x 348 rigonfiamento centrale, x 348 Galassie ellittiche, x 348 Galilei acustica, II 170 analisi storiche, x 495-496 analogie e differenze con Bacone, II 171 sgg. caratteri della scienza galileana, II r64 concezione del rapporto causale, II r6o concezione meccanicistica, II 174 contro il principio d'autorità, II 164 sgg. costituzione della meccanica moderna, II r68 descrizione e spiegazione dei fenomeni, n r6r differenze tra teoria fisica e teoria matematica, II r62
Indice analitico funzione attribuita alla matematica, II I70 invenzione del termoscopio, II I70 isocronismo del pendolo, II 397 macchie solari, II I56 metodo sperimentale, II I70 sgg. moto circolare, II I66 moto dei pianeti, II I68 moto dei proiettili, II I66 osservazioni astronomiche, II I68 ottica, II I69 princìpi della dinamica, II I66 principio d'inerzia, II I66 relatività galileana, II I69 secondo principio della dinamica, II I68 stelle fisse, II I68 teoria aristotelica del moto, II I68 termologia, II I7o vita e opere, II I 52 sgg. Galvanismo, IV 7I, 247 Galvanometro, IV 400 Gammaglobuline, x 263 Gap, XI 450, 465 Gas, leggi, II 423 teoria cinetica, v 262, 264 sgg., 306 sgg., 3I6 Gatto di Schrodinger, v. Schrodinger Geissler, tubi, v I76 Gene, VIII I7I, I73, I8o sgg.; IX 26, 43, 46-47, 50, 420; x 227, 234 introduzione, VIII I82 rapporto con il carattere, IX 7I teoria classica, VIII I85 Gene S dell'anemia falciforme, IX 75 Genealogia, v 357 dell'invenzione, III 274 Generazione, IV 422-423 · Generazione spontanea, III 2I6, 228, 246 teoria, VI, 260, 276, 292-293 Generazioni, particelle elementari, x 3I3 Genere, 1 I8o, 2I9 Genericità, ipotesi, IX 38 Genesi naturale del sapere, III 273 Genetica, v 373; VIII I24, I33, I79 sgg.; x 411-4I2 critica materialistica in URSS, IX 4I9 sgg. genoma umano, x 4I5
princìpi teorici, VIII I8o-I8I relazione con la dialettica, IX 432 teoria, avversari in URSS, IX 4I7 teoria, disputa ipotesi Lamarck, IX 4I7 Genetica borghese, IX 420 chimica, IX 26-27 delle popolazioni, VIII I88 di popolazione, IX 7I e lamarckismo, IX 4I9 e teoria dell'evoluzione, VIII r86-I9I evoluzionistica, IX 7I molecolare, IX IO, 48-58 Genio, III 98, 302, 335, 394; IV 34, 224; VI 24, 209 Genoma, IX 92; x 230, 233, 4I2 Genotipo, VIII I83; IX 70-7I ; x 223 Genotipo-fenotipo, rapporto, IX 93 Gentzen, v. Hauptsatz Gentzen-Herbrand, teoria della dimostrazione, x 88 Geocentrismo, ipotesi geocentrica, 1 248 Geodetica, IV I37 Geofisiologia, x 24 7 Geografia, insegnamento, I 493; II 202, 29I, 45I; Ili 403; IV 6I, 270 Geologia, III 203; v 340 sgg. resti fossili, v 358 Geologi strutturali, x 446 Geometria, I I76, 245, 3oo; II 228, 250, 349; III 450; IV I42-I46, 392 sgg.; VI I83, 42I, 355, 360 Geometria algebrica, II 5I4; v I7I, 118 segg; IX 210-2I7 assiomatizzazione, VIII 405 Geometria analitica, II 366-367, 372 sgg.; III I77 astrale, IV 126 del contatto, x I25 dello spazio, 1 203, 246 differenziale, v I7I ellittica, IV I22, I35, I40-I4I, I45 e logica, VI 42I-422 e spazio reale, VI 42I euclidea o parabolica, III I52I55, I40, I45 Geometria hilbertiana, VI 424 sgg. assiomi, VI 424-425 Geometria iperbolica, IV I2I, I27, I40, I45; VIII 52 metrica, IV 394 piana, I 203
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proiettiva, I 304; II 366-367; IV 394-395; VIII 220 sferica, I 249; IV I35 simplettica, x I25 Geometrie non-euclidee, III I50I67; IV I2I-I46; VI I35; VIII 220 Geometrizzazione della fisica, VIII 449 Geometry machine, x 83 Geosinclinali, x 448 Gerarchia analitica, VIII 364; IX I66 aritmetica, VIII 364; IX I66 evolutiva, x 233 ricorsiva, VII 364; IX I63 Germe, x 237 Germoplasma, x 237 Gestalt, IX 308-309, 3I3 psicologia, VI I2-I3, I5, 20, 3036, 205; VIII I4, 64, 476-479, 488, 49I, 511; XI 306 GeV, x 298 Ghiandola pineale, II 230, 235, 257; x 26 Ghiandole endocrine, IX 25 Giansenismo, II 293, 3I2; III 34I, 360 Giardino d'infanzia, 1 362; IV 287293, 455; VIII 24 Giganti rosse, x 343 perdita di massa, x 343 GII, XI 442 Ginnastica, insegnamento, I 330, 335, 34I, 345, 347, 349, 355, 488, 511; II 109, I79, 475; III 397, 409; VI IOO-IOI Giochi, teoria, IX I6r-I62; XI 78, 88, 252, 374, 4I2 sgg., 422 Gioco, 1 362, 49I; II I79, 302, 308, 475-476, 489; IV 26I, 264-265, 270, 272, 289; VII 7I; XI 29, 32 linguistico, XI 21, 62-63, I79 Giovi, x 346 Giroscopio, v I74 Giudizio, II 229; III 45I, 474-478; IV 50, 210, 3I7; VI I48 analitico, III 446, 47I definitorio, VII 323 determinante, III 4 74 estetico, III 475 individuale, VII 323 riflettente, m 474; XI 27 sintetico, m 446 sintetico a priori, m 447, 47I, 475; VI I82; VIII 244 teleologico, III 475, 477 Giurassico, x 446 Giusnaturalismo, II 276-287; III 33, 64, 300, 360; IV I97
Indice analitico Giustificazione anapodittica o argomentativa, X 31-32 apodittica o deduttiva, x 31-32 Giustificazionismo, VII 427, 493, 510 Giustizia, I 32, 92, 168, 529; III 29, 33, 35, 75, 120, 122; IV 469, 475; V 136; VI 203; VII 355, 363364; XI 253 teoria, XI 74-1n Giustizia distributiva, teoria, XI 93. 98, 185 Giusto, I 101, 343 Giusto mezzo, 1 546 Glicogenesi, IV 446 Globalismo, VIII 14 Globalizzazione, XI 292 Globulina normale, x 258 Glossematica, VII 382-383 Gnomone, I 43 Gnoseologia, III 371; VII IJ, 103 Gnosi, I 377-381; XI 28 Godei, modello, VIII 453 teorema, VIII 305, 314-320, 340, 382 Goldstone, particelle, x 308 Gondwana, x 243 Goodman, problema, IX 292, 295 Governo, II 287, 466; III 302, 306, 443; IV 352 forme, III 66 Gradiente di affinità, x 276 Grado di effettività, VIII 362-365 di indecidibilità, IX 186 di irresolubilità, VIII 360, 365 Gradualismo filetico, x 224 Gradualità didattica, I 34 5 Grafo, IX 164 Grammatica, 1 242; IV 49 insegnamento, I 337, 349, 493, 500, 513 Grammatica generativa, XI n 5 Grammatologia, XI 55 Grammomolecola, v. mole Grande logica, VIII 214, 222, 293 Grande unificazione, x 313, 324 sgg. Grandezza, 1 154 Grandezza immaginaria, III 483; IV 140, 153 Grandezze intensive, principio, VI 154 Grandi cardinali, VIII 399-400; IX 16o Grandi scuole, III 428-431 Gravi, caduta, II 90, 375, 400-401 Gravimetria, x 443 Gravità quantistica, x 315
Gravitazione, teoria, x 302 Gravitazione newtoniana, II 518 Gravitazione universale, n 234; IV 302, 362 scoperta, II 508 Gravitino, x 330 Grazia, I 371, 384, 390, 449, 461, 484, 512; Il 63, 71, 74, 108, 131, 293, 321-323; III 37; VIII 528 Greco, insegnamento, II 69, 194, 291, 474; III 93, 397; IV 60, 270, 288; VI 77, 79 Griinbaum, critica al falsificazionismo, v. falsificazionismo Gruppi, teoria, IV 137, 147-148; v 171; IX 247; X 128 Gruppi finiti semplici, x 130-133 centralizzatori delle involuzioni, x 132 gruppi sporadici, x 131-132 teorema di classificazione, x 130-131, 133 Gruppi neuronali, x 263 Gruppo, VIII 372; IX 200-203 del fago, IX 42, 58 di neuroni, VIII 478 fondamentale, v 171 sociale, VIII 534, 550-551 Guanina, IX 51; x 250 Guanosin monofosfato ciclico, x 203 Gusto, III n9, 313 GUT, v. grande unificazione Hacking antropologia filosofica, x 68 posizione sul realismo, x 68 Haecceitas, I 465-466 Hahn, tesi circa la matematica, IX 297-298 Haldane, concezione e ricerche, VIII 131 sgg. Halting problem, IX r65 Hamilton, principio, IV 408 Hans-Banach, teorema, IX 159 Hanson, concezione, IX 307-309 Hardware, XI 433 Hardy e Weinberg, principio, VIII 189; IX 72 Hauptsatz, VIII 345-346, 383-384; IX 181, 183, 251-252 Hegelismo, v q-6o, 12 7, 130; VI II9, 193-229; VII 40, 77, I08, 410, 517 Heisenberg algebra delle matrici, x 387 principio di indeterminazione, v. indeterminazione Herbrand, teorema, VIII 310-3n; x 89 Higgs, particella, x 314
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Himalaya, x 447 Hùtorzè, I no, II4, II7 HIV, x 418 HL-A, x 272 Hoare, formalismo, x 98 Holton modello, x 491-492 "terzo meccanismo", x 491 Homely line, x 72 Hormé, VIII 138 Horn, clausola, x 105, no Hoyle, teoria, VIII 455 Hubble costante, x 321 relazione, VIII 452, 456; x 321 Humour, III 52 Huntington, corea, x 205 Huygens, principio, II 419 Hybrù, 1 32, ro6 Hydra, IX 64 I-D modello, v. spiegazione statistico-induttiva Iatrochimica, n 95, 423, 453 Iatrochimico, indirizzo, III 238 Iatromeccanico, indirizzo, III 238 IBM 704, x 88 Ibridismo, III 225 Ibridami, x 266 Idea, 1 r68-r69, 171, r8o, 278, 552; II 38, 229, 249, 253-254, 257, 261, 274, 352, 459-466; III 34, 46-47. 49-50, 57-58, 84, 86, 95, II?, 357, 361, 457, 481, 484; IV 48-49, 54, 199, 271, 307, 314, 345. 472-473. 479. 485; v 33, 64, 85, 97; VI 124, 129, 151, 226; VII 341, 426; VIII 88 assoluta, IV 317 di forza, III 263 innata, 1 273; n 224, 448-450, 457-460; III 72-73, 261, 447 madre, VIII 15 Ideale, IX 159; IX 210-2n Idealismo, 1 51, 38o; III 21, 455, 484; IV 205, 207, 209, 219, 488; v r8, 64, 136, 149, 365, 421, 441; VI II7-122, 128, 131, 147, 207; VII 27, 53, 58, 104, no, 137, 292, 299, 304, 312313, 317-348, 351-354. 357. 407, 410, 423, 432, 482; VIII 45, 51, 59-65, 81-82, 89-91, 98, 494, 516, 548; IX 267; XI 32, 226, 337 magico, IV 34 trascendentale, IV 223 Idealità, IV 301; VI 203, 206, 222; VII 29 Idea!-realismo, IV 222 Idee astratte, m 261
Indice analitico Identità, I 52; III IIJ; IV 55, 46I; VII 3I; VIII 389; Xl 45, IlO, 2II principio, I 226; IV 207-208, 310; VII 48; XI 240 teoria, VIII 4 77 Identità booleane, macchina per verificare, x 8I Identità degli indiscernibili, n 49 I Ideologi, III 84; IV 44-52, 85 Ideologia, rv 96-97; v 90; VII 4I6, 4I9, 44I; VIII 55I; XI I7 Idiotipia, x 264 Idola, I 262 Idraulica applicata, II 49 Idrocarburi, x 465 Idrodinamica, III I7o Idrodinamici, fenomeni, III I82 Idrogeno, fusione, x 340 Idrolisi, x 397 Idrotermali, giacimenti, x 465 Ignorabimus, VI I43 Ignoranza, I 498, 520, 525; II 35, 47I; III I4, 22, 404; IV 360, 458; XI 89 IL I, x 28I Illuminazione, I 462, 526; IV 493 Illuminismo, III II-I9, 300, 3I7338, 359-37I, 376-397, 443; IV 25, 3I, 43, 202, 217, 222, 299, 35I, 357, 387, 456-458, 468, 47I, 476; V 129; VI I6o; VII 8o; VIII 77; IX 502, 505, 562; Xl 7, 7I, 226, 340 Illuministi, III 259 Illusione, I 526, 537 Ilozoismo, I 36 Ilozoistica e panpsichistica, concezione, III 234 Imitazione, 1 I76, I79, 230, 283, 343 Imitazione, educazione, I 364; III 365 Immaginazione, I 217, 275; III 90, 365, 476; IV 210, 331; VI I68; VII 56 Immagine, I 26I, 249; VI 25 Immanentismo, I 374; II I29, 265; VI 198 Immortalità, I 104, 32 7, 410 Immunità, acquisizione, x 255 approccio darwiniano, x 259 Immunità acquisita, x 261 adattiva, x 260 lmmunochimica, x 257 Immunofluorescenza, x 4I7, 427 tecnica, x 270 Immunoglobuline, x 26I Immunologia, x 4I7-418 Impegno doxastico, x 27 Imperativo categorico, III 470 ipotetico, III 4 70
Impetus, I 477-478 teoria, n 48, 89-90 Implicazione, VIII 264-265 forte, IX I44 materiale, VIII 262, 264; IX I50 rilevante, IX I44 stretta, IX I5I Impliciti pedagogici, XI 349 Impresa, teoria, XI 412, 4I7 sgg. Impressione, III III, u6 Imprinting, rx 98 Impulso, I 529; IV 2u; VIII 499 incremento, III 185 Incarnazione, I 384 Incesto, VII 399 Inclusione logica, v 240 lncommensurabilità, I 46-47, 206; IX 334 sgg., 35I, 353-354; x 47 Incompletezza, teorema, VIII 3I5320, 376 Incondizionato, VI II3 Inconscio, IV 54; VI 3I3; VII 405; VIII 498, 501 Indecidibilità logica I ordine, x 82 lndeterminazione, principio, VIII 42I, 426 sgg.; IX 454, 456; X 288, 387 Indeterminazione di Heisenberg, principio, vn 143 lndeterminismo e problema della vita organica, VIII I43-I44 lndicalità, XI 367 Indicatori di input, Xl 456-460 di output, Xl 456, 460-462 multipli, XI 456 Indice dei libri proibiti, II 190 Indifferenza, principio, VII 255 Indimostrabili, I 265 Indistinto, legge, VI 201 Individualismo, I I56, 276, 278, 333; IV 469; Xl 7I Individualizzazione del metodo, I 494; VIII 38, 40 Individuo, I 409, 459; II I7; III 325; IV 29, 269; V I45; VI II4; VII 44 biologico, x 224, 232 lndivisibili, II 369, 376, 382 Indizio, I 142 Indurimento, educazione, I 333, 475; IV 272 lnduttivismo, VII 50I, 5II, 5I6 Induzione, I 226; II 34; VII 458, 46I, 482, 500-50I, 5I7; IX 305 assioma, VIII 244-245 paradossi della conferma, VII 252-257 principio, VI 356-357
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problema, x 43 proiettabilità, vn 252 teorema di induzione completa, VI 378, 38I universi finiti, VII 252 universi infiniti, VII 252 Induzione baconiana, v. Bacone Induzione completa, assioma, VI 182; VIII 232, 244-245 Induzione elettromagnetica, IV 400; v 187, 262, 267, 288 modello dei vortici, v 267 Induzione elettrostatica, III 205, 206 eliminativa, VII 506 enumerativa, VII 506 matematica, VI 377, 380, 408; VII 235; VIII 294, 380-384; IX I73; IX I73 Ineffabilità, I 50, 549; XI 59 Inerzia, I 233; II 233; III 324 legge, VII II5 principio, v 325-326 Infallibilità del papa, IV 352 Infanzia, I 485 Inferenza, I 265, 456, 528 alla miglior spiegazione, x 58, 63, 67, 71 non monòtona, x II3 Infinità grado, VIII 4IO sistema infinito, VI 378 sistema semplicemente infinito, VI 378 sgg. Infinitesimale, analisi, v. analisi infinitesimale Infinitesimi, II 367, 376 sgg, Infinitesimo, III I77; IV I45, 321; VIII 379 Infinito, I 52, 54; II 36, 3I4, 3I6, 367, 378, 384; III 72, I77; IV 3I, 36-37, 252, 264, 32I, 393; v 32, 49, 55, 43I; VI 386 sgg.; VII II9; VIII 286-289, 292, 339 assioma, VIII 207, 230, 242, 284; IX I63, 23I assiomi forti, VIII 400; IX I6o numerabilità, VI 389 ordini di infinità, VI 389 Infinito assoluto extramondano, VI 387-388 Infinito assoluto transfinito, vi 387-388 Infinito attuale, I 53, 227, 392; IV 164; VI 175; VIII 246, 340 Infinito improprio, VI 386 Infinito potenziale, 1 207, 227; VIII 348 Infinito proprio, VI 387 Inflazione, XI 386 sgg.
Indice analitico Informazione, XI 333 sgg., 468 sgg. asimmetrica, XI 415 sgg. Infrastruttura, XI 266, 442 Ingegnere, n 45-46 Ingegneria, I 302 Ingegno, III 347; IV 482 Ingold, nomenclatura chimica, x 400 Inibizione, VI 42; VII 56; vm 481 Innatismo, III 56, 72, 371; IV 472; VI 20, 32, 45; VIII 487; Xl 320 Innato.appreso, dicotomia, IX 97 sgg. Inquinamento chimico, x 402 Inscatolamento, m 218 Insegnamento dogmatico, I 486 Insegnamento episodico, VIII I7I8 Insetti, IV II o Insieme, vm 198, 217, 275, 336 ammissibile, IX 163 Insieme coppia, VIII 270 assioma, VIII 274 Insieme decidibile, VIII 351 Insieme effettivamente generabile, VIII 351 Insieme generico, VIII 398 Insieme metafinito, IX 165 Insieme metaricorsivamente enumerabile, IX 165 Insieme metaricorsivo, IX 165 Insieme potenza, assioma, VIII 241-242, 270, 274; IX 163 Insieme preordinato, IX 203 Insieme ricorsivamente enumerabile, VIII 357-359 Insieme riunione, assioma, VIII 242, 274 Insieme vuoto, VIII 270 teoria, x 120 Insiemi, teoria, VI 357; VIII 195, 201, 2II, 216, 221, 234-242, 255, 270-285, 340, 395-401; IX 157164, 264; x 82 teoria descrittiva, IX 162 Insiemi elementari, assioma, VIII 240, 270 Insiemi quantistici, teoria, IX 464 lnsight, VI 35, 39-40; VIII 488, 491492 Insulina, clonazione, x 413 Integrale, II 383, 514; IV 393 calcolo, II 499; m 171 simbolo, n 501 Integrali euleriani di prima e di seconda specie, III 178 Integroni, IX 131 Intelletto, I 179, 282, 407, 460, 470, 530, 532, 548; II 17, 27, 53, 57, II8, 124, 229-230, 457;
III 50, 84, 382, 451-457, 475476; IV 31, 210, 132, 189; VII 39, 164-166 attivo, I 218, 415, 450, 508; II II8 passivo, I 415, 450, 508 Intellettuale, VII 366-371 Intellettualismo etico, I 103; II 33; VI 85 Intelligenza, VII 45; XI 327 Intelligenza artificiale, x So, 8485, 93, 145-200 applicazioni militari, x 174 approcci semantici, x 165-170 architettura cognitiva, x 184 assiomi del /rame, x 175 buon senso, x 174-177, 179, I8p86, 192 comprensione del linguaggio, x 177 connessionismo, x 191, 193194, 200, 2II dichiarativisti, x 179-18o, 199 distribuita, x 192 e logica, x 145 esplosione combinatoria, x 158, 160, 165 euristiche, x 158, 159-16I, 173, 181, 184-185, 198 euristiche, prestazione, x 161 euristiche, simulazione, x 161 /rame paper, x 177-178 frame problem, x 175-176 funzionalismo computazionale, x 189-190 ingegneria della conoscenza, X 171 ipotesi del sistema fisico di simboli, x 184, 186, 189 linguaggio macchina, x 159 linguaggio naturale, x I 99 logica /uzzy, x 177 logica grigia, x 177 logica monotòna, x 176, 179 micromondi, x 180-181, 183 primitive semantiche, x 177178 problemi epistemologici, x 176, 179 problemi epistemologici, regola per le congetture, x 176 problemi epistemologici, ricerche logiciste, x 176, 192 problemi euristici, x 176, 179 proceduralisti, x I79-18o, 199 programmazione, x 159 programmi semantici, x 170 rete semantica, x 167, 179 simbolica, x 193-194, 200 sistemi di frame, x 179
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sistemi dinamici complessi, x !88 sistemi esperti, x 185-186, 192, 194 sistemi mano-occhio, x 174 spazio degli stati, x 158, 165 teoria della complessità computazionale, x 188 traduzione automatica, x 166 sgg., 198, 2oo traduzione automatica, sfere nozionali, x 167 vetri di spin, x 188 visione, v. visione artificiale Intelligenza artificiale e neurologia, X 183, 191 Intelligenza artificiale e scienza cognitiva, x 186-187 Intelligenza divina, III 245 Intelligenza e automatismo, x 146, 148 Intelligenza motrice, I 408 Intelligenza rappresentativa, VIII 508 Intelligenza senso-motoria, VIII 508 Intelligenze multiple, XI 341 Intensione, I 163; III 142; IV 159, 161; VI 412; VII 232-233; VIII 209, 265, 387; Xl 124-128 Intenzionalità, VII 22, 151; XI 73 Intenzione, I 558; IV 326 Interazione, XI 15, 244 sgg. a distanza, x 295 controllabile, IX 479 debole, x 304, 306 elettromagnetica, x 302 locale, x 295 tra oggetto e dispositivo di misura, IX 456 Interazioni fondamentali, x 296, 302 sgg. Interazioni nucleari, x 307 Interazionismo, VIII 4 77 simbolico, XI 364 Interesse, III 326 Interesse, educazione, III 96; IV 346, 492; VII 70; VIII 14-15 Interiorità, IV 324 Interleuchina 2 (IL 2, x 281 Internet, XI 440-441 Interpretazione, VIII 333; IX 239245; Xl 331 Intesa, XI 35 Introspezione, VI 25, 42; VIII 491 Introversione, XI 326 Intuizione, I 179, 450, 471; II II2, 347, 464; III 84, 373, 397, 449, 481; IV 14, 31-32, 36, 40, 210, 219; V 131-132; VI 135, 190; VII IO-II, 36, 48, 140-141, 151, 303,
Indice analitico 321, 487; VIII 199, 243, 245, 295, 36I; XI 83 Intuizionismo, VII 14I; VIII 202, 2IO, 216, 218, 249. 295-305, 349, 384, 395, 510; Ix 174-I82 lnvarianti ambientali, x 284 Invarianti osservazionali, VIII 42 7 lnvarianza di gauge, x 307 lnvarianza per riflessioni CPT, x 305 lnvarianza per rotazione, x 292, 293 Inversione, principio, v I? 4 teorema, II 499; III 178 Inversione cromosomica pericentrica, IX 91 Invertebrati, IV IOI, Io8 lo, l 53, 517, 550; III II3, 347, 452453, 476, 489; IV 54, 56, 2082I3, 220, 337, 341, 479; V 155; VI IO, 2I, I62, I68, I75; VII 27, 45; VIII 280, 293;. Xl 21, 310 sgg., 364 lo assoluto, IV 210 lo empirico, IV 209 lo penso, III 452-453, 482; IV 205; VI I52 Io puro, IV 209-2n, 219 lpercarica, x 310 l pertesto, XI 444 Ipnosi, VI 316, 318, J2I lpocentri, x 450 lpofisi, IX 26 lpostasi, I 282 lp0talamo, IX 26 Ipotesi copernicana, II 86 sgg., 136, I69 difficoltà, II 86 risposte alle obiezioni tolemaiche, II 86 sgg. Ipotesi cosmogonica, IV 73 Ipotesi originarie, x 32 Ipotesi polari, x 266 Ipotetico-deduttivi, sistemi, VIII 410 IR Immune Response, x 274 Ironia, I roo; IV 34 lrrazionalismo, III 395; IV 24I; v 145; VI 134, 200, 297; VII 8, IJ, Io8; VIII 548 antiscientifico, v n e visioni del mondo in Germania, VIII I44-152 Irreversibilità, v 282, 303, 306, 308, 310, 315 Irritabilità, III 240; IV 88, 92, 246 Isobari del nucleone L, S, x 301 lsocronismo del pendolo, II 397 Isolamento, assioma, VIII 239-240, 270, 274 Isolamento riproduttivo, x 222
Isomeria, x 366-367, 379, 407 attività ottica, x 366, 379 geometrica, v I82 reversibile, v. tautomeria Isomerizzazione, x 44I Isomorfismo matematico, IX 1992oo, 206 Isomorfismo naturale, IX 207-208 Isomorfismo, psicologia, VI 20, 34 Isostasia, x 448 dei blocchi continentali, x 445 Isotopia, x 382 Isotropia dell'universo, x 320 Isotropia delle galassie, x 320 sgg. Isteria, VI 317 sgg., 320 sgg. Istinto, III 298, 473, 488; IV 380; VI I62, I85, I89; VII IO, 55 Istinto sociale, II 281 Istinto-apprendimento, IX 97 sgg. Istituzione, Xl 365 lstocompatibilità, x 272 !stoni, IX 56 Istruzione a distanza, XI 436-437 Istruzione media, I 498-499 Istruzione programmata, VIII 484 Jevons, macchina, x 8r JOIDES, x 452 ]ump, VIII 365 Junk DNA, x 231 Kantismo, IV 205, 299, 309; v I30, 148; VI 152, 175; VII 53, 145, 356; VIII 63 Kdtharsis (v. anche purificazioni), l 71, 230; Xl I42, 148, 151 Keplero, atteggiamento ontologico, II 410 concezione del mondo, II 88 diversità concezioni galileane, II 88 incontro con Tyco Brahe, II 4I2 leggi, II 88, 414-415 orbite dei pianeti e solidi regolari, II 4II sviluppi delle concezioni copernicane, II 409-415 teoria della visione e delle lenti, II 416 terza legge, x 349 Kits, XI 437 Koiné, I 242 Kol, attacco a Vavilov, IX 4I6 Koyré, tesi su Galilei, x 473 Kozo-Poljanskij, biologia e materialismo dialettico, IX 418 sgg. Krebs, ciclo, IX 22 Kripke, semantica, VIII 387-390; IX 146; X II2 Kuhn, concezione, IX 309 sgg. confronto con Lakatos, IX 330 confronto con Popper, IX 314
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confronto con Toulmin, IX JI6-JI7 matrice disciplinare; IX 350 progresso conoscitivo, IX 474 relazione tra storiografia ed epistemologia, IX JIO-JII riferimento a Quine, IX 352-353 LAF, x 28o Lagrange, equazioni, III r86 Lakatos, concezione, IX 318 sgg. critica delle tesi kuhniane, IX 330 teorie della razionalità IX 33I334 Lamarck, disputa, teoria genetica, IX 417 Lampadina, v I89 Landau e Lifsic, corso di fisica, IX 469 Langue, VII 376-378 Laplace, equazione, IV 72 Lapsus, VII 421 Laser, x 294, 376-377 impulsi ultracorti, x 376-377 Laser chimico, x 396 Latino, insegnamento, II 69, 178, 194, 202, 291, 307, 474; III 93, 397, 403; IV 6o-6r, 270, 288; VI 77, 79 Laurasia, x 243, 446 Lavoro, I 489, 498; II r6, r8, 666?, 129, 187, 467; IV I82, 2I2, 261, 264, 270, 286, 289; v 77. IOI, 281, 286, 297, 378-394; VI 61, I03; VIII I2, 28, 39, 528; Xl 15, 24, I98, 244 sgg. divisione, I 338; III 314, 409; v 87-88, 90-94, 100, 381, 390; VI 62-63; VII 59, 68; VIII 538; IX 524-526 Lavoro di gruppo, VIII 35 Lavoro manuale, II 309; III 404; V 90; VI IOO-IOI; VII 69; VIII 31; IX 524 Lavoro produttivo, IV 188, 195, 215 LCAO, metodo, IX 15-16 Lebenswelt, IX 304 Legame chimico covalente, X 384 di valenza, x 388 sgg. teoria elettronica, x 378-385 Legge degli indici, v 2II dell'uomo, I 339, 379, 554; III 68 di gravitazione, III 200 di omogeneità, II 84 divina, l 510; Il IOJ, 284; IV 487 morale, I 530; III 35, 44, 470; IV 491; V 52
Indice analitico naturale, 1 38, 42, 57, 386, 420, 510, 546, 549, 558, 560; II 103, 471; III 44; V 430; VI 175; VII 500 psicologica, VI r6 scientifica, m 48, 50; IV 371, 374 Leggi di natura, x 41 sgg. Leggi fondamentali, posizione di Cartwright, x 66 Leggi generali dell'urto, m r83 Leggi proscrittive, x 253 Leggi scientifiche, VII r89-190, 194 sgg. Legislazione, 1 22 Leibniz, analisi infinitesimale, II 499 anima, II 498 appercezioni, II :94 calcolo differenziale, II 499 calcolo integrale, n 499 concezione di dio, II 496-498 concezione monadologica dell'universo, II 493 concezione teleologica, II 497 contrapposizione con Locke, II 494-495 controversia con Newton, II 483-484 costituzione corpuscolare della materia, Il 503, 505 differenziazione da Cartesio, Il 489 dualità pensiero-materia, II 493 finito e infinito, II 493 formalismo, tesi, II 489 formula dei coefficienti polinomiali, II 499 forza, II 492-493 forze passive e attive, II 504 funzione della logica, II 490 innatismo, II 494 logica dei predicati, II 491 meccanicismo cartesiano, 11 503, 506 metafisica, n 487-488 microscopio, n 506 monade, vita interna, II 494 monadi, n 492-495 obiezioni a Cartesio, Il 504 preformismo, II 506 principio degli indiscernibili, Il 491 principiO di ragion sufficiente, II 490-491 riduzione della materia a estensione, II 503 simbolo di differenziale, II 500 simbolo di integrale, II 501 sostanza e accidente, II 492
sostanza singola, II 492, 494 spirito, II 491 tempo e spazio assoluti, II 505 unità del sapere e struttura logica, II 488 verità, concetto n 489 verità di ragione e verità di fatto, II 490-491, 493, 497
vis viva, 4 vita e opere, II 480-486 Lekton, 1 266 Lemma, I 265 Lenin, abbandono del programma leniniano, IX 405-412 il piano economico unico, IX 379-381 riferimenti a Ostwald, Mach, Poincaré, IX 382 sulla "crisi" della fisica, IX 477 Lenti, teoria, II 416 LEP, XI 477 Leptoni, x 313 Letteratura insegnamento, 1 350 magica, 1 291 psicoanalitica, VI 343 Leucociti, x 256 Leva, 1 252 Lewontin, modello, IX 83-84 LHC, XI 471, 477 Liberalismo, II 479; v 19, 41, 596o; VII 345; XI 103, ro6-109, 240 Liberazione, I 262, 379, 523, 525527; Xl 258 Liberismo, XI 396 Libero arbitrio, I 385; II 63; VII 364 Libero esame, II 64, 68, r87 Libero pensiero, III 24 Libertà, I 103, r62, 278, 284, 330, 340, 346, 369, 390, 512, 536-537; II 39, 55, 74, II2, 125, r86, 274-275, 287, 450, 466-471, 476, 678; III 29, 57, 67-68, 74. 306, 315, 338, 389, 394, 400, 445, 461, 471-472, 475, 488; IV 32, 54-55, 262, 324, 355, 458, 487-488, 491492; v 47, 57, 69; VI 6r, IOO, 164, 172, 175; VII 75, 143, 158, r66, 175-176, 325, 328, 363; VIII IO, 59; IX 519; XI 85, r8r, 190, 340 di espressione, v 20 di insegnamento, m 420, 432; IV 59-60, 355, 456, 478; VI 216, 251 naturale, XI 85 negativa, XI 92, 96-97 principio, XI 82-83 Libertarismo, XI 90-98
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Libertinismo, n 59, 231, 243 Libido, XI 312 Libro, 1 25 di testo, 1 349; III 420 Liceo, IV 6o Limitazione di grandezza, teoria, VIII 222-223 Limite, IV 393 Linea germinale, x 266 somatica, x 266 Linee di forza, v 266 Linee isoemozionali, x 483 Linfochine, x 280 Linfociti B, x 267, 270 Linfociti T, x 271 Lingua materna, insegnamento, m 403, 406; IV 6o, 270, 273, 28o; VI 236 Lingua originaria, XI 8 Lingua sacra, XI 8 Linguaggi artificiali, VII 243 Linguaggi del paradigma funzionale, x 85 Linguaggi imperativi, x 85 Linguaggi simbolici, VII 216 Linguaggio, 1 90, 158, r68, 264, 266, 420, 493, 533; Il 33, 231, 363, 463; III 89-92, 348, 352, 486; VI 43-44, 59, 131, 143, 173, 183; VII II, 140, I6I, 303, 305, 375, 390-393, 445; VIII 102, 297, 497; IX I08 sgg., 151-152, 261, 308; X 6r; Xl 8, 15-17, 19, 34, 58, 66, 69, 175-180, 209, 316, 323, 366, 380 analisi sintattica, VII 220 sgg. analisi sintattica, equivalenza, VII 231 analisi sintattica, implicazione, VII 231 analisi sintattica, verità, VII 231 concezione di Wittgenstein, v. Wittgenstein conseguenza, VII 221 derivazione, VII 221 metalinguaggio, VII 222 regole, VII 221 sottolinguaggio, VII 221 teoria atomica, VII 190 Linguaggio artificiale carnapiano, coppia fondamentale, VII 243 funzioni di conferma, VII 243244 funzioni di misura, VII 243 nomi, VII 243 predicati primitivi, VII 243 Q-descrizione di stato, VII 243 Q-predicato, VII 243 VII 243
Indice analitico Linguaggio comune, VII 237-238 cosale, VIII 491 d'azione, m 90 di istituzione, III 90 elementare, IX 191 empirico, VII, 235 enunciativo, VIII 258-259 fenomenistico, VII 216-217 figurato, XI 58 fisicalistico, unità della scienza, VII 216 sgg., 224 formalizzato, VIII 258-259, 370; XI 387 in festa, XI 58 infinitario, VIII 380; IX I9I-I9J, 248 letterale, XI 58 logico, III 138 matematico, v 328 Linguaggio naturale, v 197, 248, 255 sgg., 258-259; IX 259; XI II2 sgg. competenza, x 169 manipolazione automatica, x r66 prestazione, x r69 Linguaggio osservativo, VII 230, 234 intersoggettivo, IX 306 neutro, IX 306 Linguaggio poetico, VII 388-389, 444 pratico, VII 388-390 predicativo, VIII 259 scientifico, 1 200; VII 216 sgg., 444 simbolico, XI 212 tecnico, VII 444 Linguaggio teorico, VII 230, 234, 391 regole di corrispondenza, VII 230 Linguaggio universale, III 338 vegetale, III 222 Lingue straniere, insegnamento, II 202; III 397, 406; VI IOO, 247 Linguistica, VII 373, 377, 382, 400; XI 54, II5 Linkage disequilibrium, x 273 Links, XI 444 Lipidi, x 413-416 coda idrofobica, x 416, 424 testa polare, x 416 Liposomi, x 420 Liquido termometrico, III 195 Lisina, IX 51 LISP, x 85 sgg. funzioni, x 85 Litosfera, x 450 Livello del mare, variazioni, x 461 Località, principio, x 291, 297, 299
Localizzazione, principio, VIII 371372 Loeb, ricerche, VIII 124 sgg. Logaritmi, II 366-367, 369, 372 Logic theorist, x 83 Logica, 1 r63, r82, 402, 404, 426, 431, 453-454, 531; II 34, 53, 57, 104, I2I, 345-365; III 103, 126, I}l-133, 151, 384-385; IV 49, u8, 165-166, 174, 309, 314-318, 376377, 465, 480; v 32, 156; VI u8, 148, 173, 177, r8r, 196 sgg., 222; VII 26, 39, 48, 121, 129, IJI, 160-162, JOJ-304, 307, 481, 484; VIII 53, 58, 92, 199, 209210, 255, 297; IX 236-253; X 79, uo; Xl 164, 197 applicazioni alla biologia e alla genetica, VIII 172 classi, v 210 sgg. elezione, v 210 interpretazione, v 254-255 macchine, x 8r meccanizzazione, x 8r proposizioni categoriche, v 199 rappresentazione della conoscenza, x uo sgg. simbolismo, v 200, 203, 2u sgg., 231, 235, 248 teoria della quantificazione, v 246 termini negativi, v 199, 227 universo, v 199, 209-210, 230, 233. 251 Logica classica, VIII 202; IX 272 dei predicati con identità, II 491 dei relativi, v 243 sgg. dei termini singolari, IX 154 dei tipi, VIII 230 del tempo, VIII 391-393 dell'implicitazione, IX 144-146 Logica della scoperta, VII 506, 516; x 474 e convenzionalismo, IX 364 sgg. Logica deontica, VIII 388; IX 151 e aritmetica, VI 409 e matematica, v 239, 246 sgg., 258; VI 353, 354; VII 268-269 e metafisica, v 199 enunciativa, 1 265; VIII 215, 230, 254, 257; IX 146 epistemica, VIII 388; x m esistenziale, VIII 388 filosofica, IX 255-274 formale, II 344-346; III 147-149, 484; IV 165; V 208, 232, 237, 425; VII 329-330; VIII 219; XI 6 idealista, vm 219 inclusiva, IX 152
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Logica induttiva, IV 121, 171-I79; VII 243, 246 sgg., 484, 506, 516 limiti, VII 246-248 Logica informale, x 28 intensionale, VIII 388; XI II5 interna di un topos, IX 227, 230 intuizionista, VIII 301, 330-335; IX 148, 246; IX 254-273 Logica matematica, v 192 sgg.; VIII 262-268; IX 143 concetto e oggetto, VI 4II -412 concetto e rappresentazione, VI 4II e filosofia, v 193; VI 405 funzione proposizionale, VI 4u linguaggio, v 193 psicologia, v 193, 199, 208209, 248 quantificatori, VI 4II senso o intensione, VI 412 significato o estensione, VI 412-414 valori di verità, VI 412-414 Logica modale, VIII 262-268; IX 143 naturale, v 226, 252 non-crisippea, VIII 267 normale, IX 144 Logica predicativa, VIII 230 del primo ordine, VIII 215 del secondo ordine, vm 215 riduzione alla logica proposizionale, x 89 Logica quantistica, IX 147-15I, 259; x 289 terministica, 1 427, 456 trascendentale, III 448-46r; VIII 64 trivalente, VII 235; VIII 268 Logiche libere, VIII 390; IX 152154, 157 Logiche non classiche, VIII 254270; IX 140, 143-157; XI II5 Logiche polivalenti, VIII 266, 395 Logicismo, VII 132; VIII 198, 202, 209-lii, 218, 222, 249· 279285, 303-304 Logicista, posizione, x no-rn Logocentrismo, XI 55, 284 Logos (v. anche ragione), 1 52, 56, 58, 130-IJI, 278, 281, 370, 374, 380, 382; IV 55; V 37; Xl 163, 190, JOO Lotta di classe, v 65, 71, 88, 104, ro6, ro8, 416; VII 55, So, 327, 418; VIII 107; IX 520; Xl 218 sgg. e dibattito scientifico in URSS, IX 425 sgg.
Indice analitico Lotta per l'esistenza aspetto economico, x 234 aspetto genealogico, v 350-351, 355-356; x 233~234 Lotta per la vita, VI 59-60, r6o Li:iwenheim-Skolem, teorema, VIII 308-308, 377; IX r6o Luce, I 46o-46r; n 49, 251; III 88; IV 21, 239 confronto con il suono, n 418419 determinazione della velocità, Il 416 diffrazione, IV 397; x 379 fenomeni di interferenza, IV 397; VI 449 sgg. modello corpuscolare, IV 405; VI 436, 441 modello ondulatorio, IV 398, 405 natura elettromagnetica, v 269 natura ondulatoria, IV 397; VI 441; x 385 polarizzazione, IV 397 rifrazione, x 439 sostanzialità, II 420 teoria cartesiana, n 417-418 teoria corpuscolare, n 418, 520; IV 397; VIII 419; X 385 teoria di Huygens, n 418 teoria newtoniana, II 420-421 teoria ondulatoria, n 419; VI 449; VIII 419 teorie, n 416-418 velocità, IV 397-398; VI 453-454 Luce di sincrotrone, x 287 Luce polarizzata, IV 396 Lunare, teoria, III 200 Lunghezza di Planck, x 325 Luogo del controllo, XI 328 Luogo naturale, I 232 Lusso, I 355; III 55 Lysenko, caso, IX 414-415, 422 sgg., 483 influenza esercitata da Prezant, IX 423 M-RNA, v. RNA messaggero Macchie solari, n 156 Macchina, II 334-335, 341-342 a programma, x 147 a vapore di Watt, 9 analitica, x 147 di Newcomen, III 198 di Turing, VIII 358; IX r64-r65; x 146 geometrica, x 84 pneumatica, n 396 Macchine a vapore, III 197; v r84r85, 282, 286, 296-297 Macchine termiche, v 297 sgg.
Mach, principio, VIII 448, 453 MACHOS, x 329 Macrocontesti, x 485 Macroevoluzione (v. anche evoluzione), x 232, 236 Macrofagi, x 269 Macrofisica, VII II Macromolecole, x 4II organica, visualizzazione, x 419 Macromolecole biologiche, x 413 Macrosociologia, XI 368-383 Maestro, I 343, 346, 349, 357, 486-488, 493> 503, 505, 508, 5II, 513; Il 30, 185-186, 194, 197, 291-292, 296, 304, 308, 401-402, 414-415, 417, 419420; IV 57, 63, 263, 268, 270, 279, 287, 456, 496; VI 82, 97; VII 67, 72, 340, 350; IX 523, 529 formazione, II 195, 197, 302, 304, 451; III 397, 404, 406, 423, 425; IV 59, 348, 455, 489; VI 73, 84, 237-238, 241 Magia, n 79 sgg., 91, 94, 133, 260, 329, 330; IV 35 Magmatismo, x 449 Magmi, x 448 Magnetismo, n 94, 398; IV 399 spiegazione cartesiana, n 398 Maieutica, I ror Malattia, I II4, II6, 123, 136; VI 214 Malattie allergiche, x 284 autoimmuni, x 279 genetiche, x 413 Male, I 42, 103, r67, 267, 343, 370, 374, 378, 388, 529, 559; Il II9, 264, 274; III 28-29, 44, 55, II8, 328, 389; IV 224, 326; VIII 91; XI 189, 209 Malpighi, ricerche, II 433 Mancanza, VII 175-176 Manicheismo, I 374, 389, 441; III 29 Mappa genetica, x 415 molecolare, x 423 Marcatori allotipici, x 264 fenotipici, x 264 Marcus, teoria del trasferimento, x 396 fotosintesi, x 396 processi respiratori, x 396 Maree, spiegazione newtoniana, n 518 Marginalismo, vn 354 Margini continentali, tipi di, x 455 Market clearing, XI 423 Market /ailure, XI 390, 416, 419 Markov-Kedrov, polemica, IX 467-468
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Marxismo, VII 6r, I76-179, 295300, 310, 322, 327, 395-398, 409-455, 483; VIII 28-29, 63, 68, 8o, 90-91, 94-95, 103-II3, 529, 547; XI 4, 8, II-13, 40, 46, 6o6r, 71, 159, 2II, 214-258, 352354, 362 Marxismo analitico, XI 253, 257-258 Maser, x 294 Massa, n II7, r68, 233; v 323 Massa inerziale, identità con massa gravitazionale, VIII 448 Massa inerziale e massa gravitazionale, VI 461-462 Massima del modo, XI r2r della qualità, XI r2r della quantità, XI r2r della relazione, XI r2r Massimi e minimi di una funzione, n 377, 381 Mastery learning, XI 341 Matematica, I 26, 392 sgg.; n 36, 39, 104, 222-223, 231, 246, 266, 315, 458, 464; III 331, 346, 446, 462-464; IV 21, 41, 152, 229, 320-321, 372, 376, 480; v 156, r66 sgg., 322, 426; VI IO, 149, 169, 173; VII 30, 129; VIII 212, 245-248, 281, 296, 339; IX 269 architettura della, x rr6-rr8 crisi dei fondamenti, IX 296 dimostrazione, IX 300 sgg. e fisica, IV 8o-8r; x 142-143 fondazione, vn 202-203 insegnamento, I 341, 346, 351, 359, 493, 500, 513; Il 178, 289, 307, 451; III 365, 409; IV 51, 6r, 170, 270, 273, 280, 282; VI 100, 236, 245 logicizzazione, VI 409 sgg. nozione di struttura, x rr7 problema dei fondamenti, IX 298 sgg. prospettiva fallibilista, IX 303 rapporto con le altre scienze, VIII 412 sgg. strutture algebriche, x II7 strutture d'ordine, x II7 strutture topologiche, x II7 trattazione della teoria dell'evoluzione, VIII r89 unitarietà, x II5-II6 Matematica alessandrina, 24 5 alternativa, x 486 applicata, VIII 415 sgg. bourbakista, x II8-r22 e esperienza, n 57, II7; v 274 sgg., 426; VIII 93 finitista, VIII 214 morale, III 57; IV 198
Indice analitico pratica, II 43 sperimentale, x 140-144 teorica, x 140-144 Matematizzazione della natura, II 341 Materia, I 155, 214, 267, 282, 378, 380, 410, 414, 448, 459, 520; Il 107, II7, 232, 260; Ili 46-47, 50, 72, II3, 302, 387, 436, 465467, 482-484, 488; IV 32, 221, 246, 319, 337, 340, 403-404, 472, 474; V II4, II7, 121, 124, 126, 282, 291, 314, 432; VI 142, 171; VII 102 concezione newtoniana, v. Newton concezione secentesca, II 338 sgg. creazione continua, VIli 455-456 distribuzione uniforme, VIli 448 principio di conservazione, m 2II proprietà ondulatorie, x 292 teoria corpuscolare, II 407 Materia condensata, x 296 di fatto, m no e forma, II 326 ed estensione, II 503 oscura, x 325, 329; x 334, 336, 350, 353-354, 357 Materialismo, I p, 156, 381; II rr8; III 12, 318, 343, 365, 379; IV 47, 88, 92, II0-126, 134, 206, 412, 431-432, 438, 442; VI 40, 147, 189, 208, 222; VII 96-109, 299, 357, 408, 410, 417; IX 267, 556; XI 40, 44, 264-268, 351 biologico, v 420 Materialismo dialettico, v 82-88, 419-432; VII 100, 104, 177, 181, 418, 430-439; VIli 79, 1II-II7, 495; IX 556; XI 9 applicazione scienze particolari, IX 418 sgg. Materialismo dialettico e biologia, VIII 173-179 e teoria dell'evoluzione, IX 418 sgg. Materialismo etico, VI 266 evoluzionistico, v 420 fisico, v 420 in biologia, vm 191 ingenuo, VII 279 istruito, VII 279 meccanicistico, v 177, 333, 420; VII roo; VIli 493; IX 556 Materialismo riduzionista, x 188, 190-191 dualismo, x 190 identità mente-cervello, x r88
Materialismo scientifico, vr 266 storico, v 82-88; VII 93, 177178, 430-439, 514; VIII 528-529, 537 Matriarcato, v 437 Matrice disciplinare, v. Kuhn Matrici, VIII 420, 428-429 Matrimonio, m 299 Maturazione, VI 89 Maupertuis, funzione, m 178 principio di minima azione, III 182
Maximin, Xl 89 Maxwell demone, v 308; VIII 142 equazioni, v 270-271, 274 teorema di distribuzione, v 265 Maxwell-Boltzmann, statistica, x 394 Me, XI 364 Meaning variance, v. varianza di significato Meccanica, II 137, 248, 333, 335, 399-408; Ili 363, 379, 446; IV 319; VI 149, 177 piano inclinato, II 48 Meccanica analitica, m 175; IV 408 Meccanica applicata, I 252, 301 Meccanica classica, rx 198 tesi sull'origine, x 471 Meccanica e matematica, r 203 Meccanica moderna, II 168 Meccanica ondulatoria, VIII 419; IX 453 Meccanica quantistica, VII 143, 145; VIli 420 sgg.; IX 198; x 287, 298 (v. anche fisica quantistica) assiomatizzazione, VIII 414 critica di Fok, rx 475-476 differenze con la meccanica classica, IX 461-462 Meccanica quantistica e materialismo dialettico, VIII 438 Meccanica quantistica e neopositivismo, vm 430-431 equivalenza con la meccanica ondulatoria, VIli 421 esperimento delle due fenditure, x 288 fondamenti, x 288 incompletezza secondo Terleckij, IX 462 interpretazione di Copenaghen, x 292 interpretazione del carattere statistico, rx 463-464 opposizione in URSS, rx 453 parametri nascosti, IX 466 posizione di Mandel'stam, rx 460
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presunta dimostrazione dei suoi princìpi, VIII 431-435 realtà e prevedibilità, IX 458 revisione critica, x 287 riduzione, x 289, 292 sistemazione assiomatica, x 288 sovrapposizione, x 288 sgg. spiegazione statistica, x 51-52 struttura, x 287 sviluppi, v. fisica quantistica Meccanica quantistica e processo di misura, VIII 429 Meccanica razionale, III 169-182 Meccanica relativistica, IX 198; x 287 Meccanica statistica, v 309 sgg. Meccanica statistica quantistica, VIII 423 Meccanicismo, I 70; II 231-232, 332-342, 387-388, 461; III 73, 85, 254, 338, 343, 436; IV 31, 76, 243, 412, 428, 432, 434, 438439, 444; v 8, 165, 173, 261, 264, 267, 269, 271 sgg., 293, 312, 318 sgg., 420-422; VI 172, r8o, 259, 275, 297; VII 29, 307308; VIII 61; X 364, 471 applicazione ai fenomeni ottici, II 417 critica alle teorie di Aristotele e Paracelso, v. Aristotele e Paracelso definizione di elemento, v. elemento Meccanicismo biologico, VI 257, 265, 290; VIII rr8 sgg. concezione cartesiana, II 432 critica, VI 300, 305 critiche, VIII 129-131 critiche di von Bertalanffy, VIII 157 sgg. Meccanicismo creazionistico, VI 300 fisico, v 172 teleologico, VI 308 Meccanicismo-vitalismo, IX 133-134 Meccanicistica, dottrina, III 240 Meccanismi omeostatici, x 262 Meccanolamarckismo, IX 418, 421 Mecenatismo, II r6 Medici-maghi, II 92 Medicina, r 26, n4, 125, 244, 314; II 91-93; IV 88 sgg. insegnamento, r 354, 359 storia, r 129 Medicina empirica, r 309 italica, r r87 razionale, I 310 Medio Cambriano, x 244
Indice analitico Membrana biologica, x 425-428 code idrocarburiche, x 425 congelamento e frattura, x 428 doppio strato lipidico, x 425426 fusione, x 425 modello a mosaico fluido, x 427-428 modello di Danielli-Davson, x 426-427 permeazione, x 426-427 Membrana citoplasmatica, x 425 plasmatica, x 42 5 Membrane biologiche, x 415 Membrane cellulari, x 419-421 artificiali, x 420 canale al calcio, x 434 canale al cloro, x 434 canale al potassio, x 434 canale al sodio, x 434, 441 depolarizzazione, x 430, 435 funzioni, x 428 iperpolarizzazione, x 440-441 microcalorimetria differenziale, x 420, 427 modelli di trasporto, x 420 patch clamp, x 433-434, 440442 permeabilità, x 420, 433 permeabilità ionica, x 429, 437 pompe ioniche, x 429 potenziale d'azione, x 430-431 potenziale di riposo, x 430 struttura-funzione, x 428-431 termodinamica dei processi irreversibili, x 429 trasferimenti di energia, x 428-429 trasferimenti di informazione, x 428-429 trasferimenti di materia, x 428-429 trasporto attivo, x 429 trasporto ionico, x 429 Membrane lipidiche nere, x 420 Memoria, I· 124, 217, 264, 472, 531; II II8, 224, 464; III 89, 95, II3, 352, 369; VI 38; VIII 497; XI 204, 316, 321 abituazione, x 210 associativa, x 205-206, 210 basi biologiche, x 210 basi psicobiologiche, x 206 circolarità, x 210 circuito locale, x 206, 209 codificazione mnestica, x 2n doppia traccia, x 205-206 emozione, x 2ro-2n invertebrati, x 214 invertebrati, unità mnestiche,
x 214 ippocampo, x 207 ricordi, x 207, 210 sistema limbico, x 207 teorie, x 2ro teorie funzionaliste, x 210 sgg. di tipo associativo, x 210 di tipo cognitivo, x 210 Memoria a breve termine, x 206 a lungo termine, x 206, 209 immunitaria, x 255 Mendel, princìpi della genetica, VIII r8o-r8r Mendeleev, v. sistema periodico Mente, I 560; II 251; IV 210; V 154; VI 30; XI 317 teoria, XI 321 interazione con l'ambiente, x 212 Mente-cervello, x 218, 220 dicotomia, x 218 mentalismo, x 221 naturalismo, x 221 Mente-corpo, vm 472; IX r2o sgg.; XI 204 Menu cost, XI 422 Mercantilismo, II 208 Mercato, IV 190, 192; v 93; XI 96, 393, 421 completo, XI 412 dei bidoni, XI 415 Merce, v 377, 380-383; XI 250 Meridiano terrestre, III 203 Mesmerismo, IV 253; VI 26 Mesone, VIII 425 Mesone K neutro, decadimento, x 306 Mesone 1t, X 299, 307, 309 Mesone zo, XI 477 Mesoni strani K, x 301 Mesozoico, x 243, 447 Messaggio genetico, IX 51 Metacognizione, XI 321, 329 Metafisica, I 464; II 105, 125, 225, 243, 360; III 73, 459, 471; IV 323, 373; V 56, 156; VI 54, 136, 144, 150, 167, 169, 171, 322 sgg., 326, 333; VII 76, II4-II5, 129, 152, r6o, 353, 356-357, 362, 481; VIII 60, 67, 88, 91, 107; Xl 28-29, 49, 54, 6r, 65, 167, 176, 202 senso popperiano, x 24-25 Metafisica influente, IX 280, 304, 321; x 22 sgg. Metafora, XI, 29, 58, 121 Metalinguaggio, VIII 214, 282, 325 Metalli, lavorazione, III 196 Metallogenetici, fenomeni, x 464 Metallurgia, II 42
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Metamatematica, VIII 370 Metamemoria, XI 321 Metamorfismo, x 449 Metamorfosi, IV 238, H2, 253, 257-258, 417 Metapsicologia, VI 345-346 Metaricorsività, IX r65 Meta teoria, VIII 215 Metempsicosi, I 45; III 393 (v. anche trasmigrazione delle anime) Meteoriti, x 339 Metessi, IV 480 Metodi induttivi, costituente, VII 249 sgg. descrizioni di stato, VII 248-249 descrizioni di struttura, VII 248-249 falsificJzione, VII 248, 251-252, 255 generalizzazioni, VII 251 leggi di natura, VII 251 universo atomistico, VII 250251 Metodo, I 50, 72; II 222, 350; III 463; VII 302; XI 31-32 alfabetico, II 298 analitico, III 266, 271; IV 9192, 94 analitico-descrittivo, IV 206, 336 assiomatico, vm 3II, 404 sgg. ciclico, III 367 clinico, VIII 508 comparativo, IV 379 compositivo, II 57 critico, VIII 508 deduttivo, 1 246; IV 376 degli indivisibili, v. Cavalieri, metodo dei residui, IV 178 del completo dominio, VI 19 del materiale ritenuto, VI 19 dell'autorità, VI 125 dell'ostinazione, VI 125 della concordanza, IV 177 della differenza, IV 177 delle variazioni concomitanti, IV 178 di eliminazione, VI 14 5 di esaustione, I 251 di Herbrand, VIII 3II di priorità, VIII 365 di separazione delle variabili, III 177 didattico, I 345; II 291, 302; m 397; IV 280, 284, 460, 477 fonico, II 299 genetico, IV 206-207, 336; v 45; VII 300; VIII 24
Indice analitico globale, II 202; IV 492 indiretto, III 314 induttivo, II 57; IV 376 intuitivo, IV 273, 285 ipotetico, II 341 logico, VII 71 metafisica, VI 125 naturale, IV 282-283 per prova ed errore, VII 475; VIII
486, 51I
progressivo, III 367 risolutivo, II 57 scientifico, m 335, 463;
222; VI 125, 191; VII 66, 73; XI 203, 235 semantico, VIII 3II sintomatico, IV 89 sperimentale, III 345; VI 2II212, 304 tipologico-normativo, III 272 IV
Metodologia dei programmi di ricerca, IX 318 sgg. Metodologia delle scienze, IV 375; VII 331, 518; VIII 58-59, 98; IX 541•544 Metrica, IV 143; x 303
di Robertson-Walker, v. Robertson-Walker MeV, x 298 MHC, x 272 Micelle, VI 274 idioplasma, VI 27 4, 278 stereoplasma, VI 27 4, 278 Microbi, x 255 Microevoluzione, v. evoluzione Microfisica, VII n Microfondazione, XI 392 sgg. Micrologia dell'educazione, XI 352 Micromerismo, VIII 139 Micrometri, III 202 Micrometro, II 392 Microorganismi estremofili, x 416, 423·424
Microscopi, III 194 Microscopia a emissione di campo, x 375 a forza atomica AFM, x 375, 418·419
Microscopia a scansione a effetto tunnel STM, x 375, 418-419 topogra/iner, x 418 Microscopia elettronica, x 375, 418, 420, 427 II 97, 169, 389, 392; IV 423 indagini microscopiche, VI 2 71
Microscopio,
sgg. interesse di Leibniz, v. Leibniz Microscopio a fluorescenza, x 417·418
ottico, x 418
Microsociologia, XI 362-383 Microsociologia-macrosociologia, XI
368-383
Midollo spinale, IV 446 Mieloma multiplo, x 265 Migrazioni, IX 7 4 Millenarismo, I 371 Milne, modello, VIII 452 Mimesi, IV 480; XI 240 Mineralogia, III 203 Miniature systems, VIII 480 Minima azione, principio, III 173, 183; IV 408, (v. anche Maupertuis) Minimalizzazione illimitata, VIII 357 Minimo essenziale comune, teoria, VIII 42 Minitel, XI 435 Miogeosinclinali, x 455, 458 Miracolo, III 39, 42-43, 392; IV 37;
v 26, 33> 36, 56 Mistero,
meccanici, v 173, 261, 267, 272·273. 316 II 232; IV 138; VII n; VIII 306, 316-317, 321, 328, 378; IX 178, 240
Modello,
rapporto con il fenomeno reale, II 335-336 Modello a generazioni coesistenti, XI 404 Modello a leggi di copertura, v. nomologico-deduttivo, modello Modello AD-AS, XI 426 Modello Arrow-Debreu, XI 412, 425
374, 388, 420, 422; II 321; III 34, 48; VI I13; VII 15, 171 Misticismo, I 43, 276, 279, 400, 409, 415, 424, 459, 473, 536, 547, 559; II 28, 35, 59, 107, II2, 258, 264, 292; IV 31, 35, 55, 202, 216, 224, 250, 351, 358, 383; V 128, 145; VI 191; VII 147, 168, 182, 323, 3.35, 338, 517; VIII 108 Misura, IV 316 teoria, IX 162-163 I
teoria, assiomatizzazione,
e teorie, VI 443-444 ecologici, IX 34 matematici, VIII 417 sgg. matematici aggregati, VIII 417 matematici disaggregati, VIII
VIII
405
Misurazione dell'intelligenza,
VI
19, 27, 91
della memoria, VI 17 Mitin, allineamento posizioni di Lysenko, IX 446 relazione tra dialettica e genetica, IX 432 Mito, I 22, 70, n3, 170, 388; v 27-29, 131; VIII 47; XI 29, 158, 164, 300 Mobiliste, teorie, x 444 Modalismo, I 383 Modalità, I 163, 225 de dictu, VIII 263 de re, VIII 263 Modelli, IV 405 sgg.; v 182, 275 funzione, III 205 teoria, III 266; VIII 216, 270, 368; IX 188-189 teoria funtoriale, IX 248
Modelli causali a microcontesti, x 485
cibernetici, IX 30-34 cosmologici, v. cosmologia
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Modello, assiomatizzazione, doppia elica, molecolare, dogma centrale, IX 50 Modello atomico, IV 403; v 181 Modello causale a macrocontesto, x 488 sgg. Modello di comportamento, XI 327
Modello di creazione continua, x 319
Modello di crescita ottimale, XI 404
Modello di universo, VIII 460-464 Modello generico, VIII 398 geometrico, II 335 inflazionario, x 322-323 insider-outsider, XI 424 interno, VIII 322 IS-LM, XI 390
meccanico, II 335-336 monoteorico, vn 490, 492, 507 non standard, VIII 316, 379 pluralistico, VII 490, 492, 507 psicologico, VIII 472 semantico, IX 148-149; XI 95, 123, 127, 130
speciale, VIII 375 standard VIII 316; x 3n, 314 storiografico, x 481 sgg. ucronistico, IX 525 Modernismo, VII 291 Moderno, XI 184, 192, 284 sgg. Modo, II 268, 275, 461 Modularismo, XI 332 sgg. Modus inveniendi, III 269 ordinandi, III 269 ponens, VIII 257, 260, 393-394 tollens, IX 283; x 6 sgg, 32
Indice analitico Moivre-Stirling, formula, III 188 Molalità, x 393 Mole, IV 404 Molecola, IV 403-404; v 180-181; x 360-363 Molecolarità, x 393 Molecole biologiche, x 415, 417 Molecole complesse, x 379, 388 struttura spaziale, x 379 Molecole informazionali, x 260 organiche, III 22 5 teoria epigenetica, III 22 7 polipeptidiche, x 420 Molteplice, I 50, 53, 180, 281, 526; VIII 108 Momento angolare, x 292 magnetico, x 303 Monade, II 124; IV 341; VI 150 v. anche Leibniz Monadismo, II 256 Monarchia, I 176; III 67 Mondo, realtà del, II 237; III m, 458; XI 50 Mondo accessibile, VIII 388; IX 149 compossibile, VIII 387 della vita, VII 32-38 fisico, VII 494 platonico, VII 494 possibile, VIII 387-390; IX 146 terzo, VII 494, 496-497 Moneta, II 468; XI 390 Monetarismo, XI 395 sgg. mark one, XI 399 mark two, XI 399 Monismo, n 271; IV 219; VI 198, 260, 264, 267, 270; VIII 477 patologico, IV 86 Monod, analisi del caso Lysenko, IX 441-442 Monodromia, IV 145 Monomorfismo, IX 206, 224-225 Montalcini, NGF, v. NGF Montpellier, scuola medica, III 240 Mora! hazard, XI 415 Morale (v. anche etica), II 75; m 389; IV 48o; VI 161, 362, 365; XI 71, 257 assoluta, VI 191 dell'obbligo, VI 191 naturale, III 31 prowisoria, II 235 Moralità, I 175, 547; m 55, n8, 322, 347, 475; IV 326, 328, 495; XI 105 Morfismo, VIII 410; IX 202-203, 219-253 Morfogenesi, IX 38, 58 sgg. Morfogenetici, fenomeni, IX 39 Morfologia, IV 235, 249, 258, 415, 425; VI 256, 258-259; VIII 147148; IX 37
omologia, VI 256 teoria della gastrea, VI 267 Morfologia idealistica, VI 256 Morgan, teoria del gene, VIII 185 Morganismo, IX 419, 422 Morley, teoria, IX 187 Morley-Vaught teorema, VIII 375376 Morte, I 155, 261, 273, 276, 327, 525, 546, 550, 557; n 53; III ns; VII 157-159; XI 60, 176 Morte termica dell'universo, v 304 Mosaic, XI 441 Mostri, III 246 Moto assoluto, v 279-280, 324 assoluto e relativo, n 516 circolare, II 406 circolare uniforme, I 208 dei pianeti, II r68 dei proiettili, n 90, 167 perpetuo, IV 227, 434; v 284, 294> 298 uniformemente accelerato, II 375 Motore inferenziale universale, 93 sgg. Motori a combustione interna, v r86 a scoppio, v r86 Diesel, v r86 Movimento, I 52, 58, 214-215, 231, 233, 262, 284, 402, 559; II 233, 251, 257, 259, 262; III 302, 450, 465-468; IV 222, 245-246.; V 422, 432; VI 142, 171 Movimento del capitale, legge, XI 242 Movimento Pugwash, XI 472 Multimedialità, XI 437-438 Muone, x 301 Muscoli, ricerche, II 42 7 Museo, I 240 Musica, I 44; v 136; VI 21 insegnamento, I 330, 335, 345, 347-349, 351, 355> 488, 497, 505; II r88, 291; IV 273 Mutamento scientifico, x 474 Mutazioni, VIII 182; IX 73; x 232 batteriche, x 260 puntiformi, IX 49 Mutazionismo, VIII r87 Mutazionisti, IX 71 Mutuo insegnamento, III 415; IV 279, 455 NAIRU, XI 395 Nana bianca, VIII 458-459; x 344345 Nane brune, x 346 Natura, I 286, 550; II 21-22, 54, 107, 271; III 463; IV 31, 220-
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223, 240-241, 246, 314; VI 157; 323, 359 Naturalismo, II 127; IV 232, 419; V 312; VI 224; VII 335; VIII 93; XI 260, 301 Nature comuni, I 472 Navigazione, tecnica, n 42 Nazionalismo, IV 358; VI 102 N azione, IV 213 NCM, XI 398 N-D modello, v. nomologico-deduttivo, modello Nebulosa primordiale, x 339 Nebulose, III 202; x 347 a spirale, x 347 extragalattiche, VIII 446 planetarie, x 343 Necessità, I 69; II 275; III 328, 457; IV 323; V 74, 133; VIII 265268 Needham, concezione, VIII 174177 Negazione, IV 301, 3n; v 39, So; VII 515; XI 44 Negazione della negazione, legge, V 429; XI 44 NEK, XI 4II Némesis, I ro6 Neobehaviorismo, VIII 472, 479492 Neo-darwinismo, VIII 189 Neodarwinisti, IX 71 Neoempirismo, VII r8r; VIII 72, 96103; XI 67 Neoevoluzionismo, XI 273 Neofunzionalismo, XI 372 sgg. Neohegelismo, VI 107 Neoilluminismo, VII n; VIII 72-75 Neokantismo, VI 133, 152; VII 26, 127, 131-145, r81, 3II-318, 335, 348, 353; VIII 50, 62, 521 Neonettunismo, x 464 Neopitagorismo, IV 255-256 Neoplatonismo, II 52, 104, n6, 121, 2134, 71; IV 55, 481; VII 159; XI 189 Neopositivismo, vm 90, 93, n3; XI 3, 6, 221, 342 Neopragmatismo, VIII 73; XI 6673, 170 Neorealismo, VI ro8, 127 Neoscolastica, VIII 87-92 Neotomismo, VIII 45, 51, 90 NEP (nuova politica economica) in URSS, IX 386, 415 Nervi, IV 87, 97, 437; v 126; VI II, 31, 147 Nervo ottico, x 439 Network delle citochine, x 282 idiotipico, x 277 sgg. VII
Indice analitico Neurobiologia, IX no sgg. metodo anatomo-fisiologico, IX IIO-III
metodo biochimico, IX uo-m metodo evoluzionistico e comparativo, IX II3 sgg. metodo fisiopsicologia sperimentale, IX II3 sgg. Neurobiologia della memoria, x 205·207 Neurochirurgia, x 207 Neurocronometria, XI 332 Neurofisiologia, VI II, 26; VIII 471, 475-479 dei movimenti, x 218 Neurologia, x 201 Neurone, IX rii; x 148, 153 Neuroni, attività elettrica, x 206 Neuroscienze, x 201-221; Xl 331-336 anatomia fine del neurone, x 201 correlazionismo, x 214 coscienza, x 215-216 coscienza e vigilanza, x 215 emozioni, x 217 fisiologia del neurone, x 201 riduzionismo, x 217, 221 riduzionismo, mente e coscienza, x 215 teoria dell'identità, x 215-216 teoria dell'informazione semantica, x 214 teorie dell'identità delle occorrenze, x 216-217 teorie della mente, x 213-217 teorie della mente e filosofia, x 217 teorie della mente e psicobiologia, x 217 Neuroscienze e chimica, x 201 e fisica, x 201 Neurotrasmettitori, x 202, 205, 217, 437-438 acetilcolina, x 202, 205, 420, 437 Neutralista, concezione, x 229 Neutrino, x 301, 327; x 333, 336, 343
sezione d'urto, x 336 Neutro, Xl 42 Neutrone, x 297, 381 scoperta, VIII 424; x 381 Nevrastenia, VI 319 Nevrosi, VI 313-314, 321 sgg., 333334, 337-338, 342; VIII 26, 489; XI 326 Newton, accelerazione centrifuga, II 517 analogia tra i Principia e gli Elementi di Euclide, II 515
anelli, II 519 calcolo delle flussioni, n 508 calcolo delle prime e ultime ragioni, II 512 calcolo infinitesimale, II 512 coefficiente di rifrazione, II 520 concezione della materia, II 522 concezione di Dio, n 525-527 controversia con Leibniz, v. Leibniz costruzione del telescopio a riflessione, II 508 decomposizione della luce bianca, II 519 esperienza del secchio, II 517 etere, II 520 fenomeno delle maree, II 518 filosofia della natura, II 524527 forza di gravità, II 523 forze centrali, II 518 gravitazione universale, n 508, 518 hypotheses non fingo, II 522524 interpretazione della fiamma, n 521 meccanica e astronomia, II 515·519 moto assoluto e relativo, n 515 ottica e chimica, II 519-521 princìpi della dinamica, II 517 regole del filosofare, n 516 regole di derivazione e d'integrazione, II 514 ricerche matematiche, II 512515 ruolo svolto dalla matematica, II 509, 515 spazio assoluto e relativo, II 516 tempo assoluto e tempo relativo, II 516 teorema del binomio, II 508 teorema d'inversione, II 514 teoria corpuscolare della luce, II 520 teoria dei colori, II 520 vita e opere, II 508-512 Newtoniano, sistema, sviluppi analitici, m 201 NGF, scoperta, IX u2 Nichilismo, Xl 167, 172, 199, 255 NII, XI 442 Nirvana, I 518, 525 Nitrocellulosa, x 369 Nitroglicerina, x 369 No-classes theory, VIII 222-223
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NOA, atteggiamento antologico naturale, v. Fine Nodi, nodo banale, x 128 teoria, x 127-130, 158 trecce, x 129-130 Noia, I 529; v 142 Nome, I 158, 220, 261, 546, 549, 552; Il 244, 249, 254, 357; XI 51 proprio, Xl 135-139 Nomenclatura binaria, III 222 Nomicità-accidentalità, distinzione, x 41 Nominalismo, I 404, 422, 426, 475; Il 28, 59, 72, 74, 250, 253, 357, 463; III 48; V 333; VIII 62 Nomologico-deduttivo, modello (N-D), x 37 modello, difficoltà, x 39, 41 Nomos, I 95 Non-essere, I 50, 153, 169, r8o, 389, 526, 537; IV 316; VII 174; VIII 108 Non-Io, IV 209-210, 213 Norma, I 277 Normalità, VIII 42 Normalizzazione, vm 383 teorema, IX 175 Nosografia, IV 87, 94 Nota, IV 336 Notazioni di ordinali, teoria, VIII 383 Not self, x 259, 277 Noumeno, II 456; IV 208; VII 315 Nous, I 84 Nozionismo, II 184; m 312; IV 284; VI 87, 238; VITI 20 Nubi di Magellano, x 346 Nubi protogalattiche, x 351 Nucleo, IV 424, 427 costituzione, VIII 424 epistemologia, VII 459 Nucleo cellulare, X 231 Nucleolo, IV 424, 427 Nucleoni, x 297 Nucleosintesi primordiale, x 327 stellare, x 327 Nulla, I 93; V 45; VII 159-162; XI 189, 209 Nullstellensatz, IX 189-190 Numeri cardinali, VI 395 sgg., 416 aritmetica, VI 397 confrontabilità, VI 396, 400, 402 continuo, VI 400-401 teorema di Cantor, VI 396-397 transfiniti, VI 396-397 Numeri irrazionali, VI 371 teorie, VI 361
Indice analitico Numeri naturali, VI 355-356, 375, 379. 382, 388, 416-417 sistema assiomatico, VI 382 Numeri ordinali, VI 398 sgg. cardinalità, VI 398 sgg. transfiniti, VI 385 Numeri primi, teorema, x n9 Numeri quantici, x 383, 387 Numeri reali, IV 158; VI 359; VIII 339 continuo, VI 369 sgg. definizione, VI 362 sgg. non numerabilità, VI 389 sgg. teoria, VI 362 sgg. Numeri trascendenti, v 171 Numero, I 41, 74, 77, r8r, 286, 544; II 41; VII 19, 140; VIII 510 pari e dispari, I 42 Numero atomico, x 379 Numero barionico, 9 conservazione, x 309 violazione, x 309 Numero complesso, IV 158 di Godei, vm 315, 353, 359 ideale, VIII 289 infinitesimale, VI 153 irrazionale, III 49 naturale, VIII 200, 232 ordinario, VI 153 reale, IV 158; VIII 339 Nuova storiografia della scienza, x 485 Obbedienza, I 499; n 193; III 314; IV 6o; VI 74 Obbligo, III 122 Obiettivo acromatico, III 194, 204 Oblio, v. amnesia Occamismo, II 28 Occasionalismo, II 256-261; III 50 Occasionalisti, III 224 Odio, II II7 Offerta aggregata, curva, XI 410 Oggettivazione, XI 221 Oggettivismo, VII 498, 506 Oggetto, IX 202-203, 228 fisico, VIII 42 7 Ohm, legge, IV 400 Oligopolio, teoria, XI 414 Olismo, x 8 organico, VIII 134 Olocene, x 464 Omelyanovskij, critica interpretazione di Copenaghen, IX 474 Omeomerie, I 8o Omologia comportamentale, IX 97 Omomorfismo, IX 200 Omozigoti, x 228 Onda -corpuscolo, dualismo, VIII 419 Onde di conoscenza, IX 465
Onde elettromagnetiche, v 268, 276-277 Onde gravitazionali, x 333, 336 sorgenti astrofisiche, x 336 Onde luminose, v 269, 277 Onestà, II 30 Onlap, x 461 Onore, I 327, 362, 504; II r6, 477; III 56, 67, 367 Ontogenesi, IX 59; x 237 Ontologia, I 264; v 32; VII 128, 154, 430; IX 153; XI 9, 45, 4849, 58, 221 sgg., 241 del declino, XI r66 dell'ambivalenza, XI 353 personalistica, XI 212 Oocita, IX 64 Opera d'arte, XI 142 sgg. totale, XI 156 Operativismo, VIII 8r, 101 Operazionismo, VI 45; VIII 483 in relatività generale, VI 473 in relatività ristretta, VI 468, 471 Opere, valore delle, II 63, 71, 293 Opinione, I 51, 179, 343, 550 Opportunismo, x 230 Opposizione, I 37, 42, 50, 56, 69, 221, 520; II 122; III 137; IV 310; V 62, 139; XI 41 Opzione prima, XI 450 seconda, XI 451 terza, XI 4 52 Oracolo, VIII 359 Orbitali, x 387, 409 mescolamento, x 389 Orbitali d, x 409 conservazione della simmetria, x 401 degenerazione, x 409 Orbitali di frontiera, x 400-401 molecolari, x 390, 403 Orbite elettroniche, x 381, 383 determinismo classico, x 381 Ordinale, VIII 382 Ordinale ammissibile, VIII 378; IX 167 Ordine, I 42, 183, 267, 283, 531, 559; II 262, 264-265; III 51, 327, 348, 386, 393, 486; IV 338, 352; V 125; VI 55, 57, 63, 67, 173, rn; VII 428, 430; logica, VIII 226-229, 283 enciclopedico, III 271 genealogico delle scienze, III 271 gerarchico, principio, VIII 163 naturale, III 270 sistematico, III 270 Organica, IV 319
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Organicismo, VIII n9, 137-138 Organicista, concezione, VIII 131 Organicità, VII II9 Organismi, classificazione, x 421422 Organismi viventi, x 230 Organismica, concezione, VIII 140141 concezione della vita, VIII I 54 concezione in Bertalanffy, VIII !62 Organismo, I 66, 69; III 240; IX 67, 8r trattazione sistemica, VIII 164165 Organismo come concetto primitivo, VIII 158-159 Organizzazione, IX 30 biologica IX 19 biologica monodirezionale e a due livelli, x 232 spazio-temporale dei sistemi viventi, IX 22 Organo, programma, IX 32 Oriciclo, IV 133 Originalità, IV 332 Origine, XI 52 Origine dell'uomo, v 369 sgg. facoltà mentali, v 370 moralità, v 371 Origine della specie, v 361 sgg.; IX 90 sgg. della vita, x 423-424, Orizzonte, XI 33 Ormoni, IX 25; x 202 peptidici, x 413 Orogenesi, x 443, 446 Orologi portatili, II 397 Orologio, II 97, 389 a scappamento, II 396-397 Orti botanici, II 96 Ortocomplementazione, IX 147 Oscillatore armonico, x 293 Oscillazione, teoria, x 449 Oscillazioni pendolari, teoria, II 397 Osiander, prefazione, II 86 Osservabile-non osservabile, distinzione, x 6r Osservabilità, x 59 per inferenza, x 59 Osservazione carica di teorie, v. theory !aden Osservazione empirica I n3, n7, 121 Ossigeno, IV 244-245 Osso intermascellare, IV 235 Osteologia, IV 236-237 Ottica, I 298; II 416-420; IV 396 geometrica, I 245; IV 408
Indice analitico Ottici, apparecchi, m 194 Ottimalità, x 230 Ottimismo, I 276, 328, 337, 380, 497-498; II 74; III 14, 38, 55, 75. 308, 366, 389, 438, 445. 486; IV 183, 198, 382; V 128130, 159; VI 85, 159; VII 153; VIII 28, 539; XI 164 Ovismo, m 216 Ovum, III 216 Pacchetto d'onda, riduzione, IX 454 Pace, I 561; III 443 Pacifismo, VI 475 Pais, analisi storica, teoria relatività, x 481-482 Paleodinamica, prova, x 446 Paleomagnetismo, x 443 Paleontologia, v 339; VI 288 Panafricano-baikaliana, fascia, x 447 Pangea, x 243, 446 Pangeni, VIII 181 Panlogismo, IV 324; VII 323 Panpsichismo, II 58, 127 Panspermia, III 218 Panteismo, I 36, 275, 428; II 22, 58, 62, 107, 256, 269, 443; III 379; IV 34, 202, 303, 481; VI 200, 264-265, 289; XI 44 Pappa, o Guidino, teoremi, I 304 Paracelso, teoria dei tre elementi, critica meccanicistica, II 425 Paradigma, IX 309 sgg.; IX 307, 350; x 474 Paradosso (v. anche antinomia), I 163, 558; v 142; XI 46, 6o, 192 Parallele (v. anche quinto postulato), I 35, 246; III 156-167 Parallelismo psicofisico, teoria, v 126 Paramodulazione, regola, x 94 Paranoia, VI 25 Parapatrica, speciazione, x 226 Parasequenze, x 464 Paratopi, x 278 Parità, violazione, x 305-306 Parola, I 93, 343; IV 50 Parole, VII 376, 391 Parsimonia, legge, VI 37 Partecipazione, I So, 179, 448; VII 169 Particella, x 287 Particella 11, v. muone Particelle a, VIII 424; x 381-382 Particelle elementari, VIII 425; x 296 sgg.; XI 478 Particelle identiche, x 293 Particelle igneo-aeree, II 424 Partoni, x 3II Pasca!, principio, II 3II
Passione, I 176; n 236, 274, 470; III 31, 57, II6; VI 50 Passività della materia, III 224 Pathos, I 293 Patologia cellulare, IV 428 sgg. Patria, IV 212-213, 467 Paura, I 158, 262; VII 157 Pavlovismo, VIII 480, 496 Peano, teoria, IX 163 assiomatizzazione, VIII 405 Peccato, I 369, 378, 380, 389, 422, 474, 484, 510-5II, 525; Il 16, 264, 321; III 33, 54, 56; v 52 originale, rr 260, 294, 319; III 28-29, 55; IV 196; V 140; VI 54 Pedagogia, IV 345; VII 341, 356; XI 337-360 attivistica, VII 70 della frontiera, XI 353 scientifica, VI 82-105 Pelagianesimo, I 389 Pendolo, n 404 compensato, III 194 composto, n 404, 407 Penitenza, I 498 Pensiero, I 70; II 225, 270-271; III 84, II3; IV 47; VI 36, 142-143, 185; VII 336, 425 debole, XI 165-175, 348 formale, VIII 508 infantile, VI 28; VIII 508-509 intuitivo, VIII 508 negativo, XI 181 operatorio, VIII 508 Pentimento, I 523; II 293, 301 Pentola di Papin, III 197 Percezione, I 154, 525, 531-532; II II8; IIl 45-46, 48, 85, 373; IV 312, 474; VI 22, 32, 35, 130, 140; VIII 499, 5II Percussione, n 401-402 Periodi di cambiamento, x 225 Periodo critico, IV 362, 365 organico, IV 362, 365 Permanenza delle leggi formali, principio, IV 156 Permiano, x 241, 447 Persona, IV 55, 475; VII 152, 168, 174; VIII 89; XI 212 Personalismo, VII 301; VIII 89; XI 345 sgg. assiologico, VII 168 Personalità, XI 3II sgg., 325-328 Persuasione, I 257 Perversione, VIII 25 Peso, I 261 atomico, IV 403; v 18o; x 360 sgg. specifico, I 252
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Pessimismo, I 276, 278, 328, 5II; II 103, 295; III 30, 350; IV 352, 459; VI 159-160; VII 8-9; VIII 28; XI 7, 28 Petitio principii, I 532 PH, x 394 acidità, x 394 basicità, x 394 neutralità, x 394 Phillips, curva, XI 391 sgg. Piacere, I 164, 167, 262, 529; II 33, II8; III 54, 57-58, III, 312, 324, 326; IV 199, 462; VI II5, 140 principio, VIII 25, 28, 488-489 Pianeti, coagulazione, x 339 formazione, x 338 formazione, polveri, x 339 sedimentazione, x 339 Pianificazione, approccio di Strumilin, IX 387 Pianificazione in URSS, IX 385 sgg. Piano à raisonner, x 81 Piano biennale sui problemi dell' agricoltura, IX 391 Piano di Benjoff, x 454 Piano finalistico, m 225 Piano finito proiettivo, x 103 Piano quinquennale, IX 387-392 variante di dicembre, IX 390 variante ottimale, IX 390 versione di agosto, IX 389-390 Piattaforme continentali, x 445 ocèaniche, x 445 Piccola circolazione del sangue, II 93 Piccole scuole, n 297, 308 Pietà, I 554; m 301; v 136 Pietismo, II 300; m 380, 396; v 19 Pila, III 207 Pirronismo, m 29 Pitagora, teorema, I 44, 47 Pitagorismo, n 121; IV 304; VI 155 Pittura, insegnamento, II 184 Placche di emolisi, tecnica, x 270 Placche litosferiche rigide, x 453 Planck, costante h, x 298, 381, 385 ipotesi, x 381, 385 Planetesimi, x 339 accumulazione, x 339 Plasmacellule, x 270 Plasma germinale, teoria, VIII 121122 Plasticità, IV 238 evolutiva, IX 77 fenotipica, IX 71 Plastocitomi, x 266 Platonismo, II 52, 102, 263, 326, 457; III 341, 358, 380; IV 304, 495; V 125; VI 149; VIII 44
Indice analitico Platonismo di Cambridge, II 517 Pleiotropa, azione, x 28I Pluralismo evolutivo, x 23I sgg. Plusvalore, IV I82, I87, I94; v 382384, 386, 390; VII 3IO; XI 229 Plutonici, fenomeni, x 464 Pneuma, 1 I87, 267, 28I, 3n, 322 animale, 1 323 psichico, 1 324 vitale, 1 323 Poesia, 1 230; m 349, 368; IV 3435, 274; v 128 insegnamento, I 504 Poiesis, XI I42, I58 Polanyi, conoscenza silenziosa, IX 350 Polariscopio, IV 396 Polarità, IV 22I, 224,228, 237, 24I, 249 Policy evaluation proposition, XI 405 Polimorfismo, x 227 psicologico, VIII w Polipeptidi, x 4I2 Politica, 1 I77; v 63; VII 409; XI I4 insegnamento, III 4n teoria, XI 74-III Politica della scienza, XI 447-483 Polvere da sparo, II 42 Polvere interstellare, X 335 Polya, euristica matematica, IX 300 Pompe a fuoco, III I97 Pons asinorum, x 84 Pool genico di una popolazione, IX 72-74 Popolo, 1 529; IV 459, 467 Popper, concezione, critiche interne, x 5 sgg. confronto con Kuhn, IX 3I4 critica allo strumentalismo, x 7I mutamento scientifico, x 474 Positivismo, IV 12, I7, 349-350, 365389, 465, 489; v I2, I46, !78; VI 84, I07, II7, 126, I33, q8I4I, I50, I60, I63-229, 254; VII 25, 28, II5, 302, 304, 3I2, 3I7, 326, 332, 338, 35I, 355-356, 359; VIII 50, 62, 537, 540, 547; IX 554 Positività, IV 30I Positrone, VIII 422, 425; x 30I Posi troni, XI 476 Possibilità, VII I73, I75, I77; VIII 84, 265-268, 392 Postmoderno, XI I4I, I48-I5I, I58 Postulato, III I67, 454, 472; VII 47 Potenza, 1 2I4, 410, 448; II 128; VI I7I matematica, VIII 200
Potere, VIII 534, 544, 546; XI 39 antigenico, x 258 delle punte, III 206 immunogenico, x 258 Poteri, divisione dei, II 470 Pragmatica, XI I20-I22 Pragmaticismo, VI I23 Pragmatismo, VI 108, I22-I27; VII 77, I8I, 29I, 30I, 304-306, 35I, 359; VIII 80, IOI; Xl 6, 20, 2I3, 3II, 337-338, 364 Prassi, v 6o, 68-69, 7I, 83, wo; VII 94, I77; VIII 547; Xl II, I5, I42, 2I5, 220 scientifica, x 47I Pratiche religiose, II 323; IV 385 Prawitz, condizioni, x 90 Precaledoniano, mare, x 447 Precambriana, era, x 227, 232 Precambriano superiore, x 447 Precategoriale, VII 36-39; VIII I07 Precessione degli equinozi, I 249 Predestinazione, 1 390; II 67, 279, 450; III 29; IV I96; VIII 528 Predicativismo, VIII 200, 202, 2IO Predisposizione, x 274 Preercinico, mare, x 447 Preesistenza dei germi, III 2I7, 2I8 Prefasci, IX 205, 2I4, 24I -242 Prefazione di Osiander, II 410 Preferenza, XI 78-79 Preformismo, II 259;VI 287; IX 66 adesione di Leibniz, v. Leibniz Preformista, teoria, II 434-435; m 2I6 Pregiudizio, III 59, 92, 326, 337, 369; XI 33 Premio, I 364 Presburger, teoria addizione, x 82 Prescienza divina, II 74 Pressione atmosferica, scoperta, Il 394 Pretetico, mare, x 447 Preuraliano, mare, x 447 Previsione, 1 2I7 Prezent, influenza su Lysenko, IX 423 Prezzo, IV I82; v 75; XI 385, 39I sgg. fisso, XI 409 naturale, IV I85, I9I vischioso, XI 410 Primato, IV 482; v 47 Primitivi, III 298 Princìpi genetici, IX 48 Principio cosmologico, VIII 452, 455-456 d'indeterminazione e interpretazione dei fenomeni biologici, VIII I43-I44
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degli indiscernibili, v. Leibniz del fondatore, x 227 di causalità, IX 482 di conservazione della materia, v. materia di indifferenza, III I88 di inerzia, n 48, I66, 334 di ragion sufficiente, v. Leibniz di "ragion non sufficiente", m I88 formativo, IV 427-428 generatore, I 35, 4I, 67, 70, 83, 267 ordinatore, 402, 560 variazionale, x 387 Probabilismo, I 257, 273; VII 493 Probabilità, III I87, 328; VII 235236, 239-240, 46I, 466, 500506, 5I6; VIII 398 calcolo, II 3u, 312; III I69-I70; VI I73; VII 500-506, 5I6 (v. anche calcolo) calcolo, assiomatizzazione, VIII 405 conceziOne frequentista, VII 239-242 concezione logicista, VII 239240, 242-244 (v. anche Wittgenstein) di leggi generali, VII 24I -242 di un evento singolo, VII 24I interpretazione propensionale, x 47 o grado di conferma, VII 243 sgg., 247, 254-255 Probabilità ed evidenza, VII 242 Probabilità e meccanica quantistica, VIII 436-437 Problem solving, vn 496; x 84; XI 3I8 Pròblema, XI I63 Problema della parola, IX I85 Problema di Post, VIII 365 Problematicismo, XI 347 Problemi isoperimetrici, 1 304; III I78 Procariote, v. cellula Procedimento infinitesimale, II 2I5, 246 Procedura effettiva, VIII 350 Processo riproduttivo guidato, VIII I90 Proctisti, x 248 Prodotto, IX 206-207 logico, v 210 relativo, v 244 Prò/asis, 1 I3I, I42 Profitto, IV I82, I9I
Indice analitico Profondità, IX 143 Progetto fondamentale, VII 174, 177 Progetto Vi"rgo, XI 479 Prognosi, I 133, 135, 143, 147 Programma, VII 459; XI 308 di Erlangen, IX 209 di Hilbert, VIII 339-350, 380 Programma di ricerca, applicazioni alla matematica, IX 327cintura protettiva, IX 323 nucleo metafisica, IX 323 Programmazione, trasformazione in categoria filosofica, IX 450 Programmazione funzionale, x 85 logica, x 105 sgg. Programmi di ricerca, come varianti del convenzionalismo, IX 363 sgg. Progressionismo, v 341, 343, 345 Progresso, 1 92; III 14, 79-80, 298, 304, 330-331, 336, 392, 473474> 486; IV 260, 362, 382-383, 387-388, 463, 481; V 62, II6, 159, 163; VI 55; VII 8, 15, 510, 512, 547, 553; VIII 514, 540; XI 9, 30, 2II, 250, 261
attraverso le rivoluzioni scientifiche, IX 312 Prolessi, v. anticipazione Proletariato, v 68, 74, 85; VIII 514; 562; XI 6
dittatura, v 416; VII 442 Proliferazione delle teorie, VII 478 Prolog, x So, 105 sgg.
Proo/ bundle, IX 253 Property rights, XI 418 Proporzione, 1 67, 202, 206, 246 Proporzioni definite, legge, x 360 multiple, legge, x 360 Proposito, IV 326 Proposizione, 1 220; n 249-250, 354, 357, 38
di inefficacia, XI 403 generale, IV 176 ideale, VIII 289-290 Proprietà definita, VIII 271 Proprietà di Church-Rosser,
IX
177
Proprietà emergenti, VIII 137 Proprietà generale di consistenza, VIII
378
Proprietà privata,
II 105, 130, 281; 122; IV 212, 326, 363; V 39, 66, 75, 87, 90-94, 434; VII 152, 310; VIII 87, 544; XI 247 Proprietà risultanti, VIII 137 Prosencefalo, x 2n Prospettiva, II 46 Prospettiva e geometria, II 46-47 III
416
analisi strutturistica, IX 42 cristallizzazione, x 414 distanza genetica, x 422 purificazione, x 414 struttura a-elica, IX 43 struttura tridimensionale, x 414
329
IX
Prospezioni petrolifere, x 467 Proteine, IX 24; x 4n sgg., 413-
tecniche spettroscopiche, assorbimento, X 414 tecniche spettroscopiche, dicroismo circolare, x 414 tecniche spettroscopiche, fluorescenza, x 414 tecniche spettroscopiche, risonanza magnetica nucleare,
x 414 tecniche spettroscopiche, x 414
Proteine allosteriche, IX 54 cerebrali, x 205 non isotoniche, IX 56 tumorali, x 265 Proteinoidi, x 249 Protezionismo, IV 193 Protocellula, x 248 Protocolli, v. enunciati protocollari Protogalassia, x 351 Protone, VIII 425; x 297 Protoplasma, IX 20 ProtoRNA, x 250 Protostella, x 338, 340 fase di presequenza, x 341 Prototipo, IV 257 primitivo animale, III 247 Protozoi, scoperta, II 434 Prova dell'esistenza di Dio, I 423, 447, 464; Il 320; III 35-36, 43, 74, II4, 459-461; IV 461; V 161 analogica, III n4 causale, n 254, 464 cosmologica, III 459-460 fisico-teleologica, III 460 antologica, n 226, 254, 269; III 459·460 Provvidenza, 1 278, 388; n 130; III 43, 49, 55-56, 351; IV 183-184, 344, 352 Provvidenzialismo, v 364 Pseudocomplemento, IX 147 Pseudoconcetto, VII 327, 330 Pseudoscienza, VII 458-459, 475 Pseudosfera, IV 137-138 Psicanalisi, VI 210; VIII II, 21, 24, 488, 491; XI 6, 12, 46, 306, 309·315, 356·357 allucinazione, VI 324
sss
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angoscia, VI 351 autoanalisi, VI 32 5, 328, 341 coazioni a ripetere, VI 348 complesso edipico, VI 326, 335·336, 342, 344, 350
conscio, VI 350 delle conoscenze oggettive,
VII
276
desiderio, VI 324, 327, 332 esperimenti associativi, VI 339 inconscio, VI 322, 329, 346, 350 interpretazione dei sogni, VI 324 sgg. interpretazione dei sogni, contenuto latente e manifesto, VI
327-328
interpretazione dei sogni, lavoro onirico, VI 327-328 io, VI 321-322, 337, 342, 349 sgg. libere associazioni, VI 322, 327 libido, VI 333, 337, 342 sgg. modello di apparato psichico, VI
331
narcisismo, VI 344-345 nevrosi di guerra, VI 347 odio, VI 346 perversione, VI 334 preconscio, VI 350 processo primario, VI 330, 332 processo secondario, VI 330, 332
psiconevrosi da difesa, v. isteria pulsione distruttrice, VI 348 pulsione, Eros, VI 348 pulsioni, VI 321, 334, 337, 346, 348
rimozione,
VI
321-322, 324,
330, 337, 351
schizofrenia, VI 339 seduzione infantile, VI 324-325, 335
sessualità, VI 323, 325-326, 332 sgg. sessualità infantile, VI 333-335 simboli, VI 327 superio, VI 349 sgg. teoria della libido, v. sessualità traslazione, VI 323 Psicanalisi esistenziale, VII 174 Psiche, 1 521; VI 91, 168, 313 sgg.; XI 3II sgg. Psicofisica, IV 441 sgg.; VI 19 parallelismo psicofisico, VI 302 Psico-fisiologia, IV 47 Psicologia, IV 46, 99, 199, 325, 345, 376·377, 412, 418; v 330331; VI 148, 185, 206, 298; VII
Indice analitico 31, 74. !64, 298, 306, 313-315, 341; VII 219; X 220; XI 306336 comportamentismo, x 164-165 gestaltismo, x 164 Psicologia animale, VI 31, 36-40 associazionistica, VI r88; VIII 13 atomistica, VI p; vm 13 borghese, XI 324 clinica, VIII 21 comparata, VI 37 critica, XI 324 culturale, VIII 498 del lavoro, VI 29 dell'educazione, XI 343 dell'età evolutiva, VI 90; VIII 472, 506 della scoperta, x 474 dello sviluppo, x 219 differenziale, VIII 42 di massa, VIII 516 dinamica, VI 30 e fisiologia, x 220 e matematica, VII 267-270 empirica, II ro5 filosofica, VI ro funzionale, VI 29, 44 genetica, VIII 47; XI 341 oggettiva, VI 13, 40-45 ormica, VIII 488 retorica, XI 330-331 scientifica, VI 8r; VIII 471-512 sociale, VI 14, 32; XI 328-331 strutturale, VI 29 Psicologismo, VII 19, 430; VIII 54, 92 Psicosi, XI 326 Psicoterapia, abreazione, VI 319320, 322 Psicovitalismo, vi 288-289, 301302 Puerocentrismo, VII 78-79; VIII II, 17 Pullback, IX 220-222, 225-226, 237 Pulsar, VIII 457-458; x 337, 344 Pulsione, VIII 25, 474; XI 3II sgg. Punto, II 246 all'infinito, II 371 materiale, VII 144 Purificazione, VII 352 Puritanesimo, II 447, 4 50 Pushout, IX 220-222 QCD, v. cromodinamica quantistica QED, v. elettrodinamica quantistica Quadrato mistico, IV 251 Quadratrice di Ippia, II 373 Quadrivio, I 44, 394, 399, 408, 492
Qualità, IV 316 primarie, III 89; v 124 primarie e secondarie, II 173, 339 (v. anche teoria della soggettività delle qualità sensibili) secondarie, II 229, 251; III 28, 45, 85; V 124; VII 315 Quanti, vecchia teoria, x 381, 385 Quantificatore universale, VIII 226, 261, 294; IX 251; XI II9 Quantificazione del predicato, III 137-138; IV r66-r68 Quantistica, logica, v. logica Quantità, IV 316 d'azione, III 183 Quantità di moto, II 233; III r82; v 285 incremento, III 185 legge di conservazione, II 504 Quantizzazione, condizioni di Bohr, x 381 Quantizzazione della gravitazione, x 304 Quanto, IV 317 d'azione, IX 456 sgg. Quanto-relativistica, meccanica, x 299 Quark, x 3II sgg., 326 colore, x 3II Quasar, VIII 457-458; x 334, 354-355 lenti gravitazionali, x 355 radiosorgenti superluminali, x 355 Quasi-induttivismo, VII 501 Quaternario, x 461 Quaternioni, IV 158 Quattro colori, teorema, x ror, 136-137 Quiete assoluta, v 279-280, 235 Quine, concezione, x 74 sgg. distinzione tra verità anali tiche e sintetiche, x 74 epistemologia naturalizzata, x 76 olismo semantico, x 75 antologia relativizzata alla teoria, x 75 teoria comportamentistica del significato, x 75 traduzione radicale, x 75 Quintessenza, II 95 Quinto postulato, III 155-167; IV 123-146 Quoziente intellettivo, VI 27 R&S evaluation, XI 454 sgg. R-RNA, IX 53 Radiazione cosmica, x 335, 357 fluttuazioni, x 335 Radiazione fossile, VIII 457-458; x 320, 325
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Radicali, x 365 teoria, x 365 Radicalismo, II 277 Radici, I 67 Radioastronomia, x 333 del continuo, x 333 delle righe, x 333 elettronica, x 333 idrogeno neutro, x 333 radiazione di sincrotrone, x 333 radiotelecomunicazioni, x 333 seconda guerra mondiale, x 333 tecnologie radar, x 333 Radioattività, VI 431-432; x 382 artificiale, VIII 424 ~. x 297 Radiogalassie, x 355 Radiotelescopi, VIII 446, 457; x 333 Raggi a, VI 432, 436-437 ~' VI 432 y, VI 432 catodici, v 176; VI 430; x 380 Raggi cosmici, VIII 424; x 299, 336 primari, vm 425 radiazione primaria, x 336 radiazione secondaria, x 336 secondari, VIII 42 5 Raggi infrarossi, IV 398 luminosi, natura, III 204 ultravioletti, IV 398 X, VI 430-431; x 376-377. 379 Ragion pratica, III 469-474; IV 207; VI 176 pura, m 448-468 sufficiente, III 386, 436; v 133 Ragionamenti analogici, m 213 Ragionamento, I 222, 445, 531; II 104, 249, 356; IV 50; VI 148; VIII 219 deduttivo e argomentativo, x 28 sgg. empirico, x 33 sgg. Ragione, I 51, 70, ror, 175, 179, 217, 261, 267, 286, 445. 459. 473, 525; II 28, 54, ror, II8, 130, 215, 232, 236, 240, 247. 253. 263, 283, 286, 321-322, 351, 466, 471; III 12, 28, 34, 36-37, 47, 59-60, II?, 302, 444, 457, 475; IV 20, 29, 31-32, 210, 298, 318, 325, 374; V 17-18, 37, 41, 51, 71, 132; VI 50, 54, 173, 191, 213; VII 165-167, 182, 359; VIII 97; IX 558-563; XI 7, 15, 17, 20, 41, 76, r6o, r62, 185, 201, 2o8 classificatoria, XI 272 fenomenologica, XI 198
Indice analitico scientifica, xr 198 seconda, XI ro strumentale, xr 6, ro tassonomica, xr 272 Ragioni seminali, I 279 Raman, effetto, x 376 spettroscopia di diffusione, x 376, 427 Rapporto giromagnetica, x 303 Rappresentabilità, VIII 318-319 Rappresentazione, I 257, 264; III 389, 484; IV 342; V 131-133; \1I 426, 429 collettiva, xr 330 conoscitiva, IV 347 simpatetica, IV 347 sociale, xr 33o Rarefazione, I 38 Rasoio di Occam, I 470 Razionalismo, II 107, 257, 263, 28o; m 358, 378, 395. 442, 487; v 127-128, 138, 409-410; VI r6r; VII 35, 39, 53, 416-417; VIII 54, 63, 93 qualitativo, II 32 5 Razionalità, xr 28r sgg. degli agenti, ipotesi, xr 410 dell'attore, postu!ato, XI 37 4 sgg. delle scelte economiche, ipotesi, xr 393 limitata, XI 37 4 scientifica, II 137 Razionalizzazione, III 170 Razze mendeliane, x 231 Reale, concezione dinamista, m 183 Reali, IV 337 Realismo, I 422; II 28; IV 205, 209; V 122, 141; VII 107, IIO, 123,
128, 307; VIII 63, 80, 91, 208, 226, 237, 474; IX 234 sulle entità, x 57-58 sulle teorie, x 57-58 Realismo come manipolabilità, x 68-71 Realismo convergente, x 58 critico, VI n4, 128 empirico, VII 316 interno, xr 67-68 metafisica, xr 67 moderno, VIII 439 scientifico, x 56 sgg. trasfigurato, VI II5 Realizzabilità ricorsiva, VIII 386; IX 175-178 Realizzazione, IX 154 Realtà, I 54, 66; II 268; III 48; IV 318; V 33-34; VI 154; XI r88 principio, VIII 25, 489 virtuale, xr 439-440
Reattologia, VIII 495-496 Reazione VIII 481 tempi, VI 17 Reazioni chimiche, x 397-402 meccanismi, X 397-402 teoria dell'addizione, x 398 valenze residue, x 398-399 Reazioni incrociate, x 2)7 termonucleari, x 338, 340-342 Recettore, teoria, x 202 Recettori alfa e beta, x 276 colinergici, x 202 Recursione sbarrata, principio, Vlii 383 Redenzione, XI 9 Refrigerazione, v r86-r87 Regime, I 136 Regime termico della Terra, x 455 Regioni d'essere, VII 172 Regola, I 258-259, 265 Regola di Cardano-Tartaglia, II 84 di conversione, IX 174 di estensionalità, VIII 393 di Fermat, II 381 di sostituzione, VIII 257, 266, 393-394 Regolazione genica, IX 57-58 Regressione, VI 210 Regresso infinito, IX 298 Reificazione, VII 427; Xl 221 Relativismo, 1 8r; VI 54; VII ror, 107; VIII 271; Xl 67, 283 Relatività, critiche, a priori, VI 485-486, 495 campo, VI 494 causalità, VI 497 continuità, VI 497 coordinate generalizzate, VI 498-499 costanti fondamentali, VI 491 curvatura dello spazio-tempo, VI 505 evento, VI 489-490, 499 fisica e geometria, VI 489 sgg., 504-505 geocronometria, VI 506 geometria, VI 495 invarianza, VI 506 materialismo dialettico, VI 503 probabilità, VI 497 spazio-tempo, VI 485 sgg., 492 sgg., 501 critica dei quantisti, VI, 496 sgg. critica di Schlick, VI 493-494 critica di Whitehead, VI 488 sgg. critica kantiana, realismo ingenuo, VI 487-488
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critica spiritualistica, VI 490 sgg. interpretazione kantiana, VI 485 sgg. teoria, VI 128; VII 143; VIII 83 teoria, analisi storica di Feuer, v. Feuer teoria, analisi storica di Pais, v. Pais :Zelatività galileiana, II 169; VI 448449 Relatività generale, VI 460 sgg.; x 332, 336, 356 convenzionalismo, VI 471 sgg., 481-482 curvatura dello spazio-tempo, VI 461, 463 geometria e fisica, VI 465, 471 sgg. invarianti, VI 474 ontologismo, VI 481-482 principio di equivalenza, VI 462-463 teoria, VIII 441, 458 sgg., 466; x 302 Relatività ristretta, contemporaneità o simultaneità, VI 455-456 equivalenza massa-energia, VI 459, 469-470 teoria, VI 448 sgg.; x 296 trasformazione dei tempi, VI 458-459 trasformazione della velocità, VI 458 trasformazione delle !unghezze, VI 456 sgg. trasformazioni di Lorentz, VI 458 Relazione, II 46r; IV 163, 318; VI n8-n9; VIII 220 Relazioni, teoria, v 204 Relazioni oggettuali, teoria, Xl 3II Relazionismo, VII 357 Religione, II 34, n2, 125, 130, 255, 472; III 59, Il3, 336, 349, 389, 405, 486; IV 36, 39, 298, 326327, 344, 361, 373, 476; v 2728, 38, 40, 43, 137; VI 57, II3; VII 337 insegnamento, I 513; II 302; III 375, 4II, 416-417; IV p, 62, 270, 288; VI 236, 242-243; VII 343 Religione dell'umanità, IV 370, 384; VI 140, 164-165 Religione naturale (v. anche deismo), II 131; m 14 Religione positiva, III 75-81, 302; IV 32
Indice analitico Religioni, I 24 antropomorfiche, I 24 monoteistiche, I 24 politeistiche, I 24 Reminiscenza, I 168 Rendimento, v 286-287, 297 Rendita assoluta, v 401 differenziale, IV 193; v 398-400 Reperti paleontologici, x 225 Repertorio exattativo, x 234 Replicazione differenziale, x 262 Repressione, VIII 27-28, 489 Repressori, IX 54 Repubblica, III 66; IV 331, 418 Repulsione, III 436; IV 221 Res cogitans, III 241 Respirazione, n 425, 429 Responsabilità, VI 210; XI 28 Rete, XI 440 sgg. Reti globali, XI 442-443 Reti metaboliche, IX 22 Reti neurali, v. cibernetica Reti sociali, XI 373 sgg. Reticoli, teoria, IX 174 Reticoli continui, x 86 Reticolo, IX 146-147, 150 Retina, IV 434, 436; x 439 bastoncelli, x 439 sgg. coni, x 439 sgg. fotorecettori, x 439 Retorica, I 90, 168; IX 26o; x 28 sgg. insegnamento, I 337, 352, 493 Retroduzione, IX 305 Retta all'infinito, II 371 tangente, v. tangente Reversibilità, v 295, 298, 303, 306, 308, 315; VIII 509, 511 Rex extensa, III 241 Riarrangiamenti cromosomici, IX 91 Ribosomi, IX 22 Ricchezza, I 328, 502, 548; II 16, 67, 295; IV 487; V 75 Ricerca extragalattica, x 347 Ricerca normale, IX 310 Ricerca scientifica, I 346, 354; II 232; IV 11-13, 15, 20; VI 135; VIII 525; XI 447-483 Ricerca straordinaria, IX 311 Ricombinazione, x 328 somatica, x 267 Ricombinazioni geniche, VIII 190 Riconoscimento associativo, x 277 Ricorsi, m 350 Ricorsività, teoria, VIII 351-366; IX 162-167 Ricorsività relativa, VIII 359, 363 Ricostruzione razionale, IX 305
Ridondante, azione, x 281 RiducibiJità, I 202; IX 166 assioma, VIII 206-209, 282, 284, 304 Riduzione, metodo di Davis e Putnam, x 90 Riduzione fenomenologica, VII 25 Riduzionismo, XI 394 Riduzionismo-antiriduzionismo, IX 133-134 Riemann, ipotesi, x 119 Riferimento, teoria, XI 133-134 Riflessione, n 46o; III 47, 487 principio, VIII 382, 384 Riflessione, spiegazione cartesiana, II 417 Riflessione e rifrazione, leggi, III !83 Riflessività, XI 367 Riflesso, VI 40-41; VII 102, 107, no; VIII 474; XI 237 Riforma della chiesa, n 11, 28, 6175 Rifrazione, coefficiente, n 520 doppia, n 41 legge, II 416 spiegazione cartesiana, n 417 Rifrazione della luce, II 234; IX 256 Rigenerazione, fenomeni, III 228 Rigore, m 49, 455; IV I5J·I52; VI 40; VII 38, 377, 488; VIII 230, 525, 539; XI 252 Rigore e sviluppo, correlazione, x 493 Rigore matematico, x 99 Rilevanza statistica, modello, x 47 sgg. Rimozione, VIII 25 Rimpiazzamento, assioma, VIII 273, 275; IX 163 Rinascimento, n 7-28, 62 Rinforzo, VIII 481, 483-484, 488489 teoria, VIII 21 Rinormalizzazione, x 299 Ripetizione, XI 45 Riproduzione differenziale, VIII 189 Riproduzione sociale, teoria, XI 353 Rischiaramento dell'esistenza, VII !64 Riso, VI 186 Risolubilità delle equazioni, IV 147-150 Risoluzione lineare ordinata, x 92-93 Risonanza, teoria, x 390 Risonanza di spin degli elettroni, ESR, x 420-421
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Risonanza magnetica nucleare, NMR, x 204, 377, 418, 427 teoria, x 377 Risonanze 1t-nucleone A, x 301 Risparmio, III 55 Risposte difensive, x 255 Risurrezione, III 41 Ritmo funzionale della natura, III 274 Ritorno allo stato naturale, I 561 Ritorno ciclico all'origine, I 37, 542, 549 Rivedibilità, x 113 Rivelazione, I 519; n 64, 68, 71, 131, 275, 471; III 31-32, 42, 596o; IV 37, 216, 327, 476; v 142 Rivoluzione, IV 351, 457 Rivoluzione astronomica, rico· struzione di Pumfrey, x 489490 Rivoluzione industriale, III 36; IV 410; v 9-10 Rivoluzione molecolare, IX 20 Rivoluzione scientifica, n 134 Kuhn, IX 311 RNA, IX 50 sgg., m, 117; x 238, 267; x 412, 434 RNA messaggero, IX 52; x 412 RNA ribosomiale, x 424 Robertson-Walker, metrica, x 321 Robinson, effetto di coniugazione, x 400 regola, x 91 Romanticismo, III 15, 395; IV 14, 17, 28-41, 466; VI 160; VII 147; XI, 189 Rottura di simmetria, x 324, 326 spontanea di simmetria, x 308 Roux, polemica con Verworn, v. Verworn Ruffini-Abel, teorema, III 179 Russell, antinomia, v. antinomia Rutherford, modello di atomo, x 381 RV, v. realtà virtuale Rykov, progetto di tesi sul piano quinquennale, IX 391 S-D modello, v. spiegazione statistico deduttiva Sacrificio, I 484 Saggio, I 57, 162, 168, 176, 256, 263, 267, 491, 511, 537, 543, 547, 550, 554; Il 103, 112, 235, 474; VII 354 caduta tendenziale, IV 187, 192; V 397-398; XI 245 Saggio del plusvalore, v 387, 396 di interesse, IV 187 di profitto, IV 187; V 396; XI 385
Indice analitico Salari -efficienza, XI 422 sgg. Salario, IV r87, 191; v 99, ror, 385; Xl 385 nominale, XI 391, 393 reale, XI 393 vischioso, XI 393 Salnitro, n 424-425 Salvezza, I 373-374, 378, 485, 517; Il 38, 63, 71, I9I-I92, 315, J2I; III 35-36, 304 SAMs, x 268 Sapienza, I ror; n n8 Sarton, regola, x 475 Satellite artificiale, x 335 Scala naturale, III 219, 249; IV 92, !04-!05 Scala termometrica assoluta, v 298-299 Scale termometriche, III 195 Scambio assoluto, IV 190 relativo, IV 190 Scambio sociale, teoria, XI 376 Scelta, assioma, VIII 234-236·, 242, 275, 320, 396-398; IX 158-r6o, 23!-235, 268 teoria, XI 78 Scelta di portafoglio, XI 392 Scelta dittatoriale, principio, XI 88 Scelta razionale, teoria, XI 373 sgg., 419 Scetticismo, I 255, 409; n n2, 223, 239, 243, 245, 316, 322; III 30, II5; IV 465, 470, 479; VI 54, II9, 131; VII 31, 37, 509, 517; VIII 62, 92 in Wittgenstein, v. Wittgenstein Schema, IX 214 affine, IX 214 di Markov, IX 175 Schemi, teoria, x II9 Schiavitù, n 287; v 87, 89 Schizofrenia, XI 47, 327 Schroclinger, equazione, VIII 42o; IX 455 equazione d'onda, x 386-387, 39! gatto, x 289, 290 Schultz, teoria, VIII 127-128 Sciami, x 299 Scientismo, VII 8 Scienza, efficacia, II 133 genesi psicologica, VII 267, 271 neutralità, IX 521-523, 548-553, 562-563 proletaria e borghese, clistinzione, IX 401 rapporto con la metafisica, IX 32! superiorità, II 133
validità, l 162; IV 25, 323, 386; VI 59; VII 170, 173, 179-183, 324, 329, 339-340, 457-518; VIII 57, 6r, 83, 90-91, 94, II4; IX 544548, 556; Xl 6, 69 Scienza cognitiva, x r86-r88 della pianificazione, IX 389 della scienza, x 484-485 dello scienziato, VII 339 e filosofia, IV 83 segg.; VI 476; VII 266 e réverie, VII 281-285 Scienza in sé, VII 339 Scienza moderna, II 7, 134, 137138, 324, 326, 331, 341, 408; IV 2!, 41, 374; V 2!, 128; VI 167, 177-178, 213; VII 46-47, 53, II4, 314, 415, 453-454; VIII 90, !09; Xl 14, 63, 202, 286, 290 fondamenti logici e filosofici, Il 341 Scienza pura e scienza applicata, contrapposte caratterizzazioni, IX 295 . Scienze, autonomia, III 355 insegnamento, I 493; II 291; III 400, 403, 406; IV 5!, 60, 270; VI IOO, 245; VIII 46 unificazione, VII 271 Scienze dell'educazione, XI 337-360 dello spirito, VIII 521-529; XI 32, 36 esatte, I 242 fisiche, carattere sociale, VII 279 fisse, VI 50 idiografiche, VI 157; VIII 504, 52!; Xl 264, 336 nomotetiche, VI 157; VIII 521; Xl 264, 336 occulte, I 289 Scienziati-ingegneri, n 133 Scienziato, funzione sociale, VI 475 Scienziato-mago, II 94 Scisti di Burgess, x 244 Scolastica, n 72, 230, 344 Scommessa, n 322-323; m 74 Scoperta, III 269 scientifica, IX 280 scientifica e innovazione tecnologica, IX 295 Scoperte anatomiche, II 136 Scorte liquide, XI 392 Scriba, I 25 Scrittura, I 25; XI 53-57, 196 sgg. fonetica, I 25 geroglifica, I 25
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Scritture, interpretazione, III 33, 36, 40; v 27, 48 Scuola, I 331, 348, 355, 357, 498; II 31, 197, 451; III 362-363, 367, 375; IV 23, 52, 459; VI 195, 230; VII 69; VIII 35-36; IX 510-534 a tempo pieno, VI 94; VIII 31, 37; IX 496-5ro; Xl 340 attiva, VI 68 centrale, m 427-428 comunale, IV 59 delle scuole, II 203 Scuola eli Copenaghen, IX 471, 473 critica di Omelyanovskij, IX 474 filiale russa, IX 465 Scuola di massa, VI 68, 70; VIII 37; IX 490-496 gratuita, I 498; II 68, r87; m 400, 405-407, 416, 419, 433; IV 66, 454, 490; V 374; VI 73 hilbertiana, x 82 laica, III 363, 396, 400, 412 materna, 1 348; II 201 media, I 503; III 402; IV 460 municipale, I 495 normale, VI 237 nuova, VI 68, 97-99, ror obbligatoria, II 68, 187, 451; III 400, 405-408, 433; IV 66, 454; V 374; VI 73, 76, 236 parrocchiale, I 496 pitagorica, I 40 pneumatica, I 3II popolare, II 452; III 401-402, 405; IV 63, 270, 454; V 374; VI 24! primaria, 1 341, 346, 496, 498, 503; II 68, 179, 187, 191, 200, 304, 45!; IIl 363, 365, 373> 400, 405, 416, 419; IV 58-59, 6r, 63, 460; VI 72, 75-76, 235-244; VII 72; VIII 17; IX 503 privata, I 335, 347, 495, 512, 408; IV 59, 490 professionale, III 423 progressiva, VIII 45 religiosa, I 487, 500, 507; III 403; IV 454; IX 502 secondaria, I 341, 350, 495, 503; II 69, 189, 290; IV 65, 78; VI 244-252; VII 72, 343; VJII I9 speciale, IV 59 sperimentale, VII 41 statale, I 332, 344, 347, 360, 495; II 451; IV 66, 484; VI 69, 76 sublime, IV 460 tecnica, II 452; VI 71, 245; VII 343
Indice analitico SDI, XI 453 Sé, XI 312 sgg., 364 Secolarizzazione, XI 147 Seconda quantizzazione, x 295, 296 Secondo principio della dinamica, II 168 Segnale, IX 16 Segnale nervoso, meccanismo di propagazione, X 43 5 propagazione e trasmissione, x 435-438 velocità di propagazione, x 435-436 Segno, I 142; II 356; VI 169; VII 373, 375-382, 426-427, 429; VIII 5II; XI 56 Selezione, v 346; VI 275-276, 286; VIII 44; IX 507-510, 514; X 222 artificiale, v 346, 352 clonale, IX 61; x 261 germinale, VI 282 Selezione naturale, I 69; v 346352, 356 sgg.; VI 281; VIII 189190 diversificazione del concetto, IX 74 sgg. forma differenziante, IX 74-75 forma direzionale, IX 75-76 Self, x 259, 277 Semantica, VII 497; VIII 270, 305, 323-330, 387; IX 144, 154-157; XI 66, II2-139 a dizionario, XI 174 a enciclopedia, XI 174 funtoriale, IX 246, 270 intensionale, XI 121 sgg. predicativa, VIII 389 Semiintuizionisti, VIII 242-248 Semiologia, VII 384; XI 349 Semi osi, XI 34, 174 Semiotecnica, XI 355 Semiotica, VIII 101; XI 20, 174 Sensazione, I 179, 261, 267; II 124, 251; III 28, 47, 57, 87-88, 95, II6, 373; IV 50, 210, 435, 442, 474; V 123, 131; VI 168 Sensi, I 217, 264, 410, 450, 521, 523, 533; II II8, 124, 224, 246, 253, 266-267, 460; III 39, 46, 50, 56, 87, 457; IV 50 Sensibile, esperienza, I 168, 452, 471 Sensibilità, III 240, 384, 449; IV 88, 92, 97, 239, 246, 413, 435, 440 Sensibilità universale della materia, III 248 Sensismo, II 352; III 300, 365; IV 357, 464, 472
ingenuo, IX 306 sofisticato, IX 306 Senso, XI 129 comune, III 125; IV 462; v 148; VI 130; XI 72 dell'essere, VII 155-159, 168; XI 57 in Wittgenstein, v. Wittgenstein morale, III 56; IV 184; VI 37 Sentimentalismo, IV 298; v 19 Sentimento, III 303, 380, 475-476, 484, 489; IV 34, 50, 57, 183, 199, 384, 474; V 52; VI 16, 83, II4, 159, 185; VII 314, 318; VIII 499 trascendentale, IV 36 Separazione dei simboli, principio, IV 155 Sequenza deposizionale, x 463 Sequenza di formule, VIII 344 Serenità, I 277 Serie, III 177; IV 393 di funzioni, v 168 omologhe di variabilità, legge, IX 414, 42 7 oscillante, III 174 trigonometrica, sviluppo di funzioni, VI 384 trigonometriche, III 179; v 568 Serina, IX 51 Set Top Box, XI 438 Sfera, 1 51, 68, 232, 408 immaginaria, III 163 Sferoide terrestre, III 202 Sfondamento, XI 167 Sfondo integratore, XI 357 Sfruttamento, IV 182, 186, 364; v 24, 383, 386; XI 253 Shapere, approccio, IX 372 sgg. domini, IX 372 entità teoriche, IX 373 Shapin e Shaffer, analisi programma spetimentale di Boyle, x 488 Sia!, x 446 Sieri, x 256 Sign-Gestalttheorie, VIII 486-487 Significante, VII 381, 427; XI 54 Significanza, criterio, VII 222-223, 230, 234 Significati-stimolo, VII 233 Significato, VII 232-233, 381, 427, 446; XI 54, II?, 120, 122-124, 197; x 6! postulati, Xl 130-131 teoria comportamentistica, x 75 Significato in Wittgenstein, v. Wittgenstein Silenzio, VII 159
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Sillogismo, I 220-226, 265, 282, 458, 518, 532; III 457; IV 50, 317; v 197 sgg., 201 sgg., 213, 233, 251-252; VIII 236 Sillogistica, II 57, 347-354; III 128, 136, 140, 143-144; IV 159-171 Sima, x 446 Simbiosi, VI 210 Simbolico scambio, XI 61 Simbolismo, II 365; IV 292; XI 264268 leibniziano, II 500; III 176 newtoniano, III 176 Simbolo, IV 39; XI 58, 180 Simmetria di parità, violazione, x 305 Simmetria interna, x 307 Simmetria per inversione del tempo, violazione, x 306 Simmetria unitaria S(3), x 310 Simpatia, 1 282; III 56, II9; VII 153 Simpatrica, speciazione, x 225 Simulacro, XI 61, 152, 188 Simulazione di processi fisici, chimici, tecnologici, VIII 416417 Sinapsi, Ix III; x 201-202, 206, 436 sgg. attività elettrica, x 206 potenziamento a lungo termine, x 206 terminazioni sinaptiche, x 437 terminazioni sinaptiche, vescicole, x 437 variazioni, x 210 Sinapsi chimiche, x 436 elettriche, x 436 giunzioni serrate, x 436 Sincretismo, 1 281; III 3II; VIII 15 Sincronia, VII 376-377, 385, 428429, 434-435, 443 Sindacato, modello economico, XI 422 Singolarità, patrimoni genici, x 225 Singolarità delle funzioni, modello di stati, x 124 teoria, x 123-124 Sinistra hegeliana, v 21, 36, 58, 62 Sinolo, I 214 Sinonimia, x 74 Sintassi, XI II8 Sintesi, I 181, 258; II 222, 285, 353; III 86; IV 40, 210, 3II, 313; VII 52 Sintesi chimica, x 368-369, 374, 402-405, 412 cefalosporina, x 403 chinino, x 403 chinotossina, x 403
Indice analitico colesterolo, x 403 cortisone, x 403 macromolecole, x 404 monomeri, x 404-405 polimeri, x 404 stricnina, x 403 tecnica empirica, x 370 Sintesi industriale, x 369 Sintomo, I n6, 134; VII 421 Sismica a riflessione, x 46I Sismologia, x 443 Sistema, XI 346 Sistema assiomatico, completezza, VI 426 indipendenza, VI 426 non contraddittorietà, VI 42 5 Sistema canonico, VIII 359 Sistema copernicano, confronto col sistema tolemaico, II 409 Sistema del sapere, III 266 sgg. di classificazione, III 222 di Mannheim, VIII 38 endocrino, IX 26 figurato delle conoscenze urnane, III 275 formale, IV I59; VIII 215 illativo, IX 171 immunitario, IX 6I limbico, x 2n metrico-decimale, IV 68-69 naturale, III 222 Sistema nervoso, IV 87, n4, 446; IX no sgg. approccio evolutivo, x 20I recettori sensoriali, x 438 Sistema organizzato, IX 30 Sistema periodico, v I8o-I8I; x 360, 363, 382-383 previsione, x 363 tavola di Mendeleev, VI 438; x 360, 363 Sistema simpatico, cellule simpatiche, x 203-204 Sistema sociale, teoria, XI 369 Sistema solare, x 333, 337, 338-340 età, x 339 evoluzione, x 338 ipotesi nebulare, x 338 origine, x 337-338 proprietà chimiche, X 338 proprietà fisiche, x 338 Sistemi caotici, x 252 Sistemi di equazioni algebriche, III I78 Sistemi illegittimi, III 26I Sistemi interpretativi della realtà, critica, III 254 sgg. Sistemi stellari, x 347 doppi, x 334. 339, 345 Situazioni-limite, VII I67
Skolem, teorema, x 89 Slancio vitale, VI I89 Slittamento di problema progressivo, IX 3I9 Smuts, concezione, VIII I35-I36 Socialismo, IV 2I2, 36I; v 94, I59, 4I6 conservatore, v 106-Io7 reazionario, v 106-107 scientifico, v 6I-I09 utopistico, v 106, 108; VI 47-52 Socializzazione, VIII I 2 Società, 1 263, 547; II 66, I92; III I2I, 306, 3I5; VII 345; VIII 48 Società calda, XI 26I influenza, VI 93 Società fredda, XI 26I Società informatizzata, XI 444-446 Società familiare-patriarcale, 1 2I Sociologia, IV 372, 377, 379-383; VI 46-67, I77, 203; VII 74, 400; VIII 85, 5I3-554; Xl 36I-383 Sociologia comprendente, VIII 526, 530 dell'educazione, XI 354 della conoscenza, VIII 548-554 della religione, VIII 537 filosofica, VII I53 positivista, VIII 526 strutturale, XI 375 Sociologismo pedagogico, VI 94 Sociopatologia dell'educazione, XI 353 Sociopedagogia, VIII 30 Soda, v I90 Soddisfacibilità, VIII 306, 326 Software, XI 433 Soggettivismo, IV 462, 472, 479; V 329, 332; VII 105, 312; VIII 49I-493 Soggetto, 1 255; IV 202, 473; XI 2I, 49-5I, 59, 63-64, 370 Sogno, II 224 Solcometro, II 42 Sole, x 336 reazioni nucleari, x 336 Solidarietà, IV I84, 38I; VI 63 Solidificazione dei fluidi, III 252 Solipsismo, VII I23 Soma, x 237 Somma logica, v 211, 226, 23I, 249 relativa, v 244 Sommo bene, III 47I Sonno, III III Soprawivenza del più adatto, VIII I89 del più fortunato, x 244 Sostanza, 1 I30, 2I4, 220, 383, 422, 465, 523, 530; II n8, 225, 228, 250, 268-275, 46I-462; III 453-
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455; IV 55, 46I; V 49; VII I36, I38; VIII 427 Sostanzialismo, VII I34 Sostitutività, principio, XI I24 Sottodeterminazione della, teoria a causa dei dati, x 58, 67 Sottoformula teorema, VIII 346 Sottofuntore, IX 2I3 Sottoggetto, IX 224 classificatore, IX 224 Sottoinsiemi funzionalmente equivalenti, x 284 Sottomissione reale, teoria, XI 254 Sovranità popolare, II 278, 286; III 307; IV 467 Sovrano, I 546; II 103 Sovrastruttura, VII 3IO; IX sn, 537; XI 266 Spato d'Islanda, II 4I6 Spazio, I 50, 67, I53, 530, 535; II II7, I23, 228, 250; III 46, 48, 88, I52, 449, 467-468; IV I34, I42-I46, 436, 48o; v I24, I32; VI 2I, I88; VIII 5n; Xl 224, 377 affine, IX 2IO assoluto, II 5oo; IV I45; v I74, 324 sgg.; VI 473-474 assoluto e relativo, II 5I6-517 comportamentale, VIII 487 curvo, VIII 448 degli stati, x 288 del problema, XI 3I8 di Zariski, IX 2I3 espressivo, VII 14I intelligibile, IV 340 odologico, VIII 506 rappresentativo, VII I4I significativo, VII I4I topologico, IX 203 vitale, VIII 504 Spazio-tempo, VI 46o-46I; VIII 45I452, 459; x 296 relatività speciale, VI 467 sgg., 489 Spazio-tempo curvo, x 302 Spazio-tempo e numeri, VI 376-377 Specchio oculare, IV 434 Specialismo della scienza, IV n, 375; V 425, 442; VI I38; VII 508; IX 538-544 Speciazione, modi, x 225 Specie, 1 2I9; VI n4; x 222 morte, x 223 nascita, x 223 trasmutazione, v 350 Specie ancestrale, x 224 Specie matematica, VIII 336-337, 385-386; IX I8o Species, I 450, 463, 472; II 459; VII I9, 23
Indice analitico Specificità, reazioni immunitarie, x 257 Specificità antigenica individuale, x 264 Spencerismo, VI II2 Speranza, XI 12 Sperimentale, VI 14; VIII 21 Sperma, I 76 Spermatismo, III 216 Spermatozoo, scoperta, II 435 Spettrofluorimetro, x 417 Spettroscopia, v 174 applicazioni astronomiche, VIII 444-445 Spettroscopia a raggi X, x 376377, 379 molecolare, x 392 Spettroscopia nell'infrarosso, x 376, 392, 395 struttura chimica, x 376, 392 Spettroscopia rotazionale, x 392 vibrazionale, x 392 Spettroscopie ottiche, x 375 Spiegamento, VIII 337 Spiegazione molecolare, IX II Spiegazione scientifica, II 336, x 35 sgg. approccio di Van Fraassen, v. Van Fraassen approccio pragmatico, v. Van Fraassen modello N-D, condizione di adeguatezza empirica, x 38 modello N-D, condizioni di adeguàtezza logica, x 38 Spiegazione statistica, x 44 sgg. interpretazione oggettivistica, X p interpretazione soggettivistica, x 51 Spiegazione statistico-deduttiva, x 44 sgg. statistico-induttiva, x 44 sgg. Spiegazione-predizione, simmetria, x 46 Spiga, IX 245-246 Spin, VIII 422; x 299 isotopico, x 307, 309 Spinorelle, IX roo Spinozismo, III 33, 393 Spirale logaritmica, III 178 Spiriti animali, III 242 Spirito (v. anche anima), 1 560; III 72; IV 204-207, 221, 242243, 314, 325; VI 136, 157, 2r8; VII 44; VIII 85; XI II apollineo, VI 159-160 assoluto, VI 151 dei popoli, III 66 dionisiaco, VI 159-160
libero, IV 325 pratico, IV 325 scientifico, VII 276 teoretico, IV 325 Spiritualismo, IV 47, 53, 341, 357; V 421; VI IJJ, 150, 164, 170174; VII 149, 168, 315, 348, 351; VIII 51, 8o, 87-92 Spontaneità, 1 512; II 476; IV 40, 215, 29o; V 158; VI 87, 103; VII 56, 71, 347 Spostamento, VIII 488 Spostamento verso il rosso, VIII 450, 458; x 321 Spreading, x 465 Sragione, XI 41 Stabilità di ogni forma vivente, III 222 Stacanovisti, IX 434 Stadio estetico, v 140 etico, v 140-141 religioso, v 140-142 Stagflation, XI 389 Stalin, differenze da Lenin, IX 400 sgg. Stampa, II 43 Stampo interno, III 228 Standardizzazione piani di organizzazione, x 247 Stati di conoscenza, x II2 Statistica, v 183-184 di Bose-Einstein, VIII 423 di Fermi-Dirac, VIII 423 Stato, 1 21, 169, 177, 228, 339, 344, 388, 551, 554; II 103, 248, 277; IV 212, 328, 330; V 46, 415; VII 345; VIII 534 assoluto, II 208 di natura, II 468-469; III 299 formazione, III 64; v 438-439 macroscopico, v 309 microscopico, v 309 minimo, XI 91-92 Status-ruolo, VIII 542 Stechiometria, x 362 Steinitz, teorema, IX r6o Stelle, x 332 classificazione, VIII 4 54 diagramma di HertzsprungRussell, x 341-342 emissione di energia, x 341 evoluzione, x 332, 337, 339, 340-347 formazione, x 335, 338 fotodisintegrazione del ferro, x 343 idea evoluzionistica, VIII 445 massa, x 342 massa e luminosità, x 341 materia degenere, x 343
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misura delle distanze, VIII 44 5 origine, x 337 pressione di radiazione, x 341 pressione gassosa, x 341 temperatura superficiale, x 341-342 Stelle binarie, x 336, 345 compatte, x 336 strette, x 337 Stelle di neutroni, x 344-345 Stelle doppie, VIII 444 (v. anche sistemi stellari doppi) multiple, x 345 solide, VIII 457-458 Stereochimica, x 377, 409 Sticky end, estremità collosa, x 279 Stimolo, VI 44; IX r6; XI 316, 332 Stoicismo, II 27, 33-34, 448; XI 46, 201 Storia, I 230; II 19; III 15, 29, 348, 392-393, 443, 486; IV 23, JO, 264, 458; v 46, 74, 81-83, 104; VI 50, 83, 157, 221; VII IIJ, 323324, 328, 330, 434-435, 453; VIII 69, 514-515, 520-539; XI 26, 251 insegnamento, I 363, 493; II 194, 203, 291; III 93, 353, 356; IV 6r, 270 oggettività, 1 14I verità, 1 141 Storia della matematica, x 471, 493 sgg. in Italia, x 494 Storia della scienza, v 15, 315, 322, 324, 427; VII 267, 270, 330, 340, 476; VIII 73, 503; IX 280281; XI 204 approccio sociologico, x 473 sgg. discontinuità, VII 273 ed epistemologia, VII 270-2 71 Storia della scienza e storia degli scienziati, x 4 77 sgg. Storia delle idee, x 470-471, 474 Storia esterna, v 15; IX 331 Storia interna, v rs; IX 331 Storica, concezione della vita, VIII 153 Storicismo, VII r82; XI 9, r8, 171, 234 assoluto, VII 325, 32 7 Storico della scienza, competenze secondo Sarton, x 475 Storiografia, I 196; II 99; III 78 tucididea, I 139 Stranezza, x 310 Stratigrafia sequenziale, x 461 sgg. Stratigrafica, metodologie di interpretazione, x 464 Strumentalismo, VII 47, 49 critica di Popper, x 71
Indice analitico Strumenti di misura geodetici, II 391 Strumenti ottici, costruzione, III 196 Strumenti scientifici, II 388-398 a uso dimostrativo, III 196 Strumilin, approccio alla pianificazione, IX 387 attacco contro Groman, IX 389 Struttura, VIII 84, 371; XI 26o sgg., 302, 370, 378 matematica, VIII 409 Struttura a-elica delle proteine, IX 43 Struttura atomica, x 378-385 fisica, IX 197 molecolare, x 366, 374 parziale, IX 203 politica, VII 310 Strutturalismo, VII 372-455; VIII 106; XI 15, 36, 47, 6o, 231, 260, 275. 306, 354. 369 Strutturazione, teoria, XI 378 Strutture dissipative, teoria, IX 19 Strutturistica chimica, v r81; x 375-378 Sturm und Drang, IV 19, 29, 58 Subconscio, IV 55, 343 Subduzione, zone, interpretazione, x 449 Sublimazione, III 58; VIII 25 Sublime, I 175, 408; III 475-476; VI 159; Xl 141, 150, 154-156 Subordinazionismo, I 383 Subsidenze, x 44 5 Successione di libera scelta, VIII 385-386, 391 Successione fondamentale, VIII 337 Suddivisione, I r8o Suicidio, v 136; VI 64, 66 Superamento, IV 301; VII 178 Superantigeni, x 276 Supercompattezza, IX 160 Superconduttività, x 317 Superfamiglia delle immunoglobuline, x 268 Supergene, x 273 Supergigante rossa, x 343 Super-Io, VIII 489 Supernova, x 334, 336, 344 esplosione, x 336 resto, x 344 Supersimmetria, x 313 Superstizione, II 471; III 42, 77, 335 Superuomo, VI 161 Supervalutazione, IX 156 Suppositio, I 455, 471, 479 Sussidi didattici, IV 292; VII 350 Sviluppo, VII 78; VIII 497
Sviluppo delle scienze, III 269 Sviluppo per contrari, legge,
VI
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Tabula rasa, I 450 Tanatologico, principio, IX 21, 126 Tangente, II 37 4, 380, 383 Tao, I 549 Tarski, teorema, VIII 329 Tassazione, IV 189 Tassonomiche, unità, x 233 Tassonomici, studi, x 231 Tautologia, VIII 279, 281, 350 Tautomeria, x 366, 398 cheto-enolica, x 398 Tavola di verità, v 241; VII 208; VIII 257-258, 350 Tavole semantiche di Beth, v. Beth TCGF, x 281 TCR, x 275 Teaching machines, VIII 484 Techne, technai, I no, 124, 128 Tecnica, I 71, 84, r82, 283; II 21, 2I0-2II innovazioni, II 96-98 Tecnologia, III 169 educativa, XI 355 Teismo, II 320; IV 34 Telaio, II 42 a tirella, II 42 Telefono, v r89 Telegrafo, v r89 Telemagmatici, fenomeni, x 464 Teleologia, IV n5, 230, 440; v 361; VI 259, 289, 308; VIII IO Teleologismo, I 195 Teleonomia, paradosso, IX 128 Telescopi, rr 389; x 334, 335, 337, 347, 352 a riflessione, III 194 Telescopio, teoria, II 416 a riflessione, II 391 di Monte Palomar, VIII 445 Telestar, x 320 Televideo, XI 435 Temperamenti, dottrina, I 317 Temperamento, III 324; XI 325 Tempo, I 50, 67, 230, 387, 526, 530, 535; II 250; III 48, 449, 488; IV 157, 340, 48o; v 56, 132, 134, 305, 324-325; VI 21, 188; VII II9, 154, 432; VIII 5n; XI 50, 59, 184, 224, 250, 377 assoluto e relativo, II 516-517 misura, III 193 Tempo assoluto, II 505; v 324 Tempo-ora, XI 9 Temporalità, VII 154-155 Temporalizzazione, III 236, 238 della scala, III 220
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Tensione, forza, v 295-296 Tensore, VIII 449 Teodolite, III 202 Teofania, I 401 Teogonia, I 23 Teologia positiva, II 73 Teorema chiuso, IX 153 Teorema di inversione, II 384, 514 Teorema fondamentale dell'algebra, III 178, r8o Teorema sulle funzioni razionali delle radici, III 179 Teoria, VII 457-518; XI 38r, 470 a stato finale, XI 93 anticonsequenzialistica, XI 93, 96 Teoria atomica, IV 403 del linguaggio, v. Linguaggio Teoria categorica, VIII 314, 317 in potenza, VIII 373 Teoria cellulare, rv 4n, 422 sgg. fecondazione, VI 272 protoplasma, VI 271-272, 278, 300 Teoria consequenzialistica, XI 77, 84 Teoria degli insiemi, VI 383 sgg. antinomie, VI 399-400, 402403, 417-418; X II7 corrispondenza biunivoca, VI 378, 388 definizione di insieme, VI 394 di Cantor, VI 401 sgg. insieme derivato, VI 385 punto di accumulazione, VI 385 tipo d'ordine, VI 397 Teoria dei campi, v 260 sgg.; x 287; VI 460 dei numeri naturali, II 367 del moto, storia, x 494 Teoria deontologica, XI 92, 96 ecologica, VIII 543 ed esperimento, VI 442-443 eliocentrica, II 408 esplicativa, VII 491 evoluzionistica, I 37 freudiana, VIII 48 5 interpretativa, VII 49 r molecolare, v 179-180 monistica, XI 77, 92 pittografica del linguaggio, v. Wittgenstein pluralistica, XI 99 Teoria scientifica, concezione di Mandel'stam, Ix 460 falsificazione, IX 277 sgg. Teoria sintetica dell'evoluzione, VIII 189 Teoria storica, XI 94
Indice analitico Teoria sufficientemente potente, IV 136; VIII 316 Teoria w-coerente, VIII 316 Teoria welfaristica, XI 77, 84 Teoricismo, VII 417 Teorie scientifiche, x 64 concezione di Toulmin, IX 316 concezione gestaltica, IX 308 concezione ipotetico-convenzionalistica, VII 261 concezione standard, IX 304 conferma, IX 290 confronto, soluzione realistica, IX 375-376 contenuto di falsità, x 20 contenuto di verità, x 20 contenuto empirico, x 12 contenuto informativo, x 12 contenuto logico, x 12 corroborazione, IX 282, 290 dinamica, x 35 incommensurabilità, IX 334 sgg. Teosofia, IV 473 Termine, VI 148 singolare, rx 154-157; XI 127, 132 teorico, VII II universale, IX 277 Termini teorici, IX 308 Termodinamica, rv 401; 281 sgg. assiomatizzazione, VIII 414 interpretazione meccanica, v 282 principi, v 298 sgg., 307-308; VII 39 secondo principio, applicazione ai fenomeni organici, vm 141-142 Termodinamica generalizzata, rx r8 Termologia, v. termodinamica Termometri fiorentini, II 393-394 Termometro, II 389, 393 a liquido, II 393 Termoscopio, II 170 ad aria, II 393 Terra, I 37, 67, r84, 230, 232, 401, 528, 530 lapidea, III 208 mercurialis, III 208 pinguis, III 208 Terremoti, distribuzione, x 453 Terziario, x 240, 246 Terzo escluso, principio, I 55, 226; VII 48; VIII 201, 291, 295, 298301, 342 Terzo meccanismo, v. Holton Tesi, III 458-459; IV 2ro, 313 Test, VI 12, 25, 97; VIII 37; IX 502 Testi ermetici, 1 291
Tetide, x 447 Tetracorrente, x 305 Tettogenesi gravitativa, x 448 Tettonica delle placche, x 443444, 453 sgg. TeV, x 298 TI-Ir, x 271 Thanatos, Xl II The big /ive, x 241 Theoria, XI 147-148 Theory !aden, rx 306 Theory-ladeness, x 6r Thom, catastrofi, IX 38 topologia differenziale, IX 36 Thompson, teoria delle trasformazioni cartesiane, IX 35-37 modello di atomo, x 380 Timina, rx 51 Timo, x 262, 270 Tipi, teoria, VIII 221, IX 296; X 82, 365 teoria intuizionista, IX 177 teoria ramificata, VIII 205, 222, 292 teoria russelliana, estensione alla genetica, VIII 172 Tipi di subduzione, x 456 Tipo, VIII 226-229, 283; IX 187 ideale, VIII 523-524, 532-533 Tirannide, II 470 Titolo valido, teoria, XI 94-95 Tokamak, XI 477 Tokin, critica materialistica della genetica, IX 419-420 Toleitico, vulcanismo, x 458 Tolemaica, concezione, II 408 Tolleranza, II 105, 300, 446, 454, 471-472; III 21-32, 76, 302; IV 353, 355, 488; VII 61; XI 107 epistemologica, XI 359 immunitaria, x 258 repressiva, XI 12 Tolomeo, teorema, I 297 Tomismo, II 74 Tomografia a emissione di positroni, PET, x 204, 418 Tomografia assiale computerizzata, TAC, x 204, 418 Topi knockout, x 281 transgenici, x 281 Topochimica cellulare, IX 22 Topologia, XI 192-194 assiomatizzazione, VIII 405 Topologia algebrica, x 120 di Grothendieck, IX 216 Topologia differenziale, x 122-123, 126-127 in biologia, IX 36 invarianti differenziali, x 127 sfere esotiche, x 126-127
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sistemi dinamici differenziabili, x 123 Topos, rx 210-236, 266-268 di Grothendieck, IX 230, 248249 elementare, IX 217-236, 245, 267 Tormalina, IV 396 Torricelli, esperienza, II 394 Tossine, x 255 Totalità, 1 50 Toulmin, confronto con Kuhn, IX 316-317 Tractatus logico-philosophicus, v. Wittgenstein Tradeoff, XI 387 sgg. Tradizione, XI 27, 33-34, 286 di ricerca, XI 308 grande, XI 280 indiana, r 255 piccola, XI 280 Traducianesimo, v II8 Traducibilità dei contenuti, teoria, VIII 47 Traduzione, VII 233 tesi dell'indeterminatezza, x 75 Traduzione radicale, esperimento mentale, x 75 Traité des systèmes, III 260 Transistor, x 317 Transobiettivo, VII 128 Transustanziazione, III 22-24, 34 Trascendentale, III 447; VIII 64 Trascendentalismo della prassi, XI 206 Trascendente, 1 168, 56o; II 122; III 447; IX 535 Trascendenza, II 131; VII 167; XI 51 Trasduzione del segnale, x 282 Trasformazione della specie, m 173, 225; IV 104 sgg.; IV III Trasformazione di gauge, x 307, 308 Trasformazione naturale, IX 207 Trasformazioni adiabatiche, v 287 Trasformi, x 454 Trasformismo, v. evoluzionismo Trasmigrazione, I 23, 45 Trasposoni, x 237 Tre stadi, legge, IV 372-375, 378; VI 53 Triade, I 181, 281, 387; IV 313, 324; v 27 Triangolo caratteristico, II 383384, 500-501 Triassico, x 241; x 464 Trigonometria piana e sferica, II 369 Trinità, 1 422; III 28, 34 Trivio, l 399, 492, 499 t-RNA, IX 53
Indice analitico Tronco cerebrale, x 215 Tropismo, VIli 125 Tropo, I 258-259 Trottola, effetto, x 459 Tunnel, effetto, x 316 Turing, test, x 149, 160, 170 Tyche, v. caso, casualità Uexkiill, concezione antimeccanicistica della biologia, VIII 151-152 Uguaglianza, I 529, 560; III 96, 315, 365, 406, 469; IV 262, 495; V 47, 99; VI 24, 94; IX 523-528 complessa, XI 98-101 delle opportunità, XI 86 democratica, XI 87, 103 liberale, XI 86, 90, 96 semplice, XI 100 Ultracentrifugazione, x 375 Ultradarwinismo, x 232, 233 Ultralimite, VIII 375 Ultrametamorfismo, x 465 Ultramicroscopia, x 375 Ultraprodotto, VIII 375, 399; IX 246 Umanesimo, II 9-10, 327; VII 4n del lavoro, VII 346 moderno, VI So naturalistico, VI 224 pragmatistico, VII 359 storicistico, XI 296 Umanitarismo, I 276 Umiltà, I 499; II 258 Umorali, teorie, x 256 Undazione, x 449 teoria, x 444 Unificatore, x 91 Unificazione del sapere, IV 371 delle energie e delle masse, x 298 delle forze, x 287 delle interazioni deboli ed elettromagnetiche, x 309 elettromagnetica, x 297 tra meccanica e teoria del calore, x 297 tra scale temporali e spaziali, x 298 Uniformismo, v 341, 345 Uniformità della natura, III 34 Unispecificità degli anticorpi, x 261 Unità assoluta di misura, III 163 Unità biologiche fondamentali, VIII 121 Unità dell'evoluzione, x 223 Unità della matematica, VIII 410 Unità delle scienze, II 342 Universale, I 176, 264, 284, 404, 408, 415, 420, 426, 452, 465, 471; II 28, 55, 57, 105-106, 243,
384; IV 40; VII 322 emotivo, XI 272 cognitivo, XI 281 Universalità accidentale, x 41 Universalità nomica o nomologica, x 41 Università, I 346, 354, 506-507; n 28, 303, 453; III 362; IV 65; VI 132, 247-252; IX 490-496 Universo, II 36; IV 39; VI 167; x 332 espansione, x 332 età, VIII 4 54; X 32 5 evoluzione, x 357 geometria euclidea, x 358 inflazione, x 357-358 instabilità gravitazionale, x 351 modelli, v. cosmologia proprietà geometriche, legge di Hubble, x 357 proprietà geometriche, modelli evolutivi di Friedmann, x 357 proprietà geometriche, x 357 Universo di discorso, XI 127 Uno, I 66, 281 Uomo, I 70, 92, 361, 401, 489, 546, 550, 554, 56o; n 7, 32, 39, 55, 63, 100, n8, 177, 199, 272275, 286, 293, 296, 318, 467; III 18, 56, II4, 301, 389, 472; IV 19, 34. 42, 265, 268, 271, 324; V 56, 82; VI 45, 126, 161, 169; VII 139, 155; VIII 43, 84; XI 39 Uomo macchina, III 243 Uomo nuovo, progetto marxistaleninista, IX 449 Uomo rinascimentale, n 329 Uracile, IX 51 Uralidi, x 447 Urano, III 202 Urelemente, VIII 239-240 Urto, trattazione dinamica, II 401403 Utile, III 301, 475; IV 214; VII 61, 355 Utilitarismo, I 333, 345, 552; II 101, 451; III 51, II9, 375; V 146, I57158; VI 63-64; VI H5; XI 75-80, 90, 97. 376 della preferenza, XI 78 morale, IV 197-200 Utopia, II 105; V 99; VI 49; VII 347; VIII 551; XI 12, 88, 215, 237, 247251 Vaccini antiidiotipici, x 278 Vacua /ormarum, III 236 Vadose, acque, x 465 Valenza, v 178-179; x 364-373, 405 teoria, x 365, 392
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Validità, VIII 257, 306, 3n-3n Valore, I 169; IV 475; VI 156; VII 63-64, 152, 153, 168, 355; VIII 522; XI 185 d'uso, IV r85, 190; v 377-378, 385-386 di scambio, IV 184, 190; v 99, 378, 385 di verità, VIII 264, 395 Valore-lavoro, teoria, XI 253 sgg. Van Fraassen, antirealismo, x 6o empirismo costruttivo, x 6o sgg. spiegazione scientifica, x 52 sgg. tesi sul linguaggio, x 61 tesi sul significato, x 61 Variabili nascoste, x 291 Variabilità genetica, fattori responsabili, IX 73 teoria classica, IX 78-79 teoria sintetica, IX 78-79 Varianza di significato, IX 334 sgg. posizione di Shapere, IX 373 Variazione delle costanti arbitrarie, metodo, III 178 Variazione, leggi, v 358 Variazioni, calcolo, III 178 Varietà, IV 143 abeliane, teoria, x n8 affine, IX 2n-212 allelica, x 228 VASCHNIL, IX 413 Vasi comunicanti, Il 49 Vaught, criterio, vm 373, 375 Vavilov, arresto, IX 440 programma di riorganizzazione agricoltura, IX 413 sgg. Veglia, III m Velocità, II 233 legge di sommazione, VI 449, 453 Velocità areolare, x 292 Velocità assolute di reazione, teoria quantistica, x 395 teoria quantistica, complesso attivato, x 395 Velocità della luce, III 202 Velocità di espansione, x 452 Venn, diagramma, v 233 Vergine, x 353 Verifica, VII no, 462-463; XI 128130 automatica, x 98 sperimentale, II 336-337 Verificatore automatico, x 100 Verificazione, principio, VII 222223 Verificazionismo, IX 368
Indice analitico Verisimilitudine, VII 497-498, 506, 5II-512; IX 288 sgg. Verità, I 50, 226, 261, 265, 267, 386, 408, 424, 443· 484, 491, 5II, 525, 531; II 27, 215, 224225, 245, 259, 268, 322, 357; III 21, 59, no, 301, 328-329, 336, 338, 369, 386, 389-390, 410; IV 50, 176; V 26-27, 132, 134; VI r68, 221; VII 15, 31, 37, 49, 123, 415, 417-418, 495, 510-5II; VIII 262, 323-330, 552, 554; IX 184, 237, 246, 289; x r8; XI 31, 38, 51, 69, II9, 179, 189, 191, 252 assoluta, xr 130 di fatto, VII 231 di ragione e verità di fatto, v. Leibniz logica, VII 23 r Vernalizzazione, IX 422, 425 Verosimiglianza, teoria, x 17 sgg. teoria qualitativa, x 20 teoria quantitativa, x 21 Versione autopoietica, x 28o Vertebrati, IV no-rn, 236 Verworn, concezione, VIII r2r monismo, VIII 122-123 polemica con Roux, VIII 122 Vescicole, endocitosi, x 425 esocitosi, x 42 5 Via Lattea, x 334, 347 Vibrazione sensibile, III 58 Videotel, xr 43 5 Virtù, I ror, r62, 164, 167, 227, 262, 267, 326, 330, 354. 388, 449, 510, 546-547, 549, 559; II 27, 30, 34, 55, IOI-102, II8, 203, 258, 263; III 55-56, 67, 326, 332, 472; IV 198, 344; Xl 26 VIRV, IX 413-414 Vis esrentialis, III 252 Vis insita, III 241 Vis nervosa, III 241 Vis viva, v 310 Visione, VI 20; x 439 teoria, II 416 Visione artificiale, x r8o-r83 modello a tre dimensioni, x r8r ottica inversa, x r8r-r82 pattern recognition, x r8r, 193 schizzo a due dimensioni e mezzo, x r8r schizzo primario, x r8r teoria computazionale, x r82 visione alta, x r8r visione primaria, x r8r Visione essenzialistica, II 326 Vissuto intenzionale, VII 23-24 Vista, IV 43 5 Vi:Sus /ormativus, m 252
Vita, I 54, 58, 77, 402; IV 319; v II5, 134, 143; VI 213; VIII 476; IX 20 concezione energetista, VIII r 53 concezione organismica, VIII 154 concezione storica, VIII 153 origine, IX 85 sgg. radici e origini, x 24 7 sgg. Vita artificiale, x 195, 197 algoritmi genetici, x 195 Vitalismo, I 70, 214; IV 91, 95, 97, 322, 41I, 421, 431-432, 438, 445; V 372; VI 149, 173, 179, 259, 290; VIII II9-I20, 144; Xl 44 obiezioni, VIII 128-129 Vitalismo metafisica, VIII 155 Vitalità, VII 326 Vita propria, III 240 Vivente, concetto kantiano, VIII 155 Vivisezione, IV 96, 446 Vizio, 1 388-389; III 37, 54 VLBI, xr 472 Volontà, 1 ro3, 227, 284, 369, 459460, 464, 535-536; II 17, 27, 3334, 229, 236, 466; III 46, II7, 326, 336, 470; IV 49, 462; V 51-52, 134; VI 151, 159-160; Xl 57, 177 di potenza, VI r62 di tutti, III 306 divina, I 415, 56o; IV 34 generale, III 306; IV 298 Volta, pila, IV 398; v 288; x 364 Volumi, legge di Gay-Lussac, x 361 Volumi di solidi di rotazione, II 382
Vortice, 1 82, 156; III 436 Vulcanismo, x 240 adesitico, x 456 Vuoto, 1 42, 54, 153, 233, 526; II II7, 233, 3II, 314, 396; X 299 Watkins, approccio logico-storico alla conferma, IX 356 Wegener, teoria, x 444 sgg. Weil, teoria dei numeri, x II9 Weismann, concezione, VIII 120-121 dogma, x 237 Weltanschauung, lX 304, 316 WIMP, x 330 Wittgenstein, analisi del Tractatus, VII r89 sgg. analogie con Kant, VII 193, 206 analogie con Schopenhauer, VII 204 atomismo logico, VII 190 sgg. concetto di "vero" e di "falso", VII r88 concezione del linguaggio, VII
599
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r88, 191 sgg, 200-201 concezione logicista della probabilità, VII 189, 195 concezione relazionale della verità, VII r87 critica ai Principia Mathematica di Russell e Wbitehead, VII I90-I9I critica della definizione di numero secondo Russell, VII 202 critiche rivolte a Russell, VII 202 dal primo al secondo Wittgenstein, VII 198 sgg. definizioni dell'etica, VII 199 distinzione tra sistema e legge scientifica, VII 194 enunciati dell'etica, VII 199 funzione del discorso filosofico, VII 200 gioco linguistico, VII 200-201 il problema dell'induzione, VII 193. 202 influenza di· Hertz, VII 205 influenza di Hilbert, VII 205206 influenza di Hume, VII 204205 influenza di Kraus, VII 205 influenza di Mauthner, VII 205 influenza su Carnap, VII 208 influenza su Waismann, VII 208 influenza sull'empirismo logico, VII 209 influenze sul pensiero contemporaneo, VII 207 sgg. interpretazioni del Tractatus, VII 196 sgg. leggi naturali, VII 193 sgg, 202 leggi scientifiche, VII r89 sgg, 194 sgg. logica e matematica, VII 191 metodo antisocratico, VII 199 psicologia e filosofia del linguaggio, VII 201 rapporti con Frege, VII r86 sgg. regole matematiche e giochi linguistici, VII 203, 206 senso e significato, VII r87 sgg. senso e verità delle proposizioni, VII r87 sul problema della fondazione della matematica, VII 202-203 tavole di verità, VII 205, 208 teoria dei valori, VII 200 teoria pittografica del linguaggio, VII 187 trascendentalità del linguag-
Indice analitico gio, VII 190 trascendentalità della logica,
World Wide Web, XI 441 VII
204, 206
valore dello scetticismo, VII 204 vicinanza con gli intuizionisti, VII
203
Woodger, concezione,
VIII r66-173
Wu, esperimento, x 305 Xilografia, II 43 Yang e Milis, teoria, x 308 Zavadovskij, autocritica, IX 393 Zig-zag, teoria, VIII 222-223 Zoologia, II 96
6oo
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Zoomorfismo riduzionistico, Zoopsicologia, IX 96 Zorn, lemma, IX 160 ~2 microglobuline, x 268 À.-calcolo, x 84-85 7t, ljf,
v 172 v. funzione d'onda
IX
106
Cronologia
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Cronologia DATE
EVENTI
AUTORI
OPERE
1700-16oo a.C. Codice di Hammurabi 1200
Guerra di Troia poemi omerici
8oo-7oo
Saf!Zkhya Upanzjad 753
Fond~one
di Roma
621
Legisl~one
di Dracone Anassimandro
6o0-550 594 575
Sulla natura
Legislazione di Solone Nasce Pitagora Sorge l' aritmo-geometria Scoperta delle grandezze in commensurabili
550 ca 550-500
Senofane di Colofone fonda la Scuola di Elea
509
Inizio della repubblica a Roma
500 ca
Fond~one
500-400
Scuola medica di Cnido
del buddhismo
Proposta di una cosmologia ciclica Le considerazioni storiche-geografiche vengono staccate dal quadro delle vedute cosmologiche
Scuola pitagorica
Anassimene
Sulla natura
Eraclito
Sulla natura Sentenze cnidie
Anassimandro Ecateo
Fondazione della Scuola medica di Cos Ippocrate
Genealogie
Corpus Hippocraticum
Introduzione della notazione alfabetica per la scrittura dei numeri Vengono posti tre grandi problemi matematici: la duplicazione del cubo, la trisezione dell'angolo, la quadratura del cerchio Vengono dati importanti contributi alla soluzione dei tre problemi precedenti 500-450
490
Ippocrate di Chio
Elementi
Parmenide Empedocle Anassagora
Sulla natura Sulla natura Sulla natura
Protagora Gorgia
Antilogie; Verità Intorno al non ente o intorno alla natura Storie
Battaglia di Maratona
480
Battaglia delle Termopili
461-429
Età di Pericle
450-400
Erodoto 431-404
Guerra del Peloponneso
427
Nascita di Platone
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Cronologia DATE
EVENTI
408
Nasce Eudosso
404
Fine della guerra del Peloponneso
404-399
Fondazione scientifica della storiografia
400-300
Scuola italica di medicina Traduzione in senso biologico degli elementi empedoclei
AUTORI
OPERE
Tucidide
Storia
Filistione
Sul cuore
Polibo assume la dignità di caposcuola Polibo di Cos e cerca di dimostrare la compatibilità della medicina ippocratica con la tradizione empedoclea e italica
Natura dell'uomo
Diocle di Caristo Unificazione della scienza medica da quella italica a quella tardo coa e midia Teoria delle proporzioni e invenzione del metodo di esaustione
Eu dosso
L'astronomia viene liberata da ogni Eudosso influenza teologica e si costituisce come "sistema matematico del mondo" Viene proposto un modello di universo in cui la terra è al centro e gli altri astri ruotano su sfere ideali concentriche 399
Processo e morte di Socrate Platone
Dialoghi
Aristotele
Organon, Metafisica
Teofrasto
Caratteri
Vengono sistemati logicamente, rielaborati e integrati tutti i risultati raggiunti dai greci nella geometria elementare e nell'aritmetica
Euclide
Elementi
Per la prima volta si realizza un'imponente fusione della scienza con la tecnica
Archimede
Arenario Sulle spirali Metodo Sull'equilibrio dei piani Sui corpi galleggianti
Apollonio
Coniche
396-347 387
Fondazione dell'Accademia platonica
384
Nasce Aristotele
350-300
Accademia antica (347-316)
347
Morte di Platone
335
Aristotele fonda il Liceo
323
Morte di Alessandro Magno
322
Morte di Aristotele
319 316
Accademia media (316-241)
306
Fondazione del Giardino di Epicuro
J01
Zenone apre la Stoà
300-200
Apogeo della matematica greca
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Cronologia DATE
EVENTI
AUTORI
284
Istituzione della Biblioteca di Alessandria Demetrio di Falere Diffusione di un tipo di ricerca volta all'esame filologico della precedente produzione filosofica
Andronico di Rodi
OPERE
Corpus Aristotelicum
Progressi in campo anatomico ottenuti Erofilo di Calcedonia grazie all'eviscerazione dei cadaveri Erasistrato di Ceo Viene proposta la prima ipotesi eliocentrica
Aristarco
Traduzione greca della Bibbia (dei Settanta) 264-241
Prima guerra punica
218-201
Seconda guerra punica
200-100
Viene inventata la diottia, compilato un lp parco catalogo delle stelle fisse (850), scoperto il fenomeno della precessione degli equinozi
r6o
Accademia Nuova (r6o-8o)
149-146
Terza guerra punica
100-0
Viene attribuita alla meccanica Erone un'importanza scientifica fondamentale Vengono criticate le definizioni euclidee sostituendole con altre ispirate a criteri sperimentali
Mechanikd Belopoikd Pert' dioptras Pneumatikd Aut6mata
Invenzione del mulino idraulico
86
50 ca
Andronico di Rodi sistema il Corpus Aristotelicum
47
Primo incendio della Biblioteca di Alessandria
44
Morte di Giulio Cesare
31
Battaglia di Azio Inizio dell'impero romano d.C.
De architectura
Kal}iida
Vaife#ka-siitra
Lucrezio
De rerum natura
Quintiliano
Institutio oratoria
Silla porta a Roma i trartati di Aristotele
55 ca
I
Vitruvio
Inizio dell'era cristiana
33
Data tradizionale della morte di Gesù Cristo
50-100
Platonismo medio Filosofia giudaico-alessandrina
50 ca
Del sublime
6o 70 95
Seneca
Lettere a Lucilio
Giovanni
Apocalisse
Distruzione del tempio di Gerusalemme
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Cronologia DATE
EVENTI
AUTORI
OPERE
Si afferma il sistema tolemaico
Tolomeo
Almagesto
Epitteto
Manuale
Galeno
De anatomicis administrationibus De venarum arteriarumque dissectionibus De nervorum dissectione De muscolorum dissectione De ossibus De muscolorum motu De usu respirationis De naturalibus facultatibus De usu partium De locis al/ectis De methodo medendi Ars medica
Nagarjuna
Madhyamika-karika
Corpus Hermeticum
100-300 100-70 100 ca 130
Nasce Galeno
150 ca
Marco Aurelio
Colloqui con se stesso
180 ca
Morte di Marco Aurelio
Sesto Empirico
Schizzi pirroniani
200-300
Dimostrazione di due celebri teoremi noti solitamente come teoremi di Guidino
Pappo
Collezione matematica
166-78
200-50
Vengono affrontati argomenti di natura Diofanto aritmetica e algebrica dedicando particolare cura allo studio delle equazioni
Numeri poligonali Porismi Cose aritmetiche (13 volumi)
Fondazione della Scuola neoplatonica
Vite dei filoso/i
Diogene Laerzio
202-15
Gemente Alessandrino Stromata
248
Origene
Principi
254-70
Platino
Enneadi
270 ca
Porfirio
Isagoge
Agostino
Con/essiones
Agostino
De civitate Dei
Proda
Theologia platonica
286
Divisione dell'impero romano da parte di Diocleziano
313
Editto di Milano
325
Concilio di Nicea
347-420
Gerolamo traduce la Bibbia (Volgata)
354
Nasce Agostino
391
Secondo incendio della Biblioteca di Alessandria
397-401 410
Sacco di Roma
413-26 430
Muore Agostino
450 ca 476
Caduta dell'impero romano d'Occidente
6o6
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Cronologia DATE
EVENTI
AUTORI
480-524
Suddivisione della matematica in: Boezio aritmetica, musica, geometria, astronomia
OPERE
Institutiones arithmeticae
500 ca
Dionigi Aeropagita
De divinis nomibus
525
Boezio
De consolatione philosophiae
lsidoro di Siviglia
Etymologiae
Haribhadrasuri
Sommario dei sei sistemi filosofici
529
Giustiniano chiude la Scuola di Atene Abbazia di Montecassino
622
Inizio dell'era musulmana
625-36 642
I Bizantini abbandonano Alessandria
700-800
Giovanni Damasceno La fonte della conoscenza
742 750
Dinastia Abbaside Traduzione dei filosofi greci in arabo
786
Alcuino è chiamato a reggere la Schola Palatina
8oo
Incoronazione di Carlo Magno
814
Morte di Carlo Magno
863
Cirillo e Metodio cristianizzano la Grande Moravia
864-66 910 980
G. Scoto Eriugena
De divisione naturae
Avicenna
Libro della guarigione
Anselmo d'Aosta Gaunilone
Proslogion Liber pro insipiente
al-Ghazah
Desctructio philosophorum
Abelardo
Dialettica
Fondazione della scuola monastica di Cluny Fondazione della scuola cattedrale
di Chartres 1000-50 IO IO
Fondazione della scuola cattedrale di Parigi
1054
Scisma d'Oriente
1066
Battaglia di Hastings
1077-78 1095 1096
Prima crociata
1099
Conquista di Gerusalemme
IIOO
Incoronazione di Enrico
no8
Fondazione della scuola monastica di San Vittore
I
d'Inghilterra
m8-37 II22
Concordato di Worms
1126
Traduzione di Aristotele dall'arabo
I142-58
Bernardo di Clairvaux De diligendo Deo Pier Lombardo
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Libri quattuor sententiarum
Cronologia DATE
EVENTI
II 58
Università di Bologna
Il
AUTORI
OPERE
Giovanni di Salisbury Policraticus
59
II70
Mosè Maimonide
II75 ca
Gioacchino da Fiore Liber concordiae Novi et Veteris Testamenti
Guida degli smarriti
n8o ca
Università di Parigi
Averroè
Destructio destructionis
1200-50
Rinascita della matematica europea
Leonardo Fibonacci
Liber abbaci Practica geometriae
1204
I Crociati conquistano Costantinopoli
1210-50
Federico rr
Roberto Grossatesta
De luce
1240 ca
Alberto Magno
Summa de creaturis
1259
Bonaventura da Bagnoregio
ltinerarium mentis in Deum
Ruggero Bacone
Opus maius
Tommaso d'Aquino
Summa theologica
Th. Bradwardine
De causa Dei contra Pelagium Quaestiones totius libri physicarum
1214
Università di Oxford
1215
Magna Charta
1216
Ordine dei Domenicani
1221
Nasce Tommaso d'Acquino
1222
Università di Padova
1265
Primo parlamento in Inghilterra
1266 1269-73 1271
Viaggi di Marco Polo
1274
Muore Tommaso d'Aquino
1277
Condanna dell'aristotelismo a Parigi
1300-1400
G. Buridano 1300 Ca
G. Duns Scoto
Opus oxoniense
1305·08
R. Lullo
Ars magna generalis ultima
1313-14
]. Eckhart
Quaestiones de esse
1324
Guglielmo di Occam Summa totius logicae
1337-1453
Guerra dei cent'anni Marsilio da Padova
1342 1348
Università di Praga
1378
Scisma d'Occidente
1400-50
N asce la iatrochimica
1404
Enrico IV d'Inghilterra proibisce le pratiche alchimistiche
1412
Fabbricazione dei primi cannoni in g!Iisa
6o8
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De/ensor pacis
Cronologia DATE
EVENTI
AUTORI
1418
li Gran Consiglio di Venezia proibisce
1420
Jan
1420-24
A Samarcanda viene fondato un osservatorio astronomico di grandi proporzioni e molto attrezzato
OPERE
le pratiche alchimistiche Hus: Articoli di Praga
1431
Giovanna d'Arco arsa sul rogo
1436
Scienza della prospertiva
1439
Concilio di Firenze
1440 1447
L.B. Alberti
Della pittura
N. Cusano
De docta ignorantia
N. Cusano
Idiota
A Magonza è in funzione una stamperia a caratteri mobili di proprietà di Gutenberg, Schoffer, Fust
1450 1452
Nasce Leonardo da Vinci
1453
Caduta di Costantinopoli
1454
Pace di Lodi
1456
Osservazione del passaggio della cometa di Halley
1462
Accademia platonica fiorentina Piero della Francesca De prospectiva pingendi
1470-80 1473
Ulag Beg
Nasce Nikolaus Kopemicki (Copernico)
1478
Primo libro di matematica stampato
Anonimo
Aritmetica di Treviso
1485
Enrico
L.B.Alberti
De re aedificatoria
1492
Scoperta dell'America
1498
Supplizio di Savonarola
1500-50
Vengono fatte ricerche fondamentali in campo anatomico: apparato uro-genitale (Falloppio), orecchio e funzione uditiva (Achillini, Massa, lngrassia, Eustachi), occhio e ottica del cristallino (Maurolico)
1509
L. Pacioli
De divina proportione
1511
Erasmo da Rotterdam Stultitiae laus
VII,
primo Tudor
Cacciata degli ebrei dalla Spagna
N. Machiavelli
1513 1515
Il Principe
Formula per la soluzione dell'equazione S. Dal Ferro algebrica di terzo grado (la formula non è resa pubblica dall'autore)
1516
1517
95 tesi di Lutero
1520
Field of the Cloth of Gold (incontro tra Enrico vm e Francesco I
Tommaso Moro
Utopia
P. Pomponazzi
De immortalitate animae
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Cronologia DATE
EVENTI
AUTORI
1521
Riforma dell'anatomia
I. Berengario da Carpi
1525
OPERE
A. Diirer
Unferweysung der Messung mit Zirckel und Richtscheyt in Linien Ebnen und gantzen Corporen
M. Lutero
De servo arbitrio
Philipp Theofrast von De natura rerum Hohenheim (Paracelso) Archidoxis
1525·27
fonda il Collège de France
1530
Francesco
1534
Compagnia di Gesù Atto di supremazia
1535
Tartaglia trova la soluzione N. Tartaglia dell'equazione algebrica di terzo grado e la comunica a G. Cardano
1537
Fondazione della balistica e avvio della matematizzazione della meccanica
I
F. Rabelais
N. Tartaglia
Vie inestimable du gran Gargantua
Nova Scientia
André Vésale (Vesalio) si trasferisce a Padova dove fonda la scuola di anatomia padovana Istituzione della Bibliothèque Nationale 1538
A. Vésale (Vesalio)
Tabulae anatomicae
1543
N. Copernico
De revolutionibus orbium coelestium
A. Vésale (Vesalio)
De humani corporis fabrica
Pietro Ramo
Dialecticae institutiones
1545
Cardano pubblica un'opera in cui si G. Cardano attribuisce la scoperta della formula risolutiva dell'equazione di terzo grado. In tale opera vengono citate le indicazioni sul metodo, suggerito da L. Ferrari, per risolvere le equazioni di quarto grado
L. Ferrari
Metodo per risolvere le equazioni di quarto grado 1545-63
Ars magna
Concilio di Trento
1546
Fondazione dell'epidemiologia 1550·1600
Graduale introduzione del simbolismo algebrico e transizione all'algebra sincopata e all'algebra simbolica
1551
Collegio romano
1553 1555
Pace di Augusta
1558
Ascesa al trono di Elisabetta
I
N. Tartaglia
Quesiti et inventioni diverse
G. Fracastoro
De contagiane et contagiosis morbis
Mario Nizolio
De veris principiis
Giambattista della Porta
Magia naturale
6ro
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Cronologia DATE
1559
AUTORI
EVENTI
OPERE
Pace di Cateau-Cambrésis Calvino fonda l'Accademia Ginevrina Index librorum prohibitorum
1561
A Casse! viene fondato il primo osservatorio a cupola girevole
1564
Nasce Galileo Galilei
Guglielmo IV langtavio di Hess-Cassel
Nasce Francesco Bacone
Bernardino Telesio
1565-86 1571
Battaglia di Lepanto
1572
Massacro della notte di S. Bartolomeo
De rerum natura iuxta propria principia
Apparizione di una nova in prossimità T. Brahe di Cassiopea 1573
T. Brahe
De nova et nullius aevi memoria prius visa stella
1576
J.
La république
1580
M.E. Montaigne
Bodin
1581
Dichiarazione di indipendenza dei Paesi Bassi
1582
Viene avviata la riforma del calendario Gregorio XIII Bon compagni
1583
Scoperta dell'isocronismo delle oscillazioni pendolari
G. Galilei Giordano Bruno
De la causa, principio et uno
Prosecuzione della matematizzazione della meccanica iniziata da Tartaglia
G. Benedetti
Diversarum speculatinum mathematicarum et physicarum liber
Viene pubblicato il primo grande Atlante del mondo
G. Mercatore
A t las
Contributi fondamentali alla statica e all'idrostatica
S. Stevin
Gli elementi dell'arte del pesare (pubblicata in lingua fiamminga)
Giovanni Botero
Della ragion di stato
1584 1585
1586 1589 1596
Essais
Nasce Réné Descartes
J.
1597 1598
Editto di Nantes
16oo
Periodo in cui sorge e si afferma quel complesso di conoscenze scientifiche che si è soliti designare con il termine
Keplero
Mysterium cosmographicum
Francisco Suarez
Disputationes metaphysicae
W. Gilbert
De Magnete
T. Brahe
De mundi aetherei recentioribus phaenominis liber secundus (postuma)
di "scienza moderna"
Rogo di Giordano Bruno 1602
Sistema ticonico del mondo
6u
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Cronologia DATE
EVENTI
AUTORI
OPERE
Tommaso Campanella La città del sole
1602 1603
Morte di Elisabetta
1604
Apparizione nella costellazione di Ofiuco di una stella nova: "Nova di Keplero"
1
1606 1608
Invenzione del cannocchiale
1609
Formulazione delle prime due leggi di Keplero
1609-10
Prime osservazioni astronomiche di Galilei con il cannocchiale
1610
Scoperta dei satelliti di Giove, delle fasi di Venere e degli anelli di Saturno
]. Keplero
De stella nova in pede serpentarii
]. Keplero
Astronomia nova, seu physica coelestis De motibus stellae Martis
G. Galilei
Sidereus Nuncius
Galilei usa il cannocchiale come microscopio per l'osservazione dell'occhio di un insetto 1611
1612
Scoperta, grazie al cannocchiale, delle macchie solari
]. Fabricius
Utilizzazione del termometro per usi clinici
S. Santorio
Sistemazione kepleriana dell'ottica
]. Keplero
Dioptrice
Difesa galileiana del principio di Archimede
G. Galilei
Discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua !storia e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti
1613
Galilei misura il peso dell'aria
1614
Vengono gettate le basi del moderno studio del metabolismo
S. Santorio
De statica medicina
Invenzione dei logaritmi
]. Napier
Miri/ici logarithmorum canonis descriptio
1615
Risoluzione del problema del calcolo ]. Keplero di aree e volumi di molte figure ricorrendo alla scomposizione di queste in elementi infinitesimi
1615-19
Scoperta della circolazione del sangue
1616
Galilei viene ammonito dal Sant'Uffizio
Nova stereometria doliorum vinariorum
W. Harvey
Viene posta all'indice l'opera di Copernico De rivolutionibus orbium coelestium 1618
Sviluppi della iatrochimica
]. Keplero
Epitome Astronomia Copernicae (prima parte)
R. Descartes
Compendium musicae
D. Sennert
Epitomes naturalis scientiae
612
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Cronologia DATE
EVENTI
AUTORI
OPERE
1619
Misura del meridiano terrestre
W. Snellius
Eratosthenes batavus; de Terraeambitus vera quantitate a Willebrordo Snellio suscitatus
D. Sennert
De chymicorum cum Aristotelicis et Galenicis consensus consensu ac dissensu liber 1
Formulazione della terza legge planetaria ]. Keplero 1620
Harmonices mundi
Sbarco dei padri pellegrini
F. Bacone
Instauratio magna
F. Bacone
Novum Organum
G. Bauhin
Prodromus Theatri Botanici
1622
Jakob Bi:ihme
De signatura rerum
1622-23
F. Bacone
Historia naturali et experimentalis ad condendam philosophiam, sive phaenomena universi
1623
F. Bacone
De dignitate et augmentis scientiarum
Opera principale di Bacone data alle stampe in forma incompiuta
!625
1626
Esposizione chiara della famosa classificazione baconiana delle scienze
J. Keplero
Tabulae rudolphinae
F. Bacone
Essay ·
Ugo Grozio
De iure pacis ac belli
Comenius
Didactica magna
Morte di Francesco Bacone
1628-32
Sistemazione dell'algebra
A. Girard
Invention nouvelle en l'algebre
1630
Descrizione del primo telescopio che utilizza il sistema ottico kepleriano
C. Scheiner
Rosa Ursina
1632
Nasce Baruch Spinoza Nasce John Locke
G. Galilei
Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo
1633
Galilei è costretto ad abiurare le dottrine copernicane e la sua opera Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo viene messa all'indice
1635
Nascita della geometria degli indivisibili B. Cavalieri
1629
Geometria indivisibilibus continuorum nova quadam ratione promota
Académie Française 1636
Università di Harvard
1637
Nascita della geometria analitica
R. Descartes
1639
Nascita della geometria proiettiva
G. Desargues
Géométrie Discours de la méthode
C. Giansenio
1640 1640-48
Rivoluzione inglese
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Augustinus (postuma)
Cronologia DATE
EVENTI
1641 1643
Ascesa al trono di Luigi
1644
Invenzione del barometro
1649
Decapitazione di Carlo
1650
Muore Descartes
AUTORI
OPERE
R. Descartes
Meditationes de prima philosophia
XIV
E. Torricelli
I
Tb. Hobbes
1651 1652-55
Invenzione della macchina pneumatica
O. von Guericke
1655
Scoperta del maggiore dei satelliti di Saturno (Titano)
C. Huygens
1656
Esecuzione della prima iniezione endovenosa
C. Wren B. Pasca!
1656-57 1657
Leviathan
Lettres provincia/es
Esperienza degli emisferi di Magdeburgo O. von Guerike Scoperta dei tubuli seminiferi del testicolo C. Aubry Scoperta delle fibre a spirale del cuore M. Malpighi
1657-59
Teoria classica della probabilità
C. Huygens
Scoperta dei globuli rossi
]. Swammerdam Tb. Hobbes
1658 166o
Tradatus de ratiocinis in ludo aleae
De homine
Restaurazione in Inghilterra Viene scoperta la struttura alveolare dei polmoni e i vasi capillari nella rana M. Malpighi
1661
Nasce la chimica atomistica
Vengono gettate le basi del calcolo infinitesimale
I. Newton
Scoperta del fenomeno della diffrazione F.M. Grimaldi
1666
The sceptical chymist
A. Arnauld, P. Nicole La logique ou l'art de penser
1662 1665
R. Boyle
Viene utilizzato per la prima volta il termine cellula
R. Hooke
Macchina per la molatura delle lenti
C. Huygens
Si laurea Leibniz con una dissertazione G. Leibniz contenente l'idea che lo condurrà a porre le basi della logica matematica Studio del problema dei massimi, dei minimi e delle tangenti
1668
Invenzione di un nuovo tipo di telescopio fondato sul principio della riflessione
1670
Macchina olandese per la fabbricazione della carta Fondazione dei "Collegia"
Physico-mathesis de lumine, coloribus et iride Micrographia
Dissertatio de arte combinatoria
M. Ricci
Exercitatio geometrica
G. Leibniz
Dissertatio de arte combinatoria
I. Newton
B. Pasca!
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Pensées
Cronologia DATE
EVENTI
AUTORI
B. Spinoza
1670 1672
Descrizione della macchina pneumatica O. von Guericke Invenzione del telescopio a riflessione
J.D.
1673
Formulazione della dinamica huygensiana C. Huygens
1673-76
Leibniz ottiene i primi risultati sul calcolo infinitesimale
1675
Viene scoperta la linea che separa i due anelli di Saturno
G.D. Cassini
Viene misurata la velocità della luce
O.C. Romer
Muore Spinoza
A new theory about light and colours Horologium oscillatorium
G. Leibniz N. de Malebranche
1677
Tractatus theologico-politicus Experimenta nova (ut vocantur) magdeburgica de vacuo spatio
Cassegrain
I. Newton
1674
OPERE
La recherche de la vérité
Démonstration tochante le mouvement de la lumière
1682
Fondazione degli "Acta eruditorum"
1683
Assedio di Vienna
1684
Pubblicazione dei primi saggi sul calcolo infinitesimale
G. Leibniz
Nova methodus pro maximis et minimis itemque tangentibus
Prima e sommaria formulazione della teoria della gravitazione universale
I. Newton
De motu corporum
I. Newton
Philosophiae naturalis principia mathematica
Ch. Perrault
Parallèle des anciens et des modernes
M. Rolle
Traité d'algèbre
Formulazione della teoria ondulatoria della luce
C. Huygens
Traité de la Lumière
Prima descrizione di una macchina a vapore
D. Papin
1685
Revoca dell'Editto di Nantes
1687 1688-89
Rivoluzione gloriosa
1688-98 1689
G. Leibniz
Dichiarazione dei diritti
1690
J. 1694
Locke
An Essay Concerning Human Understanding, Two Treatises of Government
Università di Halle
1695-97
P. Bayle
Dictionaire historique et critique
1696
G.-F. de L'H6pitale
Analyse des infiniment petits pour l' intelligence des lignes courbes
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Cronologia DATE
EVENTI
AUTORI
OPERE
1699
Inizia la controversia fra Leibniz e Newton sulla priorità dell'invenzione del calcolo infinitesimale
1700
Polemica sulla generazione dei viventi
A. Vallisnieri
Dialoghi sopra la curiosa origine di molti insetti
1703
Formulazione della teoria del flogisto
G.E. Sthal
Ripresa degli studi probabilistici
P.R. de Montmort
Essai d' analyse sur !es jeux de hasard
Muore Locke
I. Newton
Optiks or a tractatus of the reflections, refractions, inflections and colours o/ light
Accademia delle Scienze di Berlino
1704
1705
C. Thomasius
Fundamenta juris naturae
1708·10
A. Shaftesbury
Characteristics
1709
G. Berkeley
An Essay Towards a New Theory o/ Vision
1710
G. Leibniz
Teodicea
G. Berkeley
A Treatise Concerning Two Principles o/ Human Knowledge
1710-20
1711
Diffusione del newtonianesimo in Europa Nasce David Hume A. de Moivre
Teorema delle probabilità composte 1712
Nasce Jean-Jacques Rousseau Costruzione della macchina a vapore di Newcomen
1713
Pubblicazione della II edizione dei Principia in cui viene aggiunto, alla fine dell'opera, il famoso Scholium generale
I. Newton
]. Bernoulli Studi sul processo digestivo
Ars conjectandi (postuma)
R.A de Réaumur
Calcolo delle probabilità (Bernoulli) 1714
Termometro ad alcool
G.D. Fahrenheit
1715
Serie di Taylor e integrazione per parti B. Taylor
Methodus incrementorum
1718
Sviluppo della teoria degli errori
A. de Moivre
The doctrine of chances
Concetto di affinità
E.F. Geoffroy
Tables des di/férens rapports observés en chymie entre di/férentes substances
1720
Proprietà di molte curve algebriche
C. Maclaurin
Geometria organica
1720-1730
Mfermazione del newtonianesimo in Europa
1724
Nasce Immanuel Kant
B. de Mandeville
6r6
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The Fable o/ the Bees
Cronologia DATE
EVENTI
AUTORI
OPERE
G.B. Vico
Scienza nuova prima
1726-28
Scoperta dell'aberrazione della luce proveniente dalle stelle fisse
J. Bradley
1727
Muore Newton
1725
1728
1729
Differenza tra conduttori e isolanti
F. Hutcheson
Passions and A/fections
C. Wolff
Philosophia rationalis sive logica
S. Gray G.B. Vico
1730 1730-31
Proposta di altre scale termometriche
R.-A de Réaumur A. Celsius
1730-40
Scoperta del fenomeno dell'induzione elettrostatica
S. Gray J. Hadley
Scienza nuova seconda
1731
Costruzione del primo sestante
1732
Viene pubblicata un'importante opera H. Boerhaave didattica in cui viene criticata l'alchimia, la iatrochimica, la teoria del flogisto
Elementa alchemiae
1733
Preludi della geometria non euclidea
G. Saccheri
Euclzdes ab omni naevo vindicatus
Ipotesi dell'esistenza di due tipi di elettricità: vetrosa e resinosa
C.F. Du Fay
1734
Si registrano notevoli progressi della fisiologia attraverso lo studio delle proprietà funzionali dei muscoli e dei nervi
G. Borelli
De motu animalium
1734-42
L'entomologia assume la forma di una scienza autonoma
R.A. de Réaumur
Mémoires pour servir à l' histoire des insectes
1735
Viene proposto un nuovo ordine classificatorio per il regno vegetale: il sistema sessuale
C. Linneo
Systema naturae, sive regna naturae systematice proposita per classes, ordines, genera et species
1736
Progressi nel campo delle malattie veneree
J.
De morbis venereis libri sex
1738-39
Viene sostenuto che i princìpi della dinamica sono verità necessarie
L. Euler
Mechanica, sive motus scientia analytice exposita
D. Hume
A Treatise o/ Human Nature
1739-40 1740
Astruc
Ascesa al trono di Federico il Grande Viene dimostrata la partogenesi del pidocchio delle piante
Ch. Bonnet J.-B. d'Alembert
1743 1745
Costruzione della bottiglia di Leida
E.J. von Kleist
1746
Viene enunciato il teorema fondamentale dell'algebra di cui viene fornita una dimostrazione imperfetta
J.-B. d'Alembert
E.B. de Condillac
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Traité de dynamique
Essai sur l'origine des connaissances humaines
Cronologia DATE
EVENTI
AUTORI
1747
Esposizione del principio di minima azione
P.-L.M. de Maupertui
Teoria a un sol fluido dell'elettricità
B. Franklin
1748
OPERE
Scoperta del fenomeno della nutazione J. Bradley Pace di Acquisgrana
L. Euler
Introductio in analysi in/initorum
J.O. de La Mettrie L'homme-machine Ch. de Montesquieu [;esprit des lois 1749
Invenzione del parafulmine
A.G. Baumgarten A.-R.-J. Turgot
1750
1751
1752
B. Franklin
Viene migliorata la dimostrazione di d' Alembert del 1746
L. Euler J.-B. D'Alembert D. Diderot
Encyclopedie
J.-J. Rousseau
Discours sur l'origine et !es fondements de l' inegalité
L. Euler
Institutiones ca/culi di/ferentialis
Inghilterra e Irlanda aggiornano il calendario adottando la riforma gregoriana
1753 1755
Università di Mosca
1756
Costruzione dei primi obiettivi acromatici J. Dollond
1757
Nasce la teoria del calorico
1758 1759
Aesthetica Pian des discours sur l' histoire universelle
L' epigenetismo prende il sopravvento sul preformismo
J. Black C.-A. Helvétius
De l'ésprit
K.F. Wolff
Theoria generationis
Voltaire
Candide
1761
Nasce un nuovo concetto di "malattia" G.B. Morgagni come complesso di segni clinici correlati ad alterazioni anatomiche
De locibus et causis morborum
1762
Nasce Johann Gottlieb Fichte
J.G. Hamann
Aesthetica in nuce
T. Bayes
Essay towards solving a problem in the doctrine o/ chances (postuma)
1763
1764
G. Ploucquet
Methodus calculandi in logicis
C. Beccaria
Dei delitti e delle pene
T. Reid
An Inquiry Into the Human Mind on the principles o/ Common Sense
1764-67
Vengono gettate le basi del calcolo delle variazioni
G.L. Lagrange
I?65
Vengono compiuti importanti studi sull'idrogeno
H. Cavendish
1767
J.H. Lambert
Neues Organon
1768
J.B. Basedow
Vorstellung an Menschen/reunde
618
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Cronologia DATE
EVENTI
AUTORI
1768-70 1770
Nasce Georg Wilhelm F. Hegel
1775
Nasce Friedrich Wilhelm Schelling
1776
Invenzione di un regolatore per le macchine a vapore
OPERE
L. Euler
Institutiones ca/culi integralis
P.-H. Holbach
Système de la nature
]. Watt
Dichiarazione di indipendenza americana A. Smith
An Inquiry Into the Nature and Causes o/ the Wealth o/ Nations
Muore Hume P-.]. Barthez
1778
Al vitalismo immaterialistico di Stahl si affianca un vitalismo naturalistico
1780
Estrazione di succo gastrico da animali L. Spallanzani e dimostrazione che esso dissolve in vitro diversi alimenti
Nouveaux éléments de la science de l'homme
Muore Rousseau
1781 1783
Trattato di Versailles
1784
Invenzione della macchina a vapore a doppio effetto Sintesi dell'acqua
G.E. Lessing
Die Erziehung des Menschengeschlechts
I. Kant
Kritzk der reinen Vernun/t
]. Watt H. Cavendish ].G. Herder
1784-91
Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menscheit
1785
Scoperta della legge di Coulomb
Ch.-A. de Coulomb
q86
Giustificazione trascendentale del dinamismo fisico
I. Kant
1787
Precisazione della nozione di composto A.L. Lavoisier e di elemento. Enunciazione del principio di conservazione della materia
1788
Viene pubblicata una fondamentale opera in cui l'intera meccanica è rielaborata analiticamente e ricondotta al principio dei lavori virtuali
J.L. Lagrange
Mécanique analitique
Nasce Arthur Schopenhauer
I. Kant
Kritik der praktischen Vernun/t
1789
Inizio della rivoluzione francese
K.L. Reinhold
Versuch einer neuen Theorie des menschlichen Vorstellungsvermogens
J. Bentham
Introduction to the Principles o/ Morals and Legislation
Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino
1790
Scoperta del processo per la preparazione della soda
Metaphysische An/angsgriinde der Naturwissenscha/t
N. Leblanc ].W. Goethe
Die Metamorphose der Pflanzen
I. Kant
Kritik der Urteilskra/t
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Cronologia DATE
AUTORI
OPERE
1791
L.A. Galvani
De viribus electricitatis in motu muscolari commentarium
1792
G.E. Schulze
Aenesidemus
J.G. Fichte
Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre
S. Maimon
Versuch einer neuen Logik oder Theorie des Denkens
I. Kant
Zum ewigen Frieden
M.-].-A. Condorcet
Esquisse d'un tableau historique des progrès de l'esprit humain
1794
EVENTI
Lavoisier ghigliottinato Robespierre ghigliottinato
1795
K.W von Humboldt Ober den Geist der Menscheit
1797
1798 1799
I. Kant
Die Metaphysik der Sitten
J.H. Pestalozzi
Ricerche sul processo della natura nello sviluppo dell'umanità
Th.R. Malthus
Essay on the Principle o/ Population
Vengono depositati i campioni del sistema metrico decimale Viene dimostrata l'insolubilità algebrica P. Ruffini delle equazioni di grado superiore al quarto "Sturm und Drang"
18oo
Costruzione della prima pila
A. Volta F.W. Schelling
1801
Scoperta di Cerere
System des transzendentalen Idealismus
G. Piazzi
Viene stabilita la relazione tra pressione e temperatura di un gas J. Dalton J.-L. Gay-Lussac
1802 1803
Viene introdotta la nozione moderna di "Quantità di moto e di lavoro"
1804
Napoleone imperatore Codice napoleonico Muore Kant
1806
Fine del Sacro Romano Impero della nazione germanica
1807
Viene scoperto il potassio e isolato per via elettrolitica il sodio
A-L. Destutt de Tracy
Project d' elèments d' idéologie
P.-J.-G. Cabanis
Rapports du physique et du morale de l'homme
L.-N. Carnot
H. Davy
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Cronologia DATE
EVENTI
1807
Viene pubblicata un'opera che contiene Th. Young importanti intuizioni circa il principio di conservazione dell'energia e la natura meccanica del calore
1808
1809
1810
181I
AUTORI
A course o/ lecture in natura! philosophy
].G. Fichte
Rede an die deutsche Nation
G.WF. Hegel
Phiinomenologie des Geistes
Scoperta della polarizzazione per riflessione
E.L. Malus
Scoperta dei centri della respirazione e della loro indipendenza dal cervello
].C. Legallois
]. Dalton
New system o/ chemical philosophy (I parte, la n sarà pubblicata nel 1810)
Ecole Normale Supérieure
].F. Herbart
Allgemeine praktische Phtlosophie
Invenzione della pila a secco
Duluc K.F. Gauss
Theoria motus corporum coelestium
F.W Schelling
Philosophische Untersuchungen uber das Wesen der menschlichen Freiheit
Viene isolato il silicio
].]. Berzelius
Nasce l'omeopatia
S.F. Hahnemann
Organon der rationellen Heilkunst
Viene pubblicata una delle prime opere F.G. Gall, dedicate allo studio funzionale ].C. Spurzheim del cervello
Anatomie et physiologie du système nerveux
Università di Berlino
Farbenlehre
J.W. Goethe
A. Avogadro Viene formulata l'ipotesi secondo la quale uguali volumi di gas contengono lo stesso numero di molecole Viene scoperto il fenomeno della doppia rifrazione
1812 1812-16 1813
OPERE
E.L. Malus P.-S. de Laplace
Théorie analytique des probabilités
G.WF. Hegel
Wissenscha/t der Logtk
Nasce S0ren Kierkegaard S.-D. Poisson In elettrostatica si ottengono risuitati teorici di importanza eccezionale, in particolare viene introdotto il concetto di potenziale Viene scoperto il fenomeno di polarizzazione della luce
F.].D. Arago
Viene suggerita l'ipotesi che tutti gli elementi siano costituiti da atomi d'idrogeno
W. Prout
A.L.G. de Stael 1815
621
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De l'Allemagne
Cronologia DATE
EVENTI
AUTORI
OPERE
1815
Battaglia di Waterloo Congresso di Vienna
J. Lamarck
Histoire nature/le des animaux sans vertèbres
1816
J. Gergonne Viene avanzata l'ipotesi che le onde Th. Young luminose siano perturbazioni trasversali
1817
G.W.F. Hegel 1818
1819
Essai de dialectique rationelle
Enzyklopadie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse
Nasce Karl Marx Viene introdotto il coefficiente di trascinamento dell'etere
A. ]. Fresnel
Viene eseguita un'esperienza d'importanza eccezionale: si dimostra l'esistenza di interazione tra un magnete e una corrente elettrica
H.C. Oersted
Si afferma, nell'indagine clinica, la semeiotica e viene inventato lo stetoscopio
R.- T. Laennec
Traité de l' auscultation médiate et les maladies des poumons et du coeur
Viene scoperto che per molti metalli è P.-L. Dulong, costante il prodotto tra peso atomico A.T. Petit e calore specifico Viene presentata all'Accademia delle Scienze di Parigi una memoria in cui viene criticata la concezione corpuscolare newtoniana della luce contrapponendo a essa, sulla base di ricerche sui fenomeni di diffrazione, una concezione ondulatoria
A.-J. Fresnel
In base a ricerche sulla cristallizzazione E. Mitscherlich dei fosfati viene proposta la teoria dell'isomorfismo
1821
1821-55 1822
Scoperta dello sviluppo delle funzioni in serie trigonometriche
P. Galluppi
Saggio filosofico sulla critica della conoscenza
A. Schopenhauer
Die Welt als Wille und Vorstellung
N.H. Abel
Mémoire sur !es équations algébriques
J. De Maistre
Soirées de Saint-Pétersbourg
G.W.F. Hegel
Philosophie des Rechts
D. Ricardo
The Principles o/ Politica! Economy and Taxations
M. Faraday
Experimental research
J.-B. Fourier
Théorie analitique de le chaleur
Scoperta dell'effetto termoelettrico delle Th. Seebeck giunzioni metalliche (effetto Seebeck) Viene fondata la geometria proiettiva
J.-V. Poncelet
Traité des propriétés proiectives es /igures
Organicità dei fenomeni fisici
J.F. Fries
Mathematische Naturphilosophie
622
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Cronologia DATE
EVENTI
1822
Viene abolita dalla Congregazione del Sant'Uffizio la condanna delle teorie copernicane pronunciata nel 1616
1823
1824
1825
Viene ipotizzato che il magnetismo sia dovuto a correnti elettriche microscopiche
AUTORI
OPERE
F.P. Maine de Biran
Anthropologie
C.-H. Saint-Simon
Catéchisme des industriels
N.L.S. Carnot
Ré/lexions sur la puissance motrice du /eu
A.M. Arnpère
Viene avanzata la proposta di introdurre E.H. Weber nel campo della fisiologia metodi peculiari dell'indagine fisica 1826
Scoperta della legge che mette in G.S. Ohm relazione corrente, resistenza e tensione
1826-32
Vengono elaborate, da Lobacevskij e da Bolyai, indipendentemente uno dall'altro, le geometrie non euclidee
F.WA. Froebel
Die Menschenerziehung
N .l. Lobacevskij ]. Bolyai A.M. Arnpère
1827
Wellenlehre
Théorie mathématique des phénomènes électrodynamiques, uniquement déduit de l'expérience
Viene costruito il primo elettromagnete ]. Henry Formulazione del principio di dualità in geometria proiettiva
A.-L. Cauchy
182?-28 1828
Exercises de mathématiques
Vengono osservati gli effetti del caos R. Brown molecolare su particelle in sospensione (moto browniano) Viene sintetizzata l'urea, ponendo così le basi della chimica organica
F Wiihler
Nasce l'embriologia comparata
K.E. Baer
Ueber die Entwicklungsgeschichte der Tiere
V.K.F. Gauss
Principia generalia theoriae /igurae in statu equilibri
G-.G. de Coriolis
Traité de mécanique
V. Cousin
Cours de philosophie
A. Hamilton
Philosophy o/ the Unconditioned
Ch. Lyell
Principles of geology
A. Comte
Cours de philosophie positive
1829
1830
]. Gergonne
Viene proposta una teoria evoluzionistica del processo di trasformazione della struttura della superficie terrestre Luigi Filippo re dei francesi N asce la sociologia
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Cronologia DATE
EVENTI
1830
AUTORI
OPERE
G. Peacock
A Treatise o/ Algebra
A. Rosmini
Nuovo saggio sull'origine delle idee
1830-33
Appare una terminologia chimica moderna: vengono introdotti i termini isomeri, polimeri, formula empirica e razionale
J.J. Berzelius
1831
Muore Hegel
A.-L. Cauchy
Viene usato per la prima volta il termine "linee di forza"
M. Faraday
Mémoire sur la théorie de la lumière
Nasce James Clerk Maxwell Darwin inizia una crociera intorno al mondo grazie alla quale raccoglierà dati empirici che risulteranno fondamentali per la sua teoria J. Bolyai 1832
È introdotto il concetto di gruppo e vengono forniti importanti contributi alla teoria delle equazioni algebriche
E. Galois
Vengono fornite le leggi dell'elettrolisi
M. Faraday
Appendix sdentiam spatii absolute veram exhibens
Jànos Bolyai scrive l'Appendice al Tentamen del padre Wolfgang 1834
Viene scoperto !"'effetto Peltier"
J.-Ch. Peltier
Vengono scoperti i catalizzatori
J.J. Berzelius
Vengono introdotte l'equazione dei gas E. Clapeyron e la rappresentazione delle trasformazioni di un gas sul piano P-V Fomulazione della legge di Lenz
Mémoire sur la puissance motrice de la chaleur
E. Lenz
1834-35
Formulazione del principio variazionale WR. Hamilton di Hamilton
On a genera! method in Dynamics
1835
Viene formulata l'ipotesi che le malattie A. Bassi contagiose siano provocate da microorganismi
Mal del segno, calcinaccio o muscardino
Sintesi dell'acido acetico
A.W.H. Kolbe D.F. Strauss
Das Leben ]esu
C.A.C. de Tocqueville La démocratie en Amérique 1836
1837
Viene provato che la clorofilla è R.H. Dutrochet indispensabile nel· processo di fotosintesi delle piante Si diffondono le idee di Hamilton
C.G.]. Jacobi
Vengono introdotti i numeri complessi WR. Hamilton come coppie di numeri reali N .I. Lobacevskij
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Géometrie imaginaire
Cronologia DATE
EVENTI
1838 1839
Nasce la teoria cellulare
AUTORI
OPERE
J.-G.-F. Ravaisson
De l'habitude
T. Schwann
Mtkroskopische Untersuchungen uber die Uebereinstimmung in der Struktur und dem Wachsthum der Tiere und Pflanzen
V. Gioberti
Introduzione allo studio della filosofia
F.A. Trendelenburg
Logische Untersuchungen
1840
In biologia viene introdotto il termine J.E. Purkinje "protoplasma"
1840-41
Viene misurato il calore prodotto dal J.P. Joule passaggio di corrente in un conduttore
1841
L. Feuerbach
Das Wesen des Christenthums
1843
S. Kierkegaard
Enten-eller
J.S. Mill
A System o/ Logic
Nasce Friedrich W. Nietzsche 1844
Nasce Ludwig Eduard Boltzmann
1846
È avanzata l'ipotesi che la luce consista M. Faraday di vibrazioni trasversali lungo le linee di forza del campo elettromagnetico Scoperta di Nettuno su indicazioni di U.-J. Le Verrier
J.G. Galle W. Weber
Scoperta della circolazione della linfa nelle piante
Elektrodynamische Massbestimmungen
G.B. Amici
L'etere viene utilizzato come anestetico W.T.G. Morton negli interventi chirurgici 1847
Enunciazione del principio di conservazione dell'energia
H.L. von Helrnholtz Uber die Erhaltung der Kra/t
Vengono stabilite le leggi che regolano G.R. Kirchhoff l'andamento delle correnti in una rete elettrica
Prende avvio la logica matematica moderna
1848
A. De Morgan
Forma! logic
G. Boole
The mathematical analysis o/ logic
Teoria matematica dei nodi
F. Gauss
Vorstudien zur Topologie
È introdotta la scala assoluta della temperatura
W. Thomson Kelvin
On an absolute thermometric scale founded an Carnot's theory o/ the motive power o/ beat and calculated /rom Regnault's observations
Viene sviluppata la teoria dei quaternioni
W.R. Hamilton
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Cronologia DATE
EVENTI
AUTORI
OPERE
1848
Prima guerra d'indipendenza italiana
K. Marx-F. Engels
Mamfest der kommunistischen Partei
Rivoluzione di Febbraio Nasce Friedrich Gottlob Frege 1849
In Italia viene inventato il telefono che A. Meucci sarà poi brevettato negli USA
1850
Viene stabilito l'equivalente meccanico del calore
1851
1852
R.]. Ioule
On the mechanical equivalent o/ heat
R. Clausius
Ober die bewegende Kraft der Wiirme
Invenzione dell' oftalmoscopio
H.L. von Helmholtz
Viene dimostrata la funzione glicogenica del fegato
C. Bernard
Viene determinata la velocità di un impulso nervoso
H.L. von Helmholtz
Viene esposto il termodinamica
W. Thomson Kelvin, R. Clausius
1
principio della
Viene elaborato il n principio della termodinamica
R. Clausius
Vengono pubblicate le prime tre parti di una monografia che può essere considerata come il primo trattato di termodinamica
W. Thomson Kelvin
On the dynamical theory of heat
B. Bolzano
Paradoxien des Unendlichen (postuma)
Congettura dei quattro colori
F. Guthries E. Biichner
1853 1854
Bernard Riemann consegue la libera docenza con una dissertazione che segna una tappa fondamentale nella storia della geometria
Kra/t und Stoff
J. Moleschott
Kreislauf des Lebens
W.R. Hamilton
Lectures on quaternions
B. Riemann
Ober die Hypothesen welche der Geometrie zu Grunde liegen
].C. Maxwell
On Faraday's lines o/ force
Muore Schelling 1855 1856
Viene sintetizzato il primo colorante artificiale
W.H. Perkin
Nasce Joseph John Thomson RH. Lotze
1856-64 1857
Nasce Heinrich Rudolph Hertz In Romania si scopre il primo giacimento di petrolio
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Mikrokosmus
Cronologia AUTORI
DATE
EVENTI
!858
Vengono presentate alla Linnean Society Ch. Darwin, di Londra due comunicazioni riguardanti A.R. Wallace l'evoluzione delle specie animali S. Cannizzaro Viene inventato il calcolo delle matrici A. Cayley Viene introdotta la nozione di "libero cammino medio"
OPERE
Sunto di un corso di filosofia chimica A memoir on the theory o/ matrices
R. Clausius
Viene introdotto il concetto di "valenza" F.A. Kekulé Nasce Max Planck !859
Viene pubblicata I' opera che segna l'affermazione dell'evoluzionismo Viene stabilita un'importantissima legge: il rapporto tra potere emissivo e assorbente di un corpo è una funzione universale
Ch. Darwin
On the orz'g,in o/ Species
G.R. Kirchhoff
W. Weber, Nell'ambito del programma volto a misurare le quantità elettromagnetiche R. Kohlraush fondamentali, viene eseguita un'esperienza che conduce alla determinazione della costante c (proporzionale ai fattori di conversione tra le unità di carica) che compariva nella memoria di Weber del 1846. Il risultato fu estremamente importante: il valore di c era pari alla velocità della luce nel vuoto Seconda guerra d'indipendenza italiana Nasce Edmund Husserl Legge Casati A. Pacinotti
!859-64
Viene inventata la dinamo
186o
Viene stabilita la legge di distribuzione ].C. Maxwell delle velocità molecolari Viene introdotta la nozione di
G.R. Kirchhoff
"corpo nero"
Muore Schopenhauer 186o-62 1861
H. Spencer
First Principles
Viene sviluppata la teoria che riconduce L. Pasteur ai batteri la causa di diverse malattie Vengono poste le basi teoriche della chimica dei colloidi
Th. Graham
Unità d'Italia
J.C.
1861-62 !86!-65
Maxwell
Guerra di secessione americana
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On physical lines o/ force
Cronologia DATE
EVENTI
1862
Viene inventato il ciclo a quattro tempi A. De Rochas per il motore a scoppio
AUTORI
Viene sintetizzato l'acetilene
OPERE
P.-E. Berthelot
Nomina di Bismark a Primo ministro prussiano Nasce David Hilbert 1863
Viene introdotto il procedimento E. Solvay industriale per la preparazione della soda Associazione generale degli operai tedeschi
1863-68
Prende forma la teoria elettromagnetica ].C. Maxwell della luce
].C. Maxwell
1864
A dynamical theory o/ the electromagnetic /ield
È messo a punto il processo di cracking ]. Young degli oli pesanti Sillaba di Pio IX
1864-76 1865
Viene introdotto il concetto di "entropia" 1866
C. Lombroso
Genio e follia
C. Bernard
Introduction à l' étude de la médicine expérimentale
Prima Internazionale
Nasce la genetica e vengono stabiliti i suoi princìpi
R. Clausius
G. Mendel
Versuche iiber P/lanzenhybriden
H. Hankel
Theorie der complexen Zahlensysteme
Terza guerra d'indipendenza italiana Nasce Benedetto Croce 1867
Costruzione dell'insieme dei numeri reali a partire dai razionali, giustificazione della teoria dei numeri complessi, principio della permanenza delle proprietà formali Nasce Marie Sklodowska Curie
W. Thomson Kelvin, A treatise on natura! philosophy P Tait
1868
K. Marx
Das Kapital
B. Riemann
Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria (postuma)
B. Spaventa
Principi di filosofia
Viene sviluppata la teoria degli iperspazi E. Beltrami
Teoria fondamentale degli spazi a curvatura costante
Ch. Darwin
Variations o/ animals and plants under domestication
E. Beltrami
Saggio di interpretazione della geometria non-euclidea
H.L. von Helmholtz
Uber die Tatsachen, die der Geometrie zu Grunde liegen
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Cronologia DATE
EVENTI
AUTORI
1869
Scoperta dei raggi catodici
J.W. Hittorf
OPERE
D.I. Mendeleev
Il sistema naturale degli elementi e sua applimzione alla previsione di elementi non ancora scoperti
La psicologia come scienza positiva
1869-70
Concilio Vaticano 1, dichiarazione dell'infallibilità papale
1870
Guerra franco-tedesca Presa di Roma
R. Ardigò
1871
Viene pubblicata un'opera in cui si sostiene che la specie umana discende dalla specie animale
Ch. Darwin
1872
Viene presentato il cosiddetto "Programma di Erlangen"
F. Klein
Nasce Bertrand Russell
Vergleichende Betrachtungen iiber neuere geometrischen Forschungen
Definizione dei numeri irrazionali come sezioni nel campo razionale
J.W. Dedekind
Elaborazione del "teorema H"
L. Boltzmann
Stetigkeit und irrationale Zahlen
Pubblicazione di 24 tavole scelte del Codice atlantico di Leonardo da Vinci F.W. Nietzsche
Die Geburt der Tragodie
1873
].C. Maxwell
A treatise on electricity and magnetism
1873-74
W. Wundt
Grundziige der physiologischen Psychologie
1874
Vengono poste le basi della stereochimica ].A. Le Bel, H. Van't Hoff F. Brentano
1875
Vengono introdotti i potenziali termodinamici
Psychologie vom empirischen Standpunkt
].W. Gibbs
A Sèvres è istituito il Bureau International de Poids et Mesures 1876
Vìene pubblicata la prima ricerca relativa A.R. Wallace alla distribuzione delle specie sulla Terra
Geographical distribution o/ Animals
Caduta della Destra in Italia Viene inventato e brevettato il motore a scoppio 1877
Viene brevettato il telefono
A.G. Beli
È proposta un'interpretazione probabilistica dell'entropia
L. Boltzmann
Nell'atmosfera solare è individuato, spettroscopicamente, l'elio
N. Lockyer Ch. S. Peirce
Illustrations o/ the Logico/ Science
Revisione critica dei fondamenti dell'analisi
U. Dini
Fondamenti per la teoria delle funzioni di variabile reale
Congresso di Berlino
J.W. Gibbs
The equilibrium o/ etherogeneous system
F. Engels
Anti-Diihring
1877-78 1878
N.A. Otto
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Cronologia DATE
EVENTI
1879
AUTORI
OPERE
F.G. Frege
Begri/fsschri/t
G. Cantor
Ober unendliche linear Punktmannigfaltigkeiten
N asce Albert Einstein 1879-84
Teoria cantoriana degli insiemi
188o
Du Bois-Reymond tiene la conferenza "Die sieben Weltriitsel"
1881
Viene eseguita la prima esperienza per A.A. Michelson determinare la velocità della Terra rispetto all'etere
1883
Viene osservata la divisione a metà dei W. Flemming filamenti di cromatina
Th. A. Ribot
Les maladies de la mémoire
Viene formulata l'ipotesi che ai fenomeni W. Roux osservati da Flemming sia riconducibile la conservazione di un patrimonio qualitativo E. Mach
Muore Marx
1884
Viene inventato un particolare tipo di turbina idraulica
1884-1903
Programma logicista di Frege
1885
Viene formulata la teoria del plasma germinale
Die Mechamk in ihrer Entwicklung historisch-kritisch dargestellt
F.H. Bradley
Principles o/ Logic
W. Dilthey
Einleitung in die Geisteswissenschaften
F. Galton
Inquiries Into Human Faculty and Its Development
L.A. Pelton F.G. Frege
Grundlagen der Arithmetik
A. Weismann
G. Ferraris Viene inventato il motore a corrente alternata grazie alla scoperta del campo magnetico rotante 1886
1887 <
Le ricerche riguardanti le proprietà di L. Bianchi cui godono una curva o una superficie nell'intorno di qualche loro punto vengono riorganizzate e vengono denotate con il termine "geometria differenziale" Nascita dell'analisi funzionale
V. Volterra
Viene eseguita una nuova esperienza per evidenziare il moto della Terra rispetto all'etere.
A.A. Michelson, E.W. Morley
Lezioni di geometria differenziale
Vengono prodotte sperimentalmente le onde elettromagnetiche H.R. Hertz Viene scoperto l'effetto fotoelettrico 1888
F. W. Nietzsche
Zur Genealogie der Mora!
Sistematizzazione della teoria dei numeri irrazionali
J.W.R. Dedekind
Was sind und was sollen die Zahlen
I filamenti osservati da Flemming nel 1883 vengono chiamati "cromosomi"
H.W. Waldeyer
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Cronologia DATE
EVENTI
AUTORJ
1888
Viene formulata la teoria dei gruppi continui di trasformazione
S. Lie
Fondazione dell'Institut Pasteur
G. Peano
Calcolo geometrico
1889
N asce Ludwig Wittgenstein
R. Avenarius
Kritik der reinen Erfahrung
T. Veblen
The Theory o/ Leisure Class
1890
Viene sviluppata la teoria dell'individualità cromosomica
1890-1900
Assiomatizzazione dell'aritmetica e della geometria a opera di Peano e Hilbert
1891
Viene formulata l'ipotesi che vi sia un C.E. Brown-Séquard collegamento di natura chimica tra i vari organi: vengono così poste le basi dell'endocrinologia
OPERE
T. Boveri W. James
Principles o/ Psycholog;y
Costruzione di un esempio di geometria non archimedea
G. Veronese
Fondamenti di geometria a più dimensioni
Rerum novarum di Leone
E. Husserl
Philosophie der Arithmetik
F.W. Nietzsche
A/so sprach Zarathustra
XIII
Nasce Rudolf Carnap
1891-1904
Edizione completa del Codice atlantico di Leonardo da Vinci
1891-1917
Seconda Internazionale
1892
Viene elaborata la teoria degli elettroni
H. Lorentz
Viene inventato il motore Diesel
R. Diesel
1892-95
La teoria weismanniana trova una compiuta sistemazione
A. Weismann
1893
Vengono evidenziate paralisi di origine S. Freud psichica che differiscono rispetto a quelle di origine organica
Das Keimplasma. Eine Theorie der Vererbung (1892); Au/siitze iiber Vererbung und verwandte biologische Fragen (1892); Neue Gedanken zur Vererbungesfrage. Eine Antwort an H. Spencer (1895)
F.G. Frege
Grundgesetze der Arithmetik, 1
H. Bradley
Apparence and reality
G. Peano
Formulario matematico
Inizia lo studio di fenomeni inconsci che avrebbe portato alla formulazione della teoria psicoanalitica
S. Freud,]. Breuer
Studien Ober Hysterie
Vengono scoperti i raggi X
W.C. Riintgen
1895
M. Verwon
Allgemeine Physiologie (sottotitolo, Saggio su una teoria della vita)
E.-E. Boutroux
De l' idée de loi natureIle dans la science
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Cronologia DATE
EVENTI
1895
1896
AUTORI
OPERE
E. Durkheim
Les règles de la méthode sociologique
A. Labriola
In memoria del Manzfesto dei comunisti
H. Becquerel
Scoperta della radioattività
Viene messa in evidenza l'influenza dei P. Zeeman campi magnetici sugli spettri (effetto Zeeman) H. Bergson 1897
Calcolo differenziale assoluto (detto poi G. Ricci-Curbastro, T. Levi-Civita "calcolo tensoriale") Scoperta dell'elettrone
J.J.
1898
Viene descritto nelle cellule gangliari un "apparato" denominato "apparato di Golgi"
C. Golgi
Viene formulata l'ipotesi che la radioattività sia una proprietà atomica Scoperta del polonio e del radio
P. Curie, M. Sklodowska Curie
1899
Assiomatizzazione puramente formale della geometria Scoperta dei raggi a e dei raggi
1900
~
Matière et mémoire
Thomson
E.L. Thorndike
Anima! Intelligence
D. Hilbert
Grundlagen der Geometrie
E. Rutherford
Viene introdotto il conceno di mutazione H. De Vries sia in campo aniniale che vegetale Viene scoperta l'esistenza dei gruppi sanguigni
K. Landstein
Muore Nietzsche
D. Hilbert
Mathematische Probleme
Viene pubblicata l'opera che segna la nascita della psicoanalisi
S. Freud
Die Traumdeutung
M. Planck Viene formulata la legge teorica che conduce a una corretta distribuzione spettrale dell'energia della radiazione di corpo nero. Tale legge si fonda sull'ipotesi che l'energia elettromagnetica venga scambiata per quanti Scoperta dei raggi y
P. Villard E. Husserl
1901
Viene stabilito il prinio contatto radio G. Marconi transatlantico tra l'Inghilterra e il Canada Viene isolata l'adrenalina
J.
Takamine
Viene stabilita una comunicazione G. Marconi radiotelegrafica che copre una distanza superiore alle 2000 miglia Viene proposto il sistema di unità di misura m.k.s. (metro, chilogrammo, secondo)
G. Giorgi
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Logische Untersuchungen
Cronologia DATE
EVENTI
AUTORI
1901
1902
OPERE
O. Biitschli
Mechanismus und Vitalismus
W. Dilthey
Das achzente ]ahrhundert und die Geschichte der Welt
Viene introdotta una nuova formulazione H. Lebesgue del concetto d'integrale Viene scopetto il fenomeno dell'anafilassi C.- R. Richet W.M. Bayliss, E. Starling
Scoperta degli ormoni Con la comunicazione di Russell a Frege di quella che diverrà nota come I' antinomia di Russell, si apre la "crisi dei fondamenti" N asce Alfred Tarski
B. Croce
1902-12 1903
Viene formulata la teoria delle equazioni integrali
Che /are?
H. Cohen
System der Philosophie
B. Russell
Principles o/ mathematics
E.I. Fredholm F.G. Frege
Viene formulata una teoria coerente per i fenomeni radioattivi: "Transformation theory"
1904
Viene brevettato il diodo
Estetica
N. Lenin
Grundgesetze der Arithmetik,
11
E. Rutherford, F. Soddy A. Binet
L:étude expérimentale de l' intelligence
G. Gentile
La rinascita dell'idealismo
G.E. Moore
The Refutation o/ Idealism
J .A. Fleming
Viene formulato un importante modello J.J. Thomson atomico: atomo sferico, carica positiva uniformente distribuita, elettroni oscillanti all'interno della distribuzione di carica positiva. P. Martinetti
Introduzione alla metafisica
D. Hilbert
Uber die Grundlagen der Logik und der Arithmetik
J.-H. Poincaré
La valeur de la science
M. Weber
Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus
Viene formulata la teoria della relatività ristretta
A. Einstein
Elektrodynamzk bewegter Korper
r; effetto fotoelettrico trova una
A. Einstein
Presentazione del programma finitista hilbertiano
1905
spiegazione grazie all'ipotesi dei quanti Viene sviluppata una teoria del moto browniano
A. Einstein
Rivoluzione russa
B. Russell
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On Denoting
Cronologia AUTORI
DATE
EVENTI
1906
Viene formulato il terzo principio della W. Nernst termodinamica
1907
1908
Viene presentato il metodo per la diagnosi della sifilide
A. von Wassermann P.H. Duhem W. Bateson
Viene formulata un'importante teoria del ferromagnetismo
P. Weiss
Viene proposto l'utilizzo di un tubo a raggi catodici per trasformare un segnale elettrico in immagini
B. Rosing
H. Bergson
I; évolution créatrice
Programma intuizionista di Brouwer
L.E.J. Brouwer
Sui fondamenti della matematica
Viene formulata una geometria H. Minkowski quadridimensionale attraverso la quale viene data una significativa formulazione matematica alla teoria della relatività L.E.J. Brouwer
Sull'inaffidabilità dei principi logici
B. Croce
Logica come scienza del concetto puro
E. Juvalta
Questioni filosofiche
E. Meyerson
Identité et réalité
Prinia assiomatizzazione della teoria degli insiemi
E. Zermelo
Untersuchungen iiber die Grundlagen der Mengenlehre
Introduzione delle catene di Markov
A.A. Markov
Wahrscheinlichkeitsrechnung (1912)
B. Croce
Filosofia della pratica
N. Lenin
Matenalismo ed empinocriticismo
M. Montessori
Il metodo della pedagogia scientifica applicato all'educazione infantile
1909
1910
La théorie physique
Nasce Kurt Gi:idel Viene usato per la prinia volta il termine "genetica"
Nasce Ludovico Geymonat
1908-12
OPERE
Viene fondata la società psicoanalitica internazionale Vìene ottenuto artifìcialmente Io sviluppo E. Bataillon partogenetico delle uova di rana Concetto di riflesso condizionato
l. Pavlov B. Russell, A.N. Whitehead
1911
Sulla base di esperienze di diffusione di E. Rutherford particelle a viene proposto un modello atomico in cui la carica positiva è concentrata nella parte centrale dell'atomo (nucleo) in una regione dalle dimensione lineari pari a circa w- 12 cm Scoperta della superconduttività
H. Kamerlingh Onnes
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Principia mathematica The scattering o/ a and ~ particles by matter and structure o/ the atom
Cronologia DATE
191I
EVENTI
AUTORI
Invenzione della camera a nebbia
C.T.R. Wilson
OPERE
A Bruxelles si svolge il primo congresso patrocinato da M.E. Solvay dedicato alla teoria della radiazione e ai quanti Guerra di Libia 1912
Scoperta della diffrazione dei raggi X
M. von Laue
Proclamazione della repubblica cinese F. Severi
1913
Il principio della conservazione del numero
Viene introdotto il termine "vitamina"
K. Funk
Viene trovata la prima soluzione delle equazioni di Einstein della relatività generale di interesse cosmologico
K. Schwarzschild
Scissione nel movimento psicoanalitico
C.G. Jung
Wandlungen und Symbole der Libido
A. Adler
Ober den nervosen Charakter
Viene proposto un modello atomico in N. Bohr cui le idee della teoria dei quanti vengono applicate al modello atomico di Rutherford
On the constitution o/ atoms and molecules
Viene introdotto il concetto di isotopia F. Soddy Viene isolata la vitamina A
F.G. Hopkins F. Soddy
Scoperta della spirocheta pallida nel tessuto nervoso di pazienti affetti da paralisi progressiva
1914
The chemistry o/ the radioelements
H. Noguchi
G.E. Moore
Principia ethica
F. de Saussure
Cours de linguistique générale
Viene isolato l'ormone tiroideo (tiroxina) ]. Kendall Formulazione della "legge di Moseley" H. Moseley Si afferma la scuola behavioristica
].B. Watson
Behaviourism, an introduction to comparative psychology
Attraverso l'analisi sperimentale di urti ]. Franck, G. Hertz anelastici tra elettroni e atomi viene dimostrato il carattere discreto del trasferimento di energia 1914-18
Prima guerra mondiale
1915
Formulazione della teoria della deriva dei continenti
A.L. Wegener
Die Entstehung der Kontinente
Vengono pubblicati i risultati di ricerche in base alle quali si riesce a individuare nei geni il meccanismo dell'ereditarietà
T.H. Morgan
The mechanism o/ mendelian heredity
Scoperta di Plutone
P. Lowell
1915-16
M. Scheler
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Der Formalismus in der Ethik
Cronologia DATE
EVENTI
AUTORI
OPERE
1916
Viene formulata la teoria della relatività generale
A. Einstein
Die Grundlagen der allgemeinen Relativitiitstheorie
Viene enunciato il principio di corrispondenza
N. Bohr
J.
Democracy and Education Teoria generale dello spirito come atto puro
V Pareto
Trattato di sociologia generale
T. Levi-Civita
Nozione di parallelismo in una varietà qualunque
Vengono descritte correlazioni nel mondo zoologico tra forme e funzioni
D' Arcy Thompson
On growth and /orm
Rivoluzione d'Ottobre
B. Croce
Teoria e storia della storiogra/ia
D. Hilbert
Axiomatisches Denken
N. Lenin
Uimperialismo fase estrema del capitalismo
H. Weyl
Das Kontinuum
1917
1918 1919
Dewey
G. Gentile
Attraverso il bombardamento con parti- E. Rutherford celle o. viene disintegrato il nucleo dell'azoto F.W. Aston Nasce la spettrografia di massa e il concetto di isotopia viene esteso a tutti gli elementi del sistema periodico Terza Internazionale
1920
1921
Viene avviato un importante programma di ricerca nel campo della geometria algebrica Viene ottenuta la prima insulina pura
1922
Avvento del fascismo in Italia 1923
1924
K. Jaspers
Psychologie der Weltanschauungen
E. Claparède
Uécole sur mesure
I. Lukasiewicz
Sulla logica trivalente
W. Wundt
Volkerpsychologie
E. Artin
F. Banting, C.H. Best F.W. Aston
Isotopes
F. Enriques
Per la storia della logica
Scoperta dell'effetto Compton
A.H. Compton
Riforma Gentile
E. Cassirer
Philosophie der symbolischen Formen
Ch.S. Peirce
Chance, Lave, and Logic
Il dualismo onda-corpuscolo, ormai accertato per la radiazione elettromagnetica, viene esteso alle particelle materiali dando così avvio alla meccanica ondulatoria
L. de Broglie
Viene sostenuto che la vita sulla Terra A.I. Oparin si sia formata a partire da sostanze organiche costituite, a loro volta, grazie a eventi fisici naturali
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Uorigine della vita
Cronologia DATE
1924
EVENTI
AUTORI
OPERE
Scoperta della statistica di Bo se-Einstein S.N. Bose Muore Lenin R. Pettazzoni
1925
Svolgimento e carattere della storia delle religioni
Vìene formulato il principio di esclusione W. Pauli Vengono isolate le vitamine B e B2 Nasce la meccanica delle matrici
W. Heisenberg
Introduzione dello spin
G.E. Uhlenbeck, S.A. Goudsmit
J.
Dewey
A.N. Whitehead 1926
Experience and Nature Science and the Modern World
Viene stabilito il primo ponte radio tra G. Marconi Londra e Sydney Viene sviluppata la meccanica ondulatoria
E. Schrodinger
Interpretazione probabilistica della funzione d'onda
M. Born
Scoperta della statistica di Fermi-Dirac E. Fermi Teoria classica del gene
1927
Th.H. Morgan
The theory of gene
A. Gramsci
Alcuni temi della questione meridionale
D. Hilbert
Ober das Vnendliche
F.E. Spranger
Die Frage nach der Einheit der Psychologie
Nasce la meccanica quantistica Principio d'indeterminazione
W. Heisenberg
Principio di complementarità
N. Bohr
Scoperta della diffrazione degli elettroni C.G. Davisson, L.H. Germer K. Biihler
Die Krise der Psychologie
M. Heidegger
Sein und Zeit
1927·28
Teoria degli orbitali molecolari
F. Hund, R.S. Mulliken
1928
Scoperta della penicillina
A. Fleming
Definizione generalizzata di stimolo nervoso
E.D. Adrian
The basis o/ sensation
Inizia la costruzione dell'osservatorio di Mount Palomar Formulazione della legge di Hubble
E.P. Hubble, M. Humason
Spiegazione quantistica del decadimento G. Gamow, a. E.U. Condon Viene proposta una teoria relativistica dell'elettrone
P.A.M. Dirac
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The principles o/ Quantum Mechanics
Cronologia DATE
EVENTI
AUTORI
OPERE
D. Hilbert, W. Ackermann
Grundziige der theoretischen Logik
Viene isolato il primo ormone estrogeno A. Butenandt Trattazione matematica della teoria dell'evoluzione
1930
A. Fisher ].B.S. Haldane
The genetica! theory o/ natura! selection The causes o/ evolution
M. Heidegger
Was ist Metaphyszk?
W Kohler
Gestaltpsychologie
W Heisenberg
Die physikalischen Prinzipien der Quantentheorie
Vengono esposti in forma sistematica i B.L. Van der Waerden Moderne Algebra risultati sulle strutture algebriche degli ultimi decenni Nell'ambito degli sviluppi di una teoria P.A.M. Dirac quanto-relativistica dell'elettrone viene proposta l'esistenza del positrone Teorema di completezza semantica (K. Godei)
1931
J Herbrand
Recherches sur la théorie de la démonstration
]. Ortega y Gasset
La ribellione delle masse
E. Wigner
Gruppentheorie
A Roma si svolge il primo congresso di fisica nucleare La teoria dei gruppi è applicata con successo a tipici problemi di meccanica quantistica Assiomatizzazione della logica e matematica intuizionista (A. Heyting) Teoremi di incompletezza (K. Godei)
1932
]. Chadwick
Scoperta del neutrone Scoperta del positrone
C.D. Anderson
Vengono mostrate le ragioni matematiche dell'equivalenza tra meccanica ondulatoria e meccanica delle matrici
]. von Neumann
Viene elaborata una teoria del collasso W. Baade, F. Zwicky delle .supernovae Scoperta del deuterio
H.C. Urey
Viene suggerita, all'interno del nucleo W Heisenberg, atomico, l'esistenza di forze di scambio E. Majorana Scoperta della vitamina C
A. Szent-Gyorgyi ].H.C. Whitehead, O. Veblen
Viene chiarita la corretta struttura tetraciclica del colesterolo
1932-35
Sviluppo della teoria dei gruppi d' omologia e nascita della teoria dei gruppi d'omotopia
Foundations o/ Di/ferential geometry
O. Rosenheim, H.O. Wieland
C.I. Lewis C.H. Langford E. Cech W. Hurewicz
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Symbolic logic
Cronologia DATE
EVENTI
1933
Viene prodotta la prima disintegrazione M.L. Oliphant, B. Kinsey, artificiale con bombardamento di neutroni E. Rutherford
AUTORI
OPERE
E. Fermi Viene pubblicata una teoria coerente sul decadimento ~ che svolge un ruolo fondamentale per la nascita della fisica delle particelle elementari Scoperta degli sciami di raggi cosmici
B. Rossi
Vengono poste le fondamenta per lo sviluppo di una teoria generale dei processi stocastici A.N. Kolmogorov
Grundbegri/fe der Wahrscheinlichkeitsrechnung
Prime leggi razziali in Germania
U. Spirito
Scienza e filosofia
Semantica tarskiana
A. Tarski
Der Wahrheitsbegriff in den formalizierten Sprachen
Scoperta della radioattività artificiale
I. Curie, F. Joliot
Viene enucleata la struttura assiomatica dei fondamenti della teoria delle probabilità Hitler diventa cancelliere
1934
Scoperta dell'effetto Cerenkov
P.A. Cerenkov
Vengono eseguiti fondamentali espetimenti volti a dimostrare l'efficacia dei neutroni rallentati nel produrre processi di disintegrazione nucleare
E. Fermi, E. Amaldi, O. D'Agostino, B. Pontecorvo, F. Rasetti, E. Segrè K. Popper
Logik der Forschung
D. Hilbert, P. Bernays
Grundlagen der Mathematik
1934-39
Teoria della dimostrazione
1935
Viene proposta una teoria delle forze H. Yukawa nucleari che prevede l'esistenza di una nuova particella: il mesone Viene spetimentato il ptimo sulfamidico G. Domagk Viene pubblicata l'opera che segna la nascita dell'etologia
1936
K.Z. Lorenz
Der Kumpan in der Umwelt der Vogels
G. Gentzen
Untersuchungen iiber das logische Schliessen
N. Hartmann
Zur Grundlegung der Ontologie
K. Lewin
A Dynamic Theory o/ Personality
A. Tarski
Der Wahrheitsbegri/1 in der /ormalisierten Sprachen
E.P. Hubble
The realm o/ the nebulae
Guerra d'Etiopia Viene precisata la teoria degli "spazi uniformi" che svolgerà un ruolo fondamentale per lo sviluppo della topologia
A. Weil
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Cronologia DATE
EVENTI
AUTORI
1936
Emerge la nozione generale di "varietà H. Whitney differenziabile" E. Husserl
1936-37
Ideolog;y and Utopia
A. Church
An Unsolvable Problem o/ Elementary Number Theory
A. Turing
On Computable Numbers With an Application to the Entscheidungsproblem
Guerra di Spagna
1937
Viene ottenuta la prima soluzione A. Einstein, F. Rosen rapidamente variabile (onde gravitazionali) delle equazioni di Einstein G.W Allport
J.R.
Hicks
Mao-Tze-Tung Scoperta della fissione nucleare
Die Krisis der europaischen Wissenscha/ten und die transzendentale Phanomenologie
K. Mannheim
1936-39
1938
OPERE
Personality: a Psychological Interpretation Mr Keynes and The Classics Sulla contraddizione
O. Hahn, F. Strassman
Inizia la pubblicazione di una importante rassegna annuale dei progressi conseguiti nella chimica delle sostanze organiche
"Fortschritte der chemische organischen Naturstoffe"
Muore Husserl 1939
Viene proposta una teoria che rende H.A. Bethe conto dell'origine dell'energia stellare nei termini di reazioni di fusione nucleare Viene costruito il betatrone
D.W. Kerst
Viene formulata una teoria del collasso gravitazionale di stelle di neutroni
J.R.
A partire dalla geometria algebrica astratta prendono avvio importanti studi sul concetto generale di algebra
S. Lefschetz
Lectures on algebric geometry
N. Abbagnano
Struttura dell'esistenza
Oppenheimer
Dollard, Doob, Frustation and Aggression Miller, Mowrer, Sears 1939-45
Seconda guerra mondiale
1940
Formulazione della teoria quantistica della superfluidità dell'elio
L. Landau
Scoperta del fattore Rh
K. Landsteiner K. Godei
1941
Pearl Harbor
1942
A Chicago viene costruita la prima pila atomica
E. Fermi
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The Consistency o/ the Continuum Hypothesis
Cronologia DATE
EVENTI
AUTORI
1943
Formulazione della teoria della matrice S
W. Heisenberg
1944
1945
OPERE
C.L. Hull
Principles o/ Behavior
J.-P. Sartre
[; ètre et le néant
Viene identificata la struttura chimica dei geni
O. Avery, C.M. MacLeod
Viene tracciata la prima radiomappa della galassia
G. Reber
Viene pubblicata l'opera che segna la nascita della "teoria dei giochi"
J. von Neumann, O. Morgenstern
The theory o/ games and economie behavior
Conferenza di Yalta Nascita dell'oNu Vengono compiuti importanti studi sulla formulazione relativistica della teoria quantistica dei campi
S.I. Tomonaga
Su Hiroshima e Nagasaki vengono fatte esplodere due bombe atomiche (6 e 9 agosto) N asce la teoria delle categorie
S. Eilenberg, S. MacLane
1945-49
Nasce la teoria delle distribuzioni
L. Schwartz
1946
Vengono poste le basi della moderna geometria algebrica
A. Weil
Genera! Theory o/ Natura! Equivalences
Foundation o/ algebric geometry
Prime elezioni a suffragio universale in Italia Proclamazione della Repubblica Primo calcolatore elettronico (ENIAC) 1947
1948
Scoperta del mesone
1t
e del mesone Jl C.M.G. Lattes, G.P. Occhialini, C.F. Powell
Scoperta del Lamb-shift
W.E. Lamb, C. Retherford
Viene fondata l'elettrodinamica quantistica
J.S. Schwinger, R.P. Feynman
Viene eseguita una fondamentale esperienza attraverso la quale si dimostra che l'interazione tra mesoni cosmici e nuclei atomici è molto più debole del previsto
M. Conversi, E. Pancini, O. Piccioni
Viene realizzato il primo transistor
Laboratori Beli (USA)
Indipendenza dell'India
Th.W. Adorno, M.Horkheimer
Dialettica dell'illuminismo
R. Carnap
Meaning and Necessity
Teoria cosmologica dell'universo stazionario
H. Bondi, T. Gold, F. Hoyle
Teoria del "big bang"
G. Gamow
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Cronologia DATE
EVENTI
1948
Proclamazione dello stato di Israele
AUTORI
OPERE
Nasce la cibernetica
N. Wiener
Cybernetics, or contro! and communications in the anima! and the machine
Nasce la teoria dell'informazione
C.E. Shannon
The mathematical theory o/ communication
Viene proposta una radicale ristrutturazione della matematica
Nicolas Bourbaki (pseudonimo di un gruppo di matematici)
L'architecture des mathématiques
Elezione del r parlamento della Repubblica italiana 1949
Viene introdotto il modello a shell del nucleo atomico
M.G. Mayer, ].D. Jansen
Scoperta del cortisone
P.S. Hench
Patto atlantico
D.O. Hebb
Proclamazione della Repubblica popolare cinese 1950
The Organization o/ Behavior
V. J ankélevitch
Trattato delle virtù
C. Lévy-Strauss
Le strutture elementari della parentela
Viene proposta una teoria rinormalizzata R.P. Feynman, dell'elettrodinamica quantistica J .S. Schwinger, ].F. Dyson Viene proposta una teoria della superconduttività
1950-51 1950-53
Guerra di Corea
1951
Viene proposta la struttura a elica (a-elica) per le catene polipeptidiche di amminoacidi delle proteine
V.L. Ginzburg, L. Landau E.H. Erikson
Childhood and Society
P. Ricoeur
Il volontario e l'involontario
L. Schwartz
Théorie des distributions
L. Pauling, R.B. Corey
Muore Wittgenstein P. Fatt, Viene registrata l'attività dei singoli neuroni e misurato il potenziale elettrico B. Katz a livello delle singole sinapsi 1952
1953
Viene formulato il modello collettivo del nucleo atomico
A.B. Bohr, B.R. Mottelson
Risoluzione del v problema di Hilbert
A. Gleason
Scoperta del fattore di accrescimento delle fibre nervose (NGF)
R. Levi Montalcini
Viene introdotto un nuovo numero quantico: la stranezza
M. Gell-Mann, K. Nishijima
Viene formulata la legge di conservazione E. Wigner del numero barionico Sulla base di esperienze di diffrazione ].D. Watson, di raggi X, viene proposta la struttura F.H. Crick a doppia elica degli acidi nucleici (DNA)
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..
Cronologia DATE
EVENTI
1953
1954
Viene realizzato il primo maser
AUTORI
OPERE
L. Geymonat
Saggi di filosofia neo razionalista
M. Friedman
The Methodology o/ Positive Economics
W. Quine
Re/erence and Modality
B.F. Skinner
Science and Human Behavior
Townes
In URSS entra in funzione la prima centrale nucleare per la produzione di energia elettrica Vengono compiuti studi fondamentali sulle teorie di gauge
C.N. Yang, R. Milis
Caduta di Dien Bien Phu 1954-62
Guerra d'Algeria E. Bloch
1954-59 1955 1956
Scoperta dell'antiprotone Patto di Varsavia
E. Segrè, O. Chamberlain
Scoperta dell'antineutrone
O. Piccioni
Viene dimostrato il teorema di invarianza PTC
W Pauli, G. Luders
Vengono rivelati sperimentalmente i neutrini
F. Reines, C.L. Cowan
Vengono scoperte delle strutture cellulari chiamate "ribosomi"
G. Palade
Das Prinzip Hol/nung
Viene messa in dubbio la conservazione T.D. Lee, C.N. Yang della parità nelle interazioni deboli Viene confermata sperimentalmente l'ipotesi di Lee e Yang
C.S. Wu
Viene dimostrato che la specie umana possiede 46 cromosomi
J.H. Tjio, A. Levan
Viene dimostrato il processo spontaneo ]. Gross di ontogenesi molecolare in vitro Vengono elaborati i primi modelli per lo studio degli ecosistemi
H.T. Odum
xx congresso del rcus
G. Della Volpe
Logica come scienza positiva
Nazionalizzazione del Canale di Suez 1957
1958
Formulazione della teoria della superconduttività (nota come teoria Bes)
]. Bardeen, L. Cooper, ].R. Schrieffer E. Fink
Oasi della gioia
A.N. Prior
Time and Modality
B.F. Skinner
Verbal Behavior
Scoperta dell'effetto Mossbauer
R.L. Mossbauer
v Repubblica in Francia
D.E. Broadbent
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Perception and Communication
Cronologia DATE
EVENTI
AUTORI
1958
1959
1960-67
R. Cantoni
Umano disumano
C. Lévy-Strauss
Antropologie structurale
A. Banfi
La ricerca della realtà (postuma)
G. Debreu
Theory o/ Value
Al CERN di Ginevra entra in funzione il protosincrotrone con energie di 28 GeV Fine della rivoluzione cubana
1960
OPERE
John
Fitzgerald Kennedy diventa presidente degli usA
Estensione del concetto di varietà algebrica con la teoria degli schemi
1961
1962
Crisi di Cuba
Wright Milis
The Sociological Imagination
H. Blumenberg
Paradigmi di una meta/orologia
H.G. Gadamer
Verità e metodo
D. Rapaport
The Structure o/ Psychoanalytic Theory
].P. Sartre
Critique de la raison dialectique
P. Sraffa
Produzione di merci a mezzo di merci
A. Grothendieck
Elements de géometrie algebrique
E. Goffman
Asylums
E. Lévinas
Totalztà e infinito
E.R. Service
Primitive Social Organization
J.L.
How To Do Things With Words
Austin
W. Benjamin
Angelus novus
1962-65
Concilio Vaticano n
1963
Scoperta dei Quasar
M. Schmidt
Avvio della scuola media unica
H. Arendt
La banalità del male
].P. Cohen
The Independence o/ the Continuum Hypothesis
K. Popper
Conjectures and Re/utations
Assassinio di Kennedy Primo governo di centro-sinistra in Italia Soluzione del problema del continuo
1964
Viene formulato il modello a quarks delle particelle elementari
M. Gell-Mann, S. Zweig
1965
Scoperta della radiazione di fondo cosmica
A. Penzias, R. Wilson
Viene compiuto il primo trapianto di
C.N. Barnard
H. Marcuse
L'uomo a una dimensione
cuore umano
L.
Althusser
D. Patinkin
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Lire le Capita! Money, Interest, and Prices
Cronologia AUTORI
OPERE
1965
P. Ricoeur
De l' interpretation
1966
T.W. Adorno
Negative Dialektik
F. Boas
Race, Language and Culture
J.S. Bruner
Toward a Theory o/ Instruction
DATE
EVENTI
1966-68
Rivoluzione culturale
1967
Scoperta delle pulsar
A. Hewish
Viene elaborato un modello che unifica A. Salam, le interazioni deboli e quelle S. Weinberg elettromagnetiche J. Berger, T. Luckmann J. Derrida
De la grammatologie
H. Garfinkel
Studies in Etnometodology
Viene pubblicata l'opera che segna la nascita della zoosemiotica
T. A. Sebeock
Animai communication
Primavera di Praga
G. Deleuze
Differenza e ripetizione
Rivolta studentesca
M. Friedman
The Role of Monetary Policy
M. Horkheimer
Teoria critica
Guerra dei sei giorni
1968
1969
1970
B.F. Skinner
The Technology of Teaching
Liberalizzazione dell'accesso all'università in Italia
B. Berlin, P. Kay
Basic Color Terms
Sbarco sulla Luna
M. Blanchot
I.:infinito intrattenimento
M. Foucault
Archeologia del sapere
J.R.
Speech acts
Searle
Muore Russell
G.A. Akerlof
The Market /or Lemons
Muore Carnap
N. Luhmann
Illuminismo sociologico
1970-80
Prende corpo un ambizioso programma R. Thom di ricerca fondato sulla "teoria delle catastrofi"
1971
Viene sintetizzata la ribonucleasi
1972
1973
The Social Construction of Reality
Guerra del Kippur
R.B. Merrifield, B. Gutte H. Kohut
The Analysis of the Self
E.R. Leach
Rethinking Anthropology
G. Lukacs
Zur Ontologie des gesellschaftlichen Seins (postuma)
J. Rawls
A Theory o/ ]ustice
R. Thom
Stabilité structurelle et morphogénèse
N. Luhmann
Rechtsociologie
K. Popper
Objective Knowledge
K.O. Ape!
Trasformazione della filosofia
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Cronologia DATE
EVENTI
AUTORI
1973
1974
OPERE
B.S. Bloom
The Anxiety o/ In/luence
M. Dal Pra
Hume e la scienza della natura umana
C. Geertz
Interpretation o/ Cultures
C. Luporini
Dialettica e materialismo
R.M. Montague
Forma! Philosophy
R. Nozick
Anarchy, State and Utopia
A. Ross
The Economie Theory o/ Agenry
1975
Fine della guerra del Vietnam
G. Colli
La nascita della filosofia (postuma)
1975-78
Vengono isolate le endorfine
]. Hughes, H. Kosterlitz, R. Guillemin
1976
Dimostrazione, attraverso l'uso del calcolatore, del teorema dei "quattro colori"
K. Appel, W. Haken
Muore Heidegger
1978
Muore Godei
1979
L. Geymonat
Scienza e realismo
]. Harsanyi
Essays on Ethics, Social Behavior and Scienti/ic Explanation
W Brezinka
Metatheorie der Erziehung
H. Jonas
Il principio di responsabilità
N. Luhmann, K.E. Schorr
Re/lexionsprobleme im Erziehungssystem
].F. Lyotard
La condizione postmoderna
R. Rorty
La filosofia e lo specchio della natura
C. Weissmann
1980
Viene ottenuto in laboratorio l'interferone umano Muore Sartre
S. Kripke
1981
Si effettuano per la prima volta collisioni di materia contro antimateria
CERN
1982
Viene mostrato come le reti neuronali possano funzionare come memorie associative
Naming and Necessity
]. Habermas
Theorie des kommunikativen Handelns
R. Lucas
Studies in Business Cycle Theory
A.Ch. Maclntyre
A/ter Virtue
A.M. Okun
Prices and Quantities
]. Hopfield
A. Heller, F. Feher, G. Markus
Dictatorship Over Needs
H.R. Jauss
Aesthetische Er/ahrung und literarische Hermeneutik
F.E. Kydland, E. C. Prescott
Time To Build and Aggregate Fluctuations
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Cronologia DATE
EVENTI
1982 1983
OPERE
M. Sandel
Liberalism and The Limits o/ ]ustice
C. Rubbia
Viene annunciata la scoperta del bosone intermedio W
CERN,
Scoperto un buco nero fuori della nostra galassia
A. Cowley
Viene costruito il primo cromosoma artificiale funzionante in un lievito
A. Murray, J. Szostak
Viene messa a punto una tecnica che permette la produzione di RNA ricombinante
F.R. Kramer, D. Milis, E. Miele
Tecnica del patch clamp
B. Sackmann, E. Neher
Muore Tarski
A. Griinbaum
The Foundations o/ Psychoanalysis
M. Walzer
Spheres o/ ]ustice
D. Davidson
Inquiries lnto Truth and interpretation
G. Dickie
The Art Circle
A. Giddens
The Constitution o/ Society
M. Mothersill
Beauty Restored
1984
1985
AUTORI
Viene identificato il quark top
CERN,
C. Rubbia
J.C. Alexander
Neo/unctionalism
J. Baudrillard
Simulacri e simulazione
G. Mialaret
Introduction aux sciences de
l' éducation
1986
1987
Teoria del darwinismo neurale
1988
1989
Crollo del muro di Berlino
A.}. Oswald
The Economie Theory o/ the Trade Unions
D.C. Phillips
Philosophy o/ Education
A.C. Danto
The Philosophical Disen/ranchisement o/ the Commonplace
I. Mancini
Filosofia della religione
G.M. Edelman H. Putnam
La sfida del realismo
W.K. Clifford
The Predicament o/ Culture
R. Collins
Theoretical Sociology
R. Bubner
Aesthetische Er/ahrung
R. Coase
The Firm, the Market, and the Law
J. Elster
The Cement o/ Society
H.P. Grice
Studies in the Way o/ Words (postuma)
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Cronologia DATE
AUTORI
OPERE
1989
O.D. Hart
An Economist's Perspective on the Theory of The Firm
O. Marquard
Aesthetica un Anaesthetica
1990
]. Coleman
Foundations of Social Theory
A. Heller
Filosofia della morale
1991
EVENTI
].-L. Nancy
Un pensiero finito
D.C. North
Institutions, Institutional Change and Economie Performance
Fine dell'URSs Muore Geymonat
1993
Dimostrazione dell'ultimo teorema di Fermat
A. Wiles
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INDICE
GENERALE
CAPITOLO
PRIMO
l nuovi scenari filosofici DI CARLO SINI
Dai francofortesi all'ermeneutica. Gli apporti teorici della ctÙtura francese:
CAPITOLO
dal post -strutturalismo al post -modernismo. 66
III
li neopragmatismo anglosassone
SECONDO
La teoria politica e il paradigma della giustizia DI SALVATORE VECA
74 75 8o 90
II III IV
97 v Pluralismo. 102 VI Comunitarismo. w6 VII Liberalismo politico. 109 VIII Osservazioni conclusive.
Introduzione. Utilitarismo. Contrattualismo. Libertarismo.
CAPITOLO
TERZO
Sviluppi semantici nella filosofia del linguaggio DI ANDREA BONOMI
II2 II5 II II7 III 120 IV 122 v 124 VI 128 VII
Il concetto di analisi. La svolta semantica. Un paradigma di ricerca. Pragmatica. Significato e condizioni di verità. Intensionalità. Criteri empirici di verificabilità.
130 VIII Postulati di significato. 131 IX Gli enunciati e i loro costituenti. 133 x Teoria del riferimento: la nozione di contesto. 135 Xl Nomi propri. 137 XII Problemi aperti: teorie del significato e atteggiamenti proposizionali.
CAPITOLO
QUARTO
La ricerca estetica dal 1970 alla metà degli anni novanta DI GIANNI CARCHIA
140 141 143 145
II III IV
Introduzione. L'estetica della ricezione. La teoria dell'esperienza estetica. L'estetica come <>. La << secolarizzazione >> dell'estetica.
148 v 151 VI 152 VII 154 VIII 157 IX
Modernismo e postmodernismo. La nuova teoria dell'<< arte popolare>>. La teoria istituzionale dell'arte. Il decostruzionismo e la teoria del sublime. li ritorno del <> e l'estetica del mito.
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Indice generale CAPITOLO
QUINTO
Problemi teorici della ricerca filosofica In Italia DI CARLO SINI E MAURO MOCCHI
La rinascita di Nietzsche. Il pensiero debole. Dal <> all'<< enciclopedia»: sviluppi del pensiero debole. 175 IV Dall'essere al linguaggio.
159 l 165 II 171 III
CAPITOLO
180 187 195 199 207
v
Icone del politico. Dal racconto alla topologia. VII La pratica del filosofare. VIII Avventure di idee. IX Il problema etico e la filosofia morale. VI
SESTO
Divenire del marxlsmo. Dalla fine del marxlsmo·lenlnlsmo al mille marxlsml DI ANDRÉ TOSEL
214 I 219 II
Considerazioni preliminari. Dalla fine del marxismo-leninismo alle ultime rielaborazioni teoriche delle dissidenze comuniste: 1968-1975.
CAPITOLO
230
III
248 IV
Gli anni della crisi del (e nei) marxismo. Le rielaborazioni problematiche e gli abbandoni: 1975-1989. I mille marxismi alla ricerca della loro unità: 1989-1995.
SETTIMO
L'antropologia culturale: dalle certezze ottocentesche alle sfide del mondo contemporaneo DI UGO FABIETTI, FRANCESCO REMOTTI E CARLO MONTALEONE
259 I 264 II 268 III 272 IV 276 v
Dalla struttura all'evento. Tra materialismo e simbolismo. Dalle categorie alle emozioni. Dalle tipologie alle connessioni. Il punto di vista di dio e il punto di vista
CAPITOLO
del nativo. 281 284 290 294
VI Il dibattito sulla razionalità. VII Oltre la modernità. VIII Globalizzazioni, re-invenzioni, conflitti. IX
L'antropologia culturale in Italia.
OTTAVO
Orientamenti della psicologia contemporanea DI LUCIANO MECACCI
306 l 309 II 315 III 322 IV
Dalle grandi scuole alle prospettive di ricerca. Lo sviluppo della psicoanalisi. Dal comportamentismo al cognitivismo. La teoria storico-culturale e la teoria del-
CAPITOLO
l'attività. 325 v Il concetto di personalità. 328 VI La psicologia sociale. 331 VII Psicologia e neuroscienze.
NONO
Il dibattito epistemologico sulla pedagogia e le scienze dell'educazione DI RICCARDO MASSA E PIERO BERTOLINI
337 I 345 II
Le prospettive empiriste e il paradigma tecnologico. Le prospettive umaniste e il paradigma
350
III
pratico. Le prospettive materialiste e il paradigma clinico.
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Indice generale CAPITOLO
DECIMO
Le teorie sociologiche contemporanee. Il superamento del dualismo e la ricerca di nuove sintesi DI SERENA VICARI
Introduzione. La critica al funzionalismo e la « microsociologia >>.
368 III I problemi micro-macro e attore-struttura. 379 IV Riflessioni finali sullo statuto della disciplina.
CAPITOLO
UNDICESIMO
Tendenze del pensiero economico contemporaneo DI GIORGIO RODANO
384 384 386 389 392 395 398 401 403
Premessa. Il dibattito su Sraffa. III Formalismo e astrazione. IV La sintesi neoclassica. v La ricerca dei microfondamenti. VI Il monetarismo. VII La nuova macroeconomia neoclassica. VIII Le teorie del <>. IX La teoria neoclassica della politica economica. II
CAPITOLO
407 x Le scuole keynesiane. 4II Xl I progressi della microeconomia. 415 XII Costi di transazione
e informazione asimmetrica. 418 XIII Il declino del paradigma della concorrenza
perfetta. 421 XIV La nuova economia keynesiana. 424 xv Quattro considerazioni per concludere.
DODICESIMO
Sistemi di comunicazione DI EDGARDO MACORINI
427 427 429 430 431 432 433 434
II III IV
v VI VII VIII
Premessa. La comunicazione orale. La comunicazione scritta. La comunicazione stampata. Le comunicazioni a distanza. Tre neologismi degli anni cinquanta. La comunicazione informatica. La comunicazione telematica.
436 437 439 440 441 442 444
CAPITOLO
IX
L'istruzione a distanza.
x La multimedialità interattiva. L'emergenza della virtualità. L'affermazione delle reti. Le minacce nelle reti. XIV Verso le reti globali. xv Verso la società informatizzata. XI XII XIII
TREDICESIMO
La politica della scienza DI PAOLO BISOGNO E CARLO BERNARDINI
447 449 II 452 III
Nascita ed evoluzione della politica della scienza. La politica della scienza nel dopoguerra. Le tendenze della politica della scienza a livello internazionale.
455 IV 466 v 470 VI 475 VII
La politica scientifica in Italia. Epilogo. La politica della ricerca in fisica negli ultimi trent'anni. Italia.
Bibliografia 549
INDICE
556
INDICE
6o1
DEI
NOMI
ANALITICO
CRONOLOGIA
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Fonti iconografiche Disegni G. G. Mongiello
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Finito di stampare il21 giugno 1996 dalle Industrie per le Arti Grafiche Garzanti-Verga s.r.L Cernusco s/N (MI)
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