Ernesto Balducci
Storia del pensiero umano Volume secondo
Edizioni Cremonese
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In dice
Capitolo 1
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L'uMANESIMO FILOLOGICO, p. 2 - 1.1 Francesco Petrarca, p. 2 - 1.2 Gli 'uomini nuovi', p. 3 - 1.3 Lorenzo Valla, p. 6 NICOLA CusANO, p. 7 - 1.4 11 finito e l'infinito, p. 7 - 1.5 La dotta ignoranza, p. 9 - 1.6 La cosmologia, p. 10 - 1.7 L'ideale ecumenico, p. 12 MARSILIO FICINO, p. 13 · 1.8 Platone o Aristotele?, p. 13 · 1.9 L'Accademia platonica, p. 14 - 1.10 La teologia platonica, p. 15 - 1.11 Amore e Bellezza, p. 16 PICO DELLA MIRANDOLA, p. 17- 1.12 L'uomo come 'microcosmo', p. 17 - 1.13 L'utopia della pace, p. 19. L'ARISTOTELISMO UMANisnco, p. 19 - 1.14 Le due 'sette' aristoteliche, p. 19 - 1.15 Pietro Pomponazzi, p. 21 Capitolo 2 LA FINE DELLA CRISTIANITA, p. 24 - 2.1 11 trapasso, p. 24- 2.2 11 Savonarola, p. 26 NICCOL6 MACHIAVELLI, p. 28 - 2.3 Machiavelli e il SUO tempo, p. 28 -2.4 L'arte dello Stato, p. 30 - 2.5 La fortuna e la virtu, p. 32 - 2.6 Francesco Guicciardini, p. 33 L'uTOPIA UMANISTICA, p. 35 - 2.7 Erasmo di Rotterdam, p. 35 - 2.8 11 pacifismo di Erasmo, p. 37 - 2.9 Tommaso Moro, p. 38 LA RIFORMA PROTESTANTE, p. 41 - 2.10 Martin Lutero, p. 41 - 2.11 - Le tesi luterane, p. 43 - 2.12 Giovanni Calvino, p. 45 RIFORMA CATTOLICA E CONTRORIFORMA, p. 47 · 2.13 La riforma cattolica, p. 47- 2.14 11 cattolicesimo tridentino, p. 48- 2.15 La seconda scolastica, p. 49 - 2.16 Agli esordi dello Stato laico, p. 51
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DALLA MAGIA ALLA SCIENZA, p. 55 - 3.1 Il mago del Cinquecento, p. 55 3.2 La magia come trionfo dell'uomo, p. 57 - 3.3 I due limiti tra magia e scienza, p. 58 BERNARDINO TELESIO, p. 59 - 3.4 Il ritorno ai presocratici, p. 59 - 3.5 Il mondo e del tutto mondano, p. 60 GIORDANO BRUNO, p. 62 - 3.6 L'infinita del mondo, p. 62 - 3.7 La religione della natura, p. 64 - 3.8 L'eroico furore, p. 65 TOMMASO CAMPANELLA, p. 66- 3.9 Tra naturalismo e magia, p. 66 -3.10 Metafisica e antropologia, p. 67 - 3.11 La gnoseologia, p. 68 - 3.12 L'utopia politica, p. 70 · L'UMANESIMO scETTico IN FRANCIA, p. 71 - 3.13. Franc;:ois Rabelais, p. 71 - 3.14. Michel de Montaigne, p. 74 - 3.15 Pierre Charron, p. 76
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Gu ESORDI DELLA SCIENZA, p. 79 - 4.1 Jl mutamento culturale, p. 79 4.2 Leonardo da Vinci, p. 80 LA RIVOLUZIONE COPERNICANA, p. 83 - 4.3 Niccolo Copernico, p. 83 - 4.4 Giovanni Keplero, p. 86 GALILEO GALILEI, p. 87 - 4.5 Il caso Galilei, p. 87 - 4.6 La scienza, nuova filosofia, p. 91 - 4.7 Autonomia e limiti della ragione, p. 94 - 4.8 Il metodo, p. 95 - 4.9 L'eta galileiana, p. 96 FRANCESCO BACONE, p. 98 - 4.10 L'araldo dei tempi nuovi, p. 98 - 4.11 Il metoda baconiano, p. 101 - 4.12 L'ambivalenza di Bacone, p. 103
Capitola 5 CARTESIO, p. 107 - 5.1 Il progetto di una 'scienza universale', p. 107 5.2 Il metodo, p. 110- 5.3 Il punto archimedico della filosofia, p. 112 - 5.4 Dall'io a Dio, p. 114 - 5.5 Da Dio al mondo, p. 116 - 5.6 La fisica, p. 118 - 5.7 La psicologia, p. 120 - 5.8 La morale, p. 121. ATTORNO A CARTESIO, p. 123- 5.9 I 'libertini', p. 123- 5.10 Pierre Gassendi, p. 124 - 5.11 L'occasionalismo, p. 125 MALEBRANCHE, p. 126- 5.12 L'armonia tra fede e ragione, p. 126 -5.13 Superamento del dualismo, p. 127 - 5.14 Razionalismo teologico, p. 128 PASCAL, p. 129- 5.15 Pascale Port-Royal, p. 129- 5.16 Potenza e limiti della ragione, p. 132 - 5.17 La comprensione dell'uomo, p. 1345.18 La condizione umana, p. 136 - 5.19 La risposta apologetica, p. 137
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Capitolo 6
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LA RAGIONE BORGHESE, p. 142 - 6.1 L'espansione del razionalismo, p. 142 - 6.2 La prima rivoluzione borghese, p. 143 - 6.3 Ugo Grozio, p. 145 - 6.4 I temi del giusnaturalismo, p. 147 HoBBES, p. 148 - 6.5 Dalla metafisica alla meccanica, p. 148 - 6.6 Il materialismo metodologico, p. 150- 6.7 Il materialismo etico, p. 1526.8 Lo stato di naturae il contratto sociale, p. 152- 6.9 Il Leviatano, p. 154 NEWTON, p. 156- 6.10 Dalla metafisica alle scienze: l'ultimo passo, p. 156 - 6.11 Il metodo, p. 158 - 6.12 La legge di gravitazione p. 159 6.13 11 mondo e un sistema?, p. 160 - 6.14 La teologia, p. 161 LocKE, p. 162 - 6.15 La filosofia del huon senso, p. 162- 6.16 Il problema critico, p. 164- 6.17 Critica dell'innatismo, p. 165- 6.18 Origine e classificazione delle idee, p. 166 - 6.19 I gradi della conoscenza, p. 168 - 6.20 Lo stato di natura e il contratto sociale, p. 169 - 6.21 Poteri e limiti dello Stato, p. 171 - 6.22 Il cristianesimo ragionevole, p. 172 Capitolo 7
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SPINOZA, p. 176- 7.1 L'ideale matematico, p. 176- 7.2 La prospettiva morale, p. 178-7.3 La .sostanza, p. 180-7.4 La necessita, p. 182-7.5 L'antropologia, p. 183- 7.6 La questione politica, p. 186- 7.7 La religione, p. 188 LEIBNIZ, p. 190- 7.8 Un intellettuale europeo, p. 190- 7.9 Dalla logica alia metafisica, p. 192- 7.10 Dal meccanicismo al finalismo, p. 1957.11 La conoscenza, p. 197-7.12 L'armonia prestabilita, p. 199-7.13 Necessita e liberta in Dio, p. 200- 7.14 Necessita e liberta nell'uomo, p. 202 Capitolo 8 (Aldo Bondi) PANORAMA DEL SETTECENTO, p. 206 - 8.1 Le rivoluzioni 'materiali' del secolo, p. 206- 8.2 Una rivoluzione 'culturale'?, p. 208- 8.3 I 'lumi' e la borghesia, p. 210 - 8.4 Cronologia e geografia dell'illuminismo, p. 214 LA RIFLESSIONE EPISTEMOLOGICA, p. 217 - 8.5 Il quadro della ricerca scientifica, p. 217 - 8.6 L' empirismo teologico di Berkeley, p. 219 8.7 Il razionalismo tedesco, p. 224 - 8.8 L'empirismo scettico di Hume, 227 - 8.9 L'empirismo radicale di Condillac, p. 233 IL MITO DELLA NATURA, p. 236 - 8.10 Tra meccanicismo e vitalismo, p. 236 - 8.11 Anche la natura ha una sua storia, p. 239 - 8.12 Il sentimento della natura, p. 241 DALLA NATURA ALLA CULTURA, p. 243 - 8.13 La scoperta del 'milieu', p. 243 - 8.14 La funzione ideologica dell'idea di selvaggio, uomo di na-
VIII 0 lndice tura, p. 245 - 8.15 Dalla scienza dell'uomo alle scienze umanosociali, p. 249 Capitolo 9 (Aldo Bondi)
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LA RELIGIONE NATURALE, p. 253 - 9.1 11 deismo inglese, p. 253 - 9.2 La critica dell"entusiasmo' religioso, p. 258 - 9.3 La reazione dell'anglicanesimo ortodosso: Butler e Berkeley, p. 261 - 9.4 La religione naturale nello scetticismo di Hume, p. 264. IL DEISMO FUORI D'INGHILTERRA, p. 266- 9.5 La religione di Voltaire, p. 266 - 9.6 Tre opinioni diverse nell'illuminismo italiano: Muratori, Giannone e Genovesi, p. 270 - 9.7 Le scienze religiose in Germania e Francia, p. 273 L'ATEISMO, p. 276 - 9.8 11 «Testamento» di Meslier, p. 276 - 9.9 Materialismo ed ateismo: Diderot, La Mettrie, Helvetius, d'Holbach, p. 277- 9.10 11 «Vero sistema» di Deschamps, p. 282- 9.11 Primato morale degli atei?, p. 283. LA RELIGIONE DEL CUORE, p. 285- 9.12 Tramonto del cristianesimo?, p. 285 - 9.13 11 neo-cristianesimo di Rousseau, p. 286- 9.14 L'irrazionalismo di Hamann, p. 291 - 9.15 Lessing: la rivalutazione storicistica delle religioni positive, p. 292. Capitolo 10 (Aldo Bondi)
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LA 'sciENZA NuovA' m Vrco, p. 295- 10.1 La coscienza storica del Settecento, p. 295 - 10.2 Vico: la polemica antirazionalistica, p. 296 -10.3 Vico: metafisica e fisica, p. 299 - 10.4 La storia come scienza, p. 301 - 10.5 La sapienza poetica, p. 303 - 10.6 I corsi e ricorsi della storia, p. 305. L'IDEA m PROGREsso, p. 306 - 10.7 Fontenelle: il progresso della conoscenza, p. 306 - 10.8 L'abate di Saint Pierre: il progresso generale dell'uomo, p. 308 - 10.9 Turgot, ovvero l'esigenza di una nuova storia universale, p. 309 - 10.10 Lo storicismo di Herder in polemica coni 'lumi', p. 311 - 10.11 Condorcet: l'idea di progresso durante la Rivoluzione, p. 313. CARATTERI DELLA STORIOGRAFIA SETTECENTESCA, p. 315- 10.12 La 'Storia filosofica', p. 315- 10.13 Storia delle istituzioni e della societa civile, p. 317- 10.14 Lo sviluppo delle scienze storiche, p. 319. Capitolo 11 (Aldo Bondi) IL FONDAMENTO DELLA MORALE, p. 322 - 11.1 Mandeville: vizi privati, pubblica prosperita, p. 322 - 11.2 Shaftesbury e Hutcheson: l'autonomia del senso morale, p. 324- 11.3 Hume e Smith: la morale come simpatia, p: 325 - 11.4 La virtu come filantropia, p. 328 - 11.5 Dalla
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'virtu morale' alla 'virtu politica', p. 330 - 11.6 Rousseau: la civilta corrompe, la natura e buona, p. 333 - 11.7 Rousseau: la nuova educazione, p 336. UTOPIA E PROGETTO POLITICO, p. 338 - 11.8 Il ritomo dell'utopia, p. 338 11.9 Diritto di natura, p. 340 - 11.10 Il 'Contratto sociale' di Rousseau, p. 343- 11.11 Tra riformismo e palingenesi, p. 344- 11.12 La nascita dell 'economia politica, p. 348. INDIVIDUALISMO E COSMOPOLITISMO, p. 352- 11.13 L'esplorazione dell'io, p. 352 - 11.14 Arte e natura: la nascita dell'estetica, p. 354 - 11.15 Stato e garanzie individuali: Beccaria, p. 356- 11.16 Cosmopolitismo e .Pacifismo, p. 358. Capitola 12
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KANT PRECRITICO, p. 362 - 12.1 I 'maestri', p. 362 - 12.2 La fase naturalistica, p. 365 - 12.3 La fase metafisica, p. 367 - 12.4 La 'grande luce', p. 369. KANT: LA RAGION PURA, p. 371 - 12.5 Il problema critico, p. 371 - 12.6 La sintesi a priori, p. 374- 12.7 Estetica trascendentale, p. 376- 12.8 Analitica trascendentale, p. 377 - 12.9 La deduzione trascendentale, p. 378 - 12.10 l-o schematismo trascendentale, p. 380- 12.11 Dialettica trascendentale, p. 381. KANT: LA RAGION PRATICA, p. 385 - 12.12 L'a priori morale, p. 385 -12.13 L'imperativo categorico, p. 387- 12.14 I1 regno dei fini, p. 390 -12.15 I postulati della ragion pratica, p. 391 - 12.16 La filosofia della religione, p. 393- 12.17 La filosofia del diritto, p. 395- 12.18 La filosofia della storia, p. 397. KANT: IL SENTIMENTO, p. 399 - 12.19 L'ultimo anello del sistema, p. 399- 12.20 Il giudizio estetico: il bello, p. 401 - 12.21 Il giudizio estetico: il sublime e il genio, p. 402 - 12.22 Il giudizio teleologico: il finalismo della natura, p. 403. Capitola 13 L'IslAM NELL'ETA MODERNA, p. 407 - 13.1 Vicende storico-culturali, p. 407 - 13.2 Il ripiegamento esoterico, p. 408 - 13.3 La scuola di Isfahan. Sandra Shirazi, p. 410. L'INDIA NELL'ETA MODERNA, p. 412- 13.4 L'impero dei Mogol. Akbar, p. 412 - 13.5 Tra induismo e islamismo, p. 413 - 13.6 La terza fase del Vedanta: Villabha, p. 415 - 13.7 Il vishnuismo bengalese: Caitanya, p. 417 - 13.8 L'eclettismo. Il declino del pensiero indiana, p. 419. L'EsTREMO ORIENTE NELL'ETA MODERNA, p. 420 - 13.9 Sviluppi della 'Scuola della Spirito universale', p. 420 - 13.10 L'idealismo di Wang Shou-jen, p. 421 - 13.11 Diffusione del neoconfucianesimo in Estre-
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mo Oriente, p. 426 - 13.12 L'ingresso del pensiero occidentale in Estremo Oriente (XVI - XVII sec.), p. 427 - 13.13 La fase critica e fi. lologica del confucianesimo, p. 428 - 13.14 Il pensiero giapponese nei secc. XVII e XVIII, p. 430. Indice analitico
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LEGENDA 0 I rimandi interni al testo sono indicati dai numeri fra parentesi (che non siano quelli cronologici), di cui il primo indica il capitola del volume, il secondo il paragrafo. Quando il rimando e ad uno degli altri due volumi, se ne da indicazione con il numero romano premesso ai due numeri arabi. Per esempio, l'indicazione (III.2.3) vuol dire: volume terzo, capitola secondo, paragrafo terzo. 0 L'asterisco apposto ad un termine in neretto indica che ad esso e dedicata una scheda, collocata all'interno della stesso paragrafo, o, quando il caso lo richiede, in uno dei paragrafi immediatamente successivi. 0 Nella trascrizione dei termini delle lingue non occidentali, per non appesantire il testo, abbiamo seguito il criteria della massima semplificazione, adottando una grafia italianizzata nella misura consentita dall'uso non specialistico. Per i termini cinesi, data che Ia riforma con cui, nel 1958, Ia Repubblica Popolare Cinese ha introdotto nell'insegnamento e nella stampa l'uso dell'alfabeto Iatino (sistema Pinyin: Mao Zedong, invece che Mao tse-tung) ha avuto in occidente scarsa diffusione, ci siamo attenuti generalmente al sistema di trascrizione detto Wade-Giles, da noi piu nota. E nei casi in cui sia invalsa in occidente una grafia difforme (ad esempio, Lao tse), l'abbiamo preferita a quella piu rigorosa (Lao tzu).
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Sommario 0
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Sommario. I primi segni di una rivoluzione spirituale che avrebbe posto l'uomo al centro del mondo e della propria storia, si hanna gia nel poeta Francesco Petrarca, che ricerca negli antichi il modello di una humanitas adatta agli uomini nuovi, ormai estranei al richiamo del monachesimo (1.1). La passione filologica, cioe la passione peril patrimonio letterario degli antichi ricostruito mediante la lettura critica dei testi, e gia di per se una filosofia al cui centro c'e il primato dell'autenticita umana e del fervoroso operare nella citta terrena. Sono maestri di questa nuova humanitas i fiorentini Coluccio Salutati, Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Leon Battista Alberti, che fanno della loro citta un fecondo cantiere della nuova cultura (1.2). II pensatore che si serve della filologia per obiettivi di piu radicale rinnovamento e il romano Lorenzo Valla, che osa proporre una conciliazione tra l'insegnamento di Epicuro e quello di Cristo (1.3). La scelta umanistica trova la sua espressione piu profonda in Nicola Cusano, che in un periodo di gravi conflitti interni alla chiesa cerca un punta di prospettiva che unifichi le diversita senza annullarle (1.4). Su questa via egli utilizza le piu diverse tradizioni mistiche per elaborare la dottrina della 'dotta ignoranza', basata sui principia che il punta di vista onnicomprensivo e fuori della portata della ragione umana (1.5), e n punto di vista di Dio che e illuogo in cui gli opposti coincidono, in cui tutto il molteplice si trova in stato di implicazione (1.5). L'universo fisico non e che l'esplicazione di Dio e dunque e infinito come Dio (1.6). 11 dogma cristiano dell'Incarnazione si colloca su questa sfondo cosmico e fa da fondamento per una apertura senza limiti a tutte le tradizioni del pensiero umano, neUe quali si riflette quell'unico Verba che si e rivelato ai cristiani (1. 7). L'umanesimo e anche l'eta in cui si ricerca la conciliazione tra le chiese. Una premessa a questa riconciliazione doveva essere, secondo Gemisto Pletone, il rigetto dell'aristotelismo e il ritorno a Platone (1.8). Questa stesso obiettivo si propane Marsilio Ficino che traduce i dialoghi di Platone e le Enneadi di Plotino (1.9) e, sulla base della tradizione platonica e neoplatonica, costruisce una teologia il cui obiettivo e la dimostrazione dell'immortalita dell'anima (1.10) e lo sviluppo in sensa cristiano della dottrina platonica dell'eros (1.11). Meno vincolato all'eredita del platonismo e piu aperto alla multiforme tradizione della sapienza umana e Pico della Mirandola, memorabile anche per aver tracciato, in una specie di manifesto, l'ideale umanistico della nuova epoca, nel quale la qualita propria dell'uomo non e un"essenza' determinata, rna la liberta e cioe la capacita di farsi simile al bruto o simile a Dio.(l.12). Proprio in nome di questa liberta dell'uomo Pico si oppone alle forme di astrologia e di magia che gettano sull'uomo l'ombra scura del·determinismo, e perora un suo progetto di pace universale (1.13). Ma la tendenza platonica non e l'unica del '400. C'e un'altra tendenza, orientata a comporre dentro i confini 'laici' l'esperienza umana secondo l'insegnamento di Aristotele, che in questa secolo viene accolto e sviluppato in sensa naturalistico (1.14). Con una sua posizione originale emerge, in questo periodo, Pietro Pomponazzi, che elabora un umanesimo dalle rigorose basi naturalistiche e immanentistiche (1.15).
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L'umanesimo filologico 1.1. Francesco Petrarca. In una sua lettera del 26 aprile 1336, Francesco Petrarca (1304-1374) narra la sua ascensione sui monte Ventoso, in Provenza. Durante una sosta, egli scrive,
mi venne in mente di consultare il libro di S. Agostino, le Confessioni... Lo apro, per leggere que! che mi capitava ... dove prima affissai il mio sguardo era scritto: «E vanno gli uomini ad ammirare le alte cime dei monti e i flutti ingenti del mare e i vastissimi corsi dei fiumi e l'immensa distesa dell'oceano e il corso delle stelle, e di se stessi non prendono cura. Secondo lo schema medioevale, decidere di 'prendere cura di se' in modo pieno yoleva dire volgere le spalle al mondo ed entrare nella solitudine monacale. Cosi fara il fratello del Petrarca, Gherardo, che era con lui in quell'ascensione di montagna. La conversione del poeta di Laura invece segue un'altra strada, senza perder di vista il supremo fine della salvezza eterna: la strada dello studio di se, nelle dimensioni interiori dell'anima, in cerca del pieno svilur.po della propria umanita. Anche questa scelta conduce alia solitudine. La 'vita solitaria' (e il titolo di un suo opuscolo, del 1346) del Petrarca e, si, occupata dalla meditazione religiosa, rna trova il suo momento specifico nel confronto di se con i grandi spiriti del passato. E la solitudine del 'letterato', il cui momento-culmine e «dedicarsi alia scrittura e alla lettura, e, stanco dell'una ricercare nell'altra ristoro; leggere cio che scrissero gli antichi e scriver cio che leggeranno i posteri». A chi gli chiede perche nei suoi scritti egli sia «pieno di esempi antichi» Petrarca adduce due ragioni che, considerate insieme, ci offrono gia il modello di vita destinato a trionfare nell'imminente stagione umanistica: Nulla, in verWt, ha tanta presa sui mio animo quanto gli esempi degli uomini famosi. Mi piace, infatti, meditandoli, sentirmi pili grande, ed esperimentare se il mio animo abbia in se qualcosa di forte, di nobile, tale da renderlo indomito e invitto contro i colpi della fortuna, o se in malafede si sia illuso di essere tale. · La seconda e che io scrivo anche per me, e mentre scrivo avidamente vivo coi nostri antenati nel solo modo che posso; e costoro ai quali un'iniqua stella ha voluto ch'io fossi contemporaneo, dimentico, con grandissima gioia; e in questo adopero tutte le forze del mio animo: nel fuggire questi, nell'imitare quelli. Come infatti gravemente m'infastidisce Ia vista dei contemporanei, cosi il ricordo degli antichi, le !oro magnifiche gesta e gli illustri nomi mi riempiono di una gioia incredibile e immensa che, se fosse nota a tutti, susciterebbe in molti stupore del fatto che io mi diletti a stare coi morti piuttosto che coi vivi. II fastidio del Petrarca per i contemporanei non e il generico fastidio del monaco per il mondo, e la ripugnanza specifica contro la cultura del tempo, dominata dagli indirizzi naturalistici che avevano i loro centri a Padova, aBologna, a Parigi. II maestro riconosciuto in quegli ambienti universitari era an-
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cora Aristotele, ridotto pero agli insegnamenti della Logica e della Fisica. La Logica dava alimento al costume delle dispute puramente formali, ultima degradazione della scolastica, e la Fisica dava legittimazione alle ricerche sperimentali soprattutto in campo medico. Apparentemente segregate, il Petrarca era in realta partecipe, e con una sua singolare capacita di anticipazione, del mutamento di spirito che gia ferveva attorno a lui. La novita che stava maturando era quella del ritorno dell'uomo a se stesso, in diretto contrasto sia con le deviazioni di una dialettica senza piu contenuti reali, sia con un naturalismo il cui sottinteso ideologico era l'integrazione dell'uomo nell'universo fisico. E quiche trova sensa la via petrarchesca dell'interiorita, che non puo essere confusa con quella tradizionale dell'esperienza mistica. La convivenza con gli antenati stava diventando una via indiretta per recuperare i modi e le misure dell'uomo saldamente radicato dentro il tempo, operosamente integrato nella citta terrena. Nel chiudere una sua lettera a Giovanni Boccaccio (uno degli 'uomini nuovi' che vedevano in lui un maestro) il Petrarca scrive (ed era alia vigilia della propria morte): «se frattanto verra la fine della mia vita, vorrei, lo confesso, che rrii trovasse, come si suol dire, a vivere una vita gia armonicamente compiuta». L'idea che la vita possa essere 'armonicamente compiuta' non nell'aldila rna gia prima della morte, e un'idea relativamente nuova, che inutilmente si ricercherebbe, ad esempio, in sant' Agostino, di cui il Petrarca si professo sempre discepolo. Anche il filosofo di Tagaste ebbe, per dir cosl., il suo momenta umanistico, quando fu preso dalla lettura di Cicerone. Ma si tratto di un momenta di passaggio, dopo il quale egli non ebbe altro maestro che Cristo, altra meta che la vita eterna. In Petrarca il momenta ciceroniano, per quanta raccordato alla fede in Cristo, rimane un momenta autonomo. E cosi il momenta platonico. Egli non ebbe contatto diretto (non conosceva il greco) con le opere del grande discepolo di Socrate, se si eccettuano quelle che il Medioevo gia conosceva: il Timeo, il Fedone e il Menone. Lo conobbe attraverso Cicerone e attraverso Agostino. Riferirsi a Platone invece che ad Aristotele e per Petrarca un modo di prendere le distanze dai contemporanei e di affermare contra il loro andazzo naturalistico la centralita dell'uomo nell'universo. In questa suo libero muoversi tra Agostino, Cicerone e Platone il Petrarca da appagamento a un'altra sua esigenza: quella di ricomporre in una conciliazione formalmente armoniosa i suoi interrogativi di uomo voglioso di nutrimenti terrestri, di cui sono fecondi sia l'esperienza amorosa, sia la partecipazione al consorzio civile, e di uomo spirituale sinceramente teso alla trascendenza. Forte di quelle incontestabili 'autorita', egli poteva guardare con disprezzo «il rumoroso gregge degli scolastici», i circoli dei 'naturalisti' che cercavano la verita attraverso l'analisi del mondo fisico (<
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anch' essi alia perfezione cristiana, rna sgombri da ogni impulso di fuga dal mondo. Quel che essi cercano e propongono e una nuova humanitas, capace di armonizzare in se il duplice fine ultraterreno e mondano. Il periodo di settecento anni intercorso dalle invasioni barbariche non ha per loro nessun messaggio, anzi e una lunga stagione di tenebre che ha interrotto la luminosa conciliazione, avviata dai Padri della chiesa, tra l'umanita del vangelo e l'umanita dell'antichita classica. La passione, che gia fu del Petrarca, peril ritrovamento dei testi classici, non di rado rimasti prigionieri nelle polverose biblioteche abbaziali, e per la ricostruzione filologica di quelli che erano stati manomessi dall'imperizia o dalla malizia degli amanuensi, e l'espressione di questo bisogno di autenticita. Restituire a se stessa la parola manipolata vuol dire riscoprire l'intenzione vera dell'antico scrittore, e dunque la sua vera umanita, il suo universo. Il culto umanistico della parola non ha, se non nei casi di degenerazione, gli aspetti dell'arido grammaticismo. Esso e insomma un momento dell'itinerario che deve condurre, in virtu di una specie di simmetria fra !'antieo e il nuovo, a dar validita al modello di vita ormai richiesto, all'interno delle citta-stato e delle signorie, dal prorompere delle Ioro attivita economiche, legislative e politiche. Anche il Medioevo leggeva i filosofi e i poeti dell'antichita, rna li leggeva per uniformarli a se, sradicandoli dalla loro diversita storica e annientando l'orizzonte effettivo in cui essi avevano vissuto, operato e scritto, svuotandoli insomma proprio di quella umanita che ora, nella nuova stagione, viene ricercata come un modello da rinnovare, come una qualita di vita.da far rinascere, senza nulla detrarre all'ispirazione cristiana. In questa mutazione antropologica la filologia assume, dunque, un vero e proprio significato filosofico, anzi e essa stessa una filosofia, che si oppone a qualsiasi sistema metafisico, aile dispute puramente formali, aile catene delle auctoritates, che si fa, per dir cosi, filosofia dell'antifilosofia in nome del primato della volonta operosa, della saggezza morale e civica. Non stupisce che questo nuovo orientamenta dello spirito si affermi soprattutto in una citta come Firenze, che nei suoi ordinamenti e nelle sue attivita produttive ha creato, in anticipo sulle altre, le condizioni ideali per il ritorno dell'uomo a se stesso. _ Un anno dopo la morte del Petrarca, nel 1375, divenne cancelliere del Comune di Firenze Coluccio Salutati (1331-1406), capostipite riconosciuto dell'umanesimo filologico. In lui scompare anche quel desiderio della 'vita solitaria' che nel suo maestro, il Petrarca, era stata la riduzione umanistica dell'ideale monacale. La dedizione agli studia humanitatis non richiede uno spazio a se, perche a tenerla viva e lo zelo peril bene della citta. Prima che oggetto di zelo politico Ia citta e il consorzio umano a cui tutto dobbiamo, e che, col suo intreccio di parentele e di amicizie, di interessi e di ideali, e la vera patria dell'uomo, anche se non l'unica. In Coluccio e vivissima la fede nella citta eterna, solo che questa fede ha il suo vero Iuogo di esercizio nella citta terrena, con le gioie. che ci offre e Ie lotte a cui ci costringe. «Provvedendo, - cos! scrive in una sua Iettera - servendo, preoccupandoti della famiglia, dei figli, dei parenti, degli amici, della patria che tutto riabbraccia, non puoi non elevare il tuo cuore al cielo e non piacere a Dio».
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Ai suoi occhi l'ascetica monastica ha perso ogni valore esemplare, nonastante che egli fosse, proprio come il Petrarca, un fervido lettore di Agostino e nonostante che la sua etica sia, in larga parte, di ispirazione stoica. Le consolazioni e le trepidazioni della vita familiare sono piu conformi, per lui, allo spirito del vangelo che non la solitudine dei religiosi. L'attivita politica intesa a produrre buone leggi, a difendere la giustizia e l'onesta pubblica e la vocazione che meglio concilia e sviluppa le virtu umane e quelle cristiane. Come cancelliere, fu autore di lettere (le lettere erano lo strumento principale della politica estera delle citta italiane) che dettero a questo suo ideale una tale risonanza e una tale efficacia da essere ritenute piu temibili, come fu detto, di un esercito schierato in campo. E anche questo 'timore' e un segno del clima che si andava affermando. Discepolo del Salutati fu Leonardo Bruni (1370-1444) che del maestro sviluppo la dottrina sui primato delle virtu pratiche volte al bene comune, in polemica con le sopravvivenze della scolastica, dominate ormai dal naturalismo. Primato della volonta voleva dire, per lui, primato dell'uomo come operatore di storia. In questa ottica egli Jesse e interpreto sia Platone che Aristotele, traducendo del primo alcuni dialoghi a cominciare dal Fedone (1404) e del secondo l'Etica a Nicomaco (1417) e Ia Politica (1435). Attorno all'ideale della perfezione da raggiungere nella dedizione al bene della citta, Bruni stabilisce un'armonia tra Platone, Aristotele, Cicerone e i pensatori cristiani. Su questa via del primato del bene comune, in una citta come Firenze, ormai dominata dalla borghesia artigianale e commerciale, era facile che si arrivasse ad esaltare la ricchezza prodotta dal lavoro. E quanto fara Poggio Bracciolini (1380-1459) che nel suo De avaritia prende di mira con violenza l'ozio dei monaci e dei frati, i quali predicano la poverta agli altri e vivono nell'ozio: «Noi non costruiremo le citta con codeste larve d'uomini, che nell'ozio pill completo si mantengono col nostro lavorO>>. Ci sono in lui i presentimenti dell'utilitarismo moderno e perfino dell'etica capitalistica, quale esplodera col calvinismo, secondo cui il raggiungimento della ricchezza e un segno della benevolenza divina. Questa stessa visione utilitaristica, rna contenuta e svolta con un piu severo sentimento dei limiti dell'uomo e delle vicende cieche che minacciano la vita, si ritrova in Leon Battista Alberti (1404-1472), il grande architetto che con alcune sue armoniose costruzioni offri il modello all'imminente stagione rinascimentale. Anche per lui «l'uomo nacque per essere utile all'uomo». Ma egli colloca il compito umano sullo sfondo di un universo fisico e di un universo storico in cui ogni Iegge di ragione sembra assente, in cui il caso e la fortuna sono cosi onnipresenti che nulla si sottrae al loro gioco, sicche la vita umana parrebbe condannata alia vanita. Ma l'uomo e costruttore del proprio destino, al di sopra della fortuna e del caso, quando egli sappia opporre al cieco volgere degli eventi la virtu e cioe una condotta conforme a ragione. Vedremo tra poco come le nozioni di fortuna e di virtu saranno al centro della dottrina del Machiavelli. A questa signoria della ragione si ispirano i brevi trattati in cui !'Alberti traccia la tecnica che consente, mediante l'uso della matematica, di
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soggiogare e trasformare la materia. Con lo stesso sguardo egli osserva e progetta il mondo che l'uomo crea, con la sua azione produttiva e legislativa. La convivenza umana tratteggiata dall'Alberti e dominata, come uno dei suoi palazzi, dalle leggi dell'equilibrio e delle armoniose corrispondenze. Alla base della virtu c'e infatti il lavoro, che produce ricchezza e impone ordine e finalismo alla vita associata. Nei Libri della famiglia egli trasferisce nel quadro della comunita familiare dedita al lavoro il suo ideale geometrico: il padre di famiglia onesto e prudente (rna cos! si dica di ogni altro responsabile della convivenza tra uomini) sapra tenere in felicita serena coloro che gli sono affidati: questa conciliazione tra virtu e felicita e «quasi sublime preghiera a Dio>>. 1.3. Lorenzo Valla. Ma il pensato~e in cui trovano estremo svolgimento sia l'uso eversivo della filologia sia la conciliazione tra fede cristiana e felicita terrena fu Lorenzo Valla (1407-1457). Dal punto di vista filologico in nessun altro umanista fu cosi Iucida la coscienza degli effetti di liberazione che di per se hanna il recupero della parola nella sua autenticita contestuale, manomessa dalla tradizione, e il ristabilimento del nesso tra parola e cosa. Contra il carattere astratto e formalistico della logica aristotelica egli, nelle Disputazioni dialettiche, oppone una logica elementare, che consiste nella pura e semplice dilucidazione razionale del linguaggio. E contro Ia corruzione intellettuale operata dal Medioevo, nelle sue Eleganze egli propene una revisione del Iatino in uso, sulla base dei modelli classici della lingua latina. Questa ristabilimento della latinitas basta a far crollare le deformanti sovrastrutture della scolastica, che ebbero inizio, secondo lui, con Boezio. L'esito piu clamoroso del metodo filologico del Valla fu la dimostrazione, nel suo scritto Sulfa falsa donazione di Costantino (1440), deJ falso storico a cui si era soliti far risalire il potere temporale della chiesa. Nell'uso del suo metodo egli non si rattenne nemmeno dinanzi alla Sacra Scrittura: le sue Note sul Nuovo Testamento (1449) vanno considerate come premessa della grandiosa revisione a cui Erasmo, come vedremo (2.7), sottoporra i testi sacri, aprendo la strada, a sua volta, alla rivoluzione luterana. Dal punta di vista filosofico e teologico il Valla tento la pili incredibile delle conciliazioni: quella tra l'insegnamento di Cristo e l'insegnamento di Epicure. L'uomo e creato da Dio anima e corpo, per cui anche la tendenza fisica al piacere va considerata in se buona, a dispetto degli stoici, spregiatori degli impulsi della passione, e degli asceti, dominati da un ideale di perfezione che non ha niente di evangelico. Tra il piacere terrene, compreso quello dei sensi, e il piacere celeste che il cristiano persegue non c'e contraddizione rna continuita. Il Del Piacere (1431) del Valla e la pili diretta e la pili radicale confutazione dell'ideale di vita invalso nel Medioevo. Il suo bersaglio immediate e infatti il De consolatione philosophiae di Boezio, che egli prende di mira anche nel suo Libera Arbitrio (1439), demolendo gli argomenti, passati da Boezio al Medioevo, circa l'esistenza e la natura di Dio. Noi non conosciamo nulla di cio che si intende per eternita, prescienza, onnipotenza, chiusi come siamo nel tempo. Noi conosciamo solo, in Cristo, quale sia Ia volonta di Dio ed e a que-
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sta volonta che dobbiamo sottoporci per avere la salvezza: la fede e sottomissione fiduciosa alla volonta di Dio. Tesi che ritroveremo in Lutero e Calvina. Non c'e da stupirsi se il Valla resto, nella memoria della cristianita (il Concilio di Trento lo mettera all'indice), come un pensatore dissacrante, una specie di Voltaire del Quattrocento.
Nicola Cusano 1.4. II finito e l'infinito. Solo in un'eta vicina a noi, nel secolo scorso, si e capito che il senso della 'svolta umanistica' aveva trovato la sua piu completa e piu profonda espressione in un teologo-filosofo di grande statura, Nicola Cusano*, nel cui pensiero non ci sara difficile individuare i temi fondamentali del Rinascimento, anzi dell'intera filosofia moderna. Fa stupore che, con una
Nicola viene detto Cusano dal villaggio tedesco Cues, in cui nasce nel 1401. La sua formazione avviene iYJ. ltalia, soprattutto a Padova, dove domina, sotto ['influenza di Occam, !'interesse per i problemi naturalistici e matematici. Quando torna in Germania, all'Universita di Colonia, e gia entrato nella vita ecclesiastica. Partecipa, nel 1430, al Concilio di Basilea e da questa momenta ha un ruolo di protagonista nelle vicende agitate della Chiesa, divisa tra sostenitori dell'autorita monarchica del papa e sostenitori del primato del concilio quale organa di governo della chiesa (conciliaristi). Da posizioni vicine a questi ultimi egli passa, in breve tempo, a farsi sostenitore del primato pontificio e, anche per questa, ha incarichi di grande rilievo, come quello di recarsi in delegazione a Costantinopoli, per predisporre w1 concilio con all'ordine del giorno la ricomposizione tra chiesa cattolica e chiesa orientale. Questa breve soggiorno (tra il '37 e il '38) gli consente la conoscenza diretta degli esponenti della cultura greca, animata allora dal contrasto tra aristotelici e platoniti. E anche suo merito la partecipazione dei Padri greci al concilio di Firenze che sand, ma solo formalmente, l'unita tra le due chiese. La sua opera gli guadagno il favore dei pontefici e, finalmente, nel 1448, Ia nomina a cardinale, a cui fa seguito l'elezione a vescovo di Bressanone. Le cure pastorali gli procurano non poche noie, dalle quali lo sottrae l'amico Pio II chiamandolo a ricoprire la carica di vicario generate della Stato Pontificio. Muore a Todi nel 1464. Tra le sue opere, ricordiamo De docta ignorantia (1440}, De concordantia catholica (1433), De coniecturis (1440-45), L'idiota (1455), De pace fidei (1453}, De visione Dei (1453}, De beryllo (1458).
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vita movimentata e gravata di assillanti responsabilita, il Cusano potesse attendere a opere di grande respiro, alcune delle quali di alto impegno speculative, come il De Docta ignorantia (1440). Certo e che la varieta dei suoi ambiti di esperienza (l'Italia umanistica, la Germania mistica, la Grecia platonica) favori e arricchi di opportuni nutrimenti il suo progetto di una riconciliazione delle contraddizioni delle scuole filosofiche e delle tradizioni religiose dell'umanita. Testimone diretto del disfacimento della cristianita medioevale, egli seppe tracciare alla fede orizzonti universali di nuovo tipo, che hanna al loro centro alcune intuizioni destinate a influenzare le successive rivoluzioni culturali, come la cosmologia copernicana e la scienza galileiana. II quadro dei problemi da cui prende le masse il suo pensiero e ancora medioevale, con in pili una attenzione, esplicita o implicita, alle grandi dispute in cui nei primi decenni del suo secolo era venuta a trovarsi la cristianita, con i · suoi scismi, i suoi antipapi, i suoi contrasti su quale fosse, nella chiesa, la suprema istanza di giurisdizione. La sua prima opera, il De Concordantia, svolge - a partire dalla premessa che tutte le creature han trovato salvezza in Cristo e che la chiesa, corpo di Cristo, e il luogo storico di questa salvezza - un disegno che riconduce ad unita il cielo e la terra, l'invisibile e il visibile, la grazia e la natura ed ha il suo centro nella chiesa cattolica con la sua struttura comunitaria e gerarchica. Nel delineare i rapporti di reciprocita che legano l'una all'altra le realta ecclesiali e legano l'una all'altra la chiesa e l'intera creazione, il Cusano rivela la singolarita del suo pensiero che si fara pili chiara nell'opera successiva. I singoli aspetti della chiesa hanna sensa soltanto nella loro relazione con tutti gli altri, come il primato del Papa ha sensa solo in relazione con l'autonomia dei carpi minori e questi hanna sensa solo in relazione all'insieme del corpo ecclesiale. E cosi si dica di tutte le realta del mondo e della storia, che hanna sensa solo nella loro relazione con la chiesa, come questa ha sensa solo in relazione con l'intera creazione, e come chiesa e creazione hanna sensa solo in relazione a Dio, il quale abita nel suo mistero inaccessibile, rna abita anche all'interno della chiesa e di ogni suo singolo membra. L'originalita del Cusano e tutta qui, in questa funzione del pensiero che per un verso e in grado di riflettere, rispettandole, le diversita specifiche delle cose finite e per l'altro le risolve in un'unita che non e una sostanza a se stante, rna sussiste come armonia unificante dell'intero sistema delle relazioni tra le cose finite. Cosi egli utilizza e insieme supera le matrici mistiche del suo pensiero, come il neoplatonismo di Proclo e della Pseudo Dionigi o come il 'panteismo' di Meister Eckart. Nel metoda conoscitivo proprio della mistica le cose finite ·non sono che irradiazione dell'infinito e quindi non hanna altra verita che quella del simbolo esprimibile dell'Unita inesprimibile. Per Cusano tra finito e infinito si da coincidenza, in quanta l'individuo, e cioe il finito, ha sensa solo nel sistema delle sue infinite relazioni ed e in questa sistema di relazioni che l'infinito ha le sue concrete determinazioni. II finito e per Cusano illuogo dell'infinito, la sua determinazione accessibile al soggetto umano. Il modo con cui il finito realizza l'infinito e nel realizzare se stesso, la propria verita specifica. Solo che non si puo arrivare a conoscere quale sia questa verita specifica
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se non la si raccorda ad un'altra verita gia nota, come appare dal sillogismo, in cui si giunge alia conoscenza di un termine ancora non conosciuto passando attraverso un termine medio gia conosciuto. II che vuol dire, dunque, che un oggetto finito ha, si, una propria verita, rna questa non puo essere conosciuta se non passando ad un altro oggetto, ad esempio passando dall'effetto alia causa, e da questo ad un altro, in un itinerario che idealmente percorre l'intera trama delle cose finite. 1.5. La dotta ignoranza. Ma anche supponendo che questo itinerario possa essere condotto a termine, non viene meno la necessita di raggiungere una verita che sia non la pura sommatoria delle verita finite rna una verita infinita, onnicomprensiva, che non rimanda ad altro. Qui prendono chiarezza due tesi di fondo del Cusano: - il carattere congetturale di ogni nostra conoscenza, nel senso che, essendo in perpetuo movimento, essa rimane autentica solo come 'supposizione' (congettura) che puo essere soppiantata da un'altra ipotesi. E si capisce perche: data la relazione reciproca tra le verita finite, una nuova conoscenza potrebbe obbligarci a rivedere l'intero sistema di relazioni gia acquisito; - il carattere progressivo del conoscere, animato com'e dalla tensione verso la verita infinita, non fa che acuire la coscienza della inconoscibilita di Dio. E la docta ignorantia, l'ignoranza consapevole, che fa da perimetro alia conoscenza in atto. La nozione socratica della sapienza come 'sapere di non sapere' non viene adottata dal Cusano come deprezzamento del conoscere, rna come garanzia del carattere congetturale della conoscenza in atto e come enunciazione del salto di qualita che separa la conoscenza umana, legata alia trama del finito, e laverita infinita. II riconoscimento di questo divario non produce una caduta di tensione nel processo conoscitivo, rna, al contr,ario, diventa impulso a una sempre maggiore approssimazione alia verita totale. La conoscenza umana sta all'interno dell'infinito come un poligono dentro al cerchio in cui e inscritto: moltiplicando i propri lati, il poligono si approssima al cerchio senza mai coincidere con esso. La spinta all'approssimazione massima nasce dalla stessa necessita logica, dato che ogni realta finita manca di una sua precisa identita essenziale, come ne manca l'insieme delle realta finite. La ragione di questa identita e nel principia che ha posto in essere tutte le cose, e da cui, come da sorgente unificante, tutte le cose si snodano quali sue determinazioni finite. Tra queste realta e Dio loro causa non c'e alcun bisogno di essenze intermediarie, e tra le cose non c'e alcuna gerarchia che permetta di distinguerle in nobili e ignobili, in celesti e terrene. L'universo e unitario. L'unita deli'universo e fondamento della logica cusaniana. Perche possa essere compresa, una realta finita deve essere distinta da tutte le altre e insieme posta in relazione con tutte le altre. E proprio cos! che la ragione e costretta a salire verso punti di vista sempre piu comprensivi, capaci cioe di fondare sia la distinzione che la correlazione. Il punto di vista onnicomprensivo e fuori del finito e dunque fuori della portata della ragione. E inDio che gli 'opposti' hanno la loro coincidenza. Noi distinguiamo il nulla dali'essere, il massimo da~
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minimo e cosi via, rna la verita di queste determinazioni tra loro inconciliabili e in Dio, nel quale esse sono trascese e risolte in unita. Come avviene nella conoscenza matematica. Noi distinguiamo figura geometrica da figura geometrica e possiamo 'ragionare' indagando sia i caratteri di ogni singola figura, sia la possibilita di trasformarle l'una nell'altra. Ma c'e una conoscenza preliminare e indeterminata, quella di figura geometrica, logicamente anteriore ad ogni sua determinazione (di triangolo o di cerchio, ad esempio): quella figura coincide con la pura estensione spaziale, in cui tutte le distinzioni si risolvono e che si fa conoscibile solo nelle sue determinazioni molteplici. Se prendo un circolo e gli do un'estensione infinita, esso coincide con la linea retta e in questa retta coincidono tutti gli elementi del cerchio (centro, raggi, corda, circonferenza). Cosl. nell'ambito del finito ogni cosa e piu o meno di un'altra, rna nell'infinito ogni cosa ha una misura assoluta e in quanto tale coincide con le altre, come l'assolutamente massimo coincide con l'assolutamente minimo. Non vi puo essere che un solo massimo di tutti i massimi: massimo e poi cio a cui nulla si oppone, dove quindi anche il minimo e massimo. Dunque l'unita infinita e Ia complicazione di tutte le cose: ed essa si dice unita perche unifica tutto, e non solo essa e complicazione massima come !'uno lo e del numero, rna e massima perche complicazione di tutto. E come nella serie dei numeri in quanto sono esplicazione dell'uno, non si trova che !'uno, cosi in tutte le cose che sono non si trova che il massimo. Uno si puo dire anche il punto, in r
Da quanto si e detto emerge che per Cusano tra Dio e l'universo c'e coincidenza, rna una coincidenza che non ricalca le forme del panteismo. L'universo e posto in essere da Dio come 'esplicazione' (explicatio) di cio che in Lui e nello stato di somma implicazione (implicatio) e cioe di somma unita e semplicita. <
Tav. 1 II secolo dell'umanesimo. Schema sinottico
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Avvenlmentl politici
Cultura e tecnlca
Teologia - filosofia
1431 Valla: De vo/uptate 1437 II Cusano in missione a Costantinopol i 1439 Concilio di Firenze
1453 I Turchi conquistano Costantinopoli 1454 La pace di Lodi
1439 Brunellcschi finisce Ia CupoIa 1444 Beato Angelico: affreschi in San Marco 1452 Ghiberti: Porta del Paradiso
1479 Spagna: Ferdinanda e Isabell a sovrani 1480 Milano: Lodovico il Moro
1449 Alberti: Trattato di architettura 1453 Cusano: La pace della fede
1455 Gutenberg stampa Ia Bibbia
1455 Giorgio di Trebisonda: Confronto tra Platone e Aristotele
1478 Botticelli: La primavera
1462: Firenze: nasce l'Accadcmia platonica 1470 Alberti: Del Governo domestico 1472 A Padova: traduzione in Iatino di Averroe 1477 Ficino: I dia/oghi di Platone
1480 Poliziano: Orfeo 1483 Leonardo: La Vergine delle rocce
1482 Ficino: TheoloJ!,ia platonica
1461 Pio II scrive a Maometto II 1478 Firenze: congiura dei Pazzi
1440 Cusano: De docta ignorantia
1485 Inghilterra: Enrico inizia Ia dinastia dei Tudor 1492 Marte di Lorenzo il Ma- 1492 Viaggio di Colombo gnifico. I Medici cacciati da Firenze. Alessandro VI Papa 1494-5 Carlo VIII in Jtalia 1497 Leonardo: L'ultima Cena 1498 Supplizio del Savonarola 1498 De Gama: Ia via alle Indie 1500 Iran: dinastia dei Safa- 1503 Leonardo: La Gioconda widi 1507 Muore Cesare Borgia 1512 Tornano i Medici a Fire·renze 1513 Leone X Papa 1516 Ariosto: L'Orlando Furioso 1518 Tiziano: L'Assunta
1486 Pica della Mirandola: le 900 lesi e il De hominis dignitale 1491 Ficino: Enneadi di Plotino 1496 Pico della Mirandola: Contro /'astrologia
1509 Erasmo: Elogio della paz:.zia 1510 Agrippa: La filosofia occulta 1513 Machiavelli: ll principe 1514 Las Casas si converte alia causa degli indios Pomponazzi: De immortalitate animae Mora: Utopia 1517 Lutero: le 95 tesi
1519 Carlo V imperatore. Cor- 1519 Magellano: Ia prima circumtes conquista l'impero aztenavigazione co 1525 Esecuzione di Thomas Miintzer
1523 Svizzera: Riforma di Zwingli 1524 Erasmo: Sui Iibera arbitrio 1525 Lutero: Sui servo arbitrio 1526-44 Francisco de Vitoria insegna a Salamanca
1527 Sacco di Roma 1528 Paracelso: Tre libri di chirurgia 1529 I Turchi assediano Vienna 1530 La •Confessione Augustana»- Caduta della Repubblica di Firenze 1534 Inghilterra: «At to di su- 1534 Michelangelo: tombe medicee prernazia» 1535 Telesio si laurea a Padova 1536 Ginevra calvinista 1536 Michelangelo comincia il «giudizio universale ')
1532 Rabelais: comincia Gargmttua e Pantagruel 1534 Vasalio: De corporis humani fabrica 1536 Calvina: Jstituziorte della religione cristiana
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tativa tra il mondo sublunare e il mondo sopralunare, corruttibile il primo, incorruttibile il secondo. La stoffa dell'universo e una sola, come una sola e la forza che genera il movimento degli astri e della terra, la quale e anch'essa un astro e un astro luminoso come le stelle, se potesse essere osservata in lontananza. Questa forza e !'impetus e cioe la tendenza di ogni corpo a perseverare nel suo movimento se non impedito da ostacoli (Iegge di inerzia della meccanica moderna). L'altro carattere 'aristotelico' e Ia finitezza del mondo. Per Cusano il mando «ha il centro dappertutto e Ia circonferenza in nessun luogo». II mondo e dunque infinito, e la explicatio dell'infinita di Dio che e l'implicatio del mondo infinito. Di qui un corollario che da solo mostra l'ardimento del pensiero del Cusano: le contraddizioni in cui si impiglia Ia nostra esperienza - prima tra tutte quella tra la bonta del mondo creato da Dio e l'esistenza del dolore e del~ Ia morte - sono dovute al fatto che noi pensiamo con le categorie del finito una realta Ia cui verita e nell'infinito, osiamo piegare Ia provvidenza a garantire alia terra in cui viviamo un finalismo razionalmente comprensibile, mentre il finalismo misurato sull'infinita di Dio e quello dell'universo infinito, dove ci sono anche probabilmente altri astri abitati da intelligenze diverse dalla nostra. Questa finalismo razionalistico e un errore che abbiamo ereditato dagli antichi, i quali «hanno trascurato di considerare che tante stelle senza numero piu grandi di questa terra che rioi abitiamo, e tante intelligenze, non possono essere state create per rimanere subordinate ai fini di questa mondo». Sembrerebbe che, collocato su questa sfondo infinito, l'uomo, abitante di un astro tra altri innumerevoli astri, debba perdere Ia sua centralita nell'universo. Non e cosi. Come dimostra l'Incarnazione del Verbo nell'uomo Gesu, Dio ha deciso di contrarre l'infinito nell'uomo finito, il quale percio, in quanta ragione, e in grado di misurare l'universo. E proprio questa connessione tra il finito e l'infinito e perfetta in Cristo (il quale assume dunque le dimensioni di 'uomo cosmico'), imperfetta e progressiva in ogni creatura umana, che e sempre una contrazione della totalita, un presentarsi dell'infinito nel finito. Ricomponendo nella sua mente (mens, secondo Cusano, viene da mensura) Ia molteplicita nell'unita, l'uomo ascende via via verso un ideale di coincidenza con l'Uno che in se riduce; ad unita tutta Ia molteplicita dell'universo. La natura umana e stata posta da Dio al di sopra di tutte le cose e poco al di sotto degli angioli, perche complica Ia natura sensibile e quella intellettuale e comprende in se tutte le cose onde giustamente dagli antichi e detta microcosmo, cioe piccolo mondo. Percio essa e quella che, se fosse elevata all'unione col massimo, sarebbe Ia pienezza di tutte le perfezioni dell'universo e delle cose singole, le quali in tal caso otterrebbero attraverso l'umanita il grado supremo.
1.7. L'ideale ecumenico. Ed ecco un altro aspetto dell'umanesimo del Cusano: l'uomo va verso Dio non negando se stesso rna accettando se stesso, le leggi interne della propria natura razionale, tra le quali c'e anche quella del trascendimento di se nel riconoscimento della trascendenza di Dio. Ma in questa trascendimento l'uomo e ancora se stesso, anzi realizza l'infinita di cui e la forma contJ;"atta. In sintesi, l'appello di Dio all'uomo e questa: sii tuo ed io sa-
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ro tuo. E su questa base antropologica che i1 Cusano sviluppa l'intuizione che stava al centro della sua prima opera, De Concordantia catholica; il cristianesimo e
Marsilio Ficino 1.8. Platone o Aristotele? La grande sintesi del Cusano era cresciuta su se stessa, nutrendosi, si, della cultura del suo tempo, rna sovrastandola e, appunto per questa, aprendola sui futuro. Ma lo slancio vitale che anima il nuovo tempo storico, di cui quella sintesi e la massima espressione filosofica, trionfa per altre vie che non quelle del puro pensiero e si avvale di circostanze di ogni genere e di intrecci in apparenza puramente casuali per dar vita a una specie di convergenza tra gli spiriti, anche tra quelli in contrasto tra lora. E in questa coralita che si rivela quella novita epocale che siamo soliti chiamare umanesimo. Fu anche merito del Cusano, come si e detto, se nel 1439 giunsero a Firenze, per partecipare al Concilio, numerosi sapienti 'orientali' al seguito dell'imperatore Giovanni Paleologo. Tra di essi primeggiavano Giorgio Gemisto Pletone (1370-1452) e Giovanni Bessarione da Trebisonda (1395-1472), .che, convertitosi al cattolicesimo, terra a Ravenna, dove fu cardinale, una corte fastosa e aperta. all'ospitalita culturale. Gemisto introdusse a Firenze il culto di Platone, gia conosciuto nelle traduzioni del Bruni, rna piu sulla spinta di interessi filologici che con passione filosofica. Solo che il Platone di Gemisto non era, per dir cosi, il Platone storico, era un Platone miticizzato (invece che 'fratelli in Cristo', Gemisto amava dire 'fratelli in Platone'), amplificato nelle interpretazioni
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di Plotino e di Proclo e contaminate da apporti esoterici di tipo magicoreligioso. Gemisto era convinto che per realizzare l'unita tra le due chiese bisognava sbarazzarsi dell'influenza di Aristotele, particolarmente grave nella teologia occidentale. Scrisse perci<), proprio in quell'anno 1439, un opuscolo veemente, dal titolo: Sulla differenza tra la filosofia platonica e quella aristotelica. Piu tardi, in difesa di Aristotele scese in campo, preceduto da altri di minore importanza, Giorgio di Trebisonda, detto anche il Trapezunzio (13961484), con uno scritto dal titolo Confronto tra Platone e Aristotele, del 1455. Per demolire gli argomenti del difensore di Aristotele prese la penna il Bessarione. La sua replica, Contra il calunniatore di Platone, usci, in quattro libri, nel 1458 e riaccese il dibattito. 1.9. L'Accademia platonica. I protagonisti del contrasto erano comunque estranei alia tradizione culturale italiana. Degli aristotelici italiani diremo tra poca, in questo stesso capitola. Un fecondo innesto del platonismo bizantino sulla cultura nostrana avvenne proprio a Firenze, ai margini del Concilio. Gemisto Pletone aveva contagiato del suo entusiasmo il grande mecenate Cosimo dei Medici, che vagheggi<'> l'idea di far rinascere a Firenze l'antica Accademia platonica. L'idea prese corpo qualche anno piu tardi, quando Cosimo mise gli occhi sul giovane figlio del suo medico personale, il figlinese Marsilio, detto Ficino* (1433-1499), la cui formazione, per la verita, era stata piuttosto aristotelica. Nel 1462 Cosimo don<'> a Ficino la sua villa di Careggi perche vi si ritirasse a studiare e a tradurre le opere di Platone e dei neoplatonici. In quella villa (rna anche altrove, perfino nella foresta di Camaldoli) si riunivano, attarno al Ficino, uomini come Cristofaro Landino, Pico della Mirandola, Leon Battista Alberti, Giuliano e Lorenzo dei Medici. Era l"Accademia fiorentina' o 'platonica' (un gruppo informale piu che una istituzione) alla quale il Ficino, tutto preso nella sua immane fatica di traduttore, forniva in prosa latina la luce delle fonti. Nel 1477 avea gia portato a termine la traduzione dei Dialoghi di Platone (al cui commento attese per altri venti anni); nel 1486 quella delle Enneadi di Plotino (e anche di queste compose un commentario). Nel frattempo aveva tradotto il Pimandro di Mercurio (o Ermete) Trismegisto, uno scritto attribuito alla piu remota antichita egizia, rna in. realta prodotto dalla cultura gnostica di eta piu recente. La sua opera di traduttore di estese a molti altri testi del neoplatonismo piu tardo e si accompagn<'> alIa elaborazione di opere ispirate tutte al progetto di offrire Ia conciliazione tra
Marsilio Ficino nasce a Figline, nel 1433, da una famiglia di medici. Dopa aver studiato grammatica, medicina e leologia, comincia nel 1456 lo studio del greco. NeZ 1462, nella- Villa di Careggi messa a sua disposizione da Cosima il Vecchio, da inizio a quella che venne detta Accademia platonica. Diventa sacerdote nel 1473 e nel 1487 canonico della cattedrale. Quando i Medici vengono cacciati, nel 1494, Marsilio si ritira in campagna e lorna a Firenze solo per morirvi, nel 1499.
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platonismo e cristianesimo, in una specie di Summa che neiie sue intenzioni doveva sostituire quella di Tommaso d' Aquino, per la quale, peraltro, egli ebbe sempre una gran4e ammirazione. · Il platonismo ficiniano non rivda nessuna preoccupazione di vincolarsi ai testi dell'aritico Maestro; piu che rifarsi alla sua autorita, il Ficino si rifa a tutto l'universo spirituale nato da lui e concentrato soprattutto in Plotino (utilizzando una frase del Vangelo, egli fa dire a Platone, con riferimento a Plotino: «questi e il mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo! »). L'idea di fonda che lo guida in queste perlustrazioni dai confini imprecisi e quella deli'universalita del Logos. Prima di farsi carne in Cristo, il Logos ha comunicato la sua luce a tutte Ie creature, ispirando, in varieta di modi e di tempi, i grandi pensatori di tutti i popoli, specialmente quelli che, come Platone e i suoi 'figli', hanno posto !'idea di Logos al centro della !oro visione del mondo e della lora vita.
E avvenuto - egli scrive - che una certa pia filosofia nascesse un tempo presso i persiani sotto Zoroastro. e presso gli egizi sotto Mercurio. in ambedue i luoghi conforme a se stessa, e si nutrisse poi presso i Traci con Orfeo e Aglaofemo, crescesse ben presto sotto Pitagora presso i Greci e gli italici e finalmente trovasse il proprio compimento ad Atene, per opera del divino Platone. Cosi identificata, Ia 'pia filosofia' non poteva che avere il suo sbocco naturale nella religione cristiana, diventando in tal modo una docta relir;io. Gli scritti del Ficino (che nel frattempo si era fatto ordinare sacerdote) non sono che uno sviluppo di questa intuizione fondamentale. Importanti tra di essi la Religione cristiana del '74 e la Teologia platonica dell"82. 1.10. La teologia platonica. Non ci sono in Ficino gli ardimenti metafisici ne le intuizioni folgoranti del Cusano. Prevale in lui l'intento apologetico. Data la piega presa, come subito vedremo, dall'aristotelismo, aveva perso di efficacia la sintesi di Tommaso d' Aquino e in particolare la sua dimostrazione dell'immortalita dell'anima, costruita su di un impianto concettuale derivato da Aristotele. Una verita cosi fondamentale per la religione cristiana, a giudizio del Ficino, avrebbe trovato un fondamento molto piu incontestabile nella tradizione platonica. Ed e soprattutto dell'anima che Ficino tratta nella Theologia platonica de immortalitate animarum, deducendone l'esistenza e le qualita essenziali secondo il procedimento di Platina e di Proclo, che fan derivare tutta la realta dall'Uno (I. 8.2.7): per emanazione, il prima, per processione il secondo. Egli ripropone il quadro neoplatonico della realta con alcune variazioni richieste dalla salvaguardia della fede cristiana. 1. Anche per Ficino la realta corporea e un limite dell'essere, una molteplicita infinitamente divisibile e priva perci<'> di un qualsiasi principia di determinazione, come dire inconoscibile. 2. Le qua/ita corporee - come la bianchezza e la durezza - non sono inerenti alle case e perci<'> non si conoscono per una modificazione subita dai sensi, sono al contrario forme interne all'anima, che nella percezione le fa aderire
16 D 1 - Marsilio Ficino aile cose producendo una determinazione immaginativa su cui agira la comprensione razionale. 3. Mentre le qualita corporee sono reali in quanto aderiscono alle cose, !'anima e una unita che sussiste in se stessa, come il centro sussiste, sl, in rapporto ad una circonferenza rna, in quanto e un punto, ha in se la sua ragione di essere. Vivendo in se stessa e di se stessa, !'anima e rivolta da una parte alIa molteplicita corporea, sulla quale imprime, come si e detto, le forme unificanti delle qualita, e per l'altra e rivolta ai modelli eterni: percio pub essere definita a huon diritto il centro della naturae dell'universo, Ia catena del mondo, il volto del tutto, il legame e il vincolo di tutte le cose.
4. Le intelligenze angeliche (gli angeli) riflettono in se le idee di Dio rna, separate dalla materia, non hanno conoscenza delle cose materiali e molteplici. 5. Dio, come aveva insegnato Plotino nelle Enneadi, e l'essere in atto e, in secondo luogo, e emanazione dell' essere che si partecipa, di grado in grado, al mondo molteplice fino all'estrema sponda della materia, cos! come il fuoco e innanzi tutto fuoco in atto, ha cioe le qualita interne che lo rendono fuoco, e in secondo luogo e l'irradiazione del calore che si diffonde con intensita degradante. Sotto il primo aspetto Dio e l'essere trascendente, causa e principia di tutte le cose e come tale separato da esse; nel secondo aspetto egli e interno a tutte le cose, anche a queUe materiali, «come se il falegname fosse nellegno». Diciamo di passaggio che a quella visione immanentistica di Dio sono connesse le simpatie di Ficino per la magia e l'astrologia, anche nelle loro espressioni piu superstiziose. Dell'argomento egli si occupo nell'opera De vita, del 1489. 1.11. Amore e Bellezza. Come si vede, l'anima dell'uomo e al centro dell'universo, capace di muoversi in alto verso Dio e in basso verso la materia e di accogliere in se, nel modo piu propizio, l'intera scala degli esseri: essa e una come Dio, e dotata di intelletto come gli angeli, ha la ragione come sua qualita specifica, ha i sensi come i bruti, si nutre come le piante, e col semplice essere si apparenta alle cose inanimate. In questo schema neoplatonico Ficino inserisce una 'variante cristiana', attribuendo a Dio volonta e liberta e dunque sottraendo l'universo alla necessita dell'emanazione per collocarlo nella contingenza dell'atto creativo. E. proprio in base a questa modifica (che peraltro non appare sempre chiara nellinguaggio ficiniano) che ritrovano illoro spazio le categorie fondamentali della rivelazione cristiana, come la grazia, e cioe l'amore gratuito di Dio per le sue creature, l'incarnazione e la salvezza, quale ricomposizione di tutte le anime nel loro Principio. Il viaggio verso Dio e diventato possibile perche Dio, in Cristo, si e fatto simile agli uomini per renderli partecipi della sua stessa vita. L'immanenza di Dio in tutte le cose, che aveva animato, in modo parziale e molteplice, la sapienza degli antichi, diviene, nella luce del Verbo (il Dio di Ficino e, naturalmente, trinitario), autocosciente e promuove quell'impulso di amore da cui, come bene avevano spiegato Platone e i suoi discepoli,
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prende inizio e forza di svolgimento l'ascesa dell'uomo verso quel Dio che, in virtu dell'amore, e disceso fino a lui. A differenza di Plotino e dei neoplatonici, che facevano di Dio soltanto l'oggetto supremo dell'amore, Ficino ne faun soggetto che, per Iibera elezione di amore, trae dal caos le cose, con l'atto creative, e le conduce a se, con l'azione redentiva. C'e dunque una circolarita tra i due amori, un intreccio dove trovano il loro posto, non sempre bene armonizzate, le grandi intuizioni platoniche e la novita evangelica e dove acquista legittimita quella forma di amore che, nell'uomo, si esprime nella capacita di percepire e di creare la bellezza. La bellezza e prodotto di amore e insieme la forza attrattiva che lo produce. Mentre i neoplatonici vedevano nell'universo sensibile lo sfondo oscuro della materia, su cui si stendeva, affievolendosi, la luce dell'Uno, il cristiano Ficino sa che, in virtu dell'atto creativo, quella luce e interna alia materia e perfino ai suoi impulsi istintivi. La bellezza, che prende volto sia nelle creature che negli oggetti prodotti dall'uomo, non fa che rendere trasparente questa universale inabitazione di Dio. La potenza creativa dell'uomo non fa contrasto con lo slancio contemplative perche ha radice nella medesima sorgente dell'eros. Siamo aile soglie del Rinascimento, che a Firenze ha gia prodotto il suo mondo armonioso, dalla cupola del Brunelleschi alia Primavera del Botticelli. II platonismo cristiano di Ficino, le cui opere ebbero, non a caso, un'enorme diffusione in Europa (2.9), e la filosofia di questo momento aurorale della grande eta del mondo occidentale.
Pico della Mirandola 1.12. L'uomo come 'microcosmo'. Nel 1484 si stabili a Firenze un giovane poco piu che ventenne- era nato nel 1463- che due anni prima aveva preso contatti epistolari con Ficino: Giovanni Pico, conte della Mirandola e Concordia, nel ferrarese. Assecondando una irrequietezza intellettuale e una versatilita precocissima che rie avrebbero fatto !'enfant prodige del suo secolo, studio a Padova, a Pavia e perfino a Parigi, presso i migliori maestri, il pensiero di Platone, di Aristotele, di Averroe e la tradizione filosofica islamica ed ebraica, aiutato d.a una rara conoscenza delle lingue orientali. Questo suo enciclopedismo obbediva ad un preciso intento: quello di mettere in armonia, sulla base delle verita emerse col cristianesimo, tutte le tradizioni teologiche e filosofiche dell'umanita, comprese quelle esoteriche (gnostiche, caldaiche, cabalistiche), e compreso il pensiero medioevale, che egli difese in una famosa lettera a Ermolao Barbaro, che aveva giudicato rozzo quel pensiero in quanto mancante di finezza letteraria. Dette forma al suo progetto convocando a Roma, per l'Epifania del 1487, i dotti di tutto il mondo a confrontarsi su 900 tesi da lui preparate. II suo sincretismo non piacque al Papa Innocenzo VIII, che condanno 17 delle sue proposizioni. Dopo un intervallo burrascoso, egli cerco pace nella vita claustrale rinunciando aile sue ricchezze e vestendo, ormai in punto di morte, avvenuta nel 1494, il saio domenicano.
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Per difendersi dall'accusa di eresia, Pico aveva scritto una Apologia, inserendovi anche l'orazione inaugurale del congresso filosofico romano da lui vagheggiato, l'Oratio de dignitate hominis. Nel 1489 pubblico l'Heptalus, un commenta ai primi capitoli della Genesi e nel 1492 il De ente et uno, un tentativo di conciliazione tra platonismo e aristotelismo. Dopo la sua morte furono pubblicate le Disputationes adversus astrologos e le Conclusiones, un commento aile 900 tesi della disputa romana. Per quanta ne abbia subito il fascino, Pico non resta pago del platonismo del Ficino, tutto chiuso, nonostante la vena esoterica che lo percorre, nella razionalita metafisica e troppo dominato da intenti devoti e apologetici. Egli non soffre i confini di una precisa scelta filosofica, fedele alla sua convinzione di una verit.a presente in tutte le forme del pensiero umano, di tutti i tempi e di tutti i luoghi, specie in quelle rimaste fuori delle sintesi via via egemoniche. La sua predilezione per la cabala ebraica e un sintomo di questa suo 'furore universalistico'. E tuttavia egli e ben radicato nella spirito del suo tempo, e cioe in quella opzione del primato e della centralita dell'uomo nell'universo che e il presupposto filosofico fondamentale dell'umanesimo. Anzi, in lui Ia centralita dell'uomo si Iibera dalla concatenazione gerarchica illustrata da Ficino e diventa centralita creativa, non chiusa in un punta determinato della scala degli esseri, rna capace di percorrerla in alto e in basso, secondo le scelte della liberta. E questa il sensa nuovo della sua Oratio de dignitate hominis, considerata a giusto titolo come il 'manifesto del Rinascimento'. Vi si Iegge: Stabill. perci<) alla fine l'ottimo Autore che a colui a! quale non poteva esser dato nulla di proprio, fosse comune tutto cio che era stato dato ai singoli in particolare. Prese dunque l'uomo, opera della figura indistinta, e postolo nel mezzo del mondo, cosl gli parlo: <<0 Adamo, noi non ti abbiamo dato ne una sede determinata, ne un aspetto proprio, ne alcun dono particolare, affinche tu possa avere e possedere quella sede, quell'aspetto, quei doni che tu abbia coscientemente bramati, secondo il tuo desiderio e secondo il tuo sentimento. La natura degli altri viventi gia definita e costretta entro leggi da noi prescritte: tu, non limitato da alcuna costrizione, potrai, secondo il tuo arbitrio, al cui potere io ti affidai, definire la tua natura ... Noi non ti abbiamo fatto ne celeste ne terreno, ne mortale ne immortale, affinche tu, quasi arbitrario ed onorario plasmatore e fondatore di te stesso, possa collocarti in quella forma che tu avrai preferita. Potrai degenerare verso i gradi inferiori che sono bruti; potrai rigenerarti nei gradi superiori che sono divini, secondo Ia decisione del tuo animo ...
Non solo, dunque, l'uomo accoglie in se, come 'microcosmo', tutti gli elementi del grande cosmo, rna- ed e qui Ia novita pichiana- egli non e legato a nessuna natura definita, la sua esistenza none circoscritta da un'essenza immutabile rna e, essa stessa, in qualche modo, la propria essenza: l'uomo sara que! che vuol essere. La liberta none dunque soltanto una qualita dell'uomo, e il suo stesso principia costruttivo, svincolata da ogni determinismo e creatrice delle sue stesse concrete determinazioni. 11 che non vuol dire che essa resti librata, come in certi esistenzialisti del nostro tempo, nel puro vuoto; le sue possibilita hanna come preciso orizzonte di riferimento la scala dell'universo, da Dio ai bruti.
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1.13. L'utopia della pace. Questa modo di intendere Ia dignita dell'uomo ispira a Pica Ia polemica contra il determinismo dell'astrologia che, derivata dagli antichi e specie dagli arabi, aveva ancora un grande peso nella cultura occidentale. Egli distingue due tipi di astrologia: quella matematica o speculativa, che ha come suo oggetto Ia comprensione e la descrizione delle leggi che regolano l'universo (e, insomma, la moderna astronomia), e quella divinatoria o giudiziale, che, scrutando il corso degli astri, presume di render canto delle vicende umane e addirittura di prevederle, svuotando cosi l'uomo di ogni responsabilita e di ogni dignita. Col far dipendere l'uomo dal mota dei cieli, l'astrologia sovverte l'ordine delle case che, come si e detto, consente all'uomo di elevarsi al di sopra dei cieli. Diverso e l'atteggiamento di Pico nei confronti della magia e della cabbala (1.11.2). C'e, si, una magia che si basa sulla complicita con i demoni ed e di per se esecranda, rna c'e una magia che si basa sulla 'simpatia' che !ega tra lora tutti gli elementi dell'universo: i maghi, coi lora sortilegi, penetrano nei recessi di quetla simpatia, per asservire ai progetti liberamente posti dall'uomo le energie che guidano le vicende della natura. Se Ia magia ha Ia chiave che introduce nei segreti del mondo, la cabbala ha la chiave per introdurre nei segreti di Dio. Partorita da una sapienza antichissima, anteriore al cristianesimo, Ia cabbala permette di decifrare il sensa delle scritture, alzando il velo dei simboli. Tanta disponibilita a far proprie dottrine e tradizioni tra !oro cosi diverse obbedisce in Pico alla sua generosa utopia di una pace universale da affidare, si, al cristianesimo, rna a un cristianesimo inclusivo di tutta l'eredita sapienziale accumulata dall'umanita. Giocando col titolo nobiliare di Pico, il Ficino lo aveva chiamato <
L' aristotelismo umanistico 1.14. Le due 'sette' aristoteliche. Il periodo che va dalla seconda meta del quattrocento a tutto il secolo successivo e dominato dalla disputa tra aristotelici e platonici, rna in realta ad agitare gli animi e gli intelletti sono due opposte esigenze, che si rivelano attraverso le mentite spoglie della preferenza militante per l'uno o l'altro dei due maestri assoluti della tradizione filosofica. La prima esigenza e la difesa della religione, uscita ormai dai quadri politici, so-
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ciali ed economici della cristianita medioevale, l'altra e la ricomposizione della razionalita umana, specie in rapporto all'indagine della natura, dentro i confini 'laici', dove non hanna piu sensa gli apporti della rivelazione cristiana. II platonismo sembrava rispondere meglio alla prima esigenza, come aveva dimostrato il Ficino, l'aristotelismo alia seconda. A rinvigorire le due tendenze aveva giovato la svolta filologica, un cui frutto cospicuo fu il confronto diretto, 'faccia a faccia', come disse il traduttore di Aristotele, Leonardo Bruni, con i testi antichi sia dei due massimi filosofi che dei lora commentatori. Il 'concilio di Firenze del 1439 e poi l'immigrazione in Italia di molti intellettuali greci dopa la caduta di Bisanzio (1453) avevano posto al servizio della cultura italiana ed europea, come abbiamo gia accennato, il patrimonio linguistico e filosofico dell'oriente. Si e gia detto del contrasto tra Gemisto Pletone e Giorgio di Trebisonda (1.8), condotto in nome della conformita o meno di Platone e di Aristotele alia ortodossia cristiana e si e gia detto del tentativo di Pico della Mirandola che vedeva nei due filosofi una diversa espressione della medesima verita. Queste dispute entrarono a fatica nell'area delle universita, dove l'egemonia di Aristotele era ancora indiscussa. II platonismo, nonostante le sue risonanze, restava, per dir cosi, una 'controcultura' incapace di mettere in crisi la tradizione accademica, che aveva allora le sue roccaforti a Padova e Bologna. Fu a Padova che apparve, nel1472, la traduzione latina delle opere di Averroe, prezioso strumento della corrente aristotelica che in quell'universita restera dominante fino alla meta del '600, contrastata dalla tendenza alessandrina che invece seguiva il commento di Alessandro di Afrodisia, della cui opera piu importante, il De anima, apparve la traduzione latina nel 1495. Delle due sette, l'alessandrina e l'averroistica, scriveva malinconicamente il Ficino nella sua introduzione aile Enneadi: I primi ritengono che il nostro intelletto e mortale, gli altri distruggono dalle fondamenta ogni religione, perche negano l'azione della provvidenza divina sugli uomini e gli uni e gli altri sono infedeli alloro stesso Aristotele.
Ma e proprio su questa che gli uni e gli altri discutevano, su quale fosse la vera fedelta ad Aristotele, se quella mediata dal commento di Alessandro o quella mediata dal commento di Averroe. In verita, le opposte posizioni non erano cosi nette. Lo stesso Pietro Pomponazzi, di cui stiamo per occuparci piu diffusamente, prima di farsi paladino dell'alessandrismo aveva condiviso le tendenze averroistiche. Giova semmai sottolineare che l'aristotelismo umanistico e altra cosa da quell-o medioevale, soprattutto perche ha perso interesse per le questioni metafisiche e si polarizza quasi totalmente sul modo di intendere la psicologia aristotelica e i problemi antropologici ad essa connessi. - L'anima dell'uomo e mortale o immortale? Aristotele non fu chiaro su questa problema. Secondo gli averroisti cio che e immortale nell'uomo non e l'intelletto passivo, che e individuate, rna l'intelletto attivo, che, unico per tutti gli uomini, si identifica con quello stesso di Dio; per gli alessandrini anche l'intelletto attivo, moltiplicabile per quanti sono gli individui, e mortale. - Per gli uni e gli altri l'ordine del mondo si regge su principi propri, sui
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quali non si da intervento miracoloso di Dio: cia che sembra miracoloso rientra nelle possibilita della natura. - La ragione deve seguire, nella ricerca della verita, la via che le e propria, senza accettare interferenze da parte della fede. Se la verita raggiunta con la ragione (come nel caso della sopravvivenza dell'anima) non coincide con quella proposta dalla fede, il credente si atterra a questa: e la dottrina della 'doppia verita', gia attribuita ad Averroe, che e difficile non ritenere un comodo accorgimento per eludere i rigori della sorveglianza ecclesiastica. 1.15. Pietro Pomponazzi. Sulla fitta pleiade degli aristotelici del tempo emerge Pietro Pomponazzi (1462-1524) nato a Mantova e laureatosi nel 1487 in medicina a Padova, dove divenne professore di filosofia. Chiusa l'universita di Padova in seguito aile disavventure militari di Venezia (1509), egli si reca a insegnare a Ferrara e finalmente a Bologna, dove compose tutti i suoi scritti e dove mori suicida. La sua opera piu famosa e il De immortalitate animae (Sull'immortalita dell'anima) del 1516, che gli provoca molti attacchi a cui rispose con una Apologia (1518) e successivamente con il Defensorium (1519). AI tre sue opere, come il De incantationibus (Sugli incantamenti) e il De fato furono pubblicate postume, tra il 1556 e il 1567 a Basilea. E nelle opere postume che si rivela con chiarezza il progetto di fondo a cui aveva obbedito il Pomponazzi nelle sue trattazioni relative alla grande questione dell'immortalita dell'anima. Nel De incantationibus, raccogliendo ed esponendo i fatti miracolosi e i fenomeni eccezionali - come gli incantesimi, le stregonerie, gli effetti ottenuti per magia - il Pomponazzi non ne nega la realta. Quel che nega e l'intervento di Dio, dato che, come insegna Aristotele, Dio non agisce direttamente nella realta sublunare, rna solo attraverso la mediazione dei corpi celesti. E nemmeno quei fenomeni possono essere prodotti dagli spiriti, buoni o cattivi, perche, privi come sono di organi appositi, gli spiriti non hanno conoscenza delle cose naturali. Tutto cia che accade nel mondo e totalmente chiuso nel giro degli astri ed e in questa giro che andra ricercata la causa dei fenomeni eccezionali. Manca ancora in Pomponazzi l'idea di causa propria della scienza moderna. Per lui i fenomeni sono ancora legati aile cause qualitative, alle forme di cui e tessuto il mondo. Di grande originalita e invece la sua intuizione sul determinismo che guida anche la storia degli uomini, soggetta alla legge della nascita, crescita e corruzione che domina il mondo sublunare, ivi comprese le religioni, che agli inizi sono corroborate dai miracoli, da cui traggono credibilita e diffusione, e poi deperiscono. Il cristianesimo none esente da questa legge: «anche nella nostra fede i miracoli cessano, tranne che quelli finti o simulati: la fine sembra essere prossima». La dottrina di Pomponazzi sull'anima dell'uomo risponde a questa presupposto naturalistico: anche l'uomo e natura, solo natura. La sua anima, insieme vegetativa, sensitiva e intellettiva, e forma del corpo. Lo dimostra il fatto che il nostro intelletto nulla pua intendere se non attraverso l'immagine sensibileche il corpo gli fornisce. Finita la vita corporea, anche l'intelletto, che e sua forma, si dissolve. Che l'intelletto sia capace di concetti puri, sgombri di resi-
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dui materiali, e vero, rna questa e solo una sua funzione accessoria che gli da appena un certo 'profumo' di immortalita; altrimenti, se esso fosse in grado di comprendere senza organi sensoriali, sarebbe una sola cosa con l'intelletto di Dio. Secondo il suo essere, l'intelletto e solo forma del corpo, mortale come il corpo. All'obiezione che tradizionalmente era stata opposta ad ogni dottrina che negasse l'immortalita dell'anima e cioe che in tal modo si toglie, con la prospettiva del premio o del castigo eterni, ogni fondamento alia morale, il Pomponazzi risponde secondo i criteri di un rigoroso immanentismo che da, da solo, la novita del suo pensiero. La virtu e il vizio, egli dice, sono gia di per se premio o castigo a se stessi. 11 premio (e lo stesso si dica della pena) puo essere essenziale o accidentale. 11 primo e quello interno alla virtu, e la felicita immanente al vivere secondo ragione. L'altro- la dcchezza, la salute, la reputazione etc., o la felicita nell'altro mondo- puo esserci o non esserci, senza che nulla sia detratto o aggiunto al premio essenziale. Va da se- e il Pomponazzi lo riconosce- che questa morale naturale e ri·servata a pochi. Nulla da dire dunque contro i fondatori di religioni e i legislatori che prospettano o attribuiscono premi o pene, senza di che la generalita degli uomini non avrebbe gli incitamenti o i freni necessari al vivere morale. Scompare cosi, dall'orizzonte morale, ogni riferimento alia trascendenza. La vita dell'uomo ha in se tutte le ragioni di se stessa. E cosi la vita del mondo nel suo insieme e del tutto autosufficiente. Nel suo libro postumo, dedicato al «fato e al libero arbitrio», Pomponazzi conclude una complessa rassegna delle diverse posizioni (in particolare di quella stoica e di quella cristiana) circa i rapporti tra la prescienza divina e la liberta dell'uomo, affermando che per la ragione una sola cosa e necessaria, l'ordine cosmico, dentro il quale hanno senso il vivere e il morire, il bene e il male, cosi come in un organismo hanno senso le parti nobili e quelle ignobili, il piacere e il dolore. Dinanzi a questa universale necessita il libero arbitrio non ha un suo posto. Questo contrasto ispira al Pomponazzi accenti di drammatica perplessita: egli si sente come Prometeo a cui un avvoltoio divorava il fegato in punizione del suo gesto sacrilego. Anche su questo tema egli dichiara di attenersi al diverso insegnamento della chiesa, fondato sulla liberta provvidente di Dio e sulla liberta dell'uomo. Ma la verita interiore che il Pomponazzi affido a degli scritti inediti e, lo si intuisce, dall'altra parte, e sulla linea razionalistica che diverra trionfante solo due secoli dopo.
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Sommario. II ravvivarsi dell'ideale di una concordia universale tra le filosofie e le religioni e il segno che l'umanesimo del '400 e ancora legato alia cristianita medioevale mentre, specie attorno alia fine del secolo, Ia societa si fa diversa, per orizzonti geografici, per ordinamenti politici, per composizione sociale, e si fa piu evidente lG~. volonta di intervenire nella storia per modificarla (2.1). Anche nella chiesa la volonta del cambiamenta si fa sentire come un ritorno al vangelo, che non puo non urtarsi frontalmente, come nel caso del Savonarola, con la mondanita delle istituzioni, specie quella oel pontifica to (2.2). La cognizione della verita effettuale che manco a! Savonarola e invece il programma di Niccolo Machiavelli, che elesse a suoi maestri gli uomini antichi, saldamente radicati nella citta terrena in cui si muovono con astuzia e con forza, e cioe con le qualita morali richieste dalla nuova classe emergente nel 1500 (2.3). E a questa borghesia spregiudi .' cata che Machiavelli intende spiegare che cosa sia l'arte dello Stato: una scienza del tut to autonoma, come Ia geometria, che ha per sua premessa la natura dell'uomo conosciuta attraverso i suoi comportamenti storici (2.4). Per modellare la materia riottosa della storia il Principe deve dominare l'imprevedibilita della 'fortuna' con la propria 'virtu'~ cioe con la propria abilita pratica (2.5). Meno fiducioso nella 'virtu' e Francesco Guicciardini, piu incline a dar peso al gioco delle circostanze da cui e possibile trarre un bene 'particolare' (2.6). Nella situazione catastrofica descritta da Machiavelli, il ritorno aile origini e anche la parola d'ordine di quegli umanisti che intendono contrapporre allo sfacelo della cristianita un'alternativa di pace. Primeggia tra di essi Erasmo di Rotterdam, per il quale il segreto dell'alternativa e il ritorno alia Scrittura restituita alla sua forma autentica (2.7). La disgregazione della cristianita e, a suo avviso, il frutto del vangelo contaminato da Aristotele e dal diritto romano (2.8). Della .stessa opinione e Tommaso Moro che, direttamente esperto del mondo politico, elabora, con accenti di realismo, una forma di Repubblica perfetta da lui detta Utopia (2.9). Ma Erasmo e Moro non mettono in questione le istituzioni come tali. Lo fa Martin Lutero, che in base ad una profonda esperienza personale rigetta la forma cattolica della fede cristiana (2.10), opponendo all'insegnamento di Roma alcune 'tesi', come quella della salvezza raggiungibile con Ia 'sola fede' basata sulla 'sola Scrittura'. Cade cosi, ai suoi occhi, Ia necessita della mediazione visibile della chiesa e quindi dell'esistenza di una giurisdizione ecclesiastica accanto a quella dello Stato (2.11). Nell'area francese i principi della 'sola fede' e della 'sola Scrittura' vengono fatti propri da Giovanni Calvino che, facendo fulcro sulla citta di Ginevra, da inizio a una riforma che si distingue da quella di Lutero per una considerazione piu pessimistica del principio della predestinazione e per un diverso rapporto tra fede ed impegno terreno (2.12). La chiesa cattolica aveva gia portato avanti per suo conto un'opera di rinnovamento (2.13), che trova il suo strumento solenne nel Concilio di Trento, nel quale, invece di aprirsi al dialogo, decide di arroccarsi nella rigida definizione delle verita di fede e della disciplina (2.14). La Riforma cattolica provoca un risveglio della tradizione teologica scolastica, che, se non riesce a if!1pedire le pratiche repressive avviate dalla chiesa isti-
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tuzionale (Controriforma), mette le premesse per un diverso rapporto con la realta dello Stato laico e con l'esperienza dell'incontro tra la cristianita e i popoli dei continenti appena scoperti (2.15). Fu proprio nei drammatici decenni delle guerre di religione che prese forma, con Jean ~odin, una dottrina dello Stato, lontana certo dal bruto realismo del Principe, rna anche dal moralismo controriformista, basata com'e sui principia della ragion di Stato (2.16).
La fine della cristianit3,_ 2.1. Il trapasso. La scoperta dell'uomo mediante la riscoperta filologica della cultura antica fu, per quasi tutto il Quattrocento, un'impresa italiana e, in modo prevalente, fiorentina. La disseminazione europea dell'umanesimo italiano ha inizio nell'ultimo scorcio del secolo. Nel 1494, Lefevre d'Etaples (14501537), l'iniziatore dell'umanesimo francese, si trova a Firenze, dove segue l'insegnamento di Marsilio Ficino e di Pico della Mirandola e ascolta la predicazione apocalittica del Savonarola. Negli stessi anni e con lo stesso scopo e a Firenze John Colet (1466-1519), che a Londra sara l'animatore di un importante cenacolo umanistico, che si avvarra dei contributi di Tommaso Moro e di Erasmo di Rotterdam. Ma proprio in quegli anni il volgere delle cose metteva in evidenza, per contrasto, il limite della grande stagione il cui motivo ricorrente era stato, da Cusano a Pico, l'immagine di una concordia universale tra le filosofie e le religioni, quasi a predisporre il quadro ideologico alternativo, a quello, ormai infranto, che aveva suggerito a Dante Alighieri il De Monarchia. Il limite di quell'umanesimo era nella sua incapacita a m~ttere veramente in questione le istituzioni politiche ed ecclesiastiche ereditate dalla vecchia cristianita o formatesi, come le Signorie, trail declino dell'impero e la nascita, oltralpe, delle nuove formazioni monarchiche. La rivoluzione culturale, avviata dagli umanisti italiani nel segreto dei loro scrittoi, non scalfiva l'assetto reale delle cose, ne la logica delle corti: restava un capitola nuovo nella storia delle idee e delle pratiche culturali, che aveva scarso riflesso proprio nei ceti piu direttamente coinvolti nelle trasformazioni economiche e sociali. Di qui il suo fallimento. Gia nel 1479 il huon Ficino aveva scritto a Sisto IV, a nome del popolo cristiano: «Speravo c:he con te avremmo conosciuto il ritorno di quel secolo d'oro predetto da Platone: ahime come mi sono sbagliato; il secolo di ferro e ritornato». E qualche anno dopo Pico della Mirandola esclamava: <
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viaggio di Colombo, erano troppo diverse da quelle costruite a partire dai testi dell'antichita. E gli equilibri delle forze che fanno Ia storia non erano piu quelli, se mai lo erano stati, dei tempi in cui Lorenzo il Magnifico veniva detto ]'ago della bilancia. Nel 1492 i re di Castiglia e d' Aragona avevano condotto a termine la riconquista della penisola iberica, gia florida provincia dell'Islam, e nel contempo era cominciata ·Ia dilatazione dell'impero turco che, dopa la conquista di Belgrado (1521), si estendera fino ad occupare l'Ungheria e a cingere d'assedio Vienna. Il Mediterraneo, dominato dalla flotta turca, non e piu il mare 110Strum: l'Italia diventa marginale, nella cristianita. Il baricentro europeo si sposta sulle coste atlantiche, dove affluiscono le ricchezze conseguenti alle scoperte di nuove terre e dove il nascente capitalismo mercantile organizza le sue vere centrali economiche come Amsterdam o Anversa. La volonta di potenza, questa tratto caratteristico del Rinascimento, che in Italia trova le massime trasfigurazioni artistiche, ha i suoi sbocchi reali nella formazione delle grandi unita politiche protese al dominio dei mari e nella trasformazione della vita economica e sociale. Non si dimentichi (e invece per lo piu si dimentica) che, fino alle soglie del Cinquecento, !'Europa era arretrata, nei confronti della civilta islamica e anche di quella cinese. In que! giro di anni Ia popolazione del globo aumentava ad una cifra compresa tra i 380 e i 450 milioni, con un indice di crescita umana che va dal 40 al 100%: una vera esplosione. Questa esplosione quantitativa in Europa e connessa alia diffusione delle invenzioni tecniche (Ia vela, i mulini a vento ed a acqua, gli aratri a ruote ecc.) che moltiplicano la capacita umana di modificare la natura. Per usare illinguaggio dell'antropologo Colin Clark, ogni europeo dispone in que! periodo oltre che della sua forza muscolare di almena «dieci schiavi meccanici». Con il 15% della popolazione mondiale l'Europa dispone di una forza pari a quella di 600 milioni di «Schiavi meccanici». Questi dati servono a spiegare Ia 'mutazione antropologica' dell'Europa rinascimentale: l'agricoltura e relativamente florida, gli allevamenti di bestiame si sviluppano, cresce il consumo di proteine, la divisione del lavoro si ramifica, le citta popolose si moltiplicano, Ia richiesta culturale aumenta. L'invenzione della stampa a torchio giunge tempestiva per rispondere a questa nuova domanda: Ia stretta cerchia degli umanisti quattrocenteschi si dilata fino a inglobare nuovi ceti sociali. La figura della stampatore-editore-libraio (la separazione dei serv1z1 sara un fatto successivo) diventa importante gia al livello aziendale. Per le aumentate ricchezze, il libra si fa' bene di consumo e non piu oggetto prezioso. In obbedienza a questa spinta di mercato, il libro none pili scritto soltanto in Iatino. La lingua volgare si afferma e con essa prendono rilievo le letterature nazionali. Lo sviluppo delle attivita connesse alla navigazione promuove la crescita, in numero e in prestigio, di astronomi, cartografi e geografi che sviluppano e affrontano la conoscenza scientifica del pianeta. La prima carta della terra e del 1539. Ne e autore Kremer, detto il Mercatore, che trent'anni piu tardi pubblichera il famoso planisferio che porta il suo nome. Se si tien canto di questa mutazione sociale, si capisce perche il ritorno
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agli antichi non ha, durante il Rinascimento, lo stesso significato che aveva durante l'umanesimo. Quel ritorno obbedisce ora alla necessita di rifiutare il mondo esistente per crearne un altro con diverse fondamenta, si tratti della 'natura' intesa come insieme di leggi originarie, manomesse e occultate dalle deviazioni successive, o si tratti della sorgente evangelica da cui attingere la verita pura, lasciando fuori usa i canali di trasmissione costruiti lungo i secoli a cura e vantaggio delle autorita ecclesiastiche. Il Rinascimento e difatti un periodo di utopie pelitiche e religiose, nelle quali si ama descrivere lo Stato come dovrebbe essere o la chiesa come Gesu Cristo la valle. Il ritorno al passato e solo una via metodologica per affermare la necessita e la legittimita ideale del rinnovamento. L'antico, per i rinascimentali, non e il 'vecchio'. Vale per l'insieme delle manifestazioni del tempo quanta il Vasari - rifacendosi al Ghiberti - scriveva riguardo alle arti figurative, che poi sono del Rinascimento la creazione piu rappresentativa: il 'vecchio' e l'arte grecobizantina, in cui la classicita sopravvive, rna vuota e imitativa; il 'moderno' e l'arte gotica, venuta dal di fuori, funesta invasione barbarica; l"antico' e l'arte dei classici, che si ispirano alla natura e all'uomo reale, come appunto hanna fatto, secondo il Vasari, i toscani, a partire da Giotto, col quale l'antica pittura 'risuscito'. La rievocazibne dell'antico non precede, dunque, rna segue Ia volonta creativa ed e, di per se, niente di piu che la rivendicazione del diritto a creare obbedendo solo alla natura e all'uomo reale. Viene cosi in prima piano il tratto essenziale dell'uomo del Rinascimento, che nelle pagine di Pica (1.12) aveva gia avuto la sua celebrazione: l'uomo non e chiamato a eseguire gli immobili decreti delle gerarchie celesti o delle leggi immutabili della natura; egli e totalmente arbitro di se stesso, sta nel mondo come un secondo creatore, nel bene e nel male. Nell'arte, nella politica, nella stessa esperienza religiosa il negativo e la ripetizione, l'ossequio alla norma fissata nei secoli; il bene e l'iniziativa, la 'virtu' intesa come abilita, !'intima risposta della fede. Prese una dopa l'altra, queste qualita non sono poi cosi nuove, data che si trovano disseminate anche nella storia dell'uomo medioevale. La novita e che esse ora si integrano l'una nell'altra come attributi di una personalita consapevole di se e decisa a crearsi un mondo reale proporzionato a se stessa. Le linee disperse fanno ora un disegno unitario, la cui armonia sovrasta di gran lunga la realta effettiva della societa del tempo. Difatti, attorno al 1530, quell'armonia scompare ed ha libero corso una storia collettiva drammatica, convulsa, attraversata da lacerazioni che cambieranno il volto e l'anima dell'Europa. Ma quella presa di coscienza non finira, il passato non tornera piu a dispetto delle onnipotenze istituzionali, decise ad accendere i roghi contra i devianti. 2.2. II Savonarola. Era naturale che questa impetuosa volonta di cambiamenta urtasse, come nel suo prima ostacolo, nella chiesa di Roma. Nel Quattrocento, dopa aver ricomposto lo scisma e dopa aver aperto le braccia alla chiesa d'oriente caduta ormai sotto il dominio della Mezzaluna, lei chiesa di Roma appariva del tutto integrata nelle forme della nuova cultura. Da Niccolo V a Leone X la corte pontificia fu uno dei focolai del nuovo corso, anzi con pa-
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pa Leone (figlio di Lorenzo il Magnifico) questa organicita allo spirito del tempo parve cosi decisa che l'eta del Rinascimento venne detta anche l'eta di Leone X. Ma si trattava di uno splendore del tutto estraneo alla ragion d'essere della chiesa, dovuto alla sua omogeneita con la politica di potenza a cui si ispiravano i principati italiani (lo Stato della chiesa rientrava infatti nel numero) e con le elites aristocratiche sempre pili isolate dal mutamento strutturale sopra descritto. Come poteva essa discernere e accogliere la domanda di autenticita religiosa che emergeva ormai dalle nuove classi sociali, in Italia, in Germania, in Francia e in Inghilterra? La renovatio ecclesiae fermentava allo stato di bisogno sotto gli splendori creativi del Rinascimento e appariva come l'unica condizione per il rinnovamento generale della societa. Perfino Machiavelli, che intimamente era, senza dubbio, estraneo a questa tensione religiosa, osserva, con acume profetico, che se la religione ne principi della repubblica si fusse mantenuta secondo che dal datore d'essa ne fu ordinato, sarebbero gli stati e le repubbliche cristiane piu unite, piu felici assai che Je non sono.
E aggiunge: chi considerasse i fondamenti suoi, e vedesse l'uso presente quanta e diverso da quello, giudicherebbe essere propinquo sanza dubio o Ia rovina o il fragello.
In queste parole dell'autore del Principe battono i riverberi del rogo in cui un ventennio prima venne bruciato i1 primo profeta della «rovina» e del «flagella»: Girolamo Savonarola (1452-1498). Pur vivendo accanto ai piu prestigiosi cultori delle humanae litterae e a diretto contatto col nume tutelare dell'umanesimo, Lorenzo il Magnifico, egli non si lascio sedurre dai programmi di concordia universale propugnati dal Ficino e dal Pico. Ai suoi occhi la passione dilagante per i modelli letterari, artistici e morali dell'antichita pagana era un tradimento sia della purezza evangelica sia dell'autentica liberta del popolo. Le colonne che paiono di porfido et sono di legno - cosi il padre ferrarese predicava nell' Avvento del 1493 - e la dottrina di poeti, degli ora tori, degli astrologi et de' philosophi. Con queste colonne si regge et governa la Chiesa. Vattene a Roma e per tutto il cristianesimo, nelle case de' grandi prelati et de' grandi maestri: non si attende se non a poesia et a arte oratoria. Va pure, et vedi: tu gli troverai co' libri d'humanita in mano. Et dannosi ad intendere con Virgilio et Oratio et Cicerone saper reggere l'anime ... I nostri predicatori anchora hanno lasciato la Scrittura santa et sonsi dati all'astrologia et alia philosophia, et quella predicano in su pergami, et fannola regina; et la scrittura sacra l'adoperano come ancilla, perchoe ei predicano la philosophia per parere dotti et non perche· Ia deserva !oro a sporre Ia scrittura sacra.
Dal pulpito di San Marco e da quello di S. Maria del Fiore egli preannun-
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ciava alia citta, caduta, dopo Ia morte del Magnifico, in preda alle fazioni, Ia venuta di un novella Ciro, e cioe di un re straniero fatto da Dio strumento della sua collera. E il 17 novembre 1494 (quel giorno stesso moriva •Pico della Mirandola) il novella Ciro, Carlo VIII re di Francia, entro in Firenze dopo aver mercanteggiato con Piero dei Medici. Spentasi ben presto la meteora di Carlo VIII e fuggiti i Medici. tocco al Savonarola fornire alia sua citta i nuovi ordinamenti. Improntati a un rigoroso moralismo democratico, essi prevedevano, tra l'altro, l'abolizione di ogni discriminazione censitaria e imposte progressive sul reddito. Savonarola era un uomo colto e non, come spesso si e voluto far credere. un medioevale in ritardo. Solo che ad ispirare il suo zelo di riforma della societa e della chiesa era non Ia repubblica di Platone rna Ia profezia biblica e in specie l'immagine mitica dei tempi iniziali del cristianesimo, quando i credenti «erano un cuor solo e un'anima sola» e la sovranita era nelle mani dell'unico Signore, Gesu Cristo. Questa passione evangelica non poteva non metterlo contra il nuovo papa, Alessandro VI, uomo corrotto, a nient'altro inteso che alia politica di potenza. Savonarola si trovo cosi a combattere su due fronti, quello della chiesa di Roma, contra Ia quale invocava un concilio, e quello della citta, dove si faceva sempre piu minacciosa la coalizione dei suoi nemici, i fautori dei Medici (Palleschi) e i sostenitori degli aristocratici (Arrabbiati). Per i suoi seguaci, detti per scherno Piagnoni, l'affermazibne dell'unica Signoria di Cristo equivaleva alia negazione di qualsiasi altra signoria e dunque alla liberta del popolo. In questa sensa Ia breve avventura del Savonarola e gia nel versante nuovo, quello che anche attraverso le rivoluzioni religiose mettera fine alia cristianita medioevale. Mancava a! Savonarola il discernimento di cia che e proprio dell'azione politica e cioe Ia considerazione teorica e pratica delle forze reali che agiscono nella citta, delle cause che le mettono in conflitto e quindi anche dei provvedimenti che potrebbero contenerle nelle ragioni del bene pubblico. Anticipando quanta dovremo piu diffusamente dire fra poco, capito al Savonarola quel che capitera ai sostenitori della cosmologia tolemaica, quando Galileo oso osservare il sole col canocchiale e vi scopri delle macchie. II sole non era come doveva essere. Era corruttibile! Savonarola fu, per cos! dire, un coraggioso tolemaico della politica: trattava gli uomini secondo il loro dover essere e non secondo la loro realta. Privo di concretezza, il suo zelo si tramuto in fanatismo e il fanatismo favori la coalizione dei suoi avversari, che determinarono il suo fallimento e Ia sua condanna a morte (1498).
Niccolo Machiavelli 2.3. Machiavelli e il suo tempo. II Galileo della politica era gia nato. Subito dopo il rogo del Savonarola, a ricoprire Ia carica di segretario della seconda cancelleria della Repubblica fu chiamato Niccolo Machiavelli*. In Machiavelli l'umanesimo letterario sopravvive appena, e sopravvive come
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pura forma, come momenta rituale. Lui stesso ci narra, nella sua memorabile lettera a Francesco Vettori, come, durante il suo soggiorno a San Casciano, avesse costume di ritirarsi ogni giorno ad ora prefissata nel suo scrittoio ed ivi, vestitosi idealmente di <<panni reali e curiali» entrasse «nelle antique corti delli antiqui uomini», «ricevuto da !oro amorevolmente». Ma gli «antiqui uomini», cosi evocati, dicono a lui quel ch'egli vuole che dicano, sono, in realta il suo alter ego, l'ipostasi fittizia che da corpo a quello sdoppiamento interiore di cui ha necessita Io svolgimento dialettico del pensiero. Certo, Ie pagine degli antichi riflettevano dei valori che, per essere anteriori alia cristianita, ben si prestavano a rivestire di se un'aspirazione il cui obiettivo era la restaurazione di un mondo totalmente e solamente umano, sgombro cioe di quegli ingredienti soprannaturali che sono sempre a detrazione dell'autonomia razionale e operativa dell'uomo. Ma, mentre negli altri umanisti il riferimento agli antichi valeva come ricerca di un punto di appoggio per svolgere l'arco dell'utopia, sotto il quale continuava a scorrere, per canto suo, il fiume della realta, in Machiavelli e il contrario che avviene: radicato nel suo tempo con tutte le sue complessita sociali e politiche, egli ricerca negli antichi la legittimazione delle sue generalizzazioni induttive. Gli antichi sono, per una investitura ormai universalmente riconosciuta, il luogo storico in cui la natura dell'uomo ha svelato se stessa a se stessa, rna, a parte questa privilegio, non hanna altro magistero da offrire. Tant'e vera che, nella serie degli esempi che--servono al Machiavelli come premessa empirica per le sue induzioni, si trovano accostati fatti e figure di epoche diverse, dall'antico Israele ai Greci e ai Romani, alla monarchia francese, allo stato pontificio. L'illusione di cui Machiavelli e vittima (rna nell'involucro dell'illusione c'e, come vedremo subito, una conquista per sempre) e che davvero fosse possibile passare dall'accostamento di fatti cosi diversi e cosi remoti l'uno dall'altro ad una 'natura dell'uomo' del tutto immutabile, almena nel suo nucleo. Egli guarda il mondo politico assorbendolo totalmente nelle figure dei protagonisti e negli ordinamenti, senza dare vero peso aile ragioni economiche, commerciali, culturali, etniche che stanno sotto il velame degli avvenimenti e
Niccolo Machiavelli nasce a Firenze nel 1469. Divenuto segretario della seconda cancelleria della Repubblica fiorentina ha l'incombenza di sovrintendere agli affari interni e alla guerra. Per questa ragione compie non poche missioni diplomatiche in /talia e fuori. Rimane in carica fino al ritorno dei Medici, nel 1512. Dopa aver subito la prigione e la tortura, ottiene di vivere appartato nella sua villa di San Casciano, dove attende allo studio dei classici e alla composizione delle sue opere, tra le quali particolarmente importanti I discorsi sopra la prima deca di Tito Livia, iniziati nel1513 e terminati nel1521, e il Principe, composto di getto nella seconda meta del 1513. lnutilmente tenta di riconciliarsi con i Medici. Quando essi, nel 1527, vengono scacciati per la seconda volta, la nuova repubblica preferisce tenerlo da parte. Muore nella stesso anna.
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ne sono spesso la molla vera. Le monarchie assolute che attorno a lui si stanno consolidando, prima che opera di questo o quel principe, sono il prodotto di una nueva stagione sociale, caratterizzata dal radicale mutamento del costume economico feudale. I grandi finanzieri, i mercanti di avventura, le nuove centrali economiche a specchio dell'Atlantico, le stesse invenzioni tecniche han dato vita ad una classe sociale non piu disposta a tollerare gli impacci del frazionamento feudale e della moltitudine delle 'liberta.' comunali, che in pratica si traducono in dogane, in protezionismi, in campanilismi corporativi. Il nuevo soggetto sociale vuole larghi spazi, conformi alla rete di relazioni che ormai la circolazione della ricchezza ha create. Lo State assoluto, che tre secoli dopo la borghesia rigettera, sul memento e quanto di meglio possa rispondere al bisogno incipiente di egemonia. Ripulito dai privilegi dei monasteri, dalle franchigie comunali, dai corpi estranei dei feudi in cui poltrisce la nobilta, lo spazio sociale tutelato da uno State forte, che non ammetta altra autorita che la propria, e ormai, per la borghesia, lo spazio vitale indispensabile. Machiavelli si colloca, come d'istinto, nel eucre di queste mutazioni, di cui avverte, se non la causa motrice economica, la necessita storica. Questa sua percezione si colora di passione civica, perche Firenze e l'Italia - e cioe il suo orizzonte immediate - gli appaiono come buttate ai margini dallo spostamento dell'asse storico (ormai non piu mediterraneo rna atlantico), anzi calpestate e umiliate da qualunque straniero che sappia e voglia servirsi delle loro divisioni interne e della loro mancanza di eserciti non mercenari. Quanto abbia potuto in Machiavelli questa passione, ignara dei propri condizionamenti, rna consapevole dei propri obiettivi, appare chiaro dal confronto tra le due opere che hanno fatto di lui, come si diceva, il Galilee della politica: e cioe il Principe e i Discorsi, presi a scrivere nello stesso anno. La fama di Machiavelli e legata alia prima opera, soprattutto in ragione della potenza di fantasia che l'ha partorita. La cornice dell'opuscolo e trattatistica (i titoli dei 26 capitoli sono in latino), rna il contenuto rompe l'equilibrio astratto del trattato e diventa una rappresentazione mitica, di vigore dantesco, della storia delle State, o meglio della sua trasfigurazione antropomorfica, quella del Principe assoluto. L'ultimo capitola e una perorazione appassionata della liberazione dell'Italia dallo straniero sotto la guida di un principe che, in modo abbastanza posticcio, Machiavelli indica in un personaggio di second'ordine della casa dei Medici. E questione controversa se quest'ultimo capitola-manifesto sia logicamente coerente con l'insieme dell'opera, rna non pua esserci dubbio alcuno che quell'insieme intendesse essere una risposta di tipo realistico ai problemi dibattuti in quegli anni dagli intellettuali piu direttamente coinvolti dagli sconvolgenti mutamenti che stavano cambiando il volto dell'Europa. I Discorsi sono invece un'opera piu pacata, anche nello stile. Il ragionamento vi si svolge secondo le sue naturali articolazioni e con maggior distacco dalle cronache di quegli anni. E qui che meglio si ritrova l'ideologia machiavelliana in cia che ha di piu universale. Appunto: la politica come scienza.
2.4. L'arte dello Stato. Cia che appare di colpo come straordinariamente originale in Machiavelli, e che egli isola il suo oggetto - il principato, lo Stato
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- da ogni contesto che nelle riflessioni tradizionali gli faceva da presupposto: o da presupposto deduttivo, come, in Platone, il mondo delle idee, o da presupposto induttivo, come, in Aristotele, l'esistenza delle classi sociali. Lo Stato e, per Machiavelli, quel che per un matematico e una figura geometrica o per un fisico il movimento meccanico: dentro e fuori dell'oggetto studiato, non ci sono nel primo caso, che le linee che lo compongono, e, nel secondo, il corpo, la velocita e il tempo, da mettere in rapporto tra loro. Tutti gli altri valori, come la morale o la religione, da cui si era soliti partire per dedurre le leggi della politica, scompaiono o se appaiono e per trovare il lora posto dentro le regole dell'agire politico, che sono, solo esse, l'assoluto. Ma anche la parola 'assoluto' e impropria, perche implica un giudizio di valo-re, mentre per Machiavelli la politica e un'arte - nel senso greco di tecnica di cui egli illustra le regole con una innocenza che risulta raccapricciante solo per chi dimentica che, appunto, si tratta di regole a cui il Principe deve attenersi se vuole conservare lo Stato, nello stesso modo che chi vuol giocare a scacchi o alla scherma deve osservare delle regole su cui non avrebbe senso sollevare riserve morali. Il problema semmai e un altro: e se sia lecito isolare l'oggetto Stato come invece e lecito isolare l'oggetto 'gioco degli scacchi', dato che, di sua natura, la sorte dello Stato e strettamente congiunta alla sorte dell'uomo. Qua e la Machiavelli ci lascia capire che egli sarebbe felicissimo se l'uomo potesse vivere anche senza lo Stato; che le sue preferenze sarebbero per un mondo di uomini buoni, in cui non avesse ragion d'essere l'uso della forza e dell'astuzia. Ma un mondo simile, per Machiavelli, rimane un puro postulato del sentimento e il sentimento ha questo di proprio, che e totalmente estraneo aile esigenze della ragione teoretica e di quella pratica. Ai buoni sentimenti si ispirano i profeti disarmati, che, appunto per questo, come il Savonarola, vanno in rovina e mandano in rovina lo Stato che erano riusciti a creare. La politica rimanda dunque ad una antropologia. A differenza di Platone e di Aristotele, Machiavelli non premette alia sua costruzione. teorica dello Stato un'indagine su quale sia la natura dell'uomo. II suo procedimento e piu empirico: egli constata che l'uomo storico, e cioe l'uomo stretto dentro le condizio-ni limitative della societa in cui vive. ed esposto ai marosi degli eventi che non dipendono da lui, non ha altro mezzo di scampo se non l'uso della forza e dell'astuzia. Questioni come quella se Dio ha creato l'uomo cattivo o buono, o quella se a renderlo malvagio e stato un peccato originale o quella se prima che avesse inizio la storia- e cioe nello stato di natura- egli fosse dominato da impulsi di amore o da quelli aggressivi, sono del tutto estranee all'ottica di Machiavelli, ostinatamente fermo nella sua osservazione di come l'uomo appare nella vita associata, sia nel presente che nel passato. E a partire da un uomo siffatto che egli prende a costruire, con coerenza geometrica, la sua repubblica: Mi e parso piu conveniente andare dietro alia verita effettuale della cosa che alla immaginazione di essa. E multi si sono immaginati repubbliche e principati, che non si sono mai visti ne conosciuti essere in vero.
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dell'utile_ Si capisce: un utile al livello umano e cioe allivello di un essere che, secondo un'efficace immagine di Machiavelli, rassomiglia al centauro, mezzo uomo e mezzo bestia. Piu che nella determinazione dei fini, questa qualita umana si riflette nel metoda dell'agire. Quando uno persegue l'utile con la sua meta bestiale, fa uso della forza, quando lo persegue con la sua meta umana fa uso dell'astuzia. E il Principe deve fare altrettanto, con questa di proprio, che nel suo caso ]'utile e la conset'Vazione della Stato. Tenendo conto che quella del Principe non e che la figura antropomorfica dello Stato, potremmo anche dire, piu modernamente, che l'uso della forza e dell'astuzia deve volgersi verso ]'utile comune e non verso quello privata. 2.5. La fortuna e la virtu. Machiavelli si rende canto che l'arte dello Stato, a differenza di ogni altra arte, e chiamata a modellare una 'materia' che non risponde aile intenzioni, anzi le contrasta, le deforma e, in modo cieco e imprevedibile, dopa averle assecondate, le tradisce. Dinanzi all'uomo politico sta la fortuna. Nata dentro i limiti stretti del condizionamento storico, vario secondo i tempi e i luoghi, la costruzione politica deve tener conto degli eventi che non possono rientrare in nessun programma, perche di lora natura sovrastano l'intelligenza e la volonta umana. Nella visione medioevale (ad esempio in quella di Dante) la fortuna e al servizio della Provvidenza con cui Dio governa le case, mettendo in scacco la presunzione dell'uomo, i cui occhi non vedano al di la di una spanna. La visione che Machiavelli ha della storia e totalmente secolarizzata. La fortuna e il caso avverso, il moto irrazionale delle case che investe la geometria dei progetti umani e la sconvolge. Cesare Borgia, ad esempio, lo spregiudicato Duca Valentino, che agli occhi del Machiavelli incarna le qualita ideali del principe, non poteva prevedere che il giorno della morte di suo padre, Alessandro VI, sarebbe stato trattenuto a letto dalla febbre e quindi sarebbe stato impedito dal regolare a suo vantaggio, come avrebbe potuto, la successione pontificia. In questa caso la fortuna ha il carattere di un banale contrattempo. Ma nella visione di Machiavelli, il dominio della fortuna abbraccia tutto cio che, nel flusso degli eventi, non rientra nelle previsioni fondate sull'esperienza personale e su quella storica. La sua esaltazione dell'individuo e contenuta dentro la consapevolezza tragica dell'alone oscuro che circonda l'uomo, quell'alone oscuro in cui gli antichi vedevano il Fato e in cui egli vede le propaggini del Caos irrazionale che sta al fonda della storia umana e su cui nessun trionfo e mai definitivo. Contro la fortuna sta la virtu. La fortuna, in una suggestiva pagina del Principe, e come il torrente che straripa; la virtu e lo sforzo preveggente dell'uomo che in tempo di bonaccia ha elevato dighe e scavato fossati in modo da annullare o limitare la furia devastatrice delle acque. I risultati dell'agire politico sono dunque in parte (il 50%, precisa in un luogo Machiavelli: rna in questo dosaggio egli si permette notevoli oscillazioni) riconducibili alia fortuna, per il resto alla virtu del Principe. In questa virtu, il cui tratto caratteristico e l'efficace dominio sugli eventi, tutto rientra, la pieta e la crudelta, la fedelta e l'infedelta e cosi via: i comportamenti antitetici, che nel giudizio morale sono segnati nelle due colonne del bene e del male, diventano virtuosi quan-
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do siano efficaci nel raggiungimento del fine, che e appunto il bene dello Stato o meglio la sua stabilita. Quanto si e detto riassume, nella sua sostanza, la breve opera a cui e legata la fama del Machiavelli. Nei Discorsi, la potente astrazione che identifica lo Stato con la personalita del Principe si discioglie in un'analisi meglio rispondente alla distinta problematica in cui tradizionalmente si articolano le questioni politiche. L'assolutismo, che nel primo libro sembra identificarsi con l'onnipotenza dell'arbitrio principesco, qui diventa assolutezza delle leggi dello Stato, anche quando si tratta, com'e nelle preferenze di Machiavelli, di uno Stato repubblicano e cioe, come noi diremmo, democratico. Ma anche qui e ben visibile l'impronta realistica del Principe, come quando, rievocando i conflitti tra patrizi e plebei della Roma repubblicana, Machiavelli rigetta il moralismo di chi li condanna come un male e per suo conto riconosce che proprio nel dissidio tra i grandi e i plebei sta la ragione dello sviluppo di quelle leggi che hanno fatto la fortuna di Roma. II compito della Stato non e, dunque, la repressione della classe inferiore da parte di quella dominante rna la garanzia del loro libero gioco, dal quale dipende in definitiva il trionfo del bene comune. 0 come quando, parlando della religione, non solo la raccomanda - lo aveva gia fatto nel Principe - quale ottimo strumento di potere, rna stabilisce un paragone tra la religione pagana e quella di Cristo, a tutto vantaggio della prima, che esaltava il coraggio, la forza e la grandezza della patria, mentre quella di Cristo mette in primo piano l'umilta e la mitezza e cioe proprio le virtu seguendo le quali uno Stato cadrebbe in rovina. Si capisce come Machiavelli sia apparso subito anche ai suoi contemporanei come un dissacratore dei valori essenziali della tradizione e come un cinico difensore della scelleratezza politica. Da quanto abbiamo esposto dovrebbe apparire chiaro che non e con questa attica che Machiavelli puo essere compreso e giudicato in modo oggettivo. E nemmeno coglie la sostanza del suo insegnamento chi vede in lui il primo sostenitore dell'autonomia della politica dalla morale e dalla religione. Certo, per lui l'agire politico e autonomo, rna non perche abbia di fronte a se altre sfere dello spirito, come quella morale e religiosa, dinanzi alle quali debba rivendicare leggi proprie e propri principi. La verita di Machiavelli e questa: la costruzione e la difesa dello Stato sono la suprema delle attivita umane, tutte le altre rientrano nel suo ambito. 11 che non vuol dire che egli non sentisse personalmente i richiami dell'ideale morale: solo che ai suoi occhi il mondo in cui l'uomo opera e cosi chiuso dentro le leggi della forza e dell'astuzia che per quell'ideale gli resta solo il tributo della nostalgia. 2.6. Francesco Guicciardini. La singolarita di Machiavelli acquista rilievo se comparata con l'amara meditazione storico-politica svolta nello stesso periodo da un altro fiorentino, Francesco Guicciardini ( 1483-1540). A differenza di Machiavelli, Guicciardini visse la politica del suo tempo, e in posizione di responsabilita, nei 'luoghi caldi' delle vicende europee, per lo piu come uomo di fiducia dei papi medicei, Leone X e soprattutto Clemente VII. Venuto meno il potere politico dei Medici, travolti nel conflitto tra l'imperatore Carlo V e il re di Francia Francesco I, anche lui si ritiro in una sua villa per tradurre la
34 0 2 - Niccolo Machiavelli propria esperienza di vita in una specie di 'filosofia della storia'. La sua solitudine fu interrotta da un ritorno di fiamma delle fortune medicee: fu Guicciardini il grande mediatore che favori il trapasso della repubblica fiorentina agli ordinamenti autocratici del duca Cosimo (1537). La sua opera politica riflette la sua indole morale e intellettuale, che e di scarsa fiducia negli uomini e, piu in genere, nella stessa possibilita dell'uomo di far fronte alle vicende della 'fortuna': «ne e' pazzi ne e' savi possono finalmente resistere a quello che ha da essere», si Iegge nei Ricordi, il suo scritto piu famoso perche condensa in massime per lo piu brevi la sua visione delle cose che nelle altre opere di largo respiro, come la Storia di ltalia, si dispiega, rna spesso in modo occulto, nell'acuta e articolata ricostruzione dei grandi avvenimenti. Guicciardini ha dell'uomo una concezione non dissimile da quella di Machiavelli, solo che egli rifugge da ogni pretesa di trasformare in 'scienza' legeneralizzazioni derivate dall'osservazione dei fatti e dei comportamenti. La storia e anche per lui un processo tutto chiuso nei confini mondani, senza rapporti con quel mondo di cause invisibili nella cui indagine perdono tempo filosofi e teologi. Mail processo non ha in se le nervature delle leggi che diano un senso ai fatti e in particolare all'uomo. «Sono varie le nature degli uomini», e soprattutto sono varie le circostanze in cui essi si trovano ad agire, cosi varie che non ha senso ricercarvi delle costanti che possano essere assunte come regole di condotta. E grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente, e, per dire cosi, per regola; perche quasi tutte hanno distinzione ed eccezione per la varieta delle circostanze, in le quali non si possono fermare con una medesima misura; e queste distinzioni ed eccezioni non si trovano scritte in su' libri, rna bisogna lo insegni la discrezione.
La 'discrezione', che in Guicciardini hail ruolo della 'virtu' del Machiavelli,
e la capacita di comprendere il gioco delle circostanze nelle loro infinite variazioni, in modo da potervisi inserire senza restarne travolti e possibilmente realizzando il proprio 'particulare', come dire il vantaggio personale. Manca nel Guicciardini, proprio in ragione di questo suo relativismo, ogni indicazione del bene comune come obiettivo dell'agire politico e ogni fiducia nella democrazia, essendo ai suoi occhi il popolo «uno animale pazzo, pieno di mille errori, di mille confusioni, senza gusto, senza diletto, senza stabilita». Mentre per quanto riguarda la identificazione della 'natura umana' il Guicciardini e meno pessimista di Machiavelli, dato che per lui l'uomo e inclinato al bene e sono le circostanze a renderlo malvagio, per quanto riguarda le capacita dell'uomo di costruire la storia, il rapporto tra i due si capovolge: Machiavelli esalta le capacita umane di dar forma allo Stato e di tenerlo immune dai giochi della fortuna; Guicciardini ritiene non modificabile il ritmo caotico degli eventi e riduce l'agire politico all'astuzia diplomatica, agli accorgimenti autocratici, all'abile combinazione di ordinamenti (i governi 'misti') che assicurino alle elites dirigenti la possibilita di soddisfare il piu possibile il loro 'particulare'. Un prammatismo che piaceva al nostro Cavour, rna che e sempre parso deludente a coloro che han posto fiducia nelle ideologie politiche e cioe nelle possibilita
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umane di progettare, in vista del bene comune, comunque inteso, la costruzione e la conduzione dello Stato.
L'utopia umanistica 2.7. Erasmo di Rotterdam. Il corso delle cose, agli inizi del Cinquecento, aveva un senso preciso: si stava disgregando la cristianita medioevale e si andava instaurando, nella cultura e negli ordinamenti, quella che siamo soliti chiamare la civilta moderna. Quando si scompone un mondo in cui da secoli la coscienza si era abituata a ritrovare, con immediatezza, la cornice delle sue esperienze e il quadro di riferimento delle sue scelte, essa vede accumularsi all'orizzonte i segnali della fine. II clima diventa apocalittico. Nelle situazioni apocalittiche e fatale che si scatenino le forze della distruzione, non piu contenute nella disciplina che viene spontaneamente assicurata dal comune consenso alle istituzioni e ai valori che in queste si incarnano. Ma nel contempo, se il mondo che muore contiene in se le energie vitali capaci di creare un nuovo assetto della societa e una nuova presa di coscienza delle responsabilita e delle possibilita umane, emergono dal tumulto delle passioni gli uomini che propugnano il trapasso ai tempi nuovi mediante il ricorso alla ragione e a una ragione saldamente ristabilita nei propri principi e cioe ricondotta alle origini. Prima che, con Cartesio, il razionalismo moderno modifichi radicalmente il processo con cui Ia ragione ricerca in se stessa, e solo in se stessa, le proprie leggi, la riscossa della ragione non poteva che assumere il classico modulo antropologico del ritorno ai 'tempi d'oro' e cioe alia fase storica anteriore alla formazione di quel mondo di cui si avvertiva la fine. Abbiamo gia visto come questa nostalgia utopistica fosse alla base dell'umanesimo del Quattrocento: il ritorno agli antichi avrebbe inaugurato sulla terra la renovatio saeculi e insieme la renovatio Ecclesiae. Ne Ficino ne Pico erano in grado di comprendere che ormai le strutture della storia si stavano spostando, facendo emergere sul proscenio nuovi soggetti collettivi (le nazioni, i ceti imprenditoriali e finanziari) destinati ad allargare lo spazio delle vicende umane e. a rendere anacronistiche le istituzioni formatesi nell'epoca della cristianita. Bisognava riprendere le misure dell'uomo creatore di storia. Machiavelli lo fece, collocandosi in modo brusco, in nome della fedelta aile 'origini', che per lui erano soprattutto quelle della repubblica romana, al di fuori della linea di continuita col passato, mettendo fra parentesi perfino il cristianesimo perche inconciliabile con le robuste virtu terrene da cui era nata la grandezza di Roma. Quella di Machiavelli e una ragione totalmente 'laica'. Ma nello stesso giro di anni, il ricorso alla ragione come a principia costitutivo di storia seguiva altre strade, sempre all'insegna del ritorno alle origini. Sono le strade dell'umanesimo cristiano di Erasmo di Rotterdam e di Tommaso Moro. I due si ricollegano, in modi diversi, all'umanesimo di Lorenzo Valla, di
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Marsilio Ficino e di Pico della Mirandola, rna la novita che li distacca dall'umanesimo del secolo precedente e, appunto, il ritorno alle origini inteso come ritorno al Nuovo Testamento, recuperate nella sua autenticita mediante la ricostruzione filologica del testo. L'invenzione della stampa aveva apprestato lo strumento idoneo a trasformare la coraggiosa ricerca di Erasmo in una vera e propria rivoluzione culturale, che contribuira a far crollare i titoli di credito dell'istituzione principe della cristianita, la chiesa cattolica. Le costruzioni teologiche e giuridiche ereditate dal Medioevo furono costrette a specchiarsi sulla pagina della Scrittura, ripulita dalle incrostazioni con cui l'ignoranza o la malizia l'avevano deformata. Fu per merito di Erasmo che il Vangelo, Iiberato dalla prigionia delle glosse ecclesiastiche, riprese a circolare dentro gli spazi dell'umana ragionevolezza, tornando ad essere quel che era stato aile origini: un messaggio di pace. E proprio per questa ragione torno ad essere il punto d'appoggio incontestabile per la critica aile forme di vita - da quella prelatizia a quella monastica, ritenuta nel Medioevo l'emblema stesso della sequela di Cristo - e per Ia critica allo stesso pontificate, i cui titolari, in patente difformita dal mandate evangelico, si erano fatti fautori di guerra o addirittura, come Giulio II, condottieri. L'umanesimo italiano era stato un fenomeno aristocratico, senza veri rapporti con le masse; il nuovo umanesimo europeo si sviluppa invece in risposta a una sensibilita collettiva largamente diffusa che era di carattere religiose. Ecco perche uomini come l'inglese Giovanni Colet (t 1519), come il francese gUt citato (2-1) Jacques Lefevre d'Etaples, come lo svizzero Ulrico Zwingli (1484-1531) e soprattutto come Erasmo, ricercano negli antichi non un modello di umanita rna Ia risposta al bisogno di una riforma morale e religiosa e percia tra gli antichi prediligono i Padri della chiesa e soprattutto il Nuovo Testamento. Nell'applicare anche alla Sacra Scrittura i criteri filologici che gli umanisti del Quattrocento avevano applicate ai classici, Erasmo di Rotterdam (14661536) non obbediva allo spirito di irriverenza, intendeva fornire la possibilita di un contatto diretto con le sorgenti della fede, senza la meditazione dell'autori ta della chiesa. Io vorrei che il Vangelo e le Lettere di San Paolo fossero letti da tutte le donnicciuole, fossero tradotti in tutte le lingue, che il contadino potesse cantarli presso l'aratro, il tessitore trarne delle ariette da intonare presso il telaio, ed i viaggiatori fame argomento di conversazione perche sembri pili breve il cammino. Questa sorta di filosofia e fondata pili sull'intuizione che sui sillogismi, e piu vita che punto di vista,_ piu inspirazione che erudizione, piu trasformazione che ragione ... Che altro e la dottrina di Cristo, che egli stesso chiama rinascita, se non un ritorno alia ben creata natura? Infine, benche nessuno ce l'abbia insegnata cosi compiutamente ed efficacemente come Cristo, nei libri pagani si possono trovare moltissime cose che concordano con la sua dottrina.
C'e qui la premessa fondamentale per una divaricazione tra coscienza del credente e istituzione ecclesiastica. Tocchera a Lutero sperimentarla drammaticamente e proclamarla.
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Erasmo non si riconobbe negli esiti rivoluzionari della propria opera. Il suo intento era di riconciliare il Vangelo con la vita quotidiana, secondo il programma da lui esposto nel Manuale del soldato cristiano (1503). C'e chi vede in Erasmo il precursore della spirito laico, che, un secolo dopa di lui, trionfera nella cultura europea. E certamente la prospettiva cristiana da lui elaborata si svincola dagli sbocchi ultramondani delle costruzioni teologiche medioevali, che saranno riprese con vigore, nel concilio di Trento, dalla chiesa cattolica, la quale, non per nulla, condannera alcune opere erasmiane. Senza negare il fine trascendente della vita terrena, Erasmo identifica la sapienza evangelica con la saggezza di cui e ministra la ragione dell'uomo, purche resti ancorata ai postulati morali, specialmente a quello della pace. Nella sua opera piu famosa, Elogio della follia (1511), egli contrappone, in tono scherzoso rna in realta profondamente serio, alla follia, e cioe all'irrazionalita che sta alla base dei costumi della societa del suo tempo, specie quella ecclesiastica, la follia che fiammeggia nella ragione non appena si scuota di dosso le incrostazioni del sensa comune per farsi strumento delle aspirazioni morali: allora la follia e una sola cosa con la sapienza che accomuna Salomone, Socrate e Gesu Cristo. La piu autentica vena erasmiana e proprio in questa inesauribile guizzo dell'ironia, che smorza gli impeti polemici nella sorridente consapevolezza della insuperabile mediocrita umana e, nel contempo, sovrasta questa consapevolezza, che potrebbe diventare complicita, con l'indomabile fiducia nelle risorse ancora inespresse della natura umana. 2.8. II pacifismo di Erasmo. Questa inimitabile combinazione tra realismo ed utopia fece di Erasmo un maestro dell'Europa, fino al momenta critico in cui la comunita intellettuale della cristianita non si lacero ed egli si trovo nell'impossibilita di schierarsi da una delle due parti: quella della chiesa cattolica, di cui aveva fustigato i vizi per un ventennio, e quella della Riforma, che riconosceva nell'opera erasmiana una delle fonti principali della propria ispirazione: era lui, si disse, che aveva fatto l'uovo che Lutero avrebbe covato. Dai suoi ammiratori protestanti egli fu bollato come l'homo pro se, come uomo incapace di votarsi ad altra causa che la propria. La verita e che Erasmo non sapeva riconoscersi, nemmeno come cristiano, nelle dispute teologiche che trascinavano la fede in zone troppo remote dalla simplicitas evangelica, divenuta per lui una sola cosa con la humanitas insegnata dai classici. Quando, nel 1524, scese in campo contro Lutero con un suo saggio teologico De libero arbitrio (Sui libero arbitrio), non fece che provocare l'estremismo di Lutero, che gli rispose con un saggio che batteva in breccia l'armonia erasmiana tra natura e grazia, un'armonia che era e restera un punto fermo dell'ortodossia cattolica. Ma se Erasmo non ha un posto di rilievo nella storia della teologia, lo ha di sicuro nella storia della fede evangelica in rapporto ai grandi problemi dell'uomo, specie a quello della pace. Nel suo secolo, l'intolleranza tocco il suo culmine con le guerre di religione, il cui sbocco ultimo fu tale da riproporre, per contrasto, la questione se non fosse stato Erasmo, prima ancora della lacerazione prodotta da Lutero, ad intuire quale fosse per la cristianita in crisi il problema decisivo.
38 0 2 · L 'utopia umanistica In un suo lungo saggio, contenuto negli Adagia (1515), Erasmo condensa la sua dottrina sui rapporti tra la chiesa e Ia pace. Lo slittamento della cristianita dall'umile profezia evangelica all'ideologia dell'imperialismo clericale e avvenuto, per Erasmo, quando abbiamo recepito l'intero sistema di Aristotele nel cuore della teologia ... Aristotele ci ha insegnato che la felicita dell'uomo non e perfetta se non e corredata da un bell'aspetto e da beni di fortuna. Aristotele ci ha insegnato che non puo prosperare lo stato nel quale tutti i beni sono comuni. E noi vogliamo accozzare il suo sistema con l'insegnamento di Cristo: tanto varrebbe mescolare l'acqua al fuoco. Abbiamo recepito anche alcuni elementi del diritto imperiale romano. Ma il diritto romano permette di respingere la forza con la forza, consente a ciascuno di perseguire il suo diri tto, approva i traffici, ammette il prestito ad interesse, purche moderato, celebra come egregia la guerra, purche giusta. E quale sarebbe la guerra giusta? Ecco la definizione: giusta e quella guerra che e indetta da un principe sovrano, anche se il principe in questione e un bambino 0 un idiota. Ma come e stata possibile questa mescolanza tra il fuoco e l'acqua? Con sorprendente modernita Erasmo scorge dietro le degenerazioni ideologiche i motivi pratici. E che gli uomini di chiesa cominciarono con l'accettare gli onori offerti !oro dal potere temporale. E dopo gli onori essi accettarono la ricchezza, dapprima per aiutare i poveri e poi perche essa da potere. Alla fine il potere e stato ricercato per se stesso, a! punto tale che «un vescovo non si sente vescovo se non ha un potere temporale». Chiusi nelle spire della logica del potere, gli uomini di chiesa hanno rotto ogni ritegno e battono i pagani per avidita, ambizione, dispotismo. E a partire da questa degenerazione che si capisce come la chiesa, da missionaria del Vangelo, sia diventata una centrale che organizza guerre. Ad esempio, quella contro i Turchi. I Turchi devono vedere in noi non solo il nome rna i sicuri contrassegni del cristianesimo: purezza di vita, desiderio di fare del bene anche ai nemici, incrollabile tolleranza di fronte a tutte le offese, sprezzo del denaro, incuria della gloria, modestia di vita. Quando Erasmo scriveva questi ammonimenti, la cristianita era ancora unita. La tempesta esplodera due anni dopo, nel 1517, col gesto di Martin Lutero. 2.9. Tommaso Moro. Erasmo fece in tempo a vedere coi suoi occhi la sterilita delle sue perorazioni pacifiste. L'Europa cristiana, che lo aveva venerate come maestro, si spacco in due. La frattura teologica divenne ben presto politica e finalmente militare. Sfuggiva totalmente ad Erasmo che tra l'uomo ideale, tratteggiato sul modello evangelico, e l'uomo effettuale sta l'immenso spessore delle strutture economiche e politiche, che non possono essere mosse per semplice virtu d' eloquenza rna solo conoscendo e rispettando le Ioro regole specifiche, che sono appunto le regole dell'agire politico, quelle di cui andava scrivendo, proprio negli anni d'oro di Erasmo, Niccolo Machiavelli. Fu cosi che l'uomo conteso dalle corti e dalle curie si trovo solo, nell'impossibilita di
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riconoscersi in nessuna delle fazioni in lotta. Fece a tempo a seguire, sia pure da lontano, la passione e la morte sul patibolo (1535} del suo amico fraterno Tommaso Moro (1478-1535), che dell'umanesimo cristiano aveva fatto non soltanto un oggetto di riflessione rna anche un coraggioso progetto di vita. Egli fu uno degli artefici della rinascita culturale dell'Inghilterra, che ebbe inizio sulla fine del Quattrocento, quando John Colet trasporto da Firenze la grande utopia della pace religiosa universale, che aveva illuminato gli ultimi anni dei massimi maestri dell' Accademia platonica. Tommaso Moro si sentiva della loro famiglia spirituale, tanto da tradurre in inglese la Vita di Pico della Mirandola. Ma il sodalizio londinese aveva spostato il modello originario da Platone alla Sacra Scrittura e ai Padri della chiesa, facendo propria la svolta. filologica di Erasmo, che, a sua volta, divenuto per qualche anno londinese (a partire dal 1499), trovo nei suoi amici un incentivo ai suoi interessi religiosi. Se Erasmo e Moro fanno coppia a se, e perche, passati ambedue attraverso il tirocinio della scolastica, se ne liberarono con agilita in nome del ritorno al Vangelo. Quando, nel 1516, usd l'edizione bilingue del Nuovo Testamento portata a termine da Erasmo, Moro scese in campo per difenderne la validita, in nome della scienza e in nome dello Spirito, polemizzando contro i teologi accademici di cui mise in ridicolo la dottrina arrogante, frantumata in 'quaestiunculae' e in 'sophismata'. Nello stesso anno in cui usci la grande opera dell'Erasmo filologo, venne alla luce, a Lovanio, per cura dello stesso Erasmo, il libro che doveva Iegare il nome di Moro alia memoria dei posteri. L'Vtopia o della forma migliore diRepubblica. Come Erasmo nel suo Elogio della pazzia aveva espresso, in forma giocosa, la sua indignazione morale, cosi Moro, sotto il velo di una divagazione fantasiosa (anche lui compose il suo 'libello' per vincere la noia di una missione diplomatica}, contrappone alla societa del suo tempo, ritratta in crude tinte, la societa come dovrebbe essere. Questa societa ideale e collocata in un'isola scoperta dall'immaginario protagonista Itlodeo, al seguito di Amerigo Vespucci, ai confini del mondo, rna in realta in un Non-luogo (questo vuol dire, in greco, Utopia). La descrizione dell'isola occupa la seconda parte del libro; la prima e la descrizione della societa del tempo. L'opera, infatti, e come l'esplosione di una necessita morale a cui Erasmo poteva pili facilmente sottrarsi perche il suo vero mondo non era quello dell'operazione politica, era il mondo dei codici antichi. Moro invece ebbe fin da giovanissimo cariche pubbliche che, ai vari livelli di una carriera fulminea, lo tenevano a contatto con le miserie della gente e con la corruzione della corte. Stretto nella morsa della cecita nobiliare e della degradazione della plebe, un uomo integerrimo come Moro non aveva altro sbocco che l'evasione idealistica, il passaggio immaginativo dal luogo reale dell'esperienza al Non-luogo ideale della coscienza. Sarebbe conforme a logica che in mezzo ci fosse un progetto di saldatura politica tra i due mondi e cioe il momento tecnico - quello di cui si stava occupando Machiavelli - del come costruire un principato. E invece c'e il vuoto, un vuoto in cui passa impotente il soffio della pura aspirazione morale, a cui Moro rimarra, per suo conto, cosi fedele da salire, per coerenza, sul patibolo. L'analisi che Moro fa della societa, e pili precisamente della societa inglese
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del suo tempo, non e moralistica, perche mette in giusto rilievo le cause economiche della sua degenerazione. In primo luogo, il carattere parassitario della nobilta, vera causa della disoccupazione, che sospinge verso il crimine o verso la vita militare, la quale a sua volta, nei periodi di pausa della guerra, riversa turbe di sfaccendati aggressivi in seno alla comunita civile. In secondo luogo, l'incipiente industria tessile, che per procurarsi la materia prima, e cioe la lana, trasforma in pascoli le terre e in vagabondi i contadini che in esse vivevano e lavoravano. Insieme alla proprieta contadina viene meno anche l'allevamento del bestiame, il cui costo sui mercato aumenta al punto che solo una piccola elite puo permettersi illusso di un piatto di carne. In un quadro sociale del genere, la monarchia degenera in tirannide e la nobilta, appoggiandosi alia corona, manovra a piacimento la politica monetaria anche per mezzo dello stato di guerra, reale o simulate. Quale rimedio a un cosi generale sfacelo? Nello stesso anno in cui usci !'Utopia, Erasmo dedicava al futuro Carlo V un suo manuale sull'Educazione di un principe cristiano, del tutto concentrate sulle virtu personali del principe da cui dipende la felicita dello Stato. La risposta di Moro e pili globale, perche investe nel suo insieme l'immagine dello Stato, secondo il modello della Repubblica platonica. Nell'isola di Utopia non si ha proprieta privata, vera radice di tutti i mali, ne divisione del lavoro, dato che le prestazioni agricole o artigianali vengono assegnate a turno a tutti i cittadini, salvo i sacerdoti, a cui e affidata la moralita pubblica, e i letterati, che hanno funzioni direttive come i 'custodi' della Repubblica di Platone. I sacerdoti e i letterati costituiscono un'aristocrazia dal cui seno viene eletto democraticamente il supremo magistrate, il principe, che dura a vita, salvo che non cada nella tentazione della tirannide. Il vero fulcro dell'attivita produttiva e l'azienda familiare (diversamente che in Platone, la famiglia e sacra in Utopia) di tipo patriarcale: quaranta persone tra uomini e donne e due servi. Anche le donne lavorano, dato che le ore di lavoro sono tollerabili: sei al giorno. La religione degli abitanti di Utopia e basata su alcuni principi di ordine naturale, evidenti di per se alla ragione: immortalita dell'anima, creata da Dio per la felicita; premio o castigo dopo questa vita. Quando il protagonista del dialogo, Itlodeo (che vuol dire 'spacciatore di chiacchiere') annuncio agli utopiensi la religione di Cristo, essi l'accettarono con entusiasmo perche del tutto conforme a quella che essi gia praticavano. Ma il cristianesimo non veniva impasto: un neobattezzato che oso disprezzare le altre religioni fu esiliato, « secondo le antichissime istituzioni di Utopia, per le quali ognuno puo osservare la religione che piu gli piace». Solo l'ateismo e vietate, perche esso toglie ogni garanzia di osservanza delle leggi. E tuttavia nemmeno l'ateo e perseguitato, salvo che con l'esclusione dalle cariche pubbliche e con la proibizione di discutere le sue idee col volgo. Discuterle puo soltanto con sacerdoti ed esperti che siano in grado di guarirlo dalla sua follia. Cosi si garantisce la prosperita e la pace nelle cinquantaquattro citta che popolano l'isola. Si danno solo tre eccezioni alla pace (il pacifismo di Moro e meno radicale di quello di Erasmo): la guerra difensiva; quella di aiuto a un altro popolo «Oppresso da tirannia e servitu, in nome dei diritti dell'umanita»; e quella di espansione, qualora la popolazione di Utopia sia eccedente e debba emigrare in terre non adeguatamente coltivate.
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Pur nei limiti dovuti alia cultura dell'epoca, la citta ideale di Moro, del tutto priva di riscontri nei comportamenti politici del suo tempo, sara feconda di suggestioni nel futuro, specialmente per la sua critica radicale alia proprieta privata come fonte prima del disordine sociale. Al suo fascino contribui non poco la circostanza drammatica della morte di Moro: divenuto Lord Cancelliere, fu condannato a morte da Enrico VIII perche non aveva assecondato le pretese del re di emanciparsi dalla supremazia religiosa del Papa. Anche per questo (rna non solo per questo) la chiesa cattolica lo ha annoverato fra i suoi santi.
La riforma protestante 2.10. Martin Lutero. L'umanesimo di Erasmo e di Moro aveva portato aliimite le possibilita del mondo cristiano di rinnovare se stesso, rna senza mettere seriamente in questione il proprio assetto politico ed ecclesiastico. L'Europa, nel secondo decennio del Cinquecento, era erasmiana, almeno nei ceti intellettuali pili significativi:'perfino alia corte pontificia le opere di Erasmo, nonostante la sua sferzante ironia antiecclesiastica, incontravano gradimento. Ma la linea di frizione tra le coscienze religiosamente pili serie e le forme storiche della cristianita correva a livelli pili profondi, dove nessuna luce poteva portare un messaggio umanistico che, tutto sommato, appiattiva l'impeto profetico della Scrittura sulle misure di una ragionevolezza troppo vicina al buon senso naturale e troppo reticente circa la legittimita degli ordinamenti ecclesiali formatisi in quindici secoli di ininterrotta tradizione. Erasmo poteva scherzare sul contrasto tra l'apostolo Pietro, che aveva lasciato tutto per l'amore del suo Maestro e le pompe mondane dei suoi successori, rna, quando fu messo aile strette dai luterani, dichiaro di voler morire nella chiesa cattolica, per quanto desiderasse di vederla migliore. Egli poneva pili fiducia nell'incremento delle humanae litterae, ricondotte dall'asse pagano a quello patristico ed evangelico, che non nella contestazione dell'autorita religiosa. Gli sfuggivano le implicazioni ·del suo 'evangelismo': una volta restituita alia sua liberta di discernimento della Parola di Dio, Ia coscienza non poteva non scontrarsi con una istituzione che presumeva di sostituirsi alia Scrittura. Questo era infatti il principio portante della chiesa formatasi nel periodo della cristianita: il rapporto tra l'uomo e Dio veniva inquadrato in un sistema di mediazioni di cui l'autorita del Papa era Ia suprema espressione e Ia. suprema garanzia. La salvezza eterna era raggiungibile attraverso la grazia dei sacramenti amministrati dalla chiesa e attraverso la docilita aile sue norme disciplinari, arricchite, mediante la concessione delle indulgenze, di un'efficace partecipazione ai meriti acquisiti da Gesli Cristo con la sua morte. Erano queste le 'opere' che rendevano l'uomo giusto dinanzi a Dio, meritandogli il premio della salvezza. Quest'anima ideologica della cristianita, che non poteva essere scalfita dal-
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le semplici invettive contra il malcostume ecclesiastico e monacale, si trovava invece in diretto contrasto col crescente bisogno di interiorizzare Ia pratica della fede, un bisogno che aveva gUt creato, quae la per !'Europa, movimenti e gruppi ad alta intensita di devozione e aveva ritagliato, dentro Ia compagine cattolica, spazi di autonomia dove, per lo piu, ci si limitava a prendere le distanze sia dalla mondanita della chiesa, sia dalle sterili raffinatezze della cultura umanistica. Questa crescita della soggettivita religiosa era dovuta anche a ragioni di altra natura, prima tra tutte il diffondersi della mentalita, che oggi diremmo borghese, il cui tratto essenziale era l'estraneita ai quadri e ai costumi dell'eta dei feudi e delle signorie. La richiesta Iatente nei fermenti sociali e religiosi dei primi decenni del Cinquecento era di uno scardinamento delle gerarchie che impedivano alla coscienza la riappropriazione dei propri diritti. su cui si basa la sua fondamentale autonomia: era, insomma, la fine del sistema delle mediazioni. La scossa decisiva a questa sistema fu data da Martin Lutero (1483-1546). Quando, il 10 dicembre 1520, egli getta sui rogo, in cui i suoi ammiratori avevano gia gettato manuali di teologia scolastica e di diritto canonico, la Bolla di scomunica inviatagli da Leone X, la cristianita medioevale era fondamentalmente infranta: «Perche hai turbato la verita di Dio, il Signore ti distrugga oggi in questa fuoco, Amen», disse Lutero. In tre anni, e cioe da quando, la vigilia d'Ognissanti del1517, egli aveva affisso sulla porta della cattedrale di Wittemberg le sue 95 tesi sfidando chiunque a discuterle con lui, il consenso aile sue posizioni era talmente cresciuto che a cercar luce e calore in quel rogo era ormai una grossa porzione della cristianita. Prima di essere una ribellione istituzionale, quella di Lutero era stata una conversione interiore e cioe il passaggio da una fede basata sulle opere, e dunque sulla mediazione della chiesa, a una fede basata direttamente sulla Parola di Dio e dunque sui libero movimento della coscienza. Il 'ritorno aile origini', che aveva avuto nell'umanesimo erasmiano un significato filosofico ed etico, fu, in Lutero, un vero capovolgimento antropologico, che lo radicava, scartando in blocco l'intera tradizione, nella Sacra Scrittura e piu precisamente in quella parte della Sacra Scrittura che fa dipendere la salvezza da niente altro che dalla decisione misericordiosa di Dio. Questa conversione era avvenuta molto prima, nel 1513, in un esperienza che va sotto il nome di Turmerlebnis, esperienza della Torre, perche sarebbe avvenuta mentre il monaco agostiniano, dottore in Sacra Scrittuni, meditava sui senso di un brano fondamentale della Lettera ai Romani di san Paolo. Ne parlo lui stesso, alla vigilia della morte: Ero stato infiammato dal desiderio di intendere bene un vocabolo adoperato nella Epistola ai Romani, a! capitolo primo, dov'e detto: 'Ia giustizia di Dio e rivelata nell'Evangelo'; poiche fino allora lo consideravo con terrore. Questa parola, 'giustizia di Dio', io Ia odiavo, perche Ia consuetudine e l'uso che ne fanno abitualmente tutti i dottori mi avevano insegnato a intenderla filosoficamente: la giustizia che essi chiamano formale o attiva, quella per la quale Dio e giusto e punisce i colpevoli. Nonostante l'irreprensibilita della mia vita di monaco, mi sentivo peccatore davanti a Dio, la mia coscienza
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era estremamente inquieta e non avevo alcuna certezza che Dio fosse placato dalle mie opere soddisfattorie ... Finalmente Dio ebbe compassione di me. Mentre meditavo giorno e notte ed esaminavo Ia connessione di queste parole: 'La giustizia di Dio e rivelata nell'Evangelo, com'e scritto: il •giusto vivra per fede', incominciai a comprendere che Ia giustizia di Dio significa qui Ia giustizia che Dio dona, e per mezzo della quale Dio, nella sua misericordia, ci giustifica mediante Ia fede, com'e scritto: 'II giusto vivra per fede'. Subito mi sentii rinascere e mi parve che si spalancassero per me le porte del paradiso.
Ecco dunque il capovolgimento luterano: a rendere giusto l'uomo dinanzi a Dio non sono le opere (giustizia attiva), e una concessione gratuita e misericordiosa di Dio, una specie di imputazione esterna che, senza trasformare l'uomo, che resta intrinsecamente peccatore, lo salva. E la giustizia. passiva. In termini filosofici, questo significa il rigetto di ogni armonizzazione tra la spinta dell' eros, che sospi{l.ge l'uomo di grado in grado verso una sempre migliore rassomiglianza con Dio, e il moto dell'agape, della carita di Dio (grazia) che va verso l'uomo e lo assimila a se. La teologia medioevale aveva trovato in questo progetto di conciliazione tra natura e grazia, tra ascesi morale e santificazione soprannaturale, tra filosofia e fede, tra saggezza umanistica e sapienza evangelica l'asse centrale del proprio sviluppo e delle proprie dialettiche. La crisi di questo progetto scolastico si era avuta con il nominalismo e soprattutto con Occam (1.12.8), la cui filosofia era dominante negli ambienti di formazione di Lutero. Era stato Occam a recidere il nesso tra razionalita umana e razionalita divina, sistemando la prima dentro gli orizzonti puramente terreni e assorbendo la seconda nella trascendenza dell'arbitrio divino, non vincolato a nessuna 'ragione'. Il linguaggio filosofico di cui si serve Lutero e ancora quello occamista, rna, dopo Ia conversione, la sua premura sara di rigettare ogni forma di sapere e perfino di linguaggio che non sia derivata direttamente, senza mediazioni filosofiche, dalla Scrittura. 2.11. Le tesi luterane. Ma non per questo egli esce dalla storia del pensiero: le sue tesi teologiche, oltre a scardinare l'edificio medioevale e a tagliare dalla radice le lussureggianti vegetazioni dell'umanesimo cristiano, hanno modificato, in modo irreversibile, Ia stessa riflessione filosofica sull'uomo. In questa sede non possiamo che limitarci a ricordare alcune di queste tesi, accentuandone Ia loro angolazione filosofica. 1. Se la 'giustizia' e un'imputazione esterna dei meriti di Cristo, diventano inutili, anzi peccaminosi, gli sforzi ascetici su cui si basavano sia la vita monacale (Lutero abbandonera il suo stato di religioso agostiniano e si sposera nel 1525), sia l'insieme delle pratiche religiose con cui i fedeli miravano ad accaparrare meriti e indulgenze. Resta, come unica virtu capace di salvare e che d'altronde viene anch'essa da un dono di Dio, la fede: la fede, occorre precisarlo, nella potenza salvifica del Vangelo. L'oggetto di questa fede e dunque niente altro che la Scrittura: sola fides e sola Scriptura. Anche per comprensibili ragioni polemiche, Lutero da a queste 'unicita' della fede e della Scrittura un significato esclusivo, tale cioe da rigettare tutto il resto nel non-valore. L'uo-
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mo, ad esempio, non importa se virtuoso o vizioso, e sempre, in se considerato, un peccatore anche quando la fede lo fa giusto: simul justus et peccator. Una caratteristica del pensiero luterano e proprio quest'affermazione dei contrari, il cui luogo di sintesi non e nella sfera dell'intelligibile, e nel mistero di Dio. II peccato di cui egli parla come di condizione insuperabile e la concupiscenza, da intendere non come impulso sessuale, rna come appetito irresistibile che spinge l'uomo, sia in quanto carne sia in quanto spirito, a cio che e terrestre e lo distoglie da cio che e divino. II che nor. vuol dire affatto che per Lutero le buone opere siano insignificanti, solo che, invece di mezzi per ottenere grazia, esse sono espressioni della grazia ricevuta, segni visibili della predestinazione alia salvezza. E qui che va collocato il contrasto tra Erasmo e Lutero circa la liberta dell'uomo in rapporto alla salvezza. La volonta umana - cosi risponde Lutero ad Erasmo che aveva difeso illibero arbitrio - e posta tra Dio e Satana come un giumento; se Dio vi sta sopra, egli vuol andare e va dove Dio vuole ... Se invece sui suo dorso si e assiso Satana, allora vuol andare e va dove Satana vuole e non e in sua Iibera scelta poter correre lontano dai due cavalieri o il poterli cercare; sono questi ultimi, piuttosto, che lottano per tenerselo stretto e per possederlo.
2. Cade cosi, d'un colpo solo, la mediazione della chiesa, che presumeva di parlare all'uomo in nome di Dio, sostituendosi alia Scrittura, e di guidare l'uomo verso Dio mediante la disciplina sacramentale (dei sette sacramenti Lutero ne salva due, il battesimo e la Cena Eucaristica) e quella ascetica (che trovava la sua attuazione esemplare nella vita monacale). La chiesa none che la cornunita dei predestinati, a diretto contatto con Ia Parola di Dio, senza gerarchie interne. II papa, i vescovi, i preti, hanna usurpato, secondo Lutero, le prerogative (come quella del sacerdozio) che appartengono in esclusiva a Cristo, che le trasmette in modo indivisibile alla comunita. Venuta meno Ia polarita clericale a vantaggio della signoria di Cristo, la comunita si trova nuda di ogni apparato ecclesiastico, esposta immediatamente al mondo: la sua e una vita nel mondo segnata da una diversita di vocazioni (Beruf) che sono, per un verso, tutte Iaiche e, per l'altro verso, tutte animate dall'appello dello Spirito. Nasce cosi (fatto importante nella nascente societa borghese) la qualificazione cristiana delle professioni. 3. La dottrina medioevale sulle due podesta- quella spirituale della chiesa e quella temporale dell'impero - viene sostituita, in piu diretta conformita con l'insegnamento di sant'Agostino, con la dottrina dei due 1~egni: quello spirituale, che e Ia chiesa sottoposta alia Parola di Cristo (e qui il Cristiano «e Iibera signore sopra ogni cosa e non e sottoposto a nessuno») e quello temporale, affidato ai principi e retto da leggi coercitiye, senza le quali, a causa della concupiscenza, la societa cadrebbe nell'anarchia (e in questa regno il cristiano <<e tenuto a servire in ogni cosa ed e sottoposto ad ognuno»). Al Principe, strumento di Dio anche lui, e affidata l'amministrazione della chiesa, salvo che nel momenta in cui la chiesa si raccoglie attorno al Cristo che parla nella Scrittura. Ogni tentativo di trasformare la societa terrena secondo le direttive evan-
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geliche e, per Lutero, sacrilega presunzione: la societa terrena e irrimediabilmente nell'economia del peccato. In questo, il misticismo di Lutero viene a coincidere paradossalmente col realismo di Machiavelli. Egli fu del tutto coerente con se stesso quando chiese ai Principi di sterminare come 'bestie selvagge e feroci' i seguaci di Thomas Miintzer, che avevano inteso il ritorno al vangelo come un appello ai poveri (nel caso, alla vessata classe dei contadini) perche si emancipassero dal giogo dello sfruttamento. E alla dottrina dei due regni che si deve l'indifferenza luterana per le forme di regime politico. Negli anni che vanno dal 1517 al 1526, Lutero, con una potenza creativa che ha del prodigioso, non solo mise le basi di una nuova confessione cristiana, rna mise in stato di progressiva e rapida demolizione Ia cristianita mediaevale e dette l'avvio all'eta moderna nella storia della coscienza. II suo principio di fondo (potremmo dirlo «il principio protestante») che si debba porre sotto giudizio ogni pretesa di assolutezza da parte di una realta relativa, entra a far parte per sempre dei modi d'essere dello spirito umano, fondendosi con analoghi 'principi critici', che, nel giro di un secolo, eromperanno dalla crisi della teocrazia medioevale: basti pensare al principio galileiano del sapere scientifico basato sull'esperimento. Per molti versi Lutero e ancora un mediaevale, come, ad esempio, nella maniera drammatica di vivere il rapporto con Dio o come nella legittimazione sacra del potere del Principe. Ma quando spazza via, con un medesimo gesto, le auctoritates degli scolastici e quelle degli umanisti, per esaltare, quale ultima istanza, Ia coscienza umana nella sua solitudine dinanzi alla Parola di Dio, egli, a dispetto del suo pessimismo teologico, da inizio ad un nuovo capitolo nella storia della liberta, che e una tappa necessaria nella genesi del moderno spirito laico ed e anche (come oggi i cristiani di ogni confessione son disposti a riconoscere) un punto di non ritorno nella comprensione del significato del vangelo di fronte ai compiti storici dell'uomo. Una volta scossa nelle sue fondamenta la compagine della cristianita, mediante la sostituzione dell'autorita clericale con l'autorita della Parola di Dio, presero avvio numerose tendenze di riflessione teologica e di esperienza ecclesiale che qui non e il caso nemmeno di enumerare. Tra di esse, proprio per ]'influenza che ebbe nelle origini dello spirito moderno, va invece ricordata quella che venne dal calvinismo.
2.12. Giovanni Calvino. Nato a Noyon, in Francia, nel 1509, Giovanni Calvino (1509-1564) dimostra fin dalla giovinezza il gusto dell'analisi e delle costruzioni logiche proprie della tradizione culturale della sua terra, e del tutto all'opposto dell'irruenza passionale di Lutero. II suo distacco dalla chiesa cattolica avviene nel 1533, quando, tutto preso da interessi filologici di tipo erasmiano, si converte, sulla scia di Lutero (di cui gia conosceva gli scritti), alia sola fides e alia sola Scriptura. Nel 1536 pubblica in Iatino, a Basilea, la sintesi del suo nuovo credo: L 'istituzione cristiana, tradotto da lui stesso nel 1541 in una limpida lingua francese, che restera un modello, un po' come per i tedeschi la traduzione della Bibbia fatta da Lutero.
46 0 2 -La riforma protestante II 'calvinismo' era gia tutto contenuto in quel libretto, rna si sarebbe espresso soprattutto nella singolare esperienza di una citta, Ginevra, che si assunse il compito di modellare se stessa, sotto la guida di Calvino, secondo la nuova dottrina. Ginevra divenne la 'citta santa', la dimostrazione tangibile di quale avrebbe dovuto essere, in tutto il mondo, il progetto della predicazione del vangelo. Uno strumento di efficace irradiazione della 'citta santa' fu l'Accademia, fondata nel 1559: alla morte di Calvino contava 1500 alunni di varie parti d'Europa, destinati a diventare missionari intrepidi della nuova fede. Senza l'Accademia, la storia d'Europa sarebbe stata diversa. Calvino presuppone Lutero, di cui venne ritenuto il maggiore dei discepoli, rna nel suo insegnamento ci sono alcune peculiarita destinate ad avere un'efficacia tutta propria nella formazione dell'uomo moderno. 1. La dottrina calvinista e pili rigidamente teocentrica di quella luterana, nel senso che, mentre Lutero avverte nella sovranita assoluta di Dio soprattutto il tratto della misericordia, Calvino vi avverte soprattutto quello della giustizia, dinanzi alla quale la fede, che in Lutero ebbe non di rado accenti di esultanza, e austera e tutta concentrata nel timore e tremore. Dio non ha che un fine: la propria gloria, nella quale rientra, rna secondo le sue misure, anche la salvezza dell'uomo, divenuto per il peccato totalmente incapace di qualsiasi capacita di approssimarsi a Lui. L'antropologia di Calvino, non meno pessimistica di quella di Lutero, trova il suo sbocco estremo nella dottrina della predestinazione, presente, rna non in modo cosi centrale, nell'insegnamento del primo Riformatore. Chiamiamo predestinazione - cosi si legge nella lstituzione - l'eterno decreto di Dio, col quale egli ha stabilito che cosa debba avvenire di ogni singolo uomo. Infatti non tutti vengono creati di eguale condizione: rna per gli uni viene preordinata la vita eterna, per gli altri la dannazione eterna.
Dio rivolge, si, l'invito alla salvezza a tutti gli uomini, rna tale invito e efficace solo in coloro che sono santificati dallo Spirito Santo; gli altri sono necessitati al male con una necessita che non e coazione esterna rna inclinazione interna invincibile alla quale essi non possono non aderire. Invece di determinare un atteggiamento fatalistico, come sarebbe logico, una simile dottrina ha spinto il calvinista a cercare i segni della predestinazione alla salvezza in una vita conforme al comandamento divino. 2. L'insieme dei predestinati alla salvezza di qualsiasi generazione, a partire dagli inizi del mondo, formano la chiesa invisibile, che e oggetto di fede. La chiesa visibile comprende in se anche gli ipocriti, destinati alla morte eterna. E tuttavia essa e una necessita: al di fuori di lei non c'e salvezza possibile per nessuno. Come nella chiesa di Lutero, anche in quella calvinista la Signoria e del Cristo, che la esercita tramite la sua Parola. Il che non esclude una organizzazione. Nella chiesa ginevrina essa era complessa e onnipresente: basata sul criteria elettivo, prevedeva consigli parrocchiali e al vertice un sinodo, formato di laici e di pastori. 3. La dottrina luterana dei due regni viene corretta da Calvino in una concezione unitaria dei rapporti tra Stato e chiesa. Non solo lo Stato e uno stru-
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mento di Dio, rna deve essere a suo modo un'immagine del suo Regno. Senza intromettersi neUe questioni proprie della chiesa (la liturgia, la disciplina ecclesiastica, la professione di fede), lo Stato deve tuttavia vigilare sulla osservanza dei comandamenti e deve tutelare la liberta della chiesa. Solo se cristiano, lo Stato e veramente tale. In caso contrario, i fedeli non hanno diritto di resistere direttamente: lo possono fare tramite i magistrati popolari che hanno da Dio il diritto di resistenza: se poi anche questi si fanno complici col potere oppressivo, vengano considerati come traditori. Ma quest'ultima evenienza era, per Calvino, puramente ipotetica, dato che la situazione ginevrina gli consentiva di vivere, in modo relativamente tranquillo, il suo modello della distinzione e insieme della convergenza tra Stato e chiesa. 4. E facile vedere nella concezione politica di Calvino un residuo di teocrazia. La novita vera del calvinismo e nella sua esaltazione dei compiti terreni dell'uomo, qualificati come risposta ad una vocazione divina, i cui sintomi sono, oltre che la severita morale con cui vengono vissuti, anche i risultati tangibili con cui vengono premiati. Calvino permetteva, -ad esempio, quel che la chiesa cattolica e quella luterana ancora proibivano: il prestito a interesse, che sta alla base dell'etica capitalistica. Egli comprese che, come il lavoro, anche il denaro e di per se produttivo di ricchezza. Se si congiungono questa irituizione, di cui fece largo uso la chiesa calvinistica, e la convinzione che il successo negli affari e un indizio della divina benevolenza, abbiamo la premessa prima, come vide Max Weber, di quella che potremmo chiamare l'etica del capitalismo.
Riforma cattolica e controriforma 2.13. La riforma cattolica. Si puo dire che solo in questi anni, sia a causa di una indagine storica pili approfondita, sia soprattutto peril venir meno di una impostazione storiografica basata su pregiudiziali controversistiche, le due Riforme, quella luterana e quella calvinista, vengono considerate come due sviluppi estremi, e proprio per questo dirompenti, di un moto di riforma gia presente all'interno della chiesa cattolica, del quale il Concilio di Trento fu lo sbocco in gran parte autonomo, anche se per molti versi tardivo e condizionato dalle drammatiche fratture avvenute nel frattempo. C'e stata, insomma, una riforma cattolica accanto a quella luterana e quella calvinista, per non dire delle altre che da queste due si ramificarono, rendendo cosi pili evidente e pili definitiva la frattura della cristianita. La riforma cattolica va tenuta distinta dalla cosiddetta Controriforma (termine entrato in uso nel XVII sec.) che consiste nelle misure disciplinari messe in atto dalla chiesa di Roma gia prima del Concilio - come il Tribunale dell'Inquisizione, posto sotto il controllo della Congregazione del Sant'Uffizio (1542) e la Congregazione dell'indice (1543) che curo e pubblico, a partire dal 1559, la lista dei libri proibiti - o dopo il Concilio, come la proibizione della
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traduzione in volgare della Bibbia, il cui testa ufficiale continuo ad essere la Vulgata di san Girolamo, nonostante i controsensi che erano stati messi in luce da Erasmo. Potremmo dire che la Controriforma fu la dimensione politica della Riforma cattolica, la quale attinse invece dai movimenti di pensiero e di vita che da circa un secolo avevano preso forma in diverse regioni della cristianita. Basta ricordare il fatto che i due ordini religiosi maggiormente impegnati nel diffondere la riforma tridentina sono nati prima del Concilio di Trento, i Cappuccini nel 1526 e i Gesuiti nel 1540, e che il contributo forse pili decisivo aile conclusioni del Concilio venne dalla Spagna, dove, agli inizi del secolo, per opera del cardinal Cisneros, Ia chiesa aveva intrapreso una sua propria riforma e da dove partirono i primi missionari: Francesco Saverio approdo in India nel 1542. Rientra in questa quadro anche l'umanesimo erasmiano, che, come abbiamo detto, arricchi di slancio e di argomenti il bisogno di un cambiamento radicale della chiesa. 2.14. II cattolicesimo tridentino. E vero tuttavia che l'opera dottrinale del Concilio fu simmetrica alle tesi di fonda su cui si era rapidamente arroccata la riforma luterana, il cui documento, per certi versi conclusivo, e la Confessione di Augusta, redatta nel 1555 da Melantone (Lutero era morto da nove anni). Se si tiene canto che, quanta a dottrina, la riforma luterana e quella calvinista differiscono ben poco, si puo dire che alia meta del '500 sono gia ben determinate le due identita cristiane che dureranno, senza sostanziali mutamenti, fino ai nostri giorni: quella cattolica e quella protestante. 1. Per la chiesa cattolica le sorgenti della fede sono due, Ia Scrittura e la Tradizione. La Parola di Dio, e cioe Ia Scrittura, non va rimessa al libero esame dei credenti, perche essa mantiene il suo sensa autentico solo mediante Ia testimonianza dei santi Padri e dei concilii approvati e mediante il giudizio e il consenso della chiesa. Il concilio tridentino non proibi (Ia proibizione, come si e detto, fu un provvedimento della Controriforma) Ia traduzione dei Libri Sacri neUe lingue nazionali, rna fece obbligo di riferirsi alia Vulgata <>. Eccitato dalla grazia, il Iibera arbitrio puo collaborare con Dio che ci chiama alla salvezza. L'uomo dunque e responsabile del bene e del male e non semplicemente unq strumento dell'arbitrio divino. Che Dio sappia fin dall'eternita (prescienza) quale sara il comportamento dell'uomo non vuol dire affatto che Egli determini in anticipo le sue scelte e il suo destino (predestinazione). Le opere dell'uomo, dunque, sono, insieme alia fede, necessarie alIa salvezza. Su questa punta la dattrina del cancilia si ispiro ampiamente agli insegnamenti di Tommaso d'Aquino, il quale, proclamato in quegli anni 'Dottore della chiesa', divenne (e lo e stato fino al Vaticano II) l'autorita somma nelle questioni teologiche. 3. Come tra Ia coscienza del credente e Ia Scrittura sta, quale criteria di certezza, l'insegnamento della chiesa, cosi tra il 'Iibera arbitrio' dell'uamo e la salvezza sta l'insieme dei sacramenti, amministrati dalla chiesa: l'uama patra salvarsi o perdersi a seconda dell'uso che sapra fare di questi segni visibili
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della grazia, che essi conferiscono con efficacia a tutti colora che non frappongono ostacoli alla loro azione. In tal modo ritrova fondamento la mediazione ecclesiale che i riformatori avevano osato abbattere. Anche se dominata da un intento controversistico, l'opera dottrinale del concilio non fu di semplice restaurazione. Non poche esigenze maturate nella lunga stagione della 'riforma cattolica' e perfino alcune riforme delle chiese considerate eretiche vennero assunte dalla dottrina cattolica. Fu piuttosto nella prassi, dominata dallo spirito controriformistico, che la 'verita tridentina' assunse sviluppi unilaterali, come avviene sempre nella dinamica del pensiero, quando e dominata dal sottinteso della controversia. Non era facile, per una chiesa avvezza a dominare, anche intellettualmente, sull'intera area della cristianita d'occidente, adattarsi ad essere solo una parte tra le parti. Essa conservo la pretesa di rappresentare, nella storia del pensiero umano, la continuita, mentre i 'novatori' erano ai suoi occhi senza nessuna legittimazione nella tradizione e quindi condannati a vivere l'effimera avventura delle sette. Lo stesso appellativo 'cattolico', e cioe 'universale', comincio ad esprimere questa consapevolezza: che le cose andassero in modo diverso, che cioe alla stessa sorgente della Rivelazione si riferissero in modo autonomo altre famiglie della vecchia cristianita era un dato di fatto che non avrebbe mai potuto diventare un diritto. Le guerre di religione hanna sullo sfondo questa conrlitto di teologie in cui si innestano, con un intreccio che solo pili tardi sarebbe stato possibile districare, interessi di altra natura e, pili ancora che gli interessi, i ritmi autonomi di una maturazione della coscienza umana dalla quale sarebbe nata, sciogliendosi dalle strette delle controversie ecclesiali, la coscienza laica. 2.15. La seconda scolastica. Dal punta di vista filosofico la riforma cattolica favori la restaurazione della Scolastica in quella che era stata la sua espressione pili grandiosa: la sintesi di Tommaso d'Aquino, che torno a dominare nelle scuole di teologia, anche perche fu adottato come dottore ufficiale della Compagnia di Gesli. Il fondatore dell'ordine religioso, lgnazio di Loyola (14911556), aveva gia fatto, per proprio canto, della dottrina tomista la premessa su cui basare il suo progetto di vita ascetica, di cui sono documento gli Esercizi spirituali del 1548, che restano l'opera fondamentale per comprendere lo spirito della Controriforma. La Congregazione dell'Ordine la imporra, nel 1593, a tutti i suoi membri come autorita dirimente in questioni teologiche. Ma il ritorno a Tommaso d'Aquino aveva gia dato vita a una rinascita della scolastica, prima ancora del Concilio di Tr.ento, in una regione della cristianita che sarebbe stata la roccaforte della controriforma: la penisola iberica. Le Universita di Salamanca e di Alcala, in Spagna e di Coimbra, in Portogallo, erano state i focolai di risveglio filosofico e teologico sin dagli inizi del secolo e cioe subito dopo la ricomposizione dell'unita politica del regno di Spagna sotto Isabella e Ferdinanda. Il pioniere di questa rinnovamento fu Francisco de Vitoria (1480-1546) maestro dell'universita di Salamanca dal 1526 al 1544, dunque in eta pretridentina. A Parigi egli aveva subito il fascino dell'umanesimo erasmiano (che d'altronde aveva in Spagna non pochi rappresentanti) e aveva sostituito, come
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manuale di teologia, la Summa theologica di Tommaso al Libro delle Sentenze di Pietro Lombardo. Nel suo insegnamento a Salamanca egli affronto e risolse, in chiave tomistica, alcuni grandi problemi posti alla coscienza cristiana dall'ampliamento degli orizzonti successivi alle scoperte geografiche. Il piu grave di questi problemi, anche perche direttamente connesso ai nascenti appetiti colonialistici della Spagna, era quello del diritto. naturale, come fondamenta dei rapporti tra gli indigeni (nel caso specifico gli indios) e i paesi occupanti. Una certa teologia cortigiana era giunta a legittimare il sopruso dei conquistadores con questa specioso argomento: essendo senza battesimo, gli indios sono nel peccato originale, uno dei cui effetti e di spogliare l'uomo della sua originaria dignita e quindi anche dei diritti naturali. Secondo Vitoria (non si dimentichi che siamo negli anni della disputa tra Erasmo e Lutero sul libero arbitrio) in tutti gli esseri razionali c'e un modo naturale di rendere omaggio a Dio, anche se di Dio non si ha conoscenza: e l'atto morale, basato sui discernimento tra il bene e il male. Scegliere il bene e gia, in modo implicito, scegliere Dio che del bene e il primo fondamento. Il peccato originale non distrugge affatto questa radicale dignita delle creature. Gli indigeni d'oltre Atlantica erano dunque signori a pieno titolo delle terre che occupavano. Noi non avevamo diritto di prendere le loro terre - dice Vitoria - piu di quanto ne avrebbero avuto1oro di prendere le nostre se avessero scoperto per primi il nostro continente ... Non e lecito far loro guerra per punirli dei loro crimini perche non ne hanno, ne per imporre loro il Vangelo perche il Vangelo non s'impone con la forza. Solo quando i popoli indigeni lasciano senza il dovuto sfruttamento le terre in cui abitano, diviene giusta l'occupazione da parte di altri popoli purche questi si propongano il vantaggio dei popoli colonizzati.
Negli anni in cui Machiavelli fondava il. diritto sull'arbitrio dei Principi e Lutero rimetteva tutta la sfera del diritto civile in mano ai sovrani temporali, veri tramiti della volonta di Dio, Vitoria poneva le basi del 'diritto naturalt~', dilatandolo oltre ogni frontiera fino a trasformarlo in 'diritto delle genti'. Il quale, egli dice, non ha soltanto la forza di una convenzione o di un patto tra gli uomini, rna quella di una 'legge vera e propria', di una legge che limita la sovranita di ogni singola nazione in vista del bene dell'umanita. La Iegge delle genti, fondata sul diritto naturale, che a sua volta esprime la Iegge divina, e capace di conferire diritti e di creare obbligazioni, dato che «l'umanita nel suo insieme forma, in qualche modo, uno Stato unico e percio ha il potere di fare leggi che si applicano legittimamente a tutti». 11 pensiero giuridico di Vitoria rimarra sopraffatto dalle guerre di religione ed avra una sua ripresa solo alla fine del secolo per opera di Francisco Suarez (1548-1617) che, in opposizione aile nascenti teologie dell'assolutismo regio (come quella di Giacomo Stuart, secondo il quale il re e responsabile solo dinnanzi a Dio), sviluppera la dottrina della sovranita popolare. L'autorita none conferita al re da parte di Dio in modo diretto, rna mediante la volonta popolare. Le tesi di Vitoria facevano eco, nelle sfere accademiche, a quelle che, a partire dal 1514 (e dunque in anticipo sull'Utopia di Moro) andava propugnando contra oppositori d'ogni genere Bartolomeo Las Casas (1474-1566), un sacerdo-
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te di Siviglia trapiantatosi neUe isole dei Caraibi al seguito dei Conquistatori. Unendo esperimenti pratici alle battaglie teoriche, egli sostenne, contra i teologi aristotelici convinti che ci fossero 'schiavi per natura', Ia liberta naturale di tutti gli uomini e dunque anche degli indios, dei quali scrisse anche una storia, ispirata ad una profonda ammirazione per le qualita native di quei popoli decimati dall'ingordigia spagnola. Tocco al Vitoria, per incarico della Corona, dare un giudizio sulle tesi di Las Casas, diventato anche lui domenicano, e fu naturalmente un giudizio a favore. Ma !'eta di Suarez non e piu quella di Vitoria: tra ]'una e l'altra c'e di mezzo la conflagrazione delle guerre di religione, che sospingera Ia chiesa cattolica a ribadire il proprio rifiuto sia delle 'ragioni' implicite nelle chiese riformate, sia delle 'ragioni' implicite negli stati nazionali ormai emersi dal disfacimento della cristianita. Anche la straordinaria esperienza dell'espansione missionaria, che la compensava delle gravi amputazioni subite nella vecchia Europa, non seppe ispirarsi all'universalismo della rinascita tomistisca spagnola. Sicche sui piano della prassi storica, e della teologia volta a giustificarla, resto inoperante proprio que! nucleo di verita che Ia chiesa assunse, nel concilio di Trento, come espressione della propria identita: l'armonia tra Ia ragione e la fede, tra Ia natura e la grazia, tra la societa naturale e quella soprannaturale. Le virtualita umanistiche nascoste in queste verita teologiche rimasero occultate o svuotate dalla premura dominante, quella di difendere, anche con la spada, il primato della chiesa, sia nella vita interna degli Stati, sia nei · nuovi spazi aperti dal colonialismo. Si puo dire che, con Ia Controriforma, il pensiero filosofico cattolico (se per tale si intende quel che ufficialmente si intendeva: il tomismo) scompare dalla scena. La storia culturale del mondo moderno sara sostanzialmente una storia laica. 2.16. Agli esordi dello Stato laico. E su questa sfondo che acquista pieno sensa il pensiero di Jean Bodin (1529-1596), da molti considerate come il prima teorico dello Stato moderno. Nato ad Angers, fu giurista e avvocato a Parigi. dove esercito una notevole influenza alla Corte di Enrico Ill. Eccezionale fu la sua capacita di spingersi nei campi piu diversi del sapere, dal diritto aile lingue, dalla matematica all'astronomia, dalla sociologia alia storia comparata. Il suo nome e legato, oltre che al suo capolavoro, i Sei libri sulla Repubblica (1576), anche a interessanti analisi economiche, nate dalle tormentate esperienze monetarie che la Francia visse nel corso del '500. Nella Risposta al paradosso del Signor de Malestroit circa il rincaro di ogni cosa e il modo di porvi rimedio (1560), egli si accosta alia problematica monetaria con una lucidWt che prelude gia alla argomentazione cartesiana. La sua tesi 'metallista' e stata uno dei principali punti di riferimento del dibattito storiografico contemporaneo sulla rivoluzione dei prezzi nel '500. Il trattato politico Sei libri sulla Repubblica e un libra complicato, non privo di contraddizioni, ben lontano comunque dalle qualita letterarie e dal rigore del Principe. II suo merito e di trascurare l'eccezionalita delle virtu eroiche, per concentrarsi sul lavoro sotterraneo della crescita della Stato. Alia base dell'affermazione della Stato non ci sono i grandi protagonisti del Principe, le
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grandi individualita, c'e I' opera degli uomini esperti di diritto e di finanza, della 'borghesia degli uffici', di que! gruppo sociale, insomma, da cui esce Bodin. La dura prova delle guerre di religione aveva reso urgente la risoluzione sia del problema dell'estensione del potere d'intervento della Stato e della sua coercitivita, sia quello dei diritti dei sudditi. La risposta di Bodin ai due problemi va valutata alla luce delle polemiche che !'opera di Machiavelli aveva suscitato in Francia, dove la 'tirannide straniera', quella di Caterina de' Medici e della sua corte, con le dissolute dottrine 'fiorentine', aveva corrotto la 'gloriosa nazione' precipitandola nelle guerre civili. Tutti sanno, affermava il Gentillet nei suoi Discorsi (1577), che <>. A differenza eli altri avversari dd machiavellismo, che gli si opponevano richiamandosi, come il Gentillet, alle tradizioni e ai valori cristiani e cavallereschi dell'eta medievale, Bodin si preoccupa di allontanare i pericoli insiti nelle origini della Stato moderno, conservandone pero le forze costruttive, combattendo insomma sui suo stesso terreno. Anziche prendere le masse dalle esigenze del potere, che portano inevitabilmente ad un'azione politica distruttrice della morale e del diritto, egli determina l'essenza della Stato moderno a partire dall'idea di diritto. E cosi che egli perviene al concetto di sovranita, prima d'allora soltanto intuito, stabilendo i caratteri giuridici della suprema autorita statale. La sovranita, egli dice, e indipendente da ogni potenza, non basata su un'investitura, sciolta da ogni Iegge. Ricorrendo all'immagine del timoniere, gia usata da Socrate e Platone per rappresentare il reggitore dello Stato, egli afferma la necessita che le leggi dipendano dal Principe come il timone dal timoniere, perche il timone sarebbe inutile se non potesse venir guidato a seconda della posizione e della configurazione del cielo. L'idea di ragion di stato (benche formulata incompiutamente), che Bodin chiama ratio imperandi, e !'idea direttrice del suo pensiero politico. Non ci sono norme per definire quale sia lo Stato migliore: gli Stati sono diversi in quanta devono tenere una determinata condotta in base a determinate premesse. <
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11 limite della volonta della Stato e nel diritto naturale e divino. Cosi, ad esempio, «la fedelta e l'unico fondamento di tutta la giustizia»: come Dio e legato aile sue promesse, cosi lo sara il reggitore della Stato. Finalizzata alla preoccupazione politica e anche la difesa del principia della tolleranza religiosa, vista come fondamento dell'ordine civile nello Stato. Ad essa e dedicato il Colloquium Heptaplomeres (1593), che riprende e sviluppa il pensiero fondamentale su cui si basa il dialogo De pace seu concordia fidei di Nicola Cusano (1.7.). 11 dialogo si immagina avvenuto a Venezia, lo Stato pili liberale prima che l'Olanda divenisse la sede della liberta religiosa. Nel dialogo sono introdotti a parlare sette rappresentanti di sette indirizzi religiosi, tra cui Toralba, un sostenitore della religione naturale. La tesi di Toralba e che, dato il contrasto tra le religioni positive, la pace religiosa non e possibile se non con un ritorno a quel fondamento puramente naturale, cioe razionale, delle varie religioni che ne costituisce la sostanza comune. Le religioni positive perdono cosi i motivi del contrasto e si riconoscono solidali, rendendo possibile la pace religiosa del genere umano. C'e gia un preludio dell'Illuminismo.
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3 - Sommario
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Sommario. Nel Rinascimento il rapporto uomo-natura resta ancora largamente dominato dalle credenze e dai riti della magia e dell'astrologia, anche se prende sempre piu rilievo il presupposto che accomuna la magia alia scienza: la conoscenza serve per il dominio (3.1). Tra le figure dei 'maghi' emergono Agrippa di Netteshein e Paracelso (3.2). Perche potesse avvenire il 'parto maschio' della scienza, occorreva superare la visione animistica della natura e questo avviene con la filosofia naturale di Bernardino Telesio che, tornando alle spiegazioni degli antichi naturalisti greci, sostiene che i fatti della natura vanno spiegati secondo propri principi (3.3-4) che tutto cio che avviene nel mondo va spiegato con cause interne al mondo (3.5). II naturalismo ebbe il suo sviluppo piu radicale con Giordano Bruno che trasferi la dottrina di Telesio nell'eliocentrismo copernicano, dilatandolo fino all'identita tra mondo e Infinito (3.6), tra Naturae Dio. Dio e la Mente interna aile cose (3.7). Mentre l'intelletto ci tiene prigionieri del finito, l'immaginazione lega l'uomo aile tensioni dell'universo e imprime all'intelletto un eroico furore che lo spinge a sorpassare costantemente ogni limite (3.8). Giordano Bruno sali sui patibolo convinto che il secolo futuro gli avrebbe dato ragione. E fu cosi, rna solo perche dopo di lui avvenne la rivoluzione scientifica, di cui fu profeta potente, anche se ambiguo, Tommaso Campanella (3.9). Egli parti dal naturalismo di Telesio, rna, abbattendo la parete che divide il mondo umano e il mondo di Dio, miro a ricondurre tutto, anche la Rivelazione, dentro i confini della ragione (3.10). Infatti l'intera verita e gia nascosta come in germe nell'uomo: Ia conoscenza none che il suo dispiegamento. Solidale con Galileo in quanto antiaristotelico, Campanella non ne condivideva peraltro la tesi copernicana e l'esaltazione della matematica (3.11). La sua esigenza di modernita era totalmente assorbita dall'utopia politica che egli affido alia Citta del sole (3.12). Nella Francia del Cinquecento, lacerata dalle guerre religiose, l'umanesimo si svolse sulla linea della saggezza erasmiana, che ebbe la sua prima originale espressione nell'opera letteraria di Rabelais, che sotto il velo di smisurate fantasie, propane Ia conciliazione tra il radicalismo evangelico e Ia gaudiosa esaltazione della vita (3.13). II momento alto dell'umanesimo francese si ebbe in Montaigne, che fece della scepsi una via per una ispezione dell'interiorita, nella quale, caduto il valore di ogni dogma, egli rispose l'unica sorgente di saggezza del vivere e del morire (3.14). 11 tema di Montaigne sulla conciliazione tra la 'maschera' sociale e Ia coerenza interiore fu riproposto, in polemica con ogni forma di fanatismo, da Pierre Charron (3.15).
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Dalla magia alia scienza 3.1. II mago del Cinquecento. Nel 1527 si ripete a Basilea l'episodio 'sacrilego' avvenuto dieci anni prima a Wittemberg: il medico Paracelso getto pubblicamente nel rogo le opere di Galeno e di Avicenna, come dire le somme 'autorita' su cui si era poggiata fin allora la scienza medica. Ma, come Lutero, anche Paracelso resta in larga misura figlio dell'eta a cui si era ribellato. La sua visione del mondo e ancora quella derivata, tramite Marsilio Ficino, dal neoplatonismo: il cosmo ha un'anima; i fenomeni sensibili, che fan da orizzonte all'esperienza umana, sono appena un Iembo dell'universo nel quale agiscono, intrecciandosi all'infinito, potenze del tutto simili a quelle che agiscono nell'uomo; tali potenze sfuggono alla conoscenza immediata e percio si sottraggono al controllo dell'uomo. A meno che l'uomo, in virtu della 'simpatia' che lega le potenze occulte dell'universo a quelle che abitano e agiscono in lui, non riesca a dominai-le e a metterle al servizio dei propri progetti. E. a questa intenzionalita che si ispira la scienza e, prima ancora della scienza, la magia. Le ricerche antropologiche di questi ultimi tempi hanno svelato la funzione che nella fase preistorica la magia ha esercitato (e ancora largamente esercita) nei gruppi umani: essa mira, come la scienza, a dominare le forze occulte, e lo fa mediante una strategia sua propria. Ma mentre in questi gruppi 'primitivi' il mago non e che il depositario di una tradizione di cui il gruppo possiede, per eredita etnica, il codice rituale, il sistema simbolico, la disposizione a vivere coralmente l'esperienza magica, nel Rinascimento il mago e per lo pili un uomo colto, senza rapporti organici col popolo, tutto dedito alia ricerca, segregato, come il Faust di Goethe, dalla comune degli uomini in una sfera di privilegiata riservatezza. Spesso e, a un tempo, mago e astrologo e magari esperto di Cabbala, dato che queste 'specializzazioni' - la magia, l'astrologia, la Cabbala- sono tutte pertinenti al suo progetto, che e appunto quello del dominio delle forze della natura. Il suo statuto di vita come il suo obiettivo fanno gia pensare allo scienziato moderno. Dal mago lo scienziato si distacca - sulla base della comune certezza di una 'simpatia' tra uomo e cosmo - per una sua specifica diversita, che si fara netta solo con Galileo: la simpatia e diventata, per lui, simmetria tra gli schemi matematici dell'intelletto e la struttura matematica del mondo. E. questo il Rubicone che il mago non ha ancora attraversato. Nel primo Cinquecento, il sapere magico e quello scientifico sono ancora nella fase dell'indistinzione. 'ora !'uno sembra aver la meglio sull'altro, rna si tratta dell'alterno prevalere di due polarita, nessuna delle quali e ancora in grado di porsi in modo autonomo. Astrologia e astronomia, alchimia e chimica sono tra loro annodate, anche in virtu del clima culturale ancora segnato dalla visione animistica dell'universo. Il Corpus Hermeticum, tradotto da Ficino, restava in gran voga; le ritrattazioni sia del Ficino sia di Pico della Mirandola, che avevano accettato le condanne ecclesiastiche contro l'astrologia, avev.ano avuto scarsa efficacia. Del resto quelle ritrattazioni (1.13.) non comportavano il rifiuto netto delle credenze magiche e astrologiche; si limitavano a ribadire
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che, pur all'interno degli influssi del cosmo, l'uomo resta sempre un essere Iibera, capace di determinare da se il proprio futuro. Ed e proprio su questa presupposto umanistico che nel nuovo secolo l'astrologia e la magia conoscono uno straordinario risveglio. Nel nesso astrologia-magia e implicito il nesso tra il momenta conoscitivo e quello operativo: l'uomo 'conosce le stelle' (e cioe il destino che esse segnano) per dominarle. Una volta che con l'oroscopo si e stabilito quel che dovra accadere, resta all'uomo la possibilita di trarne vantaggio: se avesse conosciuto il suo oroscopo o ne avesse tenuto canto, Giulio Cesare avrebbe potuto evitare di recarsi in Senato le Idi di Marzo. L'astrologia e Ia magia rinascimentali sono insomma dominate dall'esigenza di restituire al mondo della naturae dell'uomo una sua autonomia di movimento, una sua indipendenza dall'intrusione di volonta extramondane. La spinta latente, che si . fara via via piu esplicita, e quella della volonta di potenza che gia si propane degli obiettivi che, per altre vie e con altre consistenze, saranno raggiunti nell'eta moderna, si tratti della pietra filosofale con cui tramutare a piacimento l'uno nell'altro gli elementi della natura o si tratti dell' homunculus, cioe dell'uomo artificiale fatto sorgere dall'alambicco. E bene insistere su questa concetto. Fino a! Cinquecento la storia del pensiero occidentale non e che un capitola della storia del pensiero umano e forse nemmeno il piu splendido. E nel Cinquecento, nel trapasso dalla magia alia scienza che l'occidente scioglie ]'ancora dalle sponde della sapienza tradizionale, i cui epicentri erano stati in Cina, in India, nella Grecia, in Iran, a Cordova e nelle universita medioevali. In questa continente unitario, pur nella V<Jrieta delle forme, il rapporto uomonatura era rimasto di tipo magico. L'u<jrno era una porzione del tutto, punta terminale di influenze nella cui trama era scritto per intero il suo destino. Anche nelle tradizioni di derivazione biblica, e cioe nel cristianesimo e nell'Islam, nonostante i reiterati richiami dell'ortodossia, sia era introdotta, mediante il pensiero filosofico greco, l'immagine di un mondo nel quale tra la liberta del Dio creatore e la liberta dell'uomo responsabile della propria sorte eterna, occupava un poslo rilevante, se non proprio determinante, la causalita delle sfere celesti. II revival magico del Rinascimento obbedisce a due necessita, apparentemente in contrasto, rna in realta convergenti nell'intenzione di fonda di quest'epoca, che e l'esaltazione dei poteri dell'uomo sulla naturae sulla storia. La prima e la necessita di restituire al mondo la sua ragion sufficiente e cioe la Iegge unitaria che stringe in una medesima rete di rapporti le stelle del cielo e il mondo sublunare. I margini della contingenza della natura c del libero arbitrio dell'uomo sopravvivono, rna come mere illusioni dovute alla nostra ignoranza. Chi invece conosce, leggendola nel moto degli astri o nelle fibre della natura, la trama dell'ordine cosmico, sa che niente e rilasciato all'arbitrio, tutto rientra nelle determinazioni causali dell'universo. Ma proprio perche l'universo e riducibile a leggi conoscibili, si apre all'uomo uno smisurato spazio di possibilita, quelle del dominio illimitato sulla natura, in base al principia che sara formulato da Francesco Bacone: natura non nisi parendo vincitur: la natura si vince solo obbedendo alle sue leggi. E in questa 'necessita' morale il determinismo si capovolge nel trionfo della liberta creativa.
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3.2. La magia come trionfo dell'uomo. Non e il caso di addentrarci nel popolato mondo della magia del Cinquecento. Bastera rievocare alcune figure in cui pili evidente e il nesso tra magia e scienza e in cui meglio si esprime quella volonta di potenza che e ]'anima del nuovo tempo. Per Cornelio Agrippa di Nettesheim (1486-1535) Ia magia e la scienza pili perfetta, perche consente di prendere contatto con le forze del mondo superiore per dominare quelle del mondo inferiore. Nella sua Filosofia occulta (1531) scrive: Come nel corpo umano il movimento di un membro produce quello di un altro, e come in un liuto toccando una corda vibrano con essa tutte le altre, cosi ogni movimento di una parte del mondo si ripercuote e si riproduce in tutte le altre.
Su questo presupposto dell'organicita dell'universo si sviluppa una magia naturale, il cui tratto specifico e che il dominio sulle forze occulte non viene perseguito attraverso formule arcane di tipo verbale, rna col prender possesso delle nurme che regolano, dall'interno, il corso del mondo. Siamo alle soglie della scienza. Gerolamo Fracastoro (1478-1553), pur nel quadro di una visione magica della natura, arrivera a polemizzare, nel 1546, contro la dottrina delle 'essenze' e 'qualita occulte', per proporre una interpretazione 'corpuscolare' della real ta fisica. Accanto alia magia naturale continua ad avere voga la cosiddetta magia cerimoriale, saldamente radicata nella tradizione demonologica del medioevo e, prima ancora, dell'eta ellenistica: mediante accordi con i demoni buoni o cattivi si ritiene possibile ottenere i risultati pili eccezionali, fausti e infausti. Le due magie spesso si intrecciano, tenendo vivo, in un secolo cosi decisivo per la liberazione deJl'uomo dalle superstizioni, un costume intellettuale e morale che lascia largo spazio alle pratiche pili oscure, agli imbrogli dei ciarlatani e alia caccia aile streghe, anche nel senso letterale dell'espressione. Nella magia naturale domina il concetto che tra la natura (il macrocosrrio) e l'uomo (il microcosmo) ci sia un sistema di corrispondenze sulle quali e possibile agire, per sottrarre l'uomo dallo stato di dipendenza di cui un sintomo sono le malattie. L'unita neoplatonica del cosmo non e pili soltanto oggetto di contemplazione, diventa lo spazio della prassi dell'uomo, il quale mediante la conoscenza delle proprieta nascoste negli elementi naturali- minerali, piante e animali - puo compiere, riguardo al corpo, quell'opera di salvezza che Cristo ha operato riguardo all:anima. In base al dogma dell'unita della materia, gli alchimisti ricercano quell'elemento- la pietra filosofale- che consenta la trasmutazione dei metalli pili viii nell'oro, il dissolvente che permetta la regressione delle cose corporee nella informe materia prima. Di pili: la fabbricazione sintetica dell'uomo, !'homunculus. Il pili noto degli alchimisti, e pili in genrale degli occultisti del Cinquecento e Teofrasto Bombasto di Hohenheim (da cui Paracelso: colui che sta in alto) (1493-1541). A farne una delle espressioni pili ricche del Rinascimento e il suo entusiasmo per le capacita dell'uomo, una volta che, liberandosi della dipendenza dalle tradizioni, penetri nella segreta 'cospirazione delle cose', per com-
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piere opera di salvezza fisica nei confronti dei suoi simili. 0 addirittura opera di creazione. Ecco, ad esempio, Ia ricetta che egli ha elaborato per la formazione dell'uomo artificiale: Si faccia putrificare del seme umano in un ventre equino (cosi si chiamava l'alambicco) sino al massimo grado per quaranta giorni e piu, finche non cominci a vivere e ad agitarsi: cosa che si puo facilmente verificare. Dopo questo tempo, esso rassomigliera in un certo modo all'uomo, rna sara trasparente e di scarsa corposita. Se in seguito lo si nutrira giorno per giorno, con prudente cautela, dell'arcanum (una virtu incorporea insita nel sangue) del sangue umano e lo si conservera per quaranta settimane dentro il calore sempre uguale e uniforme del ventre equino, ne nascera un bimbo vivo e reale, provvisto di tutte le membra come un bimbo nato da donna, rna molto piu piccolo. Noi lo chiamiamo homunculus. Egli deve essere poi allevato con molta cura e diligenza, finche faccia la sua crescita e giunga all'eta della conoscenza.
Come il vignaiolo trae dall'uva il vino, cosl i1 medico trae dalle cose quella loro intima essenza, che agisce come farmaco per le malattie. Non piu la ricerca della pietra filosofale sta al centro della confusa, rna non di rado abbagliante, opera di Paracelso, sibbene la ricerca delle essenze disseminate nel mondo esteriore e, attraverso di esse, Ia conoscenza dell'uomo, dato che il cielo e Ia terra altro non sono se non l'uomo esteriore. Ogni uomo - dice Paracelso - consta di tre sostanze. Esse si chiamano: solfo, mercurio, sale ... Se queste tre sostanze sono unite e non separate, si ha la salute perfetta. Ma quando si disgiungono l'una dall'altra, si dividono e si separano, !'una imputridisce, l'altra brucia e Ia terra si dissolve: e questo e il principio di ogni malattia. \
Con Paracelso l'alchimia si avvia a essere farmaceutica. A lui il merito di aver scoperto l'efficacia terapeutica di alcuni veleni, il valore curativo dell'antimonio, del mercurio e del sale e, piu in genere, di aver avviato l'arte medica sulla strada della diagnostica basata sull'osservazione diretta. La chimica moderna e, si, un'altra cosa: alia sua base c'e la misurazione quantitativa degli elementi. Ma essa deve molto aile intuizioni con cui Paracelso libero )'alchimia dalle ombre della magia, affidandola alia sperimentazione e alia ragione dell'uomo. 3.3. I due limiti tra magia e scienza. La magia rinascimentale portava gUt nel suo seno la scienza. Ma perche il 'parto maschio' potesse avvenire occorreva infrangere due limiti, che sono poi i due presupposti fondamentali della visione magica del mondo: 1) l'animazione universale della natura, governata da forze identiche aile forze che governano l'uomo e collegate, con queste e tra loro, dalla 'simpatia'; 2) la pretesa di entrare in contatto con queste forze occulte con operazioni arcane, riservate ad alcuni uomini capaci di collocarsi nel flusso di queile simpatie e di servirsene ai propri scopi. 11 primo limite viene superato dalla filosofia naturale e cioe da una conce-
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zione che riconduce tutti i fenomeni naturali a principi interni alla natura e omogenei ad essa. Il secondo dalla concezione della natura come totalmente altra dall'uomo, retta da una concatenazione meccanica che e riducibile aile misure puramente quantitative dei simboli matematici. I1 nesso logico di questi passaggi e tale che il primo, quello della filosofia naturale, non e veramente solido e irreversibile se non e seguito dal secondo, quello della scienza vera e propria. E difatti i filosofi naturalisti, di cui in questo capitulo dovremo occuparci, non riescono del tutto a liberarsi da residue simpatie per la magia, a causa della loro incapacita di comprendere il valore specifico della conoscenza matematica. Essi rimangono pertanto aile soglie dei tempi nuovi di cui anticipano, anche nella vita, la totale novita nei confronti della societa esistente, collocandosi cosl nella corrente utopica sorta agli esordi dell'umanesimo. E tuttavia restano in contraddizione con la !oro intuizione di fondo (quella che avra piena luce con Galileo) e ancora impigliati nelle ambizioni metafisiche della filosofia tradizionale.
Bernardino Telesio 3.4. II ritorno ai presocratici. 11 capostipite dei filosofi naturalisti e Bernardino Telesio, nato a Cosenza nel 1509 ed ivi morto nel 1588. Nella sua citta egli dette vita a un' Accademia (detta poi telesiana) che giovo molto alla diffusione del suo pensiero, esposto in un'opera complessa intitolata significativamente De rerum natura iuxta propria principia (Della natura delle cose secondo i loro propri principi) e in una serie di monografie dedicate ad alcuni fenomeni naturali (come, ad esempio, ai terremoti, aile comete, all'arcobaleno) nell'intento di convalidare, con applicazioni particolari, i principi della sua opera maggiore. Alla quale egli dedico, si puo dire, tutta la vita, pubblicando in un primo tempo i phmi due libri (1565) e in un secondo tempo (1586) gli altri sette col rimaneggiamento dei primi due. Com'egli confessa in modo patetico, la sua lunga fatica fu disturbata da preoccupazioni di altra natura (difficolta economiche), rna sorretta dalla consapevolezza che le sue ricerche sarebbero state da altri condotte molto piu avanti, «affinche gli uomini possano non solo sapere tutto, rna anche avere il potere su tutto». Chiaro presentimento dell'eta scientifica ancora appena agli albori. A primo colpo, il pensiero di Telesio sembra un ritorno piuttosto rozzo alla dottrina naturalistica degli ionici presocratici, anteriore alia 'deviazione' platonico-aristotelica. Ma il suo 'ritorno alle origini' e solo apparente, come subito vedremo. Anche la sua polemica contro Aristotele, che attraversa tutte le sue pagine, trova senso se collocata nel suo tempo (Telesio aveva studiato a Padova dove sj era addottorato nel 1535), in cui gli aristotelici d'ogni tendenza avevano ridotto la devozione al maestro a un tradimento del suo insegnamento fondamentale, quello sul primato assoluto dell'amore per Ia verita e dunque della ricerca. L'errore degli aristotelici (e in parte dello stesso Aristotele) e du-
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plice. In primo luogo essi spiegano la natura non partendo dalla natura, rna piuttosto dalle esigenze logiche della ragione. Concetti come quelli di materia e forma, di sostanza e di accidenti, altro non sono che modalita formali dell'intelletto che si presume di applicare al mondo esterno. In secondo luogo, i fenomeni naturali vengono spiegati dagli aristotelici con cause esterne alia natura, prima fra tutte quella detta Motore immobile. Non che Telesio intendesse eliminare la necessita di Dio, alia maniera degli atomisti: Dio resta, per lui, la necessita senza la quale niente si spiega. Ma proprio perche la causalita di Dio investe tutto, non ha sensa ridurla a fungere da causa finale e da causa efficiente dei fenomeni della natura. Le cause della molteplicita e del movimento naturali sono interne alia stessa natura e sono accessibili alia forma di conoscenza di cui l'uomo e capace, in quanta anche lui realta naturale: la conoscenza sensibile. Il soggetto e l'oggetto, l'uomo conoscente e il mondo conosciuto non sono che due aspetti della medesima natura, prodotti dai medesimi principi. Lo stesso si dica dei cieli e della terra (Telesio resta fermo al sistema tolemaico): la diversa struttura dell'universo non e che il dispiegarsi di una medesima realta in virtu dei medesimi principi. Infatti, per spiegare il movimento della natura (e la molteplicita degli esseri che del movimento e un effetto), non c'e bisogno di immaginarla in se stessa sdoppiata in materia e forma, in potenza e atto e nemmeno di ricondurre tutte le cose ai quattro elementi, terra, acqua, aria e fuoco. Per non dire poi dell'assurda teoria cui Aristotele si trovo costretto: quella di una materia prima senza nessuna forma, nella quale tuttavia le forme sarebbero state presenti come in letargo, stertentes! Tutto puo essere spiegato se alla radice del tutto (cieli e terra, anima e corpo) si pongono due cause agenti, il caldo e il freddo e una mole materiale a cui esse ineriscono. E il caldo che determina dall'interno il movimento della materi~. le- cui infinite diversificazioni sono dovute all'altro principia, il freddo, che contrasta il caldo in un gioco inarrestabile di equilibri e squilibri, di vita e di morte, di crescita e di degenerazione. II caldo e il freddo sono anch'essi materiali rna non corporei, per cui possono penetrare fin nel profondo dei carpi e contendere tra loro avendo come libero ¥>pazio l'intera mole della materia. Essi hanna due sorgenti, il sole e la terra:) dal sole scende il caldo, rna dal sole stesso, in quanta materia, non e assente del tutto il principia del freddo; dalla terra pr;omana il freddo, rna in nessuna parte e del tutto assente il caldo, dato che i quattro elementi sono gia determinazioni concrete prodotte dal principia solare. E siccome il caldo e principia di movimento e il freddo principia di immobilita, ecco perche, come ci dicono i sensi e come insegno Tolomeo, il sole si muove e la terra sta ferma. Tipico caso in cui il deduttivismo di stampo aristotelico mette Telesio in contraddizione con se stesso. 3.5. II mondo e del tutto mondano. E invece coerente con se stesso, Telesio, quando tenta di dar ragione delle cosiddette attivita spirituali senza uscire dalle nature-agenti, il caldo e il freddo. Essendo i due principi in contatto, si avvertono l'un l'altro e cioe si sentono. II fisico diventa psichico. E la scala aristotelica delle tre anime, vegetativa, sensitiva, razionale, scompare per lasciar posto a un'unica anima, che pervade le cose, dalla pietra all'uomo, senza salti
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metafisici, raggiungendo nell'uomo una particolare raffinatezza, pur restando, anche in questa suo ultimo grado, materiale. Torna dunque in Telesio la dottrina neoplatonica della animazione universale, con questa perc) di diverso, che in lui l'anima del mondo non e altra dal mondo, e il principia del caldo, che nelle sue esplicazioni diventa principia psichico e principia spirituale. E infatti anche l'anima dell'uomo e, come ogni altra determinazione del caldo, mortale. E. bene sottolineare subito come questa totale mondanita del mondo sia gia di per se un presupposto necessaria all'approccio scientifico della natura. Dio non e piu il Motore immobile da cui far derivare Ia catena delle cause: Ia catena parte dalla naturae nella natura si chiude. Dio e soltanto il supremo garante dell'ordine della natura, come sara per Cartesio. Questa radicale semplificazione costringe Telesio a render canto, in modo tutt'altro che plausibile, di alcuni momenti essenziali dell'esperienza umana, prima fra tutti quello conoscitivo. La conoscenza non puo che essere conoscenza sensibile: l'uomo conosce perche, come la pietra, e modificato dagli oggetti esterni, come gli animali avverte la modificazione subl.ta e in piu - e questa e il suo momenta specifico - avverte gli oggetti che hanna prodotto la modificazione. Questa percezione della propria modificazione, che comprende anche la percezione dell' oggetto che l'ha causata, si sedimenta nella memoria, costituendo cosi il tratto proprio dell'uomo, Ia coscienza soggettiva. Un corollario di questa ricostruzione sensistica del procedimento conoscitivo e la squalificazione della matematica. I simboli matematici non sono che i residui mnemonici di sensazioni fisiche: il triangolo e la forma labile della cosa triangolare che mi ha modificato, il circolo della cosa circolare e cosi via. Proprio perche privi di un fondamento diretto nella realta, gli strumenti matematici non sono idonei a farci penetrare nella sua intima struttura. La quantita e un'astrazione, solo la qualita e reale. Come dire, dunque, che la scienza e impossibile: il suo compito, per Telesio, e ancora in mano alla filosofia. Un'altra difficolta, e questa molto piu grave anche per i suoi riflessi disciplinari (siamo nel momenta rigido della Controriforma), dovette affrontare Telesio: quella di conciliare la sua antropologia con la dottrina cattolica dell'immortalita dell'anima. Come si e vista, !'anima dell'uomo, momenta interno al ciclo della natura, e mortale. E tuttavia, argomenta Telesio, l'esperienza ci dimostra che ci sono nell'uomo aspirazioni di ordine morale e conoscitivo che vanno bene al di la della natura sensibile, che insomma l'uomo e, si, nella natura rna non e totalmente della natura. Ad esempio, in quanta e della natura l'uomo ha quale suo principia morale supremo quello della propria conservazione. Ma l'uomo e capace di far getto della pr:~ria vita in nome di beni superiori. La spiegazione di questa 'innaturalita' ifell'uomo e che Dio infonde in lui fin dal suo concepimento un'anima superiore (anima superaddita), che e nell'uomo un principia diverso da quello che la natura gli fornisce ed e quello che noi chiamiamo l'anima immortale. Questa che a noi appare un espediente per evitare i rigori della chiesa (che a ogni buon canto mise all'Indice l'opera maggiore di Telesio, nel 1593, cinque anni dopo la sua morte) ha invece nelle pagine del filosofo cosentino i tratti, vorremmo dire l'afflato, delle profonde convinzioni.
62 0 3 - Giordano Bruno Che nell'uomo ci sia un'altra sostanza, del tutto divina e immessa dallo stesso Creatore, non e solo cio che ci insegnano le Sacre Scritture, rna e cosa che e lecito intendere anche con le umane ragioni. Gli uomini sembrano operare e sopportare e desiderare, diversamente da tutti gli altri animali, case che si debbono senz'altro attribuire ad una sostanza piu elevata di quanta sia lo spirito originantesi dal seme. L'uomo non sembra placarsi infatti, come e Iegge di tutti gli altri animali, nel sentimento e nella conoscenza e fruizione di queUe cose grazie alle quali si nutre e per le quali si conserva e ha godimento; egli va investigando invece con somma ansieta la sostanza e le operazioni di altre cose, anche di quelle che non gli sono di nessuna utilita pratica e che anzi non possono essere afferrate col sensa.
Nonostante queste contraddizioni, ha ragione forse chi vede in Telesio il piu galileiano dei filosofi naturalisti, perche il suo vero interesse non e, come sara quello di Giordano Bruno e di Campanella, metafisico, rna fisico. E vero, sl., che Ia sua dottrina dell'animazione universale lo tiene ancora esposto aile suggestioni della magia, rna la vera intenzionalita che governa la sua opera si protende sui versante della scienza fisica. Gli manco, per potervi entrare, l'intuizione, che sara di Galileo, del valore della matematica come chiave di lettura del mondo.
Giordano Bruno 3.6. L'infinita del mondo. Nel periodo che stiamo studiando, la rivoluzione conoscitiva, ancora allo stato informe degli inizi, e per di piu turbata dal contesta politico-religioso che, quasi nel presentimento della propria disgregazione, tiene sotto rigida sorveglianza i movimenti del pensiero. Come si e detto, nel 1593 l'opera di Telesio venne messa aii'Indice. Nello stesso anno, un altro pensatore meridionale, Giordano Bruno*, entrava nelle segrete del Sant'Uffizio per restarvi sotto processo per cinque anni. Ne uscira per salire sul rogo nel Campo de' Fiori, il 17 febbraio 1600. Il mondo di Telesio era stato la tranquilla Accademia di Cosenza, il mondo di Bruno e l'intera Europa, che egli percorre, sostando a Ginevra, a Parigi, a Londra, a Wittemberg, a Francoforte, a Venezia, sospinto da quello che egli chiamera l"eroico furore', un impeto conoscitivo che non tollera freni di tradizioni ne di discipline istituzionali. L'ascendenza immediata del pensiero di Bruno e nel naturalismo del «giudiciosissimo» Telesio: anche per Bruno l'universo e in ogni sua parte omogeneo, costruito con la medesima st~ffa, si tratti del cielo o della terra, dell'anima o del corpo. Ma Telesio aveva contenuto il suo naturalismo dentro una cornice tolemaica, cioe geocentrica,. senza coinvolgere Dio nei processi del mando. Bruno, forse gia nel suo soggiorno pari gino, prese conoscenza dell' opera di Copernico di cui diremo nel prossimo capitola (4.5.) e ne sposo subito la tesi di fondo, quella della centralita del sole, derivandone pero conseguenze da cui Copernico riluttava: quella soprattutto dell'infinita del mondo, che Bruno aveva gia mutuato dal 'divino' Cusano (1.4.).
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Il nostro sistema planetaria - ecco la 'rivoluzione copernicana' di Bruno - non e che una infinitesima porzione dell'universo, dove sono infiniti altri sistemi con altri pianeti abitati alia pari della Terra. Sicche nell'universo non c'e ne alto ne basso, ne piccolo ne grande, ne centro ne circonferenza. E i suoi movimenti non sono dovuti a un motore immobile, rna a un principia interno che e, nel mondo, quel che }'anima e nell'uomo. Questa principia e anch'esso infinito, rna lo e in modo implicito, cosi come l'universo e l'infinito esplicito. Come nell'uomo !'anima e tutta presente in ogni parte del corpo pur non avendo parti, cosi il principia infinito che anima il mondo e tutto in ogni parte. Una causa infinita non puo non produrre un effetto infinito. Non che ci sia un momento in cui Ia causa produsse 1' effetto: effetto e causa sono necessari l'uno all'altro e dunque eterni. L'infinita spaziale dell'universo none che l'esplicazione dell'infinita ontologica del Principia (o Essere, o Uno, o Causa) che e tutt'insieme presente in ciascun individuo della natura, cosicche ciascun individuo, limitato e determina-
Giordano Bruno. Nasce a Nola rzel 1548. Erztra adolescerzte rzell'ordirze dei domenicani ed ha un processo gia prima di diventare sacerdote. Ma poco dopo, nel1576, lascia l'abito religioso e comincia le sue peregrinazioni; aprendo dovunque, col suo insegnamento, conflitti che lo costringono a riprendere il viaggio. A Ginevra entuasiasma prima e poi scarzdalizza i calvinisti, a Wittemberg i luterani. Un nobile veneziano, Giovanni Mocenigo, desideroso forse di essere introdotto nelle arti magiche, lo invita presso di se come suo istitutore. Deluso, lo denuncia nel 1592 all'lnquisizione veneta, che dopa un anno si decide a passarlo al Sant'Uffizio romano. Durante il lungo processo, il filosofo, che sulle prime da qualche segno di cedimento, s'irrigidisce nell'intransigenza e nella fierezza. Condannato come eretico impenitente viene consegnato alia Corte del Governatore di Roma per ,.ze debite pene». Le pene sono quelle del rogo, subite il 17 febbraio 1600. L'attivita filosofica di Bru~o e intensa e tumultuosa. Nel decennia 15821592, sebbene senza dimora stabile, egli compone e da alle stampe un numero incredibile di opere, di diversa ampiezza e di diverso genere letterario. E in grado di portarne avanti piu d'una simultaneamente, svolgendo sempre le sue intuiziorzi forzdamentali, ma assorbendo via via i contributi che gli vengono dall'esperienza e dalle letture, come quella di Copernico, ora servendosi della forma del dialogo in lingua volgare (un volgare tutto suo, da lasciare allibiti i tutori del lessico, della grammatica, e del decoro), ora del poema Latino, ora del trattato. I due nuclei piu importanti sono quello dei Dialoghi in italiano, stampati a Londra tra il 1584 e il1585: La Cena delle Ceneri; De la Causa Principia e Uno; De l'Infinito, universo e mondi; Spaccio della bestia trionfante; De gli eroici furort· e quello dei poemi in Latino, stampati a Francoforte nel1590: De minimo, De monade, de Immenso et innumerabilibus.
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to in quanto e un particolare modo del tutto, in quanto ha in se la totalita dell'essere e anch'esso infinito. La tensione tra la determinazione individuale e l'infinita dell'Essere, che sta sotto la determinazione, provoca il divenire, l'interminabile trasmutazione di tutte le cose. Le quali, dunque, nascono e muiono, rna solo in quanto determinazioni molteplici, non in quanto Essere. Come nella dimensione spazio cosi anche nella dimensione tempo, l'Uno e presente per intero in ogni punto del divenire e proprio perche nessun punto lo esaurisce, si ha il dinamismo del divenire. Nessun uomo, dunque, e in un sol momento tutto quello che puc essere, e tuttavia in un solo dei suoi momenti si racchiudono tutte le sue possibilita future. Di qui, appunto, l'eroico furore, come bramosia d'infinito. 3.7. La religione della natura. Non ha senso pertanto distinguere nella natura il soggetto e l'oggetto. La natura e soggetto di se stessa. Il Principia che la genera e infatti l'Intelletto universale, che modella dall'interno gli infiniti oggetti, come il vetraio da forma al vetro soffiando nella cannuccia al cui estremo si trova il grumo incandescente. L'intelletto dell'uomo none che un modo di questo Intelletto mondano, il quale essendo la vera causa di tutte le cose, garantisce la corrispondenza tra il pensiero e la natura, tra l'ordine delle cose e l'ordine delle idee. Non ha senso derivare da una rivelazione soprannaturale il senso del mondo, che e tutto scritto nel mondo e che l'intelletto umano e in grado di decifrare. I libri sacri, scrive Bruno nella Cena delle ceneri, anticipando una famosa tesi di Galileo, contengono leggi che riguardano il nostro agire morale e non la spiegazione di quelle leggi della natura che sono tutte scritte dentro le pagine del mondo, sono lo stesso Intelletto che imprime le proprie forme nella materia, la quale, cosi fecondata, genera da se stessa iimumerevoli e diversissime realm che costituiscono la natura. Siamo di fronte alia piu rigorosa dottrina panteista. E. vero che Bruno in piu luoghi distingue tre intelletti, anteponendo a quello mondano e a quello umano l'intelletto divino, che e infinito e che sta oltre la natura, tanto che nulla noi ne possiamo dire. Ma questa concessione alla dottrina tradizionale di un Dio trascendente resta come posticcia nel sistema bruniano, che e rigorosamente chiuso nell'intuizione del Dio immanente al mondo come suo principia infinito, come Mente interna alle cose. Nell'immagine dell'uomo che con la sua indagine si appropria delle idee dello stesso intelletto divino immanente al mondo, trova compimento l'ideale umanistico-rinascimentale della signoria dell'uomo sull'universo, in ragione della radicale corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo. L'appartenenza di Bruno alia fase rinascimentale della storia del pensiero appare ancora piu evidente se si da il giusto peso a quanto egli dice sulla funzione conoscitiva dell'immaginazione. I sensi ci danno delle cose una conoscenza chiusa e confusa, l'intelligenza ce ne da una conoscenza limitata in quanto ci rende coscienti dei loro limiti, l'immaginazione, oltre che fornire all'intelletto il materiale sensibile, ha anche questo di proprio, che ci fa spaziare nelle regioni infinite del non ancora conosciuto, e nelle sue creazioni riesce a rispecchiare l'armonia invisibile dell'ordine infinito dell'universo. Un tema leonardiano, se ben si pensa.
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Cosi come la vera filosofia, scrive Bruno, e insieme musica, poesia e pittura, anche la vera pittura e insieme musica e filosofia e la vera poesia e insieme un'espressione e un'immagine della sapienza divina.
3.8. L'eroico furore. E gia in questo ruolo dell'immaginazione trova un connotate essenziale la dottrina fondamentale di Bruno, quella della conoscenza come eroico furore. Abbiamo gia detto che la mera conoscenza intellettuale ci tiene prigionieri del finito e cioe delle determinazioni in cui ci si presentano le cose, sempre identiche a se stesse. E l'immaginazione che fa da mediazione tra il finito e l'infinito. E cosi l'intelletto, animato dalla tensione verso l'infinito di quel divino Intelletto che e la trama viva dell'universo, supera di continuo se stesso negli spazi aperti dall'immaginazione e diventa 'furore', una smania insaziabile che spezza ogni limite, diventa appunto eroismo. E questa la vera religione bruniana: una religione totalmente laica, contemplativa e insieme attiva, avversaria irriducibile e dell' errore e del vizio, che so no i due aspetti inseparabili della Bestia trionfante, cioe della superstizione. Le religioni positive, anche il cristianesimo sia cattolico che protestante, sono momenti del trionfo della Bestia. Momenti necessari, perche il volgo non ha altro modo, per accogliere e vivere la verita divina implicita nel mondo, se non quello dei simboli superstiziosi e delle sanzioni eterne del premio e del castigo. Nelle religioni c'e sempre un nucleo che andrebbe disciolto dall'involucro volgare tessuto dalla sensibilita. Ed e quello che fa il filosofo, la cui religione e quella che lo rende capace di contemplare ed operare la verita dispiegata nella natura. Le opere di Bruno sono attraversate, come la sua vita, dall'aspettativa di un'eta diversa, libera dalle superstizioni e dalle istituzioni che le propagano e vi trovano fondamento di potere. Solo che quest'ansia legittima resta come imprigionata nei quadri mentali del Rinascimento, che sono omogenei ad una cultura aristocratica, estranei aile nuove classi allora gia emergenti, le classi che saranno davvero capaci, secondo l'auspicio di Bruno, di «formar altre nature, altri corsi, altri ordini». La necessita della tecnica in cui l'uomo possa usare «l'intelletto e le mani>> e presente in Bruno come esigenza, tant'e vero che egli riservo particolare attenzione all'uso magico dell'arte mnemotecnica, appresa dall'ammiratissimo Raimondo Lullo (!.12.3), e dalle pratiche cabalistiche derivate dall'umanesimo ficiniano. Gli manco la percezione dello strumento matematico, sebbene egli abbia riservato alle matematiche una riflessione particolarmente impegnata nel De minimo e nel De monade. Egli vi tratta del minimo metafisico, che e l'Uno e cioe Dio, e del minimo matematico che e i1 punto, e cioe il cerchio senza estensione, e il minimo fisico che e l'atomo. Ma questi temi egli li svolge alla maniera pitagorica e cioe come matematica qualitativa, che sta dalla parte della metafisica e non da quella della scienza.
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Tommaso Campanella 3.9. Tra naturalismo e magia. Giordano Bruno non ebbe maestri veri e propri. E non ebbe discepoli. Oltre che del suo temperamento, incline alia tracotanza, il suo splendido isolamento e an,che il portato del suo pensiero, in cui si ritrovano, e vero, eredita antiche e recenti, rna che nel suo insieme e di una· novita sconcertante. La sua speranza di poter trovare, come altri pensatori, un accomodamento con Ia chiesa della Controriforma era illusoria. II suo vero tempo, ed egli sail sui patibolo con questa convinzione, era il futuro. Solo che a preparare quel futuro non sarebbe stata la filosofia, sarebbe stata Ia scienza. Ad accorgersene fece a tempo un altro filosofo, Tommaso Campanella*, che prolungo fin nel cuore del seiceRto l'impeto utopico di cui era gravida Ia filosofia rinascimentale: fu lui a salutare la scoperta di Galileo come l'inizio di un «Secol nuovo». Ma, come Giovanni il Battista, vide il Regno senza riuscire ad entrarvi. Pochi mesi prima di morire (1639) scrive al Granduca di Toscana: «
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l'uomo politico, dato che «la piu grande azione magica dell'uomo e dare leggi agli uomini». Quest'ultima considerazione fa da spia dell'idea-guida dell'opera del Campanella che e, come si e detto, un'idea pratico-politica. 3.10. Metafisica e antropologia. Lo slittamento metafisico del Campanella appare evidente nella sua dottrina antropologica e gnos~ologica. In quanta e omogeneo alia natura, }'uomo e corpo e Spirito (lo Spirito e l'anima telesiana, principia psichico riconducibile al caldo), rna in quanto supera la natura egli e mens, mente. II netto dualisrrio di·Telesio tra la naturae Dio e tra l'uomo co-
Tommaso Campanella. Ne/1594, nella prigione romana dove e custodito Bruno, giunge in catene un altro domenicano, Tommaso Campanella, anche lui meridionale (era nato a Stilo, in Calabria da un ciabattino analfabeta), anche lui in rotta con il suo ordine religioso, anche lui incriminato per eresia. Era gia stato imprigionato tre anni prima a Napoli, per rnano dell'Inquisizione, a causa di un suo libra, Filosofia dimostrata attraverso i sensi (1589), che sosteneva le tesi di Telesio. Liberato dopa un anna, gli era stato ingiunto di vivere appartato in Calabria. Satta mentite spoglie si era sottratto al confino e si era recato a Padova, dove vivevano uomini come Galileo Galilei e come Paolo Sarpi. Qui si era occupato di ricerche sperimentali, anche di tipo medico, e aveva avviato l'amicizia con Galileo. di cui sara uno strenuo difensore. C'e da chiedersi che ne sarebbe slato del Campanella se avesse potuto vivere tranquillo nel sodalizio padovano, vera culla della svolta scientifica, invece che nella solitudine delle prigioni. A Roma subisce un fungo processo (con usa abbondante della tortura), che ha pero un esito meno grave di quello condotto negli stessi anni contra Bruno. Viene rinviato a Stilo in Calabria, nel 1598. Ma qui si mette ad organizzare una congiura contra la monarchia spagnola, il cui crollo avrebbe dovuto dare l'avvio ad una repubblica teocratica a base contadina. Scoperto, e processato ed evita la pena di morte solo perche riesce a farsi credere pazzo. Condannato al carcere a vita, viene tenuto nelle terri. bili prigioni del Regno di Napoli dal 1602 al 1626, quando il governo decide di liberarsi della scomodo prigioniero affidandolo al Sant'Uffizio, che gli impone il domicilio coatto nel suo Palazzo fino al 1633. In quest'annu viene scoperta una congiura contra il vicere di Napoli ordita da gente vicina a Campanella, che viene consigliato a lasciare l'ltalia. Nel J634 e a Parigi sotto La protezione del re Luigi XII e del grande Richelieu, che ritengono la lora munificenza verso un pensatore nato in tutta Europa un colpo morale inflitto alla monarchia spagnola. Campanella passa i suoi unici anni tranquilli, gli anni parigini, nel riordinare e pubblicare quanta aveva scritto nei luoghi del carcere: Monarchia di Spagna, 1600; La citta del sole, 1602; Discorsi ai principi d'Italia, 1607; Filosofia razionale, 1614; Filosofia reale, 1619; Metafisica, 1623; Teologia, 1624.
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me parte della natura e l'uomo in quanta anima superaddita si discioglie in Campanella in una piu larga compenetrazione tra i due ordini di prindpi, il fisico e il metafisico. Dio, come si e detto, non e solo garante dell'ordine del mondo rna, attraverso !'anima del mondo, e provvidenza che costantemente governa le cose e gli eventi. L'uomo in quanta mente diventa il luogo in cui si congiungono tutte le coordinate della realta, interne come sono a quei prindpi primi che Campanella chiama 'primalita'. Infatti, se si analizza la coscienza che l'uomo ha di se, vi si scoprono tre determinazioni: il potere, il sapere, l'amore. In quanta sa di essere, l'uomo si avverte come potenza ad essere (e questa e il potere); in quanta sa di sapere, egli conosce se stesso nelle determinazioni subite da parte delle cose; in quanta ama, egli desidera la conservazione del proprio essere. Queste 'primalita', che sono 'struttura' unitaria e differenziata dell'uomo, sono anche la struttura dell'universo in cui le cose, proprio perche sono, hanna potenza di essere; in quanta sono unificate dall' Anima del mondo hanna tutte, perfino quelle inanimate, una qualche conoscenza di se e delle modificazioni subite (e su questa universale sensibilita che si basa la dottrina del 'consenso' delle cose) e tutte finalmente aspirano alla conservazione del proprio essere, amana cioe se stesse. Ma nelle cose finite le primalita sono sempre commiste ai loro opposti e cioe aile tre primalita del non-essere, che sono l'impotenza, l'ignoranza e l'odio: difatti le cose finite non possono tutto il possibile, non conoscono tutto il conoscibile, non amana tutto l'amabile. Le cose sussistono in virtu dell'equilibrio tra le primalita positive e quelle negative (tra l'essere e il non-essere). Solo in Dio le primalita positive sono allo stato puro, assolute alia stessa maniera in cui, secondo la dottrina cristiana della Trinita, Dio e Padre (potenza) Figlio (Sapienza) e Spirito Santo (Amore). Questa analogia, di tipo agostiniano, tra gli attributi trascendentali di Dio filosoficamente conoscibili e il mistero trinitario conoscibile solo per Rivelazione tende a diventare, in Campanella, una risoluzione univoca dei due ordini di conoscenza, quello per fede e quello per ragione. II suo Dio perde ogni alterita nei confronti dell'universo, torna ad essere insomma un Dio naturalistico, un Dio le cui qualita, sebbene assolute, sono le stesse che troviamo nella natura. Anche Campanella, sebbene per vie diversissime, obbedisce all'esigenza di dare alia religione un fondamento che non sia quello della Rivelazione, un'esigenza laica che nei secoli successivi mirera a condurre la religione dentro i confini della ragione. Il che vorra dire, in termini politici, un rigetto dell'autorita dell'istituzione ecclesiastica. 3.11. La gnoseoiogia. A un esito del genere Campanella giungera anche sulla linea della dottrina gnoseologica. Alla base del conoscere umano c'e un sensus sui che l'uomo ha in comune con ogni ente, dalla pietra a Dio. Nessun ente e, se non p.er una notitia sui ipsius innata, per una conoscenza di se innata. Si e, in quanta si conosce. Anche lo scettico, nel suo affermare che di tutto si deve dubitare, di una cosa non dubita, di se stesso in quanta pensa (che altro e dubitare se non pensare?). E l'antico argomento di Agostino contra gli scettici che il Campanella ripropone, all'interno del suo sistema, nella Metaphisica scritta nel 1623, rna pubblicata a Parigi quindici anni piu tardi, nel 1638, un
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anna dopa del Discorso del Metoda di Cartesio, nel quale, come vedremo (5.3), l'analisi del dubbio costituisce l'atto di partenza di un'originale costruzione metafisica. Campanella non' ha una visione problematica della realta che fa da oggetto al conoscere. La conoscenza degli oggetti e la coscienza di se sana, per lui, dati immediati, interni a quel sensus sui di cui, come si e detto, ogni ente e datato e che rimane nascosto (abditus) per il sopravvenire delle conoscenze provocate dal contatto trail soggetto e cia che gli e esterno. Ma ogni conoscenza del mondo esterno (sensus additus) non e che conoscenza della modificazione subita, che comporta una specie di smarrimento ('alienazione' dice Campanella) del soggetto nell' oggetto. La conoscenza sensibile e una conoscenza certa, in quanta in essa il sensus sui diventa una sola cosa con i contenuti empirici 'dati dalla sensazione, i quali, a lora volta, non fanno che esplicitare quanta nel sensus sui e gia virtualmente contenuto. Abbiamo cosl. una curiosa riedizione sensistica del platonismo: l'intelletto del Campanella e una sola cosa con l'innata cognizione di se, una cognizione che in occasione del contatto con le case si dilata fino ad abbracciare Dio stesso, del quale l'uomo ha una cognizione innata che resta nascosta solo perche l'intelletto si ingombra del coacervo di altre cognizioni. In fonda anche per Campanella la conoscenza e una memoria. Una memoria che non esce mai fuori dalla sfera della percezione primordiale, il cui tratto e l'evidenza, non bisognosa di dimostrazione. La dimostrazione nasce allivello del sapere concettuale, che pero per Campanella e un sapere incerto e vago. II concetto infatti non e un di piu della sensazione, e un di meno, in quanta ne e la memoria illanguidita. La dimostrazione utilizza i residui astratti delle sensazioni, raggiungendo risultati necessariamente incerti, mentre la sensazione e la dimostrazione inconfutabile di se stessa. A questa regione delle conoscenze concettuali, astratte e incerte, appartiene anche Ia matematica, i cui simboli (ad esempio il triangolo e il circolo) non sana che riflessi convenzionali delle sensazioni. Questa specie di assolutizzazione dell'esperienza (ridotta a sensazioni) si capovolge, di fatto, nel suo opposto e cioe nel rigetto di ogni argomentazione induttiva e di quel suo strumento che e il segno matematico. Si capisce perche Campanella non sia mai davvero entrato nella visione del mondo di Galileo, anche se fu di Galileo appassionato difensore (in carcere, nel 1616, scrisse una Apologia pro Galilaeo). Piu che i contenuti della scienza galileiana egli difese il diritto alla libera ricerca, mettendo in breccia uno dopa l'altro gli argomenti dei suoi avversari. Se Galileo non ricambio con segni di gradimento lo zelo di Campanella, non fu solo per calcolo politico, rna per totale estraneita aile premesse da cui l'inquieto domenicano derivava il suo allineamento apologetico con l'autore del Nunzio Sidereo. Campanella preferiva per suo canto il sistema tolemaico, anche perche piu rispettoso ·dell'immagine del mondo offertaci dalle sensazioni immediate e piu omogeneo aile pratiche astrologiche di cui Campanella era convinto assertore. Ma soprattutto egli perseguiva, in tutte le sue masse, un disegno di riforma della chiesa che era ben lantana dal tradizionalismo religioso di Galileo. Abbattendo l'aristotelismo, Galileo aveva pasta 'il principia di secol nuovo' di cui
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solo lui, Campanella, era in grado di offrire le premesse dottrinali e la raffigurazione immagina tiva. 3.12. L'utopia politica. Non si capisce la travagliata vicenda, di pensiero e di vita, del Campanella se non la si riconduce all'idea che per intero l'attraversa, quella di una riforma del cattolicesimo capace di farne l'anima di una riforma dell'umanita intera. Tutto divento per lui strumento di questa utopia. Invito i principi italiani a farsi solidali con la monarchia spagnola (che pure lo teneva chiuso in una dura prigione), perche convinto che essa fosse il braccio secolare del suo progetto religioso. Pili tardi, deluso dagli spagnoli, attribui lo stesso compito rigeneratore alia monarchia francese, che non per nulla gli offr1 asilo per mero calcolo politico. Ma i veri strumenti della riforma erano, a suo giudizio, le sue innumerevoli pagine (molte ancora inedite) tutte segnate dal suo fuoco. Anche Campanella propugnava un 'ritorno ai prindpi'. Ma i prindpi a cui egli si riferiva non erano tanto nella Bibbia quanta nell'intima natura dell'uomo, in quel sensus abditus di cui abbiamo detto. C'e una religione naturale il cui germe e nella notitia di Dio di cui tutte le creature sono fornite. II cattolicesimo, ricondotto alle origini, non e che la religio addita destinata a far emergere la religio abdita scritta nelle viscere stesse dell'umanita, anzi di tutte le case, in quanta tutte le case han fondamento dinamico nelle tre primalita. . La formulazione esplicita di questa ideale di riforma e la Cittii del Sole, descrizione immaginosa di uno stato ideale, le cui leggi sono Ia perfetta proiezione pratica della Metaphisica campanelliana. I cittadini della citta solare sono governati da un sommo Sacerdote, chiamato Sole o Metafisico, i cui consiglieri sono Pon, Sin, Mar, incarnazione delle tre primalita: Potenza, Sapienza e Amore. Tutto tra loro e in comune, le ricchezze e le donne, alia maniera di Piatone. La loro religione e quella dettata dalla lora natura e corrisponde del tutto al cristianesimo, eccetto i sacramenti. Che il cristianesimo nella sua forma cattolica sia destinato a diventare signore della terra, Campanella lo dimostra assumendo, quale criteria per valutare tutte le religioni positive, le pure norme della religio indita, filosoficamente analizzata. Ebbene, solo il cattolicesimo risponde a queUe norme, anche se in ogni altra religione e possibile scoprire qualche lora riflesso. Basterebbe che tutti i popoli ritornassero alia purezza sorgiva della religione naturale. perche potessero riconoscere nel cattolicesimo la vera risposta di Dio alle lora attese. II cattolicesimo a cui Campanella pensa e quello stesso della Controriforma, Iiberato dai suoi vizi morali e dalle sue angustie dottrin;:tli. Era un tempo, il suo, in cui le ambizioni della chiesa cattolica, gia esperta dell'iniziativa missionaria, erano queUe di un'espansione mondiale. Ma la coinddenza tra i due progetti universali era solo apparente. II cattolicesimo di Campanella nascondeva in se un'istanza che ben presto avra pieno sviluppo nella civilta laica: l'istanza di una religione fondata sulla ragione giunta al pieno possesso delle proprie competenze critiche.
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3.13 Fran~ois Rabelais. Cominciato sotto il segno della liberta creativa; che aveva trovato protezione anche nel mecenatismo dei papi, il secolo del Rinascimento si chiude con il rogo del Campo dei Fiori, che in quel giro di anni non fu ne il primo ne }'ultimo dei roghi accesi dall'Inquisizione. I bagliori di quel fuoco faranno paura a molti, anche a Galileo e a Cartesio. Ma il fanatismo ideologico non fu, in quel secolo, la prerogativa della chiesa di Roma. Le diverse confessioni religiose, nate dalla frantumazione della cristianita medioevale, si contrapposero, mettendo in campo forze politiche e militari, con un fanatismo che bagnera di sangue !'Europa fino alla pace di Westfalia, del 1648. Che la coerenza con il vangelo, rivendicata da ciascuna delle parti in Iotta, si risolvesse in guerre di sterminio, apparve, gia allora, a molti spiriti illuminati come una degenerazione che poteva trovare argine soltanto nella coscienza liberata da ogni presunzione dogmatica. Prima che questa degenerazione prendesse piede, uomini come Tommaso Moro e come Erasmo (2.7) avevano indicato la giusta via per ricomporre nella pace sia la chiesa che la societa. E la via non era quella di contrapporre alle arbitrarie certezze dei teologi, in Iotta tra loro, altre certezze di natura filosofica, riguardanti la composizione del mondo, del tipo di quelle elaborate dal naturalismo italiano, di cui abbiamo trattato nelle pagine precedenti. Secondo Erasmo la salvezza era in un ritorno alia humanitas contenuta nei grandi maestri della classicita e soprattutto nel Nuovo Testamento, sottratto aile manipolazioni del potere ecclesiastico e restituito aile coscienze. E da quelle pagine che si accende la 'follia' di cui ha bisogno il mondo per salvarsi dall'altra follia, quella perversa dei detentori del potere, sia civile che ecclesiastico, e dei ceti che hanno fatto propria l'ideologia del potere, come i monaci e i prelati di ogni livello. L'ironia erasmiana fu sopraffatta dal fragore delle scomuniche e delle armi. Ma non si spense. In Francia, ad esempio, essa ebbe eredi che, mescolandola con altre eredita e confrontandola con situazioni totalmente diverse, ne fecero una nuova forma di umanesimo, destinata a continuare anche quando lo spirito umano avra del tutto superato la stagione teologica. Il primo di questi erasmiani irregolari fu l'ex monaco francese Fran~ois Rabelais*. Nel 1532 egli aveva scritto ad Erasmo: "Ho detto padre, rna avrei potuto dirvi anche madre, se me lo permette la vostra indulgenza ... Il poco che io sono e tutto cio che io posso valere l'ho ricevuto soltanto da voi". In apparenza niente di piu lontano da Enrsmo di questo genio della smodatezza. Eppure la sua ispirazione di fondo e la medesima: la preoccupazione di ricondurre l'uomo al senso delle sue vere misure. Il sorriso erasmiano e la risata rabelaisiana sono provocati da una medesima intuizione del rapporto tra cio che l'uomo e di fatto e cio che dovrebbe essere. La genialita umanistica di Rabelais prorompe per via immaginativa, dando vita a una epopea di materia ridanciana e di gusto popolare. Il primo intento di divertire i lettori con gesta rozze di personaggi inconsueti per statura e costumi si solleva a schiettezza d'arte in virtu dell'estrosissima cultura dell'auto-
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re. L'uso del greco e del Iatino e l'amore appassionato per tutte le manifestazioni di vita si compenetrano fra !oro in una originalissima prosa. I personaggi che danno il titolo al capolavoro sono il gigantesco Gargantua, principe ereditario del paese di Utopia, e il suo non meno gigantesco figlio Pantagruel, figura raccolta dalla tradizione popolare. Il ragazzo sara educato, per volonta del padre, secondo lo spirito dell'umanesimo: la vera cultura none, per lui, quella libresca, e la conoscenza della realta, unita all'esaltazione delle forze benefiche del mondo. Una lettera sull'educazione, inviata da Gargantua al figlio, deve essere considerata, per quanto afferma intomo alia liberta dello spirito, come uno dei documenti piu notevoli della cultura del '500. Per incoraggiare il figlio allo studio, Gargantua fa appello ai sentimenti d'amore che si devono avere per un buon padre. Poiche Gargantua subisce la sorte di tutti gli uomini pagando !'errore commesso da Adamo, egli dovra morire. Addolcisca il figlio l'amarezza di tanto castigo dandogli l'illusione di una sopravvivenza fisica, si sforzi di fare della propria il riflesso dell'anima del padre. La sola immortalita certa e, per Rabelais, quella di un'aristotelica anima intellettiva o, peggio, quella del tutto relativa che discende dalla propagazione seminale. Ma Rabelais non e ateo. L'adesione ad una filosofia di carattere scientifico si fonde in lui con una sincera ispirazione religiosa, come quando parla dell'anima che veglia nel corpo addormentato. Essa si trova, dice, come posta in congedo, non essendovi piu necessaria sino al risveglio. Subito essa si svincola e rivede la sua patria che e il cielo; di la riceve partecipazione insigne della sua pura e divina origine ed in contemplazione di questa infinita ed intellettuale sfera, il centro della quale e in ciascun luogo dell'Universo, nota non solo le cose passate, rna le future.
Gargantua sa bene che la parte spirituale della sua anima non seguira la sorte del corpo e che Dio Ia richiamera a se. E tranquillo, a questo proposito. Solo che ha un rimpianto tutto umanistico: lo addolora l'idea di abbandonare questo mondo familiare, di rompere i dolci legami con gli uomini e le cose.
Fran~ois Rabelais nasce, con ogni probabilita, alla Diviniere, nei pressi di Chinon. Vari elementi biografici inducono a ritenere la sua nascita non antecedente al 1462. Ad ogni modo, nel 1520 si trova quale frate minore nel convento francescano di Puy Saint Martin. A ttraverso il grec6 e il latina, giunge allo padronanza di un mondo filosofico e scientifico poco conosciuto dalla cultura ufficiale del tempo. Sospettato di non C011"{pleta ortodossia, passa nell'ordine dei Benedettini, per poi lasciare definitivamente la vita monacale nel 1527, ed iscriversi alla facolta di medicina di Montpellier. Dal '34, medico a Liane, rivela i due aspetti concomitanti della sua personalita: la ricerca scieritifica della natura e la prorompente gioia di vivere. Pubblica, nel '37, La vita inestimabile del grande Gargantua, padre di PantagrueL Da quest'opera popolaresca nascera poi il romanzo in cinque libri. Muore a Parigi nel 1553.
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Il cristianesimo di Rabelais non procede certo da uno spirito di tradizione, tanto che parecchi critici sono d'accordo nel qualificare come riformata la sua teologia 'gigantale'. Ma la qualifica non e appropriata. I criteri irrefutabili di un riformato sono due: la Scrittura, fonte unica della fede; la fede, unica giustificazione dell'uomo. Se guardiamo ai testi rabelaisiani, troviamo precisato che il Vangelo dovra essere purgato di ogni aggiunta. In particolare da queUe "istituzioni umane ed invenzioni depravate" che i partigiani del papato hanno creduto, nel corso dei tempi, di dover aggiungere alia parola divina. Ma e anche vero, per Rabelais, che se bisogna sbarazzare i libri sacri dalle 'giunte' care ai 'pappalardi', non e proibito nutrire di alti pensieri antichi l'insegnamento morale che essi distribuiscono. In quanto alia giustificazione per la fede, Rabelais in nessun posto oppone la fede alle opere. Anzi Gargantua insegna al figlio ad amare Dio e a stare unito a Lui "per forza di fede nutrita di carita". In Rabelais, come in Erasmo, c'e la sopravvivenza tenace di una nozione cattolica del merito. Senza considerare il fatto che egli pensava, con Aristotele, che la virtu e una buona abitudine, l'abitudine ad agire secondo la natura, cioe secondo la propria condizione di uomo. Se ci si limita alle grandi linee, il catechismo gigantale e lo stesso catechismo erasmiano dell'Enchiridion, dell'Elogio, degli Adagi. Qui come la, pochi articoli e nessuna sottigliezza teologica; tra Dio e l'uomo, nessuna mediazione: i sacramenti sono ridotti a cerimonie e pratiche giudicate inefficaci di per se stesse. In confronto a Erasmo, Rabelais e meno audace, meno pungente, piu 'paesano'. Con tutto cio, il rifiuto di ogni pratica religiosa, il profondo senso d'ottimismo terreno e di corporale allegria, la satira sfrenata e divertita sugli ecclesiastici e sui monaci lo pongono al di fuori di quell'autentica religiosita che abbiamo riconosciuto in Erasmo. II cristianesimo di Rabelais, squisitamente umanistico, presuppone l'accordo tra il sentimento dei supremi valori dello spirito, l'adesione alla parola del divino maestro e del suo inviato Paolo con la piu gioiosa e travolgente esaltazione della vita della materia. Queste diverse esigenze si trovano fuse con spontaneita nel magistrale stile di Rabelais, che passa dall'una all'altra con disinvoltura, con un ritmo profondo, anche se con una prosa ridente. Per Rabelais, pensatore del Rinascimento, il riso e una liberazione degli stati emotivi che oscurano la conoscenza della vita. La verita si apre all'uomo quando egli si trova in uno stato di felicita spensierata, quello comico, appunto. E cosi Rabelais e perfettamente convinto di non poter esprimere la verita libera e franca se non nell'atmosfera del banchetto, nel tono delle conversazioni conviviali, poiche solo quest'atmosfera e questa tono rispondono all'essenza stessa della verita. La serieta e, per lui, il tono della verita agonizzante, mentre il banchetto e l'ambiente piu favorevole ad una verita 'impavida' e gioiosa. Non a caso Rabelais ha posto in contraddizione il vino e l'olio. L'olio e il simbolo della bigotta serieta ufficiale, della devozione e paura di Dio, mentre "la verita nel vino e una verita libera e impavida". Le conversazioni conviviali sono dispensate dal rispettare la distanza gerarchica fra le cose, esse mescolano liberamente i valori piu diversi, l'alto e il basso, il sacro e il profano, il materiale e lo spirituale. E in questa mescolanza che si nasconde l'utopia di Rabelais. L'esuberanza gioiosa del banchetto prende la forma di anticipazione di un futuro migliore. Cio conferisce al linguaggio conviviale un carattere tutto particolare, libero dalle
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catene del passato e del presente. II carattere utopico del banchetto non dissimula la condizione terrena dell'uomo. Anzi, il trionfo futuro dell'umanita e gia nel presente, e quello che gia tripudia nel libero gioco delle immagini materiali e corporee dell'abbondanza e della fantasiosa mutazione dell'uomo. 3.14. Michel de Montaigne. Quando si ritiro dalla vita pubblica, nel 1571 Michel de Montaigne* aveva gia pubblicato, in due raccolte, i pochi manoscritti lasciatigli da Etienne de La Boetie, l'amico morto prematuramente 7 anni prima. L'amicizia con La Boetie fu in tutti i sensi decisiva per la sua vita e la sua opera. Lui solo, scrive Montaigne, "fruiva della mia immagine, e se l'e portata via". Al posto della conoscenza intuitiva e immediata che aveva di se attraverso l'amico, Montaigne dovra d'ora innanzi elaborare una conoscenza discorsiva, da affidare ad una pagina bianca. Fin dai testi del primo periodo, Montaigne si rivelo particolarmente attento agli argomenti della morale filosofica, sia stoica sia epicurea, che incoraggia un 'ritorno a se' in vista di una ripresa di possesso di se stessi. Questo ritorno a se differisce nettamente da quello della predicazione agostiniana, che invita a rientrare in se per ascoltare la voce di Dio. La riappropriazione di se, per la tradizione agostiniana, e solo un primo momento, cui fanno seguito l'obbedienza alla autorita divina e la Speranza di salvezza. Per Montaigne e invece una meta gia in se e per se soddisfacente. Nell'indagine di se stesso egli scoprira ben presto che il desiderio di "fermarsi e riposarsi in se medesimo" genera la frammentazione. La sola risorsa, per chi resta attratto dall'ideale dell'unita, e paradossalmente di stabilirla nel discorso che afferma il cambiamento, nel giudizio che descrive e giustifica la variabilita. Desidero mostrarmi nella mia vera luce, nella mia luce naturale e consueta, senza ricercatezze e senza artifizi, perche e me stesso che dipingo... Gli altri educano l'uomo; io lo descrivo. Ne rappresento uno, in particolare, cosi mal congegnato che, se dovessi rimetterlo a nuovo, lo rifarei assolutamente diverso da quello che e. Le linee della mia pittura non si alterano, per quanto cangino e assumano aspetti diversi. Del resto, il mondo intero non e che una costante oscillazione ... Percio non posso tener fermo il mio oggetto. Esso procede incerto e cangiante, come per naturale ebbrezza: io lo fisso com'e nel momenta in cui m'interessa. Non cerco di cogliere l'essere; mi sforzo di cogliere il transito.
II compito morale diviene, cosi, un compito artistico. Non e a caso che Montaigne usi in abbondanza le metafore pittoriche. E il genio estetico dei Michel de Montaigne nasce nell'avito castella del Perigord, nel 1533. Ricopre numerose cariche pubbliche nella citta di Bordeaux, della quale diviene anche sindaco. Si ritira, ancora molto giovane (1571), dalle cariche pubbliche, per dedicarsi, tenendosi al sicuro dalle guerre di religione, agli studi .prediletti e alta stesura dei Saggi che escono in tre ristampe, nel 1580-1582 e poi nel 1588, arricchiti di un terzo libra. Muore nel 1592.
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grandi artisti del Rinascimento che si riflette in lui, offrendogli un riscatto dall'amara constatazione dell'impossibilita della coerenza e della costanza morale. Mentre sui piano morale si era posto la regola di evitare ogni ornamento, ogni ricerca di apparenza, nel guardare se stesso con l'occhio di un pittore Montaigne non puo non ricorrere all'artificio. Per penetrante che sia lo sguardo, la verita interiore, l'io, che pure e, per Montaigne, l'unica realta conoscibile, rimane inafferrabile, si rifiuta ad ogni oggettivazione. II linguaggio e esso stesso incapace di definire l'essere: dietro i discorsi, Montaigne scopre altri discorsi illusori, dietro aile sensazioni altre sensazioni ugualmente incerte. Egli sa che non e possibile uscire dal giro delle parole e che i vocaboli resteranno inevitabilmente carichi di inganni e di ambiguita. La salvezza, che non e possibile sul piano della filosofia, e possibile invece nella sfera morale, dove il distacco scettico dalle apparenze esteriori e a tutto vantaggio dell'impulso interiore, a partir dal quale e possibile costruire la legge del vivere che sul piano della conoscenza sembrava distrutta. Gli uomini rivelano le loro verita nelle loro decisioni, nelle manifestazioni dei loro atti premeditati. In un mondo in cui ci e negata la verita delle cose, e questa la via che ci conduce alla verita dell'io. Non potendo conoscere il vero, e almeno possibile viverlo. E infatti e la vita che ci offre la materia per un possibile capolavoro. Come Socrate e, per Montaigne, il pedagogo incomparabile dell'umanita, in quanto le ha mostrato per primo cio che essa puo fare con le sue sole forze, cosi Catone e per lui l'esempio di un Vero vissuto: il suicidio e il momento che suggella questa verita, in quanto, col darsi la morte, Catone pone su se stesso il proprio limite e compie un atto di assoluto possesso di se. L'ora della morte e infatti lo specchio veridico in cui l'essere raggiunge se stesso. La premeditazione della morte e premeditazione della liberta. Chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire. Il saper morire ci scioglie dal vincolo di ogni soggezione e di ogni timore. Non c'e male, nella vita, quando si e ben Capito che Ia fine della vita non e un male ...
La morte perde, cosi, il suo carattere di evento ontologico e si trasforma in una misura consustanziale alia vita: lo stato di nascita e quella di morte si insinuana, dissimulandosi, in ogni momento della vita. Perdendo di drammaticita, il sensa della marte diventa una misura di distacca umanistico, che e anche misura di liberta interiore. E cosi, paradossalmente, pur essendo la vita un susseguirsi di apparenze, si apre all'uamo una possibilita di pienezza. Questa distacca toglie ogni carattere di doppiezza all'etica di Montaigne, che e l'etica della 'maschera', e cioe dell'accettaziane delle forme esterne della vita, secondo le regale richieste dalla partecipazione alla societa. La maschera, mentre ci permette di assolvere le funzioni previste dalle istituzioni, garantisce l'integrita dell'io interiare, impedendogli di identificarsi con i ruoli che ci si e impegnati ad assumere. C'e chi ha visto in queste indicaziani di saggezza la premura della difesa della tranquillita privata e la rinuncia a trasferire nel monda esterno i valori che il soggetta pensante riconosce a se stessa. Montaigne non avrebbe superato, insamma, i limiti propri della scepsi, che in agni tempo, anche nel nostro, partano alla comoda sottoposizione ai poteri costituiti. Per dare il giusto senso
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a questo giudizio, bisogna dare il giusto peso al momento storico di Montaigne, che non era certo il piu propizio ad un umanesimo attivo. Se in Montaigne c'e un'assenza di speranza storica e perche, nel suo mondo, la coscienza non poteva trovare nessuno spiraglio adatto ad un impegno di trasformazione. Ogni futuro appariva intercettato, senza altro scampo, per l'individuo, che il ripiegamento edonistico nel presente o la fuga mistica nell'eterno. L'orizzonte egocentrico, che Montaigne traccia intorno a se, lascia alia ragione il suo pieno diritto, di ispezionare tutti gli orizzonti temporali, anche quelli irraggiungibili. Questo diritto di ispezione della coscienza, che domina la vita morale e quella politica, svolge una funzione determinante anche nei confronti della religione. L'apologia di R. de Segonde, cioe il XII capitolo del II libro dei Saggi, che in realta forma un trattato a st\ distrugge la dottrina teologica su Dio e sul finalismo dell'universo per proclamare la fede nella Rivelazione e difenderne i principi fondamentali dalle riserve della ragione. Ma anche il contenuto della fede si rivela, in ultima analisi, legato alla varieta delle interpretazioni umane. La fede, che Montaigne afferma come ricevuta direttamente da Dio, viene poi ad apparirgli determinata dalla nascita, dalla varieta delle abitudini, dei costumi, degli umori. Soltanto l'etica sara in grado di discernere tra l'autentico contenuto della Rivelazione e cio che dipende dalla nostra volonta, dai nostri pregiudizi, dai costumi. La vera differenza di valore tra le religioni consiste solo nella loro ripercussione morale sulla coscienza. Se Montaigne formula una scelta in favore del cattolicesimo, lo fa per motivi di utilita e prudenza, rna la parola decisiva spetta soltanto all'intelletto critico o meglio alia coscienza. 3.15 Pierre Charron. A Montaigne si ricollega direttamente Pierre Charron* (1541-1603). Sembra certo che egli abbia conosciuto, e se ne sia largamente ispirato, l!opera di Bodin Della Repubblica (2.16) con la quale e facilmente constatabile il profondo accordo nella concezione religiosa fondamentale. Ne La saggezza, riprendendo un tema che abbiamo visto gia in Montaigne, Charron afferma che bisogna saper distinguere e separare noi stessi dalle cariche pubbliche poiche: ciascuno di noi fa due parti e due personaggi, l'uno estraneo ed apparente, l'altro proprio ed essenziale. Bisogna saper distinguere la pelle dalla camicia: l'uomo abile fara bene la sua funzione, rna non tralascera di giudica-
Pierre Charron, nasce a Parigi nel1541, studia diritto e diviene avvocato. Piu tardi passa agli studi in teologia e si fa prete. A Bordeaux, dove vive per molto tempo, si lega di amicizia con Montaigne, dal cui pensiero trasse l'ispirazione fondamentale per la sua opera. Muore nel 1603. Due i suoi libri, apparentemente contraddittori: il prima, del1594, e un'apologia della chiesa cattolica, Le tre verita contro tutti gli atei, idolatri, giudei, maomettani eretici e scismatici ed un altro del 1601, piu conosciuto, e intitolato La saggezza
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re bene la stupidaggine, il vizio, l'astuzia che vi si annidano. Bisogna servirsi e valersi del mondo cosi come si trova, rna considerarlo tuttavia come cosa estranea a se e saper godere di se a parte, comunicandosi ad un huon confidente o quanta meno a se stesso.
Anche in Charron c'e dunque l'accettazione delle apparenze, unita alia difesa dell'autonomia dello spirito, che in queste apparenze deve sapersi muovere senza perdere se stesso. Con parole che potrebbero essere dello stesso Montaigne, egli afferma, ancora ne La Saggezza, che: tutti nella vita recitano una parte e questo vale soprattutto peril saggio, che interiormente sara sempre un altro da quello che puo mostrarsi all'esterno.
In questo principia trova spiegazione il contrasto tra la sua opera filosofica e lo scritto dogmatico ed apologetico Le tre verita. Le tre verita sono: vi e un unico Dio; la religione cristiana e la sola vera; la chiesa cattolica e la sola vera chiesa. Ma ne La Saggezza noi leggiamo, a chiare lettere, che il valore dell'individuo non dipende dalla sua appartenenza a una determinata forma di fede e che anzi, quando esercita un influsso troppo decisivo sulla morale individuale, la fede spinge al piu violento fanatismo. Non si puo aver fiducia in chi ha una morale basata soltanto su scrupoli religiosi: religione senza morale e, se non peggiore, certamente piu pericolosa della mancanza completa di ambedue.
L'ideale, per Charron, e una sapienza pratica che si affianca, in campo politico e religioso, a un quieta ideale di conservazione, ad una prudenza profana fondata, proprio come in Montaigne, sulla coscienza dell'uomo.
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Sommario. Il Rinascimento rimane, nonostante tutto, all'interno della comprensione metafisica del mondo rna contiene in se i germi della rivoluzione scientifica, che avverra quando si riuscira a coniugare tra lora la conoscenza sperimentale della natura e il linguaggio matematico (4.1). Precursore di questa rivoluzione e Leonardo da Vinci, un genio multiforme che intui la necessita di filtrare l'esperienza con la matematica, di decifrare le ragioni interne alia natura non con Ia filosofia rna con i numeri e le misure (4.2). II passaggio dalla 'sperienzia' di Leonardo alia scienza di Galileo richiedeva un diverso quadro cosmologico, quello che fu fornito, sebbene piu come ipotesi deduttiva che come dottrina basata su prove certe, dal polacca Niccolo Copernico (4.3). Il sistema copernicano divento davvero una provocazione inquietante solo dopo che Giovanni Keplero lo fece suo corredandolo di argomenti nuovi e dimostrando che tra Ia struttura matematica della mente e quella dell'universo c'e perfetta corrispondenza. Keplero e in corrispondenza epistolare con Galilei, rna resta estraneo alia via sperimentale che !'amieo aveva imboccato; il suo copernicanesimo e ancora interno al metoda deduttivo della matematica (4.4). Solo con Galileo Galilei, in virtu del suo cannocchiale e dunque del carattere empirico dei suoi argomenti, il conflitto tra i due sistemi, il tolemaico e il copernicano, esplode dando o11gine a un drammatico processo (4.5). E con Galilei che Ia scienza diventa Ia 11uu\a ltlu:>ufia', il cui contenuto pen'> none ancora l'insieme delle relazioni tra le cose, e Ia natura stessa delle cose, che consiste in figure e numeri. La naturae anch'essa, come !a Bibbia, il libra di Dio, che va letto con i criteri della matematica (4.6). L'autonomia della ragione acquista solide basi: la certezza matematica e assoluta, sebbene all'interno di un sistema, quello in cui ci troviamo, e si basa sulla possibilita di ridurre tutti i fenomeni aile proprieta quantitative (4.7). A tal fine Galileo elabora un suo metoda che si articola nell'osservazione, nell'ipotesi e nell'esperimento (4.8). Il mondo ontologico di Aristotele, strutturato in una gerarchia di essenze, si trasforma in una continuita di fenomeni fisici calcolabili matematicamente. Finisce cosi l'antico antropocentrismo e ha inizio, con tutte le sue caratteristiche, Ia grande avventura della comprensione scientifica dell'universo e dell'uomo stesso (4.9). Se Galileo ha dato alia scienza il metoda, Bacone le ha fornito l'ideologia che prelude alia odierna tecnocrazia, prefigurata nella sua opera utopica I'Atlantide (4.10). Per diventare capace della vera conoscenza del mondo la ragione deve innanzitutto liberarsi dagli idoli che Ia tengono schiava, per poi procedere induttivamente, rna in maniera organizzata, fino a raggiungere Ia definizione della natura di un fenomeno (4.11). Ma e proprio in questa sua identificazione tra Ia natura, o forma, e la causa del fenomeno che Bacone si svela ancora legato a una concezione qualitativa e dunque prescientifica del mondo. II suo merito, nel quadro della rivoluzione scientifica del suo secolo, e di aver messo in luce il nesso tra sapere e potere, tra conoscenza della natura e dominio su di essa. Se none uno scienziato egli e quanta meno il 'prima filosofo della civilta industriale' (4.12).
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Gli esordi della scienza 4.1. II mutamento culturale. GUt da quanto si e detto, il secolo XVI- il secolo del Rinascimento - appare come uno straordinario momento creativo nella storia del pensiero umano. Da Ficino a Campanella, la corrente calda dell'utopia lo attraversa per intero, anzi, lo scavalca, tenendo viva l'attesa del 'secol novo', di un nuovo tempo della specie umana. E tuttavia, per quanto riguarda le sue espressioni filosofiche, il Rinascimento non fece che disseminare luminose intuizioni senza uscire mai, nemmeno con Bruno, anzi nemmeno con Campanella, dall'antica pretesa di risolvere nella metafisica la comprensione del mondo. La radicale fuoriuscita dalla pregiudiziale metafisica si avra con i pensatori che non si limiteranno ad esaltare il primato conoscitivo dell'esperienza sensibile rna, mediante l'uso della matematica, tramuteranno quell'esperienza da semplice dato di fatto in programma preordinato dalla ragione, da confusa identita primordiale tra soggetto e oggetto, in dominio del soggetto sull' oggetto. L'antico Pitagora aveva operato una vera rivoluzion~ conoscitiva quando aveva stabilito una corrispondenza tra l'acutezza del suono e la lunghezza della corda di uno strumento, e cioe tra una variazione qualitativa e una variazione quantitativa (I. 2.7). Un suo seguace, Filolao, aveva scritto: «II numero e la guida e il maestro del pensiero umano. Senza la potenza del numero, tutto resterebbe oscuro e confuso». II limite dei pitagorici fu di fare del numero una cosa, e del sistema numerico un sistema di cose. E cosi essi scivolarono nel misticismo. La scoperta decisiva sara quella che fara del numero non piu l'essenza della realta rna un suo simbolo, una forma particolare di linguaggio atta a definire non le cose in se rna le loro relazioni. E questa la scoperta che, nonostante luminose anticipazioni, appartiene in proprio al pensiero occidentale moderno e che, mediante la rivoluzione tecnica di cui sta aile origini, ha modificato la faccia della terra. Ebbene: nel fitto intreccio del pensiero rinascimentale non ancora libero dalla feconda rna anche soffocante ipoteca platonico-aristotelica, corre una linea che pian piano riuscira a districarsi e a diventare definitivamente dominante, la linea che mira a coniugare tra loro la conoscenza sperimentale della natura e il discorso simbolico della matematica. Questo processo fu reso possibile da alcune evenienze che gli offrirono il contesto e gli stimoli indispensabili. 1. In primo luogo la diffusione, specie per opera degli umanisti italiani, degli scritti degli antichi scienziati tradotti dal greco in latino e dal Iatino in lingua volgare. Si ebbe cosi la conoscenza diretta di Ippocrate e di Galeno, di Dioscoride e di Plinio, di Euclide e di Tolomeo, di Strabone e di Archimede (l'opera del quale, tradotta in Iatino da Niccolo Tartaglia nel 1543, ebbe un valore decisivo per Galilei) e cioe degli scienziati antichi che, nel loro insieme, avevano composto una enciclopedia del sapere naturale, rimasta per lo piu ignota al Medioevo, capace di provocare verifiche e sviluppi totalmente nuovi. II patrimonio antico entrava a far parte infatti di una coscienza umana profondamente tesa al dominio del mondo, secondo il programma di Pico della Mi-
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randola, che faceva dell'uomo non il riflesso empirico di un'essenza immutabile rna il libero creatore di una realta fatta a propria immagine e somiglianza (1.12). 2. Questa infatti e l'altro tratto caratteristico dell'eta rinascimentale: un approccio diretto con la natura nell'intento di leggerne i segreti senza mediazioni libresche e di utilizzarli a vantaggio dell'uomo. «Quando tu metti insieme la scienza dei moti dell'acqua, ricordati, scrisse Leonardo da Vinci, di mettere di sotto a ciascuna posizione li sua giovamenti, acciocche tale scienza non sia inutile». Questa finalizzazione della conoscenza all'utilita trova il suo riscontro nella nuova considerazione riservata alla conoscenza volgare di colora che, senza ausilio di libri, vivono ed operano a diretto contatto con la natura. L'uomo colto, scrive LodovicoVives (1492-1540), amico di Erasmo e di Moro, «non deve vergognarsi di entrare nelle officine e nelle fattorie ponendo delle domande agli artigiani e cercando di rendersi conto dei dettagli della loro opera». Meglio loro che gli scolastici, i quali, cosi argomenta Vives, arrabbiati contro la natura, se ne sono costruita un'altra fatta di forme, di ecceita, di relazioni e han dato a questa sapere vuoto e mostruoso il nome di metafisica. Questa divisione tra il sapere astratto e la conoscenza pratica ha generalizzato il fenomeno denunciate argutamente dal grande anatomista Andrea Vesalio (1514-1564) nel suo De corporis humani fabrica (1534): la pratica anatomica resta affidata ai barbieri, incapaci di leggere testi di anatomia, e gli autori espongono, seduti come cornacchie sulle loro cattedre, cose che mai hanno sperimentato e che hanno tratto dai libri. E cosi «si insegna confusamente agli allievi meno di quanta un macellaio, dal suo bancone, potrebbe insegnare al dottore». L'esigenza di uno scambio stretto tra scienza e tecnica e d'altronde un tratto costante dell'umanesimo: basterebbe ricordare i rapporti tra Filippo Brunelleschi e Leon Battista Alberti o Paolo Torricelli. II luogo tipico di questo scambio e la 'bottega', dove si formano i grandi artisti del Rinascimento in stretto contatto con umili artigiani, da cui traggono i segreti ereditari del mestiere arricchendoli di ricerche teoriche, come fecero Lorenzo Ghiberti nei suoi Commentari e Piero della Francesca nel suo De perspectiva pingendi. 4.2. Leonardo da Vinci. Il genio che meglio espresse questo momento decisive delle origini del sapere scientifico e Leonardo da Vinci (1452-1519). Man mano che, a partire dal secolo scorso (1881), e stata decifrata l'immensa mole dei suoi appunti (circa settemila ·fogli) ed e stato ricostruito con maggior rigore filologico l'ambiente della sua prima formazione, Leonardo, Iiberato dall'alone ambiguo del portentoso prodotto di natura in cui lo aveva rinchiuso il romanticismo, si e rivelato, senza perdere di eccezionalita, come l'uomo che meglio ha incarnato in se la tensione universalistica del Rinascimento, la sua insaziabile curiosita nel perlustrare i segreti della natura, il suo progetto di tramutare la conoscenza in dominio, la sua fierezza giovanile nello scuotersi di dosso, in nome dell'esperienza, le sovrastrutture del sapere scolastico e metafisico e finalmente (ed e qui che in Leonardo batte gia la luce dell'eta galileiana) l'utilizzazione delle leggi di natura per superare i limiti che Ia natura sembra aver posto all'uomo. Questa confluenza del multiforme spirito
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dell'epoca in Leonardo non avvenne peri tramiti tradizionali, che sono tramiti libreschi (egli chiamo se stesso «Omo sanza lettere») rna mediante il tirocinio della 'bottega fiorentina' (quella del Verrocchio), dove la tradizione artigianale si era gia arricchita degli apporti del nuovo sapere umanistico, da quello del circolo ficiniano a quello di Nicola Cusano, e del nuovo sapere tecnico centrato sull'importanza del calcolo matematico. Come aveva insegnato Leon Battista Alberti, il pittore deve essere datto in tutte le arti liberali, rna soprattutto in geometria. Proprio in questa destinazione del sapere matematico a penetrare nelle ragioni che regolano quella realta che la pittura, nel modo che e suo, intende ritrarre, sta il nesso che stringe in unita il Leonardo pittore, il Leonardo ingegnere e il Leonardo scienziato. Certo, sopravvivono in lui non pochi atteggiamenti che abbiamo riscontrato nei filosofi della natura, rna cio che gli e proprio e il fermo convincimento che la natura non si conosce se non mediante la matematica. Quando scrive che la natura e retta da 'ragioni' immanenti, che nel lora insieme costituiscono la necessita che della natura e «frena e regola eterna», egli riecheggia temi cari alia filosofia del suo tempo. Ma mentre altri cercavano di impossessarsi di quelle ragioni con deduzioni metafisiche o con arti magiche, Leonardo fa appello ai matematici: «0 matematici, fate lume a tale errore!. .. », e cioe all'errore di chi fa derivare i moti della natura da forze soprannaturali o anche semplicemente spirituali. Nissuna umana investigazione si puo dimandare vera scientia, s'essa non passa per le matematiche dimostrazioni.
Sono due, per Leonardo, le vie dell'investigazione: quella che parte dalla mente e torna alia mente e genera soltanto la sofistica loquace e quella che passa attraverso l'esperienza filtrata dalle misure matematiche e genera la vera scienza. E questa la 'nota sperientia'. Chi biasimi la somma certezza della matematica, si pasce di confusione e mai porra silentio aile contradditioni delle sofistiche scientie con le quali s'impara uno eterno gridore.
Come, per un verso, il pensiero di Leonardo (un pensiero in movimento, incapace di raggiungere, nonostante i suoi propositi, una compiutezza sistematica, dato che si accende e si spegne, come un lampo, ai margini delle immense imprese 'naturali') taglia netto con l'umanesimo platonico, che assegnava all'uomo un primato di tipo meramente contemplativo, cosi taglia netto con quello sperimentalismo che rende l'esperienza quasi fine a se stessa, condannandola ad una indefinita ripetizione. Nessun effetto gna sperienzia.
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natura senza ragione: intendi ragione e non ti biso-
E nemmeno l'intendere ragione e fine a se stesso, perche lo scopo dell'intendere e l'invenzione della strumento meccanico: la scienza sbocca di necessita nella tecnica. Esperienza piu matematica produce la meccanica:
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la meccanica e il paradiso delle scienze matematiche, perche con quella si viene al frutto matematico.
Si direbbe, insomma, che tutti gli elementi su cui si basera la svolta scientifica galileiana siano gia presenti in Leonardo. A correggere questa impressione. va detto che in Leonardo l'esaltazione della matematica e ancora, per cosi dire, ingenua, in quanta il suo nesso con l'esperienza rimane di troppo stretto respiro, non sorretto da una metodologia adeguata, come quella che distinguera 1' esperienza dall' espe rimento, facendo di questa Ia veri fica di una ipotesi formulata matematicamente. C'e in Leonardo una specie di entusiasmo inesausto dinanzi al panorama delle ragioni segrete della natura: per afferrarle egli si getta in esperienze le piu disparate, che si accumulano !'una sull'altra senza un disegno preordinato. Certo, molte delle sue invenzioni sono straordinarie, come pure molte delle sue spiegazioni scientifiche di fenomeni naturali. Sta di fatto pero che le sue macchine sono state quasi sempre inventate a scopi ludici, in occasione di festivita e di pubblici divertimenti. Perseguendo come fine della scienza l'utilita comune, egli non supero, tutto sommato, i limiti dell'artigianato geniale. II fatto e che lo slancio demiurgico di Leonardo aveva gia un orizzonte dove appagarsi ed era, non quello della scienza, rna quello della pittura. E. noto a tutti che egli preparava i suoi quadri con ricerche d'ogni genere, che andavano dall'anatomia alla geometria. Non era, Ia sua, una procedura da pedante. Per lui la scienza del pittore fa che la mente del pittore si trasmuta in una similitudine di mente divina, impero che con Ia Iibera potesta discorre alia generazione di diverse essenze di vari animali, piante, frutta, paesi, campagne, ruine di monti, luoghi spaventosi e paurosi ....
E mentre la natura produce e distrugge le sue caduche bellezze, Ia scienza le salva dalla morte e le conserva in vita. Proprio per questa la pittura e un procedimento conoscitivo che deve ripercorrere le ragioni che stanno nascoste nella natura e anche se essa ci da la superficie delle cose, deve lasciar intravedere que! che vibra dietro la superficie, l'infinito groviglio di processi di cui la superficie e l'approdo e insieme il velo che lo nasconde. La 'magia' dei quadri di Leonardo (si pensi alia Gioconda) sta proprio in questa sua capacita di fermare nella tela non solo Ia superficie di un volto o di un panorama rna l'infinita delle 'ragioni' che han dato vita e senso a que! frammento di natura. Anche i suoi famosi chiaroscuri riflettono questa filosofia, nel senso che restituiscono aile dimensioni ineffabili e notturne le forme luminose colte dai sensi. Ecco perche <
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La rivoluzione copernicana 4.3. Niccolo Copernico. Perche si potesse pass are dalla 'sperienzia' di Leonardo alla scienza di Galil'eo era necessaria non soltanto un diverso uso dello strumento matematico, della cui necessita il grande pittore era intuitivamente convinto, rna anche un diverso quadro cosmologico, che allargasse, dinanzi all'uomo, l'-orizzonte conoscitivo e nel contempo lo -liberasse da un troppo stretto rapporto tra sensazione ed esperienza. Qualche intuizione della nuova cosmologia si trova negli scritti leonardiani (ad es. nei suoi scritti letterari si legge ripetutamente: «II sole non si move») rna in sostanza la sua visione del mondo restava quella dell'ambiente in cui si era formato. Quand'egli mori, la rivoluzione cosmologica aveva gia avuto inizio nella mente di un altro ricercatore, isolato nelle brume del Baltico, con appena qualche strumento rudimentale, ricco soltanto della cultura scientifica e filosofica acquisita nelle celebri universita italiane di Bologna o di Padova. Niccolo Copernico (nome italianizzato di Nikolaj Kopernik) era nato, nel 1473, nella Prussia polacca. Di ritorno dall'Italia, era stato nominato canonico, nel 1506, a Frauenburg, dove attese ai suoi calcoli ininterrottamente, fino all'anno della sua morte, il 1543, lo stesso anno in cui apparve, preparata in decenni di ricerche, la sua opera De revolutionibus orbium coeletium (Sulle Rivoluzioni dei carpi celesti). L'originalita di quest'opera e gia nel fatto che non fu l'esperienza a partorirla rna, al contrario, una presa di distanza dai dati sperimentali, in nome dell'ideale matematico che Copernico aveva assimilato negli ambienti neoplatonici italiani. Per rendere conto del moto degli astri, Tolomeo, fermo al dogma della centralita della terra nell'universo, aveva dovuto escogitare un complesso intreccio di principi motori e di conseguenti figure geometriche. L'ideale matematico postula (lo stesso Tolomeo era d'accordo) la semplicita, e la semplicita, come dire la riduzione numerica dei principi motori e delle figure geometriche, si ottiene ponendo al centro il sole. Questo spostamento, oltretutto, rispondeva ad un'altra esigenza di ordine religioso, alla quale resto fedele la tradizione dei pitagorici, fin dai tempi di Aristotele, che cosi ci dice di loro, nel suo Trattato del cielo. «Essi credono che al corpo piu nobile conviene il luogo piu nobile; che il fuoco e piu nobile della terra; che i luoghi terminali sono piu nobili dei luoghi intermedi; e infine che i luoghi terminali sono lo spazio estremo e il centro. Da tutto questo essi concludono, per analogia, che non la terra occupa il centro della sfera cosmica rna il fuoco». Non fu solo per prudenza che Copernico appoggio la sua tesi su antichi autori, come Aristarco di Sarno che aveva sostenuto l'immagine eliocentrica del mondo (1.6.2). Invece che sulla congiunzione tra l'osservazione dei fatti e le matematiche, come fara il 'copernicano' Galileo, il sistema di Copernico si basa su appassionate reminiscenze della mistica pitagorica e platonica del sole: il ,suo eliocentrismo assomiglia piuttosto ad una 'eliolatria'. II sole visibile non era, peri neoplatonici, un'immagine del Sole invisibile? E stato detto che quella di Copernico non e un'astronomia scientifica rna piuttosto un'estetica geometrica e metafisica. Capito a lui quel che era capitato a Cristofaro Colombo: scopri un mondo nuovo restando, per suo conto, prigioniero nel mondo antico.
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Come dire che, in fonda, Copernico non e copernicano! II suo spazio mentale e ancora quello del Rinascimento ed e a partire da questa omogeneita con la cultura del suo tempo che egli traccia, nel secondo capitola del suo libra, l'immagine dell'universo dalla quale avrebbe preso ispirazioni e nome la nuova cultura. II sole, immobile, e collocato al centro dell'universo: attorno a lui, su orbite circolari di diverse dimensioni, gravitano con le loro sfere (Copernico conserva questa struttura della vecchia cosmologia) i pianeti e con essi la Terra, che percorre la sua in un anno. La Terra possiede anche un movimento di rotazione su se stessa, di 24 ore, ed ha come suo satellite la luna. La sfera delle stelle e fissa, avvolge tutto l'universo (che dunque e finito) ed e di un diametro cosi ampio che il suo aspetto non muta ai nostri occhi per quanta noi ci muoviamo con la terra che si muove. La rivoluzione apportata da Copernico e gia nel fatto di aver svelato come l'umanita si sia lasciata guidare dal sensa comune, il quale, pur basandosi sui sensi, e fonte di errore e non di verita. La verita si trova per altra via, quella della ragione, non di rado in contrasto col senso comune, schiavo dell'irrazionale. Quanto a render canto, mediante la sua ipotesi, dei fenomeni celesti, Copernico vi riusd. solo in parte, anche perche era rimasto legato al pregiudizio aristotelico che il moto perfetto e quello circolare. Costretto a far rientrare nella sua immagine geometrica del mondo tutti i fenomeni osservati, dovette via via aumentare i circoli, che arrivarono fino a trentasei, pochi di meno di quelli previsti dalla tradizione tolemaica. E per dare spiegazione del movimento dei pianeti, una volta scartata l'azione del motore immobile, egli fece ricorso ad un'altro dogma antico: essi si muovono appunto perche sferici. La sfera ha infatti la proprieta intrinseca di muoversi da se circolarmente. Le obiezioni che venivano fa tte alia dottrina di Copernico gia durante la sua vita erano anche di altra natura. In nome dell'esperienza, innanzitutto: ad esempio, si chiedeva perche un grave lasciato cadere da un'alta torre cada sui piede della perpendicolare invece che in un punta spostato, dato il movimento della terra; o perche, in ragione di questo movimento non si avverta nessuna forma di vento. E poi in nome dell' ortodossia religiosa. Le accuse, sia di parte cattolica che di parte protestante (Lutero lo chiamo «un pazzo che pretende di capovolgere tutta l'astronomia»), si basavano sugli argomenti biblici coni quali sara condannato Galileo. Per tenere al sicuro Copernico, ormai d'altronde sui letto di morte, il suo ammiratore Andrea Osiander (1498-1552) teologo protestante, curo che il libro fosse stampato (in mille copie mai esaurite!) con una propria premessa prudenziale: quelle di Copernico - vi si dice - non erano che ipotesi, erano un tentativo di dare un ordine ed una interpretazione ai fenomeni ce-
Tav. 2. Confronto fra i sistemi cosmologicl 1. Sistema geocentrico di To-
lomeo; 2.. Sistema eliocentrico di Copernico; 3. 11 'compromesso di Tycho Brahe; 4. Confronto dei sistemi copernicano e tolemaico. Abbiamo utilizzato M. Boas: The Scientific Renaissance, Collins, London 1962, p. 84.
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1. II sistema geocentrico di Tolomeo. La Terra e fissa a! centro. Tra i pianeti che le girano attorno ci sono anche !a Luna e il Sole.
3. Il 'compromesso' di Tycho Brahe. LaTerra a! centro. La Luna e il Sole girano attorno alia Terra mentre gli altri cinque pianeti girano attorno <1l Sole
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2. Il sistema eliocentrico di Copernico. I. Sfera immobile delle stelle fisse. II. Saturno compie una rotazione in 30 anni. III. Rivoluzione di Giove di 12 anni. IV. Biennale rivoluzione di Marte. V. Rivoluzione annuale della Terra con l'orbe lunare. VI. Rivoluzione di Venere in nove mesi. VII. Rivoluzione di Mercurio in ottanta giorni. AI centro il Sole.
4. Confronto dei sistemi copernicano e tolemaico. Nel sistema copernicano C e il Sole, centro del sistema; B e Ia Terra; D il Sole; E il centro dell'epiciclo del pianeta; P il pianeta. La linea che congiunge Ia Terra a! pianeta, nel secondo caso, sara parallela alia linea che congiunge !a Terra al pianeta nel primo caso. L'a.ngolo fra questa linea e !a linea Terra-Sole sara lo stesso in entrambi i sistemi. Di conseguenza Ia posizione apparente del pianeta e Ia stessa.
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lesti osservati. L'espediente non rendeva onore alle convinzioni del grande astronomo, rna ebbe il suo peso nel tener sopite le dispute che esploderanno con Bruno, Keplero e, in modo drammatico, con Galilei. 4.4. Giovanni Keplero. L'ostilita della chiesa cattolica e di quella protestante all'innovazione copernicana non faceva che esprimere l'atteggiamento generale degli ambienti filosofici e scientifici, quasi tutti concordi nel ritenere intangibile la cosmologia tolemaica. Perfino il piu grande astronomo della se~ conda meta del Cinquecento, Tycho Brahe (1546-1601), che, a differenza di Copernico, abbandono la dottrina tolemaica in base ad osservazioni dirette dei fenomeni celesti, si astenne dal far propria la tesi eliocentrica ed escogito una teoria di compromesso, atta a tener tranquilli i tutori della tradizione: la terra, nella sua cosmologia, rioccupa la posizione centrale, col sole e la luna che girano attorno a lei; solo gli altri cinque pianeti si muovo attorno al sole. Questa combinazione tra i due sistemi aveva il vantaggio di accumulare le spiegazioni dei fenomeni osservati, senza mettere a soqquadro il nucleo centrale della tradizione: il geocentrismo. Fu il discepolo e poi il successore di Brahe, Johannes Kepler, italianamente Keplero (1571-1630), a rompere ogni cautela, facendo proprio il sistema copernicano, e non come mera ipotesi da mettere nel numero delle altre, rna come spiegazione conveniente dell'insieme dei movimenti celesti. Egli espresse questa convinzione (precisando che era nata in lui sei anni prima) nella sua prima opera Mysterium cosmographicum, composta all'eta di 24 anni, nel 1595. Si tratta di un'opera ancora immatura, che mescola argomenti empirici con deduzioni di tipo metafisico, come quello secondo cui Dio non poteva creare che sei pianeti perche tanti e non piu sono i poliedri regolari (cioe con lati uguali ed angoli uguali); e difatti, congiungendo tra !oro i luoghi via via occupati dai pianeti nella loro orbita, si hanna precisamente sei poliedri. Dentro questo involucra platonico, si fa strada in Keplero un'idea di portata rivoluzionaria dal punta di vista epistemologico: la matematica (e piu precisamente la geometria, in cui egli assorbe l'aritmetica) non e solo uno strumento dell'uomo, e una struttura della sua mente a cui sta dinanzi un mondo, che, a sua volta, ha una struttura matematica, ha cioe una sua tessitura quantitativa, adatta ad essere misurata. Ubi materia ibi geometria: dove la materia, ivi la geometria. Il luogo risolutivo del rapporto uomo-natura none ontologico, e quello in cui la formula matematica stringe in unita l'universo misurabile e l'uomo misurante. Nella sua opera piu importante, l'Astronomia nova (1609: l'anno in cui Galileo comincio a far uso del cannocchiale), egli, nel rendere conto delle sue osservazioni sui pianeta Marte, arriva ad esemplificare questo incontro tra l'a priori rna-' tematico e l' a posteriori dell'osservazione: la traiettoria di Marte non e circolare, rna ovale, e un'ellissi della quale il Sole occupa un fuoco. Questa figura dell'ellissi (i greci gia la conoscevano senza sapere che essa corrispondesse ad un dato della realta), applicata a tutti e sei i pianeti, e l'oggetto della cosiddetta prima Iegge di Keplero: le orbite descritte dai pianeti intorno al sole sono ellissi di cui il sole occupa uno dei fuochi. Cronologicamente anteriore a questa (e concepita in base ad osservazioni fatte sui moto della terra) e la sua seconda Iegge: le aree descritte dal raggio vettore (il segmento di retta che con-
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giunge il pianeta col sole) sono proporzionali al tempo impiegato per descriverle. Dieci anni dopo, egli formula nelle A rmonie del mondo (1619), la terza Iegge: i quadrati dei tempi impiegati dai diversi pianeti nel percorrere interamente Ia loro orbita stanno tra loro come i cubi degli assi maggiori delle orbite descritte dai pianeti. Come si vede, il dato specifico di queste leggi non e Ia 'natura' dei pianeti, e la quantita geometricamente traducibile, non e il 'che cosa' essi siano, rna il 'come' si comportano. Nel formulare la terza Iegge Keplero aveva potuto gia utilizzare alcune scoperte di Galilei, col quale era in corrispondenza epistolare. Ed e senza dubbio sulla sollecitazione di queste scoperte che egli affronto il problema che le sue tre leggi lasciavano scoperto: quello dell'origine del movimento. Le armonie dei cieli, che pure gli davano entusiasmi mistici, non erano, per Keplero, l'effetto di un'anima del mondo. II mio scopo - egli scriveva in una lettera del 1605 - e di dichiarare che Ia macchina dell'universo non e costruita sui modello di un divino animale, rna sui modello di un orologio e in essa tutti i diversi momenti si debbono ad una diversa forza attrattiva materiale, allo stesso modo che tutti i movimenti dell'orologio sono dovuti ad un semplice pendolo.
Utilizzando un'opera sui 'magnetismo terrestre', pubblicata nel 1600 da William Gilbert (1540-1603), egli giunge a formulare una dottrina che prelude a quella, di sessant'anni piu tardi, sulla gravitazione: la dottrina dell'attrazione fra i corpi celesti, e in genere fra tutti i corpi (la terra attrae una pietra e la pietra attrae la terra). AI centro del sistema delle attrazioni c'e l'energia magnetica, che proviene dal sole: girando su se stesso, esso comunica ai pianeti Ia forza motrice. Ecco perche essi si muovono piu rapidamente quando sono vicini al sole (perielio) e piu lentamente quando ne sono lontani (afelio). E cosi questo grande astronomo, che piu di ogni altro sentiva il fascino della contemplazione di Dio e perfino quello delle pratiche astrologiche, poneva le premesse fondamentali della cosmologia moderna e piu in genere della scienza moderna, anche se il merito di questo trapasso spetta soprattutto a Galileo Galilei.
Galileo Galilei 4.5. II caso Galilei. In data 4 agosto 1597, Galileo Galilei*, 'matematico dell'accademia patavina', dopo aver letto Ia prefazione del Mysterium cosmographicum di Keplero (4.4) ricevuto in omaggio, scrive al grande astronomo ... gia da molti anni sono anch'io dell'idea di Copernico; e da questo punto di vista sono state dame scoperte anche le cause di molti fenomeni naturali, che senza dubbio nella comune ipotesi sono inspiegabili. Ho gia raccol-
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to molti ragionamenti che lo provano e confutazioni degli argomenti contrari a tale tesi, cio che, tuttavia, fino ad ora non ho osato dire alia luce, sgomento della sorte dello stesso Copernico, nostro maestro, il quale, anche se presso qualcuno si e procurato una fama immortale, tuttavia presso gli altri che sono infiniti (che tale e il numero degli ignoranti) vien fuori tra risa e fischi. Io avrei il coraggio di palesare le mie riflessioni, se come te ce ne fossero molti; rna siccome le cose non stanno cosi, tale faccenda dovro rimandarla. Quando Galileo scriveva questa lettera da copernicano clandestino, Giordano Bruno, che dell'intuizione di Copemico aveva fatto il fulcra del suo sistema filosofico, si trovava nelle prigioni del Sant'Uffizio da cui sarebbe uscito tre anni dopa per salire sul patibolo (3.6). L'unica dottrina cosmologica ammessa era quella aristotelico-tolemaica che aveva due pregi: riusciva a render canto di quanta rientrava nell'osservazione dei fatti astronomici (come si diceva, a 'salvare i fenomeni') e corrispondeva a quanta si Iegge nella Scrittura, almena circa la stabilita del sole e la mobilita della terra. Quella di Copemico non era che un'ipotesi, come dire un tentativo gratuito, non impasto dalla necessita dell'esperienza, per spiegare in altro modo i fenomeni, senza nessuna pretesa di render canto dell'ordine effettivo della natura. Come abbiamo vista (4.3), era stato Andrea Osiander a suggerire, in una apposita introduzione, questa lettura del libra di Copernico. Quando, durante il prima processo contra Galileo, decisero di prendere posizione non direttamente su di lui rna sul suo 'maestro', i censori dovettero attenersi a queste direttive: ,, Se certi passi di Copernico sul mota della terra non
Galileo Galilei nasce nel 1564 a Pisa da famiglia fiorentina (suo padre Vincenzo era un valente musicologo) ma passa la sua infanzia a Firenze, dove tenta la vita monastica, da cui si ritrae per una malattia agli occhi. Torna a Pisa nel 1581 per studiare medicina in quell'universita, dove ben presto il carattere pedantesco dell'insegnamento lo persuade a dedicarsi allo studio della matematica e, sotto la guida di buoni maestri, alla lettura delle grandi opere di Platone e di Aristotele. Ma in reazione al carattere libresco della cultura accademica prendono forma le sue tendenze ad osservare in modo diretto il libra della natura. Secondo quanta racconta il suo discepolo Vincenzo Viviani, sarebbe del 1583 la sua scoperta dell'isocronismo pendolare, dovuta all'osservazione delle oscillazioni di un lampadario del duomo di Pisa. Dopa quattro anni, senza aver conseguito nessun diploma, lorna a Firenze, dove, accanto alle ricerche scientifiche (inventa, nel 1586, in base allo studio di Archimede, una stadera idrostatica per misurare il peso specifico dei carpi) svolge anche un 'attivita letteraria: memorabili i suoi saggi sull1nferno dantesco, sull'Ariosto e sul Tasso. Nel1589 ottiene l'insegnamento della matematica all'Universita di Pisa, dove rimane appena tre anni. Per sottrarsi ai conflitti suscitati nell'ambiente accademico e per far fronte alle difficolta economiche insorte dopa la morte del padre, accetta l'offerta, da parte del Senato di Venzia, della cattedra di matematica all'universita di Padova.
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I 18 anni di Padova sono i piu felici della sua vita. NeZ 1609, urilizzando alcune informazioni su uno strumento attica costruito in Olanda, fabbrica un cannocchiale («perspicillo») e da inizio alia esplorazione del cielo. Il 12 marzo del 1610 pubblica un opuscolo di cento pagine, il Sidereus Nuncius (il Nunzio sidereo) in cui dimostra: che la superficie della Luna e scabra, con valli e manti; che la Via Lattea e, come le altre nebulose, un ammasso di stelle; che il pianeta Giove e dotato di quattro satelliti che gli girano attorno al. modo della nostra luna. Fenomeni tutti che si possono 'salvare' solo con l'ipotesi copernicana. NeZ settembre del1610 si stabilisce a Firenze, chiamatovi dal granduca Cosima // col titolo di 'prima filosofo e' matematico'. Col suo cannocchiale scopre gli anelli di Saturno, le fasi di Venere e le macchie solari, gia avvistate a Padova. L:annuncio delle sue scoperte suscita un dibattito che gli offre l'occasione di scrivere quattro lettere (dette Lettere copernicane 1612-1615) tra le quali la Lettera a Benedetto Castelli, suo discepolo, in cui difende la dottrina copernicana e la teoria che i fenomeni fisici rientrano nella giurisdizione della scienza, non in quella della Sacra Scrittura. Il dibattito si fa aspro e sbocca in una denuncia contra Galileo presso il Sant'Uffizio. Per quanta Galileo si adoperi per guadagnare alla sua tesi, condivisa da molti prelati, la gerarchia cattolica, non riesce ad evitare un grave provvedimento: il 3 marzo 1616 !'opera di Copernico viene messa all'Indice come <<Stolta, assurda e forma/mente eretica» e Galileo stesso viene ammonito dal cardinal Roberto Bellarmino di astenersi da ogni discussione relativa al sistema del mondo. NeZ 1618 appaiono tre comete. Incoraggiato dal suo concittadino e amieo, il card. Maffeo Barberini, Galileo ne prende occasione per scrivere un Discorso sulle comete (1619). In seguito agli attacchi del gesuita Orazio Grassi, scrive, in lingua volgare e secondo i modelli platonici, .if dialogo Il Saggiatore (1623), dove sostiene con grande efficacia l'autonoh1ia della ricerca scientifica e Ia concezione matematica dell'universo. Contando sull'appoggio del suo arnica Barberini, divenuto nel frattempo Papa Urbano VIIJ, egli porta a termine e pubblica il suo capolavoro, il Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo (1633). Jl papa (che tra l'altro si ritiene messo alla berlina nel personaggio del dialogo, Simplicia) non e piu in grado di tutelare il vecchio arnica. ll Sant'Uffizio apre contra Galileo un processo che si conclude, il 22 giugno 1633, con Ia condanna. Galileo evita Ia pena massima pronunciando Ia formula di ritrattazione: «abiuro, maledico e detesto li suddetti errori ed eresie». La pena (il carcere formale nella stesso Sant'Uffizio) e tramutata, in seguito, nel domicilio coatto a Firenze, nella villa di Arcetri, dove Galileo, travagliato dai mali fisici (tra i quali, da/1637, Ia cecita) continua il suo lavoro, circondato dall'ammirazione degli spiriti liberi di Europa, specie dell'area protestante. E infatti in Olanda, a Leyda, che appare, nel 1638, il suo ultimo scritto, Discorsi su due nuove scienze, dove non si fa cenno direttamente del sistema copernicano solo perche viene data per presupposto. Muore 1'8 gennaio 1642.
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sono ipotetici, renderli ipotetici; in tal caso essi non saranno ne contro la verita ne contro lo Spirito Santo». Proprio in quell'anno, il piu rinomato degli aristotelici italiani dell'epoca, Cesare Cremonini, che era stato collega di Galileo a Padova, fece uscire un suo commento al De Coelo di Aristotele in cui la dottrina di Copernico veniva qualificata come una «moderna curiosita astronomica». E cioe come un calcolo matematico in cui il canonico polacco aveva tentato di render conto dei fenomeni senza pen) pronunciarsi sulla corrispondenza di quel calcolo col reale andamento delle cose. II crimine di Galileo fu proprio quello di sostenere, anzi di dimostrare, che la teoria di Copernico rispondeva alia costituzione vera e reale dell'universo, e dunque di mettersi «Contro la verita» e <>. n guaio, per i giudici, era che Galileo, armato di cannocchiale, aveva fornito argomenti sperimentali all'ipotesi matematica di Copernico. Di qui lo sconcerto dei filosofi e dei teologi del tempo. Il Cremonini, ad esempio, sembra ridurre la sua polemica antigalileiana all'indignazione contro quel maledetto sistema di lenti: «quel mirare per quegli occhiali, egli scrisse, mi imbalordiscono la testa!». E chi si rassegna ad ammettere come indubitabili i tratti messi in evidenza dal cannocchiale ricorre ai piu tortuosi espedienti pur di salvare l'immagine tradizionale dei cieli. E il caso dell'astronomo gesuita Cristofaro Clavio, che per restituire alia luna la sua sfericita sostenne che gli anfratti e le montuosita descritti da Galileo erano interni a un involucro cristallino, e percio invisibile, dalla forma perfettamente rotonda. Nei teologi, anche i piu illuminati come Roberto Bellarmino, l'ostilita a Galileo non si basava soltanto su ragioni filosofiche. Essi intuivano che se Galileo aveva ragione sarebbe crollato, insieme ai cieli di Tolomeo, l'intero universo di valori in cui la chiesa aveva finito con l'identificarsi. Il mutamento dell'immagine del mondo avrebbe portato alia revisione di tutte le certezze consacrate dalla tradizione, avrebbe spogliato la realta di tutti i significati simbolid. che la riferivano a1l'invisibile, trasformandola in un deserto quantitativa senza piu nessun rapporto col mondo morale e religioso. La minaccia della ragione scientifica sarebbe stata, insomma, molto piu grave di quella che la chiesa, con immense perdite, aveva affrontato nella sua lunga lotta contro la Riforma. Lutero aveva preteso di dimostrare la natura arbitraria della mediazione ecclesiastica nella sfera dei rapporti tra l'uomo e Dio, ora Galileo aboliva totalmente quella mediazione anche nei rapporti tra l'uomo e il mondo. I due processi intentati contro di lui obbedivano, dunque, a ragioni non commisurabili con l'oggetto esplicito su cui si svolgeva il confronto. Nella loro decisione di mettere a tacere per sempre questo laico presuntuoso, che aveva scosso le fondamenta dell'ordine esistente, i principi della chiesa, deten· tori della 'regina delle scienze', erano sopraffatti dalla paura di un mondo in cui non solo il loro ruolo, rna quello stesso della chiesa avrebbe perso ogni senso. Se la terra non fosse davvero che un pianeta tra i pianeti, per quale privilegio essa dovrebbe essere il luogo della storia della Redenzione? Nell'ipotesi, molto probabile, che negli altri pianeti vi fossero degli abitanti non appartenenti alia stirpe di Adamo, in che modo Dio si e rivelato a loro? E che senso ha per loro l'Incarnazione? E se i cieli sono corruttibili, dove potremo collocare il trono di Dio? E che ne sarebbe della dignita dell'uomo, posto tra i demoni e gli angeli?
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Si rendeva cop to, Galileo, di queste implicazioni? Nella sua illusione di portare la chiesa, di cui ammirava la potenza organizzativa, a far propria la dottrina copernicana, predominava l'idea di fondo della Controriforma e cioe l'idea di un recupero da parte della chiesa di una salida egemonia culturale, o piuttosto un sottile calcolo di politica personale? Difficile rispondere a questi interrogativi. Forse sono nel giusto colora che attribuiscono a Galileo una certa ingenuita nel valutare la portata rivoluzionaria della nuova concezione del mondo che egli andava sviluppando, poggiandola sulle irrefutabili conquiste del suo cannocchiale. E l'ingenuita che arieggia in questa frammento del Dialogo: «Per quelli che si perturbano per aver a mutare tutta la filosofia, mostrar come none cosi, e che resta Ia medesima dottrina dell'anima, della generazione, delle meteore, degli animali». La sua tesi che il sapere scientifico fosse di per se un sapere 'neutrale' di fronte a1le grandi questioni. dell'uomo, rispondeva forse ad esigenze prudenziali, rna si sarebbe ben presto rivelata sen- . za fondamento. La storia successiva avrebbe dimostrato che i suoi giudici avevano ragione in tutto, fuori che nell'argomento preciso su cui osarono pronunciare il loro giudizio. E fu cosi che essi aprirono un divorzio non solo tra progresso scientifico e chiesa rna, pili in genere, tra progresso scientifico e coscienza morale e religiosa. Solo in questi ultimi tempi si e presa piena coscienza della gravita del duplice divorzio e della necessita di porvi rimedio. 4.6. La scienza, nuova filosofia. Galileo ci teneva ad essere considerato filosofo, e non certo perche la cattedra di filosofia era pili prestigiosa di quella di matematica. L'appellativo di 'matematico primario e filosofo del granduca' con cui torno da Padova a Firenze rispondeva ad una sua pretesa, che va imputata non alia sua vanita personale rna aila sua consapevolezza che, sostituendo ai libri di Aristotele, su cui i docenti di filosofia facevano lezione, il grande libro della natura, egli poneva Ia condizione essenziale per la conoscenza della costituzione del mondo e dunque per la filosofia vera, destinata a prendere il posto di quella vacua, litigiosa e infeconda che dominava nelle scuole. II programma comune dei suoi avversari, sia teologi come il Bellarmino, sia filosofi come il Cremonini, mirava a relegare il copernicanesimo galileiano nell'area innocente dei calcoli matematici. Nel suo gU\ citato commento al De Coelo di Aristotele, il Cremonini, nel '13, ribadiva la sua tesi: «quanto alla posizione la terra sta al centro; quanto al movimento, sta ferma. A noi e bastato, per la nostra speculazione, scorrere le sentenze di Aristotele. Abbiamo avuto notizia di curiosita astronomiche di contemporanei, da cui dobbiamo tenerci loritani, perche appartengono ad un'altra scienza». L"altra scienza' e, appunto la matematica. Tre anni dopo, il Bellarmino precisava, in una sua lettera al copernicano Antonio Foscarin, la posizione che lo guido nel condurre il primo processo contro Galileo e che puo considerarsi la posizione ufficiale della chiesa del tempo: Dico che mi pare che V.P. et il Sig. Galileo facciano prudentemente a contentarsi di parlare ex suppositione, e non assolutamente, come io ho sempre creduto che habbia parlato il Copernico. Perche il dire, che suppo-
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sto che Ia terra si muova et il sole stia fermo si salvano tutte le apparenze meglio che con porre gli eccentrici et epiciclici, e benissimo detto, e non ha pericolo nessuno; e questo basta al mathematico; rna voler affermare che realmente il sole stia nel centro del mondo, e solo si rivolti in se stesso senza correre dall'oriente all'occidente, e che Ia terra stia nel 3° cielo e giri con somma velocita intorno al sole, e cosa molto pericolosa non solo d'irritare tutti i filosofi e theologi scolastici, rna anche di nuocere alia Santa Fede con rendere false le Sacre Scritture ...
Tutto fa pensare che il Bellarmino avesse gia letto una delle lettere copernicane che Galileo scrisse nel 1615 a Pietro Dini, con Ia preghiera che Ia facesse conoscere anche al grande prelato gesuita. Ebbene, in quella lettera Galileo sostiene che Copernico non aveva scritto ex suppositione, e cioe in via di ipotesi, rna «vestendosi l'abito del filosofo» si mise a investigare «la vera disposizione delle parti del mondo», dalla quale le apparenze vengono meglio salvate che da una finta. Se si fosse riconosciuto a Copernico questa merito «si sarebbe in filosofia guadagnato una cognizione» eccellente. Ebbene, in virtu del cannocchiale e toccata a lui, a Galileo, rivendicare il valore filosofico della teoria copernicana. Il che non era possibile senza rivendicare, nel contempo, l'autonomia del nuovo sapere, sia nei confronti della metatisica aristotelica, sia nei confronti della teologia cattolica. <
AI posto dell'autorita, dunque, Ia ragione, e non Ia ragione abbandonata a! suo moto interno, cioe alla pura logica, rna la ragione basata sugli statuti propri della natura. La svolta copernicana giunge qui a! proprio limite, sorpassando, o meglio rigettando sia i compiacimenti estetici del copernicano Keplero sulle armonie matematiche delle sfere celesti, sia l'eroico furore di Giordano Bruno, che dell'intuizione di Copernico aveva fatto il punta di partenza per Ia costruzione di una nuova metafisica. Il nuovo sapere proposto da Galileo non ha le pretese bruniane della totalita, non mira cioe a ridurre l'universo intero all'unita di un solo principia, risolutivo di ogni differenza e di ogni contraddizione. Certo, anche in lui agisce un
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a priori che non puo essere tratto dall'esperienza rna la precede e la illumina: l'a priori della concordanza tra la matematica e la natura. Questa pregiudiziale si affida alle verifiche dell'esperienza e rimane sempre contenuta nella consapevolezza dei propri limiti, che sono i limiti del sapere scientifico. Mentre ai nostri tempi il sapere scientifico non ha come suo oggetto la 'verWt' delle cose, rna piuttosto il sistema delle lora relazioni in quanta esse sono spazio operativo dell'uomo, la filosofia di Galileo sorpassa i limiti epistemologici della scienza fisica, nella convinzione di attingere la natura cosi come essa e. II presupposto di questa atteggiamento e la sostituzione della metafisica con la fisica. Questa significato univoco del concetto di 'veriHt' non poteva non produrre, oltre che il conflitto con la tradizione metafisica, un yonflitto con la teologia cattolica, Secondo la quale !'ultima istanza nella ricerca del vera non e la ragione, e la Sacra Scrittura. Anche qui un libra, sebbene, a diversita della Fisica di Aristotele, scritto da un tale Autore (Dio stesso) che nessuna esperienza puo scalzarne l'autorita. Galileo non cerca rifugio, come avevano fatto gli averroisti di Padova un secolo prima, nell'espediente della 'doppia verita'. Ma nemmeno accetta la linea di Tommaso d'Aquino, secondo il quale nell'eventualita di un conflitto tra i risultati della ricerca razionale e la parola della Scrittura non poteva esservi dubbio: la verita stava da questa parte. La soluzione che Galileo da a questa tradizionale problema e di straordinaria acutezza, tanto che la stessa chiesa, allora cosi tragicamente sorda ai suoi argomenti, dopa tre secoli e mezzo, nel Concilio Vaticano II (1962-1965) ha finito col farla propria, definendo la verita della Scrittura come 'verita salvifica', tale cioe che la sua natura specifica e il suo ordinamento ad ammaestrare gli uomini in cio che riguarda Ia !oro salvezza eterna. Per riprendere una frase che Galileo aveva desuiJ.tO dal card. Baronio, la Bibbia insegna non come vanno i cieli rna come si va in cielo. Galileo era convinto che tra i due libri, la Bibbia e la Natura, scritti ambedue da Dio, non ci puo essere nessun contrasto. Quando il contrasto si da, come nel caso della posizione e del movimento della terra e del sole, occorre risolverlo tenendo canto di due considerazioni. La primae tratta dalla natura stessa della Bibbia, che e ordinata a manifestare la volonta di Dio a tutti gli uomini. Proprio per questa lo Spirito Santo che la detto ha dovuto «per accomodarsi all'intendimento>> di tutti gli uomini, anche dei piu rozzi, «dir molte case diverse, in aspetto e quanta al vera significato delle parole, dal vera assoluto». Anche la Scrittura insomma e legata «a obblighi cosi severi com'ogni effetto di natura»: il suo obbligo e di trasmettere agli uomini con qualsiasi linguaggio la verita che salva. Al contrario, la natura procede in modo immutabile e senza riguardo alcuno per la capacita degli uomini. Non ha sensa dunque contestare cio che la «sensata esperienza ci pone innanzi agli occhi o le necessarie dimostrazioni concludono», adducendo modi di dire delle Scritture Sacre, che se avessero dovuto attenersi alla verita nuda e scoperta avrebbero danneggiato la loro stessa intenzione fondamentale, che era di persuadere il volga delle verita di salvezza. La seconda considerazione e affine a questa, ma conduce al di la delle ragioni del linguaggio e tocca, per cosi dire, gli ambi ti di competenza. Che Dio ci
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abbia rivelato cose che superano ogni umano discorso, appartiene alia necessita di salvezza. Ma «quel medesimo Dio ci ha dotati di sensi, di discorso e d'intelletto». None conforme alia saggezza del Creatore che noi ci forniamo di notizie attorno a cio che e alia nostra portata, attingendo da altre fonti, fossero pure quelle della Scrittura. La fede in un Oio creatore rafforza dunque l'autonomia della ragione, invece che svilirla. E. un argomento questo che avra molta importanza, come vedremo nel prossimo capitolo (5.5), nel padre del razionalismo moderno, Renato Cartesio. Veniva cos! nettamente limitato }'ambito della teologia. Galileo tornera sul tema con altrettanta chiarezza nella Lettera alla granduchessa Cristina (1615) che gli aveva chiesto se la teologia poteva considerarsi la regina delle scienze. Si, rispose Galileo, se si tiene conto della dignita dell'oggetto, no, se si presume che il teologo possa inserirsi in tutti i campi dello scibile. 4.7. Autonomia e limiti della ragione. Questa affermazione dei limiti e, dentro di essi, della piena autonomia della scienza era del tutto coerente col metado che, a partire dal Sidereus Nuncius, Galileo ando elaborando. Al polo opposto delle esaltazioni poetiche della metafisica di Bruno, Galileo basa la sicurezza della ragione sulla consapevolezza dei suoi limiti, tracciati: 1) dalla finitezza dell'uomo, 2) dalla relativita del sistema fisico in cui l'uomo si trova rinchiuso, 3) dall'impossibilita per l'uomo di conoscere l'essenza delle cose. 1. Per quanto riguarda il primo limite egli ne parla in un noto brano del Dialogo: l'intendere si puo pigliare in due modi, cioe intensive, o vero extensive; ... extensive, cioe quanto alia moltitudine degli intellegibili, che sono infiniti, !'intender umano e come nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perche mille rispetto all'infinita e come zero; rna pigliando l'intendere intensive, in quanto cotal termine importa intensivamente, cioe perfettamente, alcuna proposizione, dico che l'intelletto umano ne intende alcune cosi perfettamente, e ne ha cosl assoluta certezza, quanto se n'abbia l'istessa natura; e tali sono le scienze matematiche pure, cioe la geometria e l'aritmetica, delle quali l'intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di piu, perche le sa tutte, rna di quelle poche intese dall'intelletto umano credo che Ia cognizione agguagli la divina certezza obbiettiva, poiche arriva a comprenderne la necessita, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore.
2. Il limite oggettivo e dovuto al fatto che l'os;,ervazione dell'uomo e fatalmente interna ad un sistema dal quale, per le vie dell'esperienza, non potra mai uscire. Per rendere conto di questa 'relativita' Galileo ricorre all'esempio della stiva di una nave nella quale siano raccolti «mosche, farfalle e simili animaletti volanti» e con essi un vaso con dentro dei pesci e, sospeso in alto, un secchiello da cui esce acqua che, goccia a goccia, cade perpendicolarmente in un recipiente dal colla angusto. Ebbene, se la nave si mette in moto a qualsivoglia velocita (purche il moto sia uniforme e non fluttuante) tutto nella stiva procedera come prima, al punto che da quel che avviene al suo interno non sara possibile decidere se essa e ferma 0 in rnovimento.
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3. Parimenti, se la ragione volesse partire dall'esperienza e restare nei suoi confini, non potrebbe mai decidere, nel determinare le leggi della natura, cio che avviene per necessita, e cioe per norma assoluta. Galilee ritiene possibile, come vedremo subito, varcare questa limite per mezzo di 'esperimenti mentali' e cioe di ipotesi prodotte in laboratorio in condizioni che non siano quelle della nostra esperienza normale. Solo cosi e possible, non gia la conoscenza dell'assoluto, rna la certezza assoluta della conoscenza. E soprattutto qui la novita del metoda galileiano. La possibilita di trascendere l'esperienza si basa sui fatto che Ia struttura mentale dell'uomo e di tipo matematico. Le regale su cui si regge la matematica hanna carattere di necessita, sono quelle e non possono essere che quelle. Esse non fanno che determinare i modi possibili della quantita e le leggi che stringono tra loro quei modi: i cerchi, i quadrati, i triangoli, il punta, Ia linea, l'angolo e cosi via. Inutile cercare nella natura cio che appartiene al mondo della qualita. La fisica aristotelica mirava a spiegare il comportamento delle cose-ricercando, nell'insieme delle loro qualita, l'essenza, la natura, il fine. II fuoco, ad esempio, va in alto perche per sua natura esso abita in alto, immediatamente sotto il cielo della luna. Analogamente si dica dell'aria, dell'acqua e della terra. I loro movimenti 'naturali', intercettati dai movimenti violenti, danno origine alia dinamica del cosmo. Fermo al suo a priori matematico, Galilee distingue nella natura due tipi di qualita: le oggettive, che sono sempre le stesse e eguali per tutti, e le soggettive, che variano da soggetto a soggetto e, nella stesso soggetto, variano col variare delle sue condizioni. Le prime sono quantitative, come la grandezza, Ia figura, il movimento, e senza di esse un corpo non sarebbe nemmeno possibile. E sono per l'appunto quelle rispondenti allo schema matematico-geometrico della mente. Le altre sono qualitative, come il colore, il sapore, l'odore e cosi via. Esse hanna origine nel loro rapporto con un soggetto senziente. Sono interne alia sensazione e nascono vivono e muoiono con la sensazione: non hanna, in rapporto all'oggetto, nessun carattere di necessita. Solo le qualita del prima tipo, cioe le quantita, sono oggetto del pensiero. II quale, accettando questa limite, rinunciando cioe a chiedersi quale sia la natura delle cose, sara in grado di stabilire come sono le cose e come esse si comportano tra di loro secondo le regole di necessita. Ad esempio, nello studiare Ia caduta di un corpo non avra sensa domandarsi quali siano le sue qualita, bastera conoscere la sua grandezza, lo spazio percorso e il tempo impiegato nella sua caduta: tutte qualita riducibili in numeri. Viene meno, con Galilee, la lettura metafisica della natura ed ha inizio la fisica meccanicistica, analoga a quella dell'antico Democrito, che anche lui, e bene ricordarlo, voile ridurre la natura alle misure del pensiero, impegnato a:Bora nel problema del rapporto tra l'uno e il molteplice, un problema dunque piu matematico che metafisico. 4.8. II metodo. Ecco dunque il punto d'appoggio che permette alia ragione di sovrastare i confini dell'esperienza sensibile per ridiscendere poi al suo interne e cogliere Ia coincidenza tra il modo di pensare e il modo di essere: e la matematica. Galileo non ha costruito un suo 'discorso del metoda', rna quanta ha scritto nelle sue varie opere sulla maniera di raggiungere una conoscenza
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della natura capace di prevederne i comportamenti e, se il caso, riprodurli, ci consente di parlare di un vero e proprio metodo galileiano. Schematizzando, esso comporta tre momenti distinti: L' osservazione, che non va confusa con Ia pura e semplice esperienza sensoriale e nemmeno con la elencazione promiscua delle qualita, per poi procedere, mediante comparazione, a stabilire queUe costanti e quelle variabili. L'osservazione galileiana seleziona nel fenomeno le componenti quantitative, e dunque misurabili. Ad esempio, nella caduta di un grave seleziona la sua massa, lo spazio percorso, i tempi impiegati nei vari tratti del suo percorso. E dunque un'esperienza basata sulla pregiudiziale matematico-geometrica. L'ipotesi. A partire dai dati quantitativi del fenomeno osservato e possibile costruire una spiegazione che, prima della verifica, avra soltanto un valore ipotetico. Ma l'ipotesi, in virtu della sua astrattezza quantitativa, sara in grado di spiegare non solo i fenomeni osservati rna tutti i fenomeni possibili, e cioe esterni all'esperienza, cosi come la teoria di Archimede sul moto a spirale e valida anche se in natura quel moto non esiste. L'ipotesi costruita sui dati osservati, costituisce come la premessa da cui, per via deduttiva, si devono derivare tutti i particolari misurabili del fenomeno, cosl come in geometria dall'idea di triang:olo possono derivarsi deduttivamente numerosi teoremi. La verita di tali deduzioni e cosi assoluta che, se anche la verifica sperimentale la smentisse, essa rimarrebbe intatta. In questo caso si dovrebbe supporre che nell'esperienza normale si introducano delle variabili che impediscono all'ipotesi di riprodursi con esattezza: ad esempio, l'ipotesi del moto uniformemente accelerato di un grave e impedita dalla resistenza che !'aria oppone al grave. Il che non vuol dire che Galileo abbia voluto costruire una fisica ideale, vuol dire che ogni teoria fisica, una volta raggiunta la coerenza nella formulazione, deve di continuo cimentarsi nel rendersi conto delle variabili che la smentiscono, fino a ridurre anche queste nei quadri di una spiegazione quantitativa assolutamente certa. L'esperimento come terza fase della ricerca vuol rispondere appunto a questa necessita. Poiche nell'esperienza bruta, quella di cui viviamo quotidianamente, si introducono dei dati che turbano i principi stabiliti nell'ipotesi, occorrera creare artificialmente, in laboratorio, le condizioni che permettano la verifica di una conseguenza prevista. Se il fenomeno riprodotto nell'esperimento e tale da confermare la previsione dell'ipotesi, allora l'ipotesi diventa Iegge, altrimenti essa andra corretta. In questa costruzione dell'ambiente artificiale in cui la natura viene, per cosi dire, costretta a rivelare se stessa, acquista valore la competenza tecnica del ricercatore. Nella fase galileiana e la tecnica (si pensi al cannocchiale) che presta servizio alla scienza. Ma dalla combinazione da lui inseg:nata, nell'eta a lui successiva si sviluppera anche il servizio inverso, quello della scienza alla tecnica. II mondo moderno e nato da questo scambio. 4.9. L'eta galileiana. La filosofia di Galileo non e tanto nella visione del mondo che egli, non senza incoerenze, traendo elementi dall'antico atomismo e dal platonismo, si e costruito per dare un quadro giustificativo alle sue scoperte e al metodo che ve lo aveva condotto, e soprattutto nelle virtualita di
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questa metoda, che si sarebbero presto dispiegate portando a termine la rivoluzione da lui avviata. Quel metoda si basa sul postulato che la naturae retta da necessita meccaniche, le quali, nel !oro insieme, costituiscono Ia trama indefettibile delle cause e degli effetti, che e Ia stessa trama dello scibile umano. Spogliato di tutte le qualita, il mondo e, dinanzi all'uomo, una continuita fisica, dai limiti indefiniti, dentro la quale i fatti si condizionano gli uni gli altri, in virtu di necessita rigorose traducibili in calcoli matematici. II mondo ontologico di Aristotele. strutturato in una gerarchia di essenze, legate l'una all'altra da un dinamismo finalistico, entro il quale l'uomo aveva, nell'ordine sublunare, la dignita di vertice, cede il posto ad un sistema fisico che procede in modo omogeneo, nei cieli e sulla terra, ovunque si estenda la corporeita. Le matrici umanistiche della s<:_:ienza, quelle, ad esempio, di Leonardo, scompaiono appunto perche la nattlra non ha nessun riguardo particolare per l'uomo: «non doviamo desiderar~-::. si legge in una lettera di Galileo al Cesi - che la natura si accomodi a quello che apparrebbe meglio disposto e ordinato a noi, rna conviene che noi accomodiamo l'intelletto nostro a quello che ella ha fatto». Caduto l'antropocentrismo, cade anche il raccordo tra il comportamento della natura e la provvidenza di Dio, almena quel raccordo su cui si era basata, fino ad allora, la teologia, sia quella razionale che quella rivelata. Troppo mi 'par che ci arroghiamo, mentre vogliamo che la sola cura di noi sia l'opera adeguata e il termine oltre al quale la Divina Sapienza e Potenza niuna altra cosa faccia o disponga ... Intanto, quando mi vien detto che sarebbe inutile e vano un immenso spazio intraposto tra gli orbi dei pianeti e la sfera stellata privo di stelle, e ozioso; come anco superflua tanta immensita per ricetto delle Stelle fisse, che superi ogni nostra apprensione, dico che e temerita voler far giudice il nostro debolissimo discorso delle opere di Dio, e chiamar vano e superfluo tutto quello dell'universo che non serve per noi.
L'uomo si trova, cosi, ad essere cittadino di due mondi diversi, senza rapporti tra loro, almena dal punto di vista epistemologico: quello della quantita e quello della qualita nel quale egli vive in quanta anima e in quanta sensibilita. Molti ritengono che il programma di Galileo era di estendere il suo metoda anche nella sfera della vita soggettiva dell'uomo, in modo da intendere i movimenti dell'anima con le stesse regale che ci permetton d'intendere quello dei corpi, more geometrico. E quanta fara Cartesio e, in modo radicale, Spinoza. Ma intanto il sistema cosmico di cui egli aveva scoperto le leggi fondamentali andava completato. E lo sara da Isacco Newton, nato lo stesso anno della morte di Galileo.
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4.10. L'araldo dei tempi nuovi. Se, in deroga al criterio della cronologia, abbiamo riservato a Francesco Bacone* !'ultima parte di questo capitolo dedicate alia rivoluzione scientifica, none perche a lui tocchi il merito d'aver prodotto, o anche semplicemente completato, questa rivoluzione. L'eco del Nuncius sidereus non giunse in Inghilterra o quanto meno non si guadagno l'attenzione di Bacone, che pure, nel 1610, era gUt fervidamente impegnato nella costruzione del suo ambizioso progetto di un rinnovamento totale del sapere. L'ipotesi copernicana gli andava bene come ipotesi. Della matematica aveva un concetto piuttosto basso, tanto da riservarle, nella sua enciclopedia delle scienze, ora un luogo ora un altro, ora accanto alia metafisica, ora accanto alia fisica, giungendo fino a rimproverare gli astronomi d'aver compromesso la dignita della !oro scienza integrandovi la matematica. Egli potrebbe anche essere considerate estraneo alia genealogia rinascimentale, aperta da Leonardo e chiusa da Galileo, nella quale la combinazione tra esperienza e matematica e una costante in progressione. L'immagine di Bacone come autore del moderno metodo scientifico, accreditata nel '600 dalla Societa reale delle Scienze e poi dagli Illuministi del '700 e dai positivisti dell'800, viene oggi comunemente rigettata. Quell'immagine si adatta primariamente, se non esclusivamente, a Galileo. II merito di Bacone e di aver intuito per primo il nesso tra la scienza e il potere dell'uomo sulla natura, e di aver annunciate, con l'enfasi di un profeta biblico, il 'regno dell'uomo', indicandone le anticipazioni in alcuni eventi che avevano gia mutato le condizioni di vita sulla terra: l'invenzione della stampa, della polvere da sparo e della bussola. Se Galileo creo il metodo della scienza, Bacone le offri l'ideologia e cioe un progetto globale in cui le stesse leggi che rendono feconda la ricerca tecnica avrebbero potuto estendersi alla totalita dell'esperienza umana. Anche per questo c'e oggi chi indica in Bacone il primo responsabile della 'tecnocrazia totalitaria' che sarebbe !'ultimo approdo della svolta da lui preconizzata. Bacone era ben lontano dal conferire alia ragione scientifica un primato cosi assoluto. Semmai, il clinamen cui puo essere ricondotto l'odierno tecnologismo e nello slittamento epistemologico che porto Bacone ad un rigetto totale di ogni forma di sapere che non fosse riconaucibile, appunto, a sapere scientifico e, ulteriormente, al rigetto di ogni sapere scientifico che non avesse 'lncidenza nella trasformazione della vita dell'uomo sulla terra. Questa specie di euforia baconiana ha riscontro nella sua storicizzazione del progresso umano, secondo la quale gli antichi sono come fanciulli e i moderni sono i veri antichi, sono l'umanita giunta allo stadio di maturita. Alieni, come oggi siamo, da queste semplificazioni, non possiamo leggere senza un qualche disagio le pagine in cui Bacone riduce a vacue menzogne gli insegnamenti degli antichi, primi fra tutti Platone e Aristotele, ai quali contrappone, in quanto pili aderenti al magistero dell'esperienza sensibile, i 'presocratici' e specialmente Democrito. -
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Francesco Bacone. Pochi filosofi hanna saputo, come Francesco Bacone, ospitare in se con tanta serenita cosi numerose contraddizionl. Anche lui e un 'parto' del suo tempo, che, in lnghilterra, fu un tempo di rapidi rivolgimenti sociali, di sanguinosi contrasti religiosi, di ardite esperienze politiche. Nato a Londra nel 1561 da una famiglia che occupa gli alti ranghi del governo, Francesco Bacone ha fin dall'adolescenza smisurate ambizioni politiche che tuttavia riesce a combinare con l'assidua dedizione alla ricerca e alla produzione filosofica. Nel 1584 viene eletto alla Camera dei Comuni. Per guadagnarsi le simpatie della regina Elisabetta, si serve dell'amicizia del suo favorito, il Conte di Essex. Accusato di complotto, Essex viene condannato a morte (1601) e Bacone, dopa che la condanna era stata eseguita, scrive un violento pamphlet contra l'amico. Nel frattempo ha gia pubblicato i -?Uoi Essays (1597), che Ia collocano tra i grandi letterati umanisti. Del1602 e II parto maschio del tempo, che pero, timoroso delle possibili reazioni, non pubblica, data il suo carattere di rovente polemica contro la cultura dominante. Salito al trona Giacomo I Stuart (1603), egli riprende la sua strategia delle ambizioni che nel 1618 Ia condurra alla carica suprema di Lord Cancelliere. lntanto ha gia scritto diverse opere, alcune delle quali tenute inedite per le stesse ragioni di prudenza. NeZ 1605 era uscito, con un appello vibrante a! re Giacomo, il saggio Sulla dignita e il progresso del sapere umano e divino. I rapporti del Lord Cancelliere col suo re vanno bene, ma solo perche Bacone non conosce molti scrupoli nell'uso dei mezzi per guadagnarsene i favori. Nel 1621 e accusato in Parlamento di peculato. Si riconosce colpevole e viene condannato ad una g~ossa multa, alla perdita delle cariche e alla reclusione nella Torre 'fino a quando piacera al re'. Dopo pochi giorni Bacone e Iibera e, sia pure con qualche ritorno di fiamma delle sue ambi" zioni, dedica il resto dei suoi anni (muore nel 1626) a mettere in atto un grandioso programma di rinnovamento filosofico. Il programma, dal titolo La grande instaurazione (Instauratio magna), lo aveva forse gia concepito ai tempi del Parto maschio, ma comincia a renderlo pubblico solo nel '20. L'opera doveva consistere in sei parti. Questa prima lotto del '20 comprende: la prefazione, il piano generale e la seconda parte con il titolo II nuovo organo (Novum organum sive indicia vera de interpretatione naturae). NeZ 1622 e nel 1623 esce, in due volumi, Ia terza parte, Storia naturale e sperimentale. Dopa Ia sua morte, nel 1627, il suo segretario William Rawley pubblica un (nsieme disorganico di appunti col titolo Selva pelle selve (Sylva silvarum). La raccolta si chiude"con un lungo frammento dal titolo Nuova Atlantide (New Atlantis). La bibliografia baconiana e complicata perche alcune sue opere restarono inedite, altre furono riassorbite a ampliate in opere successive, altre, scritte per altri scapi, vennero dallo stesso Bacone riferite un po' estrinsecamente al quadro programmatico della Instauratio magna: ad esempio, il saggio gia citato sulla Dignita e il progresso del sapere umano e divino, fu da lui riscritto nel1623 con titolo modificato e destinato ad essere la prima parte della Instauratio.
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Ma e lo stesso Bacone che ci guida a bene intendere questa sua tracotanza la dove chiama enfaticamente le sue opere 'un parto maschio' del suo tempo. Egli non fa che dar voce a cio che ferve nell'Inghilterra, ormai passata dalle anguste forme di vita dell'eta preelisabettiana aile forme di vita dischiuse e propagate dalla rivoluzione mercantile. Come avviene nelle fasi di rapida trasformazione sociale, aile soglie del Seicento inglese la cultura tradizionale era in via di disgregazione perche inadatta a fornire ragioni e prospettive ai nuovi ceti emergenti, bisognosi di nuova razionalita e di nuove forme di organizzazione. -Da questo divario tra cultura ereditaria e nuove domande di vita si accende !'utopia e cioe l'esigenza di un'alternativa che si regga sulla combinazione tra immaginazione e nuova razionalita. Bacone dette forma a questa utopia latente in una sua opera, scritta nel 1623 rna uscita postuma, intitolata La nuova Atlantide. Come l' Utopia di Moro e la Citta del sole di Campanella, !'isola descritta da Bacone (non diversamente dall'Atlantide di cui parlo Platone, essa si trova oltre lo stretto di Gibilterra) raffigura la societa ideale. Quel che distingue !'utopia baconiana e che nella sua citta il potere e in mano ad una specie di ordine sacra formato da scienziati: la Casa di Salomone. II potere politico quasi non si vede e in ogni caso e strettamente dipendente da questa associazione il cui fine «e la conoscenza delle cause e dei segreti movimenti delle cose allo scopo di allargare i confini del potere umano verso la realizzazione di ogni possibile obiettivo». L'isola, infatti, non e che un immenso laboratorio dove si ottengono meravigliosi effetti tecnici, alcuni dei quali hanno una sorprendente somiglianza con i ritrovati essenziali della tecnologia moderna, dal microscopio al sommergibile, al telefono, alla centrale elettrica. Va da se che i cittadini di Atlantide sono felici (la tecnica contro le malattie e per il prolungamento della vitae, tra loro, sviluppatissima) e onesti a tutta prova. Nessuno esce dall'isola, salvo che, ogni dodici anni, due navi sono autorizzate ad avventurarsi in altre parti del mondo in ricerche programmate da numerose equipes di specialisti. Resta in ombra, significativamente, il problema della giustizia che non puo essere certo risolto dalla pura efficienza tecnica. Comunque i saggi della Casa di Salomone sono ben consapevoli della loro responsabilita.
Ci consul tiamo tra di noi - dice il Padre della Casa di Salomone - per decidere quali nostre esperienze e scoperte debbano essere rese note al pubblico e quali no. Ci impegniamo tutti, con giuramento, ...-, a non divulgare mai quelle che ritcniamo prudente tener segrete. Alcune di queste, tuttavia, in certi casi, le comunichiamo al re o al senato, ,rna in altri casi neppure a !oro.
Ci vien fatto di pensare al dramma morale del «gruppo di scienziati» che nel 1941 scopri la possibilita di usare l'energia atomica a scopi bellici. Essi lo dissero al... re e la storia e precipitata nel rischio della morte totale. In Bacone l'utopia della scienza al servizio della societa e ancora pervasa di fervore morale e religioso: lo scopo della comunita scientifica e di accogliere la luce di Dio e cioe la conoscenza della natura e dell'uomo. Proprio in ragione di que-
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sto suo scopo, la comunita e riconosciuta e aiutata dallo Stato. Nemmeno quarant'anni dopo, nel 1662, nascera a Londra, per la munificenza del re Carlo II Stuart, Ia Societa reale delle Scienze. L'esigenza era pen) gia scritta nel tempo: fin dal 1603 era in funzione, a Roma, 1' Accademia dei Lincei e dal 1657 sara attiva a Firenze l'Accademia del Cimento. Al solitario ricercatore rinascimentale succede ormai, secondo il messaggio baconiano, il 'ricercatore collet-tivo'.
4.11. II metodo baconiano. Lo abbiamo gia detto: in rapporto all'eta moderna il compito di Bacone e stato quello del 'profeta' che ha saputo prevedere e propugnare una societa organizzata secondo il sapere scientifico e per il sapere scientifico. Di qui il tono ispirato a cui egli si abbandona. La sua lnstaurazione segue lo schema cristiano della creazione-caduta-redenzione. L'intelletto dell'uomo si trova come in uno stato di peccato: esso e, si, uno specchio, rna pieno d'incantesimi da cui occorre liberarlo, perche torni alle condizioni originarie. Gia qui appare la tesi baconiana della storicita della ragione. Se accettata acriticamente, Ia ragione non e emancipata dal tempo rna soggetta a tutti i suoi condizionamenti. Nel redimere l'intelletto Bacone non segue il metodo analitico che qualche decennia dopo seguira Cartesio. II suo e innanzi tutto un metodo storico, una 'distruzione' dei pregiudizi che si sono accumulati nella mente umana. Ricerca·re le cause di questa decadenza equivale a ricercare le condizioni storiche dei populi, non alla maniera degli eruditi rna per discernere queUe che hanno favorito e quelle che hanno impedito il retto uso della ragione. Ad eserhpio, i grandi viaggi di Pitagora, di Democrito o di Platone non erano, se rapportati a quelli in uso nell'Inghilterra mercantile, che passeggiate nei dintorni della citta. Nell'eta romana, a causa della vastita dell'impero, gli ingegni si dedicarono piuttosto all'azione politica che alia ricerca naturale. Nel Medioevo i monaci restavano chiusi nelle loro celle ad esercitarsi sui testi di Aristotele. Da una storia sifbitta e derivata la degenerazione della ragione. Gia prima dell'eta medioevale, specie per colpa di Platone 'sfacciato cavillatore' e di Arist:otele 'detestabile sofista', la ragione ha contratto un vizio contemplativo che l'ha resa tanto inabile nel fare, quanta feconda nel discutere. Nel Medioevo le cose si sono aggravate perche, mentre per un verso si e abbandonato il libro della natura, opera di Dio, si e preteso di costruire una filosofia su Dio, oltrepassando le barriere del mistero, la cui conoscenza e resa possibile solo dalla Rivel;z-ione. A questa logica del tutto sterile ne va contrapposta un'altra, da impustare ex novo, la cui caratteristica sia la 'interpretazione della natura' per via di induzione. Anche Aristotele conosceva il sillogismo, rna esso era del tutto sterile perche si basava sulla pura enumerazione dei dati di esperienza. Per forza di cose questa enumerazione non poteva esaurire tutti i. casi, cosicche Aristotele partiva da alcuni di essi per salire subito (Bacone dice 'volare') agli assiomi generali e da questi deduceva tutti i possibili casi particolari. La nuova induzione invece non procede per salti: prende le mosse dai dati dell'esperienza e gradatamente, secondo un accurato procedimento, che Baco-
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ne spiega nel Nuovo Organo da sostituire all'organo aristotelico. L'obiettivo del Nuovo Organa e di superare la separazione tra verita e utilita per realizzare la !oro totale coincidenza.
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Infatti l'uomo, ministro e interprete della natura, opera e intende solo per quanto, con l'osservazione e Ia riflessione, avra appreso dell'ordine della natura: di piu non sa ne puo. Infatti nessuna forza puo sciogliere o spezzare la catena delle cause e Ia natura non si vince se non obbedendo ad essa (natura nonnisi parendo vincitur). Pertanto quelle due gemelle intenzioni umane, Ia scienza e Ia potenza, mettono capo ad una sola e il fallimento delle opere deriva sopra ogni cosa dalla ignoranza delle cause. L'essenziale e di non staccare mai gli occhi della mente dalle cose stesse e di ricevere le !oro immagini cosi com' esse sono.
Solo che, come abbiamo gia visto, gli occhi della mente non sono integri. La mente e come uno specchio deformato che ci da delle cose un'immagine deformata. 1. La prima fase del metodo baconiano e appunto l'emendazione dell'intelletto da quelle false nozioni (Bacone le chiama idoli) che impediscono la retta comprensione dell'ordine di natura. Gli idoli sono di quattro tipi: a. gli idoli della tribU., che sono fondati sulle naturali disposizioni della specie ('tribu') umana. L'uomo infatti e portato a prendere per vero quel che i sensi gli forniscono o quello che piu risponde al suo desiderio e a leggere i fatti della natura ponendoli in analogia con se stesso e non con l'universo. b. Gli idoli della spelonca, propri dell'uomo in quanto individuo e in quanto individuo generato e cresciuto in un ambiente particolare, da particolari maestri, con letture anch'esse particolari. La spelonca del mito platonico diventa in Bacone la prigione del «piccolo mondo privato» che esclude dal «pili grande mondo a tutti comune». c. Gli idoli del foro, generati dal commercio e dal consorzio tra gli uomini. E nella natura della vita associata produrre parole, definizioni, spiegazioni che si prendono per vere rna che non sempre aderiscono alle cose. «Le parole fanno violenza all'intelletto e trascinano gli uomini a innumerevoli e vane controversie e finzioni ». d. Gli idoli del teatro, che penetrano nell'intelletto ad opera dei sistemi filosofici. <
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(tabula graduum) si annoteranno le circostanze la cui assenza attenua, fino ad
anriullarlo, il fenomeno e la cui presenza piu o meno intensa determina il fenomeno e le sue variazioni. 3. Comparando tra loro le registrazioni delle tre tavole e possibile procedere alla terza fase, alla prima vendemmia, come dice Bacone: si elimineranno, come non essenziali alla 'natura' del fenomeno, tutte le caratteristiche che sono assenti quando il fenomeno e presente (la luminosita, ad esempio, che non c'e in molti corpi in cui si da il calore}, presenti quando esso e assente, variahili quando esso varia. Compiute tutte le eliminazioni, la natura del fenomeno dovra ritenersi nascosta nel 'residua' e cioe in quelle caratteristiche che sempre sono assenti quando il fenomeno e assente, sempre sono presenti quand'e presente, e che sempre variano col suo variare. 4. Su quel 'residua' si basa l'ipotesi di lavoro, che dovra essere verificata nell'ultima fase della ricerca. Nel caso del calore, l'ipotesi, fatta da Bacone, e che esso ha origine dal movimento delle particelle materiali in contrasto con la tendenza alia separazione. E qui che appare chiaro il divario tra Bacone e Galileo. Bacone non traduce l'ipotesi in una formula quantitativa, matematica, da cui dedurre poi i casi particolari da sottoporre a verifica di laboratorio. Gli esperimenti a cui, secondo Bacone, l'ipotesi va sottoposta per verificarne la fondatezza sono numerosi e complessi e non merita qui renderne conto. Per aver disatteso il ruolo della matematica, Bacone ha costruito una grande macchina di cui nessuno si e poi servito, dato che essa, nonostante le apparenze, resta omogenea alle costruzioni di cui e stata feconda l'alchimia del Cinquecento. In un suo famoso brano, egli definisce con una arguta metafora, la presunta novita del suo metoda: Coloro che trattarono le scienze furono o empirici o dogmatici. Gli empirici, come le formiche, accumulano e consumano. I raziorialisti, come i ragni, ricavano da se medesimi Ia !oro tela. La via di mezzo f quella delle api, che ricavano la materia prima dai fiori dei giardini e dei campi e la trasformano e la digeriscono in virtu di una loro propria capacita. Non dissimile e il lavoro della vera filosofia che non si deve servire soltanto o principalmente delle forze della mente; Ia materia prima, che essa ricava dalla storia naturale e dagli esperimenti meccanici, non deve essere conservata intatta nella memoria rna trasformata e Iavorata dall'intelletto. Cosi Ia nostra speranza e ripost~ nell'unione sempre piu stretta e piu salda delle due facolta, quella sperimentale e quella razionale, unione che non si e finora realizzata.
Si potrebbe dire che, nonostante tutto, Ia faticosa macchina metodologica di Bacone richiama alla mente piuttosto le formiche che le api. Il momenta della elaborazione intellettuale si da veramente solo quando si compie l'astrazione matematica (a Galileo basto l'oscillazione di un candelabra per intuire Ia Iegge dell'isocronismo pendolare) e da essa si deducono i casi particolari da sottoporre ad esperimento. 4.12. L'ambivalenza di Bacone. Bacone visse e opero in un mondo dove fermentava in modo quasi tumultuoso Ia nuova stagione della ricerca sperimenta-
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Francesco Bacone
le. A parte Galileo, su cui Bacone conserva il totale silenzio, egli non mostra di aver letto la Nuova Astronomia di Keplero, uscita nel 1609, ne di aver avuto sentore degli studi sul magnetismo portati avanti, proprio a Londra e proprio negli ultimi anni della Regina Elisabetta, da William Gilbert (4.6). Come fa notare Bertrand Russell, <
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stretto dal vincolo intersoggettivo della collaborazione e se aperto ai possibili sviluppi della conquista umana ben oltre il tempo che, a lui come individuo, e dato di vivere. Ecco perche il titolo che pili si adatta a Bacone e quello di 'primo filosofo della civilta industriale'. Ouel che gli alchimisti, gli astrologi e i maghi inseguivano, la civilta tecnica lo ha realizzato. Bacone sta tra l'una e l'altra epoca come un Giano bifronte, come il Dottor Faust, la cui leggenda, proprio negli anni elisabettiani, fu messa in versi dal drammaturgo Christopher Marlowe.
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Sommario. Galileo non aveva dato adeguato sviluppo alla sua tesi che l'universo e costruito «Secondo Ia serie dei numeri»: tocchera a Cartesio tentare_una specie di 'matematica universale' da sostituire all'antica metafisica (5.1 ). A tal fine egli elabora un metodo desunto dal procedimento matematico. rna applicabile a tutto l'universo dello scibile. Esso comporta quattro regale: l'evidenza, l'analisi, Ia sintesi e l'enumerazione (5.2). Forte di queste regale, Cartesio trova il punto di partenza della 'deduzione' filosofica nell'intuizione dell'«io penso» (5.3), dalla quale, con passaggi di tipo matematico, si - giunge alla certezza dell'esistenza di Dio (5.4) e quindi, avendoci Dio fornito di organi efficaci, alia certezza del mondo esterno che ci viene dato dai sensi (5.5). II mondo esterno none che pura estensione pili movimento: tutto cio che e fuori dell'uomo, compreso il suo corpo, e riconducibile alia struttura della macchina (5.6). Nasce qui il dualismo cartesiano, e cioe Ia giustapposizione delle due sostanze, il corpo e lo spirito, senza mediazioni tra loro (5.7). Che ne e, ad esempio, della morale? Cartesio ha cercato di conciliare Ia spiegazione meccanicistica della morale con il principia della liberta, rna senza chiudere davvero il problema (5.8). Tutto, nel Seicento filosofico, si muove attorno a Cartesio. La fiducia nella ragione, che in Cartesio aveva raggiunto approdi metafisi..c;~. diventa, attorno a lui e contro di lui, anche un principia critico che dissolve i valori delle tradizioni, come nel folto gruppo dei 'libertini' (5.9) o come in Pierre Gassendi, che mantiene Ia ragione nei rigidi confini dell'esperienza, senza sbocchi metafisici, proponendo una visione del mondo di tipo atomistico (5.10). Sui prolungamento del pensiero cartesiano si muovono invece gli occasionalisti, impegnati a superare Ia frattura che Cartesio aveva lasciato aperta tra il pensiero e l'estensione (5.11). Fra gli occasionalisti emerge, per potenza speculativa, Nicola Malebranche, che di Cartesio accetta Ia totale fiducia nella ragione, dominatrice dei due regni, il fisico e il metafisico (5.12). In tal modo egli riconduce Cartesio a sant'Agostino, di cui sviluppa Ia dottrina sull'illuminazione interiore: ogni idea, anche quella elementare della sensazione, e prodotta in noi da Dio in occasione degli oggetti che abbiamo davanti (5.13). Non solo dunque gli intelligibili rna anche i sensibili sono in Dio, che e il luogo sia degli spiriti che dei carpi. Il che non vuol dire pero che nel conoscere le case noi conosciamo Lui. Quel che e certo comunque e che la ragione serra in una medesima logica Dio e l'uomo. II che comporta, per un credente qual era Malebranche, non pochi problemi in rapporto alia fede nel Dio biblico (5.14). E anche in nome di questa fede che si ribella al razionalismo lo scienziato e mistico Biagio Pascal, il cui itinerario interiore, breve e scosceso, apre un varco sull'emisfero della spirito disatteso da Cartesio (5.15). Pascal era anche lui, per certi versi, un cartesiano, solo che egli ebbe vivissimo il sensa del limite della ragione (5.16). II suo oggetto di studio e l'uomo nella sua condizione esistenziale, nella sua miseria e nella sua grandezza: per comprenderlo non basta lo spirito di geometria, occorre lo spirito di finezza (5.17). In sospeso trail tutto e il nulla l'uomo cerca scampo nel 'divertimento' (5.18), rna l'unica vera risposta al suo dramma gli viene dal Dio di Gesu Cristo. AI di Ia di questa sua conclusione apologetica, Pascal e restato nella storia del pensiero come una inquietante e insopprimibile provocazione (5.19).
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Cartesio 5.1. II progetto di una 'scienza universale'. Negli stessi anni, si puo dire, in cui Galileo e Bacone stavano costruendo, ciascuno a modo suo, il nuovo 'organo' del sapere scientifico, cosi il ventitreenne Rena to Cartesio*, in un suo diario (Cogitationes privatae), definiva il suo compito: Le scienze sono nascoste da una maschera e solo se riusciamo a strapparla ci appariranno in tutta la loro bellezza. A chi abbraccia con lo sguardo la catena delle scienze, domiriarle con l'intelletto non appare piu difficile che ricordare la serie dei numeri.
Rene Descartes (latinizzato Cartesio) nasce a La Haye il 31 marzo 1596 dal nobiluomo Joachin, consigliere del re. A 8 anni entra nel collegia di La Fleche fondato da Enrico IV e da lui affidato ai Gesuiti perche vi formassero i giovani della nobilta. Allievo madelia, rimane deluso non appena il corso dall'insegnamento delle lettere passa a quello della logica, della fisica e della metafisica, basato, com'era costume universale, sui testi di A ristotele. La discussione e l'unico esercizio di filosofia: «Si discuteril dira poi - in classe, a passeggio, in ricreazione, in ogni luogo e tempo». Per vincere il fastidio di una filosofia ridotta a vuota disputa sui testi, si dedica alia studio della matematica e concepisce stupore per [a scarsa applicazione c;,_he si fa dell 'unica disciplina capace di gene rare certezza. Lascia il collegia nel1612 per compiere gli studi di Iegge a Poitiers. Ottenuta la laurea, il padre lo introduce (1616) nel gran mondo di Parigi. Anche qui il fastidio della vuotezza lo vince, ripagato da alcune relazioni culturali che gli saranno utili in seguito, prima fra tutte quella con il suo excompagno di collegia, Martin Mersenne, divenuto religioso. Il padre lo spinge verso la carriera militare ed egli entra nell'esercito del principe Maurizio di Nassau, un calvinista che in Olanda sta combattendo contra i cattolici di Spagna (1618). Nella primavera del '19 lascia l'Olanda e intraprende lunghi viaggi fino a che entra, sempre come militare, al servizio del principe cattolico Massimiliano di Baviera. Venuto l'inverno, prende alloggio nei pressi della cittadina bavarese di Vim ed e qui, in una stanza surriscaldata dalla stufa, che il10 novembre fa la scoperta di una 'scienza mirabile '. L 'intuizione ha per lui il val ore d 'una esperienza mistica, tanto che fa voto di un pellegrinaggio di ringraziamento a Loreto. Nel 21 lascia ['esercito e, dopa un periodo di viaggi, si stabilisce a Parigi dove resta fino al1628. Qui redige le Regole per la direzione dell'intelletto (1628, ma pubblicato postumo nel 1701) e subito dopa si ritira in Olanda, dove resteril ininterrottamente (salvo qualche puntata a Parigi) fino al 1649. Si dedica a comporre il Trattato sul Mondo e lo finisce nel 1633. Sta per pubblicarlo quando gli giunge la notizia della condanna di Galileo. Per evitare guai con la chiesa (nel suo trattato si dava per scontata l'ipotesi copernicana) lascia inedito lo scritto che vedra le stampe solo nel 1677.
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Porta al termine la Diottrica (teoria della rifrazione) e due saggi, sulle Meteore e sulfa Geometria Pubblica questi tre saggi 1'8 giugno 1637 in un volume dal titolo composito di Discorso del Metoda per ben condurre la propria ragione e cercare la verita nelle scienze, pili la Diottrica, le Meteore e la Geometria che sono dei saggi di quel metoda. ll libra esce anonimo e in lingua francese. In latina e dedicandolo ai teologi della facolta di Parigi pubblica, nel 1641, le Meditazioni sulla prima filosofia, che sviluppano, con piu riguardo al costume accademico, il sistema filosofico gia contenuto in nuce nel Discorso e rispondono ad un certo numero di obiezioni sollevate nel frattempo, contra questa o quell'aspetto della sua filasofia, da parte di alcuni grandi intellettuali del tempo, come Gassendi e Hobbes. Net '44 appaiono, sotto forma di tesi da manuale, i Principi di Filosofia, in latina. ll dibattito attorno alle opere di Cartesio diventa sempre piu largo e in alcuni casi malta aspro. Mosso dalle obiezioni sulla sua indifferenza per le questioni morali, Cartesio prepara il Trattato delle Passioni, che pubblica nel '49. Nell'ottobre della stesso anna, cedendo ai pressanti inviti della regina Cristina di Svezia, si reca a Stoccolma. ll clima gli e fatale. Colpito da polmonite, muore 1'11 febbraio 1650. Scherzi del caso: il suo corpo fu inumato provvisoriamente (tornera in Francia nel 1667) nel «Cimitero dei bambini morti senza battesimo o prima dell'eta della ragione».
Quello del metoda era davvero, dunque, un <<parto del tempo». Galileo si era limitato ad affermare che l'universo e costruito secondo
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In questa meraviglia di collegiale c'e gia, in germe, il progetto a cui egli dedichera tutta la vita, quello di una 'matematica universale' (mathesis universalis) che estenda la certezza matematica all'insieme del sapere. Non si tratta di una universalita puramente formale, di organizzazione cioe o di metodo, rna sostanziale, in quanto fondata sul presupposto dell'unita della ragione. Tutte le diverse scienze non sono altro che la sapienza umana, Ia quale rimane sempre una e identica per quanto si applichi a differenti oggetti, ne riceve da questi maggior distinzione di quanto ne riceva Ia luce del sole dalle diversita delle cose che illumina.
La ragione di cui parla Cartesio. e quella che si rende esplicita nel ragionamento dell'aritmetica, della geometria e dell'algebra, nel quale la certezza e prodotta dall'evidenza dei principi e dalla possibilita di dedurne conclusioni che, per quanto complesse, restano interne alla evidenza dei principi stessi. L'estensione di questa forma di ragi<:mamento ad ogni altro settore dello scibile, si tratti dell'astronomia o della psicologia, non trova ostacolo nella diversita dei contenuti, perche essa osserva tutti i contenuti del reale sempre e soltanto sotto l'aspetto dell'ordine e della misura, delle proporzioni e delle relazioni, insomma sotto l'aspetto geometrico. Di questa scienza, scrive Cartesio nelle sue Regale, le discipline matematiche sono l'involucro piu che le parti; tale scienza deve contenere i primi rudimenti della ragione umana e deve arrivare a trarre delle verita da qualsivoglia soggetto, e, per parlare francamente, sono convinto che essa e migliore di ogni altra conoscenza dataci dagli uomini, poiche ne e la fonte.
Dal punto di vista della sua articolazione oggettiva, questa scienza universale non sara una pura addizione di discipline, l'una slegata dall'altra, rna un tutto organico, per cui la verita dell'una rimanda per necessita alla verita delle altre. La filosofia e come un albero di cui la metafisica forma le radici, la fisica il tronco, che porta tre rami, la meccanica, la medicina e la morale.
Nellinguaggio di Cartesio la 'fisica' abbraccia anche l'astronomia, la chimica, la biologia e la psicofisiologia. L'immagine dell'albero e come l'archetipo a cui Cartesio ispira la sua costruzione di una nuova' enciclopedia del sapere, nella quale il senso della rivoluzione copernicana investira tutti i settori del real e. Potremmo trarre dall'immagine dell'albero anche un'altra indicazione sulla natura della nuova forma di sapere proposta da Cartesio. In un albero cio che veramente conta sono i frutti che pendono dai suoi rami: nel nostro caso, il sapere universale progettato e realizzato da Cartesio trova senso nella meccanica, nella medicina e nella morale che, una volta giunte a maturazione, dovrebbero offrire all'uomo le regole pratiche di comportamento rispettivamente nel
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dominare la natura, nel curare il proprio corpo e nel curare la propria anima. L'ideale baconiano - conoscere per dominare - e, dunque, anche quello di Cartesio. Solo che in Cartesio la finalita pratica resta come dissimulata dentro i movimenti astratti del pensiero, che sembrano guidati da nient'altro che dalla forza oggettiva della verita, al punto da apparire in molti casi come librati nella pura luce della contemplazione. Ed e qui, forse, Ia piu inquietante delle ambivalenze di Cartesio. Larvatus prodeo, procedo mascherato, aveva scritto di se. E c'e riuscito: quale sia il vero volta di Cartesio e infatti ancora questione aperta. 5.2. II metodo. Cartesio ebbe la ventura di compiere i suoi studi in un collegia che, in fatto di insegnamento, come riconosce lui stesso, era quanta di meglio ci fosse in Europa. I gesuiti di La Fleche applicavano una ratio studiorum (come dire, un metodo di studi) da poco promulgata dalloro Ordine, Ia quale, superate le antiche diffidenze della chiesa verso l'umanesimo, assumeva, quale suo criteria di fondo, Ia conciliazione tra classicita e cristianesimo e organizzava le varie discipline in vista della piena conoscenza delle lingue antiche. Si trattava di un umanesimo ridotto alia sua formalita retorica e che dunque declassava tutto lo scibile al raggiungimento del bello scrivere e del bel parlare. Anche Ia matematica doveva servire a nient'altro che all'addestramento del raziocinio, tanto che, nell'architettura complessiva della ratio, aveva un ruolo meramente sussidiario. Ottimi i maestri, ottimi gli alunni, provenienti quasi tutti dai ceti nobili e percio destinati all'arte militare, in cui anche Cartesio fece svogliatamente i primi passi. Quella specie di supernutrizione erudita ingenero, nel giovane alunno di La Haye, una specie di nausea e, per reazione, il bisogno di una nuova ratio, cioe di un nuovo metoda che fosse in grado di generare certezza, del tipo di quella che, nel coacervo delle discipline scolastiche, solo Ia matematica sapeva generare. L'illuminazione che, negli alloggiamenti di Ulm, riempi di mistico entusiasmo il giovane ufficiale di Massimiliano di Baviera, doveva avere (sono in molti a pensarlo) come suo contenuto una 'matematica universale' e cioe la possibilita di ricostruire ex novo il sistema del sapere, applicando come metoda architettonico quello di cui, da Euclide in poi, si sono serviti i matematici. Dieci anni dopo, nella IV delle sue Regale, cosi egli definisce il metodo: per metodo intendo alcune regole certe e facili, grazie a cui tutti coloro che le osservano esattamente non supporranno mai vero quel che e falso, e perverranno, senza stancarsi in inutili sforzi, rna accrescendo progressiva- mente la !oro scienza, alla conoscenza vera di tutto cio che essi possono attingere.
La regola delle regale, che non si apprende dall'esterno perche e una sola cosa con il lume di ragione, e di considerare unica fonte del sapere, di qualsiasi sapere, la diade intuizione-deduzione, che e appunto Ia forma conoscitiva e argomentativa del sapere matematico. L'intuizione e Ia conoscenza immediata di un oggetto semplice, intelligibile di per se stesso, senza bisogno di risalire ad altri oggetti e, proprio per questa,
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evidente; la deduzione e il procedimento che, partendo dal contenuto di un'intuizione, raggiunge altri oggetti della mente con tale necessaria concatenazione che l' ~videnza del pun to d' avvio resta tale e quale anche nella conclusione. Cosi, ad esempio, dall'idea di triangolo si deduce con assoluta evidenza che la somma dei suoi angoli interni e uguale a due angoli retti. Una volta delimitati, secondo le modaliUt in uso nel conoscere matematico, la funzione e i limiti della ragione, si trattava di stabilire le regole a cui essa deve attenersi. Nel '28-'29, periodo in cui attese a scrivere le Regale per la direzione dell'intelleuo (opera rimasta incumpiuta), egli ne aveva ipotizzate ben 36. Nel '37, nel Discorso, le ridusse a quattro: 1. La regola dell' evidenza, che impone . di non accettare mai per vera nessuna cosa che non riconoscessi evidentemente tale: cioe di evitare con cura la precipitazione e la prevenzione; e di non abbracciare mai nei miei giudizi niente di piu di quel che si presentasse alla mia intelligenza cosi chiaramente e distintamente che non avessi alcuna occasione di portarlo in dubbio.
Questa regola comporta, negativamente, di tenersi in guardia da ogni precipitazione e prevenzione, atteggiamenti della volonta che, come vedremo, sviano nell'errore, e, positivamente, il criterio dell'evidenza intuitiva, che sopra abbiamo spiegato e che qui viene esplicitata neUe due caratteristiche della chiarezza e della distinzione. E. chiara ogni cosa che «e presente e manifesta ad uno spirito attento» alia maniera di un oggetto che ci si pone dinanzi agli occhi ben disposti a guardarlo; e distinta ogni cosa talmente precisa e differente da tutte le altre da non comprendere in se niente altro di quanto appare manifestamente. 2. La regola dell' analisi: in ogni problema complesso cercare le nozioni semplici che formano l"assoluto' del problema e ne danno la soluzione. A tale scopo bisogna scomporre il problema complesso in problemi piu semplici e questi in problemi ancor piu semplici fino a raggiungere le nozioni, del tutto semplici e non piu scomponibili, dalle quali dipende tutto l'insieme. Esempi di queste nozioni semplici (Cartesio le chiama 'assolute') dalle quali dipendono tutte le altre (dette 'relative') sono: <do penso», <do esisto», «il triangolo ha solo tre lati», «la sfera ha una sola superfice». 3. La regola della sintesi, che e inversa e complementare alla precedente: condurre con ordine i miei pensieri, cominciando dagli oggetti piu semplici da conoscersi, per salire a poco a poco, come per gradi, fino alla conoscenza dei piu complessi.
Cartesio chiama ordine la disposizione delle cose in cui quelle proposte per prime possono essere conosciute senza bisogno delle seguenti e queste possono essere dimostrate solo mediante le precedenti. In tal modo, in virtu di un movimento logico, l'intelletto ricongiunge costantemente la serie delle conoscenze a quelle prime, in maniera che tutte partecipino dell'evidenza di queste. E. il procedimento che Cartesio chiama deduzione in un senso del tutto diverso
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da quello che il termine ha in Aristotele. Mentre la deduzione aristotelica parte dall'universale, la deduzione cartesiana parte dal semplice, che non e l'universale. Infatti se l'universale e, in un certo sensa, piu semplice e assoluto del particolare, in un altro sensa lo e meno perche non esiste che nel composto individuale. 4. La regola della enumerazione (che Cartesio chiama anche induzione). La definizione che ne cia il Discorso («fare ovunque enumerazioni cos! complete e rassegne cosi generali da esser certo di non omettere nulla») e cosi laconica che resterebbe oscura se non ricorressimo a quanta ne anticipano le Regale. Come abbiamo detto sopra, la conoscenza deduttiva va sempre tenuta in rapporto con quella intuitiva, cogliendo, con un solo sguardo, tutte le conseguen~ ze nei principi e tutti i principi nelle conseguenze. E questa e possibile se ci abituiamo a passare rapidamente dagli uni aile altre e viceversa, con un movimento rapido che non trascuri nessun anello della catena. A queste regale del metoda dovremmo aggiungerne un'altra, quella dell'esperienza, che pero Cartesio non ha formalizzato e che comunque non occupa nel suo metoda il posto centrale che ha nel 'metoda galileiano'. II ruolo dell' esperienza e in Cartesio quell a della verifica. Quando la deduzione conduce a molte soluzioni possibili, sara l'esperienza a decidere quale tra di esse e reale. Non che Cartesio non amasse le ricerche sperimentali, specie in fisiologia. Racconta il suo biografo Baillet, che avendogli un gentiluomo chiesto di vedere la sua biblioteca, Cartesio lo condusse in un galleria dove c'era un vitello appeso a un gancio e gli disse: «Ecco la mia biblioteca>>. In ogni caso, come subito vedremo, l'impianto complessivo della visione del mondo cartesiana resta deduttivistico e dunque molto lontano dalla linea metodologica che trionfera per merito di Galileo prima, e di Newton poi. 5.3. II punto archimedico della filosofia. Una volta stabilite le regale del metoda, Cartesio le applica ai problemi primi che si aprono alla coscienza non appena essa si ponga alia ricerca della verita. II risultato e, nei confronti della maniera tradizionale del filosofare, totalmente originale: non un insieme di affermazioni, ciascuna fornita della sua dimostrazione, rna una serie rigorosamente articolata di passaggi intellettuali, di cui ciascuno presuppone quello_ che lo procede e genera quello che segue, secondo una successione che non puo essere in nessun punta modificata, proprio come avviene in una dimostrazione matematica. Applicando le regale dell'evidenza all'insieme delle certezze su cui, per abitudine o per forrnazione, riposa Ia nostra intelligenza, siamo costretti a constatare che nessuna di esse e talmente evidente da escludere totalmente il dubbio. Chi davvero si proponga il raggiungimento della verita deve, almena una volta nella sua vita, dubitare di tutte le case sulle quali sia possibile il minima sospetto di incertezza. Invece che fuggirlo, questa dubbio universale va adottato facendone un momenta metodico, e cioe la fase preliminare di un atteggiamento critico orientate, a differenza di quanta avviene negli scettici, alia verita. II dubbio metodico e infatti altra cosa dal dubbio scettico, perche il suo sensa e proprio di condurre la ragione a posarsi su di un punto solido, un punta archimedico, esente dall'ombra del dubbio e proprio per questa adatto a far da fondamento a una costruzione filosofica altrettanto incrollabile.
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Archimede, cosi scrive Cartesio neUe Meditazioni, per togliere il globo terrestre e trasportarlo altrove, domandava un solo posto fisso e immobile. Cosi io avro il diritto di concepire alte speranze, se san'> abbastanza fortunato da trovare solo una cosa che sia certa e indubitabile.
Le conoscenze umane, cosi argomenta Cartesio, hanna due sorgenti: i sensi e la ragione. Le proposizioni che si basano sulla testimonianza dei sensi sono di tre specie: giudizi di esistenza: questa bicchiere esiste perche lo ved6 e lo tocco; giudizi di relazione; questa bicchiere e piu piccolo di quest'altro, perche io lo vedo cosi; giudizi di attribuzione: questa bicchiere e trasparente perche cosi me lo mostrano i miei occhi. Tali giudizi sono esenti dal dubbio? Affatto. Quante volte nel sogno noi crediamo di vedere e di toccare oggetti che nella realta non esistono! Senza dire che i sensi sono ingannatori e perfino in contraddizione tra loro: un bastone immerse nell'acqua appare spezzato agli occhi, rettilineo al tatto. Ma le verita di ragione? Non sono, almena esse, immuni dalla necessita del dubbio? No. Nemmeno queUe. Ogni giorno ci imbattiamo in uomini che ragionando si ingannano perfino nelle materie piu semplici. Si potrebbe pensare che almena le nozioni su cui si basa la geometria abbiano la prerogativa dell'evidenza incontestabile. Cartesio avanza un'ipotesi che gUt Montaigne aveva formulate: non potremmo essere stati creati da un 'genic malefico' che si diverte nell'ingannarci? E il cosiddetto 'dubbio iperbolico'. Proprio mentre sembra allinearsi alla posizione degli scettici, Cartesio scopre la verita certa e assoluta. Io posse supporre, egli dice, qualunque cosa: che Dio non ci sia, che il mondo esterno sia un'illusione, che le verita della ragione siano dei tranelli, rna nel far questa, nel dubitare di tutto, e certo che io penso: se penso sono; cogito ergo sum. Fosse pure vera l'ipotesi del 'genic malefico', questi non potrebbe ingannarmi se non pensassi. Ecco dunque la salda pietra su cui puo poggiare la mia ragione mentre tutto e sommerso dall'alluvione del dubbio. L'io penso non mi da solo la prima certezza ontologica, quella del mio esiste.re, rna anche la prima certezza logica, quella dell'evidenza. Avendo notato- aggiunge Cartesio- che non vi e niente in questa affermazione io penso dunque sono che mi assicuri che io dico Ia verita se non vedo chiaramente che per pensare bisogna esistere, giudicai di poter prendere per regola generale che le cose che concepiamo molto chiaramente e distintamente sono tutte vere.
Fu subito obiettato a Cartesio che, accettando il principia dell'io penso come vero perche rispondente alla regola dell'evidenza, non tutto era stato roesso in dubbio, quanta meno non era stata messa in dubbio la regola dell'evidenza. Ma, replica Cartesio, l'io penso non e una cosa tra le cose garantite dalla regola dell'evidenza, e il principia stesso dell'evidenza, e la trasparenza immediata del soggetto a se stesso, che fa da base ad ogni altra possibile evidenza. E cosi una regola desunta provvisoriamente dalla matematica diventa, nel rapporto tra l'io penso e l'io sono, un principia a se stante, fondamento e criteria di ogni altra evidenza.
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Basandosi sulla natura intuitiva della certezza dell'io penso Cartesio risponde a un'altra obiezione, sollevata da Gassendi: L' «iO penso dunque sono» e un vero e proprio sillogismo di cui Ia premessa maggiore sottaciuta potrebbe suonare cosi: Tutto cio che pensa esiste. Ma siccome ogni proposizione era stata invalidata dal dubbio metodico, Ia premessa maggiore del sillogismo non puo essere chiamata in causa come certa. Cartesio replica che il suo non e un sillogismo, e l'enunciazione di una intuizione, nella qwle i1 soggetto pensante coglie se stesso come esistente nell'atto stesso di pensare. Dire «penso dunque sono» none come dire «cammino dunque sono», «mangio dunque sono». Si puo infatti pensare di camminare o di mangiare senza camminare e senza mangiare, rna non si puo pensare di pensare senza pensare. Nell'atto di pensare il soggetto si fa trasparente a se stesso come soggetto pensante, 'sostanza pensante' (res cogitans) e cioe come anima. · Questa passaggio dal momenta logico del pensare al momenta ontologico della sostanza pensante e un altro punta debole nella catena deduttiva cartesiana. A rigore, l'intuizione con cui l'io coglie se stesso come pensante consente soltanto, come fece rilevare Hobbes, la certezza che io sono pensante e non che io sono una sostanza che pensa. Anche qui Cartesio ricorre, come il prestigiatore al suo cilindro, al nesso tra l'io penso e l'io esisto. Scartando la nozione classica di sostanza come di un sostrato su cui ineriscono degli accidenti, egli attribuisce proprio a questa nesso (il nesso tra il pensare e l'esistere) la densita ontologica della res, della cosa. Come si vede, le certezze che si aprono a ventaglio dalla semplicissima intuizione dell'io penso, sono molte. Poggiando su di esse Cartesio si tira fuori dalla nebbia del dubbio e vince lo scetticismo affermando la prima verita: l'esistenza dell'anima come sostanza pensante. Costretto da questa identita tra anima e pensiero, Cartesio assume dentro la categoria del pensiero, divenuta, cosi, genericissima, anche facolta di altra natura, come il volere, il sentire, il ricordare, l'immaginare e cosi via. Con questa di proprio: che per diverse che siano, tutte le attivita della spirito sono riconducibili al vaglio critico del pensiero, e di un pensiero deduttivo di tipo matematico: proprio contra questa semplificazione razionalistica della natura umana insorgera iJ nostro Giambattista Vico (10.2). E. sotto il segno di queste ambiguita che avviene, con Cartesio, la svolta idealistica del pensiero moderno. Egli capovolge il rapporto classico tra essere e pensiero (un rapporto che potremo enunciare con la formula <
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ca che e l'ipotesi del genio malefico. L'io sembra irrimediabilmente imprigionato in se stesso. Si apre qui il problema decisivo: e possibile all'io fare fulcro di se stesso per uscire da se stesso? Cartesio comincia col constatare che nell'io ci sono rappresentazioni del mondo extramentale. Egli le chiama 'idee', distinguendole secondo la loro genesi, in innate, avventizie, fattizie (u lllllZJe). 1. Le idee innate sono quelle che l'intelletto puo costruire senza ricorrere all'esperienza esterna. Sono, queste idee, da intender come oggetti mentali gUt bell'e formati prima dell'esperienza, non diversamente dalle idee platoniche. Cartesio precisa che queste idee vanno considerate innate solo in quanto l'intelletto ha la capacita di formarsele da se: potremmo dire, per usare una formula con la quale presto ci incontreremo, che sono virtualmente innate. 2. Le idee avventizie hanno un'origine esterna sensoriale e percio non hanno mai la prerogativa della chiarezza e della distinzione. Con le idee innate hanno questo in comune, che sono indipendenti dalla volonta: l'intelletto se le trova poste dal di fuori. Sono insomma anch'esse, e piil di quelle innate, dei 'dati'. 3. Le idee fittizie sono quelle che io costruisco da me stesso (a me ipso factae) secondo l'arbitrio della mia volonta, come l'idea di ippogrifo o di arpia, combinando con libero gioco frammenti diversi delle idee avventizie: tutte le creazioni della poesia (che non destarono mai in Cartesio una vera passione) rientrano in questa categoria. . Ebbene, le idee possono fornire alia ragione un appoggio per uscire dal cerchio solipsistico dell'io? Che le idee fittizie non servano allo scopo va da se. Ma non servono nemmeno le idee avventizie, perche su di esse grava l'ipoteca del dubbio metodico: e vero, si, che esse non dipendono dalla mia volonta, rna niente mi potra mai dimostrare che Ia realta extramentale a cui alludono non sia un'illusione. Restano, dunque, come unico varco al mondo extrasoggettivo, le idee innate. Tra le idee innate c'e anche quella di perfezione, o meglio di un essere «sommo, eterno, infinito, immutabile, onniscente, onnipotente, creatore universale di tutte le cose». E proprio in virtu di quest'idea che io mi scopro imperfetto, gia peril fatto di trovarmi costretto al dubbio. Ora, nessuna idea puo essere in me senza una causa proporzionata: anche il principio di causalita e per Cartesio (che, dopo aver tutto ceduto all'ombra del dubbio, troppe cose ne salva pur di tirarsene fuori!) un principio intuitivo che non ha bisogno di dimostrazione. Ed e proprio l'idea innata di perfezione che consente a Cartesio di passare dall' ordine men tale all' ordine real e. Infatti, io ho in me )'idea di perfezione e sono imperfetto. Puo forse un operaio imperfetto realizzare un'opera perfetta? L'idea di perfezione non puo essere prodotta in me, ne dalle cose esterne, della cui esistenza sono ancora in dubbio e che, in ogni caso, sono tutte segnate di relativita e finitezza, ne dame stesso, appunto perche imperfetto. A produrla in me non puo che essere stato un essere perfetto, che realmente esiste: come altrimenti avrebbe potuto mettere in me un'idea la quale ,senza alcun dubbio esiste? Ma l'idea di perfezione e in grado di provare l'esistenza dell'essere perfettissimo anche senza far ricorso al principio di causalita, mediante un'analisi
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di tipo matematico. Dall'idea di un triangolo, a prescindere naturalmente dal fatto che esso esista o no, io posso concludere che la somma dei suoi angoli e uguale a due retti. Ebbene, dall'idea di un essere assolutamente perfetto, dotato cioe di tutte le qualita positive, io posso dedurre che esso esiste. Infatti se esso non possedesse l'esistenza gli mancherebbe una perfezione, il che e contrario alla sua stessa definizione. Si tratta dell'argomento che Kant chiamera ontologico e che, in forma diversa, era gia stato proposto da sant'Anselmo nel suo Monologio. In ambedue le redazioni, quella anselmiana (!.10.4) e quella cartesiana, l'argomento presume di dedurre l'esistenza di Dio dalla sua essenza: un salto questo- e quanto obietto san Tommaso a sant' Anselmo e obiettera Kant a Cartesio - che non puo farsi senza il sostegno dell'esperienza. Ma la differenza tra le due argomentazioni sta nel motivo di fonda che le ispira: in Anselmo il motivo era profondamente religioso (era la fede che cer,cava di intendere se stessa), in Cartesio il motivo e il bisogno logico di una garanzia alla validita della ragione nella sua conoscenza della natura. La veracita di Dio e infatti l'anello a cui tutto il sistema cartesiano si regge, e la prima verita in se, cosi come l'io penso e Ia prima verita per noi. Un Dio perfetto, argomenta Cartesio, non puo creare un uomo dotato di facolta di per se ingannevoli: lo spettro del 'genio malefico' si dissolve, cosi, nel nulla. A Cartesio (a parte la sua fede personale, che qui non e in gioco) non interessa propriamente Dio, rna il marchio di perfezione che Dio non puo non aver posto su tutte le cose create, a cominciare dalle verita eterne, quelle che presiedono alIa creazione. Queste verita non si identificano con Dio, non sono gli Intellegibili eterni che, secondo Agostino e Tommaso, Dio contempla in se stesso. Dio non e vincolato a nessuna verita (sarebbe una deroga alla sua onnipotenza) perche tutte le trascende con la sua volonta. Le verita che stanno alia base della creazione sono tali perche cosi Dio ha voluto: la somma degli angoli interni in un triangolo e uguale a due retti perche Dio ha voluto cosi, rna avrebbe potuto volere altrimenti. Questa esaltazione della potenza di Dio non esprime nessun entusiasmo mistico, perche il suo vero senso e la separazione del mando creato dalla realta del creatore, e l'autonomia del mondo creato e di tutte le sue leggi e cioe del dominio proprio della scienza. Non solo la teologia rna anche l'ontologia e fuori del raggio di Cartesio filosofo, il quale, dopo il suo periplo nelle sfere divine, approda, armata di una straordinaria carta di credito, sulle sponde della realta contingente affidata alIa conoscenza e alla manipolazione dell'uomo. 5.5. Da Dio al mondo. Se Dio e verace (e come potrebbe non esserlo?) allora non puo aver messo in contraddizione due mondi da lui creati, quello del pensiero e quello delle cose. Il pensiero in quanta tale, appunto per questa garanzia sovrana, non puo sbagliare, purche naturalmente segua la regola che gli e propria: quella che lo obbliga a giudicare secondo le idee chiare e distinte, insomma secondo il metoda gia tracciato da Cartesio. E allora perche, di fatto, l'errore sembra essere il destino dell'uomo? La possibilita dell'errore e un segno della finitezza dell'uomo, sospesc com'e tra l'Essere, che e Dio, e il nulla, da cui egli e stato tratto, rna che resta
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il suo orizzonte originario, l'orizzonte delle sue possibilita negative, tra le quali c'e appunto !'errore. L'errore ha due cause concorrenti: l'intelletto e la volonta. Di per se l'intelletto non sbaglia mai, perche esso di sua natura non nega ne afferma, non pronuncia, cioe, dei giudizi oggettivi, si limita a presentarci le idee delle cose e dei loro possibili rapporti. L'errore puo insorgere nel momenta del giudizio, e cioe dell'affermazione e della negazione, e il giudizio e sempre mosso dalla volonta. Ad esempio: io vedo il sole e poi la luna. Io dico: «mi sembra che la luna risplenda di luce propria». La mia affermazione riguarda cio che mi sembra: nessun errore dunque. Ma se io dico: «La luna, come il sole, risplende di luce propria» faccio un' affermazione e mi sbaglio. Ma l'affermazione e dovuta all'intervento della volonta sull'intel1etto: e lei la responsabile. Merita dunque, per venire a capo del problema dell'errore, chiarire i rapporti tra intelletto e volonta. Dio ci ha dato un intelletto finito e limitato (l'alternativa, impossibile, sarebbe stata di creare un altro Dio), provvisto di due sorgenti di conoscenza: la ragione, dotata di idee innate, grazie alle quali possiamo cogliere in modo chiaro e distinto una moltitudine di essenze e di reiazioni tra d1 esse: i sensi, che ci forniscono di rappresentazioni confuse, che tuttavia ci basiano per regolarci nella vita pratica. I sensi ci danno del sole una rappresentazione non vera (un disco piu piccolo della mia finestra, che gira attorno alla terra), rrm sufficiente a regolarci nella vita quotidiana. Insieme all' intelletto finito Dio ci ha dato una volonta infinita, che non conosce limiti aile sue declsioni. Puo negare o affermare indifferentemente. Illibero arbitrio umano e infinito come qllello di Dio. Gli errori nascono appunto dalla sproporzione tra intelletto f{niio e volonta infinita. Se noi ci !imitassimo ad affermare do che ci appan: chiaro e distinto, non cadremmo mai in errore. Ma la volonta non si adatta a questo limite e ci conduce ad affermare anche cia che l'intelletto non percepis<:e in maniera chiara e distinta. L'errore e l'effetto negativo di una qualita positiva della volonta: la sua infinitezza. Ma e un effetto non imputabile a Dio. Tocca a noi rispettare la regola posta all'intelletto: considerare come vero, e dunque rispondente alla realta extramentale, tutto cio che noi cogliamo con una intuizione razionale o che da questa intuizione possiamo dedurre in modo corretto. E proprio in base a questa regola che noi siamo giunti ad affermare l'esistenza della sostanza pensante e quella della sostanza infinita che ci ha creato. Rest a da sapere se l'intelletto e in grado di affermare l' esistenza degli oggetti materiali tra i quali viviamo. E giusto che anche qui chiamiamo in causa la veracita divina: la nostra propensione a considerare esistenti fuori di noi gli oggetti percepiti. nella sensazione e cos! forte, cosl costante, cosi univeFsale che, se gli oggetti esterni a noi non esistessero, non potremmo non imputare a Dio di essere un ingannatore. Ma altro e considerare non illusoria questa propensione, altro e attribuire agli oggetti esterni tutto quanta ci trasmettono le sensazioni. Cartesio fa sua la distinzione gia affermata cia Galileo (4.7): ci sono delle qualita- noi le chiamiamo secondarie - come il suono, il colore, iJ sapore, il calore, la resistenza, che variano cia uomo a uomo e, nello stesso uomo, variano secondo i mornenti: esse non sono altro che degli stati soggettivi. Ma ci sono qualita che sfuggono a questa sorte, come la larghezza, la profondita, l'altezza, insomma l'estensio-
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ne e queste sono qualita primarie, che costituiscono l'essenza del mondo esterno, perfettamente intelligibile dalla ragione. Prendiamo, dice Cartesio in una sua pagina anche letterariamente famosa, un pezzo di cera di color giallo, solida, di una certa forma, di un certo odore e di un certo sapore. Scaldiamola. Si scioglie e le sue qualita sensibili si modificano. Scaldiamola ancora. Essa evapora e tuttavia quel vapore e ancora la cera solida di prima. Che cosa e cambiato? Solo una cosa: l'estensione delle diverse parti della cera, ora piu ora meno vicine le une aile altre. Se l'estensione scomparisse del tutto, la cera scomparirebbe. Di veramente reale nel mondo esterno c'e solo l'estensione, l'insieme delle qualita geometriche. Eccoci dunque alla conclusione del viaggio metafisico. Eravamo partiti col dubbio universale, ora abbiamo la conoscenza chiara e distinta di tre ordini di realta: - la sostanza assoluta, cioe Dio, che per esistere non ha bisogno che di se stessa; - le sostanze pensanti, e cioe le intelligenze finite degli uomini, che per esistere hanno bisogno del concorso di Dio; - la sostanza estesa (rex extensa) di cui sono fatti tutti gli oggetti materiali, e che anch'essa non ha bisogno che del concorso di Dio per esistere. 5.6. La fisica. Secondo l'immagine dell'albero che abbiamo riportato sopra (5.1), la fondazione della metafisica (le radici) ha valore solo in quanto ci consente di risolvere in maniera chiara e distinta i problemi posti dalla fisica (il tronco). Infatti, spiega Cartesio, perche la conoscenza scientifica sia tale, occorre che essa sia dedotta dalle cause prime, in modo che, per proporsi di acquistarla, (e in cio consiste propriamente il filosofare) bisogna cominciar dalla ricerca di queste cause prime, cioe dei principi.
Che poi, nello sviluppo del pensiero successivo a lui, il Cartesio che ha avuto peso sia quello della metafisica, e altra questione, da collocare tra gli imprevisti, si vorrebbe dire al gioco con cui la storia si sottrae ai programmi dei suoi stessi artefici. Sta di fatto che i veri interessi di Cartesio riguardavano la comprensione dell'universo fisico e psicologico. E una volta raggiunti e consolidati alcuni princl.pi metafisici, egli si ritiene in grado di dedurne, quasi si trattasse di teoremi, una spiegazione scientifica del mondo. Se l'estensione e l' essenza dei corpi, ne derivano alcune conseguenze. 1. Il mondo e infinito o, per evitare equivoci, indefinito, senza limiti, dato che se avesse un limite, questo non potrebbe essere determinato che dall'estensione. Ed e divisibile all'infinito, contro quanto sostengono gli atomisti, dato che, per definizione, cio che e esteso e sempre divisibile, all'infinito. I due infiniti, quello della grandezza e quello della piccolezza, costituiscono gli opposti limiti dell'orizzonte della conoscienza umana, un orizzonte che, come vedremo, darn brividi metafisici a un altro grande francese del seicento, Biagio Pascal (5.16). · 2. Il mondo materiale non ammette il vuoto, dato che il vuoto sarebbe una
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estensione senza materia, il che contraddice al principia che l'estensione e di per se sostanza materiale. 3. L'estensione da sola non basta a spiegare la macchina del mondo nelle sue infinite variazioni: occorre il movimento. Ma mentre il vecchio aristotelismo, ancora imperante nella scuola, ammetteva, accanto al movimento locativo, anche quello del cambiamento qualitativo (o alterazione) e di grandezza (aumento o diminuizione), Cartesio rigctta gli ultimi due e ritiene di spiegare tutti i fenomeni del mondo col movimento locativo rettilineo. Un -corpo non si sposta se non spinge altri corpi davanti a se, i quali a loro volta ne spingeranno altri, in modo che illuogo lasciato libero dal primo sia riempito istantaneamente (senza momenti di vuoto). Niente di strano: se si spinge l'estremita di un bastone non occorre tempo perche l'altra estremita si sposti. E questa il meccanicismo nella sua forma piu rigorosa. Con la nozione di spazio e di tempo Cartesio ritiene di poter render conto di tutto, della luce del sole e delle stelle, delle comete e del magnetismo e perfino, come vedremo subito, della vita. Spogliato di tutte le qualita, da lui 1-idotte a puri eventi psichici del soggetto, il mondo non ha piu in se ne potenza ne atto, ne forme unite alia materia, rna una pura estensione omogenea e tridimensionale, dotata di un movimento, l'una e l'altro del tutto aperti alla cognizione geometrica. Come l' estensione, anche il movimento non ha a}tra origine che il Dio creatore, e siccome e impensabile che in Dio ci siano mutamenti di volonta, la quantita di movimento realizzata nel mondo si ~onserva perpetuamente identica a se stessa. Da questi prindpi Cartesio trae tutta una· serie di teoremi di alta meccanica, di cui non e possibile qui rendere conto, rna che hanno questa di proprio: 1 essi non sono tratti dall'esperienza, sono svolti more geometrico, alla maniera della geometria. Solo a partire da questo tessuto di principi chiari e distinti Cartesio si accosta alia natura per raccoglierne i fatti e interpretarli. Celebre per la sua ingegnosita e, se si vuole, per la sua grandiosita la spiegazione che, in coerenza con i suoi princl.pi, Cartesio da della formazione dell'universo. Dio ha impressa alle parti in cui l' estensione e clivi sa un movimento tale che ciascuna di esse ruota attorno a un suo centro e tutte insieme attorno a un centro comune. Questi moti circolari (che pen) sono la resultante di moti rettilinei: trascuriamo qui la spiegazione di Cartesio), si chiamano vortici. Dal moto vorticoso, in conseguenza di sfregamenti e urti reciproci, hanno origine tre elementi: il fuoco (materia sottile) che occupa il centro del vortice e che costituisce il sole e le stelle fisse; l'aria (o etere celeste), composta di particelle sferiche, che costituisce la materia interstellare; il terzo elemento, composto di masse di particelle informi, angolose e quasi inerti, coStituisce Ia terra e i pianeti. Il primo elemento lancia i suoi corpuscoli sottili attraverso quelli sferici (l'aria) in modo rettilineo e. istantaneo: e la "luce. Con lo stes'so rigore meccanicistico Cartesio spiega la composizione della crosta terrestre, le maree, le meteore e innumerevoli altri aspetti e fenomeni del mondo fisico. Ben poco e restato in piedi di questa cosmologia: Newton dimostrera matematicamente l'infondatezza della teoria dei vortici (6.12). Ma l'ipotesi meccani-
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cistica, applicata ai fenomeni dell'universo, incise profondamente sulla mentaUta scientifica del tempo, segnando un taglio netto e definitivo con le dottrine del passato. 5. 7. La psicologia. Le cosmologie rinascimentali - basti ricordare quella di Giordano Bruno - attribuivano al cosmo un principia vitale sostanzialmente identico a quello degli animali (3.7). Cartesio, all'opposto, non solo considera il mondo fisico come una grande rnacchina, rna estende la spiegazione meccanicistica agli stessi esseri viventi. I viventi sono come quegli « automi, egli dice, che si vedono nei giardini del re" e che possono sbalordire solo gli ignoranti. Ccrto, costruiti come sono da Dio, gli automi del regno vegetale e animale, uomo compreso, sono infinitamente pii.t complessi, ma tutto cia che in essi avviene e riconducibile a cause meccaniche, senza bisogno di chiamare in causa !'anima vegetativa e sensitiva di Aristotele e della scolastica. Limitiamoci agli animali superiori: i! loro corpo non e che una macchina idraulica, percorsa da tubi nei quali circolano costantemente dei fluidi. I nervi sono «come piccoli cordoni o tubi che provengono tutti dal cervello e contengono, corne esso, una certa aria o vento leggerissimo, che vien chiamato 'spiriti animali'». Nelle vene e nelle arterie circola il sangue, che entra in ebollizione quando penetra nel cuore, che per Cartesio, una volta tanto d'accordo con Aristotele, e un organa piu caldo degli altri. Scaldandosi, il sangue si dilata e, per il conseguente aumento di pressione, entra nelle arterie. II merito di Cartesio e di aver ammesso la circolazione del sangue in un tempo in cui essa era contestata. Tenne conto, nella sua descrizione, della teoria di William Harvey (1578-1657), resa nota nell628, rna, coerente col proprio meccanicismo, si rifiuto di accettare la tesi harveyana del cuore come 'muscolo pulsatile', quasi si trattasse di un residuo mitico, cosi come in fisica aveva rifiutato i1 concetto di attrazione: ogni fenomeno andava spiegato cm'ne effetto di contiguita e di urto tra particelle. Non ci sono dunque, nella natura, forze occulte ne segreti: essa e, potenzialmente, sotto lo sgua.rdo de!l'intelletto per intero, nei suoi dati costitutivi, che sono immancabilmente l'estensione e il movimento. Altro essa non.nasconde. Per questa e facile all'uomo divenirne il padrone. Del resto, l'uomo stesso diventa, in Cartesio, senza piu alcun mistero, chiaro e distinto: da una parte, in quanto corpo, egli none che una modalita particolare della grande macchina del mondo; dall'altra, in quanto anima, e una sostanza pensante. II corpo e pensabile anche senza anima; l'anima e pensabile anche scnza coi"po, dato che l'uno e l'altra sono sostanze appartenenti a due ordini diversi, quello della estensione, appunto, e quello del pensiero. Ma Cartesio paga molto care questa chiarezza. Essendo l'uomo non una, rna due sostanze, e due sostanze radicalmente eterogenee tra loro, none possibile rendere ragione del perche una modificazione corporea, cioe della estensiom~. possa essere percepita dall'intelletto, ne come una determinazione del pensiero possa trasmettersi alla sostanza estesa. Questo dualismo diverra subito un punctum crucis per il pensiero postcartesiano. Ma lo fu gia per Cartesio. Sollecitato a spiegare come potessero le due sostanze aver rapporti tra loro, egli se la cava collocando l'anima in una ghiandola piccolissima del cervel-
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lo, la ghiandola pineale (epifisi). La ragione di questa scelta e piuttosto curiosa: le altre parti del cervello sono tutte doppie, come sono doppie le mani, i piedi, gli occhi ecc. La ghiandola pineale invece e senza 'doppio', proprio perche il suo compito e di unificare le impressioni che provengono da un solo oggetto attraverso i doppi organi dei sensi. Inutile dire che in tal modo Cartesio ha solo spostato il problema, non l'ha risolto. Infatti la ghiandola pineale, per piccola che sia, e estesa e dunque fa parte del meccanismo fisiologico. Come puo l'anima, che e inestesa, agire su di lei? E viceversa, come puo la ghiandola pineale, che e estesa, agire sull'anima? Incalzato dalle domande Cartesio avanzo un'ipotesi che avra successo, tanto che dovremo presto occuparcene: e Dio che ha deciso che quando la ghiandola esegue un certo movimento l'anima provi una certa sensazione.- E viceversa. II Dio di Cartesio e davvero un deus ex machina che scende tempestivo nei momenti in cui la ragione con i propri mezzi non sa togliersi d'imbarazzo. 5.8. La morale. L'albero cartesiano (5.1), e cioe il progetto generale della riforma del sapere intrapreso da Cartesio, trovava il suo vero senso nei frutti che pendono dai tre rami, la meccanica, la medicina e la morale. Ebbene: egli e morto senza aver messo a punto le scoperte meccaniche che aveva sognato; di medicina si era sempre occupato, rna senza raggiungere risultati significativi; per quanta riguarda la morale il bilancio e meno deludente. II dominio della condotta morale e certo quello in cui la possibilita della ragione di ricondurre la totalita dell'esperienza sotto i suoi principi e messa all'ultima prova. Nella terza parte del Discorso, dopo aver esteso il dubbio a tutte le certezze, nessuna esclusa, nemmeno quella della matematica, Cartesio si rende conto del rischio a cui si espone: quello di lasciar franare nella scetticismo anche il settore dei prindpi morali. II dubbio comporta la sospensione dell'assenso; rna in materia morale (e religiosa) questa sospensione lo avrebbe messo nel numero di quei 'libertini' (5.9) che erano invece uno dei bersagli della sua impresa filosofica. Cartesio evita il pericolo con l'espediente della 'morale provvisoria'. Mentre, cosi egli dice, dopo aver distrutto la vecchia casa, ce ne stiamo costruendo una nuova, abbiamo bisogno di un alloggio provvisorio, in cui restare per il tempo in cui durano i lavori. Cartesio butta giu, e proprio il caso di dirlo, «tre o quattro massime» (in verita sono quattro) per l'alloggio provvisorio della sua coscienza morale. La prima potremmo dirla del conformismo: «obbedire alle leggi e ai costumi del mio paese ... regolandomi secondo le opinioni piu moderate>>. Lo slancio etico dell'uomo rinascimentale si e ormai placato nell'acquiescenza alia mentalita dominame, («Ho la religione del mio re e della mia nutrice», disse un giorno a un esponente protestante), come veniva richiesto dal consolidarsi della Controriforma e degli Stati assoluti. La seconda potremmo chiamarla, usando un termine della teologia dell' epoca, del probabilismo: «essere fermo e risoluto, per quanto potevo, sulle mie azioni, e seguire anche le opinioni piu dubbie un volta che avessi deciso di accettarle». E, in fondo, la morale della casistica gesuitica contro cui si scagliera qualche anno dopo Biagio Pascal. La terza e quella della rassegnazione: «Vincere sempre piuttosto me stesso che la fortuna e voler modificare piuttosto i miei desideri che l'ordine delle cose del mondo». Cartesio assegna all'andamento delle cose,
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sia private che pubbliche, il carattere della fatalita a cui conviene adeguarsi, se del caso con un'ascetica che reprima i desideri, non esclusi quelli piu nobili. La quarta e quella dell'individualismo intellettuale: «impegnare tutta lamia vita a coltivare la mia ragione e a progredire quanta potevo nella conoscenza della verita seguendo il metoda che mi ero prescritto». Il che, aggiunge Cartesio, procura felicita e ci rende conformi al buon sensa. Nell'insieme, si trattava di una mediocre sintesi tra epicureismo e stoicismo, la stessa a cui largamente si ispirava la saggezza della nuova borghesia del seicento. Si trattava, comunque, di una morale provvisoria, a cui avrebbe dovuto sostituirsi una morale definitiva, costruita anch'essa col rigore deduttivo della geometria. Se Cartesio non affronto piu, in modo diretto, questa compito a cui si era impegnato, e perche, di fatto, tra le pieghe delle sue regale provvisorie c'era gia, in sostanza, una morale definitiva, misurata sulle esigenze della ragione, della ragione cartesiana naturalmente. Nell'ultima parte della sua vita, sia nella corrispondenza con la principessa Elisabetta (una sua ammiratrice che sapeva pero, all'occorrenza, esporgli senza veli le sue insoddisfazioni e provocarlo a risolvere i punti piu problematici della sua dottrina) sia nel Trattato delle passioni, dato aile stampe proprio mentre stava recandosi a Stoccolma, egli in qualche modo tenta di colmare il vuoto, estendendo la sua analisi alia sfera delle passioni, una sfera in cui le due sostanze, quella estesa e quella pensante, sono direttamente coinvolte. Le passioni non sono che il risultato di particolari movimenti della 'macchina uomo'. Innanzi tutto Cartesio cerca di farsi luce nella inesplorabile foresta delle passioni umane riducendole tutte a sei modalita primitive: l'ammirazione (noi diremmo, lo stupore}, l'amore, l'odio, il desiderio, la gioia e la tristezza. E dalla combinazione di queste sei che tutte le altre passioni hanna origine. Ma come nascono le passioni? Il grande conflitto tra il male e il bene si svolge tutto attorno alia ghiandola pineale, sospesa in una cavita cerebrale trivellata di piccoli fori, punti terminali dei nervi sensitivi e punti di partenza dei nervi motori. I nervi, come abbiamo detto, non sono che dei minuscoli canali. Quando, per afflusso di «spiriti animali» provenienti dai nervi sensitivi, la ghiandola si agita, essa si appoggia alia sua nicchia otturando alcune aperture dei nervi motori e lasciandone libere altre. E attraverso di queste che gli spiriti animali giungono al cuore, che infatti si mette a battere irregolarmente. Di qui gli spiriti animali sono proiettati nel cervello, da dove potrebbero precipitarsi dentro alcuni nervi motori, che generano certi gesti, come quelli della paura o quelli della collera. Ma questa catena meccanica puo essere modificata dallibero arbitrio. Non che il libero arbitrio possa cambiare Ia quantita di movimento che si agita dentro la 'macchina', esso puo solo volgere l'attenzione dell'intelletto in un sensa piuttosto che in un altro, evocando cosi certe immagini invece che altre. Ed e proprio da queste immagini, evocate dalla liberta, che arrivano alla ghiandola pineale impulsi correttivi dei primi. II male che cos'e, dunque? Non la passione, rna la passione mal regolata. Dato l'impianto fisico delle dinamiche passionali, anche la medicina puo essere utile per tenerle nel giusto ordine. Ma quel che conta e l' orientamento della volonta al bene, mediante l'uso della ragione, che sa indicarci quale sia il Bene sommo, quali siano le case che
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non di pendono da noi e alle quali occorre ada ttarsi e la via da seguire per mettere un accordo tra i desideri e le cose. La dove le cose procedono inevitabilmente contro i nostri desideri, noi dovremo scorgere, con docilita, la volonta di Dio, bonta e giustizia suprema. Il mondo, compreso il corpo dell'uomo, anzi compreso il suo sterminato universo di sogni e di passioni, none che una macchina: l'epoca della tecnologia si e gia assicurata tutte le premesse. Su quel mondo Cartesio vede emergere non solo la volonta di Dio, rna anche il libero arbitrio dell'uomo. Dopo di lui due vie erano aperte: quella di chi, ridotta ormai la realta terrena ad un'illimitata estensione senza piu misteri, si volgera verso le grandezze dello spirito, e quella di chi, essendo ormai le grandezze dello spirito relegate in un dominio totalmente estraneo al mondo dell' esperienza, si dedichera totalmente a portare a perfezione la conoscenza meccanicistica delle realta nell'intento di dominarla.
Attorno a Cartesio 5.9. I 'libertini'. Cartesio non ebbe veri e propri discepoli, eppure si puo dire che, e non solo in Francia, il suo secolo si muove attorno a lui. Potrebbe destare sorpresa il fatto che proprio il secolo caratterizzato dall'instaurazione dei regimi assoluti- la Francia cartesiana e quella del Re Sole- e dal rigido controllo ecclesiastico abbia riconosciuto in Cartesio il suo filosofo. La sorpresa viene meno appena si rifletta: 1. che, come abbiamo visto, sul piano morale, politico e religioso Cartesio accettava, senza difficolta, i principi della tradizione; 2. che, proprio mentre era universalmente in crisi la metafisica ancora insegnata nelle scuole, Cartesio ne offriva una in alternativa, del tutto al riparo dal dubbio e del tutto omogenea allo spirito scientifico ormai dilagante; 3. che la sua filosofia, in cui il dubbio e il preliminare metodologico essenziale, era la migliore risposta alla minaccia di sovversione culturale rappresentata in quel secolo dai libertins. Nel nostro linguaggio il terrnine libertino conserva soltanto una delle accezioni che nella Francia del Seicento aveva il termine corrispondente. Originariamente il libertin era chi rigettava le credenze religiose, rna poi il libertinage si identifico con quel complesso di atteggiamenti il cui principio comune era l'indipendenza nei confronti del pensiero dominante. Le prime manifestazioni del fenomeno si hanno, attorno al 1620, tra i nobili alla corte del re. Nasce dunque come fenomeno aristocratico e tale rimane, anche se il contagio si estese ben presto all'alta borghesia. I suoi tratti caratteristici sono l'ateismo teorico e la sregolatezza morale, vissuta peraltro pili nello stile del 'divertimento' che in quello della passione coinvolgente: il Don Giovanni di Moliere fu concepito in quell'atmosfera. Nell'impossibilita di render conto in modo analitico di un fenomeno, che d'altronde acquistera autentica dignita culturale solo nel secolo successivo, ci
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limiteremo a indicare alcune linee ben discernibili in un groviglio di posizioni niente affatto preoccupate, appunto perche libertine, di esprimersi con chiarezza e distinzione. 1. I libertini sono materialisti, nel senso che identificano Dio con la Natura o con la Ragione, secondo l'insegnamento dell'aristotelismo padovano (i cui nessi con la cultura parigina del tempo sono ben documentabili) e del naturalismo di Giordano Bruno e di Tommaso Campanella (che non per nulla visse i suoi anni migliori, gli ultimi, a Parigi). Contro Giordano Bruno scrisse un'opera ponderosa quel Padre Mersenne che tanta importanza ebbe nella vita di Cartesio e che a Parigi raccoglieva attorno a se i migliori intelletti di Europa (fu chiamato la « buca da lettere d'Europa») di ogni tendenza. Tra di essi Pierre Gassendi, di cui subito diremo, che pure era maestro di molti libertini. Le remote ascendenze filosofiche della tendenza libertina erano infatti nell'antico insegnamento di Democrito e di Epicuro, gli autori prediletti di Gassendi. 2. Quando non si dicevano atei, i libertini si dicevano deisti, nel senso che non negavano l'esistenza di un Dio somma sapienza, negavano il Dio della rivelazione cristiana e in genere delle religioni positive. Facili allo sfoggio erudito, i libertini riproponevano le critiche che al Dio della Bibbia fecero Giuliano l'Apostata, Porfirio e Giamblico e cioe i pensatori pagani che tentarono di salvare il Dio della filosofia dall'alluvione della 'superstizione' cristiana. 3. Un metodo in auge tra i libertini era la critica storica aile manifestazioni superstiziose, a cominciare dai miracoli di cui si faceva forte il cristianesimo. Questa critica investiva senza distinzione tutte le forme religiose, utilizzando anche le relazioni dei primi viaggiatori, dalle quali appariva l'infondatezza delle tesi apologetiche sull'universalita del fatto religioso. Comincio allora l'ammirazione per la sapienza della Cina, animata dal pensiero 'laico' di Confucio (1.1.15). Male alimentazioni a questa voga libertina venivano anche da tradizioni culturali piu recenti, da Pomponazzi, da Montaigne, da Charron, da Bacone. II contagia di questo scetticismo senza drammi fu immenso, lungo il secolo, se nel 1699 la Marchesa d'Orleans poteva dichiarare che nel paese la fede era ormai estinta, tanto che era difficile trovare un giovane che non si professasse ateo. Ma si trattava di un contagia contenuto dentro i limiti dell'opportunismo sociale e politico, limi ti che impedivano generalmente lo scandala. Spes so i libertini accettavano di morire cristianamente, e cioe in modo 'decente', secondo la massima di un loro maestro italiano, il Cremonini: Intus ut libet, foris ut moris est: «Dentro come piace, fuori come richiede il costume». 5.10. Pierre Gassendi. Sullo sfondo di questa cultura fervida rna labile emerge un pensatore che gia conosciamo perle serrate obiezioni da lui fatte a Cartesio (5.3), Pierre Gassendi (1592-1655). Non era un libertino, dato che, canonico di Digne, aveva uno spirito sinceramente religioso e sui piano della fede accettava la dottrina della chiesa. E tuttavia il suo insegnamento andava incontra al gusto eversivo dei libertini perche rigettava ogni metafisica, sia quella fatiscente della scolastica, sia quella, in costruzione, di Renato Cartesio e adottava, come unica possibile alternativa alla tentazione metafisica, l'antico atomismo di Democrito e di Epicuro. Contro Aristotele scrisse la sua prima opera, del 1624, Esercitazioni paradossali contra Aristotele, contra Cartesio
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scrisse, oltre che le Obiezioni alle sue Meditazioni, una replica: Dubbi e istanze contra la metafisica di Cartesio (1644). L'esposizione del suo sistema, Sintagma filosofico, usci postuma nel 1658. Gassendi non trova nessun contrasto tra la sua fisica materialistica e la sua professione religiosa: esse appartengono a due ambiti diversi, nei quali la ragione si muove con metodi e criteri diversi. La confusione tra i due ambiti e !'opera nefasta della scolastica medioevale, che ha portato ingenti danni sia alIa filosofia, gravandola di questioni astruse ed estranee alle sue possibilita, sia alia teologia, sradicandola dall'insegnamento degli antichi Padri della Chiesa. La cerniera tra i due ordini di conoscenza era stata la metafisica, che invece Gassendi nega del tutto, a partire dalla convinzione dell'impossibilita per la ragione umana di superare i limiti empirici dell' e!)perienza. Il suo bersaglio e il concetto di sostanza, come realm che sottosta ai fenomeni, si tratti della sostanza a;istotelica, si tratti della res cartesiana. Anche quando, attorno al 1630, egli si accosta all'antico pensiero atomistico, lo fa senza venir meno alia coscienza dei limiti della ragione, perche per lui l'atomismo resta soltanto una teoria piu probabile delle altre, piu capace di dar ragione dell'esperienza. La quale, a sua volta, deve attenersi ai propri confini, che sono l'osservazione, la descrizione, la possibilita dell'ipotesi. Questa rigoroso impegno a non far dire all'esperienza piu di quanta puo dire lo porto a sottovalutare la funzione della matematica, mantenendo su questa punto le distanze da Galileo, che pure ebbe per lui ammirazione e amicizia. L'influenza di Gassendi sul pensiero del suo secolo fu non inferiore a quella incontrata da Cartesio, forse perchc:~. oltre a fornire le premesse per gli sviluppi materialistici del pensiero scientifico, egli, fedele come fu alia sua professione cristiana, tolse a quegli sviluppi molti inciampi che potevano provenire dai pregiudizi e dai controlli religiosi. 5.11. L'occasionalismo. Se per 'scolastica' intendiamo quel che fu storicamente la filosofia medioevale cristiana: una complessa impresa intellettuale per fare del pensiero di Aristotele uno strumento di difesa e di espressione della fede, allora si puo parlare a buon diritto di una 'scolastica cartesiana' nella seconda meta del Seicento. Non mancarono, e vero, specie in alcuni ambienti \.miversitari di Lovanio, in Belgio, degli scolastici alla vecchia maniera che si opposero a Cartesio, gia durante la sua vita, in nome delle verita di fede (ad es. la vanificazione dell'idea di forma sostanziale colpiva direttamente il dogma della presenza sostanziale del Corpo di Cristo sotto le specie eucaristiche) a cui la metafisica cartesiana toglieva i tradizionali sostegni di ragione. Ma in complesso Cartesio riusci ad imporsi al pensiero del suo tempo come un nuovo Aristotele, o meglio come un nuovo Platone che permetteva alia fede cristiana di ristabilirsi su di una tradizione patristica rimasta piuttosto marginale. durante il medioevo, quella di tipo agostiniano, che proprio agli inizi del secolo aveva trovato un focolaio di rinascita nell'Istituto dell'Oratorio, fondato dal card. Pierre Berulle, il grande maestro di spirito che aveva consigliato al giovane Cartesio di dedicarsi alia filosofia. Si e gia detto come il cogito di Cartesio sia apparso a molti un prpvvidenziale fondamento di certezza da opporre allo scetticismo crescente e come nuovo criteria conoscitivo capace di integra-
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re, senza scosse, le antiche verita metafisiche e le nuove conquiste scientifiche. Non e il caso di render conto qui del largo dibattito sviluppatosi in Francia e altrove su Cartesio, specie dopo la pubblicazione delle sue opere postume. Ci basti accennare alia problematica generata dal punto chiave del sistema cartesiano, quello del rapporto tra la sostanza estesa e la sostanza pensante. Era stata proprio una sua discepola per corrispondenza, la principessa palatina Elisabetta a far notare al filosofo la contraddizione tra la distinzione delle due sostanze e la loro unione sostanziale. Nel risponderle, il 22 giugno 1643, Cartesio ammetteva la contraddizione, rna faceva notare sbrigativamente che basta l'esperienza a darci la sicurezza che il pensiero puo muovere il corpo ed esserne a sua volta influenzato. E nel Trattato sulle passioni, dove, come si e visto, egli colloca nella ghiandola pineale la cerniera tra le due sostanze, la questione sollevata da Elisabetta (rna non solo da lei, naturalmente) viene appena sfiorata, di tanto in tanto. La dove, ad esempio, descrive come ad una volizione segua il movimento del corpo, egli precisa che
Malebranche 5.12. L'armonia tra fede e ragione. La vocazione filosofica di Nicolas Malebranche ( 1638-1715) fu carisma tica come quella di Cartesio. Un giorno dello stesso anno (1664) in cui fu ordinato sacerdote, egli passava in rue SaintJacques. «Un libraio- racconta Bernard de Fontenelle- gli presento il Tratta-
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to dell'uomo di Cartesio, appena uscito. Egli conosceva Cartesio solo di nome e per qualche appunto nei suoi quaderni di filosofia. Si mise a sfogliare il libro e fu colpito come da una luce totalmente nuova ai suoi occhi. Egli intravide una scienza di cui non aveva nessuna idea rna che era fatta proprio per lui. Compro il libro, lo lesse con impegno e, cosa appena credibile, con tale trasporto che gli procuro palpitazioni tali da obbligarlo ad interrompere di tanto in tanto la lettura». Si getto subito nello studio delle altre opere di Cartesio, approfondi le sue conoscenze di fisica e di matematica e, in tre o quattro anni, non solo aveva fatto della filosofia la sua unica occupazione, rna aveva gia delineato il suo progetto di rifondazione del sapere metafisico e teologico basato sull'integrazione della metafisica di Agostino con la fisica di Cartesio. Tra il 1674 e il 1675 pubblico la sua opera fondamentale, La ricerca della verita, nel 16~6 le Conversazioni cristiane, nel 1680 il Trattato della naturae della grazia, in cui prese posizione nella disputa tra gesuiti e giansenisti (5.15), nel 1682 le Meditazioni metafisiche e cristiane, nel 1684 il Trattato di morale, nel 1688 i Colloqui sulla metafisica e sulla religione, e nel 1698 il Trattato dell'amore di Dio, nel 1708 il Dialogo d'un filosofo cristiano e d'un filosofo cinese sulla natura di Dio, e nell715, l'anno della sua morte, Le riflesioni sulla premonizione fisica. In tutte le sue opere spira, come disse Arnauld, «un'aria grande e magnifica», che promana dal suo spirito meditativo e dalia sua serena fiducia nella ragione, una fiducia ancora piu ferma di quella di Cartesio, dato che per lui «la ragione e infallibile, immutabile, incorruttibile; essa dev'essere sempre la padrona; Dio stesso la segue». Mentre in Cartesio il riferimento a Dio non ha altro motivo che di dare alia ragione umana una garanzia di validita, e insomma un riferimento non religioso (Dio sta al di la delle verita eterne, poste da lui con un atto di puro arbitrio), in Malebranche ogni moto della ragione e governato da un afflato religioso, sia quando percorre i modi della sostanza corporea, sia quando spazia nella « regione felice e incantata» della sapienza eterna che illumina il sistema intero dell'universo. Anche per lui tra fede e ragione non c'e contrasto, come per san Tommaso, con la differenza che la ragione di Malebranche e quella cartesiana, e cioe matematico-deduttiva. <
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rapporti tra loro. Quando percepiamo un corpo, in realta, essendo ogni percezione un fatto soggettivo, noi percepiamo un'idea e questa idea, in cio che ha di intelligibile, e cioe nell~ sua grandezza geometrica, non solo non e prodotta dalle cose esterne, none prodotta nemmeno da noi, dato che essa e eterna, immutabile, chiara e distinta, ha insomma qualita che ci trascendono. Il suo vero luogo e Dio. Di nostro, nella percezione, c'e solo la modificazione particolare (il colore, il sapore, insomma le qualita secondarie) che l'idea produce nella nostra anima e che noi a nostra volta proiettiamo in essa come se a essa appartenesse. Cosi, ad esempio, tanto l'estensione di questa foglio su cui scrivo, quanta il suo colore, la sua levigatezza e qualunque altra sua qualita sensibile hanno come loro vera causa Dio. E le cose esterne? Hanno o no una loro esistenza autonoma? Troppo debole e per Malebranche l'argomento di cui fece uso Cartesio, quello della naturale tendenza a ritenere esistenti le cose. Dato che tutto e inDio, il mondo sarebbe tale e quale ci appare anche se le cose non esistessero. Per Malebranche la certezza dell'esistenza delle cose esterne ci viene dalla Scrittura, non dalla ragione. In ogni caso, come si e detto, il fatto che la realta materiale esista o meno non ha rilevanza alcuna nell'ordine dell'universo: l'oggettivita della sostanza estesa non e la sua esteriorita fisica, e, per cosi dire, la sua esteriorita psicologica, nel senso che l'estensione e un'idea che non dipende da noi rna da Dio. Si risolvono cosi; in modo del tutto ovvio, i problemi derivanti dal dualismo cartesiano. Intanto il movimento dei corpi non ha la sua vera causa nell'urto di un corpo sull'altro. Quest'urto e solo l'occasione in cui Dio produce il movimento nel corpo urtato. Dio crea non solo le cose rna ogni loro singolo movimento. E la mia percezione di un corpo che si muove none provocata dal corpo, e prodotta in me da Dio in occasione del movimento del corpo. Se io voglio muovere un braccio e lo muovo, il movimento fisico e prodotto da Dio in occasione della mia volizione. «Nessuna creatura - dice Malebranche - puo agire su di un'altra per un'efficacia che le sia propria». 5.14. Razionalismo teologico. Si tratta, come si vede, di un agostinismo dilatato fino all'intera realta sensibile. Non solo gli intelligibili sono in Dio, rna anche i sensibili: Dio e il luogo sia degli spiriti, sia dei corpi. Il che non implica che le case finite si identifichino con Dio, ne che la conoscenza con cui le cogliamo sia conoscenza di Dio. In quanta creatore, Dio e altro dalle sue creature, sicche, quando noi conosciamo queste, le conosciamo in Lui senza conoscere Lui. E tuttavia questa dottrina della trascendenza del 'Dio nascosto' si capovolge in un razionalismo teologico ben piu rigoroso di quello del 'razionalista' Cartesio. Per Cartesio le verita eterne sono tali per una decisione della volonta di Dio, che avrebbe potuto decidere altrimenti; per Malebranche le verita eterne hanna una loro necessita intrinseca, non possono essere che queUe che sono, e Dio stesso e tenuto a seguirle a causa dell'amore necessaria che ha per se stesso. Due piu due fa quattro anche per Dio, anche per Lui la parte e minore del tutto. Ne deriva che la nostra ragione e la stessa ragione di Dio, anche
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se, chiusa nella sua finitezza, non potra rnai abbnlcciare la totalita deH'ordine dell'universo e tanto meno queUe verita eli fede che il Verbo -- !a Ragione di Dio- ci ha rivelato. Queste verita di fede non sono di un altro ordine se non in rapporto a noi, rna in se esse fan parte della ressitura univcrsale delie verita e vengono a colmare quei vuoti di conoscenza dei quali alla rag.ione umana, se fosse abbandonata alle sue sole forze, non resterebbe che prenciere attv. Ma puo il Dio cristiano sopravvivere dentro le maglie di una razionalita che sembra non lasciar spazio alla sua liberta creativa? E, in secondo luogo, se Dio e l'unica causa di cio che accade, sia nell'ordine dello spirito che nell'ordine della materia, non diventa, gia per questo, responsabile del male? Alla prima questione Malebranche risponde che Dio non e necessitato a creare, dato che la sua infinita lo rende autosufficiente. L'universo f:: perche, per libera decisione, Dio lo ha creato quale manifest;:;zione della sua glorin. Il mondo e dunque non necessario, e contingeme. Ma. pasta questa Jibera decisione di Dio, l'ordine razionale richiedeva che t~gli producesse un'opera che esprimesse il meglio possibile le perfeziom dei suol attributi. Le perfezioni di Dio si esprimono nelle vie che egli segue nel governo del mondo e non gia nel mondo inteso nella sua concretezza empirica, il quale non puC> essen: perfetto. Ed eccoci alla seconda questione: causa di tutto, Dio e anche causa del male che e nel mondo? Mentre il male metafisico none se non 1.m poriato del limite della creatura finita, e come tale non fa scandalo alla ragione, il male morale e imputabile solo all'uomo, anche se Dio f.: causa dei procedimenti mentali e fisici delle azioni malvage. Il male morale. come insegno Agostino, non e che la scel_ta di un bene inferiore al posto di un bene superiore che andrebbe scelto se si seguissero le regale della ragione. ll male altro non e dunque che l'uomo che si ferma, che si accascia su di se mentre dovrebbe scegliere i beni superiori a cui lo sollecita la volonta di Dio. E dunque lui, l'uomo, it responsabile, perche con la· sua non-volonta, rinuncia ad andare oltre gli orizzonti in cui lo imprigionano i suoi appetiti. Abbiamo fatto cenno a questi due problemi, della contingenza del mondo e dell'origine del male. per fornire due esempi della rnaniera con cui Ivlalebranche affronta l'immensa problematica della teologia tradizionale per risolverla nella chiarezza cartesiana del suo sistema. ll quale, come si e detto, apparve ai suoi contemporanei come una grandiosa creazione a cui avevano posto mano l'intelletto e l'immaginazione, la finezza psicologica e I'ardimento deduttivo, l'afflato religioso e la razionalita insofferente dei limiti. Oualcosa di unico che contiene in non pochi germi che avranno piena fiocitun.i negli illuministi, in Rousseau, in Kant e nel romanticismo tede:>eo.
se
Pascal 5.15. Pascal e Port-Royal. Il successo della rivoluzione cartesiana era Jovuto in parte ai limiti che essa si era imposta e che aveva rispettato. Il capovolgi-
130 0 5 - Pascal mento, che aveva spostato il fulcro del sistema delle verita dall'essere oggettivo all'io, fu, si, un capd'volgimento davvero copernicano, rna lasciava intatto il patrimonio di certezze riguardanti la morale, la religione e la politica. Si trattava dunque di una rivoluzione dimidiata, in attesa che i suoi principi penetrassero in tutte le altre giurisdizioni della riflessione umana. Malebranche mostro come fosse possibile ricomporre sotto lo scettro della chiarezza geometrica l'intero universo dello spirito. Vedremo in seguito come altri, e con maggior rilievo, cercheranno di far propria l'intuizione rivoluzionaria di Cartesio eliminando le aporie in cui essa era rimasta bloccata, prima fra tutte il dualismo tra le due sostanze. Ma per dare completezza alla descrizione di questo momento del pensiero francese che segna una definitiva cesura col passato, occorre soffermarsi su quei suoi aspetti che toccano per l'appunto le dimensioni umane su cui Cartesic aveva preferito passar oltre. L'uomo che dette voce all' emisfero della coscienza trascurato da Cartesio, quello morale-religioso, fu Pascal. Biagio Pascal nasce a Clermont nel1623. Suo padre, Stefano, rimasto vedovo quando Biagio aveva tre anni, si trasferisce a Parigi per dedicarsi all' educazione dei figli (oltre a Biagio, Gilberte e Jacqueline) e ben presto entra a far parte anche lui del 'circolo Mersenne' (5.9). Biagio dunque non ha bisogno di liberarsi, come Cartesio, della scolastica dei collegi: la sua crescita avviene in un clima dove giungono e si confrontano tutte le correnti del pensiero europeo. E ne trae profitto al punto che, appena sedicenne, presenta al Circolo un Saggio sulle coniche che lascia sbalorditi anche i piu competenti, eccetto Cartesio, che pronuncia allora il primo dei suoi giudizi non benevoli sull'enfant prodige. Nel 1642, dopo molte prove, presenta, con una lettera dedicatoria, una 'macchina aritmetica' (una calcolatrice, la capostipite dei computer) che procura grande fama al giovane scienziato. Nel '46, un amico di Gassendi, Pietro Petit, porta dall'Italia la notizia dell'esperienza di Torricelli attorno al vuoto e chiede ai Pascal, padre e figlio, di aiutarlo a ripeterla. L'esperimento del tubo di mercurio riesce, Biagio lo ripete per conto suo, con diversi strumenti e in circostanze diverse, pubblicizzandone i risultati con un Trattato sul vuoto. Cartesio, che pure aveva partecipato all'esperimento con Petit, pur di non abbandonare la sua tesi (5.6) sulla natura che ha orrore del vuoto (horror vacut), fa l'ipotesi, degna di un peripatetico, che nel tubo lasciato libero dal mercurio ci sia una «materia sottile». E scrivendo a Christiaan Huyghens osa affermare che il giovane Pascal ha «troppo vuoto in testa e molta fretta». Proprio in quegli anni, precisamente nel '46, ha un primo contatto con l'ambiente religiose che in seguito diverra la sua famiglia spirituale. Sostano per tre mesi, in casa di Stefano Pascal, bisognoso di cure, due chfrurghi seguaci di Saint Cyran, il grande maestro di spirito di Port-Royal*. La famiglia Pascal entra al completo nell'orbita di Port-Royal quando sulle due austere comunita non si e ancora scatenata la tempesta. C'e chi vede in quell'anno 1646 una prima conversione di Biagio Pascal. In realta si tratta di un ravvivarsi in lui degli interessi per i problemi della morale e della fede e di un conseguente attenuarsi della sua passione per le matematiche e per la fisica. La sua salute peggiora e i medici gli ordinano di 'divertirsi'. Nel '50 gli muore il padre; nel '52 la sorella Jacqueline entra tra le suore di Port-Royal. Ha ini-
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Port-Royal non e soltanto un luogo decisivo per la vita e il pensiero di Pascal, e uno dei focolai spirituali che hanna plasmato la coscienza dell'Europa modema. Piccolo monastero fuori di Parigi, Port-Royal divenne celebre agli inizi del '600, quando Mere Angelique Arnauld impresse alIa comunita una riforma rigorosa, che ne fece un punta di riferimento di molte coscienze. Cresciuta anche di numero, la comunita si trasferisce, nel 1625, in un altro convento, Port Royal de Paris, nel sobborgo di Saint Jacques di Parigi. E qui che approda, nel 1635, ['abbe Saint Cyran, un agostiniano di straordinaria cultura, di grande rigore morale e di intransigenza senza deroghe nei confronti del mondo e della stessa istituzione ecclesiastica. L'irradiazione del convento crebbe: un gruppo di uomini decise di vivere vita solitaria nel vecchio monastero di campagna lasciato Iibera da Mere Angelique. Tra di essi Antoine Arnauld, fratello di Mere Angelique, Pierre Nicole e, tra gli allievi (i solitari avevano aperto anche una scuola improntata ad un grande rigore intellettuale), il futuro drammaturgo Racine. l guai di Port-Royal comineiano dopo la pubblicazione postuma (1640) di un libro del vescovo di Ypres, Giansenio (Cornelis Jansen· 1585-1638) intitolato Augustinus. L'intento del libro e la conciliazione tra la tesi calvinista sulla salvezza dei soli predestinati e la tesi cattolica sulla possibilita data a tutti di salvarsi con la corrispondenza alia grazia di Dio. Non e il caso qui di trattenersi nell'esposizione di una dottrina quanta mai complicata. Basti dire che essa servi ai portorealisti da base teologica per combattere l'insegnamento e la pratica dei gesuiti, divenuti i maestri della Francia ufficiale, a cominciare dalla corte. Pur di mantenere in seno alla chiesa il maggior numero possibile di fedeli, i gesuiti, senza nulla negare, in teoria, dei principi morali del Vangelo, mettevano in primo piano le situazioni concrete (i casi, da dove casistica o casuistica) che giustificavano una condotta in contrasto con quei principi. Era la morale del compromesso, naturalmente molto gradita agli uomini del potere e del bel mondo. PortRoyal rappresentava l'assolutezza di Dio sulla coscienza dell'uomo, i gesuiti rappresentavano le ragioni della saggezza pratica, che chiudeva un occhio sui peccati e offriva, come rimedio, la grazia dei sacramenti. l 'signori di Port-Royal' sono accusati di giansenismo e vengono richiesti di sottoscrivere le cinque proposizioni di Giansenio condannate da lnnocenzo X, nel1653. La tesi di Arnauld, che insegna alla Sorbona, e che la condanna va ritenuta valida di diritto, nel sensa che colpisce propqsizioni sicuramente eretiche, rna non .di fatto, perche esse non si ritrovavano tali e quali nel libro di Giansenio. Il potere politico non ha che da guadagnare dall'incriminazione dei 'solitari'. ll braccio di ferro tra l'autorita ecclesiastica e politica da una parte e i due monasteri dall'altra durera con alterne vicende fino alla fine del secolo e si concludera con la distruzione dei due monasteri e Ia dispersione delle suore e dei solitari. Proprio a causa di questa conflitto tra assolutismo e coscienza religios.a il giansenismo, nella storia della cultura europea, ebbe peso non tanto come dottrina teologica quanta come tendenza di ordine morale e politico.
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zio allora quello che la .;;ua prima biografa,. la sorella Gilberte, chiamera ii periodo mondano di Pascal. Egli frequenta la buona societa e stringe arnicizie nel gruppo dei libertini, acquistando cosi una conoscenza diretta di que! mondo con cui in seguito sapra confrontarsi a ragion veduta. tvla il mondo lo annoia. E [a notte del 23 novembre 1653 vive, in modo drammatico, un incontro fiammeggiante col Dio di Gesu Cristo che lo porta a prendere Ia decisione di impostare !a sua vita sulla radicale fedelta. ai vangelo. In un frammento di pergamena (che portera. cucilo nel risvolto dell'abito. in prossimita del cuore) fissa in poche parole un 'mernoriale' dell'evento. «Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, non dei filosofi e dei sapienti. .. , sono le prime parole del memoriale . che ben esprim.ono il suo nuovo programma di vita e di pensiero. Durante un ritiro a Port Royal, egli presenta un progetto di Apologia della reiigiorze crisfiana, destinata non alle anime pie ne ai popolo, ma agli uomini di mondo di cui per breve tempo aveva subito iJ fasdno. Non riuscira a condurre a termine l'impresa, ma, quasi rnateriale per 1a sua costruzione, lascera un manipolo di appunti - note preparatorif·, frammenti "--- che dopo la sua morte saranno riordinati e pubblicati col titolo di Pensieri (Pensees), uno dei capolavori assoluti nella storia del pensiero e della letteratura. A distrarlo dall'impresa sopravviene, nel 1656, il contrasto tra Port-Royal e i Gesuiti sul valore da dare alla condanna delle cinque proposizioni" Pascal, coadiuvato da Arnauld e Nicole, scende in campo scrivendo una serie di lettere (18) ad un provinciale della Compagnia di Gesu: fim:ione letteraria che aggiung:e vivacita alla pagina pascaliana, dove la 'morale del compromesso' imputata ai gesuiti viene messa allo scoperto nel suo sostan:liale paganesimo. Il successo dei suoi pamphlets e tale che Pascal decide di interrompere la sua battaglia. Le Provinciali sono uno dei testi esemplari della letteratura francese. Per quanto non faccia parte della comunita dei solitari di Port-Royal, Pascal si chiude nel nascondimento dedicandosi alla preghiera, aHa pratica della pili rigida poverta e della serena sopportazione delle numerose malattie che Jo hanna accompagnato, si puo dire, fin d::dla nascita. Una di esse (un cancra intestinale) lo conduce alia morte il 19 agosto 1662. 5.16, Potenza e limitll deHa ragione. Quando si cerca di stabilire l'identita filosofica di Pascal, si incorre spesso nell'errore di portare al limite Ja sua polemica anticartesiana per fare di lui ii rappresentante delle 'ragioni del cuore' in contrapposto a Cartesio, che invece rappresenta, e a giusto titolo, le 'ragioni della ragione'. La verita e diversa, anche se e difficile stabilirla, perc he Pascal non ci ha lasciato nessuna esposizione sistematica del suo pensiero. La verita e che Pascal c>ltre ad essere, per comune riconoscimento, uno dei grandi padri della scicnza moderna, e anche un convinto difensore dei d.iritti della ragione. Egli abita, senza inquietudini e senza ripensamenti, nell'eta culturale successiva alla svolta galileiana e cartesiana, distinguendo - perentorio e a riguardo un 'frammento' di un suo Trattato sul vuoto - due tipi di scienze: quella basata sull'autorita degli scritti, come la storia e la teologia, e quella che riguarda « tutto quanta cade sotto i sensi o il ragionamento». «L'autorita in questa caso e inutile, la ragione sola ha il diritto di giudicare». E siccome ncll'ambito del ragionamento fondato sull'esperienza sensibile
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gli oggetti. .. sono proporzionati alia possibilita della mente, questa ha piena liberta di abbracciarli tutti; la sua fecondita inesauribile e incessanternente produttiva e le sue invenzioni possono essere senza fine e senza interruzione.
Si da insomma un progresso del sapere scientifico, dato che in esso «le ccr noscenze anteriormente ricevute sono servite da gradini alle nostre». Nessuna tracda in Pascal della pavidita di cui aveva dato prova Cartesio, quando rinuncio a pubblicare il suo Trattato del mondo, che avrebbe potuto provocare la condanna di Roma peri suoi sottintesi copernicani. «
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e omogenea
e percio non e possibile conoscerla con una sola maniera di approccio. Pascal distingue nella realta tre 'ordini' diversi: quello dei carpi, quello degli spiriti, quello della carita, che sarebbe l'ordine soprannaturale dischiuso all'uomo dalla rivelazione. Sui primo e secondo ordine hanno competenza, come si e accennato e spiegheremo meglio tra poco, la conoscenza geometrica e lo spirito di finezza. Il terzo e concepibile solo per quel dono gratuito (la grazia) di Dio che e la fede. Tutti i corpi, il firmamento, le stelle, la terra e i suoi reami non valgono il minimo tra gli spiriti, perche questo conosce tutto cio e se stesso; e i corpi, nulla. Tutti i corpi insieme e tutti gli spiriti insieme e tutte le loro produzioni non valgono il menomo moto di carita. Questo e di un ordine infinitamente piu elevato. Da tutti i corpi presi insieme non si potrebbe far scaturire un piccolo pensiero: e impossibile, e di un altro ordine. Da tutti i corpi e da tutti gli spiriti non si potrebbe trarre un sol moto di vera carita: cio e impossibile, di un altro ordine, soprannaturale.
5.17. La comprensione dell'uomo. Sia per Cartesio che per Pascal il punto archimedico su cui poggiarsi per uscire dalle nebbie del dubbio e il pensiero, rna mentre peril primo il pensiero e fondamentalmente coscienza di se come essere pensante, per il secondo e coscienza morale di se, che rivela l'uomo a se stesso come essere radicalmente contraddittorio. «L'uomo sa di essere miserabile, ed e tale; rna e anche grande, poiche ne e consapevole». Nei suoi Pensieri Pascal confessa di essere rimasto disgustato dallo studio delle scienze astratte e di aver capito il perche del disgusto non appena ha cominciato lo studio dell'uomo. «Si cerca il resto perche si e incapaci di studiare l'uomo». Da dove nasce !'interesse per gli studi della matematica e della fisica se non dalla riluttanza a scendere in se stessi e trovarsi faccia a faccia con le proprie insostenibili contraddizioni? I veri problemi non ci vengono dal di fuori, nascono dall'intimo di queste contraddizioni, riconducibili tutte alla contraddizione fondamentale dell'uomo, quella tra la sua miseria e la sua grandezza. L'introspezione pascaliana non rassomiglia a quelle, non di rado di eccezionale bellezza, che ci ha fornito la letteratura romantica. II suo occhio rimane, nello scendere nel profondo, costantemente Iucido, e le sue rivelazioni sono compiute da una ragione che non soffre di sbandamenti emotivi. La mano che regge il bisturi e ferma. La razionalita introspettiva di Pascal e di tipo dialettico, mira cioe ad abbracciare le verita opposte: «alla fine di ogni verita bisogna aggiungere che ci si ricorda della verita opposta»; «le due ragioni contrarie: bisogna cominciare da qui, senza di che non si capisce nulla». C'e chi vede in questo metodo pascaliano il germe della ragione dialettica di un Hegel e di un Marx. Solo che, alieno da ogni conciliazione sistematica, Pascal lascia che le verita contrarie restino quelle che sono, punto d'approdo di una ragione che ha il suo momento piu alto proprio nel riconoscere il limite oltre il quale entrerebbe nell' arbi trario. Bisogna saper dubitare, ove occorre; asseverare, ove occorre; sottomettersi, ove occorre: chi non fa cosi non intende le forze della ragione. Taluni
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peccano contra queste tre regale o affermando che tutto e dimostrativo, perche non s'intendono di dimostrazioni; o, dubitando di tutto, perche ignorano in quali casi ci si debba sottomettere; o, sottomettendosi in tutto, per non sapere in quali casi si debba giudicare.
Ebbene, nello studio dell'uomo la ragione dimostrativa, e cioe la ragione geometrica, non e l'unica ragione. C'e nell'uomo un'altra forma di ragione, un'altra facolta conoscitiva che non procede come quella geometrica. Pascalla chiama coeur, cuore, volendo intendere non il sentimento, che ha le sue sorgenti nella sfera puramente emozionale, rna quel centro indefinibile dello spirito che aderisce al suo oggetto in virtu di un discernimento intuitivo, immediato. In un gruppo dei suoi Pensieri, dove utilizza un suo studio, rimasto frammentario, sullo Spirito di Geometria, egli chiama.le due forme o attitudini conoscitive 'spirito di geometria' e 'spirito di finezza'. II primo ragiona, il secondo comprende. 1. Lo spirito di geometria (Pascal pensa senza dubbio a Cartesio) ha bisogno di principi incontestabili, lontani dall'uso comune e percio difficilmente raggiungibili. Una volta posseduti quei principi, il 'geometra' procede con chiarezza e distinzione, secondo un ordine di conseguenze tanto incontestabili quanta i principi di partenza. 2. Lo spirito di finezza fa uso di principi che sono dinanzi agli occhi di tutti: per vederli basta avere buona vista. «Ma buona davvero, perche i prindpi sono cosi fluidi e numerosi che e quasi impossibile non ne sfugga qualcuno e si cada cosi nell'errore». Anche lo spirito di finezza ha i suoi procedimenti conoscitivi, rna li segue spontaneamente, senza regale, e senza poterne dar spiegazione a nessuno. 3. Normalmente, chi possiede lo spirito di geometria non possiede quello di finezza e viceversa. Di qui la grossolanita dei geometri, quando estendono i loro procedimenti nella sfera delle esperienze di vita; di qui la riluttanza degli spiriti fini a «Scendere fino ai prindpi primi delle scienze speculative», che sono completamente fuori dell'uso comune. Uniscono invece in se ambedue gli 'spiriti' il filosofo che si ride della filosofia o il moralista che si ride dellfl morale, insomma chi esercita l'intelletto correggendolo e integrandolo con l'intuizione. Infatti «la finezza e dell'intuizione, la geometria e dell'intelletto». Con questa, di particolare, a tutto vantaggio dell'intuizione: e con la -conoscenza del 'cuore' che noi afferriamo gli stessi principi primi da cui parte poi la ragione geometrica. Non solo: rna, come ha riconosciuto lo stesso Cartesio, lavalidita o meno dei giudizi di ragione non dipende forse dall'interferenza della volonta? E cioe da un orientamento prerazionale e da una strategia dell'attenzione che dipendono, appunto, dalla rettitudine o meno del 'cuore'? Si puo dire, in conclusione, che l'intento di Pascal e di circoscrivere nell'ambito suo proprio la ragione geometrica di Cartesio, denunciando i limiti che le sono imposti dalla sua stessa natura e illustrando, al di la di quei limiti, le ragioni dell'esistenza non riducibili a geometria, e cioe le ragioni della storia, della vita quotidiana, dei normali rapporti tra gli uomini e, finalmente, di quel profondo dello spirito in cui l'uomo gioca la sua sorte eterna.
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5.18. La condizione umana. Il compito della ragione (di una ragione, lo ripetiamo, integrata in quell'impulso intuitivo senza di cui vacillerebbe nel totale scetticismo) e di condurre l'uomo a riconoscersi come sospeso tra l'essere e il nulla. Pascal scandaglia questa precarieta ontologica, senza far uso dei tradizionali concetti metafisici, rna illustrando, in tutta la sua varieta poliedrica, il fenomeno umano, sia nei modi perenni del suo atteggiarsi di fronte a se, al mondo, all'eterno, sia nei riflessi che ha in esso l'orizzonte cosmologico aperto dalla rivoluzione copernicana. 1. L'universo non ha pili, agli occhi di Pascal, i riflessi della gloria invisibile di Dio, non e insomma la dimora domestica dell'uomo greco e medioevale, che vedeva nel giro degli astri un effetto tangibile del Dio della filosofia o della fede. Esso non ha nemmeno quella parentela col microcosmo umano che ispirava entusiasmo ai maggiori spiriti del Rinascimento. Pascal (sebbene continui a considerare quella di Copernico un'ipotesi come le altre) vive fino in fondo l'eta copernicana. Gli spazi sono misura di solitudine e di insignificanza. Egli non vi cerca appigli e riprove per la sua fede. Abbiamo un bel gonfiare i nostri concetti al di la degli spazi immaginabili: non partoriranno che atomi in confronto alla realta delle cose. E una sfera il cui centro e dovunque, e la circonferenza in nessun luogo.
Il Cusano vedeva nell'infinita spaziale un esplicarsi del Dio infinito. Pascal esclama: «il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi atterrisce». «Smarrito in questo remoto angolo della natura», che cos'e l'uomo? 2. Fonte di non minor stupore, appena lo si conosca, e l'infinito nell'ordine della piccolezza. Se l'uomo divide la materia fino a scomporla nelle sue parti infinitesime, ebbene, anche nell'atomo vedra un'infinita di universi, di cui ciascuno ha il suo firmamento, i suoi pianeti, la sua terra nella stessa proporzione del mondo visibile. Non si meravigliera che il nostro corpo, che poc'anzi non era percettibile nell'universo, impercettibile esso stesso nel seno del tutto, sia ora un colosso, un mando o piuttosto un tutto, in rapporto al nulla a cui si puo arrivare?
3. Ma questa spaventosa precarieta che rende l'uomo «incapace d'intendere il nulla da cui e tratto e l'infinito che lo inghiotte>> non e che un aspetto cosmico della condizione miserevole in cui egli si scopre, non appena scenda in se stesso. Pascal lo guida in questa esplorazione con impietosa ironia, abbassandosi spesso agli oltranzismi del paradosso: «Il naso di Cleopatra. Se fosse stato pili corto, tutta la faccia del mondo sarebbe cambiata>>. Come dire che la storia di cui andiamo fieri e signoreggiata dal caso; gli imperi pili grandi sono l'effetto di circostanze le pili futili. Sono le nostre facolta che c'ingannano e ci avvolgono nell'errore: l'immaginazione, che gonfia il presente a forza di riflettervi su e sminuisce l'eternita a forza di non pensarci mai; le abitudini, che sono una seconda natura e la natura che forse non e che un'abitudine; l'io (le moi hai'ssable: l'io odioso) che riconduce tutto a se e fa di se l'universo; la doppiezza, la noia, l'incostanza per cui in realta non viviamo mai, rna soltanto speria-
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mo di vivere; la follia della scienza e della filosofia («Cartesio, inutile e incerto») e finalmente le divertissement, il divertimento. 4. Il divertimento (inteso nel sensa forte di 'distrazione') e la categoria esistenziale piu importante in Pascal. Eccone un'acuta descrizione: Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l'ignoranza, hanno creduto meglio, per essere felici, di non pensarci. Nulla e cosi insopportabile all'uomo come essere in pieno riposo, senza passioni, senza faccende, senza svaghi, senza occupazione. Egli sente allora la sua nullita, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. E subito sorgeranno dal fondo della sua anima, il tedio, l'umor nero, la tristezza, il cruccio, il dispetto, la disperazione.
Le occupazioni, la carriera, il trambusto delle guerre, il gioco, la caccia, tutto serve all'uomo per evitare di stare solo con se stesso, nella sua stanza, e scoprire faccia a faccia Ia propria miseria. «Gli uomini occupano il loro tempo ad inseguire una palla o una Iepre: e anche il piacere del re». II quale re, infatti, «e circondato di persone che non pensano se non a divertire il re e ad impedirgli di pensare a se stesso, perche se vi pensa, anche see re, e infelice». E per questa che va a caccia. Non gli interessa la Iepre: potrebbe comprarsela facilmente. Gli interessa la caccia. Ma per la caccia ci vuole la Iepre! Sotto il divertimento, insomma, non c'e la ragione, c'e Ia fuga dalla ragione. 5.19. La risposta apologetica. Tra la noia e il divertimento, illuogo autentico e per l'uomo la noia, perche e nella noia che egli scopre il divario tra cio che vorrebbe essere e cio che fatalmente e. Questa divario e come il varco in cui Pascal vede la via d'uscita dalla condizione intollerabile propria dell'uomo abbandonato a se stesso. «L'uomo oltrepassa l'uomo»: nelle possibilita dell'uomo c'e molto di piu che non nella sua realta. Come egli stesso riconosce nella Conversazione con il Signor De Saci (conservataci dal segretario dell'abbe De Saci, direttore spirituale di Pascal), in questa indagine sull'uomo possibile e sull'uomo reale Pascal ha seguito due maestri, nei quali, a suo giudizio, si ritrova quanta di meglio ha prodotto Ia filosofia del passato: Epitteto e Montaigne. Lo stoico Epitteto ha descritto l'uomo come deve essere: sottomesso a Dio, distaccato dai beni terreni, pago del compito terreno che gli e affidato, salida~ le con tutti gli uomini. Egli ha ben compreso i vestigi della primitiva grandezza dell'uomo rna ha ignorato del tutto la sua miseria reale. AI contrario, Montaigne (di cui Pascal fu lettore assiduo, tanto che nei suoi Pensieri si ritrovano non poche espressioni letterali degli Essais, 3.14) non ha sott'occhio chela miseria presente dell'uomo e la descrive in modo incomparabile, specie per quanta riguarda l'impossibilita dell'uomo di uscire dalla sfera delle semplici opinioni. II suo scetticismo e inconfutabile, e davvero !'ultima parola che puo dire Ia filosofia. Gli scettici come Montaigne (i 'pirroniani', li chiama Pascal) hanna ragione. Solo che essi sono incapaci di comprendere l'aspirazione all'infinito. Insomma, Epitteto e Montaigne non tengono canto della verita del peccato originale: il prima considera l'uomo come un re e non si accorge che e un re decaduto; il secondo lo considera miserabile rna non si
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accorge che era un re. Le due opposte verita vanno tenute insieme ambedue: la terza verita, che in se le compone e le chiarifica, e quella della Rivelazione cristiana. Infatti, alla luce della Rivelazione l'uomo e in un sol tempo quello di Epitteto e quello di Montaigne: il prima e Adamo, cosi come Dio lo ha creato a propria immagine, perche lo conosca e lo ami; il secondo e Adamo divenuto miserabile per il suo peccato. La fede ci proibisce di compiacersi delle nostre debolezze come fa Montaigne; la grazia ci consente di realizzare cio che in Epitteto non era che un ideale vano e presuntuoso. Come si vede, il passaggio dalla ragione alla fede, o meglio dalle aporie della ragione alla certezza della fede, avviene in base al procedimento dialet.tico, di cui, come si e detto, molti considerano Pascal come un precursore. L' errore dei dogmatici come gli stoici, da una parte, e degli scettici, dall'altra, e che «non riuscendo a concepire il rapporto di due verita opposte, e credendo che l'affermazione dell'una implichi l'esclusione dell'altra, si appigliano all'una, escludono 1' altra>>. E invece la religione cristiana insegna queste due verita: e che c'e un Dio, di cui gli uomini sono capaci, e che c'e una corruzione della natura che li rende indegni di Lui. Importa ugualmente agli uomini di conoscere l'uno e l'altro di questi punti. Ed e ugualmente pericoloso per l'uomo di conoscere Dio senza conoscere la sua misericordia, e conoscere la propria miseria senza conoscere il Redentore che lo puo guarire di essa. Una sola di queste conoscenze fa, o la superbia dei filer sofi, che hanno conosciuto Dio e non la !oro miseria, o la disperazione degli atei, che conoscono la !oro miseria senza Redentore. E cosi, come e ugualmente necessario per l'uomo di conoscere questi due pun:ti, e ugualmente dono deJla misericordia di Dio averceli fatti conoscere. La religione cristiana lo fa, e in cio che essa consiste ... Tutti coloro che cercano Dio fuori di Gesu Cristo, e che si arrestano nella natura, o non trovano alcuna luce che li soddisfi, o arrivano a formarsi un mezzo di conoscere Dio e di servirlo senza mediatore, e percio cadono, o nell'ateismo o nel deismo che sono due cose che la religione cristiana aborre quasi ugualmente.
Come si vede, l'apologetica pascaliana consiste nel rapporto tra due momenti, il cui nesso pero non e quello della necessita logica. Nel prima momenta Pascal crea la situazione, nel sensa che mette a nudo l'uomo nascosto liberandolo dalle maschere della mondanita ed esplorando le sue profondita con un metoda che ci richiama alia mente quello messo in uso, nel nostro secolo, dalla psicoanalisi; il secondo momenta e quello del Dio nascosto, ben diverso dal Dio dei filosofi. Quella pascaliana e una via esistenziale che si distacca nettamente da quelle in uso nella scolastica, basate sui processi induttivi di tipo cosmologico o su quelli deduttivi di tipo ontologico. Per Pascal non c'e nell'universo nessuna traccia di Dio, per chi non ha fede; ce ne sono infinite, per chi ha fede. Dio si nasconde nella natura fino a sembrar assente; per s<;:oprirlo bisogna decifrare i segni della sua presenza nascosta. I segni ce li offre la Scrittura, che pero anch' essa riesce chiara e trasparente solo per chi ha fede. Il segno dei segni e Gesu Cristo, quel Gesu Cristo che Pascal conosceva come dall'esterno, prima che, nella 'notte di fuoco', diventasse un'esperienza interiore decisiva. Da allo-
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ra il suo Dio e il Dio di Gesu Cristo, che non e una specificazione del Dio cono-' sciuto attraverso ragione, e un Dio 'totalmente altro'. None il Dio a cui i filosofi come Cartesio ricorrono per necessita logica, disposti a farne a meno se fosse possibile, rna il «Dio dei miserabili e dei peccatori» che «Si puo conoscere solo per le vie insegnate dal Vangelo». Egli non si limita soltanto ad essere un Dio semplicemente autore delle verita geometriche e dell'ordine degli elementi: questa e la parte dei pagani e degli epicurei. Ne consiste soltanto in un Dio che esercita la sua provvidenza sulla vita e sui beni degli uomini per donare una felice serie di anni a coloro che lo adorano: questa e la parte degli ebrei ... Il Dio dei cristiani e un Dio di amore e di consolazione; e un Dio che riempie di se l' anima e il cuore di coloro che possiede.
Un simile discorso su Dio rimanda necessariamente a un atteggiamento etico, com'era quello di Pascal, segnato da un sensa tragicamente serio del problema della salvezza. Esplicito o no, e questa il p:resupposto che sorregge e arricchisce di tensione gli argomenti di Pascal, specie quando toccano il problema di Dio. Il problema della salvezza e un problema previa ad ogni altro problema, e per questa non puo essere compreso con analisi oggettive e con argomentazioni geometriche. Proprio perche, a dispetto della sua formulazione concettuale uguale per tutti, il sensa di quel problema varia a seconda dell'attitudine soggettiva in rapporto alia salvezza eterna. Se si tiene conto di questa, perde il suo carattere paradossale e perfino irriverente il noto argomento pascaliano della scommessa (in francese pari). Ogni uomo, dice Pascal, si trova a dover scegliere di vivere come se Dio ci fosse o come se Dio non ci fosse. Se non sceglie, ha gia scelto: ha deciso per il no. A chi chiedere lumi per la scelta? Alla ragione e al cuore, naturalmente. Ma se da questa parte non gli venissero lumi sufficienti, allora l'uomo 'scommetta', sulla base di un calcolo. La pasta in gioco e questa breve vita terrena. Se si scommette che Dio esiste e si vince, la vincita e la vita eterna, un bene infinito. Se si perde, si perde qualcosa di finito. Merita dunque rischiare, dato che tra la posta in gioco e la vincita possibile c'e una distanza infinita, com'e infinita la distanza tra i pochi anni di felicita terrena (evidentemente nel sensa dei libertini, veri destinatari dell'argomento) e l'eterna felicita promessa da Dio. Scommettere qui vuol dire decidersi a vivere come se Dio esistesse; in concreto, vuol dire dominare le passioni, «piegare la macchina» e cioe, dato che anche per Pascal l'uomo e un 'automa', volgere i propri automatismi verso i fini che la fede propane con l'adattarsi alle sue pratiche, anche le piu elementari, come l'uso dell'acqua benedetta. Allora, in virtu della stessa esperienza, il come se si trasforma in certezza positiva, sgombra di dubbio. E questa la parte debole dell'apologetica di Pascal. Ma, come si diceva, essa non e che la trasposizione, in un linguaggio in uso nei salotti dei libertini eruditi, della verita pascaliana sulla terribile serieta della condizione umana, da cui il libertino si difende col divertimento: «Bisogna scommettere. Non e volontario (facoltativo), siete imbarcati>>. Proprio per questa suo tono perentorio, che, anche dopo aver reso alla ragione tutti i suoi diritti, risuona nelle regioni alte della spirito, Pascal fu, ed e
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restato nei secoli successivi, come una provocazione da cui non e stato possibile liberarsi. La storia del pensiero ha proseguito, dopo di lui, senza molto curarsi di lui, eppure, come un fiume carsico che scompare e ricompare, di tanto in tanto, soprattutto nei momenti di crisi, la cultura occidentale ricerca con lui un confronto che credeva di aver gia superato vittoriosamente. Scrisse Henri Bergson che «Cartesio e Pascal sono i due grandi rappresentanti delle due forme o metodi di pensiero tra i quali si divide lo spirito moderno». E un giudizio in cui forse fa cattivo gioco il gusto della schema. Ma e sicuramente vero che nessuno, come Pascal, e con tutte le carte in regola, ha gravato la filasofia dell'obbligo salutare di sospettare sempre di se stessa, ed ha gravato la scienza dell'obbligo di interrogarsi se le vie dei suoi trionfi sono veramente adatte alle speranze dell'uomo.
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0 Sommario. La rivoluzione filosofica che durante il Seicento condusse al trionfo della ragione ebbe successo perche il mutamento sociale aveva gia formato quel soggetto collettivo che si riconosceva nell'ideale del razionalismo scientifico: il sapere come potere (6.1). Questa rivoluzione sociale e politica ebbe luogo innanzitutto in Olanda e poi in Inghilterra. Fu in questa area 'protestante' che Ia spinta economica porto al riconoscimento che al di Ia delle diverse confessioni religiose c'e una base naturale su cui fondare Ia convivenza civica (6.2). L'olandese Ugo Grozio sviluppa !'idea di un diritto naturale fondato sulla natura razionale dell'uomo, un diritto che sorpassa anche i singoli Stati come 'diritto delle genti' (6.3). E questa Ia tesi centrale del giusnaturalismo, che nel Seicento mise in circolazione alcuni temi destinati a grande successo, come quello di stato di natura e di contratto sociale {6.4). II limite del giusnaturalismo era nel suo carattere metafisico-deduttivo. A fondarlo invece su presupposti materialistici e secondo modelli meccanicistici fu Thomas Hobbes (6.5). La conoscenza, per lui, non va mai oltre l'ordine della sensazione: ragionare e addizionare o sottrarre immagini prodotte dalla sensazione (6.6). Le sensazioni provocano in noi le reazioni del piacere o del dolore, a seconda che esse rispondano o no all'istinto di conservazione (6.7). Nellostato di natura gli uomini ricercano tutti le sensazioni di piacere, entrando in guerra tra !oro. II rischio della morte ispira esigenze (leggi di natura) che possono essere soddisfatte solo mediante un contratto che da origine allo Stato (6.8). Nel contratto i cittadini rinunciano al !oro naturale diritto su tutto, per riconoscerlo solo ad uno di !oro, che percio diventa sovrano senza limiti. L'autorita del sovrano e dunque assoluta, tutto subordina a se, anche Ia chiesa, e none responsabile dinanzi a nessuno: Ia Iegge vale solo per il fatto che ha ]a forza di farsi eseguire. II limite dello Stato e sulle soglie della coscienza. che pen) rimane sovrana di se stessa solo nell'intimita (6.9). Non solo lo Stato, nel pensiero del Seicento, raggiunse una coscienza di se fondata su princlpi propri, rna anche la scienza, che era rimasta fino a dopo Cartesio come un capitolo della filosofia. Fu con Isaac Newton che la scienza determino a se stessa un ambito autonomo: da allora le figure dello scienziato e del filosofo cessarono di sovrapporsi (6.10). Newton abbandono Ia pretesa di descrivere il perche dei fatti per limitarsi al come essi avvengano, rifuggendo da ogni ipotesi non basata sull'esperienza (6.11). Sostituendo al concetto cartesiano di estensione quello di massa, Newton riesce a spiegare il moto di tutti i corpi dell'universo, con l'unico principio della gravitazione (6.12). Sembro che con Newton si fosse raggiunto finalmente un sistema scientifico dell'universo. Sfuggiva per lo piu il fatto che anche Newton aveva fatto uso di ipotesi non provate, come queUe di spazio e di tempo assoluti (6.13). Ed e proprio basandosi su queste ipotesi che Newton trapassa dalla scienza alia teologia: Dio diventa un postulato del sapere scientifico (6.14). Come Newton aveva Iiberato (fino a un certo punto) !a scienza dai vincoli con Ia metafisica, cos! John Locke libero Ia ragione filosofica dalla pretesa di spaziare in campi che stanno al di la dei suoi limiti (6.15). Fu Locke a porre per primo il problema critico e cioe il problema dei limiti che l'intelletto e in grado di stabilire alle proprie capacita
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conoscitive (6.16). Egli parte dal rigetto di ogni forma di innatismo: prima dell'esperienza, l'intelletto e un foglio in bianco (6.17). Tutte le idee dell'intelletto non sono che idee derivate dalle sensazioni, esterne o interne. Le sensazioni semplici vengono combinate tra !oro in idee complesse, riducibili a tre classi: modo, relazione, sostanza (6.18). I processi conoscitivi, come l'intuizione e Ia dimostrazione, si muovono tutti dentro questa confine della sensazione o meglio dell'idea fornita dalla sensazione (6.19). Anche Locke persegue un obiettivo politico: quello di stabilire i limiti del potere statale nella vita del cit~dino, che e ormai il cittadino borghese. Infatti per Locke lo stato di natura comporta 1! godimento di alcuni beni (Ia vita, Ia Iiberta, Ia proprieta) che lo Stato civile dovra assumere come suoi iini (6.20). La distinzione tra societa civile e Stato fonda il diritto del Cittadino alia disobbedienza (6.21). Fra gli spazi di liberta che lo Stato deve tutelare, c'e anche quello religioso; il compito dello Stato e la tolleranza, quello delle chiese e di ricondurre Ia fede alia radice evangelica, del tutto conforme ai dettami della ragione (6.22).
La ragione horghese 6.1. L'espansione del razionalismo. Il metodo conoscitivo che, pur nella diversita delle loro posizioni, Bacone, Galileo e Cartesio avevano messo in atto, fini col trionfare, a dispetto delle resistenze delle universita e delle chiese, ·perche trovo accoglienza in una nuova classe sociale, lantana ancora da quella coscienza di se che raggiungera con la rivoluzione francese, rna ormai in via di penetrare nelle sfere del potere politico e gia largament.e padrona delle strutture di produzione e di mercato. II suo punto di forza non poteva certo essere la tradizione, basata sul principia ereditario, sui titoli giuridici che sancivano i privilegi, sulle superstizioni che frenavano lo spirito critico e le conquiste della scienza. Per la nuova classe, sospinta dallo spirito di intraprendenza, il sapere era in funzione del potere, di quel potere che si esprime nel dominio dell'uomo sulle cose, nella capacita di organizzare secondo ragione la vita associata, nell'abbattimento delle barriere che frappongono alia geometria della ragione i bruti ostacoli dell' arbitrio. La circostanza che saldo la grande lezione dei filosofi al nuovo soggetto sodale in ascesa fu il ruolo decisivo acquistato dalla macchina, lo strumento creato dall'uomo che, per un verso, moltiplica le capacita produttive dell'artigiano, per l'altro, offre alia speculazione dello scienziato la riprova tangibile della validita delle sue dimostrazioni. Non per caso Galileo, Cartesio e Pascal furono anche tecnici, costruttori di strumenti. Non si capisce il successo del meccanicismo filosofico se non si tien conto del fascino eserci'tato sulla ragione dal modulo-macchina, e cioe da una realta prodotta dalla ragione e interamente posseduta dall'uomo in quanto essere razionale animato dalla volonta di potenza. L'esemplarita della macchina ebbe una funzione regolativa in tutti gli ambiti della ricerca razionale. Essa divenne come un a priori da cui partire per ricostruire deduttivamente la realta, si trattasse pure della realta biologica.
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Ne aveva data l'esempio lo stesso Cartesio col suo tentative di spiegare l'uomo, e non solo nei suoi apparati fisiologici, alia stregua di una macchina. Il congegno meccanico ha questa di proprio, che i suoi pezzi restano inerti se l'uno non riceve la spinta dall'altro, in modo che l'effetto d'insieme risulta da un sistema di relazioni tra le parti, nel quale le costanti non sono che due: l'estensione e il movimento, ambedue riconducibili a misurazioni geometriche. L'ideale del Seicento e appunto in questa trasposizione dei fenomeni, di tutti i fenomeni, sia terrestri che celesti, dentro il regno della geometria, dove ogni oscurita scompare, dove non han luogo le forze occulte e dove si fa prati.cabile il passaggio dal momenta conoscitivo a quello operative. Nelle universita continua stancamente la tradizione scolastica, rna ormai non sono piu esse a produrre cultura. Il ruolo direttivo che esse avevano aile origini e passato ad altre mani, soprattutto aile Societa scientifiche, che nel Seicento erano nate in Italia, in Francia, in Inghilterra e in Germania. Nullius in verba, era il motto della Royal Society inglese. Come dire: qui non si giura sulle parole di nessun maestro. La spinta del nuovo razionalismo sperimentale non conosce confini, mira a penetrare anche in ambiti, come quello della politica, dinanzi a cui Cartesio e Pascal erano rimasti indifferenti e a superare tutte le barriere dei cieli, come avverra con Newton, che pure apportera al razionalismo cartesiano modifiche sostanziali. Nel corso di questa itinerario nascera presto il problema dei limiti della ragione. Ma anche in questa caso tocchera alia ragione fornire a se stessa la risposta e non ad altre istanze, nemmeno a quelle religiose. Gia Pascal, nel momenta culmine del cartesianesimo, aveva tentato di distinguere l'ordine della ragione geometrica dall'ordine del cuore che «ha ragioni che la ragione non conosce>> (5.16). Ma la sua distinzione appariva come viziata da una pregiudiziale mistica. Tocchera ad un suo.-ammiratore, John Locke, riprenderla in modo critico, e cioe assumendo l'intelletto come unica autorita capace di stabilire i limiti delle proprie possibilita. In ogni caso, sia che, ignara dei propri limiti, si dilati in tutti gli orizzonti per ridurre l'universo a sistema unitario, sia che ricerchi, con i propri sentimenti, i confini delle proprie competenze, la ragione resta signora di se stessa e del mondo. 6.2. La prima rivoluzione borghese. L'area geopolitica in cui avvenne, con particolare intensita, questa trasformazione nel segno della ragione fu quella che, a ridosso dell'imperialismo cattolico degli Asburgo spagnoli, si ando organizzando nella parte centro-settentrionale dei Paesi Bassi (l'odierna Olanda) e in Inghilterra e cioe nelle due nazioni che, sulla spinta della necessita politica, trovarono la lora identita nei principi religiosi della Riforma, soprattutto di quella calvinista. Fu durante la sua lunga guerra di liberazione, sotto la guida degli Orange, negli ultimi decenni del Cinquecento, che l'Olanda avvio le prime forme di organizzazione commerciale capitalistica e di navigazione d'alto mare, con sbocchi colonialistici. L'esito fortunate della sua latta politica dipese sostanzialmente dalla vittoria della Corona inglese contra la Spagna di Filippo II: di qui quella specie di
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parentela ideologica tra i due paesi che avra il suo sigillo quando, alfa fine del Seicento, un Orange salira sul trono degli Stuart. Con la morte di Elisabetta (1558-1603) la societa inglese, a causa della dissennata politica assolutistica di Giacomo .e di Carlo Stuart, e messa alle prove da una lunga e spossante guerra civile. Ne trarra profitto l'Olanda, che per tutta la prima meta del secolo avra l'egemonia del commercia marittimo, con straordinari incentivi alla produzione interna. Amsterdam divenne la capitale economica dell'Europa, come dire del mondo. Nel paese si ando formando una classe di industriali e di commercianti che lo mise in grado di affrontare guerre esterne e civili senza detrimento peril suo primato capitalistico. Gia Cartesio, durante il suo volontario esilio, aveva notato che ad Amsterdam non c'era nessuno che non fosse attivo nel commercia. Le intransigenze confessionali non potevano non cedere il passo alla necessita di rapporti giuridici ed economici fondati su principi comuni. Proprio in ragione del suo clima di relativa tolleranza, l'Olanda divenne terra di elezione per i gruppi religiosi perseguitati in altre parti d'Europa, come gli ebrei della penisola iberica, o i sociniani (i seguaci del senese Fausto Socini, predicatore, alla fine del Cinquecento, di un cristianesimo a tendenze razionalistiche, rifugiatosi in Polonia nel 1579), vittime del rincrudimento della Controriforma. Proprio dalla convivenza di confessioni cristiane cosi diverse (una convivenza minacciata dal frequente insorgere dello spirito di intransigenza congenito al calvinisimo) trassero alimento la ricerca di una 'religione naturale' che facesse da comune piattaforma e, venuta meno la legislazione direttamente religiosa dell'autorita, la ricerca delle basi razionali e convenzionali dello Stato. Tanto piu che, usciti dalla dominazione spagnola, i Paesi Bassi non erano stati in grado di raggiungere una struttura politica unitaria: a uno Statolder, il magistrato supremo, in costante tentazione di usurpare i poteri di un monarca (tanto piu che la carica era praticamente un diritto ereditario della famiglia degli Orange) si contrapponeva il Gran pensionario, che rappresentava le autonomie delle provincie, coordinando l'attivita dei loro capi, detti Reggenti. La storia olandese del Seicento e segnata dai conflitti ricorrenti tra i due partiti, quello degli orangisti e quello dei Reggenti, tradizionalista il primo, il secondo piu aperto alle esigenze progressiste della borghesia. Niente di strano, dunque, che l'Olanda divenisse illaboratorio in cui, sulla spinta della necessita storica, s'impostarono le grandi questioni che hanna caratterizzato il dibattito politico e religioso dell'eta moderna. Anche la storia dell'Inghilterra e, nel Seicento, dominata dal conflitto trail Parlamento, in cui i nuovi ceti di industriali e di commercianti si rifiutavano di far da strumenti dell'assolutismo regio, e la monarchia. Carlo I Stuart, a partire dal 1629, ricorse all'espediente di non convocare piu l'assemblea, per affidarsi a consiglieri energid e ligi ai suoi metodi assolutistici, come Stafford e come l' Arcivescovo Laud, deciso a imporre l'unita religiosa sotto la forma della chiesa anglicana. Questo 'colpo di stato' duro undici anni. Le sommosse si moltiplicarono, animate soprattutto dalle chiese calviniste, e Carlo fu costretto a convocare il Parlamento. La lotta tra i due poteri si trasformo in guerra civile. Sconfitto dall'esercito parlamentare, il re venne condannato a morte da un'Alta corte e giustiziato (1649). L'atto venne riprovato anche dal
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mondo protestante europeo, dove era largamente accettato il principia che la monarchia trae da Dio la sua autorita. Fu allora che il poeta Milton ribatte: «c'e una maggiore presenza divina in un popolo in atto di deporre un monarca iniquo che non in un re in atto di opprimere ingiustamente il suo popolo». Proprio nei momenti caldi della rivoluzione era stato firmato, dagli esponenti delle varie correnti radicali, un manifesto dal titolo Accardo del libero popolo d'lnghilterra, in cui si affermava che tutti i poteri vengono dal popolo (pili precisamente dal free people, con esclusione dei domestici, dei mendicanti e dei nullatenenti) e devono essere esercitati in funzione nel popolo. Tra le correnti pif1 estremiste dell'ala calvinista c'erano i levellers (i livellatori) e i diggers (gli zappatori), che ripetevano gli accenti rivoluzionari di Thomas Mtintzer (2.11) con grande risonanza nel popolo londinese. Quando Oliver Cromwell (1599-1658), leader dei puritani, instauro la repubblica. dovette fare i conti con questi fermenti che minacciavano l'unita dello Stato. Proclamatosi Lord protettore, instauro un metodo dihatoriale che gli guadagno la simpatia degli assolutisti, prima fra tutti Thomas Hobbes. Restaurata, nel 1660, la monarchia con Carlo II (1630-1685), ebbe inizio anche la repressione contro gli esponenti della dissidenza. Tra questi c'era John Fox, che, dopo anni di prigione, prese le vie dell'Atlantico per preparare, nelle Indie occidentali, la colonia dei suoi seguaci, la Pennsylvania. I Padri Pellegrini portarono oltre Atlantica le utopie divenute irrealizzabili in patria. Condizionato da un Parlamento dove si alternavano le influenze dei due partiti, il conservatore ( tor:v), fautore dei diritti regi, e il progressista (whig), fautore delle prerogative parlamentari, il re tento una via moderata, rna senza riuscire a mettere un freno alle tendenze intolleranti dei conservatori, specie in senso anticattolico. Col sucv'successore, il fratello Giacomo II, le cose precipitarono. Quando egli ebbe un figlio da una principessa cattolica, l'opposizione esplose. Il re prese le vie dell'esilio e, chiamato dal Parlamento, lo Statolder d'Olanda Guglielmo d'Orange, marito della figlia di Giacomo II, Maria, sbarco in Inghilterra. Era il 5 novembre 1688. L'anno seguente egli firmo una Dichiarazione dei diritti che segna una nuova tappa nella storia d'Inghilterra, anzi del mondo occidentale. La borghesia aveva vinto. Oltre che il potere econornico, essa ebbe in mano, d'allora in poi. anche quello politico. Sono queste le vicende sociali e politiche che fanno da sfondo al nuovo corso della ragione, ben al di la dei confini in cui l'aveva contenuta Cartesio. 6.3. Ugo Groz.io. Qualche anno prima che Cartesio scrivesse il suo Discorso, Ugo Grozio (1583-1645) (Huig de Groot, latinizzato in Hugo Grotius) aveva enunciato il suo programma di fondazione del diritto naturale, con queste parole d'ispirazione galileiana: Mi sono preoccupato di ricondurre le prove di cio che si riferisce alla legge di natura a certe concezioni fondamentali indiscutibili, che nessuno puo negare senza far violenza a se stesso. I principi di quella Iegge, se solo voi ne fate oggetto di attenzione, sono infatti in se chiari ed evidenti, quasi altrettanto evidenti di cio che noi percepiamo per mezzo dei sensi esterni.
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In Grozio la ricerca di una legge naturale su cui basare gli ordinamenti positivi dello Stato e le relazioni internazionali non fu dettata soltanto da esigenze intellettuali. Coinvolto nelle lotte religiose in Olanda, venne incarcerate a vita nel 1619. Nascosto in una cassa di libri, riusci ad evadere e si stabili a Parigi, dove, nel 1625, usci l'opera che lo rese celebre, Sui diritto di pace e di guerra (De jure pacis et belli). E il capolavoro del giusnaturalismo. Per giusnaturalismo s'intende la tendenza dottrinale che sostiene l'esistenza di norme di diritto naturale - jus naturale - anteriori ad ogni norma giuridica positiva. L'idea di un diritto fondato sulla natura razionale dell'uomo non era nuova: la sostennero gli stoici antichi, a cui difatti Grozio preferibilmente si riferisce, gli scolastici medioevali e, con particolare lucidita, gli scolastici del cinquecento, primo fra tutti de Vitoria (2.15). Ma Ia novita di Grozio e che egli ha costruito la sua dottrina col metodo degli assiomi di Euclide, more geometrico: Come i matematici considerano le figure astratte dai corpi, cosi io dichiaro di voler trattare il diritto prescindendo da ogni fatto particolare.
Anche Machiavelli aveva disegnato un'immagine di Stato su una sua idea di natura umana, rna questa principia immutabile egli lo coglieva comparando tra loro i fatti della storia. Come il geometra che ragiona sui solidi prescinde dalle lora qualita particolari, cosi Grozio, partendo da 'principi... chiari ed evidenti', disegna la sua dottrina deduttivamente, convinto che, cosi dimostrati, l'esistenza e i contenuti di un diritto naturale non p<,3ssano non apparire fondati sull'essere proprio dell'uomo, al punta che esso «avrebbe luogo anche se si ammettesse cio che non si puo ammettere senza delitto: che Dio non c'e o che non si cura degli affari umani••. La validita di una norma di diritto naturale non si basa su nient'altro che sulla sua intrinseca razionalita. La forza obbligante delle norme di diritto naturale e la stessa dignita razionale dell'uomo. Non c'e bisogno che quelle norme siano scritte: la lora tavola di bronzo e la stessa ragione. Ecco alcune di queste norme: L'astenersi da cia che e di altri; Ia restituzione di cia che possiamo aver tolto ad altri, con tutti i guadagni che possiamo averne tratti; l'obbligo di mantenere le promesse, di riparare ad una perdita avvenuta per colpa nostra e l'applicazione di penalita a ciascuno secondo il suo merito.
Nessuno puo modificare queste norme, nemmeno Dio: «Come Dio non puo fare che due e due non siano quattro, cosi non puo fare che cio che per sua intima ragione e male non sia male». Dal diritto naturale, basato direttamente su principi interni all'uomo, deriva il diritto volontario, che permette cose che il diritto naturale proibisce e proibisce cose che il diritto naturale permette. II diritto volontario si distingue: - in diritto civile o positivo, posto cioe dalla volonta del legislatore, - e in diritto delle genti (jus gentium), che nasce non immediatamente dalla natura umana rna dal consenso di tutti i popoli. Questa diritto sopravvive a regolare i rapporti fra gli Stati anche quando questi fossero in guerra tra loro.
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Per Grozio, la guerra rientra nei diritti naturali, perche rientra nel diritto, privata e pubblico, di legittima difesa, rna essa non crea un puro vuoto di norme. Sopravvive, anche in questa caso, la naturale socialita degli uomini, dotati tutti della medesima dignita razionale. E la dottrina di de Vitoria (2.5), ripresa e riproposta in un quadro logico, rna soprattutto in un quadro storico radicalmente diversi. In questa sensa Grozio puo considerarsi giustamente il fondatore del diritto internazionale. 6.4. I temi del giusnaturalismo. Nel pensiero di Grozio si trovano alcuni temi destinati ad ampi sviluppi nella cultura del suo secolo e soprattutto in quello successivo. Cosi come c'e, nella natura dell'uomo, una Iegge che sta prima di ogni altra Iegge positlva, cosi c'e una religione naturale, anteriore a tutte le religioni positive, compresa quella cristiana. Non e un tema nuovo. Basti ricordare, fra i piu vicini a Grozio, Tommaso Campanella (3.12). Solo che in Grozio (autore di un libra apologetico di grande diffusione, Della vera religione cristiana del 1627), il tema e svolto con una duplice esigenza: quella di ricondurre il concetto di religione entro le misure della ragione, ricollegandosi all'altro padre dell'Olanda, Erasmo, e quella di stabilire, in un'eta di feroci contrasti (la sua attivita di scrittore si svolge per intero nel periodo della Guerra dei trent'anni), una base di concordia che favorisse la tolleranza e il dialogo. Egli e convinto che la religione cristiana porta a pienezza la religione naturale e comprende alci.me verita che la ragione da sola mai avrebbe raggiunto. Ma anche questa sua coerenza con la sua professione di fede si mantiene, in lui, dentro le forme di una ragionevolezza che richiama la hfimanitas erasmiana. In Grozio, e piu in genere nei giusnaturalisti - ricordiamo, anteriore a lui, Giovanni Altusio (1557-1638) e, posteriore, Samuele Pufendorf (1632-1694)- il potere politico nasce da un contralto sociale, che e insieme un patto di unione tra i cittadini e un patto di sudditanza al potere. La nozione di contratto entra nelle esigenze di fondazione razionale dello Stato. Niente e piu chiaro, tra gli atti pubblici, - nessuno lo sapeva meglio di un olandese - di un contratto in cui le parti assumono obblighi e pongono condizioni. Ed e in questa sensa che nella spiegare l'origine della Stato i giusnaturalisti ricorrono a questa analogia giuridica: una specie di finzione per stabilire, piu che l' origine cronologica, l'origine logica della Stato. L'origine logica e appunto la volonta degli individui che, in vista di un vantaggio comune, rinunciano ad alcune liberta e conferiscono il potere ad altri. Sui limiti di quella rinuncia e di questo potere non si da piena concordia fra i giusnaturalisti: per Altusio, ad esempio, la sovranita resta nel popolo che, nel contratto, la delega al re, rna a condizione che egli ne faccia buon uso; per Grozio il trasferimento della sovranita e senza revoche, salvo casi eccezionali. Per il prima, il popolo puo deporre il re, per il secondo no. Logicamente connessa alla nozione di contratto sociale e quella di stato di natura, che anch'esso va inteso non come una condizione storica anteriore allo Stato, rna come immagine della anteriorita dell'individuo nei confronti della Stato e quindi del carattere 'artificiale' di questa. In fonda, quel che emerge, e in forma davvero radicale, e quanta gia Machiavelli aveva detto, in altro modo, sull'uomo creatore dello Stato, al di fuori
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di ogni dipendenza da prescrizioni trascendenti. L'uomo, come soggetto di diritti e come cittadino, vive ormai in piena 'autarchia', per usare un termine caro agli stoici, <
Hobbes 6.5. Dalla metafisica alia meccanica. II progetto di ricondurre anche lo Stato dentro le regale della ragione geometrica aveva, nel giusnaturalismo, un limite: i principi da cui esso deduceva le articolazioni del diritto naturale e, al loro interno, quelle della vita dello Stato e delle relazioni internazionali, erano di ordine metafisico. Affermare, come Grozio, che essi erano di per se 'chiari ed evidenti' non era una maniera di eludere, alla stregua di Cartesio, le esigenze critiche della ragione? La fondazione razionale dello Stato (talmente razionale da rendere inutile perfino l'ipotesi di Dio) non chiedeva for~e una pitt rigorosa fedelta all' esperienza, da intendere a sua volta come esperienza senscJriale, sgombra di ogni ricorso allo stratagemma delle idee innate, degli a priori chiari ed evidenti? Ad operare lo spostamento della razionalita geometrica dall'asse metafisico deduttivo a quello meccanicistico induttivo fu Thomas Hobbes*. Il risultato, per quanto riguarda la dottrina dello Stato, e che davvero in Hobbes lo Stato diviene come una grande macchina, simile a quegli automi che Cartesio aveva osservato nei giardini del re e aveva assunto come modelli nella sua costruzione .meccanicistica dell'uomo. Per aver subito un'idea della paradossale impresa di Hobbes e del suo netto distacco, pur all'interno del medesimo spirito geometrico, dal giusnaturalismo, merita leggere una pagina introduttiva del suo Leviatano, dove gli automi, il corpo urnano e lo Stato vengono collocati tutti e tre entro il medesimo principia meccanicistico. La natura. l'arte per il cui tramite Dio ha fatto e governa il mondo, e imitata dall'arte dell'uomo, come in altre cose, anche in cio, nel senso che
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_puo dar luogo ad un animale artificiale. Infatti, se vediamo che la vita none altro che un moto delle membra, movimento il cui principio si trova all'in- · terno di una qualche componente fondamentale, perche mai non ci dovrebbe essere lecito dire che tutti gli automi (congegni che si muovono per leve e rotelle al pari di un orologio) hanno una vita artificiale? Del resto, infatti, che cos'e il cuore se non una pompa, che cosa sono i nervi se non altrettante corde, le articolazioni altrettante ruote, che conferiscono il moto a tutto il corpo, cosi come ha voluto il loro artefice? L'arte, tuttavia, va ancora oltre, in quanto riesce ad imitare addirittura quella razionale ed eccellentissima opera della natura che e l'uomo. Infatti ad arte viene creato que] grande
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Thomas Hobbes nasce nel 1588 a Malmesbury, e nasce di parto prematuro, provocato dal terrore in cui era caduta sua madre alla notizia che l'Invincibile .Armata di Filippo ll era in rotta verso l'Inghilterra. «Io e la paura - dira Hobbes - siamo nati insieme». Dopa gli studi entra come precettore nella famiglia nobile dei Cavendish alla quale rimarra attaccato tutta la vita. In questa veste egli fa tre viaggi. Dal1610 al 1613 e in Francia e in ltalia. In questa periodo intraprende la traduzione della Storia della guerra del Peloponneso di Tucidide, uno storico che predilige perche in qualche modo prefigura la scientificita della rieostruzione dei fatti e perche e un avversario della democrazia. Durante il secondo viaggio (16291631) fa la scoperta degli Elementi di Euclide, che gli ispirano l'idea di una dottrina politica fondata sulla ragione. Durante il terzo viaggio (16341637) ha una conversazione, ad Arcetri, col vecchio Galileo e a Parigi stringe rapporti col circolo di Mersenne. A Parigi lorna, in volontario esilio, nel 1640: Carlo I Stuart aveva .f1Perto il «Lungo Parlamento» dove sedeva Oliver Cromwell, e Hobbes, difensore dell'assolutismo regia, non si sentiva sicuro. Ha gia scritto gli Elementi di legge naturale e politica, che circolano clandestini. Sono appena un abbozzo dell'opera ponderosa, Elementi di filosofia, che intanto ha gia progettato in tre parti: Sul corpo (de corpore); Sull'uomo (De homine); Sul Cittadino (De cive). Comincia col pubblicare, nel 1642, ['ultima parte, Sul cittadino. NeZ frattempo ha composto le Obiezioni terze che appaiono nelle Meditazioni di Cartesio (1641). NeZ 1646 lo raggiunge a Parigi Carlo Stuart, il principe ereditario, per sottrarsi al clima tumultuoso di Londra. I rivoluzionari hanna la meglio, il re e giustiziato, si instaura la Repubblica. Hobbes, a cui piu ancora che il re sta a cuore il regime assoluto, fa pubblicare a Londra il suo capolavoro, il Leviatano (Leviathan e, nel libra di Giobbe, un mostruoso coccodrillo che «non ha uguale sulla terra e che e stato creato peril timore») e nella stesso anna (1651) rientra in patria, favorito da un'amnistia. Nel 1655 pubblica il suo Sul corpo (De corpore) e nel 1658 il Sull'uomo (De homine). Tornati al potere gli Stuart con Carlo ll, gia suo discepolo, non viene piit disturbato se non dalle violente polemiche contra il suo 'materialismo' e il suo 'ateismo'. Di questa clima risentono i suoi ultimi scritti, di scarsa importanza filosofica. Muore a 91 anni.
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Leviatano che si noma cosa pubblica o Stato - in Iatino civitas - il quale altro none che un uomo artificiale, sebbene di statura e forza assai maggicr re dell'uomo naturale, alia cui protezione e difesa e deputato. In questo, la sovranita e un'anima artificiale, in quanto conferisce vita e movimento all'intero corpo; i magistrati e gli ufficiali, deputati a giudicare e ad eseguire, sono le sue articolazioni artificiali; il premio e la punizione, in forza dei quali ogni articolazione e membro e spinto a compiere il proprio dovere, scr no i nervi, che svolgono la medesima funzione, che apprezziamo nel corpo naturale; il benessere e le ricchezze di tutti i membri particolari ne costituiscono la forza; la salus populi, la sicurezza del popolo, la sua occupazione; i consiglieri dai quali vengono suggerite tutte le cose che e necessario egli ccr nosca, sono la memoria; l' equita e le leggi ragione e volere artificiale; la concordia la sua salute, la sedizione il suo morbo, la guerra civile-la sua morte. Per finire, i patti e le convenzioni in forza delle quali le parti di questo corpo politico sono prima fatte, messe insieme ed unite, ricordano da vicino quel fiat o 'facciamo l'uomo' pronunciato da Dio all'atto della creazione.
Difficile trovare, in tutta la letteratura consacrata all'assolutismo statale, una pagina cosi perfetta e insieme cosi adatta ad ispirare, in nome della coscienza morale, un deciso rigetto dell'assolutismo. Ma se, per capire la moderna storia degli Stati, anche quando none storia di oppressioni, giova comprendere le ragioni teoriche che l'hanno ispirata, allora niente e utile quanto Ia conoscenza del pensiero di Thomas Hobbes. 6.6. II materialismo metodologico. Nell'ordine dell'intenzione, il primo problema di Hobbes e quello politico, nell'ordine logico e invece il problema della conoscenza, risolto da lui in maniera meccanicistica. Come appare in modo lampante nel campo geometrico, dice Hobbes, cono5cere e generare. Noi conosciamo davvero solo cia di cui riusciamo a ricostruire la generazione, allo stesso modo che in geometria noi conosciamo perfettamente le figure perche siamo noi a tracciarne le linee. Ci sia o no una realta esterna e questione irrilevante o comunque irrisolubile, per il semplice fatto che noi non ci incontriamo mai con essa, ci incontriamo sempre e soltanto con le immagini che ce ne da la sensazione. E la sensazione non e che movimento. Movimento sono le qualita primarie che attribuiamo al corpo esterno, e movimento sono, in maniera evidente, le qualita secondarie che insorgono nel soggetto in reazione all'azione dell'oggetto. Ma soggetto e oggetto non indicano due realta l'una contrapposta all'altra, indicano due ordini di fenomeni, distinguibili tra loro solo in base alia discriminante di passivita (soggetto) o attivita (oggetto). Ma dal fenomeno non si esce. Quando la sensazione decade in uno stato di inerzia, diventa immaginazione: finito l'atto del sentire, ci resta l'immaginare. Il mondo immaginato sostituisce quello sentito e lo sostituisce a tal punto che se, per ipotesi, il mondo reale venisse annientato (e l'ipotesi annichilatoria), le immagini prodotte in antecedenza dalle sensazioni resterebbero e costituirebbero la materia sufficiente del ragionamento. II senso vero di quest'ipotesi e che la scienza e una costruzione del soggetto, il quale, non appena la sensazione si tramuta in immagine (fantasma), procede per conto suo, secondo la legge della coerenza logica. Per Hobbes l'idea e
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l'immagine sono la stessa cosa. Se questo e vero, se ewe l'idea non ha nessun carattere di universalita perche identica alle immagini particolari, come sara possibile costruire un sapere scientifico? La risposta di Hobbes e quella del nominalismo, condotto agli estremi. I fantasmi prodotti in noi dalle sensazioni si unificano non gia in concetti (il che comporterebbe una conoscenza di secondo grado, spirituale) rna in puri e semplici nomi. Siamo noi a raggruppare cose tra loro somiglianti sotto uno stesso nome. Il ragionamento non fa che combinare i nomi tra loro, secondo un procedimento matematico. Se io dico che l'uomo e <
E. facile capire che il razionalismo hobbesiano non ha nulla a che fare non solo con quello aristotelico, basato sulle essenze extramentali, rna nemmeno con quello cartesiano, basato sulle idee innate, anteriori ad ogni esperienza. Il mondo della ragione e per Hobbes una produzione mentale i cui elementi primi sono i nomi con i quali, per convenzione, gli uomini chiamano le cose. La ragione ha una funzione puramente formale, tutta interna al 'fenomeno' prodotto dalla sensazione. I1 giudizio ontologico sull'esistenza delle cose esterne e sull'esistenza dell'anima supera 1~ sue possibilita. Nella quarta obiezione alia seconda delle Meditazioni cartesiane, Hobbes chiarl. il suo pensiero in modo sintetico: Con Ia ragione nulla noi possiamo concludere a riguardo della natura delle cose rna solo a riguardo dei loro nomi. Per suo mezzo noi vediamo semplicemente se raggruppiamo bene o male i nomi delle cose secondo le convenzioni da noi stabilite a nostro arbitrio circa illoro significato. Se cosi e, come sembra, il ragionamento dipendera dai nomi, i nomi dall'immaginazione e l'immaginazione forse (questo e il mio parere) dal movimento degli organi corporei; e cosi lo spirito non sara nient'altro che un movimento in certe parti dei corpi organici. Abbiamo gia visto (5.3) come Hobbes valuti l'io penso cartesiano. Da esso si puo inferire soltanto che io sto pensando e non che io sono una cosa pensante, e cioe una cosa la cui essenza sia il pensiero. Il materialismo o, come forse sarebbe meglio dire, il fenomenismo metodologico di Hobbes e coerente. Tutta la realta, sia oggettiva che soggettiva, si riduce alia combinazione di due elementi primi, il corpo e il movimento. Lo spazio e il tempo non sono che rap-
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presentazioni soggettive: lo spazio e la dim.ensione rappresentativa del corpo, e il tempo e la dimensione rappresentativa del movimento. Il meccanicismo di Hobbes riguarda, dunque, non la realta in se, di cui non si da conoscenza diretta, rna la rappresentazione che noi ne abbiamo. 6.7. II materialismo etico. Se la fisica studia il movimento dei corpi, l'etica studia il movimento dell'animo. I corpi esterni, col loro movimento, ci modificano, provocando una reazione da parte del nostro istinto fondamentale che e quello di conservazione. Se la pressione sensoriale e conforme a quell'istinto, noi abbiamo una reazione di piacere, se e difforme, la nostra reazione e di dolore. La nostra propensione per le sensazioni che producono piacere la chiamiamo amore e chiamiamo odio la nostra avversione per le sensazioni dolorose. Il piacere e il dolore, considerati nelle loro cause, diventano il Bene e il Male, tra i quali dunque non c'e distinzione oggettivamente fondata, c'e la distinzione che, sulla base dell'esperienza sensoriale, il soggetto opera mediante l'attribuzione dei nomi. In ultima istanza, il bene e il piacere e il male e il dolore. Con questa identificazione Hobbes riassorbe anche la sfera della morale nel meccanismo fisiopsicologico degli istinti e, pili precisamente, di quell'istinto fondamentale che e l'istinto vitale. L'istinto e anch'esso un movimento: nella sua condizione di desiderio appena incipiente esso e un conatus, un movimento contratto nella lunghezza di un punto: «in un istante o punto del tempO>>. Invece, quando il movimento istintuale e in procinto di giungere all'atto, si dice volonta. La quale none dunque una facolta distinta dagli istinti, e lo stesso istinto nel punto estremo in cui passa all'attuazione, e la risultante effettiva delle spinte istintive che si agitano nell'uomo. Non e il caso di attribuire alla volonta la liberta di scelta: la scelta e un risultato meccanico dei movimenti. La liberta consiste nell'assenza di impec.fimenti all'azione e non nella facolta di autodeterminarsi, e una dimensione esterna e non interna del soggetto umano. 6.8. Lo stato di natura e il contratto sociale. La dottrina sull'uomo ha in Hobbes la funzione che hanno in geometria i prindpi di Euclide. E. infatti a partire dalle premesse meccanicistiche appena esposte che egli deduce, more geometrico, la sua dottrina politica. Anche Machiavelli aveva costruito il suo principato assumendo come misura architettonica l'uomo cosi com'e nella realta, dominato da leggi che hanno la stessa fissita delle leggi di natura. Ma per determinare queste leggi Machiavelli consulta le storie, che narrano le vicende recenti o remote dei popoli e dei principi. Hobbes, anche se comincio la sua attivita di scrittore con la traduzione di Tucidide, non ha bisogno, per disegnare la sua dottrina dello Stato, dei documenti della storia, gli bastano i principi della meccanica, totalmente astorici. Anche i giusnaturalisti contemporanei di Hobbes facevano dello Stato una costruzione della ragione del tutto autonoma dalla teologia e articolata secondo la necessita geometrica, rna i principi primi della loro costruzione non erano affatto quelli della meccanica, erano principi metafisici e quindi finalistici, trasparenti alla ragione come le idee innate di Cartesio. In Hobbes, che pure adotta alcune nozioni fondamentali delle dottrine giusnaturaliste, la necessita dello Stato e puramente mecca-
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nica ed ha i suoi elementi fondamentali nella struttura dell'uomo appena esposta: l'istinto di conservazione e la ragione come funzione regolatrice dell'istinto. 1. Nel suo stato di natura l'uomo e totalmente in preda al suo istinto vitale, che lo porta a bramare tutto cio che puo dargli piacere e a fuggire tutto cio che puo dargli dolore. Non essendo ancora sorto lo Stato a determinare quel che e giusto e quel che e ingiusto, l'animale-uomo ha diritto su tutto, senz'altra remora che quella che gli viene dalla paura dell'altro uomo, dato che ogni altro suo simile obbedisce alla sua stessa spinta istintiva. Per esprimere questo primordiale conflitto di istinti identici e fatalmente contrapposti - una guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes) - Hobbes definisce l'uomo di natura con le parole di Plauto: un 1-i.Ipo per l'altro uomo: homo homini lupus. Siamo, come si vede, al polo opposto della dottrina aristotelica dell'uomo 'animale politico'. Nulla c'e, nell'intima natura dell'uomo, che lo porti a ricercare una pacifica convivenza con gli altri. Nulla, fuori che la paura di una morte violenta. Ci si e chiesti se Hobbes descrivendo lo stato di natura si rifacesse ad una condizione umana realmente esistita (potrebbero averlo suggestionato in questo senso alcune relazioni di viaggiatori sulle tribu d'oltreatlantico) o piuttosto intendesse illustrare quale di fatto sarebbe la convivenza umana qualora venissero meno gli ordinamenti positivi dello Stato. E forse questa seconda l'ipotesi pili giusta, soprattutto se si tiene conto dell'esperienza di Hobbes, vissuto, dalla nascita alla morte, in una societa perennemente oscillante tra l'assolutismo e l'anarchia. L'uomo naturale e lo stesso uomo civilizzato qualora si spogliasse della corazza repressiva della Iegge. Lo stato di natura resta latente, come possibilita mai del tutto vinta, sotto l'involucro degli ordinamenti positivi. Del resto - argomentava Hobbes nella sua introduzione al De Cive - si ):mardi che cosa sono gli Stati, non al loro interno rna nelle !oro relazioni redproche: ciascuno si attribuisce il diritto su tutto e solo la paura lo rattiene. E ai suoi tempi era ancora di la da venire I' equilibria del terrore, unica garanzia di pace nell'era atomica. 2. La paura della morte violenta ha come suo risvolto naturale il desiderio di conservare la vita. Ed e qui che interviene la ragione, indicando le leggi seguendo le quali e possibile conservare la propria vita. II discorso sulle leggi di natura ha, nella costruzione hobbesiana, un valore logico fondamentale. Da una parte, non esistendo ancora una garanzia della !oro osservanza, esse sono inutili, dall'altra e proprio dalla esigenza di stabilire una garanzia della !oro osservanza che nasce la fondazione dello Stato. La prima delle leggi di natura e la ricerca e la conservazione della pace, come condizione per la conservazione della vita. La seconda Iegge e cos! formulata da Hobbes: «L'uomo spontaneamente, quando tutti lo facciano e per quanto giudichera necessaria alla pace e alia sua difesa, deve rinunciare al suo diritto su tutto e accontentarsi di avere tanta liberta rispetto agli altri, quanto egli stesso ne riconosce agli altri rispetto a se». Queste prime due leggi ne postulano una terza, che gia prelude all'uscita dallo stato di natura: la disposizione a rinunciare ai propri diritti in vista della pace conduce a stringere dei patti, e <>.
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E appena necessaria far notare che queste leggi, compresa l'ultima, non traggono la loro forza vincolante se non dal calcolo dell'utilita. La ragione e appunto la facolta di servire l'istinto mediante il calcolo. Per quanta circoscritte nella sfera dell'utilita, le leggi naturali integrano in se quei prindpi di condotta che tradizionalmente rientrano nella sfera della morale, come l'equita, la fedelta, la misericordia e che in Hobbes acquistano paradossalmente il carattere di prescrizioni della stesso istinto di conservazione. Esse comunque non sono vere e proprie leggi, in quanta· mancano di un elemento costitutivo della legge, la sanzione coercitiva. Per uscire dallo stato di guerra universale non bastano le garanzie morali dell'osservanza dei patti con cui gli uomini si obbligano reciprocamente: resta sempre il pericolo che la concordia si infranga dinanzi al contrasto tra bene privata e bene comune. «I patti senza la spada non sono che parole». Occorre qualcosa di piu che il reciproco accordo. 3. Questa qualcosa di piu e il potere coercitivo, costituito con un atto che richiama il contralto sociale teorizzato dai giusnaturalisti, rna che in Hobbes ha caratteri peculiari. Per lui il contratto sociale consiste nel trasferimento volontario da parte di tutti del loro diritto naturale, che e diritto su tutto, in favore di uno solo. Ma piu che di trasferimento vera e proprio si tratta di una rinuncia spontanea di tutti al proprio diritto a vantaggio di uno che invece, rimanendo estraneo al patto, lo conserva in pieno. Come si vede, non si tratta di un patto tra i sudditi e un sovrano. II patto nasce tra gli individui che vengono a formare il corpo della Stato, e porta con se, in virtu della rinuncia ai diritti naturali, la sottomissione totale al sovrano, il quale dunque e la fonte di ogni legge, rna resta al di sopra della Iegge. 6.9. II Leviatano. Nella descrizione della Stato assoluto (assoluto nei due sensi della parola: 'sciolto' da ogni vincolo di reciprocita coni sudditi; 'sciolto' da ogni dipendenza da qualsiasi legge superiore) sbocca, come a suo termine stabilito, l'intera riflessione hobbesiana. L'immagine del'-mostro biblico, che da un volta intuitivo allo Stato costruito con cos!. lungo cammino logico da Hobbes, non inganni. Cio che sta dietro alia immagine e una certa idea della sovranita della Stato, una sovranita che non deriva da altri che dal corpo sodale; che non riconosce limiti ne nell'opposizione dal basso ne neUe sanzioni morali di qualsivoglia potere; che, finalmente, non e la ,pura somma della sovrani ta dei ci ttadini. Una volta costituito con una decisione irreversibile, lo Stato ha sovranita indivisibile (nulla in Hobbes che prefiguri la distinzione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, della quale si fara vanto la democrazia moderna) e senza limiti, almena nel sensa che la distinzione tra il giusto e l'ingiusto none anteriore ne indipendente dal potere, peril semplice fatto che e il potere a stabilirla. Le leggi naturali infatti non possono mai essere invocate contra il potere: prive come sono di sanzione coercitiva (se l'avessero, sarebbero leggi civili) esse conservano valore solo nella interiorita della coscienza. Per quanta le simpatie di Hobbes siano per la forma monarchica, la sua dottrina si attaglia allo Stato come tale, indipendentemente da dove si colloca - in una persona o in
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un parlamento- il suo potere. Anche la questione della legittimita del potere costituito e senza rilevanza: il contratto sociale non e necessariamente un evento empirico, documentabile. Quel che conta e che chi ha il potere di fatto, sia in grado di esercitarlo, si tratti di Cromwell o di Carlo II, il prima un dittatore nato dall'anarchia, il secondo un re divenuto tale per investitura dinastica. Allo stesso modo, la legge e giusta se chi la promulga ha la forza di farla eseguire. Contestarla in nome di principi esterni ad essa, come la legittimita del sovrano, o come la legge morale e religiosa, e un non senso. Il giusnaturalismo si capovolge cosi in positivismo giuridico e cioe in una giustificazione della legge per il solo fatto che essa possiede la forza di farsi eseguire. E naturale che, all'interno di uno Stato cosi compatto e cosi pervaso in ogni sua parte da un'unica sovranita, non ci sia posto per altre forme di associazione che rivendichino anche solo una parziale autonorriia nei confronti del potere. La chiesa stessa rientra in questa regola. Hobbes dedica l'intera III parte del Leviatano alla questione dei rapporti tra Stato e chiesa e lo fa usando largamente, con acume e con spregiudicatezza, della Sacra Scrittura. Ribaltando la tesi tradizionale sul primato della chiesa per quanto riguarda l'ordine eticoreligioso, Hobbes assegna al sovrano il compito di vero capo della chiesa, non solo sul piano della disciplina rna anche su quello della interpretazione della Parola di Dio. E vero, si, che il sovrano, esente da ogni legge, resta soggetto alIa volonta di Dio, rna siccome tocca a lui decidere che cosa di volta in volta Dio voglia, illimite della sua sovranita e puramente formale. Hobbes pensa alIa chiesa anglicana, la cui storia d'altronde era gia segnata fin dalle sue origini dalla rivendicazione regia di una piena autonomia, anche in questioni morali, dinanzi alla chiesa cattolica. Hobbes integra quella pratica nel suo teorema politico, rigettando, da una parte, le pretese puritane e in genere calvinistiche sui 'lihero esame' e, dall'altra, rna con virulenza priva di ogni ritegno, Ia rnondanita della chiesa cattolica, vero 'regno delle tenebre', che identifica se stessa col Regno di Cristo, fa del papa un Dio in terra e, propaganda superstizioni di stampo pagano, estende per opera dei suoi preti il suo dominio sulle coscienze. Il papa non ha nessun diritto di la\).ciare scomuniche: questa diritto, anche in materia di fede, tocca solo a! sovrano. Parrebbe, dunque, che la sovranita della Stato non abhia dinanzi a se nessun limite. Ma non e cosi. Intanto essa si arresta alia soglia delle coscienze: finche non entra nella zona regolata dalla Iegge, l'individuo rimane, come nella stato di natura, totalmente libero. Nessuno dunque puo essere perseguito per le sue idee rna solo, eventualmente, per Ia !oro manifestazione. Non solo, rna Ia liberta individuale resta intatta in ogni ambito in cui la legge tace. E finalmente non si dimentichi che il contratto sociale nasce per una ragione, la tutela della vita dei sudditi, ragione che sopravvive non gia come un limite alla sovranita rna come una clausola risolutiva dell'obbligo all'obbedienza, come nel caso che il sovrano ordini ad uno di togliersi la vita o di mutilarsi o come nel caso, ben piu interessante, che il sovrano ordini a un suddito di partecipare a un combattimento quando non sia in gioco la stessa incolumita della Stato. II cittadino che tugge, non cornmette ingiustizia, sebbene il sovrano (e qui torna l'ombra del Leviatano) conservi il diritto di punirlo con la morte. Come in questa caso, in molti altri Hobbes cerca di uscire dalla inesorabile
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trama logica della sua geometria dell'assolutismo statale, rna senza riuscirvi. E tuttavia in questi tentativi c'e il sintomo che la novita del suo sistema non e dove sembra essere, non e cioe nell'esaltazione del potere assoluto. E nella pretesa di porre lo Stato moderno come opera della ragione umana, non subalterna a nessun altra ragione; e nel far derivare il diritto positivo non gia dal diritto naturale rna dalla volonta della Stato; e soprattutto nel disciogliere dentro l'unica sovranita della Stato tutte le sopravvivenze d'anarchia feudale e tutta l'inquieta fermentazione libertaria che stava allora disgregando la societa europea, rna specialmente la societa inglese, nel cui seno la borghesia stava cercando le vie della propria egemonia. Lo Stato e un parto dell'uomo, e dell'uomo in quanta si trova in una situazione di individuo uguale agli altri e in competizione con altri. La nozione di cittadino com:e soggetto di diritti e gia implicita nel mito hobbesiano. Sotto la scorza del Leviatano c'e, in sostanza, l'individualismo borghese, che celebrera i suoi trionfi nel secolo successivo, rna a cominciare, e proprio in Inghilterra, dagli anni appena successivi alia morte di Hobbes.
Newton 6.10. Dalla metafisica aile scienze: l'ultimo passo. Nella stesso anno (il 1687) in cui usci illibro fondamentale dello scienziato inglese Isaac Newton*, il poeta John Dryden compose una canzone ispirata alia 'musica delle sfere celesti': Dall'armonia, dalla celeste armonia ebbe origine questa trama universale. Di armonia in armonia essa si svolse a ttraverso tu tto I' a reo delle note. Il diapason si raggiunse nell'Uomo.
Nonostante Copernico, Keplero, Galileo, la struttura del cosmo rimaneva ancora, nella cultura della fine del '600, quella elaborata durante i tredici secoli di tradizione aristotelica e neoplatonica. Per quanta fosse caduta la parete che separava, quasi fossero di natura diversa, il cielo e Ia terra; per quanto il moto delle sfere fosse stato ricondotto ai principi della matematica e della fisica ai quali obbediscono i muvimenti della terra; per quanta, violata dal cannocchiale, la regione dei cieli apparisse dominata dalle stesse leggi meccaniche che regolano i fenomeni terrestri, il distacco tra le armonie metafisiche della Causa prima e le armonie fisiche del cosmo non aveva ancora trovato il suo fondamento scientifico. La matematica manteneva il ruolo privilegiato di forma conoscitiva misurata sull'essenza del cosmo, la cui trama geometrica riflette in se la Sapienza creatrice. E qui, in questa ultima sponda del conoscere, la scienza si unificava con la filosofia e con la teologia. Le fondamenta dell'universo restavano fuori del raggio della conoscenza sperimentale. E quando, come capita a Cartesio (5.6), si tento di ricondurre tutti i fenomeni del
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cosmo a un medesimo principia esplicativo, si entro nel mondo arbitrario delle ipotesi non verificabili, come quella dei 'vortici', in cui la scienza negava se stessa tramutandosi, come fu detto, in un romanzo scientifico o, come noi diremmo, in fantascienza. Insomma, in quanto sistema, il mondo conservava il suo centro oltre i confini della razionalita, la dove l'armonia di Dio e quella della sua creazione sono una sola cosa. Tocco a Newton portare a termine la rivoluzione scientifica facendo dell'universo un sistema basato su di un unico principia e su di un principia intelligibile, almeno di quella intelligibilita di cui la scienza ha bisogno per essere se stessa. Anche se egli non se ne rese perfettamente conto (difatti si occupo ampiamente di questioni teologiche), fu proprio perche con lui la scienza entro in possesso dei propri principi primi e in base ad essi avvio il riordinamento sistematico delle proprie cognizioni che fini per sempre la confusione tra gli ordini di conoscenza filosofico e scientifi-
Isaac Newton nasce nel 1642 a Wollsthorpe, nella contea di Lincoln. Compie i suoi studi a Cambridge dal1660 al1665, anna in cui diviene baccelliere. A causa di un'epidemia di peste l'Universita chiude i battenti e Newton si ritira nel suo paese natale, dove resta per due anni in fruttuoso raccoglimento. Proprio in questi due anni, infatti, egli pone le basi e le linee fondamentali della sua grandiosa opera, compiendo studi originalissimi sul calcolo infinitesimale, sulla rifrazione della luce, e soprattutto sulla forza di gravi(a (in base a un'intuizione avuta, secondo la leggenda, nell'osservare una mela cadere dall'albero) e tenendosi in contatto epistolare con gli scienziati del tempo. Rientrato a Londra, si guadagna l'ingresso nella Royal Society con l'invenzione di un telescopio a specchi, nel 1671. E dinanzi alla Royal Society che ['anna dopa presenta la sua teoria sui colori, suscitando ammirazioni e controversie. In fervida collaborazione con altri scienziati (tra di essi l'astronomo Edmund Halley, lo scopritore della cometa che porta il suo nome) conduce ricerche sulla forza di gravitazione, e prepara la sua opera fondamentale, Principi matematici di filosofia naturale, che esce, in trecento esemplari, nel 1687. Delle cinquecento pagine, divise in tre parti, le piu importanti sana quelle della Ill parte, in cui Newton espone il sistema del mondo e, a conclusione, le Regole di filosofia, che rimaneggera nelle successive edizioni. Eletto al trona Guglielmo d'Orange, Newton diviene deputato al parlamento, dove si distingue per le posizioni progressiste e dove fa amicizia col filosofo John Locke. Terminato it mandata, e colpito da un grave esaurimento da cui non si riavra piu del tutto. La sua attivita perde di vigore e di originalita ma non si arresta. Nel 1703 e presidente della Royal Societv. Cura le edizioni delle sue opere, tra le quali malta importanza ha l'Ottica del1703, ripubblicata nel 1717 con l'aggiunta di 31 Question~· si occupa intensamente di problemi religiosi, con particolare attenzione alla Bibbia; porta avanti una controversia con Leibniz per rivendicare la priorita nell'invenzione del calcolo infinitesimale. Muore, onoratissimo, nel 1727.
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co (Galileo e Cartesio erano, a un tempo, epistemologi, scienziati e filosofi). La scienza comincio a vivere soltanto delle proprie risorse e la filosofia fu costretta a ricercare con piu precisione l'ambito suo proprio. 6.11. II metodo. Nella seconda delle Regale di filosofia, che potremmo considerare il discorso del metodo di Newton, si legge: Effetti naturali dello stesso genere debbono riferirsi a cause uguali. Cosi Ia respirazione nell'uomo e nella bestia, la luce del fuoco quaggiu e nel sole, · la riflessione della luce in terra e nei pianeti.
E questo il principio pi-imo (uno di quei principi che secondo Pascal 'si sentono', non si dimostrano) da cui parte Newton nella ricerca che lo avrebbe condotto a proporre 'il sistema del mondo'. Il metodo che egli segue e lo stesso di Galileo, rna con una variazione di fondo: egli non si propone lo scopo di descrivere il mondo secondo la sua verita oggettiva, rna nel suo modo di procedere, nel nesso che hanno i fenomeni tra )oro, senza pretendet·e di sapere quale sia la 'natura' che sottosta ai fenomeni. Anche Galileo indagava sul come, non sui perche dei fatti di natura, rna, cambiando la veste dello scienziato con quella del filosofo, non sapeva rinunciare a interrogarsi sulla rispondenza dei risultati della ricerca con il mondo in se. E il mondo in se egli lo pensava in modo tale da poterne dedurre gli stessi effetti · che era riuscito a determinare matematicamente nella ricerca sperimentale. E cosi era naturale che per lui il mondo fosse un libro scritto in figure geometriche. Questo fascino della deduzione scientifica fu subito anche da Cartesio: il mondo in se era per lui niente altro che estensione piu movimento. Affidandosi a questa premessa filosofica, egli aveva spiegato il moto dei pianeti attorno al sole con la dottrina dei vortici. Fu alludendo a simili spiegazioni che Newton scrisse, verso la fine dei suoi Principi, la famosa frase: Hypotheses non fingo: Io non sono riuscito ancora a dedurre dai fenomeni il perche delle suddette proprieta della gravitazione, e non costruisco ipotesi. Tutto cio che non si deduce dai fenomeni e una ipotesi; e le ipotesi - metafisiche, fisiche, meccaniche o riguardanti qualita occulte - non hanno luogo nella filosofia sperimentale.
Non che Newton non facesse uso di ipotesi. Ma le ipotesi di cui, a suo giudizio, lo scienziato deve far uso sono generalizzazioni tratte da osservazioni sperimentali e destinate ad essere convalidate da una verifica. Quelle che egli ripudia - salvo poi a farvi ricorso, come vedremo - sono degli a priori elaborati per supposizione al fine di spiegare l'ordine delle cose. Di fatto, esse servono a legittimare false spiegazioni e ad ostacolare quelle valide. Uno di questi a priori, accettato da Cartesio, e, come abbiamo visto, l"orrore del vuoto' da parte della natura. Un altro, che urtava direttamente contro la 'seconda regola' sopra riportata, e il moto circolare degli astri dedotto dalla perfezione del mondo celeste, a dai riflessi che ha nei cieli l'invisibile armonia di Dio. Galileo
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aveva studiato le leggi del moto, sfiorando la nozione della gravitazione, ma si era astenuto dall'applicarle ai cieli. Newton attern) questa parete epistemologica, applicando le stesse leggi del moto alla mela che cade dall'albero e alla terra che gira attorno al sole. Questa semplificazione metodologica gli fu possibile anche per un'altra ragione, connessa al suo rifiuto di far coincidere le spiegazioni scientifiche con le spiegazioni ontologiche. La matematica e una forma conoscitiva il cui scopo none, come quello della filosofia, di farci penetrare nella struttura reale delle cose. Essa e solo uno strumento dell'intelletto che ci permette di raggiungere generalizzazioni sempre piu ampie nell'osservare i fatti e perfino di fare delle deduzioni che anticipano l'esperienza. Ma essa non ci da il perche dei fatti, ce ne da una rappresentazione valida per noi, lasciando intatto l'insondabile rapporto tra il mondo e il suo Creatore. E Dio non e un geometra. 6.12. La Iegge di gravitazione. Fu Galileo ad enunciare per primo la legge sulla caduta dei gravi: quando un corpo cade, la sua accelerazione e costante, tenuto conto della resistenza dell'aria. Nel 1654 fu inventata la pompa pneumatica che permise esperimenti nel vuoto. La Iegge fu confermata. I corpi (non c'e differenza tra una piuma e una palla di piombo) cadono nel vuoto con una accelerazione costante: la velocita aumenta, per ogni secondo, di 9, 8 metri, alIa latitudine di Roma. Ma perche un corpo cade? Secondo la Iegge meccanica, detta di 'inerzia', ogni corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto uniforme e rettilineo se qualche forza ad esso applicata non lo costringe a cambiarlo. Qual e la forza che fa cadere un proiettile, dopo un certo percorso, anche se il percorso fosse nel vuoto? II puro e semplice meccanicismo non da spiegazioni, visto che secondo il suo principia un corpo si muove, o devia dalla sua linea di moto, solo se urtato da un altro corpo. Newton risponde introducendo il concetto di massa, che sostituisce il concetto cartesiano di estensione. La materia non e pura giustapposizione di parti estese, rna un aggregato di corpuscoli che, avendo o potendo avere tra loro uno spazio vuoto, hanno una maggiore o minore densita. Infatti i corpuscoli si attraggono tra loro e si attraggono con una forza che da luogo a coesioni piu o meno intense. Questa legge di attrazione reciproca tra i corpi, sia quelli terrestri sia quelli celesti, sia quelli infinitesimi sia quelli immensi, e fondamentale: e la legge di gravita a rendere solido 1' oggetto che tocco con la mano e a reggere in armoniosa corrispondenza l'intero sistema dell'universo. Ogni corpo ha una sua massa, che e il prodotto tra la densita e il volume; ed ha una sua forza di attrazione che e proporzionata alla sua massa. II proidtile cade perche e attratto dalla terra. Peril moto d'inerzia esso procederebbe in modo rettilineo all'infinito, per l'attrazione terrestre esso tende a cadere: la combinazione di questi due movimenti da una parabola. E. lo stesso principia per cui la luna gira attorno alla terrae la terra gira attorno al sole. E. lo stesso principia con cui oggi vengono messi in orbita satelliti artificiali. Newton ha calcolato la forza d'attrazione: due punti materiali sono attrattil'uno verso l'altro da una forza direttamente proporzionale alle loro masse e inversamente al quadrato delle loro distanze. La terra attrae la luna rna anche la luna attrae la terra, come mostrano le maree. Quando un corpo e sferico -
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la precisazione e importante- esso attrae i carpi _che gli sono esterni come se tutta la sua massa fosse condensata nel suo centro. Una medesima legge, dunque, regola i moti del cielo e quelli della terra: e questa il punta d'approdo dell'intuizione copernicana. · 6.13. II mondo e un sistema? II mondo diventava cosi un ordine architettonico, regolato, in ogni sua parte e nell'insieme, dalla legge di gravita, che non e piu una forza occulta, come la 'simpatia' dei rinascimentali, rna una forza matematicamente calcolabile. Sembro ai contemporanei che una volta per sempre la ragione, senz'altro ausilio che i propri principi conoscitivi, avesse fatto luce sui mondo. «La natura e le sue leggi giacevano nella notte - cosi scrisse il poeta Alexander Pope - Dio disse: Newton s1a, e ogni cosa fu nella luce». La danza degli astri non fu piu un riflesso di una musica arcana e nemmeno il gioco meccanico dei vortici cosmici (nella seconda parte dei suoi Prindpi New-, ton confuta l'ipotesi cartesiana), fu, ed e rimasto fino al nostro secolo (precisamente fino al 1905, quando Einstein enuncio i principi della relativita), un gioco di forze gravitazionali perfettamente calcolabile, come un teorema. Ma quello di Newton era davvero un sistema e cioe un ordinamento tale delle case da non dover ricorrere a nessun altro principia esterno per rendere ragione di se stesso? E, giudicando Newton per mezzo di Newton, e proprio vera che egli non ha costruito ipotesi alla maniera di Keplero, di Galileo e di Cartesio? Anche trascurando l'espediente ipotetico con cui Newton cerco di spiegare perche due carpi, pur essendo separati dal vuoto, possono esercitare una forza l'uno sull'altro (egli ricorse alla dottrina dell'etere, come mezzo di trasmissione delle forze, rna poi, nella seconda edizione dei Principi, nel 1704, l'abbandono), almena in due aspetti il suo sistema fa ricorso a sostegni teorici che sono estranei al rigore sperimentale, il prima fisico, l'altro teologico. 1. Nel sistema newtoniano ha importanza fondamentale il concetto di vuoto. I movimenti dei pianeti e delle comete sarebbero inesplicabili se essi dovessera vincere una resistenza corporea, e cosi sarebbe inesplicabile la maggiore o minore densita della materia (e cioe la sua condizione di massa) se tra i corpuscoli non potesse esservi, e non importa di quale grandezza, l'intercapedine del vuoto. II concetto di vuoto si identifica con quello di spazio assoluto e cioe della spazio che resterebbe anche qualora noi eliminassimo tutte le forme spaziali che percepiamo nel percepire i carpi. II luogo occupato da un corpo si distingue in relativo e assoluto, a seconda che noi lo riferiamo allo spazio relatiV() o a qvt>llo assoluto. Se la Terra, ad esempio, si muove, lo spazio che contiene la nostra aria, e che, relativamente alla terra, rimane sempre identico, ora sara una data parte dello spazio assoluto attraverso cui l'aria passa, ora un'altra parte di esso e cosi, senza dubbio, mutera incessantemente.
2. In egual maniera dovra distinguersi un mota assoluto, che e la traslazione di un corpo da un luogo assoluto a un luogo assoluto, e un mota relativo. Dipendente dal concetto di moto e quello di tempo:
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II tempo assoluto, vero, matematico, in se e per sua natura, senza relazione ad alcunche di esterno, scorre uniformemente e con altro nome e chiamato durata; quello relativo, apparente e volgare, e una misura (esatta o inesatta) sensibile ed esterna per mezzo del moto, che comunemente viene impiegata ~l posto del vero tempo: tali sono l'ora, il giorno, il mese, l'anno. Va da · se che queste nozioni non hanna nessun riscontro nella nostra esperienza. Sono delle ipotesi non induttive di cui la dottrina della gravitazione, e prima ancora quella sulle leggi della meccanica, hanna bisogno per una lora compiutezza razionale. Che sensa avrebbe, ad esempio, la legge di inerzia che parla di quiete e di mota uniforme rettilineo se non ci si riferisse ad uno spazio e ad un tempo assoluti, diversi dallo spazio e dal tempo reali in -cui non si danno le condizioni ideali di quella legge? Ebbene, quelle 'misure assolute', vera struttura ultima dell'universo, sono, nel sistema newtoniano, uno slittamento dallo sperimentale all'ipotetico. Ma veniamo all'ipotesi teologica. 6.14. La teologia. Naturalmente anche Newton avverte che le sue nozioni-quadro di spazio e di tempo assoluti richiedono un fondamento razionale, se non sperimentale. E il fondamento lo trova, alla maniera classica, nell' Artefice supremo della natura.
(Dio) non e l'eternita o l'infinita rna e eterno e infinito; none la durata e lo spazio, rna dura ed e presente. Dura sempre ed e presente ovunque ed esistendo sempre ed ovunque fonda la natura e lo spazio. Poiche ogni particella dello spazio e sempre, e ogni momenta indivisibile della durata e ovunque, certamente l'Artefice e il Signore di tutte le cose sara sempre e ovunque.
Cosi Newton nello Scalia Generale, aggiunto, nella seconda edizione, ai Prindpi per rispondere alle accuse di colora (e fra essi l'autorevolissimo Leibniz) che vedevano nel suo sistema le---premesse dell'ateismo. E difatti la logica interna del suo sistema era quella dell'autosufficienza del mondo, data che i movimenti dei carpi avevano origine da una qualita insita nei carpi stessi. Ma Newton, personalmente religiosissimo, era convinto che, abbandonate le vecchie prove cosmologiche e ontologiche dell'esistenza di Dio, la sua 'filosofia naturale' poteva offrirne una nuova, perfettamente in linea con la ragione scientifica. Anche Newton finisce col deporre la veste della scienziato per in~ dossare quella del filosofo e del teologo. Abbiamo gia vista come il prindpio che regge tutto il suo sistema, quello della forza di gravita, fosse per lui una induzione dai dati di fatto. Quanta alla 'ragione' di quella forza, i fatti sono muti ed io, afferma Newton «non costruisco ipotesi». Questa confessione e contestuale al discorso di teologia razionale contenuto nella Scalia, dove, con un trapasso ardimentoso dall'ordine sperimentale a quello metafisico, egli costruisce 'l'ipotesi Dio' con la convinzione che non di ipotesi si tratti rna di una deduzione razionale non confutabile. Viene a mente quanta rispose l'astronomo francese Pierre-Simon Laplace a Napaleone che gli aveva chiesto quale posto avesse Dio nella sua concezione del mondo: Io non ho bisogno dell'ipotesi Dio. Ma tra Newton e Laplace c'e la di-
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stanza di un secolo, durante il quale il newtonismo aveva avuto modo di svilupparsi su due linee, ambedue costitutive della cultura illuministica: quella di tipo meccanicistico, per la quale Dio e un'ipotesi inutile, e quella del deismo, e cioe della fede in Dio ridotta nei confini della ragione. Tra le due, quella piu autenticamente newtoniana e la seconda, il cui significato storico e di aver svuotato il cristianesimo dei suoi aspetti positivi, fondati cioe direttamente sulla Rivelazione, e di aver preparato quella stagione dello spirito umano durante la quale tu tte le sfere dell' esperienza, anche quella religiosa, divennero il dominio assoluto della ragione, senza barriere interne, senza autorita esterne. La massoneria (la Grande Loggia d'Inghilterra fu fondata proprio nel 1717) aveva come nucleo centrale della sua ideologia l'affermazione di Dio quale Architetto del mondo. Fu anche per suo merito se il newtonismo divenne la filasofia di moda nei salotti inglesi e francesi della nuova classe dirigente.
Locke 6.15. La filosofia del huon senso. Nel suo Discorso preliminare all'Enciclopedia, uscito nel1751, d'Alembert fa della filosofia di John Locke* il completamento di quella di Newton: «Ouel che Newton non aveva osato, o forse non avrebbe potuto fare, Locke intraprese e condusse a termine con successo. Si puo dire che egli creo la Metafisica, presso a poco come Newton aveva creato la fisica». E per fare questo «non istudio punto i libri, che lo avrebbero mal istruito, si accontento di scendere profondainente entro se medesimo». E fu per tal via che egli « ridusse Ia Metafisica a quanto deve essere in effetti: la fisica sperimentale dell' anima: una specie di Fisica assai: differente da quella dei corpi». Infatti
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pun to, da quelli con la religione, ,Locke libera la ragione filosofica dalla pretesa di spaziare in terreni non suoi, fuori cioe dall'esperienza comune ? tutti, e quindi ne fa una sola cosa con quel lume di ragione di cui si serve la gente intenta ai propri affari e agli impegni civili, quali che siano le sue tradizioni religiose e le sue costumanze di classe e di gruppo sociale. Forse di nessun altro filosofo si puo dire come di lui che fu un figlio e insieme un creatore del suo tempo. Questa sua duplice qualita emerse nel giro degli anni che videro in Inghilterra la fine della dinastia Stuart e l'instaurazione della monarchia costituzionale di Guglielmo d'Orange, il controllo del parlamento sulla monarchia, l' avvio alla distinzione tra i1 potere esecutivo e quello legislativo, 1' egemonia sociale dei nuovi ceti imprenditoriali, che, anche mediante la dialettica tra la camera dei Comuni e quella dei Lord, volgeranno a proprio vantaggio l'attivita legislativa basata sul diritto di proprieta. Di questa rivoluzione borghese senza
John Locke nasce nel1632 a Bristol da famiglia puritana. Il padre aveva preso parte, come colonnello, alla guerra contra Carlo I. Gia fin dall'infanzia, dunque, l'ambiente di Locke e quello della borghesia che conquistera il potere con Cromwell. Dal 1652 fa i suoi studi all'universita di Oxford dove i suoi interessi si volgono prevalentemente alla medicina. Dopa un prima viaggio all'estero, torna ad Oxford come insegnante. Nel1666 incontra il barone Ashley, il futuro conte di Shaftesbury, esponente di prima piano dell'ala liberale sotto la restaurata monarchia degli Stuart, e si mette al suo seguito. Gli interessi di Locke si sana spostati su temi filosoficopolitici: nel 1664 aveva gia composto i suoi Saggi sulla legge di natura NeZ 1667 compone il Saggio sulla tolleranza, che sara pubblicato solo nel 1876. Trasferitosi a Londra con Shaftesbury, partecipa attivamente alia vita politica seguendo, nella buona e nella cattiva sorte, il suo protettore. Quando questi deve cercare scampo in Olanda, nel1681, Locke si sente insicuro e lo segue, nel1683. 6li anni olandesi sana malta fecondi di contatti, di progetti di studio e di esperienza politica.· in Olanda infatti ha il suo centro il partito che prepara la riscossa contra la monarchia Stuart, degenerata verso l'assolutismo sotto Giacomo II. Saluta con gioia la 'gloriosa rivoluzione' dell'88 e nell'89 torna a Londra, al seguito di Maria, la moglie di Guglielmo d'Orange, divenuto re d'Inghilterra, in base ad una costituzione liberate che rappresenta la prima forma di democrazia bqrghese. Il nuovd mondo e quello sognato e preparato da Locke, che infatti, appena rientrato in patria, pubblica, nel giro di due anni, le sue opere piu importanti: La lettera sulla tolleranza (1689), i Due trattati sul governo (1690) e finalmente il Saggio sull'intelletto umano (1690). Amante di una vita sempre piu ritirata, compone in seguito altri scritti di cui ricordiamo i Pensieri sull'educazione (1693) e Ragionevolezza del cristianesimo (1685). Muore 11el 1704, a Oates, nei pressi di Londra, dove si era ritirato, anche per evitare i fastidi della smog, uno dei costi inevitabili del trionfo borghese!
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spargimento di sangue Locke e il teorico riconosciutp, anche perche ne era stato un pioniere, negli anni difficili della restaurazione monarchica. 6.16. II problema critico. E gia un segno della novita di Locke che l'idea della sua opera fondamentale, i1 Saggio sull'intelletto umarw, gli sia venuta non nella solitudine di una stanza, come capita a Cartesio, rna durante una delle amichevoli conversazioni che era solito tenere nella sua casa di Londra. Oggetto della conversazione erano i principi della morale e della religione rivelata. Ne parla lo stesso Locke nella Lettera allettore premessa al suo Saggio: Dopo esserci un po' tormentati, senz'avvicinarci alia soluzione dei dubbi che ci angustiavano, mi venne in mente che avevamo preso una strada sbagliata, e che, prima di accingerci in ricerche di questa natura, era necessaria esaminare le nostre capacita e vedere quali oggetti le nostre intelligenze erano o non erano adatte a trattare. Proposi questo ai miei compagni, che prontamente furono d'accordo; percio fu stabilito che questa sarebbe stata la nostra prima ricerca ...
A prendersi il peso maggiore della ricerca fu Locke, che durante lo stesso anno presento agli amici un primo Abbozzo di risposta alla questione e che, non soddisfatto, dopo un Secondo Abbozzo, prosegui da solo nell'approfondimento del tema per ben 18 anni, fino al 1689, quando apparve finalmente il Saggio, che ebbe subito, nel nuovo clima politico e culturale, un grande successo. Giovarono molto a Locke i due soggiorni all' estero: il primo in Francia (1675-1679), dove ebbe fecondi contatti con l'ambiente cartesiano e dove lesse con viva attenzione i Pensieri di Pascal, di cui lo interesso molto il tema dei limiti della ragione (5.16), e in Olanda, come rifugiato politico (1683-1689), dove pote attendere con calma alla stesura delle sue opere. Una cosi lunga elaborazione si spiega non solo con le troppe incombenze a cui Locke doveva far fronte durante il periodo di attivita politica, al fianco di Shaftesbury, rna anche con la complessita dell'assulfto centrale dell'opera. Che non era, sulla scia di Bacone e di Cartesio, un assunto metodologico, rna critico. In che consista l'impostazione critica del problema conoscitivo lo spiega lo stesso Locke nell'introduzione: Gli uomini estendono le loro ricerche al di la delle !oro capacita e lasciano che i !oro pensieri vaghino nella profondita in cui non possono trovare un appoggio sicuro; rna allora non sorprende che essi sollevino questioni e moltiplichino discussioni che, non giungendo rnai a una chiara risoluzione, possono continuare a far crescere i loro dubbi e alla fine confermare nel piu perfetto scetticismo.
Locke aderiva alia tradizione empiristica di Bacone e di Hobbes, rna senza accettare i residui dogmatici su cui poggia illoro metodo. Bacone, senza oneri di dimostrazione, ritiene la realta esterna gia bell'e formata cosi come appare all'intelletto umano; Hobbes pone, in modo altrettanto acritico, la materia, o meglio la corporeita, come cio che preesiste al pensiero, anzi come materia pensante. Cartesio fa di piu: prima ancora dell'indagine razionale, prestabili-
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see il modello della vera conoscenza, quello matematico, e le regale metodologiche che ne conseguono. Tutti hanna trascurato una questione semplice rna de cis iva: L'intelligenza, come l'occhio, mentre ci fa vedere e percepire tutte le altre cose, non ha consapevolezza di se stessa, e ci vogliono arti e fatiche per porsi ad una certa distanza da essa e farne oggetto della nostra considerazione. Questo percio e il mio proposito: indagare l'origine, la certezza e l'estensione della conoscenza umana.
E come se l'occhio volesse porsi dinanzi a se stesso, farsi oggetto di se. L'intelligenza, ripiegandosi sui processi mediante i quali arriva alle nozioni che noi abbiamo delle case, facendo cioe la storia di se stessa (Locke chiama il suo metoda «semplice e storico»), si mette in grado di stabilire quali siano i fondamenti e i limiti delle proprie certezze. Non ha sensa protestare perche ci sono «Case fuori del suo raggio». Se un domestico pigro e capriccioso, che non ha compiuto il lavoro che doveva fare al lume di candela, si lamenta che non aveva a disposizione la luce aperta del.sole, questa non sara ammesso come scusa per la trascuratezza. La candela che e accesa in noi fa luce abbastanza per tutti i nostri propositi.
Se e vera, secondo quanta dira d' Alembert, che Locke ha esteso alia sfera dell'uomo il metoda che Newton aveva applicato all'universo fisico, fondando cosi una 'fisica sperimentale dell'anima', e vera anche che Locke imprime una svolta al razionalismo del suo secolo, nel sensa che ne rigetta la pretesa di ridurre l'intera realta dentro la trama concettuale. Invece che seguire l'impulso ad abbracciare il tutto in una sintesi sistematica, come quella di Spinoza e di Leibniz di cui diremo nel prossimo capitolo, la ragione lockiana si ripiega su se stessa per imporre a se dei limiti invalicabili. Viene meno, con lui, il dogma seicentesco della simmetria fra struttura della ragione e struttura del mondo ed ha inizio quella nuova impostazione del problema della conoscenza, il criticismo, che avra il suo pieno ~viluppo in Kant, un secolo dopa. 6.17. Critica dell'innatismo. L'originalita dell'empirismo di Locke non e nell'affermazione che senza esperienza sensibile non si da conoscenza. Un principia ~tabile dell'aristotelismo era, ad esempio, che nulla e nell'intelletto se prima non e stato nei sensi. Ma per Locke la sensazione non e sol tanto la porta attraverso la quale la realta accede alla conoscenza, e l'orizzonte non superabile dentro il quale l'intelletto si muove, elaborando il materiale sensibile senza mai poterlo veramente trascendere. L'intelletto e come un foglio bianco in cui nulla e scritto: quello che vi viene scritto deriva totalmente dall'esperienza sensibile. Non ci sono nell'intelletto strutture logiche - lo abbiamo appena detto - simmetriche a quelle della realta esterna, e nemmeno ci sono idee o principi innati a partire dai quali arrivare deduttivamente a qualsivoglia conoscenza indipendente dalla sensazione. Il prima libra del Saggio e una
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critica sistematica di ogni forma di innatismo. Locke non lascia capire quali siano i filosofi presi di mira, rna e certo che tra essi c'e Cartesio e soprattutto ci sono i 'platonici' della scuola di Cambridge, di grande prestigio nell'Inghilterra del Seicento. Secondo gli innatisti, l'intelletto umano possiede, in modo congenito, prima dunque di qualsiasi esperienza, alcuni prindpi fondamentali sia del conoscere che dell'agire. L'argomento che essi adducono e che su tali principi si da un consenso universale. L'argomento non regge, commenta Locke. Prendiamo ad esempio il principio di non contraddizione: «A none non-A». Se fosse innato, perche i bambini, i deboli di mente, gli incolti non ne fanno uso? E non si replichi che, pero, questo principio e virtualmente gia presente anche in chi none in grado di farne uso. Che senso ha una verita non percepita? E nemmeno si dica che la 'inneita' di un principio si dimostra col fatto che appena percepito esso appare evidente. Se ne dovrebbe dedurre che tutto cia che e evidente e innato, anche il 'dut> pili due quattro' dell'aritmetica. Lo stesso si dica dei prindpi pratici. L'osservazione attenta mostra che non esiste una forma universale della condizione umana, rna esiste piuttosto una pluralita di culture, ciascuna delle quali ha le sue regole di condotta. Di universale c'e solo l'inclinazione alla felicita, rna essa riguarda l'appetito sensibile, non l'intelletto. A conclusione della sua critica dell'innatismo Locke affronta, in modo pili diretto e pili analitico, l'idea di Dio, che ha costituito da sempre la chiave di volta delle costruzioni innatiste, da Platone a Cartesio. Per quest'ultimo l'idea dell'Infinito, e cioe di Dio, era come il sigillo di fabbrica impresso dall' Artefice nella sua creatura. Ma «come ha potuto, si domanda Locke, l'Artefice imprimere negli spiriti idee di se stesso cosi diverse e cosi contraddittorie?». Gia si avverte in Locke !'influenza, che diverra generale nel secolo successivo, della scoperta, in altri continenti, di altre culture e di altre religioni. L'invoiucro di cristallo della monocultura occidentale rivela con lui le sue prime incrinature. Ma la critica di Locke non obbedisce solo al condizionamento di questa nuova dimensione, ormai planetaria, dell'esperienza storica. In un passo del I libro del suo Saggio, egli arriva a denunciare la Jlatura ideologica delle idee innate. Gli innatisti, egli dice, hanno come presupposto, latente o meno, della loro dottrina un «principio di tutti i principi: che i principi non debbono essere messi in discussione». Accettata questa regola suprema, i discepoli sono messi «nella necessita di accettare alcune dottrine come tali» e, per tal via, divenuti avvezzi alia credulita, possono meglio essere governati. None piccolo il potere che da a un uomo su di un altro avere l'autorita di essere il dittatore di principi e l'insegnante di verita che non si mettono in dubbio e di fare inghiottire a un uomo come un principio innato tutto cio che puo servire al proposito di chi lo insegna.
L'idea guida di Locke, anche quando si tratta di questioni astratte come quella della conoscenza, e dunque un'idea politica. 6.18. Origine e classificazione delle idee. Sgombrato il terreno dal pregiudizio innatista, Locke intraprende, con «metodo storico» e cioe genetico, l'analisi
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del processo conoscitivo. Egli desume da Cartesio il termine idea per esprimere «tutto cio che e oggetto dell'intelletto quando l'uomo pensa». Idea e, ad esempio, il colore che vedo, idea e, come oggetto della memoria, il colore che ricordo. Solo che per Locke, appunto peril suo rigetto di ogni forma d'innatismo, tutte le idee provengono dall'esperienza sensibile, non sono, cioe, il frutto dell'attivita dell'intelletto rna piuttosto della sua passivita nei confronti della realta. E siccome la realta o e esterna (le cose che ci stanno dinnanzi) o interna (tutto cio che appartiene alia soggettivita del nostro io), le idee si distinguono in idee di sensazione: «impressioni fatte sui nostri sensi dagli oggetti esterni», e idee di riflessione: «riflessioni della mente sulle proprie operazioni a partire dalle idee di sensazione», come ad esempio l'atto di percezione (io sento di sentire), la memoria, la volizione, il discernimento ecc. L'esperienza ci da soltanto idee semplici, si tratti di quelle fornite dal senso esterno o di quelle fornite dal senso interno. Le idee complesse risultano dal modo in cui l'intelletto combina tra loro le prime. Per quanto si dia da fare, l'intelletto non e in grado d'inventare una sola idea semplice. La sua funzione e solo quella di associare fra !oro in infiniti modi le idee semplici, senza mai poter superare il loro limite. Cartesio aveva detto che le idee erano, nell'uomo, «come immagini delle cose», dunque non propriamente le loro immagini. Per Locke esse sono invece 'immagini' pure e semplici, purche si tenga conto della distinzione, comune anche a Galileo e a Cartesio, tra le qualita primarie e le qualita secondarie: le primarie ci danno l'immagine reale delle cose, le secondarie sono invece prodotte in noi dalle varie combinazioni delle qualita primarie. Questa classificazione esprime il principio che, nel processo conoscitivo, all'intelletto non compete altra attivita che quella di combinare le idee fornite dal senso esterno e dal senso interno, e cioe di produrre le idee complesse, riducibili a tre classi principali. 1. Idee di modo: sono le idee che non contengono in se la supposizione di essere sostanze esistenti di per se stesse, rna soltanto loro modificazioni o affezioni, come 'triangolo' o come 'gratitudine'. Nel loro numero rientrano anche le idee di spazio e di tempo. La teoliia di uno spazio e di un tempo infiniti e del tutto chimerica perche, ricondotta a quanto ci forniscono le idee semplici, l'infinita non e che la ripetizione indefinita di misure spaziali e temporali finite. 2. Idee di relazione: sono le idee che risultano dal confronto di un'idea con un'altra. Importante tra di esse l'idea di causa, che nasce dal collegamento che siamo portati a stabilire tra un'idea (ad esempio il liquefarsi della cera) e un'altra (il calore). II nesso causa-effetto (di cui tanto si dibattera in seguito) e un'idea complessa a cui Locke non nega la rispondenza alia realta, anche se, nei limiti rigorosi del suo sensismo, essa riguarda non le cose in se (la cera e il calore), rna le loro immagini impresse nel soggetto. 3. Idee di sostanza: sono le idee che nascono dall'associazione di idee semplici e dalla necessita di spiegare il perche esse sussistano di per se stesse. Ad esempio, la forma, il colore, il sapore di quest'arancia hanno realta solo nel soggetto o sussistono indipendentemente dal soggetto? Per rispondere, l'intelletto si forma l'idea di un sostrato in cui quelle qualita sussistono: questo sostrato si dice, appunto, sostanza, cio che 'sta sotto'. Se si pensa al peso che in
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tutta la storia della filosofia, da Aristotele a Cartesio, ha avuto la dottrina della sostanza, e facile rendersi canto della novita rivoluzionaria della tesi lockiana. Per Locke, proprio l'idea di sostanza, che per Cartesio era chiara e distinta, e invece tra le pili confuse e non corrisponde a niente di determinato. Per mettere insieme il pensiero, la volonta e la memoria, noi ci facciamo l'idea di uno spirito immateriale, l'io, e cosi, per mettere insieme gli elementi solidi delle idee di sensazione, noi ci facciamo l'idea di materia. Io mi appello, - scrive Locke,- all'esperienza propria di ciascun uomo, se si abbia altra idea chiara oltre certe idee semplici coesistenti insieme, Sono le ordinarie qualita osservabili nel ferro o nel diamante, messe insieme, che costituiscono la vera idea complessa di quelle sostanze, che .un fabbro o un gioielliere conosce meglio di un filosofo.
Un 'fabbro' o un 'gioielliere': la conoscenza vera delle sostanze e dunque di tipo tecnico, rimessa alla operativita e non all'indagine teoretica di chi cerca l'essenza delle cose. Ecco un altro legame tra l'epistemologia lockiana e la civilta industriale nascente. 6.19. I gradi della conoscenza. Il movimento della conoscenza e dunque totalmente contenuto nei limiti del sensa interno e del sensa esterno, come dire delle idee semplici che essi ci forniscono, le quali non ci danno mai la cosa in se, il sostrato, la sostanza. La certezza che esista davvero il sostrato esterno, la materia, e il sostrato interno, l'io, e irraggiungibile. I concetti che noi ci facciamo delle cose non hanna rapporto con le cose rna con le loro idee; la loro verita dunque non potra consistere nella loro conformita alle cose, rna alle idee delle cose. Le idee vengono raggruppate, in base alla loro rassomiglianza, in categorie distinte significate da dei nomi. E questa il processo dell'astrazione, nel quale l'intelletto non astrae dalle cose, come voleva Aristotele, le loro strutture essenziali, rna soltanto gli elementi comuni delle idee semplici, che nel loro insieme vengono espressi da un nome generale, ad esempio il nome uomo, cavallo, fiore ecc. Ragionare significa mettere in rapporto tra loro un'idea semplice con il nome generale, e poi i nomi generali tra loro per verificarne i rapporti. Locke distingue tre gradi del processo conoscitivo. '-La conoscenza sensibile riguarda lo stesso apparire delle idee semplici nella nostra mente e ci da la certezza morale (niente pili che la certezza morale) dell'esistenza di una realta indipendente da noi. La conoscenza intuitiva si ha quando l'accordo o il disaccordo tra due idee appare immediatamente, come quando «la nostra mente percepisce che il bianco non e nero, un circolo non e un triangolo, che tre e maggiore di due e uguale a uno pili due». La certezza che viene da simili giudizi e assoluta. Locke fa rientrare tra le conoscenze intuitive anche quelle dell'esistenza dell'io: io penso, ragiono, dubito, dunque sono. Altra cosa e invece conoscere l'essenza dell'io: essa ci resta del tutto preclusa. La conoscenza dimostrativa si ha quando il confronto tra due idee non e immediato rna passa attraverso il confronto con idee intermedie di evidenza
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intuitiva. Essa ci da una conoscenza sicura, rna non altrettanto certa di quella intuitiva. Anche le prove dell'esistenza di Dio si hanno per questa via e precisamente con l'argomento di causalita. Tali prove ci danno, si, la certezza, rna non cosi assoluta come quella intuitiva. Nella sfera della conoscenza dimostrativa rientrano anche le verita morali. Al di la di questi confini, non si danno certezze rna solo opinioni, conoscenze probabili. Infatti la matematica, basata com'e su astrazioni compiute a partire dalle idee semplici, non costituisce piu un paradigma conoscitivo da applicare alla realta, visto che la realta diventa conosciuta solo dopo che ha varcato la porta d'ingresso della sensazione. La pretesa di fondare una scienza fisica che abbracci e spieghi il mondo esterno e, per Locke, infondata. Le nostre conoscenze del mondo reale sono episodiche, parziali, inadatte insomma a raggiungere la coesione di un sistema onnicomprensivo. In quest'ambito regna soltanto la probabilita. Le leggi fisiche della scienza non superano questa livello di certezza: i1 loro valore e tutto nella loro utilita. 6.20. Lo stato di natura e il contratto sociale. Si potrebbe dire che la ricerca di Locke ebbe, in tutti i settori in cui si svolse, un solo obiettivo: quello di stabilire i limiti che separano la ragione e l'arbitrio. Vissuto in un'epoca di feroci contrasti sociali, religiosi e politici, egli vide la possibilita di assicurare la pace solo nel tracciare i limiti dell'intervento dello Stato nella vita privata del cittadino e, per quanta riguarda la pace religiosa, nel tracciare i limiti che separano tra loro lo Stato e la chiesa. E anche in questa versante della sua indagine egli segui <
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rico. E non e un caso che egli non affronti in modo diretto, mettendosi cioe al suo stesso livello teorico, la dottrina di Hobbes, rna la demolisca semplicemente col prendere le mosse da una premessa diversa da quella del Leviatano e come questa non sorretta da dimostrazioni. La premessa e, come d' obbligo dopo la stagione giusnaturalista, quella di stato di natura. Mentre per Hobbes il passaggio dallo stato di natura al contratto sociale era una necessita, pena lo sterminio universale, per Locke quel passagg_io e di convenienza, dato che nello stato di natura gli uomini godono di quei beni (la vita, la liberta, la proprieta) che lo Stato civile dovdt assumere come suoi fini. Per Hobbes lo stato di natura consiste essenzialmente nel diritto di ciascuno su tutto; la Iegge di natura interviene per porre limiti a tale diritto ed e proprio da questo suo intervento che nasce la necessita del patto sociale. Per Locke, invece, il da to primo e la Iegge di natura, che pone alia liberta di ciascuno un limite, quello del rispetto della liberta degli altri. II limite alla liberta, insomma, none per Locke primariamente quello posto dallo Stato, e quello posto dallo stesso stato di natura, anteriore allo Stato, che ad esso dovra ispirarsi nelle sue leggi positive. Su questa punta decisivo della sua dottrina Locke non innova rna semplicemente recupera e svolge con ragionevolezza la dottrina di Tommaso d' Aquino sulla distinzione tra legge naturale e legge positiva, dottrina che era gia stata ripresa in Inghilterra da Richard Hooker (1553-1600), un trattatista del Cinquecento a cui continuamente Locke si riferisce. Lo stato di natura si confonde, tutto sommato, con l'ordine morale che precede l'ordine politico e ne costituisce, insieme, il fondamento e il limite. E l'ordine morale non e che l'ordine istituito dalla ragione, la quale insegna agli uomini che devono vivere uguali e indipendenti, senza nessun superiore comune. Resta da sapere perche mai l'uomo deve uscire da uno stato conforme aile sue esigenze piu profonde. La ragione e di opportunita. Nello stato di natura ogni uomo e esecutore e giudice dei suoi diritti di liberta. E fatale che in una condizione siffatta ciascuno si senta incerto ed esposto alla sopraffazione altrui. Lo stato di guerra, che per Hobbes era una necessita, per Locke e un'evenienza estremamente probabile, che basta a consigliare all'uomo 1' espediente del contratto sociale. E bene dare evidenza, in questa visione lockiana della stato di natura, ad un particolare che sembra quasi irrilevante, rna che in realta ha un peso decisivo nella determinazione dei compiti dello Stato. Il particolare riguarda il ruolo che ha il lavoro nei suoi rapporti con la proprieta. I beni della terra sono, nella stato di natura, a disposizione di tutti; solo che appena un uomo modifica la natura col proprio lavoro, la impregna di se, ne fa un prolungamento della propria individualita a tal punta che la difesa della proprieta e la difesa di se stesso si fanno una sola cosa. Si affaccia qu'i, per la prima volta, il concetto dellavoro come valore, un concetto destinato a grandi sviluppi nella ideologia capitalistica e in quella socialista. Nella dottrina di Locke tale concetto ha una funzione unificante, nel senso che la proprieta, intesa come fusione tra persona e natura mediante il lavoro, riassume in se gli altri due diritti naturali, e cioe Ia vita e la liberta. Ed e certo nella difesa della proprieta il motivo piu pressante che spinge gli uomini ad uscire dallo stato di natura. Per mettere se stessi e i propri averi al sicuro da ogni contesa, gli uomini
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si decidono «a porsi in societa e ad abbandonare lo stato di natura, perche dove c'e un'autorita, un potere sulla terra da cui per appello si puo ottenere soccorso, li e esclusa la permanenza delio stato di guerra e la controversia e decisa da questo potere». La linea discriminante tra lo stato di natura e la societa civile e che in questa il singolo decide di rinunciare a reprimere per proprio conto l'aggressione altrui e di rimettersi al giudizio e aile sanzioni della cornunita, che vi provvede mediante leggi positive. Locke non lascia ben capire se l'uscita dallo stato di natura avvenga per un solo patto, quello di soggezione (pactum subiectionis) ad un comune potere, o anche per un patto di unione (pactum unionis) che stabilisce un vincolo di solidarieta tra il singolo e l'insieme. Ma questa distinzione tra i due momenti sembra meglio rispondere allo spi- · rito complessivo del pensiero di Locke e alle esigenze logiche del suo discorso relativo al fondamento della sovranita della Stato. In accordo con le posizioni politiche del partito whig, Locke sostiene che un sovrano deve rispondere di se alla societa civile, alia quale ritorna la piena sovranita quando in qualsiasi modo venga meno il titolare del governo o esca dalla legittimita il suo esercizio del potere. Non fu con simili argomenti che i tories e i whigs provvidero a liberarsi della dinastia Stuart ed a chiamare sui trono il principe Guglielmo d'Orange? Certo e che, dopo Locke, la distinzione tra societa civile e apparato di potere divenne uno dei punti forti delle dottrine politiche. 6.21. Poteri e limiti dello Stato. Mentre per Hobbes l'uomo e cittadino solo nella Stato, per Locke lo e anche di fronte o addirittura contra lo Stato, in quanto, in forza del patto d'unione, egli resta sempre un membro della societa civile. Un effetto di quel patto d'unione e che all'interno della societa civile il cittadino conserva il suo diritto naturale alia liberta, col solo limite della liberta altrui, e insomma legislatore di se stesso ed esecutore delle sanzioni connesse alla violazione della Iegge naturale, eccetto che per quella porzione di sovranita che, insieme al corpo civile - praticamente secondo le regole della maggioranza quale espressione della volonta del tutto- decide di delegare allo Stato. La legittimazione dello Stato e tutta in questa delega di sovranita, una delega che puo sempre essere revocata, qualora il potere dello Stato, esorbitando dai confini stabiliti, si ponga in guerra con la societa civile, provocando cosi una specie di ritorno alio stato di natura. Per meglio garantirsi dalle degenerazioni dello Stato, Locke ritiene necessaria Ia divisione dei poteri, in modo che essi ~ il legislativo, l'esecutivo e il federativo (cosi egli chiama il potere di stabilire rapporti con gli altri stati) - si controllino e si limitino a vicenda. Siamo, come si vedeJ-ali'opposto dello Stato assoluto di Hobbes, che affidava al potere perfino la distinzione tra il bene e il male. II dualismo lockiano tra societa civile e Stato preserva il dualismo tra ordine morale (e cioe l'ordine di ragione che preesiste allo Stato) e ordine legale. Di qui il diritto di resistenza ad un potere ingiusto. Quando chi esercita il potere lo fa non per il governo dei cittadini e per la conservazione della loro proprieta rna per altri fini, cessa in quello stesso momento «di essere un magistrato, e, agendo senza auto-
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rita, puo essere oggetto di opposizione». Allora «alia parte lesa, non avendo essa sulla terra alcun appello possibile alia tutela del diritto, non resta che quello che e il solo rimedio in questi casi, cioe di appellarsi al cielo». La disobbedienza civile, l'obiezione di coscienza, la resistenza anche armata sono o posseno essere altrettante forme di <
6.22. II cristianesimo ragionevole. I paesi che cercavano di darsi una organizzazione statale totalmente autonoma, perche ormai si era infranta l'unita spirituale della vecchia cristianita, erano costretti ad affrontare il problema di come collocare, dentro l'ordinamento dello Stato, la presenza e la funzione della chiesa. La distinzione tra il 'cittadino' e il 'cristiano', per noi cosi ovvia, non lo era affatto prima che le rivoluzioni borghesi, e in specie quella francese, mettessero in chiaro che lo Stato e di sua natura laico. Il problema della laicita si presento sulle prime sotto il profilo della tolleranza che lo Stato doveva esercitare nei confronti delle diverse posizioni di coscienza. L'Inghilterra del '600 era il paese pili adatto ad affrontare questo problema, perche, dopo la rottura con Roma, la chiesa anglicana divenne l'asse portante della monarchia, senza riuscire pero a ridurre ad unita le diverse confessioni cristiane insediate nell'isola. Le guerre civili si ammantavano di motivazioni religiose, che facevano da schermo anche alle relazioni tra l'Inghilterra e gli altri Stati europei. Da una parte, i cattolici (che venivano detti 'papisti') miravano, specie con gli intrighi di corte, a recuperare l'egemonia perduta, dall'altra, i calvinisti, nelle loro diverse ramificazioni, specie in quella puritana, si opponevano alla stessa
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idea di monarchia. Come era possibile costruire l'unita dello Stato su di una base civile cosi frantumata? Fin dal 1663 Locke affronto il problema, di cui offri la soluzione matura nella Lettera sulla tolleranza, uscita nel 1690, un anno davvero 'glorioso' per lui. II suo approccio al tema e scopertamente teologico. La pretesa di costringere un uomo a professare certi dogmi e a praticare un certo culto e direttamente contraria all'insegnamento evangelico e alla testimonianza di Gesu Cristo. E questa norma di liberta riconosciuta dal vangelo risponde alla natura dell'uomo, che hail diritto di scegliere liberamente in quale societa entrare per provvedere alia sua salute. Lo Stato non ha competenza in questo ambito, perche il suo compito e di tutelare la vita, la liberta e gli averi dei suoi cittadini. La chiesa none uno Stato nello Stato o contro lo Stato, e un'associazione volontaria, Iibera di darsi l'organizzazione che vuole e di decidere i criteri per ammettere e per espellere i suoi membri, rna senza che tutto questo abbia rilevanza legale. Se di fatto le chiese sono, all'interno dello Stato, come dei corpi estranei, non riducibili dentro i termini del diritto comune, e perche esse hanno aggiunto aile semplici cose insegnate dal vangelo una sovrastruttura arbitraria di leggi, di pratiche e di credenze che finiscono con l'impedire allo Stato la piena autonomia nel proprio ordine. L'intuizione fondamentale di Locke, che perc non giunge a piena esplicazione nei suoi scritti, e che un ritorno alla semplicita del vangelo non ostacola, anzi faV'orisce la laicita dello Stato. Anche su questa linea la sua riflessione non perde mai l'aderenza alla situazione storica. Ed e questo realismo politico che lo conduce ad estromettere dal beneficio della tolleranza da parte dello Stato sia i cattolici, perche sono «al servizio di un altro sovrano e a lui devono obbedienza», che gli atei, perche, eliminato Dio, perdono di valore la parola data, i patti e i giuramenti che sono alla base della societa umana. Ma anche queste due conclusioni servono a ribadire la tesi fondamentale di Locke per quanto riguarda l'intera problematica religiosa. Egli la esporra, qualche anno dopo la Lettera, nel 1695, in un saggio intitolato significativamente Ragionevolezza del cristianesimo. L'eta delle guerre di religione era ormai chiusa: il passaggio della corona inglese dagli Stuart a Guglielmo d'Orange ne aveva segnato pacificamente l'epilogo. Alla radice di quelle guerre c'era il fanatismo, la pretesa di imporre con la forza una verita di parte che nulla aveva a che fare con la pura sostanza del vangelo. II nucleo di questa sostanza e riducibile a tre principi: la fede in Dio, la fede in Cristo come Messia e l'obbedienza ai dettami morali del vangelo. Si tratta di: principi semplici, adatti agli uomini colti e agli uomini rudi, che non posseggono gli strumenti razionali necessari alia loro conoscenza. Difatti quei principi sono cosi conformi alia ragione che potrebbero essere acquisiti anche senza il lume della rivelazione. Possono dirsi soprannaturali solo quanto al modo con cui ci sono stati manifestati, rna quanto al loro contenuto essi sono perfettamente razionali. Gesu e dunque al centro della storia anche in un senso totalmente laico: solo in virtu del suo insegnamento l'uomo razionale ha raggiunto la propria maturita e le verita, che altrimenti sarebbero state il privilegio dei filosofi, si sono diffuse in tutto il mondo e a tutti i livelli della societa, anche a quei livelli in cui
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l' esercizio della ragione non e possibile. Locke tiene presente la classe lavoratrice ('i lavoratori giornalieri e i commercianti, le zitelle e le lattaie') che puo essere portata ad obbedire attraverso la fede, i cui precetti sono muniti della sanzione del castigo o del premia eterno. «La maggior parte dell'umanita non puo conoscere e dunque deve credere». In questa sostanziale equazione tra razionalita e rivelazione cristiana c'e gia, in radice, nonostante le dichiarazioni in contrario di Locke, quella riduzione della religione a filosofia che sara il tema centrale del deismo settecentesco. Non e un caso che l'anno dopa la pubblicazione del Cristianesimo ragionevole, nel 1696, uscisse il Cristianesimo senza misteri di John Toland (9.1), uno dei padri riconosciu ti del deism a.
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Sommario. L'ideale matematico, che in Cartesio si era affermato soprattutto come metoda, divenne con Baruch Spinoza il modello stesso della comprensione filosofica del mondo. II suo sistema e rigorosamente deduttivo (7.1). Ma l'oggettivismo geometrico di Spinoza non deve trarre in inganno: lo scopo del conoscere e per lui la felicW:t, da identificare con Ia liberta spirituale. II suo itinerario conoscitivo e dunque come un itinerario ascetico, scandito in tre tappe: la conoscenza immaginaria, quella razionale e quella intuitiva che ci mette a contatto con Dio, cioe con la Sostanza (7.2). Difatti non si da che una sola Sostanza, quella che non ha bisogno di nessun' altra realta per essere quello che e, ne di alcun altro concetto per essere definita. L'estensione e il pensiero non sono, come in Cartesio, due sostanze finite, sono due attributi dell' lnfinita Sostanza, di cui i carpi e le idee sono i modi. II dualismo cartesiano tra corpo e spirito scompare: l'ordine delle cose e 1' ordine delle idee coincidono perche non sono che aspetti della medesima sostanza (7.3). II panteismo di Spinoza non va confuso con quello di Bruno. Infatti l'identita di tutto con Dio e come l'identita di un teorema con tutti i suoi singoli passaggi. La necessita razionale, che sta sotto la molteplicita e il divenire, e il fondamento della liberta: essa coincide con quella conoscenza che e in grado di rappresentarsi l'ordine dell'universo cos! come si svolge nell'infinito tessuto dell'unica sostanza (7.4). Anche nel trattare dell'uomo, Spinoza segue un procedimento deduttivo, a partire da un impulso primordiale che e la cupiditas: l'amore e il sentimento che si prova per cio che corrisponde alia cupiditas; l'odio e il sentimento che si prova per cio che le contraddice. Lo sviluppo dell'amore segue le tre tappe della conoscenza: al vertice c'e l'amore di Dio intellettuale (7.5). Anche la sua visione politica e di tipo deduttivo. Lo stato di natura non e che un aggregato di uomini mossi dalla cupiditas. La societa civile nasce dall'uso della ragione che mostra come l'utile universale contiene in se anche l'utile particolare. Di qui la necessita della Stato come ordinamento coattivo: esso si distingue dalla societa civile rna e di necessita uno Stato assoluto (7.6). II possente razionalismo di Spinoza si applica con competenza anche alla Bibbia, per mostrare come la conoscenza profetica possa ridursi per intero alla conoscenza razionale ordinata alia giustizia (7.7). Un effetto sconcertante del sistema spinoziano e che al suo interno non c'e spazio per la contingenza, tutto e stretto nelle maglie della necessita. A tentare una conciliazione tra le esigenze del sistema e quella della liberta fu Leibniz (7.8). La sua precoce vocazione filosofica si orienta subito verso la conciliazione tra il finalismo della vecchia metafisica e il nuovo meccanicismo. La via a questa conciliazione e, secondo Leibniz, nell'analisi dei giudizi di cui l'intelletto e capace. Quei giudizi esprimono le verita necessarie e le verita contingenti o di fatto. Ebbene, questa distinzione vale solo per l'intelletto umano; per quello di Dio anche le verita di fatto sono necessarie (7.9). Per render conto di questo non ci si puo affidare a! meccanicismo. II mondo consta si di corpi estesi, rna nel corpo, oltre che l'estensione, c'e la forza, un 'conato' che prodl.J.ce il movimento non meccanico. II!uogo in cui inerisce questa forza e la monade, un 'punta metafisico' che moltiplicato all'infinito ci da l'universo. Il contenuto della monade e la rappresentazione del mondo e cioe dell'insieme di tutte le altre monadi. E per via di rappresentazione che le monadi sono in rapporto tra loro (7.10). In ogni monade c'e dunque
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tutto l'universo, sotto forma di rappresentazione. Come dire che tutte le idee sono innate. Solo che non tutte sono idee coscienti (appercezioni): solo in Dio tutte le idee sono consapevoli. A partire da Lui le monadi si distribuiscono secondo una gerarchia degradante che finisce nelle monadi le cui percezioni sono tutte inconscie, Ia pura materia (7.11). Ogni monade e chiusa in se, senza finestre. Ma per un'armonia prestabilita cio che avviene in una monade e presente nell'altra come rappresentazione: e Dio che ha sincronizzato i fatti e le !oro rappresentazioni. Tutte le monadi aspirano alia piena coscienza di se e cioe aspirano a Dio (7.12). In Dio le verita di ragione e quelle di fatto coincidono. Le verita di ragione sono i 'possibili, e cioe tutte le verita il cui concetto non implica contraddizione. Nel creare, Dio ha scelto fra tutti i mondi possibili quello che comporta in se la massima perfezione (7.13). Di qui la spiegazione del male nel mondo: il male e una necessita all'interno del contesto dei con-possibili. Se letto in questo contesto (rna solo Dio puo farlo) esso cessa di essere male. E cosi si dica della liberta: il mio atto libero, nel contesto della serie dei fatti che solo Dio vede, e necessaria. Ma per me, che non conosco l'insieme dei fatti; esso e contingente: ne sono responsabile (7.14).
Spinoza 7.1. L'ideale matematico. La rassegna dei momenti salienti del pensiero inglese del Seicento, da noi compiuta nel precedente capitola, basterebbe da sola a dimostrare quanta sia improprio ricondurre l'intera attivita filosofica di quel secolo sotto il segno di Cartesio. La via dell'empirismo, aperta da Hobbes e consolidata da Locke, rientra nell'impero cartesiano solo nel sensa che anch'essa parte dal presupposto della ragione come supremo principia regolativo. Ma il primato della ragione, negli sviluppi dell'empirismo, rimane vincolato a un altro presupposto: che l'intelletto umano non ha altro spazio di esercizio che quello dell'esperienza sensibile. E questa e un presupposto sicuramente anticartesiano. Nella lezione di Cartesio si nascondevano altre possibili linee di sviluppo, che, isolate e svolte al di fuori del loro contesto d'origine, avrebbero condotto ad esiti in cui ben poco sarebbe restato di quella lezione. Una di quelle linee - la linea cartesiana per eccellenza - e nella determinazione del metoda, mutua to dalla matematica, usando il quale l'io e in grado di emergere dalle nebhie del dubbio e di approdare con tutta certezza alia sponda salida della sostanza: della 'sostanza pensante', prima, e poi della 'sostanza perfettissima', Dio, e finalmente della 'sostanza estesa', il mondo che sta dinanzi al soggetto. Ma l'esemplarita del sapere matematico non si riduce semplicemente al metado. L'universo delle verita matematiche incarna in se un ideale che potrebbe essere lo stesso del sapere filosofico: l'ideale di un mondo i cui aspetti, per quanta diversi, costituiscano un insieme intimamente unificato dalla Iegge della necessita, nel quale il soggetto e l'oggetto, il mondo e Dio non siano che emergenze apparenti di un infinito teorema, nei cui passaggi non ci sia - co-
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me non c'e, ad esempio, nel teorema di Pitagora- nessuna casualita, nessuna contingenza, rna solo la pura e impassibile necessita. E questa, in nuce, la tesi di Baruch Spinoza*. Anche per lui il sapere filosofico e un sapere per causas e cioe un sapere che riconduce gli effetti alle loro cause prime. Ma egli e convinto che la vera causalita, alia maniera matematica, sia quella dell' essenza. Ad esempio, e nell' essenza del triangolo che la som-
Baruch (Benedetto, come egli valle chiamarsi dopa che fu espulso, nel 1656, dalla Sinagoga) Spinoza (piu precisamente De Spinoza) nasce ad Amsterdam nel 1632 da una famiglia di ebrei spagnoli che, per sfuggire alle persecuzioni dei Re Cattolici, si era stabilita dapprima in Portogallo e poi in Olanda, ad Amsterdam, sede di una comunita ebraica molto ricca e molto ben organizzata. Riceve la sua prima formazione nella sinagoga, dove si addestra nelle piu sottili esegesi della Sacra Scrittura e dove, appena quindicenne, mette in imbarazzo i suoi maestri. Alia professione di famiglia, il commercia, preferisce lo studio della tradizione giudaica, specie della Cabala e della filosofia medioevale. Desideroso di allargare il campo di ricerca, studia il latina presso un nato maestro del tempo, il medico Van den Ende. E in questa periodo (1654-56) che egli scopre, oltre che i classici e i pensatori moderni come Cartesio, anche i principi delle scienze moderne e in specie della matematica. Le sue idee sono ormai in formale contrasto con l'ortodossia ebraica: la sinagoga, con un decreta di scomunica, lo espelle dalla citta e dai rapporti con gli altri ebrei. Ritiratosi in un villaggio vicino alta citta, frequenta riunioni di cristiani di diverse sette e si crea un prima gruppo dt discepoli. Per essere indipendente si mantiene col proprio lavoro, cioe facendo il tornitore di lenti. Nel 1660 si stabilisce in un villaggio vicino a Leida, dove compone il Breve trattato su Dio, l'uomo e la sua felicita mentre lavora al Trattato sull'emendazione dell'intelletto, che restera incompiuto. Nel1663 pubblica i Pensieri metafisici (Cogitata metaphysica) e i Principi della filosofia cartesiana. Nel 1670 si trasferisce vicino a L 'Aja, dove attende a! suo capolavoro, l'Ethica more geometrico demonstrata, che sara pubblicato postumo. Si allarga il cerchio dei suoi amici-discepoli, tra i quali primeggiano i fratelli de Witt, esponenti della tendenza democratica antiorangista, a sostegno dei quali scrive il Trattato teologico-poljtico, che appare (1770) anonimo e suscita, da parte dei cattolici e dei calvinisti, feroci attacchi contra l'autore ben identificabile. I de Witt vengono trucidati (1772). Spinoza porta a termine l'Ethica (1574), che pero circola manoscritta. Aumenta attorno a lui l'ammirazione e !'interesse: Leibniz gli fa visita nel 1676. Attende ad un Tractatus Politicus che pero non conduce a termine. Consumato dalla tisi, muore in serenita (nell'ultimo momenta chiede un brodo e una pipa di tabacco) il 21 febbraio 1677, a soli 45 anni. Nel novembre della stesso anna, per cura degli amici, appare un volume di Opere postume, che contiene anche l'Ethica.
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178. D 7 - Spinoza rna degli angoli interni sia di 180 gradi: la somma degli angoli e l'effetto dell' essenza del triangolo. 11 genere umano - cosi si legge nell'appendice del suo capolavoro, l'Ethica- mettendo sui conto dell'ignoranza cio che non riusciva a spiegare (come l'esistenza del male) ha ammesso come cosa certa che i giudizi degli Dei oltrepassano di gran lunga l'intelligenza umana; .e certamente questa causa da sola sarebbe stata sufficiente a tenergli nascosta in eterno la verita, se la matematica, che tratta non dei fini, rna solo delle essenze e delle proprieta delle figure, non avesse mostrato agli uomini una norma diversa di verita.
Anche se il pensiero di Spinoza sembra collocarsi al di fuori di ogni condizionamento storico, e legittimo supporre che il fascino del modello matematico, cosi sgombro da ipoteche soggettive, cosi lontano dai fanatismi dogmatici, cosi misurato sulle possibilita dell'intelletto, abbia suscitato prospettive di liberta in un uomo come lui, sottoposto fin dall'adolescenza ai contraccolpi di una societa agitata da intransigenze religiose, tutte impegnate nello sfruttare, in nome di Dio, ciascuna a suo modo, l'ignoranza dell'uomo, radice di ogni passione. Gia durante la sua vita Spinoza fu accompagnato dalla fama di 'santo' laico o addirittura ateo (rna peri fanatismi del tempo il secondo epiteto stava al posto del primo). Certo e che il senso del suo messaggio filosofico egli lo tradusse perfettamente nella sua maniera di vivere. Pur essendo in poverta, rifiuto il dono di duemila fiorini da parte di un suo ricco alunno e quando piu tardi lo stesso alunno volle assicurargli una pensione di cinquecento fiorini annui osservo che erano troppi e li ridusse a trecento. Quando, nel 1773, l'Elettore Palatino (fratello della principessa Elisabetta, che-abbiamo gia conosciuto come alunna di Cartesio per corrispondenza) gli offri la cattedra di Heidelberg, egli rispose con una lettera in cui giustificava il rifiuto con l'amore della liberta, che, gia messa alla prova mentre viveva appartato, sarebbe stata del tutto impossibile se fosse diventato un uomo pubblico. La sua serenita non fu turbata nemmeno dall'impossibilita di pubblicare il suo capolavoro. Anzi, poco prima di morire, egli aveva chiesto agli amici di pubblicarlo senza il suo nome. Si trattava, come fecero notare gli editori, di un atto di coerenza con quanta aveva scritto, nel cap. 25 della quarta parte della sua Ethica dedicato alla modestia: Chi desidera aiutare gli altri, col consiglio o coi fatti, per godere in~ieme del sommo Bene, si preoccupera anzitutto di conciliarsi illoro Amore, e non di suscitare la loro ammirazione per il fatto che una dottrina porta il suo nome, e, in generale, di non dare alcun motivo di invidia.
7.2. La prospettiva morale. E difatti non deve trarre in inganno, nel sistema spinoziano, il carattere geometrico, l'esasperato oggettivismo che elimina ogni consistenza sostanziale del soggetto e risolve l'intera realta, da quella fisica a quella morale, da quella visibile a quella invisibile, in una rete di concetti dove non c'e spazio per le 'ragioni del cuore'. Come racconta lo stesso Spinoza nel Trattato sull'emendazione dell'intellet-
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to, alle origini della sua attivita filosofica c'e una scelta il cui sensa ultimo none la conoscenza in quanto tale, e la felicita. Una felicita dai contenuti non difficilmente determinabili, se appena si pone mente alla sua situazione esistenziale, al fatto, ad esempio, che egli dovette passare di scomunica in scomunica e dovette poi vivere dentro il groviglio delle passioni religiose e politiche che funestavano il paese piu libero dell'epoca! L'alienazione prodotta dallo zelo religioso e dal gregarismo di partito attendeva una risposta che fosse al suo stesso livello, che cioe smascherasse le radici del fanatismo di ogni colore, della superstizione e degli antagonismi di partito, e proponesse la via per raggiungere le condizioni della totale liberta: e qui, per Spinoza, in questa totale liberta, l'essenza della felicita. In questa sensa la filosofia ritorna con lui aile finalita eudemoniche di Platone e di Aristotele, rna con questa di totalmente nuovo, che 1' etica non e pili, accanto alia metafisica o alla fisica o alla gnoseologia, una ripartizione della giurisdizione del sapere, e la prospettiva unificante dove trova sensa perfino la ricerca scientifica: « tutto cio che nelle scienze non concorre alia realizzazione del nostro fine dovra essere rigettato come inutile». La via che Spinoza propane e quella della conoscenza razionale. Anzi, per lui la conoscenza e insieme la viae lo scopo, il metoda e il risultato. Non ci sono molte virtu rna una sola e questa sola virtu e l'intelligere, la comprensione razionale del tu tto. Il sinonimo piu perfetto di questa comprensione e la liberia e l'irradiazione essenziale di questa liberta e la felicita. Ecco perche l'itinerario della conoscenza e, in Spinoza, un vero e proprio itinerario ascetico, le cui tappe pero non sono scandite dal trionfo della volonta rna dal trionfo dell'intelletto. Le tappe di questa conoscenza liberatrice sono tre. 1. La conoscenza immaginaria, basata sulle modificazioni del corpo e percia necessariamente vaga e confusa, anche se non sempre falsa. E. al livello dell'immaginario che nascono le alienazioni antropomorfiche della teologia, quelle passionali della psicologia e quelle del terrore e dell' angoscia sui piano etico-politico. 2. La conoscenza raziona~e, basata sulle 'nozioni comuni' (da non confondere con gli 'universali' della scolastica, che appartengono alla fase immaginaria) e cioe sulle qualita comuni a tutti i carpi, quelle che nellessico meccanicistico si chiamano qualita primarie, come l'estensione, la figura, il movimento. La conoscenza razionale coglie la realta nei suoi rapporti necessari, non contingenti, e dunque in qualche modo sub specie aeternitatis, dal punta di vista dell'eternita. Per questa e una conoscenza adeguata, nel sensa che riesce a svelare e quindi a promuovere l'identita tra la connessione oggettiva delle cose e la connessione soggettiva delle idee che rappresentano le cose. 3. La conoscenza intuitivq, che ci porta d'un colpo oltre la molteplicita (dominio proprio della ragione discorsiva) nel cuore stesso della sostanza da cui tutto procede, sia nell'ordine del pensiero che nell'ordine dell'estensione. Non si tratta di un'effusione mistica, perche il momenta intuitivo resta pur sempre razionale. L'intuizione non e che il momenta in cui, attingendo gli attributi dell'assoluto nel punta in cui si risolvono nell'unita della loro origine, l'intelletto conosce direttamente Dio ed e preso da amore per questa realta eterna e immutabile il cui possesso gli e assicurato per l'eternita. Di qui nasce la gioia
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e finalmente la stessa beatitudine di cui !'anima si veste come della propria perfezione. E. qui che l'uomo si eleva ad una suprema coscienza di se, che e nel contempo suprema coscienza di Dio (si fa sui et Dei conscius). In questa suprema coscienza di Dio la mente umana trova anche il criteria della verita, che e, anche per Spinoza, l'evidenza. Ma il criteria dell'evidenza non e, com'era per Cartesio, un criteria formale, che la mente deve, quasi dall'esterno, applicare ai suoi procedimenti, e il carattere stesso della verita, in quanto oggetto dell' intuizione: « la verita infa tti e in dice di se s tessa e del falso». Nel suo grado sommo, e quindi nella sua somma evidenza, la verita e Dio stesso, al punto che per Spinoza Dio e sinonimo di Verita. Per questo, mentre nella determinazione spinoziami. dei generi del conoscere quello intuitivo occupa il terzo e ultimo grado, nella fondazione della dottrina delle verita esso costituisce il vero cominciamento, a partire dal quale la ragione esclude come irrazionale, e cioe come provvisorio, contingente, alienante tutto cia che non e perfettamente chiaro. Mentre Cartesio ricorre a Dio per dare un fondamento alla validita del conoscere, Spinoza parte da Dio, come evidenza fondamentale, per dedurre l'intero sistema della verita che ai suoi occhi risplende della stessa evidenza che ha la proposizione matematica 'gli angoli interni di un triangolo sono uguali a due retti'! 7.3. La sostanza. Spinoza dunque capovolge la prospettiva cartesiana: il punto archimedico (5.3) della conoscenza non e l"io penso', e l'idea di Dio. II razionalismo che in Cartesio si arrestava alle soglie della volonta del Creatore, che ha posto le fondamenta dell'umana razionalita restandone al di sopra, in Spinoza invade anche la sfera dell'Assoluto per trovare proprio h il primo anello delle sue deduzioni. La via per questo accesso all'Assoluto l'aveva aperta Cartesio con la sua definizione di sostanza: la sostanza e cia che e in se e si concepisce per se. Sostanza in senso proprio, arguisce Spinoza, e solo Dio, che infatti non ha bisogno di nessun'altra realta per essere quello che e, ne di nessun altro concetto per rendersi intelligibile. Accanto alla sostanza assoluta Cartesio poneva due sostanze derivate, il pensiero e l'estensione, che per esistere e per essere pensate hanno bisogno soltanto della sostanza assoluta. Questa deroga cartesiana e priva di senso, per Spinoza, che nella prima pagina della sua Ethica formula la definizione che fa da architrave al suo sistema: Per sostanza in tendo cio che e per se e che per se viene concepi to: ossia cio il cui concetto non necessita del concetto di altra cosa, da cui debba venir forrnato.
In questa definizione della sostanza e gia implicita l'affermazione della sua esistenza: in quanto causa di se, la sostanza non pua non esistere. Ritroviamo qui, in forma e con ruoli diversi, l'argomento ontologico di Anselmo e di Cartesio (5.4). La sostanza, infatti, e Dio, un Dio inteso come essere necessaria e del
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tutto immune dai tratti antropomorfici della volonta e della soggettivita. E il Dio dei filosofi, insomma, non dei profeti: l'opzione rli Biagio Pascal (5.19) e qui capovolta. Non che Spinoza sia sordo alle 'ragioni del cuore', rna esse non hanno una giurisdizione loro propria, accanto o contra quelle dello spirito di geometria. Il loro spazio e quello dell'oggettivita infinita della sostanza, la cui realta ingloba in se anche la sfera della soggettivita e che e razionalmente esprimibile - e cosi viene espressa, infatti, nell'Ethica - secondo il modello euclideo, more geometrico, attraverso definizioni, assiomi, proposizioni (teoremi), dimostrazioni, corollari e scolii. Il dualismo sostanziale, vero punctum crucis di Cartesio, scompare: l' estensione e il pensiero non sono in nessun modo sostanze, sono atrributi dell'unica sostanza. Spinoza intende per attributo «cia che l'intelletto percepisce della sostanza come costituente della sua essenza». Essendo infinita, la sostanza ha infiniti attributi, dei quali solo due sono da noi conoscibili, appunto l' estensione e il pensiero. Ciascun attributo e, nel suo ordine, infinito e puo essere percepito in se e per se nell'atto stesso in cui e percepita la sostanza. Gli attributi infiniti si manifestano nei modi finiti: l'estensione nei corpi particolari, il pensiero nelle idee. I corpi non sussistono in se e per se, rna nell' estensione, la quale e una sola cosa con la sostanza. Analogamente si dica delle idee: esse sussistono nel pensiero, attributo della sostanza. Le modificazioni dei corpi si svolgono tutte all'interno del loro attributo e cosi si dica delle idee. Ma, siccome tutto sussiste nella medesima sostanza, «l'ordine e il nesso delle idee sono identici con l'ordine e il nesso delle cose». Non si da un'idea che sia causa di un corpo o un corpo che col suo movimento sia causa di un'idea; l'idea e causa solo di un'idea, il corpo di un corpo. Ma, siccome i modi sussistono nell'unica e medesima sostanza, tra la concatenazione causale dei carpi e quella delle idee c'e perfetta coincidenza. Nell'ordine dell'estensione quella concatenazione e meccanica, nell'ordine del pensiero e geometrica. Dal punto di vista del pensiero l'universo non e che un infinito teorema, dal punto di vista dell'estensione non e che un'infinita macchina. Dio, si e detto, e la sostanza dagli infiniti attributi: da questo punto di vista (un punto di vista, peraltro, del tutto inaccessibile per soggetti finiti come noi) egli non puo essere identificato con la Natura. Ma considerato nell'attributo dell'estensione, egli e una stessa cosa con la Natura, la quale dunque e infinita, esclude cioe che qualsiasi cosa sussista al di fuori di se stessa, ed e eterna. Parlare di un atto originario di creazione non ha senso. Dio none altro che il mondo: si puo dire che egli e prima di tutte le cose solo in senso logico e ontologico, non gia in senso cronologico. Il che non vuol dire che Dio sia merte, come la 'sfera' degli eleatici, perche la sua essenza e la potenza, cioe un infinito potere di produzione, che si attua nell'infinita dei suoi attributi e dei lora rispettivi modi. Questa potenza produttiva non ha nulla a che fare con la creazione, che e, si, produzione, rna con questo di proprio, che il prodotto e sostanzialmente altro dal producente e contingente nei suoi confronti; c'e, si, rna potrebbe anche non esserci, senza nessun detrimento per la perfezione del Creatore. Il Dio di Spinoza invece e libero solo nel sensa che da nulla e impedito ad essere quel che e, rna la sua causalita e necessaria: gli effetti non possono non essere e non possono essere che quelli che sono. La contingenza del mon-
182 0 7 - Spinoza do in rapporto a Dio faceva parte della novita filosofica introdotta dalla tradizione ebraico-cristiana, in contrasto con l'emanazionismo neoplatonico (I. 8.3), che poneva tra la natura e Dio un vincolo di identita sostanziale, lasciando pero ai margini, come pura negazione dell'essere, la materia. Un secolo prima di Spinoza era stato Giordano Bruno (3.6-8) a proporre un'unita panteistica tra Dio e la natura, sciogliendo nel crogiuolo della sua fantasia vitalistica il patrimonio neoplatonico rinnovato piu di un secolo prima da Nicola Cusano (1.4). La: distinzione posta da Bruno tra la Natura naturante, che e Dio come causa immanente, e la Natura naturata, che e il mondo nella molteplicita delle sue forme e dei suoi mutamenti, si ritrova in Spinoza. Ma tra Bruno e Spinoza c'e tutto l'arricchimento intervenuto nella prima meta del Seicento con Galileo e Cartesio, che avevano dimostrato, scartando ogni mito vitalistico, la struttura geometrica dell'universo. Spinoza, integrando nella sua visione di Dio questa nuova prospettiva, fa scaturire la natura naturata dalla natura naturante secondo i modi con cui le proposizioni geometriche derivano l'una dall'altra, per necessita intrinseca. L'universo non e che il dispiegarsi di un teorema dentro il quale corre una medesima necessita, e dentro il quale l'infinito sistema di rapporti tra le cose non e che un infinito sistema di assiomi, distribuiti secondo la gerarchia logica di sostanza, attributi, modi. 7.4. La necessita. Un sistema come questo, che non lascia adito a misteri ne a dipendenze da poteri arcani, permette all'uomo di liberarsi dalla paura e di instaurare un dominio razionale sulla natura: conquiste essenziali al progetto di liberta che, come si e detto, sta alle origini della scelta filosofica spinoziana. Tutto cio che e non puo non essere; tutto cio che accade non puo non accadere, perche niente nella natura e contingente. Se noi distinguiamo il necessaria e il contingente, una deduzione matematica e l'incontro fortuito con un amico, e a causa della nostra ignoranza, che non ci consente di cogliere al completo la concatenazione che lega le cose particolari alloro attributo e cioe alla sostanza. Se io tengo presenti tutti gli addendi dell'operazione 3+2+4+8 = 17, il risulta to 17, appare necessaria. Ma se mi fossero ignoti uno o piu addendi, il risultato 17 apparirebbe contingente, casuale. E la ragione per cui, osservando la moltitudine degli atti compiuti dagli uomini che mi sono d'intorno, resto convinto che essi avrebbero potuto non esserci o essere diversi e che dunque sono decisi dalla Iibera scelta di ciascuno. La verita e diversa. La verita e che il cadere di una foglia o l'elevarsi del mio braccio sono particolari finiti all'interno di una connessioi1e infinita a partire dalla quale' essi si rivelano necessari. Tutto sta nell'osservare la natura sub specie aeternitatis, dal punto di vista degli attributi, che sono infiniti ed eterni e che costituiscono ciascuno la totalita entro la quale anche il particolare piu insignificante ha il carattere della necessita. Non solo il particolare piu insignificante, come la foglia che cade, rna anche quello moralmente piu ripugnante, come un infanticidio. La distinzione tra il Bene e il Male non ha nessun senso oggettivo; ha senso solo rispetto a noi, e precisamente alla nostra autoconservazione, in base alla quale noi siamo soliti qualificare le cose e gli atti come buoni e cattivi. Ma solo se rimane inceppato nel primo genere di conoscenza, quella immaginaria, l'uomo
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cade nell'errore di porre se stesso, e cioe un modo finito di un attributo infinito, al centro della Natura, facendo di se il metro di tutte le cose. In questa illusoria centralita dell'uomo trova il suo limite la ragione, che e, si, un modo dell'attributo-pensiero, rna appunto per questa, in quanta e chiusa dentro l'orizzonte finito dell'uomo, non e commisurabile alia totalita del pensiero. Di questa tipo e !'errore di colora che attribuiscono a Dio una ragione come la nostra, che tutto giustifica ed ordina in vista di un fine. Il finalismo (di cui l'idea di provvidenza none che una versione teologica) e anch'esso una forma di antropomorfismo. Siccome hanna i denti per mangiare, erbe ed animali per cibarsi, l'acqua del mare per allevare pesci, gli uomini hanno considerato le cose della natura come mezzi a loi:o disposizione; e, siccome quei mezzi li trovano gia predisposti nella natura, hanno creduto di doverne attribuire la causa a un Dio che tutto ha fatto per l'uomo. Niente e meno conveniente a Dio come l'agire per un fine, dato che avere in vista un fine non ancora raggiunto e sicuro segno di imperfezione. La causa finale e un prodotto della nostra immaginazione. Dio non si propane nulla, egli e l'ordine dell'universo esistente ab aeterno, senza possibilita di variazioni, nemmeno queUe, cosi care aile religioni, del miracolo. Anche qui, e l'immaginazione religiosa che fa di Dio un sovrano i cui decreti la Natura esegue salvo i casi in cui egli decide (facendo, appunto, dei miracoli) una loro sospensione. Ma Dio non e un sovrano che sta al di sopra dell'ordine della natura, e ne pili ne meno che questa stesso ordine. Un miracolo, e cioe una sospensione di quest'ordine, sarebbe una menomazione di Dio, che e ipotesi assurda. Senza dire che il Dio di Spinoza non ha volonta e quindi nemmeno capacita di determinarsi in un modo piuttosto che in un altro. La necessita, l'impassibile impersonale necessita, e la sua vera liberta, in quanto essa non e effetto di una coazione esterna, rna il prodotto della sua stessa essenza. 7.5. L'antropologia. Dio coincide dunque con l'ordine dell'universo, anche se, in virtu dei suoi infiniti attributi, egli ha, per cosi dire, un versante totalmente inaccessibile all'uomo. L'uomo non puo uscire dal versante disegnato dai due attributi del pensiero e dell'estensione, e cioe dalla Natura. Ma nemmeno il pensiero come attributo di Dio e commisurabile all'intelletto dell'uomo. L'intelletto di Dio, in quanto e concepito come costituente l'essenza divina, differisce dal nostro sia n~ll'essenza sia nell'esistenza e non puo assomigliargli in alcuna cosa tranne che nel nome.
Ecco perche Spinoza non ha cominciato Ia costruzione del suo sistema a partire dall"io penso' dell'uomo, rna dall'intelletto di Dio, o meglio dalla realta dedotta dalla definizione della sostanza. Tra Ia coscienza dell'uomo e Ia realta non c'e nessuna simmetria, nessuna correlativita che consenta di descrivere il mondo a partire dalla coscienza. Sbagliano, dice Spinoza, colora che concepiscono l'uomo «come uno Stato nello Stato>>, con la capacita cioe di autodeterminarsi all'interno della natura mutandone l'ordine a proprio arbitrio. La scienza sull'uomo none che una parte della scienza della natura. L'uomo e un
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essere particolare (un 'modo') unitario e non duplice, proprio perche in lui l'estensione e il pensiero, il corpo e l'anima, esprimono la medesima indivisibile sostanza. Come modificazione del pensiero, l'uomo e anima o spirito omente; come modificazione dell'estensione, e corpo. E in base al parallelismo dei due attributi si puo dire che la mente non e che l'idea di questo corpo e questa corpo none che l'oggetto di questa mente. E siccome nessun modo di un attributo puo agire sul modo dell'altro attributo (da un attributo all'altro non si da passaggio diretto), rna ambedue esprimono, ciascuno nel proprio aspetto, il medesimo or dine razionale, ne deriva che « ne il corpo puo determinare la mente a pensare, ne la mente puo determinare il corpo a muoversi o a stare in quiete», e tuttavia il corpo riflette in se tutte le determinazioni della mente e la mente tutte quelle del corpo. E cosi che Spinoza salda la frattura cartesiana delle due sostanze. Ed e cosi che egli semplifica all' estremo, con chiarezza geometrica, la complessita della natura umana. Le altre facolta, come il sentimento o la volonta, scompaiono e si riducono a semplici atti: come c'e l'atto del pensare (non il pensiero come facolta), cosi c'e l'atto del volere, l'atto del sentire. L'analisi dell'uomo consiste dunque nell'analisi del sistema di azioni e reazioni che costituisce l'esperienza umana nel contesto della natura, «proprio come se si trattasse di linee, di piani e di carpi». Per disegnare questa geometria sull'uomo Spinoza parte da un principia che non e esclusivo dell'uomo, e il principia di ogni ente di natura: la tendenza (conatus) a perseverare nel proprio essere e cioe all'autoconservazione. Nell'uomo questa tendenza (nel linguaggio psicoanalitico odierno potremmo chiamarla pulsione) si fa consapevole di se e si chiama desiderio, cupidita (cupiditas). A causa della sua radicalita, la cupidita investe sia l'ordine delle idee, ed e allora che l'idea si dice volonta, sia l'ordine corporeo, e allora si dice appetito. Va detto che la tendenza all'autoconservazione non e in Spinoza una pura Iegge di inerzia, e una forza attiva, analoga alia 'potenza' che, come abbiamo vista, sta alia base della produttivita della sostanza. Essa comporta anche l'affermazione di se, la dilatazione del proprio potere. Tutto cio che corrisponde alia cupidita, rendendole possibile l'appagamento, e bene, cio che la ostacola e la inibisce e male: il bene e il male non sono dunque anteriori alla cupidita, e piuttosto la cupidita che li determina in base a se stessa. Nell'antropologia spinoziana la cupidita ha lo stesso ruolo che in quella platonica ha l' eros, con la differenza che in Spinoza e l' eros che determina cio che e bene e cio che e male. E cosi non e in vista del conoscere che l'uomo desidera, rna e per dispiegare al massimo il proprio desiderio di esistere che l'uomo si sforza di conoscere. Quando la cupidita riesce ad affermarsi, si ha la gioia, quando essa fallisce, si ha la tristezza: il sentimento che si ha per cio che produce gioia si chiama amore, e si chiama odio quello che si ha per cio che produce tristezza. Da questi stati emotivi o affetti derivano tutti gli altri (al completo gli affetti sono 48), dei quali Spinoza, nella III parte della sua Ethica, fornisce una analisi di sorprendente acutezza. Ma Spinoza non e uno psicologo che si limita a descrivere gli stati della psiche. Il suo intento e di indicare quale sia, a partire dallo stato di schiavitu in cui l'uomo si trova, Ia via che deve seguire per la propria liberazione. In se considerati, e cioe come variabili della cupidita, gli affetti rientrano nella tra-
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rna della necessita. La liberta dell'uomo non consiste affatto nel rompere la trama della necessita, rna nel rendersene cosciente. A seconda dei suoi livelli di coscienza, la cupidita si trasforma, senza che sia interrotta la catena delle azioni-reazioni in cui l'uomo si trova inserito e che d'altronde non e che un aspetto della divina necessita della natura. I gradi della liberta sono gli stessi gradi della conoscenza di cui sopra (7.2) abbiamo detto. 1. L'affetto diviene una passione se rimane imbrigliato dall'immaginazione, dalla conoscenza confusa e parziale delle cause, dalla nostra dipendenza da esse, che ci imprigiona nell'illusione oggettivistica, quasi che le cose siano desiderabili di per se e che il bene sia esteriore al desiderio e percio capace di determinarlo. A questa livello l'uomo risponde all'odio con l'odio, all'ira con l'ira, al disprezzo col disprezzo. 2. L'uomo si fa libero al momenta in cui, avendo compreso le cause delle passioni, agisce indipendentemente da esse. Chi bene sa che tutto deriva dalla necessita della divina naturae accade secondo le leggi e le regole eterne della natura, non trovera certo mai nulla che sia meritevole di odio, di riso o di disprezzo, ne avra compassione di alcuno; rna per quanto lo comporta la virtu umana, si sforzen1 di agire bene, come si dice, e di essere lieto.
Ad esempio, la morte e nelle regale eterne della natura e dunque il timore della morte nasce da una idea inadeguata. «L'uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte e la sapienza e una meditazione non della morte, rna della vita». E cos1 si dica delle malattie e delle persecuzioni. Come non ci da meraviglia che un neonato non riesca a parlare, perche cosi vuole Ia natura, nello stesso modo non ci si meraviglia di niente che accade in noi o nel mondo, perche tutto quanta avviene e un aspetto della divina necessita, di cui la ragione ci fa percorrere la trama. Ma la ragione non si limita ad assicurarci questa imperturbabilita, che ci ricorda quella degli stoici, ci indica anche quale sia, volta a volta, la via da seguire. Poiche la ragione nulla esige contro la natura, essa esige dunque che ciascuno ami se stesso, ricerchi il proprio utile, cio che veramente e utile, e appetisca tutto cio che conduce veramente l'uomo ad una perfezione maggiore, e, assolutamente parlando, che ciascuno si sforzi di conservare il proprio essere, per quanto dipende da lui.
Ma che cos'e veramente utile? Il grado di utilita va giudicato secondo le leggi della natura umana:
e
Nulla dunque pili utile all'uomo che l'uomo stesso; nulla, dico, di pili eccellente gli uomini possono desiderare se non che tutti si accordino in tutto, in modo che le menti e i corpi di tutti formino quasi una sola mente e un solo corpo, e tutti si sforzino insieme, per quanto possono, di conservare il proprio essere, e tutti cerchino insieme per se !'utile comune di tutti.
La caratteristica dell'etica di Spinoza
e che
in essa mai si fa appello alia
186 0 7 - Spinoza volonta, in quanto nel suo sistema la volonta si identifica con l'intelletto e i suoi atti coincidono con l'affermazione o la negazione implicita di un'idea. L'illusione della volonta come capacita di autodeterminarsi viene all'uomo dalla cognizione confusa e imperfetta della causa e scompare non appena la ragione si rende conto che «tutto segue dall'eterno decreto di Dio con la medesima necessita con cui dall'essenza del triangolo segue che i suoi tre angoli sono uguali a due retti». 3. A questo terzo livello, la conoscenza non e discorsiva, rna intuitiva, perche vede immediatamente tutte le cose inDio in quanto egli le costituisce nella loro essenza. Da questa contemplazione della universale necessita nasce una beatitudine che e insieme liberta e gioia, trasfigurazione ultima della radicale cupidita, appagamento di se, armonia con se stesso e col mondo e riposo attivo in se. Spinoza chiama questo culmine dell'esperienza filosofica amore intellettuale di Dio, che e parte dello stesso amore infinito con cui Dio ama se stesso. Con esso la coscienza ha accesso in una specie di eternita, che none pen) dell'al di la, e una nuova nascita che da inizio ad un modo di esistere secondo le determinazioni della verita (sinonimo di Dio e di Natura) disciolte dalle contingenze empiriche che esse hanno nel tempo ordinario. E qui, secondo molti, lo straordinario paradosso spinoziano, in questa trasposizione dell'ateismo nel registro espressivo della grande tradizione mistica. 7.6. La questione politica. Nello spirito di un sistema siffatto c'e la legittimazione dell'esistente, non solo sul piano dei fenomeni di natura, rna anche su quello della societa. Nell'infinito teorema della sostanza rientra anche la storia dell'uomo, che e una provincia del grande impero della Necessita. E difatti Spinoza, che avrebbe dovuto trarre dalla sua stessa situazione esistenziale gli stimoli per un rigetto degli ordinamenti politici del suo tempo, non cede nemmeno di un palmo alle suggestioni dell'utopia, si limita a sollevare nella trasparenza della ragione anche la dimensione sociale e politica dell'esperienza, senza seguire la strada di chi vagheggia una natura umana fuori del reale, ne la strada di chi deplora la natura umana realmente esistente. La sua posizione dinanzi alla questione politica e dunque non dissimile da quella del Machiavelli, di cui fu aperto ammiratore, anche se non sembra che ne abbia bene inteso l'insegnamento. Convinto che, come dice Tacito, «esisteranno vizi finche esisteranno uomini» e che tutto quanto c'e da dire sull'organizzazione della societa e gia stato detto, Spinoza non si propone, come scrive nel Trattato Politico, «nulla di nuovo o di impensato, rna soltanto di dimostrare con argomenti certi e irrefrenabili, cioe di dedurre dalla condizione stessa della natura umana, quei principi che si accordano perfettamente con la pratica e, per procedere in questa indagine scientifica con la medesima liberta di spirito con la quale usiamo applicarci alla matematica», egli si impone la consegna «di non ridere ne piangere sulle azioni umane, e nemmeno di detestarle, rna di comprenderle»: neque ridere neque lugere sed intelligere. La geometria politica di Spinoza comporta tre distinti passaggi. 1. I1 principia euclideo da cui tutto dedurre e quello della cupidita, che nella sua condizione originaria segna lo stato di natura dell'uomo. La cupidita none che il manifestarsi nell'uomo della infinita potenza di Dio, che e assolu-
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tamente libera, nel senso che nulla puo impedirle di essere que! che e secondo la sua intima necessita. E cosi ogni uomo ha diritto ad assencondare senza limiti la sua cupidita. Solo che l'uomo non puo tutto, perche si trova a dover fare i conti con la cupidita degli altri. Di fatto, il suo diritto coincide con il suo potere; anche col suo potere di assoggettare un altro con la violenza. Anche per Spinoza l'uomo e per natura nemico all'uomo (homines ex natura hastes). Ma, a differenza di Hobbes, che. considerava il patto sociale come una fuoriuscita dallo stato di natura (6.8), Spinoza, facendo leva sul suo concetto di potere quale portato della cupidita, considera l'accordo di pili uomini come un naturale effetto della ricerca di potere: uniti insieme, gli individui hanno pili potere, nei confronti dei comuni nemici, che nun se fossero da soli. Non e dunque il timore a creare la societa, e la convenien:?.a, e la ricerca dell'utile. In questa. fase non esistono i criteri del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto: Ia societa non e che un meccanico aggregarsi e disaggregarsi di appetiti, da niente altro mossi che dall'affermazione di se. Nonostante la variante (nei confronti dell'artificio hobbesiano) del carattere naturale della societa, il quadro che Spinoza offre dell'uomo secondo natura non e poi molto dissimile da quello di Hobbes. 2. Ma la variante sulla naturale socialita degli uomini acquista rilievo la dove Spinoza delinea una societa civile che non si identifica con lo Stato, il quale, proprio per questo, non crea il cittadino ne puo assorbirlo totalmente in se. La societa civile e la moltitudine organizzata secondo regole poste dalla ragione, che e anch'essa dotata di potere, e anch'essa, cioe, strumento della cupidita, ma secondo criteri che riflettono la razionalita dell'universo e permettono di comprendere, ad esempio, che !'utile comune assume in se, e lo supera, anche !'utile individuale, che la distinzione tra giusto e ingiusto non soffoca la naturale cupidita, ma la articola con la universale necessita che regge il mondo. II diritto civile esprime, con la sua distinzione tra il giusto e l'ingiusto, il dominic della ragione sugli appetiti e fa del singolo cittadino il garante dell'altro, non pili il suo nemico. 3. Ma la distinzione tra societa civile e Stato e solo logica: di fatto, il passaggio dallo stato di natura alla societ:a organizzata avviene, anche per Spinoza, col patto sociale che da origine allo Stato. Spinti dalla necessita e consigliati dalla ragione, gli uomini hanno deciso di rinunciare ciascuno al proprio diritto su tutto, per esercitare collettivamente il medesimo diritto su tutto. La ragione formale del patto e, come si vede, l'utilita, «tolta la quale il patto stesso viene contemporaneamente annullato e resta distrutto». 11 potere dello Stato spinoziano e assoluto, nel senso che a! suo interno non si danno altri poteri, nemmeno quello delle chiese, come subito diremo, ma none assoluto in rapporto al ci ttadino. Nessuno, dice Spinoza, potra mai trasferire in altri la sua potenza, e conseguentemente il suo diritto, fino a rinunciare ad essere uomo ... E ragionevole ammettere che ciascun uomo riserbi sempre a se molti diritti, i quali, di conseguenza, dipendono dalla sua volonta e non da quella altrui.
Ma su questo punto c'e, nel linguaggio di Spinoza, una oscillazione che da
188 D 7- Spinoza ragione alle contrastanti interpretazioni a cui sara soggetta la sua dottrina della Stato. Da una parte, come ora si diceva, in Spinoza e incontestabile il sensa della dignita dell'uomo come essere di ragione, come modo finito dell'infinita Sostanza; dall'altra, facendo derivare lo Stato dalle leggi di natura, ricondotte sotto la nozione di potenza, egli sembra assegnargli un diritto illimitato all'affermazione di se, non solo nei confronti degli altri Stati (alleanze e guerre sono governate dal puro e semplice criteria dell'utilita), rna anche nei confronti dei ,cittadini, data che tocca allo Stato stabilire cio che e bene e cio che e male, cio che e giusto e cio che e ingiusto, e addirittura cio che e pio e cio che e empio. Ai cittadini incombe l'obbligo di obbedire ai suoi decreti anche quando apparissero contra ragione, salvo restando il lora diritto di pensare, di giudicare e quin~i anche di parlare contra quei decreti. Vera e che quando passa, nel suo Trattato Politico, a descrivere e valutare le tre forme di governo che la natura e l'esperienza hanna suggerito agli uomini - il monarchico, l'aristocratico e il democratico - egli si esprime (l'opera rimase interrotta proprio nella parte dedicata a questa tema) a favore di quest'ultimo. Il governo democratico, si basa, egli dice, sui voto di tutti colora che sono 'liberi di se' (non dunque delle donne, che sono 'per natura' soggette ai mariti, ne dei servi, soggetti ai padroni). 7.7. La religione. Nemmeno un uomo come Spinoza, cosi rigoroso nel culto della ragione, ha potuto in tutto e per tutto liberarsi dai condizionamenti storici, che avevano cosl duramente colpito la sua esistenza di 'scomunicato'. La sua dottrina sui poteri della Stato mirava soprattutto a negare ogni fondamento di ragione alle pretese dei teologi e delle autorita ecclesiastiche nei confronti dell'autorita civile. Egli vedeva nelle religioni positive niente altro che sistemi di superstizione, nati apposta per sfruttare le due passioni pili profonde delle masse incolte, la paura e la speranza. Contra la superstizione e, piu precisamente, contra le interpretazioni istituzionali della Sacra Scrittura, Spinoza scrisse il Trattato teologico-politico, usando di un metoda che avra in seguito straordinario successo: quello di una lettura razionalistica della Bibbia, mettendo a frutto la sua eccezionale competenza filologica. Oltre a sollevare molte questioni circa la coerenza interna della Bibbia (egli vi scorge gli apporti di culture diverse e mette in dubbio l'attribuzione del Pentateuco a Mose), Spinoza pone a confronto Ia qualita profetica della Sacra Scrittura e la conoscenza razionale di cui l'uomo e capace con i suoi mezzi. La rivelazione profetica delle verita di Dio avviene nella sfera dell'immaginazione, mediante parole e simboli adatti a muovere i sentimenti del volga: unica eccezione, quella di Cristo, che stabili con Dio un rapporto «da mente a mente». La profezia non produce, cioe, ne nel profeta, soggetto al proprio temperamento, ne in chi accetta la sua parola, una vera e propria conoscenza, rna solo una certezza morale ordinata alla promozione della giustizia e del bene. Ed e qui, in questa aspetto pratico, il valore permanente della profezia. Ma quanta alia cognizione del vera, la rivelazione profetica non puo sostituire la conoscenza razionale, che ha per oggetto quel che Dio rivela di se nella natura. Mentre l'insegnamento dei profeti, non avendo come sua base 1' evidenza di ragione, aveva bisogno del supporto della prova miracolosa, la conoscenza razionale di Dio rigetta il miracolo co-
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me contraddittorio con la divina necessita che regola il mondo: i miracoli sono fatti naturali di cui ci sfuggono, per nostra ignoranza, le ragioni. Non che l'uomo, pago delle proprie capacita razionali, debba respingere il patrimonio della Sacra Scrittura. Egli pen) si rifiutera di considerare la parola· di Dio quasi imprigionata nei Sacri Testi: essa e dovunque, e la ragione puo farla sua se riesce a superare la barriera delle idee confuse e volgari a cui si ferma l'uomo schiavo dei sensi. Nemmeno l'insegnamento della Scrittura va rifiutato, una volta che esso, liberato dall'involucro dei miti, sia ridotto al suo nucleo essenziale che, riferendosi soprattutto al Vangelo, Spinoza condensa in due norme assolute: l'obbedienza a Dio e l'amore per i1 prossimo. Questa e la vera fede universale, i cui dogmi possono ridursi a questa solo: esiste un ente supremo che ama la giustizia e Ia carita e al quale tutti, per essere salvi, devono obbedire e che tutti devono adorare con il culto della giustizia e della carita verso il prossimo.
Proprio dal fatto che nel passato ci si allontano da questa insegnamento dei primi apostoli di Gesu derivarono le molteplici divergenze e gli scismi dai quali la chiesa fu continuamente travagliata fin dai tempi degli apostoli e dai quali sara certamente travagliata in eterno, se infine non avverra che la religione si separi dalle speculazioni filosofiche e si riconduca a quei pochissimi e semplicissimi dogmi che Cristo insegno ai suoi discepoli.
Ricondotta alla sfera pratica di quei dogmi, la fede non puo essere di ostacolo alia filosofia come invece lo e la teologia, che attribuisce alla rivelazione divina opinioni umane del tutto discutibili. Di qui l'importanza della Stato per tutelare la liberta del cittadino in materia religiosa. Lo Stato di Spinoza non e pero uno stato laico, come quello di Locke (6.21). Tocca all'autorita della Stato, infatti, stabilire intorno alla religione tutto cio che crede, e tutti sono tenuti". per la lealta che ad essa hanna promesso e che Dio vuole assolutamente mantenuta, ad osservare i decreti e i mandati da essa emanati in tal materia.
Al cittadino rimane soltanto il diritto di tutelare la propria liberta di pensiero. Come infatti si potrebbe garantire la pace <<Se ciascuno non avesse rinunciato ad agire solo secondo la deci-sione della sua mente?». «Dunque, prosegue Spinoza, ciascuno rinuncia soltanto ad agire secondo il proprio volere, rna non al diritto di ragionare e di giudicare» e cioe al diritto di opinione e di espressione. I governi possono tenere a frena l'uomo esteriore, rna non quello interiore. II fine della Stato none quello di trasformare gli uomini da esseri razionali in bestie o in macchine, rna al contrario quello di garantire che la mente e il corpo di essi adempiano con sicurezza alla loro funzione, che essi si servano della libera ragione e non si combattano con odio, ira od inganno, ne si affrontino con animo iniquo.
190 D 7 - Leibniz In questo senso, e cioe in un senso molto ristretto, Spinoza puo essere considerate un padre dello Stato liberale.
Leibniz 7.8. Un intellettuale europeo. In uno dei suoi Pensieri, Pascal aveva osservato: «Non c'e che un solo punto indivisibile che sia il vero luogo: gli altri sono troppo vicino, troppo lontano, troppo in alto o troppo in basso. La prospettiva l'assegna nell'arte di dipingere, rna nella verita e nella morale, chi l'assegnera?». Il fascino di Spinoza e proprio nell'aver cercato una visione totale della realta con un solo indivisibile punto di prospettiva, quello della sostanza, raggiungendo cosi l'eccesso opposto a quello di Cartesio. In Cartesio la realta non e unificata: Dio, il pensiero, l'estensione si collocano in ordini tra loro diversi, dotato ciascuno di leggi sue. In Spinoza la prospettiva e talmente unitaria che i diversi ordinf si appiattiscono l'uno sull'altro: l'ordine delle idee e 1' ordine delle cose si identificano tra loro perche in realta non sono che una sola indivisibile sostanza. La prospettiva non e, in lui, il punto d'incontro di piu linee, rna una sola linea, anzi un solo punto. Il trionfo del sistema era a spese della autonomia degli individui. L'unita annullava la pluralita. La necessita annullava la contingenza. Il filosofo che, in un costante anche se per lo piu taciuto riferimento a Spinoza, tentera di salvare il sistema e insieme la pluralita degli individui, adottando il criterio dell'unita di prospettiva entro cui dispiegare una miriade infinita di sostanze individuali, e il tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz*. Nel '76 egli aveva voluto incontrare a L'Aja il solitario pulitore di lenti e si era trattenuto con lui (pare che abbia letto, almeno in parte, il manoscritto della sua Etica) senza che pero la lezione spinoziana lo persuadesse. Anzi, in seguito egli mettera in guardia dall'autore dell'Etica come da un pericoloso teorico
Messa a confrorzto corz quella di Spirzoza, la vita di Gottfried Wilhelm Lelbniz appare dissipata, caotica, virzcolata alle leggi avvilenti del mecenatismo di corte. Ma si tenga canto che i due filosofi vivorzo nella stesso secolo, ma rzorz rzello stesso morzdo. Spirzoz.a e f{glio di un 'Olanda prospera, dominata da una borghesia intraprendente e colta, capace di fornirgli discepoli e un pubblico attento; Leibniz vive nella Germania impoverita e spopolata dalla Guerra dei Trent'anni, frantumata, per decisione della pace di Vestfalia del 1648, in ben 350 stalerelli, solo nominalmente soggetti all'Impero, ma in realta retti da un'autocrazia di tipo feudale, che impedisce il sorgere di quella classe borghese, che e invece la salida ossatura dell'Inghilterra, della Francia e dell'Olanda. Con questa mondo deve fare i suoi conti il precocissimo Leibniz. Nasce
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a Lipsia nel 1646 e a quindici anni intraprende i suoi studi nell'universita della sua citta. Li conclude nel '64, e nel '66 diviene docente nella facolta di filosofia. Pubblica i due scritti che gli avevano guadagnato il titolo accademico: il De principia individui e l'Ars Combinatoria Nel '67 entra al servizio dell'Elettore di Magonza con l'incarico di riordinare gli studi giu. ridici. lnterviene su questioni di politica internazionale. Proprio per una missione diplomatica si reca nel '72 a Parigi, dove stabilisce una fitta rete di rapporti culturali in Francia e in lnghilterra e impara bene il francese, di cui si servira, oltre 'che del latina, nella scrivere i suoi saggi. Il tedesco non e ancora lingua filosofica. Morto l'Elettore di Magonza, riceve l'offerta di bibliotecario (trasformata poi in quella di Consigliere) dall'Elettore di Hannover: durante il viaggio di ritorno in Germania, fa sosta all'Aja per incontrare Spinoza ('76). Nella sua nuova mansione si occupa di questioni scientifiche e tecniche e soprattutto di trattative per l'unione delle chiese cristiane. Pubblica, nell'84, Ia Nova Methodus pro maximis et minimis, dove sono esposti i principi del calcolo differenziale di cui aveva cominciato ad occuparsi a Parigi fin dal '75. Nell'86 scrive il Discorso di metafisica Incaricato dall'Elettore di ricerche storiche sulla sua dinastia, si reca in Italia per consultazioni di archivio e a Roma viene informato da un Gesuita delle meraviglie della Cina. Leibniz sviluppera il racconto del missionario in un suo scritto del '97, Novissima sinica: Recenti notizie sulla Cina Nel '97 in~ contra Pietro il Grande (che in seguito gli dara l'incarico di un progetto di riforma degli studi per Ia Russia) e da avvio al progetto dell'Accademia delle Scienze di Berlino. Nel 1700 diviene socio dell'Accademia delle Scienze di Parigi e viene eletto presidente dell'Accademia delle Scienze di Berlino. Nel1704 scrive i Nuovi saggi sull'intelletto umano (un confronto critico col S~ggio di Locke) che rimarranno inediti fino al 1765 (12.1). Nel 1710 pubblica i Saggi di teodic.ea La sua posizione a corte si deteriora: l'Elettore gli rimprovera di occuparsi di trappe case trascurando le sue premure per le ricerche storiche. La Societa reale di Londra pubblica una memoria in cui si documenta Ia priorita di Newton nella scoperta del calcolo infinitesimale: ne nascera una polemica che amareggera gli ultimi anni di Leibniz. Difatti il suo Elettore Giorgio di Hannover viene eletto, nel 1714, re d'Inghilterra e Leibniz spera inutilmente di seguirlo a Londra. Muore, quasi dimenticato, nel 1716. La produzione di Leibniz e immensa. Nella biblioteca di Hannover si conservano duecentomila pagine di manoscritti sugli argomenti piu svariati e che solo in parte sono stati a tutt'oggi pubblicati. Ci limitiamo a ricordare delle sue opere quelle che hanna un valore piu direttamente filosofico: De arte combinatoria (1666); Discorso di metafisica (1686); Nuovo sistema della natura (1695); Nuovi saggi sull'intelletto umano (completati nel 1704, ma pubblicati postumi); Monadologia (1704); Principi della natura e della grazia (1714).
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dell'ateismo. E tuttavia, come si e detto, senza la provocazione di Spinoza il genio di Leibniz non avrebbe forse creato il suo sistema. Nelle sue intenzioni la sua filosofia avrebbe dovuto essere la giusta alternativa a quella del pensatore olandese. Con Leibniz riemerge, in un quadro culturale e politico totalmente diverso, la figura dell'intellettuale europeo gia apparsa, rna subito scomparsa, con Erasmo. Egli visse il suo tempo in modo appassionato, intuendone le tendenze profonde che mal si conciliavano con la pratica politica dominante e per questo venne in urto sia con la mentalita particolaristica delle corti, sia col dogmatismo antagonistico sopravvissuto alle guerre di religione. La sua straordinaria apertura di mente lo porto a interessarsi, con passione e acume, del pensiero cinese, introdotto in Europa dai resoconti dei missionari cattolici, specie gesuiti. II sinologo Joseph Needham ritiene che Leibniz abbia elaborato la sua dottrina fondamentale, quella della monadologia, ispirandosi al pensiero neoconfuciano, e in specie a quello di Chu Hsi (I. 12.20-23), e ne da una persuasiva documentazione. Nella sua dichiarata ammirazione per il pensiero e i costumi dei Cinesi, Leibniz arriva a scrivere che, se e giusto che noi occidentali mandiamo a loro dei missionari che insegnino la vera teologia, «altrettanto bisognerebbe chiedere loro di mandarci dei saggi che ci insegnassero le loro arti di governo e quella teologia naturale che essi hanno portato a un cosi alto livello di perfezione». Mentre in Olanda e in Inghilterra l'unita religiosa veniva ricercata col ricondurre le confessioni cristiane positive dentro i confini della religione razionale, Leibniz si adopera per lo stesso scopo tentando un accordo ai vertici delle chiese istituzionali, coltivando amicizie cattoliche, come quella con Bossuet e con i padri gesuiti (la curia romana penso perfino di concedergli il cappello cardinalizio) e proponendo soluzioni teologiche unitarie; persegui, in pari modo, l'unita fra gli scienziati mediante la partecipazione alle Accademie esistenti e la creazione di nuove; sottopose ai potenti della politica progetti di unita germanica e addirittura europea. E tutto questo in una situazione esistenziale la meno idonea a dar sostegno alle sue utopie. Resta un mistero come tanto fervore di militante abbia potuto accordarsi con le esigenze di una ricerca filosofica che richiede la tutela del silenzio e la tranquilla esecuzione di un disegno. 7.9. Dalla logica alia metafisica. <<Mi ricordo di aver passeggiato da solo in un bosco vicino a Lipsia, chiamato il Resenthal, all'eta di quindici anni, per riflettere se fosse opportuno o no conservare le forme sostanziali. Alla fine il meccanicismo prevalse e mi indusse a studiare le matematiche». Cosi Leibniz in una lettera del 1714. Nel rievocare la sua precocissima vocazione filosofica, egli fissa anche i diversi quadri di riferimento- l'aristotelismo della sua formazione scolastica, il matematicismo ed il meccanicismo trionfanti dopo la rivoluzione cartesiana - di cui il suo pensiero tenne conto costantemente nell'ostinata ricerca di un punto di prospettiva capace di assumere in se e mettere in ordine punti di vista che apparivano tra loro inconciliabili. «Io mi lusingo, prosegue Leibniz, nella lettera sopracitata, di aver colto l'armonia tra i diversi regni», e precisamente tra il regno delle cause formali e finali degli aristotelici e il regno delle cause efficienti e materiali dei meccanicisti.
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Il senso globale dell'impresa leibniziana e appunto la comprensione armoniosa di un universo in se stesso armonioso. Niente gli era piu estraneo dell'atteggiamento di Cartesio, deluso dell'insegnamento ricevuto e deciso a ricostruire tutto ex novo con le sole forze della sua ragione. Dinanzi alle tradizioni filosofiche Leibniz non ha nessuna tentazione di rigetto, perche esse, ai suoi occhi, contengono un gran numero di verita. Solo che si tratta di verita allo stato sparso, come un magazzino ammassato di oggetti disparati e una biblioteca in disordine e senza catalogo. Il primo compito e di fare un ordinato bilancio di cia che ci e stato trasmesso (di fare l'inventario del magazzino, il catalogo della biblioteca); il secondo e di trovare un metodo che permetta di andare oltre, fino a trovare una forma di sapere che sintetizzi in se tutti gli elementi di verita contenuti nel patrimonio del passato, un nuovo centro di prospettiva, insomma. Ma la catalogazione del reale non puo consistere in una semplice nomenclatura, dovra essere una nomenclatura per concetti. Nel suo prima opuscolo, De arte combinatoria, del 1666 (Leibniz era appena ventenne), ispirandosi all'insegnamento di Raimondo Lullo, egli propane una riduzione dei concetti complessi a concetti semplici e la connotazione di ciascuno di questi con un segno numerico. I concetti semplici non sono molti: individuarli e contrassegnarli non e compito impossibile. Combinando fra loro i numeri dei concetti semplici si hanna i concetti piu complessi e portando avanti lo stesso metoda si avranno le dimostrazioni. Ancora Leibniz non aveva approfondito i suoi studi di matematica (lo fara durante il soggiorno a Parigi) e la sua proposta, stimolata dalla conoscenza dell'algebra allora in uso, ha i limiti di una ingenua artificiosita. Ma l'idea centrale rimarra costante in Leibniz, che cerchera di perfezionarla proponendo, ad esempio, di sostituire ai numeri o alle lettere di cui fa uso !'algebra i simboli ideografici, un po' come nella scrittura cinese: ad ogni concetto una sua raffigurazione simbolica da combinare con le altre. Di qui la necessita di proporre una specie di Enciclopedia di questa mathesis universalis e di una Accademia di sapienti addetta alla sua compilazione. Ne sarebbe venuto fuori una specie di 'esperanto filosofico' che avrebbe finalmente messo fine, almeno nella Respublica litterata, alla pluralita delle lingue. L'esigenza che aveva ispirato a Leibniz un simile meccanismo era di scoprire una logica formale in' grado di produrre quell'evidenza che Cartesio aveva affidato all'intuizione del soggetto, vincolando cosi le dinamiche della verita alle sabbie mobili del soggettivismo. «Non ammettere, dice Cartesio, se non quel che appare evidente al tuo spirito». Machi mi dara la garanzia che quanto appare evidente a me lo sia effettivamente? Cartesio, osserva Leibniz, fa pensare a quel chimico che diceva con sufficienza ai suoi allievi: «Prendi quel che bisogna prendere, opera come bisogna operare e otterrai quel che tu desideri. Ma cos'e quel che bisogna prendere? E in che modo bisogna operare in tutti i casi? E cosi che Cartesio ci promette diamanti e non ci da che dei miseri carboni». La via e un'altra, e quella dell'evidenza che scaturisce dalla stessa analisi dei giudizi di cui facciamo uso. I nostri giudizi esprimono due diversi ordini di verita: le verita necessarie e le verita contingenti. 1. Le verita necessarie si basano sul principia di identita e di non contraddi-
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zione. Ad esempio, i due giudizi «il triangolo ha tre lath>, o «l'essere e» possono ambedue ridursi allo schema A = A, nel sensa che il soggetto e il predicato sono cambiabili (principia di identita) e il lora opposto implica contraddizione (principia di non-contraddizione). Sono giudizi a priori, nel sensa che il predicate non deriva dall'esperienza, rna dalla semplice analisi del soggetto ed e, proprio per questa, anteriore (a priori) all'esperienza. Giudizi del genere individuano una essenza, cioe una verita che non implica contraddizione e proprio per questa e 'possibile', nel senso che nulla vieta che essa esista, oltre che nella mente, anche nell'ordine delle case reali. L'insieme di queste verita costituisce il mondo dei possibili: e qui il punta di trapasso dal mondo logico al mando ontologico. Di questa trapasso diremo tra poco. 2. Le verita conti11genti, o verita di fatto, sono quelle espresse in giudizi in cui il predicato non e identico al soggetto, ad esempio: Cesare passo il Rubicone, Mussolini fu fucilato dai partigiani. Giudizi del genere non sono a priori, perche i fatti predicati dei due soggetti rientrano, si, nella sfera dei possibili, rna Ia lora inerenza al soggetto non e di necessita. L'idea di Cesare non implica che dovesse passare il Rubicone, ne quella di Mussolini che dovesse essere fucilato. II contrario di quei predicati e possibile. Non per questa pero essi escono dalla sfera della ragione. Ci deve essere, infatti, una 'ragion sufficiente' del loro accadimento. II principia di ragion sufficiente e quel principia secondo cui «niente si verifica senza che sia possibile a colui che conosca sufficientemente le case di dare una ragione che basti a determinare perche e cosi e non altrimenti». E evidente che nel tracciare il divario tra le verita di ragione e le verita di fatto Leibniz mira a garantire, contra lo spinozismo, lo spazio delle liberta accanto a quello delle necessita. Ma l'attrazione della spinozismo - e pFecisamente dell'identita tra l'ordine delle case e l'ordine di ragione- fu molto forte in Leibniz, specie nella prima fase di sviluppo del suo pensiero. La distinzione tra i due ordini di verita vale solo rispetto all'intelletto umano che, per quanta risalga da ragion sufficiente a ragion sufficiente, non potra mai trasformare una verita di fatto in una verita di ragione, un giudizio a posteriori in un giudizio a priori. Non potra mai arrivare a capire che il passaggio del Rubicone sia necessaria all'idea di Cesare. Ma non cosi stanno le case nell'intelletto di Dio, che e il luogo di tutti i possibili. Se fra i mondi possibili Dio ha scelto quello in cui, ad un certo punto, e nato ed ha agito Cesare, allora nell'idea che egli ha di Cesare e gia contenuto il fatto, per noi contingente, del passaggio del Rubicone. E se noi fossimo in grado, nel tentativo di trovare la ragion sufficiente del gesto di Cesare, di risalire di ragione in ragione, arriveremmo a comprendere come quel gesto non poteva non esserci. Ma questa concatenazione di ragioni e praticamente infinita, per cui la linea della necessita e quella della contingenza sono come le' parallele della geometria, che si incontrano, si, rna all'infinito. Come dire che le verita contingenti diventano verita di ragione solo nell'intelletto di Dio. Ma per tale via Leibniz non approda forse allo spinozismo? La contingenza nell'ordine delle case none forse il riflesso dell'ignoranza umana, che scomparirebbe del tutto nell'ipotesi che il punta di vista dell'uomo si adeguasse al punta di vista di Dio? Insomma, in ultima istanza, l'ordine delle case non e
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forse lo stesso ordine delle idee che Dio ne ha? Vedremo fra poco la risposta di Leibniz: l'ordine delle case non deriva da Dio per necessita, come in Spinoza, rna per sua libera scelta. Sta di fatto che l'aver fondato logicamente la distinzione tra necessita e contingenza, tra verita di ragione e verita di fatto, ha consentito a Leibniz di stabilire due diversi ordini di razionalita, quello delle verita eterne e quello, tutto mondano, dell'esperienza sensibile, come dire della scienza, nel quale la ragione procede non per pura deduzione matematica, rna per la ricerca della ragion sufficiente dei fatti constatati.
7.10. Dal meccanicismo al finalismo. Fu proprio per questa determinazione del compito specifico della ragione in rapporto ai fenomeni contingenti che Leibniz arrive a liberarsi dalla suggestione meccanici~ta a cui, in un prima momenta, aveva ceduto. I fatti fisici non possono essere pienamente spiegati chiamando in causa soltanto l'estensione e il movimento. «Tutto si fa, al tempo stesso, meccanicamente e metafisicamente, nei fenomeni di natura, rna la fonte della meccanica e la metafisica», scrive Leibniz nella gia citata lettera del 1714. E prosegue dicendo che sono pochi ad essere in grado di usare, nell'approccio ai fenomeni, sia i criteri meccanicistici che quelli metafisici. «Cartesio l'aveva fatto, rna non abbastanza. Era andato troppo in fretta nella maggior parte dei suoi insegnamenti e si puo dire che la sua filosofia si trovi nel vestibolo della verita». Perche «nel vestibolo»? Perche negli esseri corporei, scrive altrove Leibniz, vi e qualcosa al di la dell'estensione, anzi prima dell'estensione: «la forza della natura, riposta ovunque dall'autore supremo, che non consiste in una semplice facolta, come dicevano gli scolastici, rna anche in un conatus o sforzo, il quale avra il suo effetto pieno se non sia impedito da un conatus contrario». L'errore di Cartesio fu di aver confuso il movimento con la forza, o conatus, che e una energia produttiva di movimento, come ad esempio quella con cui io sollevo, con sforzo au tonomo, un peso. Secondo lui, nell'universo si conserva sempre la medesima quantita di movimento, che egli definisce come il prodotto della massa per la velocita. Cio che si conserva, invece, nell'universo, e la forza, il conatus, che si definisce come il prodatto della massa per il quadrato della velocita. Nella natura la forza si trova diffusa innanzitutto come resistenza dei carpi ad essere penetrati da altri corpi (forza passiva) e poi come energia dinamica che e presente anche la dove noi constatiamo la pura inerzia: la quiete e il movimento sono ugualmente sua espressione. La quiete non e altro, per dir cosi, che energia contratta, pronta ad esplicarsi non appena venga meno !'impedimenta di una energia contraria. Come il movimento, cosi anche l'altro elemento primario del meccanicismo, l'estensione, e una espressione di questa energia: >. Il luogo di inerenza della 'forza e la sostanza, e non la sostanza unica e necessaria di Spinoza, rna le infinite sostanze paste in essere da Dio e che nel lora insieme costituiscono l'ordine del contingente. Dal 1695, con termine neoplatonico rinverdito da Giordano Bruno (3.8), Leibniz le chiamera monadi (unita). E nella dottrina della monade, portata a piena definizione fra molte oscillazioni, che Leibniz
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unifica Ia fisica e la metafisica, le cause efficienti del meccanicismo e le cause finali dello spiritualismo. Abbiamo gia veduto come l'estensione non sia, per Leibniz, l'essenza della sostanza, rna un suo derivato. L'estensione e infinitamente divisibile, mentre, per definizione, la sostanza non e divisibile in quanto e un'unita organica le cui componenti non possono separarsi senza cessare d'essere quelle che sono. Leibniz assomiglia la sostanza al punto matematico, che perc, in quanto centro di energia che sfugge alia constatazione dei sensi, meglio si direbbe «punto metafisico». Proprio perche molteplici, le monadi sono ciascuna diversa dalle altre. Due monadi infatti potrebbero essere identiche solo se tutti i loro predicati fossero identici, rna in questo caso non ci sarebbe ragion sufficiente del loro essere due invece che una sola (principia degli indiscernibili). La molteplicita numerica e dunque anche molteplicita qualitativa. Ma siccome la monade e, come si e visto, un punto inesteso, un atomo spirituale, in che potra consistere la sua diversita quali ta ti va? II contenuto della monade e la rappresentazione che essa si fa dell'universo intero, cioe qella totalita delle altre monadi. Si potrebbe dire che ciascuna di esse e un punto di vista sull'ttniverso. L'universo e unico, identico per tutte, e vero, rna come il panorama di una citta e sempre lo stesso, da qualunque punto di visuale si guardi, e tuttavia ogni _punto di visuale ci da un panorama diverso, cosi il contenuto rappresentativo delle monadi e identico, rna ciascuna di esse lo coglie in una prospettiva diversa. L'universo di Leibniz e, all'infinito, come uno dei quei giochi di specchi che erano nel gusto della societa barocca. Egli ci da cosi un'immagine del mondo altamente suggestiva e quanto mai ricca di senso: la sua stoffa rion e lo spazio, e Ia miriade dei centri di rappresentazione cosi correlati tra loro che, se uno solo si spegnesse, l'intero sistema, a causa della infinita reciprocita, resterebbe mutato. Ecco perche, a dispetto dei nostri sensi, la morte non tocca le monadi in se considerate (esse sono tutte immortali) rna solo Ia !oro presenza nell'intreccio delle rappresentazioni. Le rappresentazioni infatti non si danno per l'azione di un oggetto sulla monade rna per lo svolgimento interno di un contenuto rappresentativo gia presente nella monade fino dalla sua creazione. Ciascuna monade e chiusa in se stessa («e senza finestre» dice Leibniz) in modo tale che nessuna azione passa dall'una all'altra, rna tutte sono virtualmente presenti a ciascuna, pe:rche di ciascuna sono il contenuto rappresentativo. La distinzione tra materia e spirito si e dunque dissolta. Tutte le distinzioni (anche quelle tra l'uomo e Dio) si riducono alia distinzione nella qualita delle rappresentazioni: quelle totalmente chiare, trasparenti a se stesse, ccostituiscono la porzione spirituale della monade, quelle oscure la porzione materiale (che perc, giova ripeterlo, ha una consistenza solo rappresentativa). Di qui una specie di gerarchia tra le monadi: da queUe a contenuto rappresentativo oscuro (come dire, dalla materia informe) a quella la cui rappresentazione e totalmente chiara e distinta e che si chiama Dio. L'uomo e nel mezzo, in quanto risulta da una aggregazione di monadi fra loro diverse, fra le quali ce n'e una che e la monade egemone (cfr. l'io egemonico degli stoici) e che si chiama anima. La monade egemonica si trova in ogni organismo, anche in quello dei bruti e dei ·vegetali. E proprio in virtu
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di questa monade che ogni aggregazione (e cioe ogni organismo) si comporta secondo forme di coesione e di convergenza finalistica. In questa succinta esposizione della dottrina delle monadi (monadologia) abbiamo dovuto di necessita servirci di due originalissime teorie di Leibnizquella del contenuto rappresentativo della monade e quella dei rapporti reciproci tra le monadi - che meritano un'attenzione meno sbrigativa. 7.11. La conoscenza. Fu il Saggio sull'intelletto umano di Locke (6.15) a stimolare in Leibniz l'esigenza di un approfondimento della questione sulla natura e sull'origine delle idee, che il filosofo inglese aveva risolto con criteri rigorosamente empiristici. Dopo aver inutilmente provocato Locke ad un confronto mediante l'invio, ripetuto due volte, di precise osservazioni alla sua opera, Leibniz intraprese un'attenta e minuta analisi del Saggio. I risultati della sua analisi critica divennero il nucleo di una sua opera, in forma dialogica, dal titolo Nuovi Saggi (1704). Le due posizioni sembrerebbero radicalmente inconciliabili: per Locke non si danno idee inate, per Leibniz tutte le idee sono innate, vista che ogni monade ha gia in se, prima di qualsiasi attivita di pensiero, l'universo intero sotto forma di rappresentazione. Ma Leibniz non si limita ad un confronto frontale, che si sarebbe chiuso in partenza e non avrebbe lasciato nessuna possibilita ad un discorso critico. Egli comincia col contestare il principia aristotelico fatto proprio da Locke: «Nulla e nell'intelletto che prima non sia stato nei sensi». D'accordo, afferma Leibniz, ad una condizione: che alIa formula aristotelica si aggiunga: <
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marmo una statua gia segnata da apposite venature. Tutte le idee, dunque, scaturiscono dal fondo primordiale della mente. Finora abbiamo dovuto adattarci a parlare di idee, rna il termine none idoneo ad esprimere nella sua originalita la dottrina leibniziana. Sia per Cartesio che per Locke l'idea e un contenuto chiaro e distinto della mente ed e l'unica forma di conoscenza possibile; secondo Leibniz, invece, tutte le monadi, anche quelle materiali, sono dotate di conoscenza, anzi la conoscenza e la loro vera natura. Solo che il concetto di conoscenza non e univoco. E conoscenza tanto la percezione confusa quanto la percezione chiara e distinta che Leibniz chiama appercezione. . E nella natura della monade la presenza in essa di tutte le altre monadi per via di rappresentazione. Si puo dire che <
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che l'uomo avverte in se come inquietudine, anzi come un'unita di infinite inquietudini che si esprimono nell'appetizione, nello sforzo di passare dallo stato confuso delle percezioni alla condizione di chiarezza dell'appercezione e, in definitiva, a Dio, che e la monade delle monadi, l'unica monade nella quale la conoscenza e, senza residui oscuri, chiara e distinta. E facile avvertire come in Leibniz si riaffermi il finalismo aristotelico, non piu in antitesi col meccanicismo rna, almeno nelle pretese, in armonia con esso. . 7.12. L'armonia prestabilita. Proprio dalla difficolta di combinare il meccanicismo e il finalismo Leibniz e stato provocato ad elaborare, in perfetta coerenza con le sue premesse, il momento piu 'romanzesco' del suo sistema. Dopo aver chiarito in che senso le monadi siano dei 'punti metafisici' e in che modo negli animali e nell'uomo ci siano delle monadi determinanti che aggregano a se le monadi inferiori, «credevo, cosi egli scrive nel Nuovo sistema della natura e della comunicazione tra le sostanze, del 1695, di essere entrato in porto; rna quando mi misi a riflettere sull'unione dell'anima col corpo mi sentii come respinto in mare». Leibniz si trovava costretto, in un certo senso, ad essere piu meccanicista di Cartesio. Infatti, dopo aver mostrato come l'anima non possa in nessun modo influenzare il movimento dei corpi, a causa della eterogeneita sostanziale tra i due ordini, Cartesio faceva una sola eccezione: l' anima non incide sul movimento come tale, rna sulla sua direzione. Una deroga al meccanicismo che a Leibniz era preclusa, dato che nel suo sistema le monadi sono <<senza finestre», non possono cioe comunicare direttamente tra loro, e dunque non possono neppure imprimere una direzione al movimento dei corpi. Non gli restava che far sua la soluzione data al problema dagli occasionalisti, che riducevano gli eventi corporei a semplici 'occasioni' per un intervento di Dio neUe menti umane, in modo da assicurare la corrispondenza tra l'evento e la sua rappresentazione. La soluzione non soddisfa Leibniz perche non conforme alia perfezione di Dio, declassato cosi al ruolo di un cattivo orologiaio che deve, volta a volta, intervenire per mettere in sincronia due orologi. Scartate le due soluzioni, quella cartesiana dell'influenza reciproca e quella occasionalista, che Leibniz chiama dell"assistenza', non restava che applicare al problema specifico i principi generali del sistema delle monadi. Le monadi sono come «punti di vista» il cui oggetto e l'insieme di tutte le monadi e cioe l'universo intero. Si e visto poco sopra che, eccetto che per Dio, per ciascuna monade spirituale la rappresentazione chiara e distinta dell'oggetto totale, e cioe dell'insieme delle monadi, e solo parziale ed e, per cosi dire, mediata da quella particolare costellazione di monadi che e il corpo: io mi rappresento il mondo rappresentandomi le modificazioni del mio corpo. All'interno dell'anima, in virtu della sua costituzione originaria, le rappresentazioni si svolgono in perfetta corrispondenza con le modificazioni che avvengono al di fuori di lei, senza alcun bisogno che Dio intervenga. L'anima e il corpo- scrive Leibniz nella Monadologia - seguono ciascuno leggi proprie e si incontrano in virtu dell'armonia prestabilita tra tutte le sostanze, per il fatto che esse sono tutte delle rappresentazioni d'uno
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stesso universo. Le anime agiscono secondo le leggi delle cause finali, per appetizioni, fini e mezzi. I corpi agiscono secondo le leggi delle cause efficienti o dei movimenti. E i due regni, quello delle cause efficienti e quello delle cause finali, sono in armonia fra loro.
II momenta piu suggestivo della costruzione leibniziana e anche il momenta piu debole, nel senso che rappresenta solo un salto dogmatico nel procedimento dimostrativo. Come puo una monade finita rendersi conto dell'armonia prestabilita? L'armonia e posta, non dimostrata, a meno che non si voglia dar valore all'argomento con cui Leibniz respinse questa obiezione: un mondo che contenga la corrispondenza tra le monadi e piu perfetto di uno che non le contenga e dunque il Creatore non puo non averlo prescelto. La monade finita, per quanto si dilati la sua rappresentazione cosciente dell'universo, non potra che abbracciare appena una porzione della smisurata trama delle monadi a lei esterne e in tutti i casi non le sara mai possibile verificare la corrispondenza tra i suoi stati interiori e le modificazioni esterne. Per abbracciare il tutto essa dovrebbe identificarsi con la monade suprema, in cui il tutto si rispecchia con perfetta chiarezza e da cui tutte le monadi sono state create: solo in quel punto confluiscono in unita l'ordine dell'essere e l'ordine del conoscere, solo in quel punto l'insieme delle sostanze appare del tutto libero dalle dimensioni dello spazio e del tempo. 11 tempo e lo spazio, infatti, non sono che modi con cui noi ci rappresentiamo lo svolgersi graduale delle virtualita implicite in ogni monade, rna dinanzi a Dio quelle virtualita sono gia immutabilmente presenti, nelloro svolgimento e nelloro adempimento. Dio e il'punto di vista' onnicomprensivo entro il quale la natura e la storia, colloro passato, illoro presente e il loro futuro, sono totalmente trasparenti. E cosi che Leibniz, attraverso l'analisi delle sostanze, risale, per necessita, a quel principia che gia ci si era rivelato necessaria come fondamento della distinzione tra verita di ragione e verita di fatto (7.9). II cerchio si chiude, e si chiude in forza della necessita. Ma questo esito non ci riconduce a quello spinoziano, che Leibniz intendeva in ogni modo evitare? E quanto ci resta da chiarire. 7.13. Necessita e liberta inDio. Come per Cartesio e per Spinoza, anche per Leibniz la certezza dell'esistenza di Dio e anteriore alla certezza dell'esistenza dei corpi: facilius intelligere Deum quam corpus: e piu facile comprendere Dio che il corpo. E tuttavia, sebbene non ex professo rna in modo sporadico e, per cosi dire, occasionale, Leibniz ha costruito o recuperato dalla tradizione, rinnovanrlole, alcune prove dell'esistenza di Dio che merita esporre sia pure in mO. .. do succinto. 1. La prova teleologica, implicita nell'esposizione del sistema delle monadi. Essendo esse non comunicanti tra di loro, non e possibile spiegare le loro corrispondenze se non risalendo ad una monade suprema, che sia il principia e la causa di quelle corrispondenze. 2. La prova cosmologica, e precisamente quella che nella scolastica (Tommaso d' Aquino ne fa la terza delle sue cinque vie) veniva detta ex contingentia mundi. Possiamo esporla con le stesse parole di Leibniz nei Principi della na-· tura e della grazia:
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Si ha diritto di domandare: p'erche vi.e piuttosto qualcosa che niente? Infatti il niente e piu semplice e facile di quaJche cosa. Inoltre, supposto che alcune cose debbano esistere, bisogna che si 'possa rendere ragione perche esistono cosi e non altrimenti. Ora questa ragione sufficiente dell'universo non potrebbe trovarsi nella serie delle cose contingenti, perche essendo la materia indifferente al moto e al riposo e a un movimento tale o altro, non vi si potrebbe trovare la ragione del movimento e tanto meno di un tale movimento. Cosi bisogna che la ragione sufficiente sia al di fuori della serie delle cose contingenti, e si trovi in un essere necessario, che e Dio.
3. La prova ontologica e la stessa di Cartesio (5.5), rna corretta. Cartesio deduceva l'esistenza di Dio dall'idea di essere perfettissimo; Leibniz la deduce dall'analisi delle possibilita di quell'idea. Prima di far uso dell'idea di essere perfettissimo, argomenta Leibniz, occorre dimostrare che essa e priva di contraddizioni interne. E siccome «nulla pua impedire la possibilita di cia che non implica alcun limite, alcuna negazione, quindi alcuna contraddizione, cia basta per riconoscere a priori l'esistenza di Dio». Proprio in quanto in lui la possibilita e l'esistenza coincidono, Dio viene detto l'Essere necessaria. 4. Infine la prova dell'analisi a priori delle verita di ragione, che ci dischiude l'esistenza di un intelletto supremo, quale luogo di tutti i possibili, e di una volonta, che faccia passare i possibili all'esistenza. E. questa la prova specificamente leibniziana, nel senso che essa pone i termini essenziali di una teologia che si proponeva di rigettare - e lo vedremo subito - da una parte il volontarismo cartesiano e dall'altra il razionalismo spinoziano. La contraddizione tra il finalismo e il meccanicismo, che Leibniz riteneva di aver superato nella sua dottrina della sostanza individuale, si ritrova, nel cuore dell'Essere necessaria, come contraddizione tra razionalita e volonta. Contro Cartesio, che faceva dipendere le verita eteme dall'arbitrio di Dio, Leibniz sostiene che esse sono gli oggetti eterni del pensiero di Dio e dunque necessari anche per Lui, che non potrebbe derogare da esse senza contraddire la propria razionalita. E contro Spinoza, che identifica Dio con la sua razionalita, dalla quale deriva come suo attributo necessaria la stessa razionalita della natura, Leibniz attribuisce a Dio anche la volonta, e cioe il potere di Iibera scelta all'interno dell'infinito ventaglio dei possibili. Ma come conciliare la razionalita di Dio con la sua Iibera volonta? Infatti i possibili si distinguono fra loro per un maggiore o minor grado di perfezione. Nel decidere quali di essi far passare all'esistenza, Dio non pua non trovarsi obbligato a scegliere i piu perfetti. E siccome non tutti i possibili sono conciliabili tra loro, essi si presentano a Dio distinti anche secondo la loro con-possibilita ed anche in questo caso i sistemi di con-possibili dovranno disporsi in una gerarchia di perfezione con al vertice quel sistema che raccoglie in se il maggior grado di perfezione. Non potendo venire meno aile leggi di ragione, Dio non si trova forse imprigionato in questo meccanismo metafisico (mechanismus metaphisicus)? Leibniz risponde che la confornita tra la volonta e il dettame di ragione non e in contrasto con la liberta, anzi e la sua massima attuazione. Nel far passare i possibili dall'ordine di ragione all'ordine contingente, Dio, che e insieme la Verita e la somma Bonta, segue la «regola del meglio>> sceglie, cioe, tra i vari sistemi di con-possibili, quello in cui si da il piu alto
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grado di perfezione. Tanto basta perche tra il mondo e Dio non ci sia un rapporto di necessita: Dio infatti ha scelto tra molti mondi possibili, per cui questa mondo none in se necessaria, c'e, rna poteva non esserci, e questo, rna poteva essere un altro. In ogni caso e il migliore dei mondi possibili, nel senso che realizza quell'insieme di con-possibili che, in ragione del suo maggior grado di perfezione, ha determinato Ia volonta di Dio a farlo passare dalla sfera della ragione alia sfera della realta. Ma determinare non e costringere? La determinazione procede da un giudizio di ragione, che fornisce alia volonta i motivi della scelta, ed e proprio quando si lascia determinare dai motivi che la volonta e Iibera. Leibniz distingue inDio una volonta «antecedente» ed una volonta «conseguente». Con Ia volonta antecedente Dio vuole il Bene assoluto, che pero non puo essere creato perche gia esiste, e Lui. Una volta che egli ha deciso di creare e cioe di far passare all'esistenza i possibili, allora, ed e questa la volonta conseguente, non puo che scegliere il piu perfetto dell'insieme dei possibili compatibili tra loro, il migliore dei mondi possibili, insomma questo mondo in cui siamo. 7.14. Necessita e liberta nell'uomo. Nella sua opera maggiore, la Teodicea (che vuol dire 'giustificazione di Dio'), dedicata al tema dei rapporti tra Dio e mondo, Leibniz ci mostra Atena che guida il sacerdote Teodoro attraverso gli appartamenti di una piramide infinita, che raffigurano la serie dei mondi possibili. Giunto in vetta, Teodoro cade in estasi di fronte alia perfezione del migliore dei mondi possibili, quello reale. Teodoro non riusciva a capire come il nostro potesse essere il migliore dei mondi quando vi accadono crimini d'ogni genere: non avrebbe potuto Dio eliminarli dalla serie degli eventi? Nel visitare uno dopo l'altro i mondi possibili, Teodoro si incontra con un personaggio, Sesto Tarquinio, il violentatore di Lucrezia. In uno dei mondi visitati, Sesto Tarquinio, avvertito dall'oracolo degli dei del delitto che era destinato a commettere, se ne va in Tracia; in un altro, fugge in un paese dove sposa Ia figlia di un re; ugualmente, in altri mondi, egli evita, in maniere diverse il destino di criminale che gli e affidato nel migliore dei mondi. L'errore di Teodoro era di giudicare il male (il crimine di Sesto) isolandolo dalla infinita serie degli eventi, e cioe dal contesto dei con-possibili. Se letto in questo contesto (rna solo Dio e in grado di fare una simile lettura) il crimine si rivela una necessita in vista del bene, come il tradimento di Giuda nell'evento cristiano della salvezza. Nel suo libro, apparso nel 1710, Leibniz polemizza col filosofo francese Pierre Bayle (9.2), che, ripetendo un'antica obiezione, giudicava contraddittoria la dottrina cristiana della creazione, perche in essa Dio, somma Bonta, si fa, in definitiva, responsabile del male che accade nel mondo. Piu logica, a suo parere, la visione manichea, che tutto riconduceva a due principi sommi, quello del Bene e quello del Male. L'errore di Bayle e, secondo Leibniz, quello di chi giudica un quadro stupendo coprendolo in modo da lasciarne Iibera una minima parte, dove tutto appare confuso e privo di senso. Solo scoprendo il quadro ed osservandolo dalla giusta distanza e possibile apprezzare le meraviglie dell'insieme e dunque in ogni particolare. II quadro e la storia intera, di cui noi conosciamo solo un frammento. II male che e nel frammento andrebbe
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osservato secondo la prospettiva dell'insieme: allora capiremmo che esso e una componente necessaria del bene complessivo dell'opera divina. Esaminato analiticamente il male puo essere metafisico, fisico e morale. 1. 11 male metafisico e niente altro che il limite proprio delle creature, un limite che nemmeno Dio poteva evitare nella sua 'volonta conseguente', una volta che si e deciso a crearle. 2. 11 male fisico, cioe il dolore in tutte le sue forme, e una necessita all'interno della catena degli eventi, nella quale alcuni non possono essere realizzati senza altri. La nascita di un bimbo non ci sarebbe senza la sofferenza del parto; gli effetti positivi del lavoro non ci sarebbero senza il peso della fatica. Cosi Dio permette che ci siano eventi dolorosi in vista di un bene superiore. Senza dire che Dio e giusto: molte volte il dolore non e che il castigo di una colpa. 3. 11 male morale e il peccato, in tutti i suoi gradi. Dio non lo permette, anzi ce ne fa divieto. E perche allora Dio ha creato il mondo pur prevedendo il cumulo di peccati che sarebbero stati commessi? Facciamo un esempio: un medico, davanti ad un malato grave, non ha che due vie. 0 gli rivela il male che ha, abbreviandogli cosi la vita, o gli nasconde la verita. Tra due mali egli deve scegliere il male minore. Cosi Dio si e trovato davanti a due mali: il primo era di non creare nulla, l'altro di accettare un certo numero di peccati, condizione inevitabile del migliore dei mondi possibile. E Dio ha scelto. Ha scelto Adamo, ad esempio, che ha peccato. Ma al peccato di Adamo ha fatto seguire la redenzione di Cristo, e cioe un bene che sovrasta di gran lunga !'antieo male. La risposta di Leibniz regge logicamente solo a condizione che in ogni caso Dio non sia l'autore del male morale. Tutta la sua Teodicea crollerebbe se non gli fosse possibile trovare, restando coerente con la sua teoria dell'armonia prestabilita, una risposta a questo problema: come puo un uomo restare responsabile del suo crimine dinanzi a Dio che l'ha creato e l'ha creato pur sapendo che egli sarebbe stato un criminale? Nella sua Teodicea e in molti altri scritti Leibniz fa uso di tutta la sua finezza dialettica per garantire un qualche spazio alla liberta umana, lottando, per cosi dire, contro la logica del suo sistema, che quello spazio corrode fino ad abolirlo. Ad esempio: egli distingue, all'interno dell'universo delle monadi, un «regno della natura», che e come una immensa macchina di cui Dio e l'artefice, e un «regno della grazia», dove invece vige il finalismo morale di cui Dio e il legislatore. Ma la distinzione resta piuttosto estrinseca al principia costruttivo dell'universo leibniziano,. basato sulla identita, dal punto di vista di Dio, tra le verita di ragione e le verita di fatto. Nelle verita di ragione il predicato e implicito nel soggetto: basta l'analisi a renderlo esplicito. Nelle verita di fatto, come l'uccisione di Bruto da parte di Cesare, le cose vanno altrimenti per noi che per Dio (7.9). Dinanzi a lui il crimine di Bruto e gia implicito nell'idea che egli ha di Bruto al momento di creare la serie degli eventi in cui Bruto e contenuto. Se noi potessimo intendere la ragione sufficiente ultima dell'atto di Bruto, vedremmo che esso e necessaria. Necessaria, naturalmente, in questo mondo che e solo uno dei mondi possibili, e dunque contingente. Io decido, ad esempio, di alzarmi in piedi. Se lo decido, non potevo non decider-
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lo, e tuttavia in un mondo diverso da questo lamia decisione sarebbe stata diversa: ecco perche il mio alzarmi in piedi none una necessita assoluta. Non si danno, dunque, ne la necessita spinoziana, ne il libero arbitrio cartesiano inteso come ind,ifferenza tra due possibilita, il restar seduto, ad esempio, o l'alzarmi. Tra queste due vie Leibniz ne indica una terza, che pero ha senso solo se ci collochiamo non dal punto di vista di Dio, rna da quello degli uomini. Cio che e necessitato dal punto di vista di Dio non lo e dal punto di vista dell'uomo. Dal punto di vista dell'uomo decidono i motivi che ispirano l'azione volontaria. L'uomo non possiede la conoscenza esauriente della propria sostanza individuale e percio non puo scorgere la ragion sufficiente delle sue azioni se non dopo averle compiute. La sua liberta si regge sulla incomunicabilita trail punto di vista divino e il punto di vista umano. All'uomo compete di determinarsi secondo i motivi indicati dalla ragione e cioe secondo il bene: la volonta none che «il desiderio illuminato dall'intelligenza». Forse e fissato fin dall'eternita che io pecchero? Rispondete voi stessi: forse no. E senza pensare a cio che non potete conoscere e che non puo darvi alcun lume, agite seguendo il vostro dovere, che conoscete.
E cosi, proprio su un problema capitale come quello della responsabilita morale dell'uomo, Leibniz sconta pesantemente la sua pretesa di chiudere l'universo divino ed umano dentro una medesima razionalita. Egli ha voluto spingere la sua analisi fino a quell'atto che la fede cristiana, quando e coerente con se stessa, lascia nel mistero: l'atto della creazione. Lo ha fatto, certo, in modo geniale, ricco di straordinari riflessi nella filosofia posteriore, e lo ha fatto nella certezza di poter conciliare l'antica filosofia finalistica e quella meccanicistica del suo tempo. Ma forse l'esito ultimo del suo tentativo e la dimostrazione che, per quanto si dilati, il cerchio della ragione non puo circoscrivere la totalita. II problema dei limiti della ragione, posto, ai suoi tempi, in chiave empiristica da Locke, sara riproposto ben presto da Kant e con una lucidita che e, a suo modo, una fruttificazione postuma della grande lezione leibniziana.
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0 Sommario. Nel Settecento europeo giungono a maturazione profondi mutamenti strutturali che investono l'andamento demografico, le attivita produttive, l'articolazione delle classi sociali e gli equilibri politici, prefigurando la fisionomia dei due secoli successivi (8.1). A giudizio di molti intel!ettuali del tempo, i visibili progressi della civilta e Ia relativa stabilita politica, garantita dalle diplomazie fino alia vigilia della rivoluzione francese, sono il successo della nuova Europa che si e affidata ai 'lumi' della ragione e della tolleranza. L'ambizione dei philosophes di guidare Ia cosa pubblica su questa stra· da, sbarazzando il terreno da tutti i retaggi del passato, si concretizza, tra molte delusioni, nelle riforme del dispotismo illuminate (8.2). L'illuminismo accompagna e, in qualche misura, esprime il dinamismo crescente dei ceti borghesi in Iotta contro un ordine sociale feudale (8.3). Non si tratta comunque di un movimento culturale unitario, come invece intese presentarsi, bensi di un fenomeno che, nel quadro complesso e non univoco della cultura settecentesca, subisce una significativa evoluzione nell'arco del secolo ed assume connotati e funzioni diverse nei singoli contesti nazionali e regionali (8.4). 11 successo del newtonianesimo e della gnoseologia di Locke accompagna lo sviluppo della ricerca e della divulgazione scientifica (8.5). Nel secolo de!l'Encyclopedie, Ia filosofia non cerca piu nuovi metodi per conoscere la natura rna, indagando sui metodo adot· tato dalla scienza, si orienta con decisione verso Ia riflessione epistemologica. La critica del newtonianesimo svolta da Berkeley (8.6), il dibattito in seno al razionalismo tedesco (8.7), l'analisi rigorosa del sapere scientifico in Hume (8.8) e il sensismo radicale di Condillac (8.9) contribuiscono a chiarire questioni metodologiche fondamentali e assegnano alia fi!osofia il compito, poi raccolto da Kant, di chiarire le possibilita e i limiti dell'intelletto umano. Alia crisi del razionalismo seicentesco corrisponde Ia progressiva erosione della con· cezione meccanicistica della natura. Le storie della terra e della natura, i progressi compiuti dalle scienze della vita grazie anche aile controversie tra meccanicisti e vitalisti, fissisti e trasformisti (8.10) preformisti ed epigenisti, propongono una nuova immagine della natura come organismo vivente, caratterizzato da un complesso processo evolutivo. La scoperta della storicita della natura, penetrata con Diderot e d'Holbach anche nel versante materialista (8.11), e quasi contemporanea all'esaltazione misticoirrazionalistica che della natura fanno i giovani dello Sturm und Drang tedesco. Rispet· to a! culto della natura, magistraJmente narrato dalla Nuova Eloisa di Rousseau, Ia ri· bellione degli Sturmer testimonia Ia fine dell'utopia dei 'lumi' e inaugura Ia lunga stagione romantica (~.12). La nascita e lo sviluppo delle scienze umano-sociali riproducono i termini del confronto generale tra determinismo e storicita degli eventi. La scoperta dell'interazione uomo-ambiente, in Montesquieu, Buffon ed Helvetius (8.13) correlata a! dibattito sui selvaggio e sullo 'stato di natura', infrange gradualmente una lunga tradizione di etnocen· trismo e permette l'elaborazione dei concetti moderni di cultura e civilta (8.14). 11 '700, che si e aperto all'insegna del meccanicismo, ha piu volte accarezzato il proposito di una scienza unitaria dell'uomo. 11 fallimento di questo mito e la necessita sempre piu avvertita di investigare i dati della realta empirica nella !oro specificita, come dimo-
206 0 8- Panorama del Seltecento strano esemplarmente le vicende della linguistica, favoriscono la costituzione di nuove scienze, segnando anche un rinnovamento dell'intera scienza occidentale (8.15).
Panorama del Settecento 8.1. Le rlvoluzioni 'materiali' del secolo. Sui finire del Settecento il termine rivoluzione muto di significato: uscendo decisamente dagli ambiti della geometria e della fisica celeste (indicava infatti i movimenti di un corpo intorno a un asse o il moto dei corpi celesti) acquisi la piu ampia accezione in uso ai nostri giorni. La lezione impartita all'Europa dalle colonie inglesi dell'America del Nord, divenute indipendenti dalla madrepatria nel 1776, e gli esiti, ancor piu traumatici, degli avvenimenti parigini e francesi che dal 1789 sconvolsero i vecchi equilibri ed agitarono in profondita le coscienze, furono designati con un termine che si mostrava adatto allo scopo anche in virtu dei suoi riferimenti al contrastato rna inevitabile successo della teoria eliocentrica. La rivoluzione americana e la rivoluzione francese erano gli atti conclusivi di un trapasso epocale che, preparato dai processi innovativi avviati in parte nel Seicento (il secolo in cui, a detta di Voltaire, <
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miliardi. Si trasformarono anche i consumi alimentari: crebbe a dismisura, ad esempio, il con sumo della carne, sebbene non dappertutto e non nella stessa misura (nel 1770 P.J. Grosley osserva che la quantita di pane mangiato ogni giorno da un francese <
208 0 8- Panorama del Sellecento esaltano !'indole felice e spensierata della gente, testimoniano le condizioni di vita della plebe che vive nei bassi e nei vicoli. Le stridenti contraddizioni di Napoli sono generalmente vissute dagli autorevoli visitatori come la conferma palese della superiorita e della sicurezza garantita dal progresso irresistibile dell'uomo civilizzato. Nel 1775 il marchese de Sade, allora a Napoli, annota nel suo diario: <>. Le grandi citta del '700 rappresentano, tuttavia, i veri polmoni dell'economia nazionale, «fabbricano -come osserva F. Braude! - quei mercati nazionali, senza i quali lo stato moderrio sarebbe una mera finzione» e svolgono una funzione culturale, intellettuale e politica insostituibile. Nel 1765 Charles Duclos scriveva: «Se quelli che sono morti sessant'anni fa tornassero in vita non riconoscerebbero Parigi per quello che riguarda la tavola, i vestiti e le usanze». In realta, non avrebbero riconosciuto quasi niente: le abitazioni, ad esempio, si venivano gia configurando come i moderni appartamenti, concepiti per una vita meno grandiosa, piu gradevole per l'individuo e le sue accresciute esigenze di comodita e di intimita; e chissa se avrebbero approvato la pretesa (giustificata dai progressi nel tiraggio dei camini) dei !oro concittadini di restare al caldo durante l'inverno, o Ia !oro bramosia di lusso, proiettata ora sui preziosismi dei piccoli mobili lavorati secondo i canoni del rococo, o sull'evocazione esotica delle porcellane cinesi. 8.2. Una rivoluzione 'culturale'? Nonostante i mutamenti e le tensioni che percorrono nel profondo la societa europea, l'immagine complessiva del Settecento appare caratterizzata, fino alia crisi apocalittica della rivoluzione francese, da una relativa stabilita politica e da una relativa omogeneita intellettuale. Prosegue il declino irreversibile di Spagna e Portogallo, mentre si affacciano sulla scena internazionale due nuovi protagonisti, Prussia e Russia, e si afferma sempre piu decisa l'ascesa dell'Inghilterra, vanamente contrastata dalla Francia, che al termine della guerra dei Sette Anni (1756-63) dovra accettare e riconoscere la supremazia coloniale della rivale, sia in America settentrionale, sia in India. Ad eccezione del dramma polacca, il quadro geopolitico dell'Europa non subisce cambiamenti di rilievo. L'unita spirituale dell'Europa, non piu assicurata dal cristianesimo, ormai diviso e relativizzato, viene affidata ad una nuova professione di fede di tipo razionale (secondo la lezione di Newton e di Locke) che utilizza le elaborazioni dottrinarie del giusnaturalismo settecentesco e rilancia il progetto umanistico di una 'repubblica delle lettere', auspicata gia da Bayle e da Leibniz. Per Montesquieu, l'Europa non e che «UllO stato formato da piu province» e Voltaire, orgoglioso, esalta i valori civili delle «na:;::ioni europee» che «non fanno schiavi i prigionieri e rispettano gli ambasciatori dei !oro nemici» secondo una prassi consolidata sui finire del Seicento. La stabilita del quadro politico, il generale incivilimento dei costumi e i grandi progressi compiuti in ogni campo sono giudicati prove tangibili di un'Europa emergente, che ha lasciato aile sue spalle i drammi e gli errori del passato. La rivoluzione culturale dei 'lumi' che, iniziata nel secondo decennia del secolo, dopo il 1750 va diffondendosi dovunque, al di sopra delle barriere nazio-
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nali, consiste nella coscienza critica di questa Europa civile alia quale sono affidati i destini di una intera civilta. Per molti philosophes della seconda meta del '700, non ci sono dubbi: seguendo i dettami ('lumi') della 'ragione', della 'tolleranza' e dell"umanita', gli intellettuali sono in grado di «combattere i pregiudizi e scacciarli dai covi dove la chiesa, le scuole, i governi e le corporazioni antiche li avevano accolti e protetti» (Condorcet), e possono anche offrire indicazioni chiare sui modelli di vita sociale e politica che la nuova Europa non potra non adottare. Da Lisbona a Pietroburgo, da Stoccolma a Napoli (in Inghilterra il rapporto intellettuali-potere si pone in termini diversi), tra il 1750 e il 1775, l'antica utopia platonica di affidare ai filosofi la direzione della cosa pubblica si reincarna nel disegno di egemonia perseguito da un folto gruppo di intellettuali, cosciente di se e cosmopolita_ Le accademie, per quanta nel '700 si rafforzino, non sono pili il luogo privilegiato per l'incontro e l'aggregazione dei 'lavoratori della penna'. I salotti, i caffe, le logge massoniche, le redazioni dei giornali e delle gazzette, i viaggi frequenti, le visite reciproche e i fittissimi scambi epistolari scandiscono i movimenti e gli interventi di una internazionale culturale, che, noncurante dei confini degli stati, si rivolge a un mercato e a un pubblico pili ampi (grazie anche ai progressi compiuti dall'alfabetizzazione) dai quali si aspettano e spesso si ricavano i proventi necessari alla propria indipendenza economica. A questa Europa dei 'lumi', che ha una sua lingua ufficiale, il francese (che anche nel mondo della diplomazia sostituisce l'internazionalita del latina) e una capitale riconosciuta e ammirata, Parigi, si rivolgono numerosi sovrani europei, desiderosi di uniformare le istituzioni dei lora paesi all'ordine nuovo richiesto ed indicato dalla ragione. «Non vi e alcun principe in Europa - scrive Diderot verso il 1760 - che non sia illuminato (...). Fanno a gara a chi rendera meno infelici gli uomini». Voltaire e Diderot, sospettati e censurati in patria, sono i consiglieri corteggiati ed ascoltati, rispettivamente, di Federico II di Prussia e di Caterina II di Russia, rna }'influenza esercitata da lora e dagli altri illuministi e limitata e, tutto sommato, deludente rispetto alle aspettative. Caterina II, che lusingo in molti modi i philosophes, si vantava di aver steso la grande «istruzione» del 1767, che, fra l'altro, aboliva la tortura, alia luce delle opere di Montesquieu (il suo « breviario ») e Beccaria; eppure nel 177 4 ordino che Pugacev fosse squartato prima di essere impiccato e, come non aveva lesinato critiche ed anatemi contra le idee pericolose di Rousseau, fu prontissima a rompere ogni rapporto coi portavoce dell'illuminismo quando i primi bagliori della rivoluzione francese scossero anche il suo trona. Le riforme del dispotismo illuminato tendono ad eliminare gli ostacoli di carattere feudale allo sviluppo dei processi che stanno trasformando il mondo economico e la compagine sociale, rna nulla concedono al dinamismo della societa civile sul piano del potere politico, che resta entro gli ambiti angusti della Stato assoluto. Gli obiettivi dell'assolutismo illuminato, che comunque trail 1770 e il 1780 attenuo la spinta riformatrice, saranno in gran parte raggiunti dopa il 1790, quando la rivoluzione francese spazzera via i sogni e i giochi politici e culturali delle corti e delle diplomazie europee.
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8.3. I 'lumi' e Ia borghesia. Convinti che la propria epoca potesse finalmen· te assicurare lo svelamento della verita, molti intellettuali del '700 designarono il lora secolo come age des lumieres (eta dei lumi) e il movimento a cui dichiaravano di appartenere illuminismo, o Enlightment (in inglese) e Aufklarung (in tedesco ). L'adozione della metafora arcaica della luce, gia esaltata dalla tradizione platonica ed utilizzata ampiamente dal giudaismo e dal cristianesimo, non e casuale. Aderendo allo spirito con cui la Riforma protestante aveva coniato il motto post tenebras lux, gli illuministi accentuano l'accezione combattiva del termine 'lumi', che designa le possibilita di conoscenza e di trasformazione proprie della ragione umana, ormai autonoma e disancorata da qualsiasi !egame di subordinazione. I 'Jumi' si riferiscono, pili che a una situazione acquisita, al criteria da seguire nella ricerca, e lo fanno con trasparenti sottintesi polemici. Non Ia luce soprannaturale della rivelazione divina, rna i lumi della ragione naturale, potenzialmente concessi a tutti, garantiscono la sconfitta delle tenebre, ovverosia dell'ignoranza, dell'oscurantismo medioevale, del principia di autorita, dell'oppressione e del dispotismo. Sulla stessa linea di Pierre Bayle, che nella sua polemica contra l'autocrazia religiosa di Luigi XIV aveva sostenuto che «ogni azione condotta contra i lumi della coscienza e di per se malvagia», Ia ragione illuminista e anzitutto uno strumento di difesa di cui l'individuo dispone per far valere i suoi diritti. In sintonia con lo sviluppo dell'economia di scambio e di mercato, sempre pili regolata dal gioco della domanda e dell'offerta, gli strati sociali borghesi non solo tendono ad abolire gli ostacoli delle tradizioni e dei privilegi ereditati, rna esprimono nella prassi valori irrinunciabili, quali l'individualismo, Ia liberta, l'uguaglianza, l'universalita, il contratto, Ia tolleranza, la proprieta. Fra le esigenze di questi ceti medi in Iotta contra un ordine sociale feudale e i temi pili significativi della cultura illuminista sussiste una sorta di intesa di fondo, qualcosa di pili che una semplice correlazione. Parole-chiave come progresso, civilta o civilizzazione (in francese civilisation:), umanita, benevolenza (in francese bienfaisance), filantropia, tolleranza, cosmopolitismo, utilita e felicita (in francese bonheur) disegnano un universo di valori in cui facilmente qualsiasi borghese del '700 avrebbe potuto riconoscersi. Questa non significa che per provenienza sociale gli illuministi fossero necessariamente borghesi, ne che la diffusione dei lora scritti e delle !oro idee fosse maggiore fra i gruppi borghesi. Va detto, anzi, che non solo l'elevato costa dei libri ne limitava molto la diffusione, rna che, per esempio in Francia, i lettori pili numerosi e attenti delle opere dei philosophes erano nel clero (delle 40 copie dell'Encyclopedie* esistenti nel Perigord, 24 appartenevano a parroci!) e nell'aristocrazia di corte, scettica in fatto di religione e sprezzante delle convenzioni sociali. Rimanendo in ambito francese, gli stessi illuministi o erano aristocratici di rango anche elevato, come Montesquieu, Maupertuis, Turgot, Buffon, La Mettrie, Helvetius, d'Holbach, Condorcet e Chastellux, o appartenevano, a qualche titolo, al mondo ecclesiastico, come Condillac, Morelly, Meslier, Mably e Raynal. Di origini chiaramente borghesi sono Voltaire, Rousseau e Diderot; mentre la vicenda di d' A! em bert (figlio naturale di un ufficiale e di un'aristocratica, fu abbandonato sui sagrato di una chiesa parigina e fu
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allevato da una popolana) riassume esemplarmente il composito quadro sociologico degli illuministi, che non permette di ipotizzare un nesso causale meccanico fra ascesa della borghesia e nuove idee illuministiche. 11 mondo in cui questi intellettuali si muovevano era quello aristocratico dei gentiluomini frequentatori dei salotti e, in parte, quello dei professionisti. Voltaire era esplicito nel definire i limiti sociali dell 'azione educativa dei philosophes: «E giusto che il popolo sia diretto, non educato; esso non merita l'educazione (... ) non e il lavoratore che si deve educare, rna il huon borghese, il commerciante». D'Holbach e Diderot, che in politica e in religione sostenevano idee ben piu radicali di Voltaire, intendevano rivolgersi non alia gente comune, alia maggioranza, rna ad un pubblico elitario, a quella aristocrazia del pensiero che «le circostanze, l'educazione e i sentimenti elevano al di sopra della criminalita», cosi scriveva d'Holbach. Persino un testa sovversivo come il Testamento del misterioso curato delle Ardenne, Jean Meslier, scritto espressamente per i suoi poveri parrocchiani, non raggiunse mai i suoi destinatari, rna, opportunamente manipolato da Voltaire ed altri, circolo soltanto nei circoli intellettuali e nei salotti, deliziandone Ia curiosita intellettuale. L'Encyclopedie di Diderot e D'Alembert, ovvero il Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri pubblicato in 17 volumi di testa (piu 11 volumi di tavole) a Parigi, tra il 1751 e il 1772, e ritenuta a huon diritto l'emblema dei 'lumi' nel momenta della lora massima espansione. Cia sul finire del '700, enciclopedismo ed illuminismo furono considerati come sinonimi. ll termine 'enciclopedia' di origine greca (= istruzione circolare) acquisi nei primi decenni del secolo XVII l'accezione moderne. di raccolta sistematica di tutto lo scibile. L 'idea di ordinare sistematicamente i vari rami del sapere era gia stata presente nel mondo greco e latina ed aveva ispirato nel Medioevo molte raccolte 'enciclopediche' (summae, tresors, specula .. ). E con F. Bacone che il genere si rinnova, diventando l'organizzazione sistematica delle 'scienze possibili ', sulla base dei nuovi metodi di ricerca (i principi della natura verificati dall'esperienza). Contemporaneamente si consolida, durante il Seicento, la tendenza che assegna ai dizionari eruditi il compito di ordinare alfabeticamente le conoscenze esistenti: il Dizionario storico-critico di P. Bayle ne e l'esempio piu significativo. Proponendosi di stendere un bilancio del passato e un progetto peril futuro, lEncyclopedie raccoglie ambedue questi atteggiamenti. Essa nasce come affare commerciale: doveva essere la traduzione dell'inglese Cyclopaedia di E. Chambers, apparsa a Londra tra il 1738 e il 1750. lnizialmente, nel 1746, l'editore A.F. Le Breton affida la direzione dei lavori all'abate Gua de Malves, affiancato dallo 'scienziato' d'Alembert e dal 'traduttore' Diderot; poi, nell'ottobre 1747, concentra tutto nelle mani di Diderot che modifica in profondita il piano e le finalita del lavoro, concependolo come «Opera di una societa di scrittori», frutto collettivo di una collaborazione fra specialisti. Diderot e d'Alembert chiamano a collaborarvi uomini illustri (come Montesquieu, Voltaire, Buffon, Quesnay, Turgot, Rousseau,
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d'Holbach .. ) e personaggi piu oscuri (come il ae Jancourt, che scrisse piu di 17-000 voci su un totale di oltre 60.000). In tutto sana stati contati circa 160 collaboratori. I primi due volumi escono nel1751 e nel1752, suscitando la vivace reazione polemica di gesuiti e giansenisti. Nonostante la decisione governativa di sopprimere l'iniziativa, la mediazione di un magistrato arnica, Malesherbes, e il favore di alcuni autorevoli cortigiani, fra cui la Pompadour, permettono la pubblicazione, nel novembre 1753, del terzo volume e dei volumi successivi fino al settimo, che compare nel 1758. E allora che esplodono gli attacchi contra gli enciclopedisti, accusati di empieta e di materialismo, come del resto dimostra apertamente il De l'esprit di Helvetius (arnica dell'Encyclopedie), che esce proprio nel 1758. Stanco di polemiche e, forse, scontento delle gratificazioni economiche d'Alembert si dimette. Rousseau, gia da tempo in dissenso con i philosophes, rompe ufficialmente e pubblicamente con la Lettera sugli spettacolL Nel 1759 l'Encyclopedie e condannata dalle autorita civili ed ecclesiastiche; il privilegio reale concesso nel 1746 e revocato. Diderot continua a pubblicare alcuni volumi di tavole, relativi alle arti e mestieri, e clandestinamente prosegue con alcuni collaboratori ['opera redazionale. NeZ 1765 escono, con titolo modificato, gli ultimi 10 volumi di testa ed entro il1772 sana completati anche i volumi delle tavole. Il quadro teorico cui l'Encyclopedie fa riferimento e tracciato da d'Alembert nel Discorso preliminare (1751) e da Diderot nel Prospectus (1750) e in alcune voci importanti come Enciclopedia ed Eclettismo. L 'esigenza baconiana di fornire un quadro unitario delle scienze e delle arti si puo soddisfare cercando un principia unitario nell'uomo stesso e nel suo rapporto con la natura e con gli altri uomini. Correlato alle facolta dell'uomo, l'ordine ideale del sapere e cosi ricostituito: prima la memoria (da cui derivano le discipline storiche), poi la ragione (origine di ogni "filasofia>> o «SCienza») e infine l'immaginazione (donde la poesia); dai bisogni degli uomini e della vita associata nascono le tecniche e le scienze morali. Ai due direttori non interessa trasmettere una documentazione integrale ed indiscriminata del passato. La 11ecessaria selezione e fatta in base alle esigenze del presente, per cui l'attenzione si concentra soprattutto sui 'moderni; sui secoli XVI e XVII; i maestri a cui guardare sana Bacone, Locke, Newton e, con alcune riserve, Cartesio e Leibniz. L'obiettivo - scrive Diderot nel1756 - e quello di «Cambiare il modo di pensare comune». Rifiutata !'attica della <<Spirito di sistema» (propria del Seicento), l'Encyclopedie propane un 'idea del sapere come progressiva e non definitiva acquisizione di conoscenze e si sviluppa come un'opera 'aperta' in cui si irzcorztrarzo e si scorztrarzo i diversi punti di vista dei molti collaboratori. Straordirzario il successo: i sottoscrittori della prima ediziorze furorzo ben 4255; prima della Rivoluziorze ebbe cinque ristampe e traduziorzi integrali (Ginevra, Lucca, Livorno, Losarzrza e Yverdon). Tra le ragioni del successo non si puo tacere l'irztelligente adererzza di quest'opera allo spirito dei 'lumi' ed all'ottimismo laico con cui la borghesia del tempo stava individuarzdo urz rzuovo universo culturale.
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In un articolo famoso che Immanuel Kant scrisse nel 1784, in risposta alia domanda <> rivolta dalla Rivista mensile di Berlino a numerosi uomini di cultura, e contenuta una valutazione dell'illuminismo che conferma !'ambito prevalentemente intellettuale ed elitario dell'azione svolta dai 'lumi', di cui pure Kant rivendica giustamente il carattere di svolta e di rottura rispetto al passato. L'illuminismo e l'uscita dell'uomo dallo stato di minorita che egli deve imputare a se stesso. Minorita e l'incapacita di valersi del proprio intelletto senza Ia guida di un altro (...) Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! E questo il motto dell'illuminismo. La pigrizia e la vilta sono le cause per cui tanta parte degli uomini (... ) rimangono volentieri per l'intera vita minorenni, per cui riesce facile agli altri erigersi a !oro tutori. (... )Solo a pochi e venuto fatto con ]'educazione del proprio spirito di sciogliersi dalla minorita e camminare poi con passo piu sicuro. (...) il pubblico uso della propria ragione deve essere libero in ogni tempo, ed esso solo puo attuare l'illuminismo tra gli uomini (... ). Intendo per uso pubblico della propria ragione l'uso che uno ne fa come studioso davanti all'intero pubblico dei lettori. (... ) II cittadino non puo rifiutarsi di pagare i tributi che gli sono imposti (... ). Tuttavia, egli non opera contro il dovere di cittadino se, come studioso, manifesta apertamente il suo pensiero sulla sconvenienza e anche sull'iniquita di queste imposizioni.
L'articolo si conclude, significativamente, con un panegirico di Federico II di Prussia e del suo illuminismo politico, esplicitato da Kant nella massima rivolta ai sudditi: «Ragionate quanta volete e su tutto cia che volete; solamente obbedite!». E vero, e lo vedremo, che molte delle idee e degli atteggiamenti illuministi, specialmente di matrice francese, si conciliano male con questa immagine pacificante dei 'lumi'. Sta di fatto, pero, che la maggior parte degli intellettuali del secolo non perseguono l'obiettivo di spingere le masse popolari aile agitazioni sociali, ne sembrano auspicare uno sconvolgimento radicale dell'assetto esistente, che credono invece di poter migliorare attraverso la diffusione dei 'lumi'. Il compito di elevare anche i rappresentanti piu intelligenti del popolo minuto alia dignita di membri attivi nella societa colta e raffinata dei filosofi gentiluomini spetta appunto ai graduali progressi dell'educazione e non alia reazione rabbiosa e violenta di masse finalmente liberate da uno sfruttamento plurimillenario. Ecco perche fu molto relativa 1'incidenza che la rivoluzione culturale del '700 esercito sui contesto socia,Je generale, e in particolare sulle masse popolari, che pure nella seconda meta del secolo conobbero mutamenti importanti. I processi che iniziarono a coinvolgere tutte le classi sociali, come quelli di desacralizzazione e di scristianizzazione, si spiegano .meglio se si riconducono al fenomeno dell'urbanesimo e aile rivoluzioni 'materiali' che stavano minando le basi della struttura familiare patriarcale, piuttosto che alia presunta influenza della cultura laica e scientifica, monopolio quasi esclusivo delle classi colte, o agli attacchi sferrati contra la chiesa dai sovrani illuminati.
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8.4. Cronologia e geografia dell'illuminismo. La filosofia dei 'lumi' si present<'> consapevolmente come un fenorneno unitario, contrassegnato da alcuni connotati comuni, e cioe come: - interpretazione razionale dell'universo fisico e conseguente disinteresse per il trascendente, la metafisica e i sistemi in genere; - ricerca dei mezzi che assicurino la felicita individuate e pubblica; - fiduciosa esaltazione della scienza e delle tecniche che permettono all'uorno il dominio sulle case e sulla natura; - critica spregiudicata del fanatismo dogmatico e delle vecchie mitologie; - definizione e salvaguardia dei diritti inalienabili dell'individuo; - assegnazione all'intellettuale della prerogativa di guidare la societa. Nella realta, l'illuminismo non fu un movimento unitario ed uniforme, rna un fatto cornplesso e differenziato. Sui piano cronologico, assumendo come discriminanti gli anni 1740-50, si distinguono, di solito, due tempi nella storia dell'illuminismo. 1. II prima, egemonizzato dal modello culturale inglese, che sedusse fra gli altri Montesquieu e Voltaire, e caratterizzato da un vivo interesse per le questioni morali e religiose che animano le discussioni fra deisti e tradizionalisti, fra giansenisti e molinisti, fra regalisti e curialisti, fra empiristi lockiani e razionalisti cartesiani. II nuovo corso di idee si sviluppa principalmente nel triangolo Londra-Parigi-Arnsterdam, rna la Napoli di Vico e di Pietro Giannone vi apporta un contributo originale, non necessariamente subalterno. 2. La spinta propulsiva impressa, tra il 1752 e il 1759, dal gruppo dei giovani intellettuali che a Parigi sono impegnati nella stesura dell'Encyclopedie, definisce i caratteri del secondo illuminismo, chiaramente orientato sulle questioni sociali, politiche, economiche e giuridiche. Gli anni cornpresi tra il 1750 e il 1775 segnano l'apogeo del rnovimento dei 'lurni'. Come abbiamo detto nei paragrafi precedenti, a Parigi, a Milano e in altre capitali europee, il 'partito' dei philosophes batte l'accento sulle riforme e, nel candidarsi alla direzione della societa, si compromette col dispotismo illuminato. E il momenta dell'Europa francese: raggiunto il massimo di unita (rna si ricordi che al 1757 risale la clamorosa rottura di Rousseau con Diderot e con gli altri), l'illuminisrno diventa un atteggiamento mentale, quasi una moda, certamente una merce d'esportazione per la Francia. In questi stessi anni, l'appartata (rna non troppo) scuola scozzese (Hume, Smith, Ferguson, Reid) sta elaborando contributi fondamentali nei settori dell'economia, della storiografia e della nascente sociologia. Tra il 1770 e il 1790 la generazione dei philosophes scompare, in Francia: restano il piu giovane, Condorcet, e il gruppo degli ideologues, che per quasi 40 anni, in simbiosi con la massoneria, manterra in vita l'eredita dei 'lurni'. Su scala europea, la crisi rivoluzionaria portera chiarezza e frantumera la fittizia unita raggiunta negli anni del successo, obbligando tutti a scegliere senza indugi il proprio campo di appartenenza. A questa breve excursus storico occorre aggiungere alcune considerazioni sulla geografia dell'illuminisrno, o meglio sui peso notevole che i diversi contesti nazionali e regionali hanna avuto nella definizione della filosofia dei lurni. Abbiamo accennato alla situazione particolare dell'Inghilterra. La patria di Bacone, di Locke e di Newton gode nel '700 di uno status politico e sociale pri-
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vilegiato: il rapporto bilanciato fra i diversi poteri (monarchia, organi di governo, parlamento, partiti politici e opinione pubblica) e l'alleanza di compromesso fra aristocrazia terriera e borghesia commerciale garantiscono una pace sociale ed un benessere che non hanno riscontro in nessun paese dell'Europa continentale. Rivolgendosi a un pubblico esteso (The Spectator, il giornale di R. Steele e J. Addison distribuiva, appena nato, 3.000 copie al giorno) gli intellettuali godono generalmente di una discreta indipendenza economica e svolgono un ruolo di mediazione tra i valori tradizionali e le innovazioni piu ardite. II romanzo inglese (Defoe, Richardson, Fielding, Sterne) e il frutto piu significativo di questa cultura dinamica che crea il nuovo genere letterario dell'epopea borghese, il romanzo appunto, senza generare contrasti o lacerazioni insanabili. In Francia, la crisi e l'involuzione dello Stato assoluto, dopo la morte di Luigi XIV, suscitano, nella prima meta del '700, il fenomeno nuovo di una vastissima letteratura clandestina, che cerca di sfuggire ai controlli ecclesiali e polizieschi, ed obbligano i 'lumi' a porsi il pili delle volte in contrapposizione al potere delle istituzioni. Mentre l'illuminismo inglese si svolge all'interno di un quadro politico e religioso aperto e tollerante, il dispotismo, che e chiuso in Francia a qualsiasi iniziativa riformatrice - anche a quelle che altri sovrani illuminati europei avviano dietro suggerimento proprio dei philosophes francesi - alimenta il vigore teorico e le utopie del secondo illuminismo rna anche la violenza della passione anticlericale e le posizioni manichee ed estremiste. Nell'articolo ricordato, Kant osservava: «Un piu alto grado di liberta civile sembra favorevole alla liberta dello spirito del popolo, rna pone pen) ad esso limiti invalicabili. Un grado minore di liberta civile, al contrario, offre allo spirito un campo in cui esso puo svilupparsi con tutte le sue forze». In Germania, l'assenza di un potere centrale (l'istituto imperiale e una liturgia puramente decorativa) e l'atomizzazione in un coacervo di staterelli non permettono alia nascente borghesia tedesca di andare oltre modeste richieste riformistiche, che sostanzialmente non cambiano la struttura sociale e politica semifeudale. L'Aufklarung riflette le difficolta incontrate dal processo di modernizzazione del paese e ricerca una sorta di compensazione sul piano prettamente culturale, concentrandosi tutta nel mondo delle accademie e delle universita, che ne traggono cosl. un impulso notevole, fino a diventare le piu famose d'Europa. L'influenza di Spinoza e di Leibniz imprime all'illuminismo tedesco la propensione peril sistema, cosi come la polemica contro l'ortodossia luterana lo conduce ad incontrarsi con le correnti del pietismo, di cui condivide il forte richiamo alla centralita della coscienza e alla costruzione di una profonda religiosita interiore. Anche in Italia, dopo il 1740, si registra una ripresa economica correlata ai processi di trasformazione in atto nel resto dell'Europa occidentale. Ma il peso negativo del frazionamento politico e l'assenza di una reale unificazione amministrativa, anche all'interno dei singoli Stati, impediscono tanto l'avvio dell'industrializzazione quanto il decollo del settore agricolo (uniche eccezioni la Lombardia, il Piemonte e la Toscana). Consapevoli di questi problemi, gli illuministi italiani, operanti soprattutto a Milano, a Napoli e, in misura minore, a Firenze, si interessano a fondo di questioni economiche, amministrative, giu-
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216 0 8- Panorama del Settecenlo ridiche e politiche e rivelano un autentico spirito riformatore. Salvo alcune eccezioni, come gli scritti di C. Beccaria e dell'abate Galiani, Ia produzione teorica dell'illuminismo italiano non raggiunge tuttavia livelli di fama europea. Ogni Stato europeo (avremmo dovuto ricordare anche Spagna, Portogallo, l'Impero Asburgico, Polonia, Russia e gli Stati Uniti) ha avuto, dunque, i suoi 'Iumi' o, se si preferisce, ha adattato alle sue esigenze e alla sua storia i prodotti generalmente importati da Inghilterra e Francia. Analogamente, non bisogna dimenticare che dovunquel'avvento dei 'lumi' ha suscitato nutrite schiere di anti-illuministi, che non sempre sono le ombre di un passato sopravvissuto a se stesso. Una conferma di quanta poco sia attendibile l'immagine unitaria che gli stessi illuministi accreditarono, e che piu tardi e servita (all'idealismo tedesco ed teorid della Restaurazione) per sbarazzarsi, con un colpo solo, di un termine di confronto troppo variegato e scomodo, viene dalla constatazione che questi prodotti, anche nel momenta della lora massima diffusione, non erano affatto omogenei. Si prenda ad esempio la dicotomia fra testa e cuore, fra ragione e sensibilita, che e costantemente sottesa al dibattito culturale del secolo. Mentre !'ironia di Voltaire sta tutta dalla parte della fredda e tagliente riflessione, Rousseau non si stanca di rivendicare i diritti della coscienza, della sensibilita e dell'immaginazione, e Diderot ricerca le possibilita di una coesistenza, o quanta meno di un'alternanza, fra i due poli fondamentali entro cui si scandisce l'avventura dell'uomo. Chi dei tre rappresenta il vera illuminismo? Un'ultima considerazione riguarda il panorama generale della cultura settecentesca. Anche se l'illuminismo e, sul piano filosofico e ideologico, il fatto piu significativo del secolo, esiste tutto un altro versante (l 'altra faccia della medaglia) che e stato letto ·nell' attica del romanticismo e quindi definito come 'preromantico'. Bastera ricordare Ia rinascita della poesia operata da Young, Gray, Ossian e Gessner, lo straordinario successo di due romanzi come la Nuova Eloisa di Rousseau e il Werther di Goethe e il grande risveglio religioso espresso dal pietismo e dal metodismo. Il quadro artistico del '700 non e poi riducibile ai caratteri dei 'lumi': si pensi non soltanto all'eccezionale vitalita raggiunta dall'espressione musicale (da J.S. Bach e Handel, a Haydn e Mozart), rna anche all'arte barocca e al rococo che, specialmente nei paesi cattolici, esprimono la sopravvivenza di un ordine gerarchico e feudale, antitetico all'istanza illuministica che definisce gli uomini sulla base della lora comune appartenenza all'umanita. Una straordinaria varieta di elaborazioni teoriche e di atteggiamenti personali, di fermenti ideologici l! di posizioni politiche caratterizza un secolo come il Settecento, che ha avuto il merito (o il demerito) di aver fissato consapevolmente i tratti dell'universo culturale entro cui, tutto sommato, si muove ancora oggi l'occidente. Con lo scopo, ambizioso in verita, di salvaguardare il piu possibile (anche in un manuale scolastico) questa ricchezza di contenuti e di personaggi, abbiamo scelto di suddividere la materia per temi ed argomenti, cercando di riprodurre il sensa degli interventi piu importanti e la vivacita dei dibattiti che nel Settecento non sono stati, come nel secolo precedente, confronti fra grandi personalita isolate, rna processi dialettici a carattere, in qual-
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che modo, collettivo, elaborazione di alcuni 'luoghi' del pensiero che fino ad oggi hanno costituito gli schemi a priori anche dell'attivita filosofica.
La riflessione epistemologica 8.5. II quadro della ricerca scientifica. La rivoluzione scientifica, che nel Seicento era esplosa e si era consumata entro le sfere relativamente elitarie degli accademici e dei dotti, nel Settecento diventa un patrimonio comune alla nuova classe, destinata a chiudere il secolo col suo trionfo politico e sociale. Anche la ricerca scientifica si fa 'democratica', nel senso che a promuoverla e a divulgarla e ormai un ceto largo e variegato. Per quanto le singole discipline richiedano un grado sempre pili alto di specializzazione, e molto difficile individuare nel secolo dell'Encyclopedie (e di molte altre enciclopedie) un solo uomo di scienza che si occupi esclusivamente di un settore specifico o non intervenga su questioni apparentemente lontane dalle sue competenze. Non solo, rna nelle numerose controversie scientifiche sono coinvolti anche i non addetti ai lavori (letterati, dame dei salotti, teologi di professione) che non disdegnano di cimentarsi in esperienze di laboratorio. Questo interesse, che Diderot chiama «eclettico» o <
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218 D 8- La riflessione epistemolo ica 2. La seconda meta del '700, inaugurata nel 1749 dai primi tre volumi della Storia Naturale di George Louis Leclerc, conte di Buffon (1707-89) - l'opera completa, in 44 volumi, sara portata a termine dai suoi collaboratori nel 1804 ed esercitera una vasta influenza in tutti i settori culturali - segna il passaggio dal primato della matematica a quello delle scienze naturali ed e caratterizzata da uno sviluppo scientifico eccezionale, analogo a quello verificatosi nel '600. Ricordiamo rapidamente gli avvenimenti e i nomi piu significativi. L'astronomia conosce le prime teorie cosmologiche moderne (e del 1755 lo scritto kantiano che espone la celebre ipotesi nebulare dell'origine del sistema solare, sviluppata poi da Laplace), si avvale (dal 1756) di telescopi acromatici e nel 1781, dopo la scoperta un po' fortuita di Urano, compie con F.W. Herschel (1738-1822) un vero salto qualitativo. Nel decennia 1750-60 la geologia acquisisce alcune nozioni fondamentali grazie ai lavori di J.E. Guettard (1715-86) e J.G. Lehmann (1719-67), M.V. Lomonosov (1711-65) e G. Arduino (1714-95). Nel 1796 la nascita contemporanea della paleontologia stratigrafica - ad opera dell'ispettore minerario inglese W. Smith (1769-1831)- e della paleontologia comparata - con G.L.C. Cuvier (1769-1832) - indirizza gli studi sulla strada che permettera a Charles Lyell di costituire, nei primi decenni del sec. XIX, la geologia moderna. In campo matematico il secondo Settecento e dominato dal genio di L. Euler (1707-83) e del torinese G.L. Lagrange (1736-1813): i trattati di analisi infinitesimale del primo e gli sviluppi impressi dal secondo al calcolo algebrico attestano il grande fervore che anima la ricerca matematica. n settore scientifico che mantiene e anzi rinsalda il connubio con la matematica e la fisica: gli studi di elettrologia e magnetismo condotti daB. Franklin (1706-90), H. Cavendish (1731-1810), C.A. de Coulomb (1736-1806) e dagli italiani A. Volta (17451827) e L. Galvani (1737-98), rna anche le indagini in termologia di J. Black ( 1728-99) e J .H. Lambert ( 1728-77), tentano di tradurre nel linguaggio dell' analisi matematica le interazioni osservate sperimentalmente e di conciliarle con la meccanica razionale. Non per nulla le sintesi piu fortunate sulla meccanica dei solidi, dei fluidi e sulla meccanica generale sono opera dei grandi maternatid Euler e Lagrange. Anche la polemica sulla concezione corpuscolare della materia tra atomisti e dinamisti, questione di cui si occupera anche Kant, si svolge all 'intemo di questa processo di matematizzazione della fisica. Nel campo delle scienze della vita la ricerca sperimentale prende il sopravvento sulle grandi controversie e getta nuova luce sui temi dibattuti da trasformisti e fissisti, orientando deci~;amente la biologia e la medicina nella direzione assunta poi nell'Ottocento. Mentre il microscopio di C. Bonnet (1720-93) e di L. Spallanzani (1729-99) indaga sulla generazione dei viventi (muffe, infusioni) e chiarisce il processo della digestione, la circolazione del sangue e la respirazione, G.B. Morgagni (1682-1771) impianta saldamente l'anatomia patologica, L. Auenbrugger (1722-1809) crea la semeiotica medica, e il trattato sulle malattie epidemiche (1776) di L.S. Le Brun apre la via alia scoperta della vaccinazione. Perla chimica basti menzionare A.L. Lavoisier (1743-1794) e il suo Trattato elementare di chimica (1789), considerato il primo testo della chimica moderna.
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Oltre che da un simile incremento, unitario e poliedrico, della conoscenza scientifica, lo 'spirito del secolo' venne alimentato dalla diffusione del newtonianesimo, che conquisto non solo le universita e le accademie, rna perfino i salotti. I dialoghi del nostro Francesco Algarotti, dal titolo Newtonismo per le dame, pubblicati nel 1737 (Voltaire ne trasse ispirazione per i suoi Elementi della filosofia di Newton, 1738), vennero tradotti neUe principali lingue europee. L'egemonia esercitata dal modello newtoniano e testimoniata dal proposito, coltivato da gran parte dell<;t scienza settecentesca, di ridurre i diversi settori del sapere (comprese le nascenti scienze umano-sociali) in termini di intelligibilita matematica. Esemplare il tentative di d'Alembert di trovare una fommla universale che riassuma in una sola equazione matematica la totalita dei fenomeni. La diffusione del newtonianesimo non incontra piu resistenza, dopo il 1740, neppure in Francia, dove nei primi decenni del secolo si era tentato di inquadrare entro il modello meccanicistico cartesiano i fenomeni messi in luce da Newton. Infatti, dopo le Lettere filosofiche (1734) di Voltaire e gli interventi a favore di Newton da parte di Maupertuis, di Clairatit e del giovane Buffon, Ia fisica cartesiana e definitivamente liquidata quando si risolve l'annosa questione sulla forma della Terra. La misurazione di un grado di meridiana fatta in Lapponia dalla spedizione scientifica guidata da Maupertuis (che ne rende noti i risultati nello scritto Sulla figura della Terra, del 1739), comparata con i risultati dell'altra spedizione di La Condamine in Peru, dimostra in maniera inconfutabile la validita della tesi newtoniana dello schiacciamento della Terra ai poli. Il primato di Newton e infine trionfalmente sancito nel 1759, quando l'entusiasmo generale dell'opinione pubblica saluta, come vittoria della ragione sulla superstizione, la comparsa nel cielo di Parigi della cometa preannunciata fin dal 1705 da E. Halley secondo calcoli fondati sulla teoria della gravitazione universale. Successo del modello newtoniano significa anche affermazione dell'altra anima di Newton, quella sperimentale, che soprattutto nella seconda meta del secolo alimenta le ricerche e le osservazioni accurate, nonche la costruzione di strumenti d'indagine sempre pili precisi. In questa direzione, l'empirismo di Locke, che insieme a Newton e l'autore pili citato nel '700, offre indicazioni preziose se non altro per l'importanza assegnata alla descrizione empirico-fattuale e all'osservazione sensibile, spesso trascurate dal meccanicismo secentesco. La meccanica razionale di Newton, accompagnata e corretta dalla epistemologia di Locke, rappresenta Ia matrice e il termine di confronto della scienza settecentesca, rna anche della riflessione filosofica. Specialmente in Gran Bretagna, frontiera avanzata della r:icerca scientifica e del progresso tecnologico, i filosofi non cercano pili nuovi metodi per conoscere la natura, prendono atto dei successi conseguiti dal metoda adottato concretamente dalla scienza e affidano alia ragione il compito di comprenderne le implicazioni epistemologiche e di indagare sulle possibilita e sui limiti dell'intelletto umano. Si definisce cosi la nuova prospettiva filosofica, che raggiungera col criticismo kantiano il pili alto grado di consapevolezza teorica. 8.6. L'empirismo teologico di Berkeley. Il primo, originale, contribute alia riflessione epistemologica del '700 viene da un giovane filosofo e teologo irlan-
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dese, vivamente preoccupato della scristianizzazione della cultura e del costume, provocata, a suo giudizio, dalla scienza newtoniana e dalla gnoseologia empiristica di Locke. Il Trattato sui principi della conoscenza umana di George Berkeley* esce a Dublino nel 1710, dedicato «a coloro che sentono il J::>isogno George Berkeley nasce a Dysert, in lrlanda, nel 1685. Studia e insegna al Trinity College di Dublino, dove nel 1710 viene ordinato prete della chiesa anglicana. Dopa cinque saggi accademici su questioni matematiche, pubblica il Saggio di una nuova teoria della visione (1709), il Trattato sui principi della conoscenza umana (1710) e i Dialoghi tra Hylas e Filonous (1713). Per quanta le preoccupazioni del giovane filosofo siano di natura teologica, rivolte polemicamente contra l'empieta della scienza contemporanea, del deismo e del materialismo, i tre scritti filosofici, che hanna scarsissimo successo, si occupano di problemi scientifici ed epistemologici, utilizzando le stesse armi degli avversari e senza lasciar trapelare il disegno apologetico del lora autore. Nel 1713 Berkeley si trasferisce a Londra. lntrodotto da J. Swift e da J. Addison nei circoli letterari della capitale, Berkeley collabora al Guardian di R. Steele, una delle tante «gazzette morali» del tempo. Nel 1714 viene in Italia, vi ritorna nel 1718 e vi si ferma fino al 1720, annotando in un suggestivo diario acute osservazioni sull'arte italiana e sulle superstizioni dei cattolici 'papisti '. NeZ 1721 Berkeley torna ad occuparsi di filosofia e scienza con il trattatello De motu, che conclude la sua critica a Newton e all 'empirismo. Negli anni successivi elabora il progetto di fondare nelle !sole Bermude un college per l 'istruzione e l 'educazione religiosa dei giovani indigeni d'America, nella convinzione che l'lnghilterra e !'Europa, irrimediabilmente corrotte, siano destinate alla de cadenza e che il futuro dell 'umanita e dell 'impero inglese fosse da cercare presso i 'selvaggi' del Nuovo Mondo. Nel 1729 parte per !'America e soggiorna per quasi tre anni nel Rhode Island: in attesa degli aiuti finanziari promessi dal parlamento inglese, si dedica agli affari della fattoria che aveva acquistato e alla composizione dei sette dialog hi dell 'Alcifrone, che pubblica quando lorna a Londra, nel 1732, senza aver potuto realizzare il suo progetto missionario. Con l 'Alcifrone e una serie di altri lavori su questioni matematiche, giuridiche, economiche e politiche, Berkeley dispiega in tutta la sua ampiez<.a e senza le cautele nutrite in gioventu l'originario disegno apologetico. L'energico richiamo delle coscienze all'etica del Vangelo.e alla fedelta verso lo Stato e la chiesa nazionale, la polemica contra l 'invadenza del lusso sfrenato e contra i valori della societa borghese emergente si coniugano con gli ideali del moderatismo tory e, sul piano speculativo, con il recupero delle concezioni metafisiche neoplatoniche. Nominata vescovo di Cloney, in lrlanda, nel1734, Berkeley si interessa attivamente dei mali che affliggono il suo gregge, come testimonia, fra l 'altro, l 'ultimo suo scritto filosofico importante, la Siris (1744), in cui si propane di illustrare i poteri taumaturgici dell 'acqua di catrame, impiegata su suo consiglio durante
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l 'epidemia di peste che ha colpito l 'Irlanda. L 'abbandono dell 'interesse epistemologico, che tra il 1709 e il 1713 era approdato all'immaterialismo, e 1'adesione aile stravaganze della fisica qualitativa e della chimica mistica, hanna indotto ad ipotizzare una radicale rottura tra l'empirismo della prima filosofia e il platonismo scientista del secondo Berkeley. In realta, il pensiero di Berkeley, animato da una costante tensione etico-religiosa e sorretto da un 'analisi delle deviazioni del tempo, condotta con rara lucidita (anche se sotto il segrw di un giudizio negativo), si svolge secondo una linea di continuita. Il tentativo del Trattato sui principi di rovesciare dall'interno i presupposti teorici del metoda sperimentale e di condurre lo studio della natura alla lettura del linguaggio divino si pone come la premessa dell 'itinerario intellettuale verso Dio e della restaurazione metafisica descritta nell 'Alcifrone e nella Siris. Muore a Oxford nel 1753.
di una dimostrazione dell'esistenza e immaterialita di Dio, ovvero della immortalita dell'anima». Nella sua pregnante brevita, il libretto contiene una critica puntuale della teoria delle idee di Locke, condotta sullo stesso terreno e con gli stessi argomenti forniti dal Saggio sull'intelletto umano, ed enuncia un 'nuovo principia' gnoseologico, condensate nella celebre formula dell'esse est percipi (essere e essere percepito). Accettando l'assunto principale di Locke (ogni conoscenza deriva dai sensi ed e scomponibile in elementi semplici: 6.18), Berkeley sostiene che «gli oggetti della conoscenza umana» sono soltanto le idee e che tutte le idee sono semplici, in quanta derivano dalla percezione del soggetto, di colui cioe «che percepisce ed agisce» e che si puo chiamare <<mente, spirito, anima, io». Tutti riconosceranno che ne i nostri. pensieri ne i nostri sentimenti ne le idee formate dall'immaginazione possono esistere senza Ia mente. Ma per me non e meno evidente che le varie sensazioni, ossia le idee impresse ai sensi, per quanto fuse e combinate insieme (cioe, quali che siano gli oggetti composti da esse), non possono esistere che in una mente che le percepisce. Credo che chiunque possa accertarsi di questo per via intuitiva, se pensa a cio che significa la parola «esistere>> quando viene applicata ad oggetti sensibili. Dico che Ia tavola su cui scrivo esiste, cioe che Ia vedo e Ia tocco, e se fossi fuori del mio studio direi cJ1e esiste intendendo dire che potrei percepirla se fossi nel mio studio, ovvero che c'e qualche altro spirito che attualmente la percepisce. (... ) L'esse delle cose e un percipi, e non e possibile che esse possano avere tina qualche esistenza fuori dalle menti o dalle cose pensanti che le percepiscono.
Gli oggetti, che erroneamente riteniamo esistenti fuori di noi, non sono altro che idee o collezioni di idee percepite dallo 'spirito'. Il fatto di pensare ad una loro esistenza distinta dal lora essere percepiti dipende da un arbitrario processo di astrazione, che fa presupporre un sostrato oggettivo a cui riferire
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le qualita da noi percepite. «In realta, oggetto e sensazione di esso sono la stessa identica cosa, e non possono dunque venir astratti l'uno dall'altro». Allo stesso processo astrattivo sono da addebitare le idee generali, che di fatto non sono pensabili: si puo forse avere l'idea di «un triangolo che non sia ne isoscele, ne scaleno, ne equilatero?» Le idee astratte, di cui parla Locke, sono 'nozioni' o segni universali, utili per 'rappresentare' piu idee particolari simili. L'esperienza sensibile, tutta formata da 'idee particolari', e infinitamente ricca; l'intelletto e la scienza si lasciano invece intrappolare dalla pretesa delle parole di esprimere concetti puri, impensabili e inesistenti («fuggevoli fantasmi », come li chiamera piu tardi nella Siris) e si irrigidiscono negli schemi astratti. Di qui l'inadeguatezza, l'artificiosita e l'illusorieta della scienza. Quando si sia compreso che questi sono errori, si potra piu facilmente evitare 1'inganno delle parole. Chi sa di non avere idee se non particolari, non si tormentera invano per trovare e concepire !'idea astratta connessa a ogni nome. E chi sa che non sempre i nomi stanno in luogo di idee, si risparmiera la fatica di cercare idee laddove non ve ne sono. (...) Invano innalziamo lo sguardo ai deli e sondiamo le viscere della terra, invano consultiamo gli scritti dei dotti e riesumiamo le oscure tracce dell'antichita; sufficiente sollevare il velame delle parole, per contemplare il mirabile albero della conoscenza, il cui frutto e eccellente e alia portata della nostra mano.
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Il nominalismo radicale di Berkeley investe coerentemente la distinzione tra qualita primarie (estensione, forma, moto, quiete ... ) inerenti agli oggetti esterni, e qualita secondarie (colori, suoni, sapori. .. ), semplici idee suscitate in noi dall'azione degli oggetti sui nostri sensi. Poiche non e possibile formarsi «l'idea di un corpo esteso e in moto senza attribuirgli anche un qualche colore o altra qualita sensibile», le qualita primarie astratte dalle altre qualita sensibili «sono inconcepibili ». Ambedue sussistono «nella mente e non altrove». Una volta negata l'oggettivita delle qualita primarie, e facile sbarazzarsi del problema posto da Locke nel ricercare una sostanza come substrata delle qualita primarie, come e agevole negare il concetto di materia stessa, cosi essenziale all'indagine scicntifica del tempo. Porre la materia come res extensa, indipendente dal pensiero, significa astrarre ed entificare l'estensione, dopo averla gia astratta indebitamente dalle altre qualita sensibili. L'unica conclusione corretta a cui l'empirismo puo approdare e l'immaterialismo: il dualismo tra materia e coscienza, che da Cartesio in poi ha tormentato la riflessione filosofica, e soppresso del tutto nell'unica direzione della coscienza. Dissolvendo il concetto di materia non si viene comunque a conttaddire; precisa Berkeley, il buon senso popolare che crede nel mondo concreto della natura e sa distinguerlo dalle <
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cui discuteva questioni di ottica geometrica, Berkeley aveva cercato di dimostrare che la distanza «non viene immediatamente percepita in se stessa dalla vista», come aveva ipotizzato Locke, e nemmeno «e appresa o giudicata per mezzo di linee e di angoli o di qualunque cosa che abbia una connessione necessaria con essa», come avevano proposto Cartesio, Huygens e, soprattutto, l'Ottica (1704) di Newton. AI celebre quesito posto dall'olandese W. Molyneux (1656-98)- un cieco nato, al quale una felice operazione abbia donato lavista, e in grado di giudicare le forme corporee con la sola vista, senza l'ausilio delle sensazioni tattili? - Berkeley aveva risposto negativamente. La percezione delle distanze e delle forme corporee non e connessa a una distanza reale fuori di noi, rna e «suggerita al nostro pensiero da certe idee e sensazioni visive che accompagnano la visione» ed e il risultato di «una connessione insegnataci dall'esperienza» tra rappresentazioni tattili e visive. Se, come nel caso del cieco nato, manca questa esperienza all'abitudine associativa tra sensazioni distinte (sinestesia), la distanza e le forme corporee non sono inizialmente percepite dalla sola vista. Naturalmente, questa soluzione del problema, che anticipava le conclusioni piu sicure ottenute per via sperimentale nel 1728 dal chirurgo Cheselden, aveva permesso di liquidare il concetto di spazio che Locke aveva fondato sulla correlazione dei rapporti di distanza fra gli oggetti, e che invece, secondo Berkeley, dipende esclusivamente dalle percezioni soggettive e dalla precarieta dell'abitudine associativa e sintetica. In alcune sezioni del Trattato sui principi Berkeley esamina altri capisaldi della scienza newtoniana. Il fatto che le idee del senso abbiano «stabilita, ordine e coerenza» e si presentino «in una serie ordinata» e certamente significativo, perche consente di fare previsioni e di regolare le nostre azioni. Ma quando questa «ammirevole connessione» delle idee, che «dimostra da sola la sapienza e la benevolenza del suo Autore», viene letta e tradotta dalla scienza in termini di «leggi di natura» universali, oggettive e necessarie, si compie il solito indebito passaggio astrattivo, come se fosse legittimo instaurare tra le nostre idee rapporti oggettivi di causa ed effetto e come se in questo modo si ponessero i segni al posto delle cose significate. Il tempo, lo spazio e il moto assoluti di Newton (6.14) sono idee astratte. Le cose piu semplici del mondo, quelle che conosciamo piu intimamente e perfettamente, appaiono straordinariamente difficili e incomprensibili quando vengono considerate in modo astratto. II tempo, il luogo e il movimento, considerati in particolare, ossia concretamente, sono cio che tutti conoscono, rna una volta che siano passati perle mani di un metafisico, diventano troppo astratti e sottili per venire appresi da un uomo ordinaria di huon senso.
Il tempo scandisce «la successione di idee nella mia mente»: astratto da queste, «il tempo non e nulla». Allo stesso modo, lo spazio e il moto possono essere soltanto relativi e circoscritti: uno spazio «in se stesso omogeneo e immobile» e un moto assoluto come «translazione di un corpo da luogo assoluto a luogo assoluto» sono mere finzioni intellettuali. Anche la gravitazione, «il grande principio meccanico ora in voga», non spiega <
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fetto stesso>>, senza riuscire a spiegare ne «il modo dell'azione con la quale e prodotto tale effetto» ne «Ia causa che lo produce». Nonostante il loro indubbio valore, le analisi epistemologiche del vescovo di Cloney sono ispirate da una intenzionalita apologetica, resa chiaramente esplicita nelle opere della maturita. Una volta abolite, infatti, le categorie mentali e le connessioni astratte di cui l'intelletto si serve per costruire i 'fantasmi' dell'edificio scientifico, il nostro conoscere si riduce al fluire concreto del percepire soggettivo e alle associazioni, in senon necessarie, dei dati sensoriali. Chi garantisce allora l'obiettivita e Ia validita del nostro percepire e delle nostre associazioni? (... ) tutto l'ordine dei cieli e tutte le cose che riernpiono Ia terra, (. ..) insornrna tutti quei corpi che formano Ia fabbrica dell'universo non hanno alcuna sussistenza senza una mente, e il !oro esse consiste nel venir percepiti o conosciuti. E di conseguenza, finche non vengono percepiti attualmente da me, ossia non esistono nella mia mente ne in quella di qualunque altro spirito creato, non esistono affatto, o altrimenti sussistono nella mente di qualche Eterno Spirito: poiche sarebbe assolutamente incomprensibile, e porterebbe a tutte le assurdita dell'astrazione, l'attribuire a qualunque parte dell'universo un'esistenza indipendente da ogni spirito.
Cia che noi percepiamo come regolare e costante e gia stato percepito da Dio, la cui <<Mente onnipresente ed eterna» e la <
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zioni. Sulla scia dell'empirismo inglese, Thomasius ritiene che le sole conoscenze fondate siano quelle tratte dall'esperienza e che la sensazione sia il «principia primo>> e il <> che «termina nella scoperta di possibilita». La filosofia invece <<non inizia dalla semplice possibilita, rna dalla sensazione e dalla realta, ed evita scrupolosamente di fondarsi su definizioni o altri fondamenti soltanto possibili, non potendosi dedurre da quelli della realUt>>. Come aveva gHt sostenuto in precedenza nella Filosofia sintetica (1707), Rudiger disapprova l'uso in filosofia del sillogismo tradizionale o <> che, se garantisce la correttezza formale di un ragionamento, non permette di individuare <>. Queste sono invece offerte da un procedimento sillogistico <<sintetico>>, che riesca a collegare in infinite combinazioni i soggetti e i loro molti predicati possibili. Gli sviluppi impliciti in questa distinzione tra giudizi analitici e sintetici saranno pienamente valorizzati da Kant (12.6). A Rudiger si contrappone consapevolmente Christian Wolff*, il maggiore fi-
Nato a Breslavia nel 1679, Christian Wolff e nominata nel 1706 professore di matematica all'Universita di Halle, dietro presentazione di Leibniz. L'Universita di Halle, dove insegnano anche Thomasius e i piu strenui rappresentanti del pietismo tedesco, e il centro piu vivo del rinnovamento filosofico e teologico della Germania. Quando nel1723, su pressione dei colleghi 'pietisti', che lo accusano di ateismo spinozista, il re Federico Guglielmo I lo solleva dall'incarico e lo bandisce dal territorio prussiano sotto la pena dell'impiccagione, Wolff ha gia pubblicato gran parte delle sue opere tedesche, raccolte poi col titolo di Pensieri razionali. Trasferitosi a Marburgo e poi a Berlino, si dedica all'esposizione sistematica della sua filosofia in una lunga serie di scritti Iatini: Philosophia rationalis sive logica (1728), Philosophia prima sive ontologica (1729), Cosmologia generalis (1731), Psychologia empirica (1732) (il prima trattato di psicologia degno di questa nome), Psychologia rationalis (1734), Theologia naturalis (1736-37) e Philosophia practica universalis (1738-39). Nel 1740 il nuovo sovrano Federico II, il 're filosofo ', richiama Wolff di nuovo a Halle, dove rimane fino alia morte (1754) pubblicando lo Jus naturae (1740-48), lo Jus gentium (1749), l'Oeconomica (1750) e la Philosophia moralis sive Ethica (1750-53). ll ritorno di Wolff viene salutato dai contemporanei come la vittoria della ragione illuministica sull'oscurantismo religioso: del resto, ancora nel 1739 i candidati di teologia che leggevano Wolff erano esclusi dalla funzione di predicatori!
226 D 8- La riflessione epistemologica losofo tedesco del '700, prima di Kant. Ancora adolescente (e lui che ce lo dice), dinanzi alle laceranti dispute teologiche tra cattolici e luterani, Wolff sente la necessita di cercare una pacificazione degli animi riconducendo tutte le discipline, filosofia e teologia comprese, al rigore del metoda matematico, il solo in grado di assicurare certezza e scientificita. Adottato il modello newtoniano, Wolff raccoglie tutti i campi della scibile entro un quadro sistematico ed elabora una vasta sintesi enciclopedica che, come dira Hegel, ha influito cos! profondamente sulla «generale educazione intellettuale dei Tedeschi» da fare del suo autore un secondo Melantone. II cosiddetto «metoda di fondazione » proposto da Wolff si pua riassumere nelle quattro regale fissate dalla Philosophia rationalis sive logica: Filosofia razionale ovvero logica (1728): 1) ,;non bisogna far usa di termini che non siano spiegati con una definizione accurata»; 2) «e necessaria usare soltanto prindpi sufficientemente dimestrati»; 3) «non si deve assumere nessuna proposizione che non sia correttamente dedotta da proposizioni sufficientemente dimostrate»; 4) <
Preoccupato di assicurare alla ragione un procedimento rigoroso che giustifichi autonomamente ogni sua tappa, Wolff delinea il sapere filosofico come conoscenza delle possibilita logiche del reale, per cui vera e falso, sganciati dalle case, equivalgono a cia che pua o non pua essere provato logicamente. La distanza di Wolff da Rudiger e Thomasius e dal 'sensa comune' cui si appella l'empirismo inglese, e fuori discussione. Cia nonostante, in particolare nelle opere tedesche (1720-25), Wolff manifesta chfiiramente l'esigenza di valorizzare l'esperienza e l'analisi empirica. Anche le osservazioni dell'esperienza possono dar luogo a costruzioni scientifiche. Di qui Ia distinzione fra scienze naturali (costruite in base al principia di non-contraddizione, attraverso l'analisi e la deduzione) e scienze empiriche (che induttivamente mettono in luce i rapporti tra reale e possibile). Questa e l'altra fortunatissima distinzione fra filosofia teoretica e filosofia pratica costituiscono i criteri di articolazione seguiti da Wolff nell'ordinare gerarchicamente tutto il sapere. Preliminare a tutte le discipline e la logica, che ha per oggetto tutte le regale dell'intelletto; la
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filosofia teoretica (o metafisica) si suddivide in ontologia, cosmologia, teologia naturale (contrapposta alia teologia positiva, fondata sulla rivelazione) e psicologia razionale (distinta dalla psicologia empirica, che individua e descrive i principi posti deduttivamente dalla razionale). A sua volta, la filosofia pratica si articola in morale, diritto naturale, economia e politica .. Liquidato da molti contemporanei (per es. Voltaire) come un divulgatore e semplificatore del pensiero di Leibniz, o come un pedante deduttivista scolastico - non a caso gradito ai gesuiti, che ne diffusero le opere in Italia, Polonia e Ungheria (rna fu citato ampiamente anche dai redattori dell'Encyclopedie) - Wolff rappresenta invece un capitola importante nella filosofia del '700 tedesco ed europeo. E questa non tanto per le sue posizioni, sostanzialmente moderate, in politica e religione, ne per il significato complessivo del suo sistema, che cerca di salvaguardare i valori e i prindpi della tradizione sulle basi di una ragione illuministicamente autonoma, quanto piuttosto per aver focalizzato questioni metodologiche fondamentali e per aver costruito il reticolo terminologico e concettuale entro cui si muoveranno, direttamente e indirettamente, i pensatori tedeschi successivi fino a Kant e allo stesso idealismo. 8.8. L'empirismo scettico di Hume. Nel 1739 escono anonimi a Londra i primi due libri del Trattato sulla natura umana (il terzo sara pubblicato a Londra nella primavera del 1740). Nee autore David Hume*, un giovane scozzese, che David Hume nasce nel 1711 da una famiglia di piccola nobilta terriera ad Edimburgo, capitale amministrativa e culturale della Scozia, mentre Glasgow ne e la capitale economica. Concluso il corso di studi nel college di Edimburgo, dominato da insegnanti newtoniani, Hume rinunzia presto alla carriera giuridica a cui il padre lo ha avviato e si dedica ad accanite letture personali, soprattutto ai prediletti classici. Convinto, gia a 18 anni, di avere intuito una «nuova scena del pensiero», lavora alacremente ai suoi progetti e, nonostante una grave crisi depressiva, raccoglie «materiali grezzi per molti volumi». Tra il 1734 e il 1736 soggiorna in Francia, prima a Reims e poi a La Fleche, dove ordina e rielabora gli appunti nei tre libri del Trattato sulla natura umana, pubblicati a Londra nel 1739-40. Deluso per la scarsa risonanza dell'opera, Hume si dedica a saggi di argomenti prevalentemente morali: nel 1741 pubblica 15 Saggi morali e politici, aumentati poi a 27 (1742) e a 30 (1748). Nonostante il successo di questa ·seconda fatica, l'opposizione degli ambienti ecclesiastici, che controllano il mondo universitario, riesce ad impedire che gli venga assegnata nel 1744 la cattedra di etica e filosofia pneumatica di Edimburgo, cosi come nel 1751 gli impedira di occupare la cattedra di logica a Glasgow, gia tenuta da Adam Smith. Hume e costretto dalle esigenze economiche a diventare 1'uomo di compagnia del marchese di Annandale, malato di mente, e poi a fare da segretario al generate di St. Clair, in una breve spedizione militare sulle coste francesi della Manica e in missioni diplomatiche a Vienna e a Torino (1746-48). Dopa aver rielaborato il materiale del Trattato in due opere distinte -
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i Saggi filosofici sull'intelletto umano (1748), ribattezzati nel 1758 come Ricerca sull'intelletto umano, e Ia Ricerca sui principi della morale (1751) - e dopa aver pubblicazo i fortunati Discorsi politici (1752), Hume diventa il bersaglio principale delle critiche e delle iniziative censorie sia dei settori moderati che di quelli antimoderati della cultura scozzese. ll suo scetticismo ed «ateismo», come pure le posizioni piit moderate, rna eretiche: del giurista Henry Home (1696-1782), suo fedele arnica, sono attaccati violentemente per la lora pericolosita. Curiosamente, le polemiche arrivano quando Hume abbandona gli interessi piit propriamente filosofici e, avendo ottenuto un posto di bibliotecario presso la facolta degli avvocati di , Edimburgo (1752), si concentra su una monumentale impresa storiografiYb la Storia d'Inghilterra dall'invasione di Giulio Cesare alia ascesa di Enrtco Vll (1754-61), che ottiene un notevole successo editoriale. Occasione per un riaccendersi degli attacchi e comunque la pubblicazione, nel 1757, delle Quattro dissertazioni (Sulle passioni. Sulla tragedia. Storia naturale della religione. La regola del gusto). Dal 1763 al 1766 Hume e a Parigi come segretario all'ambasciata inglese. Gia conosciuto per i suoi saggi storici e politici, nonche per i suoi rapporti epistolari con Montesquieu e Maupertuis, Hume e accolto con grandi onori nei salotti parigini e stringe rapporti di amicizia con i maggiori philosophes (Diderot, d'Alembert... ), di cui pure non condivide pienamente gli ideali scientifici e riformatori. Tomato in Inghilterra nel 1766, in compagnia di Rousseau, a cui offre rifugio ed ospitalita, resta molto amareggiato dal ginevrino che rompe anche con lui: la sua indole pacata e socievole di «gentleman» misurato non puo convivere con le inquietudini e i tormenti egocentrici di una personalita fin troppo consapevole della propria irripetibile singolarita. Sottosegretario nel govemo di Pitt (1767-68), Hume e ormai una celebrita e, senza piu assilli economici, si ritira ad Edimburgo per curare Ia revisione e l 'edizione definitiva dei suoi scritti (Saggi e trattati, 1775). Nel1779, a tre anni di distanza dalla sua morte (1776), suo nipote pubblica i Dialoghi sulla religione naturale, un'opera a cui Hume aveva Iavorata fin dal 1749 e che aveva voluto uscisse postuma.
per quasi 10 anni ha lavorato al progetto di una «scienza dell'uomo» raccogliendo in fitti quaderni una massa enorme di appunti. Egli e convinto che questo materiale - ordinato e sistemato durante un lungo soggiorno in Francia, in particolare a La Fleche (il collegia gesuitico dove si era formato Cartesial) - dovdt procurargli il successo che spetta ad ogni autentico «inventore>>. Nonostante il tentativo pubblicitario, messo in atto (sempre nel 1740) con la pubblicazione di un breve Estratto che favorisca la circolazione dell'opera presso il grande pubblico, il Trattato passa quasi del tutto inosservato. Le so· stanziali novita dell'opera, evidenti peril momenta solo al suo autore, che non e e non sara mai un docente universitario, saranno comprese e dibattute solo dopo il 1750 e cioe dopo la pubblicazione dei pili fortunati saggi morali e politici, nonche dei Saggi filosofici sull 'intelletto umano (1748) -pili noti col titolo successivo di Rice rca sull 'intelletto umano - e della Rice rca sui principi della morale (1751), che rielaborano la materia esposta nel Trattato.
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Hume si prefigge di scoprire, alia maniera di Newton, «i principi della natura umana» e su questi edificare «un sistema di tutte le scienze», dato che la scienza della natura umana costituisce il <> di tutte le altre scienze, comprese la matematica e la fisica. Questa <>, o, per usare la terminologia di Wolff, come «psicologia empirica», puo essere conquistata solo con <>. Sebbene occorra rendere i principi universali per quanto si puo, elevando i nostri esperimenti al massimo grado di generaliUt e spiegando gli effetti con poche e semplicissime cause, noi non possiamo mai andare al di la dell'esperienza, sl che, qualunque ipotesi pretendesse di scoprire le ultime e originarie qualita della natura uniana, la dobbiamo condannare senz'altro come presuntuosa e chimerica.
Senza darne una giustificazione teorica, Hume ribadisce la vitalita del metoda sperimentale inaugurato da Bacone: i princlpi certi vengono dall'esperienza di cio che e immediatamente osservabile (con una <> e <> devono procedere con rigore e scrupolo; lo studio delle <> e le <<essenze dei corpi>>, e dettato <>, mentre le idee sono le nostre percezioni «piu deboli e piu scialbe», una sorta di copia illanguidita delle percezioni da cui dipendono. Nella loro intensita pratica le impressioni si impongono al nostro sentire con una chiarezza ed evidenza tali da non ammettere alcuna discussione e strappano subito il nostro assenso o credenza (belief). Le idee, invece, che costituiscono il materiale del pensiero, rispecchiano astrattamente e pallidamente il contenuto rappresentativo delle · impressioni e danno adito a molte discussioni, come la storia della filosofia insegna. La realta colta dal pensiero e di grado inferiore e meno attendibile della realta concretamente sentita. A differenza degli altri empi'risti e coerentemente alle premesse metodologiche, Hume non si pone il problema dell'origine delle impressioni: <<e assolutamente inesplicabile dalla ragione umana>> se · queste provengano dagli oggetti stessi, o siano prodotte dal nostro spirito, oppure ci derivino dall'autore del nostro essere. Si limita a definirle come dati «originari » o <> e a porle come elementi imprescindibili del conoscere, rna anche come limiti precisi degli atti intellettivi:
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non possiamo mai pensare una cosa senza averla prima vista fuori di noi o sentita nella nostra stessa mente.
Passando ad esaminare i contenuti della mente, apparentemente non riducibili alle impressioni (percezioni complesse), Hume dimostra che anche le idee piu complesse si possono sempre ridurre a idee semplici e quindi a impressioni semplici. La complessita di un'impressione o di un'idea dipende dai processi associativi che, nella memoria e nell'immaginazione, legano tra di lora le idee. Un prima momenta associativo coinvolge in verita le impressioni, che si collegano spontaneamente fra di lora grazie a una specie di attrazione o gentle force. (forza gentile) che agisce <> e di «collegarsi con qualunque persona od oggetto esterni», questa «segreto legame» (la cui origine e sconosciuta e comunque non interessa a Hume) e «realmente per noi il cementa dell'universo e tutte le operazioni della mente ne debbono in grande misura dipendere». La facolta della memoria mantiene l'ordine con cui le idee si sono presentate la prima volta e salva in parte l'intensita dell'impressione originaria; l'immaginazione invece dispone liberamente le idee fra di lora cambiandone l'ordine di presentazione. I principi seguiti dalla memoria e, soprattutto, dall'immaginazione nell'associare le idee sono: la somiglianza, la contiguita nel tempo e nella spazio e la relazione di causa ed effetto. In una parola, dei nessi «arbitrari>>, che non hanna «alcuna dipendenza da case che esistano in qualche parte dell'universo>> e che si possono complessivamente definire «relazioni tra idee>>. Costruire generalizzazioni e classificazion~ su queste «relazioni>>, come fa la logica tradizionale, che arriva addirittura ad attribuire lora una consistenza ontologica, e operazione infondata e illegittima. Locke ha dimostrato l'arbitrarieta dell'idea di sostanza (una collezione di idee tenute insieme dall'immaginazione); Berkeley ha confutato la validita delle idee generali o astratte, evidenziando acutamente il processo psicologico e linguistico che presiede alla lora formulazione (sono solo idee particolari congiunte a una certa parola e quindi assunte, per abitudine, come segni di piu idee particolari). Nel riconoscere l'importanza della scoperta di Berkeley «una delle maggiori nella repubblica filosofica>> - Hume sottolinea il ruolo svolto dall'«abitudine>> (custom) nella formazione delle idee generali; la lora genesi deve ricondursi a una sorta di forza istintuale creata dall'abitudine, che si colloca sullo stesso piano della menzionata gentle force. Liquidate, sempre sulla scia di Berkeley, le nozioni newtoniane di spazio e di tempo assoluti, nonche la lora presunta divisibilita infinita, Hume contesta le pretese della geometria e della matematica. Queste due scienze, si legge nella Ricerca sull'intelletto umano, hanna per oggetto solo relazioni tra idee: il teorema di Pitagora, per esempio, prescinde dal fatto che esista o no un triangolo rettangolo in natura e «con una pur a operazione del pensiero » stabilisce una relazione tra l'idea di un quadrato costruito sull'ipotenusa e l'idea della somma dei quadrati costru~ti sui cateti. Solo perche le proposizioni matematiche sono astratte e procedono sulla base di intuizioni e dimostrazioni, obbedendo al criteria della non-contraddittorieta (date certe idee, non e possibile il
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contrario del rapporto che fra ~sse viene istituito), esse possono garantire una «conoscenza certa», che non ha bisogno di un continuo confronto fra i dati empirici. La conoscenza, invece, che abbiamo delle «cose di fatto» (dei rapporti cioe che si stabiliscono tra le impressioni) non puo mai essere «certa» rna solo «probabile>>: «il contrario di un certo nesso di impressioni e sempre possibile; il contrario di un fatto non puo implicare contraddizioni e la mente lo puo concepire con la stessa facilita, come se fosse reale>>. Nelle «questioni di fatto e di esistenza>> e indispensabile rifarsi all'evidenza dell'esperienza, che pero mi offre solo casi particolari e contingenti: che domani il sole sorga e probabile, non deriva necessariamente dall'impressione che ho del sole; non e, cioe, impensabile che domani mattina il sole deluda la mia aspettativa e non sorga. Connessa alia distinzione tra conoscenza certa e conoscenza probabile e la celebre critica della relazione di causalita, che l'Estratto considera giustamente il nucleo centrale di tutta l'indagine gnoseologica humeana. Per quale ragione diciamo necessaria che tutto cio che ha un cominciamento debba avere anche una causa? Perche affermiamo che certe cause particolari deb bono necessariamente avere certi particolari effetti? Qual e la natura di quest'inferenza, per cui passiamo dalle une agli altri, e della credenza che riponiamo in essa?
Quando, osservando una palla di biliardo (A) in movimento verso una palla ferma (B), «inferiamo» da questo (anticipiamo «senza tante cerimonie>>) che il moto di A sara causa del passaggio di B dallo stato di quiete al moto (effetto), stabiliamo un rapporto di connessione necessaria tra A e B, non in virtu di principi conoscitivi razionali, rna in forza dell'abitudine. Con la sola ragione, «senza esperienza>>, non saremmo mai in grado «di inferire il movimento della seconda palla dal movimento della prima>>; «tale inferenza, se fosse possibile, sarebbe equivalente a una dimostrazione; rna nessuna inferenza dalla causa all'effetto equivale a una dimostrazione>>. In realta, l'applicazione del principia di causalita avviene soltanto su fondamenti empirici. Noi ci ricordiamo di avere gia avuto «l'esperienza dell'effetto che tien dietro all'urto delle due palle>> (ogni volta che una palla urtava l'altra, la seconda si metteva in moto). Abbiamo piu volte osservato e ricordiamo in particolare la triplice relazione di priorita nel tempo (il moto di A precede l'effetto), di contiguita nello spazio e nel tempo (le due palle si toccano e contemporaneamente B si muove), e di congiungimento costante fra causa ed effetto (l'evento si verifica anche cambiando le palle ed altre circostanze) che, si e detto, costituiscono i principi associativi fra le idee, a livello di immaginazione e memoria. L'operazione mentale che, dinanzi all'impressione di una <> (il moto di A), anticipa, in base all'esperienza finora avuta,' il probabile «effetto>> (il moto di B), poggia sulla «supposizione che il corso della natura continuera uniformemente lo stesso». Tale supposizione, non provata ne dimostrabile in alcun modo, si basa sull'abitudine e puo essere verificata solo quando (e ogni volta che) l 'evento si realizza. La conclusione (<>) giustifica empiricamente le relazioni di causalita che collegano fra di loro i fatti nelle scienze fisiche, rna .ne demistifica radicalmente il carat-
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tere di certezza assoluta. Hume ha cosi dimostrato l'assunto iniziale che poneva come arbitraria ed inutile la ricerca delle cause ultime dei fenomeni, ed ha sottratto il modello scientifico newtoniano ad ogni implicazione metafisica. Le conseguenze sono tratte con ferma coerenza. La credenza nella sostanza materiale (la res extensa di Cartesio), gH1 negata dall'immaterialismo di Berkeley, e del tutto infondata sul piano razionale e ha origine nella memoria, nell'abitudine e nell'immaginazione, che ci fanno <<Supporre una continuata esistenza degli oggetti allo scopo di collegare le loro percezioni passate con le presenti». Analogamente ingiustificata e la credenza nelle sostanze spirituali, in un io (o mondo interiore) permanente, che invece Berkeley aveva mantenuto come fondamento del mondo delle idee. Io oso ·affermare che noi non siamo altro che fasci o collezioni eli differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidita, in un perpetuo flusso e movimento (... ) La nostra mente e una specie di teatro, dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano con un'infinita varieta di atteggiamenti e di situazioni (... ) E non si fraintenda il paragone del teatro: a costituire la mente non c'e altro che le percezioni successive: noi non abbiamo la pili lontana nozione del posto dove queste scene vengono rappresentate o del materiale di cui e composta.
Quanto alla liberta del volere umano, da sempre considerata come tratto peculiare della vita spirituale, e un dato che deriva dall'avvertimento di assenza di costrizione nell'agire e non ha altra giustificazione. Anzi, a ben guardare, le azioni degli uomini possono essere previste come i fenomeni della natura, sulla base dell'uniformita insegnataci dall'esperienza nel fissare regole e previsioni sugli eventi. Come non esiste una necessita di tipo metafisico che regoli il mondo della natura, cosi la vita degli uomini non e retta da una liberta metafisica. L'analisi epistemologica di Hume approda dunque a un esito del tutto scettico: le possibilita conoscitive dell'intelletto non garantiscono alcuna certezza sul piano delle «questioni di fatto» e rappresentano una fonte inesauribile di dubbi e di aporie (quando l'intelletto «agisce da solo e secondo i suoi piu generali principi, distrugge del tutto se stesso e non lascia il minimo grado di evidenza a nessuna proposizione, ne in filosofia ne nella vita pratica»). Per fortuna «ci salviamo» grazie ai nostri «istinti» naturali (memoria, immaginazione e abitudine), che si ribellano allo scetticismo e ci impongono il belief (la fede) del senso comune. Hume non intende affatto liquidare il sapere scientifico alla maniera di Berkeley, vuole ricondurlo alla sua origine empirica e al suo valore statistico-probabile, confutando il carattere «dogmatico» implicito non solo nel razionalismo della metafisica tradizionale, rna anche nel razionalismo scientifico newtoniano, basato sulla applicazione del metodo matematico alla conoscenza della natura. Valorizzare l'affidabilita del senso comune significa assumere un atteggiamento pragmatico, o di moderato scetticismo, che diffida «sempre dei suoi dubbi, cosi come delle sue convinzioni», rna sa e vuole utilizzare le conquiste scientifiche per migliorare le condizioni dell'uomo.
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8.9. L'empirismo radicale di Condillac. Leggendo le prime opere di Condillac* - il Saggio sull'origine delle conoscenze umane (1746), il Trattato dei sistemi (1749) e il Trattato delle sensazioni (1754) - e difficile non pensare a Hume. I punti di riferimento sono ancora Locke e Newton. AI primo, l'abate francese riconosce il merito di aver ricondotto la metafisica nei suoi limiti, facendone uno studio descrittivo dello spirito umano ed una verifica rigorosa dei poteri del pensiero. AI modello scientifico del secondo, Condillac ispira il suo progetto di «ridurre ad un unico principia tutto cio che concerne l'intelligenza» (cosi recita il sottotitolo del Saggio sull 'origine delle conoscenze umane), senza pero, come Hume, avere la pretesa di «penetrare tutti i misteri» e trovare le cause ultime. Sarebbe utile chiedere quale e 'la natura delle nostre sensazioni: noi non abbiamo alcun mezzo per effettuare questa ricerca; noi le conosciamo solo perche le proviamo. E un principio di cui non possiamo scoprire la causa, rna di cui possiamo scoprire gli effetti.
Rispetto ai philosophes, il pensiero di Etienne Bonnot de Condillac (Grenoble 1714- Beaugency 1780) sembra vivere di questioni nate e risolte a tavolino, apparentemente estraneo alle grandi polemiche del tempo. Proveniente da una famiglia di piccola nobilta provinciale, Etienne e fratello minore di Gabriel (11.11), il futuro e famoso abate di Mably (1709-85). Tutt'altro che precoce (a 12 anni non sapeva ancora leggere), Etienne si forma nel collegia gesuitico di Liane, poi nel seminario di San Sulpice a Parigi e alia Sorbona. Presi gli ordini sacri nel 1740 (ma non esercitera mai il sacerdozio), viene introdotto dal fratello nei salotti mondani e intellettuali della capitale, dove stringe rapporti di amicizia con Diderot, Rousseau e Voltaire. Dopa il Saggio sull'origine della conoscenza umana (1746) e il Trattato sui sistemi (1749), che lo rendono famoso anche fuori di Francia, pubblica il Trattato sulle sensazioni (1754), che gli suscita contra molte polemiche nonche l'accusa di materialismo, alla quale replica con il Trattato sugli animali (1755). Dal 1758 al 1767 Condillac e a Parma, come consigliere e precettore del giovane Don Ferdinanda di Barbone, erede del ducato di Parma e Piacenza: attende alla stesura del grandioso Corso di Studi (per l'opposizione dell'arcivescovo di Parma, sara pubblicato in Francia solo nel 1775) e allaccia rapporti con numerosi intellettuali (Beccaria, Frugoni, Rezzonico) avviando cosi quella feconda influenza sulla cultura italiana che, attraverso Francesco Soave, si protrarra fino ai primi decenni del sec. XIX. Tornato in Francia, Condillac e chiamato a far parte dell'Academie fran <,raise, interviene nelle polemiche sull 'economia fisiocratica con Il commercia e il governo considerati l'uno in relazione all'altro (1776), cura la revisione dei suoi scritti in vista di una edizione definitiva e lavora a due nuove opere: La logica o i primi sviluppi dell'arte di pensare (1780) e La lingua dei calcoli, rimasta imcompiuta.
234 0 8- La riflessione epistemologica L'obiettivo e quello di superare le insufficienze ancora presenti in Locke, in particolare il residua dogmatico della preesistenza della realta esterna e il presupposto che due siano le fonti della conoscenza, la sensazione e la riflessione. Si tratta, cioe, di spiegare « la generazione delle attivita dell'anima facendole derivare e nascere da una semplice percezione»: le operazioni dell'anima (percepire, pensare, dubitare, credere ...) non sono innate rna si acquistano con l'esercizio e derivano dal «principia unico», dal dato primario, non suscettibile di dubbio, che e la sensazione. II Saggio ricostruisce tutta la vita psichica dell'uomo secondo un preciso ordine «genealogico». La percezione e «l'impressione alla quale da occasione nell'anima l'azione dei sensi»; la coscienza e la percezione in quanto «avverte l'anima della sua presenza»; l'attenzione si ha quando una percezione si impone come l'unica che occupa l'anima in un certo· momenta e dipende dalla forza che la percezione contrae in connessione «ai nostri bisogni»; la reminiscenza, «fondamento dell'esperienza», lega le percezioni attuali con quelle passate. Nella misura in cui l'immaginazione (basata sulla forza dellegame che l'attenzione pone tra percezione e oggetto) e la memoria (che sorge insieme ai segni convenzionali del linguaggio) consentono di risvegliare le percezioni, danno luogo alla contemplazione (che «consiste nel conservare, senza interruzione, la percezione, il nome o le circostanze di un oggetto che e appena sparito») e alla riflessione (la possibilita di «applicare la nostra attenzione alternativamente ai diversi oggetti o aile differenti parti di un oggetto»). Dalla riflessione nasce il giudizio (paragonando tra loro le idee); una catena di giudizi e un ragionamento; l'intelligenza e «solo la collezione 0 la combinazione delle operazioni dell'anima» e, infine, la ragione e «solo la conoscenza del modo in cui dobbiamo regolare le operazioni della nostra anima». La riflessione non e, come in Locke, sullo stesso piano della sensazione, rna segna il punto di svolta all'interno dello spirito. Gli atti conoscitivi e specificatamente umani sono possibili grazie alia riflessione e questa dipende dal sistema dei segni (linguaggio) che, entrato in funzione con la memoria, permette il cammino dell'intelligenza. La riflessione non e, per Condillac, una facolta particolare che assicuri un potere conoscitivo nuovo rispetto alla sensazione, rna e la sensazione stessa che nel suo trasformarsi progressivo si integra nella costruzione artificiale del linguaggio. Tutta la seconda parte del Saggio e dedicata allo studio dellinguaggio, che, a differenza di Locke, Condillac inserisce in una teoria generale dei segni, riaJlacciandosi, cosi, attraverso la logica di Port-Royal di Arnauld e Nicole, alla tradizione cartesiana per altri versi ripudiata. Tracciando la «Storia naturale del linguaggio», Condillac individua nel passaggio dai segni naturali (gridi e gesti in occasione di un bisogno) ai segni istituzionali-convenzionali (suoni articolati che diventano i nomi delle cose indicate dai gesti) la nascita della riflessione dall'istinto, ed evidenzia la forza crescente del pensiero umano che si e esercitata in ambiti sempre piu ampi quanta piu evoluto e complesso e stato il sistema di segni linguistici a disposizione. L'analisi del linguaggio e la sua storia permettono, cosi, di salvaguardare l'autonomia e la dignita della riflessione umana, senza cadere nel presupposto dogmatico di Locke che vedeva nelle facolta intellettive delle qualita innate. ·
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Il rigoroso 'sensismo' fondato dal Saggio e ulteriormente precisato nel Trattato sulle sensazioni, dove il processo genetico fin qui delineato e esposto analiticamente ricorrendo al famoso esempio della statua di marmo, che Condillac immagina come lo stato zero della sensibilita e della conoscenza, animata cioe «da uno spirito privo di qualsiasi sorta di idee» e dotata inizialmente di uno solo dei sensi, il piu povero, l'odorato. La novita piu rilevante, rispetto al Saggio, riguarda l'approfondimento della questione, lasciata aperta da Locke, dell'esistenza del mondo esterno. Riprendendo il vecchio quesito di W. Molyneux, r1cordato a proposito di Berkeley (8.6.), Condillac riconosce ora (al contrario di quanto aveva affermato nel Saggio) che la vista non puo da sola cogliere le forme geometriche che sa riconoscere con il tatto. Sostenere che l'uomo non e in grado di utilizzare pienamente i sensi fin da principia e che questi «organi» dati dalla natura hanno bisogno di <
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ll mito della natura
todo con cui opera la scienza ormai adulta e, per l'altro, di formulare una riorganizzazione complessiva dello scibile umano, che tenga conto dell~ numerose e straordinarie novita intervenute sull'orizzonte, culturale e non, dell'Europa.
II mito della natura 8.10. Tra meccanicismo e vitalismo. Nel '700 tutti parlano di natura: i cuitori delle scienze esatte e sperimentali, che intendono aprire il «gran libro della natura» e svelarne il contenuto, individuando le leggi che presiedono il fenomeno dei processi naturali, rna anche i filosofi, i letterati e i teologi che si appellano alia natura, allo «stato di natura», per esaminare i difetti e i mali del presente ed indicare i correttivi o rimedi opportuni. La statua di Condillac, il mito del <
A prima vista, la riflessione sulla natura, condotta per tutto il '700 a margine dei progressi scientifici, non ha sostanzialmente modificato la concezione elaborata nel '600, che anzi si diffonde sempre piu ed entra nel patrimonio culturale delle persone colte. La struttura fondamentale della natura resta quella del meccanicismo seicentesco (il mondo fisico, composto di corpuscoli in movimento, e dominato da leggi interne che la fisica puo spiegare) rna, costretto a fare i conti con le obiezioni dei vitalisti e con i dubbi sollevati dalle stesse indagini sperimentali, il meccanicismo entra progressivamente in crisi. Ricordiamo succintamente il meccanicismo di Cartesio e di Newton. Per Cartesio la natura era un «sistema di materia e mota governato da leggi»: l'universo una grande macchina e le piante, gli animali, il corpo dell'uomo
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erano anch'essi macchine, che svolgevano automaticamente alcune funzioni e rispondevano in maniera necessaria e predeterminata agli stimoli esterni. L'analisi dei fenomeni vitali doveva pertanto essere condotta, alla stregua di quelli del mondo inorganico, in termini di processi fisici e chimici (5.6). A differenza di quello cartesiano, il mondo newtoniano si apriva certamente a soluzioni di tipo finalistico (la complessa macchina dell'universo implicava l'esistenza di una causa intelligente che ne garantisse il funzionamento) rna era pur sempre una sintesi che individuava con rigore matematico le leggi di una macchina (6.14). Il meccanicismo newtoniano si poteva prestare anche a interpretazioni materialistiche e ateistiche. Era, come si e visto, l'idea di Berkeley ed era un'idea molto diffusa, come indirettamente provano, tra la fine del '600 e i primi decenni del '700, i tentativi compiuti da naturalisti e cosmologi, specie anglicani e deisti, di conciliare la nuova filosofia meccanica con il creazionismo della Scrittura e della tradizione. Nel delineare una storia della Terra armonizzata con la concezione biblica di una natura che Dio ha finalizzato alle esigenze dell'uomo, W. Derham (1657-1735), W. Whiston (1667-1751), T. Wright (1711-86) ed altri fanno vere acrobazie per salvare la cronologia della Genesi e sono co-. stretti ad attribuire un'enorme importanza al diluvio universale, se vogliono spiegare l'origine dei fossili e i mutamenti attestati dagli strati geologici. Accanto a questa linea di compromesso con la tradizione, il meccanicismo del '700 conosce uno sviluppo in senso naturalistico soprattutto in ambiente francese, dove resiste latente la lezione di Cartesio. Nel 1748 esce, postumo, il Telliarned di Benoit de Maillet (1656-1738). In aperto contrasto con Ia Genesi e sulla base della fisica cartesiana, questa erede del libertinismo sostiene che Ia materia e eterna, capace di organizzarsi e trasformarsi con le sole sue forze: dagli oceani, che in origine ricoprivano tutta la Terra, sono derivate le prime specie viventi, queste poi, in relazione agli eventi geologici succedutisi in un grande arco di tempo, si sono evolute sino all'uomo. · Sempre nel 1748, L'uorno rnacchina di Julien Offroy de La Mettrie (17091751) estende il principia meccanicistico, come aveva tentato anche Cartesio, dallivello fisiologico a quello psicologico, e arriva a negare l'esistenza dell'anima umana. Nel 1749, il primo volume della Storia naturale di Buffon (8.5) presenta un'ipotesi cosmologica che, ormai estranea a qualsiasi preoccupazione teologica, cerca di conciliare fisica newtoniana e materialismo cartesiano. Tre cause diverse spiegano, seQ.Ondo Buffon, la formazione del nostro sistema planetaria: I 'urto causa to da una cometa che, cadendo sui sole, provoco una fuoriuscita di materia incandescente, la forza di gravitazione universale, e il tempo, un lungo periodo di tempo che permetta di spiegare i fenomeni intervenuti sulla base non di eventi catastrofici (come il diluvio) rna delle opere quotidiane della natura. Rilevanti le novita introdotte dalla Storia naturale: Ia «laicizzazione>> della natura, implicita nel meccanicismo seicentesco, si esprime ora compiutamente e a chiare note; l'immutabilita e l'incorruttibilita dei corpi celesti, affermata da Aristotele e mai smentita, e ora confutata e negata; a un'immagine sostanzialmente statica della natura subentra una visione dinamica e diacronica.
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Non a caso, nel 1751 la Sorbona censura come pericolosa ]'opera, costringendo il moderato Buffon ad essere piu cauto nei volumi successivi, tacendo su alcune tesi e rivedendo la formulazione di altre. II significate sovversivo del nuovo orientamento 'trasformista' e colto invece con acutezza da Denis Diderot (9.9) che, a partire dalla Lettera sui ciechi, edita proprio nel 1749, abbandona le iniziali posizioni vicine al meccanicismo dei deisti e propugna un materialismo fondato sull'unita e l'infinita attiva della natura. La necessita di superare il meccanicismo statico e sollecitata, del resto, anche dalle scienze della vita, che da tempo non condividono la rigidita delle posizioni cartesiane e piu facilmente si prestano aile spiegazioni fantasiose dei vitalisti. Come puo il mondo non vi vente generare la materia vi vente? E possibile che ogni parte vivente dell'universo sia meccanica? Le malattie dipendono esclusivamente dall'azione esterna dell'aria e da quella interna degli umori, come sosteneva Boerhaave, oppure sono da considerare, alia maniera di Stahl (8.5), come effetti di una disfunzione dell'anima? Se molti medici non riescono a liberarsi del tutto dalle suggestioni animistiche e vitalistiche, quasi tutti i biologi praticanti continuano ad ammettere il concetto di generazione spontanea e comunque sottolineano la irriducibile peculiarita dei fenomeni vitali. La vita- scrive Diderot nell'art. «Nascere» deli'Encyclopedie- non puo essere il risultato dell'organizzazione. Immaginate le tre molecole A, B, C: se sono senza vita nella combinazione A, B, C, perche dovrebbero cominciare a vivere nella combinazione B, C, A o C, A, B? Davvero non esiste spiegazione possibile. La vita non e la stessa cosa che il movimento, cio che ha vita ha movimento, rna cio che si muove non per questa e vivo. Se l'aria, l'acqua, la terra e il fuoco si combinano, passano dall'inerzia di prima ad una mobilita incontenibile; rna non produrranno la vita. La vita e una qualita essenziale e originaria nell'essere vivente; esso non l'acquista e non la perde.
Si tratta di trovare, ed e questo l'intento della Lettera sui ciechi, una soluzione aile questioni sollevate dai biologi, senza perc cadere nell'irrazionalita dei vitalisti a oltranza, rna la cosa, dal punto di vista scientifico, e tutt'altro che agevole. Ci prova Buffon con la teoria delle «molecole organiche», unita biologiche minime che formano la struttura degli esseri viventi e sono capaci di riprodursi generandone di nuovi. Ci prova Maupertuis (8.5; 11.4), convinto che «non si potra mai spiegare la formazione di un corpo organizzato mediante le sole proprieta fisiche della materia». La sua dissertazione Sul sistema universale della natura (1751) attribuisce alle unita biologiche elementari un certo grado di 'coscienza' ('memoria', 'avversione'), necessaria per spiegare i complessi fenomeni dell'embriogenesi, della fecondazione e dell'eredita, indagati gia da Maupertuis nella Venere fisica ( 17 45) e in altri saggi. Al di la del Ioro valore scientifico intrinseco, queste ipotesi hanno il merito di convergere con le intuizioni cosmogoniche e contribuiscono a disgregare il meccanicismo tradizionale. All'idea di universo-macchina subentra l'idea del mondo come organismo vivente, la cui attivita infinita si dispiega nel corso del tempo e trasforma in un moto incessante tutto, materia inorganica ed esseri viventi. Non si dimentichi che, se nasce meccanicista, il Settecento finisce romantico!
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8.11. Anche Ia natura ha una sua storia. Sia neUe scienze naturali sia in biologia i concetti egemoni fino agli ultimi decenni del secolo restano per lo pili legati al meccanicismo. Anzi, alcune certezze antiche, quali l'eterna scala naturale (la creazione ha assegnato ad ogni specie un suo posto inalterabile) e l'immutabilita delle specie viventi (la Provvidenza assicura che nessuna specie scompaia) trovano un sostegno, oltreche nel finalismo vecchio e nuovo, nell'universo newtoniano della versione deista (che e sempre lo stesso) e, almena nella prima meta del secolo, si consolidano. La grande sistematica, proposta in botanica e zoologia. dal naturalista svedese Carlo Linneo (1707-78) con l'introduzione della nomenclatura binomia ancora oggi adottata, si fonda su questi presupposti. Il Systema naturae (alla prima edizione del 1735 seguono altre 12 edizioni, di cui e fondamentale la decima, del 1758-9) e la Philosophia botanica (17 51) elaborano un edificio coerente e razionale all 'interno del tradizionale contesto della «grande catena dell'essere», in cui tutte le case viventi, dalle pili basse alle pili alte, sono connesse in uno sviluppo a gradini che non contiene alcun elemento temporale. Anche la teoria «preformista», che a lungo domina l'embriologia, appartiene allo stesso universo concettuale. Sostenere infatti - e questa il preformismo - che l'organismo e gia presente, completo e perfetto, seppure di dimensioni submicroscopiche, nell'uovo della femmina o nell'animaletto spermatico significa spiegare lo sviluppo come ampliamento di strutture gia esistenti nell'embrione ed escludere la produzione ex novo di organi e strutture, come invece ritengono i sostenitori dell'epigenesi. E quindi inevitabile che la nuova immagine della natura, abbozzata dalle teorie cosmogoniche e dalle ipotesi biologiche di Buffon e Maupertuis, debba affermarsi in contrapposizione ai dogmi antichi e moderni del meccanicismo fissista. Nel prima volume della Storia Naturale Buffon sostiene: «in natura non esistono altro che individui; i generi, gli ordini e le classi esistono solo nella nostra immaginazione». Criticando, subito dopa, i meccanicisti che «immeschiniscono la filosofia» e colora che vogliono «dare un ordinamento» e «fare un sistema generale» nella «storia naturale», esce nell'affermazione: «lanatura procede per gradi sconosciuti (... ) passa da una specie all'altra, spesso da un genere all'altro, attraverso sfumature impercettibili». La polemica e rivolta contra il metoda «infondato e astratto» di Linnea, contra il meccanicismo biologico che e «solo un progetto» e, indirettamente, contra il principia di continuita garantito dalla «grande catena dell'essere» e dalla fissita delle specie. E vera che le oscillazioni successive di Buffon riguardo al concetto di specie (altrove ·si dichiara apertamente fissista) non permettono di individuare con certezza la sua vera opinione in proposito, cos! come e indubbio che la maggior parte dei suoi scritti, compreso il capolavoro Le epoche della natura (1778), non sconfinano dall'alveo tradizionale della <
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nel celebre capitola sulla «Degenerazione degli animali» del vol. XIV (1766) della Storia naturale, sono autentiche novita ed anticipano gli argomenti poi dibattuti da Lamarck, Cuvier e Darwin. In sostanza, Buffon suggerisce, contrail fissismo, l'ipotesi che la grande catena dell'essere si debba temporalizzare (gli animali inferiori sono apparsi sulla Terra prima di quelli superiori) e che da pochi prototipi originari siano derivate, per «degenerazione» o «perfezionamento>>, le varie specie animali e vegetali. Nel formulare, tra incertezze e contraddizioni, la sua proposta, Buffon si serve delle indicazioni emerse nella cosmologia e nella geologia evoluzionistica, quella che culminera nella Teoria della Terra (1795) di James Hutton (1726-1797), caposcuola della corrente plutonista. Di particolare importanza si rivela il contributo dei paleontologi, che hanno ritrovato e identificato fossili di animali di grandi dimensioni, inesistenti oggi tra le varie specie viventi rna in qualche grado ad esse affini, che in passato avevano abitato in aree geografiche diverse da quelle attualmente popolate dalle specie affini. La storicita dell'universo e degli strati geologici conferrna la storicita delle specie viventi, la storicita dell'albero della vita. Negli ultimi decenni del '700, la concezione della natura subisce dunque una svolta significativa. Il secolo si e aperto con i tentativi di conciliazione tra Sacra Scrittura e filosofia meccanica, tra Rivelazione e natura; progressiva· mente sono scomparse dall'orizzonte le considerazioni teologiche e teleologi· che e si e fatta strada un'immagine della natura-organismo che abbandona lt: rigidita del fissismo ed acquisisce come carattere fondamentale il mutamento incessante. Il meccanicismo, ridimensionato gia sui piano epistemologico (si pensi alla critica humeana del principia di causalita), si e incrinato dinanzi ai progressi delle scienze sperimentali, che si costituiscono come scienze autonome e moderne proprio mentre scoprono nella storicita degli eventi la soluzione di problemi finora irrisolti. Un esempio della svolta in atto e costituito, all'interno del fronte materialista, dal Sistema della natura (1770) del barone d'Holbach. Molto interessato aile vicende scientifiche, soprattutto della mineralogia e della chimica metallurgica, di cui ha tradotto molti testi, Paul-Henri Thiry d'Holbach (1723-89) sviluppa nel suo capolavoro le intuizioni di Diderot ed elabora un monismo energetico che supera decisamente la «concezione pietrificata della natura» propria del meccanicismo tradizionale e fonda un nuovo concetto di materia, in cui la materia cessa «di essere bruta per divenire sensibile animalizzandosi ». Il movimento, inteso alla maniera di Leibniz (7.10.), come conatus e cioe come energia produttiva, coessenziale alia materia eterna, o meglio alle «differenti materie ,, che neppure in una sola parte so no in quiete as sol uta, e i concetti newtoniani di attrazione e repulsione (6.12.) sono tradotti nelle nozioni (che ricordano Empedocle) di <<simpatia» (o <>; dalla materia torpida alia materia pensante, Ia <
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e dei differenti movimenti che vediamo nell'universo. (... )La materia e eterna e necessaria, rna le sue forme sono passeggere e contingenti: e l'uomo che cos'e se non materia combinata, Ia cui forma varia a ogni istante? (... ) l'uomo e una produzione fatta nel tempo, peculiare del globo che abitiamo.
Il trasformismo di d'Holbach modifica il meccanicismo materialista «drammatizzando», se non__altro, la vita dell'universo e della materia secondo un metoda che si richiama a Lucrezio ed avra una eco profonda nel nostro Foscolo rna anche nei 'romantici' Leopardi e Shelley. 8.12. II sentimento della natura. Per . quanto animalizzata, la natura di d'Holbach e pur sempre dominata dalla misura razionale dei 'lumi'; per l'uomo, che segue I a ragione e I 'esperienza, «il.grande tutto» non presenta misteri, rna suggerimenti preziosi per la sua felicita. La natura, invece, che. proprio a partin: dal 1770. e esaltata dallo Srurm und Drang tedesco, si presenta con i cunnotati di una forza sublime e potente rna oscura, che sfugge alle definizioni dell'intelletto ed e percepibile solo dall'istinto del 'genio'. La poetica che accomuna i giovani Sturmer (Goethe, Herder, Lenz, Klinger ... ) e sintetizzata nella loro famosa parola d'ordine: Natur! Genie!: Natura! Genial, dove i due termini, indissolubilmente uniti, evidenziano il rapporto di corrispondenza, misterioso rna necessaria, che sussiste tra le leggi insondabili ed enigmatiche della natura e la fantasia e il sentimento del 'genio', inteso come eccezionale manifestazione individuale del mistero naturale. Svincolato da ogni convenzione e regola esterna ed interna, il genio obbedisce unicamente all'impeto dell'energia vitale incoercibile attraverso cui la natura gli si manifesta. Un frammento, scritto nel 1780 da Goethe, che pure si diletto di mineralogia, di botanica, di anatomia e di ottica, esprime con mirabile efficacia questa concezione della natura, destinata a grande fortuna nel romanticismo europeo. Natura! Circondati e avvinti a lei, non ci e dato di uscire dal suo amplesso, ne di penetrare piu in fondo a lei. Non pregata e senza avvertirci, ella ci accoglie nel vortice della sua danza, e si slancia via con noi, finche, stanchi, cadiamo nelle sue braccia. (... ) Viviamo in lei e le siamo stranieri. Incessantemente parla con noi, rna non si tradisce ne' suoi misteri. Di continuo operiamo su di lei, eppure su di lei non abbiamo potere alcuno. (... ) Tutto nelle sue creature vive, rna Ia madre dov'e? Ella e l'unica artefice: dalle creazioni piu semplici passa aile piu complesse, aile piu perfette senza alcuna apparenza di sforzo, con Ia massima precisione e sempre con delicatezza. Ogni sua opera ha Ia sua propria fisionomia, ogni suo manifestarsi ha un suo proprio significato, eppure e parte di un sol tutto. (... ) Ella in questo mondo mi ha condotto, e da questo mondo ella mi fara uscire. Mi affido a lei. Ella puo contare su dime. Non odiera !'opera sua. Manon ho parlato di lei. No; quanto e vero e quanto e falso, tutto e stato detto da lei. Tutto e colpa mia, tutto e suo merito.
Il proposito di ridurre i fenomeni a leggi matematiche e meccanicistiche e scomparso e la natura torna ad essere il regno della fantasia e dei sentimenti ineffabili.
242 C 8- ll mito della natura Nel binornio 'Natural Genio' confluiscono sia le discussioni del tempo sull'estetica e sul sublime, sia 1-'irrazionalisrno rnagico di Johann Hamann (9.14), terni che trattererno piu avanti. L'intuizione che pervade per intero la pagina di Goethe, quella della 'natura Madre', ci rirnanda all'opera e alla vita di Jean Jacques Rousseau (9.13), una delle figure piu rappresentative del secolo. Prima ancora della rottura clarnorosa con i philosophes (1757), fin dal Discorso sulla scienza e le arti (1749), che e il suo prirno intervento politicoideologico, anzi fin dagli inediti e dalle lettere anteriori, Rousseau si e sernpre contrapposto alia cultura del suo s~colo sapendo di proporre un rnessaggio provocatorio, diverso, che i conternporanei, afflitti dall'«orgoglio>> e dalla <
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Pur avendo appreso da Rousseau il culto della natura, i giovani ribelli della Sturm und Drang l'hanno forzato in sensa mistico-irrazionalistico e ne hanno perduto la tensione-rinnovatrice e la valenza utopica. Ma con loro, la stagione dei 'lumi', anche di quelli espressi nell'esperienza eccezionale di Rousseau, si e spenta.
Dalla natura alia cultura 8.13. La scoperta del 'milieu'. Uno dei fattori che piu hanna contribuito a modificare, nel corso del '700, la concezione della natura e la scoperta, da parte delle nascenti scienze umane, dell'intima solidarieta che sussiste tra specie viventi e mondo inorganico o, se preferiamo, tra uomo e ambiente. Nel 1748, un anno prima della comparsa dei primi volumi della Storia naturale di Buffon, esce anonimo a Ginevra !'Esprit de lois (Spirito delle Leggi). L'autore, il barone Charles Louis de Montesquieu*, ha lavorato a questa trattato di analisi politica per oltre venti anni, col proposito di scoprire newtonianamente le 'leggi' dell'organizzazione sociale umana e quindi di ricercare il migliore governo possibile in qualsiasi situazione storica e sociale e, in particolare, nella Francia contemporanea. Ho inizialmente esaminato gli uomini e ho creduto che in questa infinita varieta di leggi e di costumi essi non siano guidati solo dal loro capriccio. Ho posto dei princl.pi e ho visto i casi particolari piegarvisi da soli, la storia di tutte le nazioni non esserne che la conseguenza, e ogni singola Iegge legata ad un'altra legge, o dipendere da un'altra piu generale.
Nato nel 1689 nel castella di la Brede, vicino a Bordeaux, Charles-Louis de Secondat barone di Montesquieu riceve la prima formazione nel collegia degli Oratoriani a Juilly. Per perfezionarsi negli studi di diritto si reca a Parigi nel 1709 e vi rimane fino al 1713. Ereditati da uno zio paterna i beni e il titolo di barone di Montesquieu, Charles-Louis esordisce con una Dissertazione sulla politica religiosa dei Romani(1716), -la cui eco non supera i confini dell'Accademia di Lettere, Scienze ed Arti di Bordeaux. ll vera ingresso nel mondo culturale avviene nel 1722, dopa il grande successo delle Lettere persiane (1721), che gli aprono i salotti parigini piu famosi. Tra le opere scritte nel periodo 1722-28 figurano un romanzo, Il tempio di Cnido (1725), un Trattato sui doveri (andato perduto), in cui prende posizione sulla problematica giusnaturalistica, e le Considerazioni sulle ricchezze della Spagna, dove il proprietario terriero Montesquieu ha modo di polemizzare indirettamente con la politica economica, protezionista e mer-
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cantilista, del cardinale Fleury, di cui invece apprezza la linea di politica estera improntata al pacifismo. Nella primavera del 1728 Montesquieu intraprende un fungo viaggio attraverso ['Europa (1728-31): e a Vienna, nelle principali citta italiane, in Germania, in Olanda e, infine, in lnghilterra, dove si fa iniziare alla Massoneria ed e eletto membra della Royal Society di Londra. Nominata consigliere e presidente del Parlamento francese, Montesquieu pubblica, nel 1734, le importanti Considerazioni sulle cause della grandezza e della decadenza dei Romani, che non incontrano pero successo di pubblico e, nel 1748, il suo capolavoro, lo Spirito del~e leggi, che suscita vari consensi e contrasti (e messo all'lndice nel 1751). Dei suoi rapporti, saltuari e contraddittori, con i philosophes possono essere assunti a simbolo i contatti con l'Encyclopedie: rifiutata la proposta di d'Alembert di compilare le voci politiche, Montesquieu dedica le sue ultime fatiche proprio alla Encyclopedie, per la quale scrive la voce «Gusto». Considerato a huon diritto uno dei numi tutelari dell'illuminismo, Montesquieu condivide le stesse matrici filosofiche dei philosophes, dei quali non approva tuttavia il radicalismo politico. Muore a Parigi nel 1755.
Ogni nazione e caratterizzata da un suo esprit, da uno «spirito generale» o «carattere comune» o «anima universale>>, che risulta essere <>. Le <> principali che <> gli uomini sono: <> (clima, terreno, demografia), cause <<morali>> (religione, usi, costumi), economiche (commercio, coltivazione, tasse) e politiche (leggi e massime di governo), rna certamente le prime svolgono un ruolo preminente. La celebre distinzione, ad esempio, tra <<popoli dei paesi caldi>> o del Sud, e <<popoli dei paesi freddi» o del Nord, ricorda, nella sua rigidita, i tentativi, molto frequenti nel '700, di spiegare le vicende storiche con la geografia, accordando, sulla scia di Bodin (2.16), un valore assoluto alla teoria dei climi. Dalle tentazioni del determinismo geografico (affine al meccanicismo fissista) Montesquieu rlesce tuttavia a sottrarsi in piu occasioni, intravedendo il ruolo attivo e manipolatore che il lavoro umano esercita nei confronti dell'ambiente naturale. Di qu,i l'affennazione non equivoca che nel <>. A.nche se non arriva a sostenere e a dimostrare, come fara Buffon nelle Epoche della natura, che l'uomo ha modificato e puo modificare <>, Montesquieu e consapevole che la terrae i suoi frutti sono un prodotto delle «arti>> umane e non piu un semplice dono della <>. Agli occhi dei philosophes piu radicali (Helvetius, Diderot, Condorcet), che ne avversano soprattutto il moderato riformismo politico, l'Esprit des lois non si distacca gran che dal determinismo geografico del tempo. Per quanto un po' ingiuste, le !oro
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critiche hanno il merito di formulare in modo piu deciso la nozione di milieu (ambiente), che poi Lamark usera per. primo nell'accezione moderna. Nel Della Spirito (1758) di Claude Adrien Helvetius (1715-1771), il primato, storicamente dimostrato, delle cause «morali» sulle «fisiche» si traduce nel netto rifiuto della teoria dei climi ed e posto come premessa necessaria perche l'arma dei 'lumi' possa dissolvere, attraverso l'educazione delle menti, le «ineguaglianze» non «naturali» e non immutabili presenti tra gli uominL Ora, se la vittoria e passata alternativamente dal Sud al Nord e dal Nord al Sud, se tutti i popoli sono stati volta a volta conquistatori e conquistati (.--) e evidente che le conquiste realizzate dai settentrionali sono del tutto indipendenti dalla particolare tempertura dei loro climi, e che si cercherebbe invano sul piano fisico la causa d'un fatto di cui si trova una spiegazione semplice e naturale sul piano morale. (...) La grande ineguaglianza di spirito che e dato reperire tra gli uomini dipende dunque unicamente dalla differenza di educazione ricevuta e dalla diversa e ignota concatenazione delle circostanze in cui vengono a trovarsi.
8.14 La funzione ideologica dell'idea di selvaggio, uomo di natura. Nel criticare il determinismo climatico Helvetius osserva che una simile teoria serve solo a «lusingare l'orgoglio delle nazioni europee». Come Aristotele aveva invocato !'influenza del clima per spiegare la superiorita dei Greci sui barbari, cos! l'illuminata Europa del '700 cerca di giustificare col clima ed altre cause naturali la sua vantata superiorita nei confronti del resto del mondo e in particolare delle razze di colore. L'acuta osservazione di Helvetius circa il valore ideologico e razzista della teoria dei climi, cos! funzionale al colonialismo europeo, introduce un altro aspetto dell'ampio dibattito settecentesco sui rapporti tra natura e 'arte', tra natura e 'cultura'. Ci riferiamQ alle molte questioni sollevate dalla figura inquietante del selvaggio (rappresentato per lo piu dall'indigeno americana) che dal '500 in poi hanno interessato l'uomo europeo e che proprio nel '700 subiscono una svolta importante. L'immagine del selvaggio, diffusasi nei tre secoli successivi a Colombo, e stata condizionata dai diversi modi in cui gli europei hanno via via modellato lo sfruttamento del Nuovo Mondo, dai differenti interessi delle nazioni coloniali e dall'uso strumentale che i borghesi (in ascesa grazie appunto all'impresa coloniale) hanno fatto di quest'immagine nella loro lotta ideologica contro i ceti antagonisti. Nelle numerose 'curiosita' raccolte e narrate dai viaggiatori e dai missionari e subito riutilizzate dai razionalisti e dai libertini o, sul versante opposto, dai gesuiti e quasi impossibile rintracciare uno studio· disinteressato della vita del selvaggio in quanto tale. Anche quando, sulla scia del precoce relativismo di Montaigne, si arriva, nel '700, a riconoscere l'autonomia e la dignita propria dei modi di vita dei diversi popoli della terra, tale riconoscimento non segna un vero mutamento di rotta, rna e piuttosto la traduzione ideologica dello sviluppo dei rapporti mercantili su scala internazionale che il colonialismo olandese, inglese e francese ha instaurato col Nuovo Mondo. Ammettere la pari dignita di costumi ed usanze diverse, senza mettere in discussione i presupposti del colonialismo stesso, in primo luogo la superiorita complessiva dell'uomo civile sul selvaggio, equivale all'affermazione giuridica dell'ugua-
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glianza formale delle parti, che e alia base di gualsiasi contratto commerciale. E !'Europa del '700, che non pratica piu il colonialismo di rapina e di conquista perseguito nel '500 dalla Spagna, sa di poter realizzare il massimo profitto proprio attraverso la piu idonea utilizzazione dei rapporti commerciali. Del resto, anche quando i philosophes si battono per l'affrancamento dei negri, per proteggere gli indiani e, piu in generale, per l'incivilimento dei selvaggi, non si discostano dall'atteggiamento dei responsabili della politica coloniale: cercano di porre un rimedio agli abusi, rna non esprimono, tranne forse Helvetius (e s~a l'espressione: «Non c'e barile di zucfhero che non arrivi in Europa intriso d1 sangue umano»), una condanna radicale del colonialismo e della sua ideologia. Non e quindi casuale il successo delle concezioni deterministiche, ne meraviglia che autorevoli esponenti dei 'lumi' come Montesquieu e Buffon giustifichino l'inferiorita dei selvaggi con quelle teorie dei climi che per altri versi contribuiscono a superare. Se Montesquieu afferma sinteticamente che <>, Buffone ancora piu esplicito. In questo nuovo mondo c'e dunque, nella combinazione degli elementi e delle altre cause fisiche, qualche cosa che impedisce Ia crescita della natura vivente: ci sono ostacoli allo sviluppo e forse alia formazione dei grandi germi. (... ) sotto questo cielo avaro e in questa terra vuota, dove l'uomo, scar so di numero, era sparso, errante, dove, lungi dall'usare di questo territorio da padrone, come di un suo dominio, egli non aveva alcun potere, dove, non avendo mai sottomesso ne gli animaH ne gli elementi, non avendo ne domato i mari, ne incanalato i fiumi, ne Iavorata Ia terra, non era di per se stesso che un animale di livello inferiore, e non esisteva per la natura che come un essere senza conseguenze: una specie di automa impotente, incapace di correggerla o di assecondarla.
I selvaggi sono 'uomini di natura'. Anche se il parametro 'natura' si e imposto come specifico nella definizione dei selvaggi («vivono secondo natura>>) fin dal Rinascimento, l'espressione 'uomini di natura' e tipicamente settecentesca ed indica bene l'assenza di 'arte' (noi diremmo di 'cultura' in senso antropologico) in questa umanita «nuda>>, sottomessa al dominio della «natura». Anzi, proprio confrontandosi con i selvaggi cosi intesi, l'uomo europeo, che invece ha saputo usare il suo territorio «da padrone, come di un suo dominio>> (ha «sottomesso», «domato», «incanalato», «lavorato»), si considera orgogliosamente «civile» e coni a il nuovo, fortunato termine civilisation. I numerosi dialoghi o romanzi filosofici, prodotti nel Settecento, che mettono in bocca all'Urone o all'lrochese difese appassionate dello stato di naturae denunce aspre dei corrotti costumi europei, non devono trarre in inganno. Il Selvaggio, idealizzato come filosofo nudo, e soprattutto un invoJucro Jetterario utile per dare voce alle idee della borghesia illuminista e non sottintende quasi mai una valutazione autonoma e positiva delle condizioni del selvaggio. L'oggetto del dibattito e sempre lo statuto dell'europeo civilizzato e il serrso della sua storia. Secondo il Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni (1756) di Voltaire (9.5), l'unico modo per spiegare la pluralita dei costumi e ammettere la teoria
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biologica della pluralita delle razze (poligenismo) e riconoscere che queste sono ordinate secondo una scala gerarchica, che dall'ottentotto, attraverso l'americano, culmina nell'europeo. Se i negri sono schiavi degli altri uomini e se gli americani «facilmente vinti dappertutto non hanno mai osato tentare una rivoluzione, per quanto fossero piu di mille contro uno», e perche «lanatura» ha dotato «ciascuna specie di uomini, come le piante, di un principia che la differenzia dalle altre», e proprio da questo «principia» dipendono «quei caratteri delle nazioni che ve_diamo cambiare cosi raramente». Un seguace di Voltaire e collaboratore dell'Encyclopedie, L'erudito olandese Corneille de Pauw (1739-99), estremizza, nelle Ricerche filosofiche sugli americani (1768), le tesi «scientifiche» sull'inferiorita naturale degli indigeni americani, coniugando il poligenismo -razziale con le considerazioni geoclimatiche di Buffon: per la sterilita della terra e per la loro limitatezza intellettuale, gli americani sono in condizioni irreversibili di abbrutimento e di stupidita. In questo panorama, dominato dall'etnocentrismo (presente anche in un progressista come Diderot), la prima voce discordante e quella di Rousseau. Nel Discorso sull 'origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini (1755) Rousseau contesta anzitutto l'immagine che, sulla base delle relazioni dei viaggiatori e dei missionari, Ia cultura europea si e fatta del 'selvaggio': Sono convinto che non conosciamo altri uomini al di fuori degli europei e, a giudicare dai ridicoli pregiudizi non ancora superati nemmeno dalla gente di cultura, sembra che sotto la pomposa etichetta di studio dell'uomo ognuno si limiti praticamente a studiare gli uomini del proprio paese.
Segue l'esplicita dissociazione dei selvaggi dagli uomini di natura (o primitivi). Quella distinzione, che e inserita all'interno della concezione rousseauiana dello stato di natura, e fondamentale per riconos.cere anche al selvaggio la peculiarita dell"arte', della 'cultura' e, quindi, per fondare, una volta superato l'etnocentrismo, l'etnologia l'antropologia moderne. Anche se non espressa con lo stesso vigore teorico, la dissociazione dei selvaggi dal controllo assoluto della 'natura' si ritrova in due importanti opere precedenti: nei Costumi dei selvaggi americani comparati ai costumi dei primi tempi (1724) di Joseph Fran~ois Lafitau (1681-1746) e nella Scienza nuova (1725) di Vico (10.2). Nel suo capolavoro, il gesuita Lafitau, considerate il padre dell'etnografia storica, si propane di dimostrare che non e mai esistito ne puo esistere un popolo ateo e che ogni societa umana genera dei e culti. A questo scopo collega e confronta fra di loro fatti prelevati da tutta l'area del mondo selvaggio, iudividua una serie di 'universi culturali' (i riti di iniziazione e di passaggio, le pratiche funerarie, i rapporti di parentela, ecc.) e li analizza, non piu come semplici curiosita, rna come materiale documentario. Costruisce insomma un quadro complessivo dei selvaggi in cui rivendica e dimostra la loro piena qualita di uomini e di fatto scombina l'identificazione del selvaggio con 'l'uomo di natura'. Dal canto suo, Vico distingue chiaramente i «bestioni» un tempo erranti per la gran selva della terra (e questi li chiama «selvaggi») dai piu barbari abitatori delle terre «vicini a' poli e ne' de"Serti dell'Mrica e dell'America»; i primi non sono affatto comparabili ai secondi, perche questi <
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lingue, quantunque barbare, e sapran qualche cosa di conti e di ragione». 11 nodo teorico, che permette a Vico e poi a Rousseau (11.6), di disgregare l'immagine tradizionale del Selvaggio come punto estremo della degenerazione, e rappresentato, come si vedra, dalla dissociazione fra societa e stato. Come Hobbes, anche Vico e Rousseau non credono chela societa sia un fatto 'naturale', rna nello stesso tempo ambedue rifiutano l'identificazione hobbesiana fra societa e stato. I selvaggi non sono _«uomini di natura» perche vivono in societa e non isolati; il loro, come il nostro, vivere in societa e frutto di 'arte' e di civilisation. II rovesciamento definitivo,· che consiste nell'abbandonare definitivamente i1 concetto di uomo di natura, e compiuto da Adam Ferguson (1723-1816), quando, proprio nel contestare la tesi rousseauiana dell'isolamento primitivo, afferma: «noi parliamo di arte come distinta dalla natura, rna l'arte stessa e naturale all'uomo». Se ci vien chiesto ove sia da trovare lo stato di natura, si risponda: qui - e non fa differenza che si pensi di star parlando nell 'isola di Gran Bretagna, al Capo di Buona Speranza o allo Stretto di Magellano. Ovunque quest'essere attivo ch'e l'uomo e impegnato ad esercitare i suoi talenti e ad agire sugli oggetti attorno a lui, tutte le situazioni sono parimenti naturali (... ). Ma se si oppone invece la natura all'arte, allora in quale situazione della razza umana non si trovano tracce dell'arte? Nella condizione del selvaggio, altrettanto che in quella del civilizzato, vi sono molte prove dell'invenzione umana (... ). Se e innaturale il palazzo, non lo e meno Ia capanna. II Saggio sulla storia della societa civile (1767), da cui e tratto il brano, e uno dei capolavori della rinnovata storiografia settecentesca che, anticipata da Vico e Montesquieu, culmina nei lavori della scuola scozzese (D. Hume, W. Ro· bertson, A. Ferguson, J. Mollar, A. Smith). L'intervento nelle discussioni sui selvaggio da parte di storici sempre piu orientati verso lo studio dell'organizzazione sociale e della produzione della ricchezza e del commercia (10.13) muta decisamente i termini del dibattito generale tra 'natura' e 'cultura', a tutto vantaggio della seconda. Come sostiene un altro scozzese, il linguista James Burnett Mondobbo {1714-1799), l'«arte» e «piu possente della natura» ed «e fondamentale, singolare caratteristica della nostra specie quella di poterci per cosi dire rifare da noi stessi al punto che la natura originaria in noi puo a malapena vedersi>>. Non e certo una semplice ~oincidenza che, negli stessi anni in cui le scienze sperimentali vanno elaborando la nuova immagine della natura e della materia, sia finalmente infranta anche Ia plurisecolare tradizione etnocentrica e si pervenga alla formulazione del concetto etnologico moderno di 'civilta'. Nelle Idee per una filosofia della storia dell'umanita (1784-91), Herder (10.10) scrive: Se vogliamo chiamare questa seconda genesi dell'uomo, che dura per tutta la vita, Kultur, prendendo l'immagine della coltivazione dei campi, o Aufkliirung, valendoci dell'immagine della luce, non ha importanza; rna la catena della Kultur e dell'Aufkliirung s'estende fino alia fine della terra. Anche l'abitante della California e della Terra del Fuoco ha imparato a fare ar-
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chi e frecce e ad usarli; ha linguaggio e concetti, esercizi ed arti, che ha imparato, come li abbiamo imparati noi; pertanto e anch'egli effettivamente colto e illuminato, ancorche nel grado minimo. La distinzione fra popoli illuminati e non illuminati, fra popoli coltivati e non coltivati, non e dunque una distinzione di specie, rna soltanto di grado.
8.15. Dalla scienza dell'uomo ~he scienze umano-sociali. Puo sembrare un paradosso, eppure il secolo che ha sancito il trionfo del modello newtoniano e approdato alia specializzazione e alla parcellizzazione del sapere; il secolo che ha coltivato a lungo il sogno di una 'scienza dell'uomo' (si ricordino i progetti di Hume e Condillac) ha dato vita aile diverse scienze umano-sociali sviluppatesi nel corso del XIX e del XX secolo. L'ambizione di individuare principi ra· zionali universalmente applicabili aile forme della realta umana, diverse nello spazio e nel tempo, si e di fatto risolta nella presa di coscienza che, per la loro ricchezza e complessita, i dati della realta empirica richiedono di essere investigati nella loro specificita con un'osservazione ed un'analisi sempre piu accurate. II mito di un sapere unitario ha determinate la nascita di nuove scienze o il rinnovamento profondo di altre: oltre che per la sociologia, l'etnologia e la storiografia, ricordate nei paragrafi precedenti, il discorso vale per l'antropologia e la pedagogia, per la geografia e l'economia politica, per la psicologia e la psichiatria, per la linguistica e la storia delle religioni. Una spiegazione di questo paradosso si puo trovare nell'epistemologia di Hume. Partito dal progetto di costruire un universo razionale, ricercando le leggi che regolano i fenomeni naturali e umani, l'intelletto settecentesco propone sintesi che, inevitabilmente affrettate e arbitrarie, si vengono a scontrare con la varieta sempre maggiore dei fatti e con le smentite dell'esperienza. Se la natura, grazie ai progressi delle scienze naturali, si sottrae sempre piu alla formalizzazione matematica, a maggior ragione il pensiero umano e la storia degli individui e delle societa si dimostrano refrattari all'insufficienza delle grandi sintesi. L'intelletto abbandona allora le sue pretese iniziali, scopre }'ambito empirico-fenomenico entro cui puo utilmente muoversi, raccoglie una quantita sempre maggiore di materiali ed assegna a specifiche discipline il compito di esaminarli e, se possibile, di spiegarli. Questo processo, che dalla scienza dell'uomo conduce aile scienze umane, coinvolge e modifica anche ognuna delle scienze sopra elencate. Per illustrarlo, ci soffermiamo brevemente, a mo' di esempio, sulle vicende della linguistica. La cultura del '700 da una grande importanza allo studio e alla teoria delle lingue e non puo che essere cosi, dal momenta che la filosofia, non piu impegnata sul versante della metafisica, rivolge la sua attenzione quasi esclusivamente alla teoria della conoscenza e alla riflessione sulla scienza (il III libro del Saggio di Locke trattava infatti <
250 D 8- Dalla natura alia cultura delle grandi civilta asiatiche e delle societa indigene africane e americane, possa assicurare la stessa funzione esercitata dallatino nell'eta medioevale) almena una grammatica generale che risalga «ai principi fondamentali del linguaggio attraverso l'analisi dei fatti grammaticali», che si costituisca in una sorta di « logica naturale» e possa quindi razionaliz_zare il linguaggio concreto, riducendo al minimo le parti casuali e irrazionali. Con questi intenti Nicolas Beauzee (1717-1789), autore di numerose voci grammaticali per l'Encyclopedie, scrive la sua Grammatica generate (1767): Qualunque varieta apparente ci sia tra le lingue, se si esamina il loro fine, di essere Ia controprova di tutto cio che avviene nell'intelletto umano, ci si accorgera ben presto che e una stessa macchina, sottoposta a regale generali, tranne qualche differenza, di pura convenzione (... ). II trattato di tali regale generali si chiama gramrnatica generale ragionata; colui che la possiede ha la chiave delle altre ed e pronto a studiare con intelligenza e ad apprendere con rapidita qualsiasi lingua particolare.
Queste considerazioni, che si trovano anche in d'Alembert, in Diderot, in Condillac e nei suoi eredi, gli ideologues di fine secolo, sono il frutto dello stesso procedimento che ha condotto Linneo alia codificazione della lingua nella scala naturale e condurra Lavoisier alla codificazione della lingua della chimica. Esse hanno l'ambizione di delineare una sorta di ortodossia linguistica, vincolante e razionale, contra le manipolazioni operate dalla retorica e dalla letteratura, dalla poesia e dall'uso quotidiano. Sono invece proprio le varieta e l'ambiguita dei comportamenti linguistici concreti che smentiscono il sogno della grammatica generale; e lo scarto tra uso e ragione a confinare questa prodotto dell'intelletto in un ambito artificialmente delimitate. Osserva, ad esempio, Maupertuis (11.4) nel 1755: s·e non si trattasse che di esprimere un piccolo numero di idee, tutte le nazioni potrebbero facilmente accordarsi ed intendersi in un'espressione comune. Lo provano a sufficienza !'algebra, l'aritmetica, la musica, lingue universali nella nostra Europa. Ma la loro universalita none dovuta che al piccolo numero e alia semplicita delle idee che esprimono, e non sembra possibile trattare in tali lingue altri argomenti che l'estensione, i numeri o i suoni.
ll mondo della parola e dominato, aggiunge Turgot (10.9), dall'«impossibilita in cui si trovano gli uomini a fissare esattamente il senso dei segni ai quali hanno imparato a leg are delle idee solo attraverso I' abitudine formatasi nell'infanzia (...). Le metafore, moltiplicate dal bisogno e da una specie di lusso dell'immaginazione, che si e cosi creata, in questo genere, dei falsi bisogni, hanno complicate sempre pili le svolte di questo immenso labirinto, in cui l'uomo introdotto, se cosi posso dire, prima che i suoi occhi fossero aperti, ignora la strada ad ogni passo» (art. «Etymologie» dell'Encyclopedie). Saranno Herder e i romantici, sulla scia dell"eretico' Rousseau, a rovesciare la prospettiva, indicando nella lingua l'incarnazione della filosofia o, meglio, una verita pili autentica delle sistemazioni filosofiche.
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Nonostante il suo fallimento, il mito della grammatica generale ha operato la separazione definitiva tra la linguistica (come scienza che ha per oggetto i fatti di lingua studiati in se stessi) e la filologia, che proprio nel '700 abbandona il terreno classico greco e latino, finora privilegiati e, chinandosi vichianamente sui tesori delle antich,ita perdute proprie di ogni popolo della terra (su, Omero, come su Mose e Ossian), si costituisce come scienza rigorosa. Non solo, rna il generale dibattito del secolo sulle questioni del linguaggio, precario, rna ricco di intuizioni preziose, ha determinate la nascita di nuove scienze del linguaggio, quali la linguistica storica e la grammatica comparata, che, gia auspicate dalle aperture cosmopolitiche di Leibniz, conquisteranno nell'Ottocento l 'interesse dei linguisti. Proprio gli sviluppi di queste due discipline indurranno gli studiosi dopo il 1850 a intraprendere solo ricerche positive e a bandire le questioni, tanto care al '700, relative all'origine del linguaggio e alla creazione di una lingua universale. L'avvento delle scienze umane non costituisce una mera crescita quantitativa del sapere, rna, come aveva intuito Vico nel suo capolavoro intitolato, non a caso, Scienza nuova, implica un rinnovamento complessivo della scienza e segna un mutamento importante nel pensiero occidentale. Il presupposto nuovo e che oggetto e soggetto di tutto il sapere e l'uomo, considerat,o nello stesso tempo come essere di natura e come essere di cultura. E dunque all'interno del dibattito del secolo dei 'lumi' che si sono aperte le nuove prospettive del sapere che, dopo aver attraversato fecondamente l'Ottocento, avranno il loro sbocco piu significative nel secolo XX. Lo spiega, in un passo che vogliamo citare per intero, lo storico e filosofo francese contemporaneo Georges Gusdorf: «La messa in evidenza della pluralita dei mondi culturali, della diversita degli spazi e dei tempi, la valutazione delle distanze che separano gli uni dagli altri gli individui e le societa, nel presente come nel passato, impongono un allargamento della presenza a se e della presenza al mondo (... ). Le scienze umane costringono l'individuo ad uscire dalla sua ingenuita ontologica, per collocarsi nella prospettiva dell'umanita. Ogni esistenza, relativizzata, non puo piu pretendere di possedere in se il suo inizio e la sua fine; essa si scopre come un elemento in una leggenda dei secoli, collocato in questo o quel luogo dello spazio geografico. (... ) dopo l'avvento delle scienze dell'uomo non si potra piu filosofare come prima. Lo stock delle informazioni che esse propongono, in via di costante arricchimento, forma ormai il presupposto di una riflessione, che non puo piu contentarsi di riferirsi ai disegni di Dio o alle norme matematiche. (... ) Di questo nuovo riferimento testimoniano le sintesi filosofiche del XIX secolo, ispiratrici della coscienza moderna. Saint-Simon e Augusto Comte, Hegel, Marx, Darwin e Freud hanno cambiato il volto dello spazio mentale, perche essi hanno tratto gli elementi dei loro problemi e delle loro risposte dalla biologia, dalla sociologia, dalla psicologia, dalla storia, dimensioni nuove proposte alla conoscenza di se; dopo di loro, ancora, l'etnologia, la linguistica, l'antropologia hanno aperto altre vie all'interrogazione dell'uomo>>.
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Sommario. II dibattito intorno alia religione naturale, che attraversa l'intero Settecento, e iniziato in Inghilterra sul finire del Seicento, quando i primi filosofi deisti rielaborano alcune intuizioni dei platonici di Cambridge. Tra il 1690 e il 1730 esso coinvolge ampiamente l'opinione pubblica inglese. Mentre i radicali Toland, Collins e Tindal attaccano piu o meno apertamente il carattere soprannaturale della religione e la mediazione, ritenuta inutile, della teologia e del culto liturgico, i deisti moderati (Clarke, Derham e Wollaston) tentano di salvare la rivelazione cristiana dimostrandone la 'razionalita', e adottano l'immagine newtoniana della natura 'santuario di Dio' (9.1). Uno dei connotati propri della religione naturale e la tolleranza che Bayle contrappone al fanatismo e alla superstizione delle sette religiose e che Shaftesbury individua nell'armonia interiore fondata sull''ironia' (9.2). Rappresentanti della ortodossia anglicana, i due vescovi Butler e Berkeley replicano ai deisti e agli 'ateisti' in nome del primato della fede e della rivelazione, fondamento anche del senso morale e dell'organizzazione teocratica della societa (9.3). La critica piu incisiva della 'religione naturale' e quella di Hume, che ricerca l'origine del sentimento religioso negli interessi vitali (paure e speranze) dell'uomo e ne propone una 'storia naturale' che dal politeismo delle origini approda nel corso della storia al monoteismo (9.4). Esauritosi in Inghilterra, dopo il 1730, il dibattito suscitato dal deismo si sposta sul continente europeo, grazie in particolare a Voltaire, che fin dalle Lettere filosofiche (1734) indica nella religione costituita l'ostacolo principale alia diffusione dei 'lumi' (9.5). Una viva esigenza riformatrice anima anche gli illuministi italiani che attaccano le espressioni cultuali, estrinseche e superstiziose, della fede cattolica. Pur salvaguardando le verita di fede, Muratori e, soprattutto, Genovesi contestano le deformazioni storiche operate dalla teologia e dalle istituzioni ecclesiastiche, prendendo nello stesso tempo le distanze dai deisti piu radicali e dai liberi pensatori (9.6). Al tramonto della teologia corrisponde lo sviluppo delle scienze religiose: le discussioni intorno alia natura e al significato dei miti gettano le basi per la storia delle religioni; investendo la Scrittura, la critica razionalistica da origine all'esegesi biblica. Se si eccettua !'opera di Simon, il maggior contributo all'esegesi biblica viene dalle universita protestanti, in particolare dalla scuola 'neologica' e dalla critica storica di Reimarus che per la prima volta investe la figura di Gesu (9.7). , In Francia la polemica si fa piu radicale e sconfina in aperte professioni di ateismo. Mentre il Testamento del curato Meslier e ispirato allo sdegno morale di chi ha visto «l'empieta regnare sulla terra>> (9.8), negli scritti, posteriori al 1749, di Diderot, di La Mettrie, Helvetius e d'Holbach, l'ateismo si salda su una concezione materialistica della realta (9.9). L'ateismo, invece, del benedettino Dom Deschamps tende a denunciare le collusioni tra la filosofia <
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Nonostante le riflessioni critiche dei 'lumi', !'Europa del '700 resta fondamentalmente 'cristiana', e anzi percorsa da fermenti innovatori (pietismo, metodismo, giansenismo ... ) che, in opposizione al Dio dei filosofi, si appellano ad una piu limpida coscienza devozionale e propongono un rapporto diretto con Dio (9.12). Una testimonianza significativa di questa 'religione del cuore' e la Professione di fede del vicario savoiardo di Rousseau (9.13). Rispetto a! sentimento rousseauiano, che quasi mai cede alIa tentazione dell'irrazionalismo, l'anti-illuminismo di Hamann segna l'affermazione del linguaggio oscuro e «piu che razionale» della fede religiosa (9.14). Una composizione del conflitto ragione-rivelazione, accentuato dai 'lumi', e tentato da Lessing, che sottolinea la funzione educatrice e pratica delle religioni positive lungo il corso della storia dell'umanita (9.15).
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9.1. II deismo inglese. Ricorrendo ad un termine che, secondo il Dictionnaire di Bayle, era stato usato per la prima volta in uno scritto polemico del 1563 dal teo logo calvinista Pierre Viret, Pascal defini come «deismo » la posizione che ammette l'esistenza di un Dio creatore e sovrano prescindendo da qualsiasi rivelazione e che delle religioni storiche rifiuta tutto cio che non concorda con la semplice ragione. La contrapposizione esemplare, messa in luce da Pascal, tra il Dio dei filosofi e il «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe>> (5.19), continuo a rappresentare, fra il 1690 e il 1730, l'asse centrale del dibattito sul deismo che appassiono l'opinione pubblica inglese. Se Pascal aveva di mira soprattutto i «libertini», il deismo da lui riprovato aveva gHt avuto in terra inglese una elaborazione di alto livello fino dai primi decenni del secolo da parte delle correnti di pensiero che, in contrasto con la rigida concezione calvinista della predestinazione, avevano difeso i diritti del libero volere umano, come i platonici di Cambridge e soprattutto Herbert di Cherbury (1587-1648). Utilizzando alcune intuizioni di Marsilio Ficino e Pico · della Mirandola, Cherbury aveva sostenuto nel De veritate (La verita), del 1624, che tutte le religioni, comprese le pagane, presentano un fondo di verita comuni che e accessibile a tutti gli uomini, dato che i suoi principi costitutivi non derivano dall'esperienza rna sono innati: «Sotto il dictamen (dettato) della coscienza, il bene dell'anima e preferito al bene del corpo, il bene comune al bene particolare». Questi principi fondamentali furono fissati da Cherbury nel De religione gentilium (La religione dei pagani, uscito postumo nel 1663) in cinque articoli di fede: esiste un Dio, creatore di tutte le cose; gli uomini devono venerarlo; l'essenziale del culto dovuto a Dio e costituito dalla pratica delle
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virtu e della pieta; e necessaria pentirsi dei propri peccati e ravvedersi; la bonta e la giustizia divina assicurano a tutti il pre'inio o il castigo in questa e nella vita ultraterrena. Una religione naturale siffatta, lontana dall'ateismo quanto dal fanatismo confessionale, costituisce, secondo Cherbury, il parametro di giudizio per vagliare le religioni storiche e scartare gli elementi di superstizione e di idolatria, introdotti quasi sempre dall'opera di manipolazione compiuta dal clero. Alla fine del Seicento la situazione politica e quella culturale sono molto propizie alia maturazione e alia diffusione delle tesi deiste. L'Atto di tolleranza, promulgato nel 1689 da Guglielmo d'Orange, riconosce legittimita all a pluralita delle dottrine teologiche e quindi aile «sette » religiose, purche siano d'accordo su alcuni punti fondamentali. Dal punto di vista degli orientamenti culturali Ia filosofia di Locke e la scienza di Newton hanno assicurato piena egemonia aile tendenze liberali. Del resto, tra i primi scritti deisti, apparsi nell'ultimo decennia del '600, figurano un testo dello stesso Locke, La ragionevolezza del Cristianesimo (1695) e il Cristianesimo senza misteri (1696) di Toland, che di Locke si dichiara discepolo. Come abbiamo visto (6.22), Locke si preoccupa soprattutto della comprensibilita dell'insegnamento di Gesu da parte dei piu semplici e cerca in sostanza di armonizzare le due religioni, la naturale e la soprannaturale, sbarazzando il terreno dalle usurpazioni della teologia, gia presenti nelle epistole di Paolo, alla cui analisi dedica fra l'altro un'opera specifica, Saggio di comprensione delle epistole di San Paolo secondo San Paolo stesso, pubblicata nel 1705. Invece John Toland (1670-1722), nonostante le sue dichiarazioni, va ben oltre, in una direzione radicale e quasi irreligiosa, estranea a Locke. Come si intuisce dal sottotitolo del suo Cristianesimo senza misteri («un trattato che dimostra come niente nel Vangelo sia contrario o superiore alla ragione») l'inquieto intellettuale irlandese, di origine cattolica (rna a 16 anni era gHt un «fervente antipapista»), afferma decisamente il primato della ragione e della religione naturale. Abbandonando le cautele di Cherbury, che aveva criticato solo il clero pagano, e le posizioni moderate e ireniche di Locke e di quei teologi liberali, detti 'latitudinari', che alia rivelazione riconoscono la funzione di persuadere, con l'evidenza dei miracoli, Ia massa degli «illetterati» a seguire le leggi morali, Toland si rivolge direttamente alla <
La rivelazione contenuta nella Scrittura e semplicemente «un mezzo d'informazione» e non «un motivo che renda necessaria un consenso»: <<non Ia pura autorita di chi parla rna il chiaro concetto che io mi forma di quanto dice, costituisce il motivo della mia persuasione». Nell'interpretare la Scrittura non
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si devono seguire regole diverse da quelle adottate per gli altri libri. Ora, a ben guardare, il messaggio eyangelico e semplice e chiaro; la nozione di mistero, nell'accezione di verita incomprensibile, e successiva agli autori dei Vangeli e deriva dall'influenza dei misteri pagani. Ingiustificata sui piano storicofilologico, la nozione di mistero non regge neppure sui piano epistemologico, dove Toland si ricollega ai presupposti di Locke: Io mi mantengo fermo nella convinzione che cio che alla infinita bonta non e piaciuto rivelarci, o abbiamo capacita sufficienti per scoprirlo da soli o non abbiamo affatto bisogno di comprenderlo.
L'aperto spirito anticlericale e il rifiuto di qualsiasi compromesso con la teologia, che caratterizzano l'atteggiamento di Toland, come quello dei deisti radicali successivi, sembrano riesumare le rivendicazioni puritane, represse quasi cinquant'anni prima, contro l'autorita dell'episcopato, e pongono con forza il problema dell'emancipazione dell'individuo da ogni autorita esterna. Da questo punta di vista, piu che all'antidogmatismo dei platonici o di Cherbury, l'opera di Toland, che fu anche membra attivo di un gruppo massone internazionale, si ricollega alla tradizione del libero pensiero: all'ermetismo rinascimentale e a Bruno in particolare, e aile argomentazioni dei libertini seicenteschi. Proprio ai rapporti tra libero pensiero (freethinking) e deismo dedica il suo scritt'o pii:t mordente e diffuso, il Discorso sul libero pensiero (1713), Anthony Collins (1676-1729), arnica e discepolo di Locke. Se illibero esercizio del giudizio e fine a se stesso, la ragione critica deve prevalere anche nell'ambito della religione, dove hail compito di eliminare ogni traccia di superstizione (che genera l'incredulita) e quello di chiarire i molti punti oscuri del testo biblico e della dottrina cristiana (che generano le controversie tra le diverse confessioni religiose). Quando manca Ia liberta di pensiero, gli uomini si riducono ad accettare la religione confezionata dai preti, che li mantengono cosi in una condizione di infantilismo, suscitando, d'altra parte, la rivolta di quanti non accettano questa sudditanza. L'unico rimedio all'irrazionalismo fideistico e all'ateismo, prodotti ambedue dall'ignoranza, e il libero pensiero e questa va inteso, precisa Collins, non tanto come attivita isolata del singolo, quanto come acquisizione sociale e politica, che permetta alla libera ricerca di far progredire la scienza, Ia tecnica e le arti. Il riferimento alia teologia razionale dei platonici di Cambridge resta, invece, pienamente valido per gli scritti dei deisti moderati, in particolare per quelli di Samuel Clarke (1675-1729), leader autorevole della Low Church (Chiesa bassa) anglicana. Prima di diventare celebre per la sua traduzione dell'lliade o per aver divulgato la fisica newtoniana ed averla difesa nella grande polemica epistolare con Leibniz (1715-1716), Clarke si impone all'attenzione dell'opinione pubblica intervenendo nelle discussioni sul deismo con due sermoni, la Dimostrazione dell'essenza e degli attributi di Dio (1705) e il Discorso sulle immutabili obbligazioni della religione naturale, e sulla verita e certezza della rivelazione cristiana (1706). 11 suo scopo e apologetico e consiste nel confutare le te-
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si di Hobbes, di Spinoza, di Toland e di «altri negatori della religione naturale e rivelata». Tuttavia Clarke, a differenza di altri apologeti tradizionalisti, si affida non agli anaterni, rna alle sole forze della ragione e, sui rnodello dei Principi di Newton, cerca di costruire una scienza teologica rigorosa che, per teorerni e corollari, dirnostri persuasivarnente l'esistenza di Dio, ne deduca tutti i suoi «attributi» e provi l'irnrnortalita dell'anirna. Oltre a difendere l'universo newtoniano dalle possibili interpretazioni rnaterialistiche, Clarke polernizza con quei deisti che negano la rivelazione, e, rnantenendo ferrna l'esigenza di accentuare il carattere «razionale» del cristianesirno, propone un'argornentazione che in parte ricorda Locke. Le leggi rnorali «scritte nel cuore urnano» sono, come le leggi eterne della natura, conoscibili da parte dell'uorno con la stessa certezza delle proposizioni rnaternatiche. La rivelazione del Vangelo, che in tutti si identifica con le leggi rnorali, non sarebbe dunque necessaria, rna, poiche nella loro grande rnaggioranza gli uornini sono incapaci di ricerca razionale, essa offre loro un irnportante ausilio pratico; per questo e stata donata da Dio. Se la rivelazione e un dono e non un obbligo a cui Dio sia soggetto, non e fondata l'obiezione (cara ai freethinkers) circa l'incornprensibile contraddittorieta del fatto che Dio si sia rivelato ad un solo popolo e in una deterrninata epoca storica. Sulla scia del deisrno «Cristiano» di Clarke si collocano due opere che godettero di grande popolarita nell'Europa del '700: la Teologia fisica, ovvero dimostrazione dell 'essenza e degli attributi di Dio dalle opere della sua creazione (1712) di W. Derham e i Lineamenti della religione naturale (1724) di W. Wollaston. Gli undici lunghi libri di William Derham (1657-1735), canonico di Windsor e scienziato, non si allontanano rnai dall'irnmagine newtoniana della natura come «santuario di Dio». La forma e i movirnenti della Terra, la distribuzione delle terre e delle acque, la stessa attivita dei vulcani (svuotano le viscere della terra da tensioni pericolose e, quando recano danno, puniscono i peccatori) tutto e vis to e presentato finalisticarnente, a conferrna dell 'universoorologio che in ogni istante rinvia al suo autore e alla sua Provvidenza infinitarnente saggia. Lo scritto di William Wollaston (1659-1724) riprende ed esernplifica le tesi di Clarke sull'identita tra leggi di natura e leggi rnorali e sul conseguente intellettualisrno etico (l'azione malvagia si riduce all'errore e alla «rnenzogna», cornunque ad un non sapere). La «religione naturale» consiste nel riconoscere l 'ordine della natura e Dio come suo autore; la Provvidenza divina governa il rnondo assegnando ad ogni essere il suo posto; l'irnrnortalita dell'anirna e la vita futura potranno sanare gli squilibri introdotti nella vita presente dal male e dal dolore. Giustapponendo a questa religione la rivelazione e all'ordine naturale !'ordine soprannaturale, Wollaston, come Clarke, lascia irrisolta la questione pili dibattuta, se cioe sia prioritaria la rivelazione o la retta ragione, e rnanifesta le difficolta inerenti ai cornprornessi del deisrno <
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to piu delicate, quello, per dirla con Pascal, relative alla «miseria dell'uomo». A differenza dei moderati, i deisti radicali rifiutano la rivelazione e la religione soprannaturale, scartano come inutile e nociva la mediazione ecclesiastica e bandiscono come superstizione il culto liturgico. E quanta si ricava anche dal Cristianesimo antico come la creazione, ovvero il Vangelo come nuova promulgazione della Iegge di natura (1730) di Mathew Tindal (1657-17 33), considerata da piu parti «la Bibbia del deismo». L'autore, docente all'Universita di Oxford, brillante pubblicista whig (politicamente sulle posizioni di Clarke) era da tempo nota peri suoi scritti in difesa delle posizioni giusnaturalistiche e in linea col piu acceso anticlericalismo. In questa ultima fatica ricapitola ed esprime, nella lora forma piu coerente, le tesi radicali. Tindal non si limita a sostenere che la religione storica, inaugurata dalla rivelazione «esterna» contenuta nei Vangeli, ricalca il contenuto della «religione naturale o rivelazione interna», rna sostiene apertamente che questa e prioritaria e, nella sua autonomia e «sufficienza», e la «vera originaria religione della ragione e della natura». La religione del Vangelo e solo uno dei modi possibili della rivelazione interna; ammetterla come necessaria o come complementare significa ipotizzare che «un essere di infinita sapienza e perfezione>> possa dare all'umanita una religione imperfetta, «passibile di accrescimento o di diminuzione>> o che possa escludere dalla salvezza gli uomini vissuti prima di Gesu Cristo. La religione naturale e invece alla portata di tutti, perche a tutti Dio ha data la «ragione» («altrimenti Dio avrebbe annullato i propri scapi nel dare la legge, dal momenta che una legge cessa di essere tale se e incomprensibile>>) e questa e sufficiente per conoscere la sua legge, che e iscritta nell'ordine cosmico. Tale legge di natura, come quella del sole, e universale, e se gli uomini non chiudessero gli occhi dell'intelletto ne tollerassero che altri li accecassero, essa scioglierebbe ben presto ogni fumo o nebbia sorgente dalle false tradizioni o dalle false interpretazioni di tradizioni autentiche.
Che la verita originaria affidata a tutti gli uomini sia stata inquinata dalle religioni positive e attestato dal gran numero di religioni esistenti e dalle loro reciproche accuse di errori. Dinanzi al fatto «scandaloso» della pluralita religiosa, su cui la curiosita etnografica del secolo va accumulando informazioni sempre piu accurate, il cristianesimo perde di fatto il suo stato privilegiato; nonostante gli ossequi formali (presenti anche in Tindal) in sensa contrario, si relativizza come tutte le altre religioni. La ragione, infatti, e il «libero esame» mettono in dubbio l'autenticita storica del messaggio rivelato e l'attendibilita dei suoi depositari umani («Non dovremmo essere certi che i suoi primi propagatori non potessero ingannarsi, o non volessero ingannare gli altri ?>>) e denunziano, con i modi della critica libertina, il peso inutile e soffocante della diatribe dogmatiche e delle osservanze rituali, nonche gli «innumerevoli delitti che l'uomo, in nome della religione, ha compiuto contro se stesso e contra gli altri», dalla rigida precettistica della legge giudaica, alle ingiustificate penitenze degli asceti e al fanatismo delle persecuzioni religiose.
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La religione naturale implica invece la felicita: le azioni «che sono rivolte a promuovere la felicita umana sono sempre buone, e quelle che hanno una tendenza contraria sono sempre cattive >>; il peccato consiste nel deviare da questa <
9.2. La critica dell"entusiasmo' religioso. In un suo scritto del 1747, Diderot afferma, con un capovolgimento paradossale, che «tutte le religioni del mondo altro non sono che sette della religione naturale» e quindi «i giudei, i cristiani e i musulmani altro non sono che naturalisti eretici e scismatici». Nel paradosso di Diderot si fa chiaro un presupposto non secondario del deismo: mentre la religione naturale «non puo fare che del bene e mai del male», le religioni positive, che si dichiarano rivelate, sono storicamente responsabili delle guerre di religione e dell'intolleranza. Come l'albero si giudica dai suoi frutti, la natura settaria e scismatico-ereticale delle religioni rivelate si riconosce dai massacri che queste hanno favorito o permesso. La ragione principale di questa corruzione della verita religiosa naturale e da ricercare, secondo la maggior parte dei deisti, nella passione religiosa, che e una malattia dell'immaginazione, anzi la piu irriducibile delle follie. Per depurare la religione non basta ritornare aile origini bibliche (nel sensa della Riforma), rna occorre ripristinare i valori fondamentali ancora piu antichi, dimenticati o traditi dalle chiese storiche, primo fra tutti !'equilibria interiore che distingue l'uomo psichicamente sana dal fanatica. GUt Locke, nel IV libro del Saggio su.ll'intelletto u.mano, aveva chiamato «entusiasmo, 1'illusione di chi si crede ispirato direttamente da Dio e per questa si arroga il diritto di farne rispettare agli altri la volonta. Locke definisce l'entusiasta come un uomo in cui la melanconia si unisce alla devozione e che assume un suo «pensiero dominante» o «fantasia» come «unica e suprema guida» delle proprie azioni. Anche Leibniz aveva messo in guardia contro i rischi di confusione mentale e morale che corrono gli illuminati, i pietisti, i quietisti e tutti coloro che scambiano i fantasmi della loro immaginazione per luce dello Spirito Santo. Ma gli autori che maggiormente hanno influenzato in questa direzione il deismo e l'intero movimento dei 'lumi' sono Bayle e Shaftesbury. Pierre Bayle ( 1647 -1707) affront a specificamente i temi della tolleranza e della Iotta contro il fanatismo e le superstizioni nei Pensieri su.lla cometa (1682) e nel Trattato
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della tolleranza universale (1686-7), rna vi si riferisce anche in numerose pagine del Dizionario storico-critico (1702), autentica minier a di erudizione saccheggiata dagli illuministi e dagli intellettuali in genere del '700. Nonostante l'adesione alla confessione calvinista, che gli costa l'esilio dalla Francia in Olanda, Bayle rifiuta qualsiasi forma di settarismo. Se, per esempio, difende vigorosamente i diritti dei suoi correligionari, non arriva mai a considerare la chiesa cattolica come l'incarnazione dell' Anticristo. Dalle persecuzioni di Luigi XIV contro gli ugonotti Bayle coglie l'occasione per riproporre a tutte le parti in lotta il problema della tolleranza religiosa, e questo gli attira l'inimicizia dei suoi stessi compagni di esilio e delle autorita olandesi, che gli tolgono la cattedra affidatagli a Rotterdam nel 1781. Il suo atteggiamento antisettario deriva da un sostanziale scetticismo filosofico, che da un lato mette in luce i limiti della ragione, incapace di comprendere le verita oggetto di fede religiosa e, dall'altro, ritiene che quanto e materia di ricerca razionale e scientifica debba essere indagato in assoluta liberta, senza alcuna intromissione della religione. Le diversita tra le confessioni religiose non provengono da volonta malvagia o da diabolica corruzione dell'anima, rna dalla incomprensibilita e dall'effettiva difficolta interpretativa in cui si trovano certe questioni dottrinarie e dall'incapacita della ragione di dimostrare inconfutabilmente le verita di una professione di fede rispetto alle altre. Un altro elemento su cui poggia la tolleranza e, secondo Bayle, la distinzione fra religione e morale. Non e forse vero che, nella storia umana, la religione ha giustificato i crimini pili efferati? E per altro verso, non e forse vero che anche i pagani e gli atei possono essere moralmente onesti e intellettualmente rigorosi? Non e piu strano che un ateo viva virtuosamente, di quanto non lo sia per un cristiano darsi ad ogni sorta di delitti. Se noi vediamo giornalmente quest'ultima specie di enormiUt, perche dovremmo credere che l'altra sia impossibile?
L'argomentazione, presente nella stessa tradizione cattolica, che anche fuori del cristianesimo e possibile raggiungere una compiuta moralita, era stata portata aile estreme conseguenze dai libertini seicenteschi per affermare la superiorita dei pagani o degli atei, virtuosi sotto la guida dei soli lumi della ragione, rispetto ai cristiani, corrotti nonostante la rivelazione. Bayle sostiene che «una societa di atei, per quanto riguarda i costumi e le azioni civili, sarebbe in tutto simile» a tutte le altre societa, «purche facesse punire severamente i crimini e attribuisse onore e infamia a certe cdse». La societa infatti e lo Stato non si fondano sui principi della religione ne su quelli della morale: l'amor proprio e tutte le passioni conseguenti sono motivo pili che sufficiente perche gli uomini si costituiscano e si mantengano uniti in una societa. Se gli atei possono raggiungere la virtu vera - lo attestano anche i martiri dell'ateismo, come l'italiano Cesare Vanini (1585-1619) che ha predicate le sue idee sapendo il rischio che correva - e perche esiste una morale naturale, universale, indipendente dalla religione rivelata, che anzi fornisce i criteri di verifica e i principi di interpretazione delle verita religiose:
260 0 9- La religione naturale Ogni dogma particolare sia che lo si presenti come contenuto nella Scrittura, sia in altra materia, e falso quando e confutato dalle nozioni chiare e distinte del lume naturale, soprattutto per cia che riguarda la morale.
In conclusione, per salvarsi }'anima non c'e bisogno di conoscere la verita assoluta (che e impossibile) rna si deve praticare la tolleranza religiosa. Questa non e infatti accomodamento opportunistico ad una 'particolare situazione storica, rna una vera e propria virtu cristiana, basata su un atto di umilta da parte della coscienza, consapevole dell'insufficienza e dell'autonomia della propria ragione. Non dissimili le conclusioni a cui perviene l'umanesimo classicista di Anthony Shaftesbury (1671-1713) nella sua Lettera sull 'entusiasmo (1708), scritta in occasione delle manifestazioni escatologiche tenute a .Londra da parte dei camisards, i profeti calvinisti rifugiatisi in Inghilterra per sfuggire aile persecuzioni di Luigi XIV. Lo scopo e di ridicolizzare il «falso entusiasmo», la malattia del fanatismo, da intendere «nel sensa originale in cui l'usarono gli antichi, di apparizione che rapisce la mente». In nome dell'equilibrio fra l'io e gli altri, fra natura e Dio, Shaftesbury denuncia il carattere tetra e oppressivo di una religione fondata sull'immagine di un Dio di collera e di vendetta, contraddittoria con }'idea di un Dio di banta e di dolcezza, oggetto di «vera entusiasmo», che (etimologicamente significa «Dio in noi>>) si configura, secondo le indicazioni del Fedro platonico, come amore del bello, elevazione dell'anima e gioia della dedizione. E falso l'entusiasmo dei teologi calvinisti che predicano un Dio buono nemico della banta umana ed insistono, come Hobbes, sull'impotenza e sulla malvagita di una umanita chiusa nella sua solitudine. Come puo l'uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio, non nutrire fiducia nella banta e nella ragione? (...) la piu salida difesa contra ogni superstizione e ricordare che in Dio non c'e nulla che non sia divino; che Egli, o non esiste affatto, o e veramente e perfettamente buono. Ma quando noi abbiamo paura di usare liberamente la nostra ragione (... ) in quel momenta noi partiamo dal presupposto che sia malvagio, e chiaramente gli rifiutiamo quel preteso carattere di banta e di grandezza, mentre sveliamo Ia nostra sfiducia e Ia paura del suo sdegno e del suo risentimento, a causa di tanta liberta di indagine.
E una societa, che vuole essere formata da uomini pronti a collaborare fra di lora e rifiuta di ridursi a un gregge bastonato o ingrassato, come puo accettare !'idea di un Dio della vendetta e del capriccio? Cieco e anche l'entusiasmo degli atei dogmatici che negano l'ordine del cosmo e affermano «opinioni contrarie all'umanita e all'ordine sociale>>. Tuttavia Shaftesbury riconosce (come Bayle) che anche gli atei possono essere pienamente virtuosi, data che rivendica l'autonomia della morale dalla religione e (a differenza di Bayle) dalla ragione (secondo Shaftesbury, la morale trae origine dal «sentimento>>: 11.2). Ritiene comunque che sia degno di condanna il fanatismo di tutti colora, bigotti, superstiziosi o atei radicali (non nasconde qualche simpatia per i dubbiosi e gli scettici) che, sicuri della lora verita, predicano la persecuzione contra i loro avversari.
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ll rimedio migliore per incrinare la rigidita dell'oltranzismo e restaurare l'armonia interiore e !'ironia, il cui tratto di fondo e la coscienza dei propri limiti e della misura necessaria. Se disgraziatamente perdessimo la misura in noi stessi, noi la perderemmo ben presto in ogni altra cosa. Ora qual altra regola o misura esiste al mondo, che non sia la considerazione della reale natura delle cose, per trovare quali sono veramente serie e quali ridicole? (...) Si tratti di amore o di religione - in entrambi alberga l'entusiasmo - nulla puo porre un freno al dilagare del male che recano, se non si allontana la malinconia e lo spirito non ritrova la liberta di ascoltare quanto puo dirsi sul ridicolo che accompagna ogni eccesso, in qualunque senso.
Mentre gli antichi sapevano trattare superstizione e fanatismo «con mitezza» - tolleravano visionari ed entusiasti d'ogni specie, rna davano anche «libero corso» alia filosofia, che permetteva «Un equilibria contra la superstizione» - la cultura e la politica del nostro tempo, preoccupati di garantire «la futura felicita degli uomini» e «salvare» le loro anime, vedono nell'«uniformita delle opinioni (sogno disperato!)» l'unico rimedio per «curare l'entusiasmo» e finiscono per provocare e diffondere «un eterno odio reciproco che nessun interesse temporale sarebbe mai riuscito a suscitare». Io sono sicuro che esiste solo una strada per salvaguardare gli uomini, e preservare il senno del mondo: la liberta spirituale. Ora lo spirito non sara mai libero se non ci sara una Iibera ironia, perche contro le gravi stravaganze e gli umori biliosi non c'e altro rimedio dell'infuori di questo.
9.3. La reazione dell'anglicanesimo ortodosso: Butler e Berkeley. Per replicare alle tesi ereticali del deismo scendono in campo numerosi rappresentanti dell'ortodossia anglicana. Tralasciando i testi scarsamente originali, che sono la maggior parte, e rinviando a paragrafi successivi l'analisi degli autori e dei movimenti che, di contro al razionalismo deistico, sviluppano una severa religione del cuore e richiamano vigorosamente alla vita devozionale e contemplativa, ci soffermiamo sulle due posizioni filosoficamente piu mature e significative, rappresentate dagli scritti dei vescovi Joseph Butler e George Berkeley. Joseph Butler (1692-1752), cappellano della casa reale e vescovo di Durham, diviene noto con i Quindici sermoni (1726) con cui interviene nel dibattito intorno all'autonomia o meno della vita morale. Mail suo scritto piu famoso, apprezzato anche da Hume, e certamente I'Analogia della religione, naturale e rivelata, con la costituzione e il corso della natura (1736), in cui tenta di confutare i deisti, dimostrando che, se si accetta la religione naturale, non si puo non accettare anche la religione rivelata. Utilizzando un metoda empirico-induttivo basato sull'inferenza sperimentale («inferire da fatti noti altri analoghi») Butler vuole mettere in luce la non contraddittorieta, anzi l'analogia tra il libro della natura e il libro della Scrittura, tra la visione razionale dell'universo e del reale, fornita dalla scienza, e il piano etico teologico rivelato nella Scrittura. Ad esempio, la concezione deterministica della natura non esclude l'esistenza di Dio ne la possibilita dei miracoli. II miracolo infatti puo inserirsi nel
262 0 9- La religione naturale corso dei fenomeni naturali, poiche questi non formano una catena indefinita di cause e di effetti. In antitesi a Locke e ai liberi pensatori sono riproposte le classiche argomentazioni sull'immortalita dell'anima, sui libero arbitrio e sull'esistenza del male, presentate tuttavia come «probabiliUt» o «presunzioni » e non come certezze o dogmi. Allo stesso modo i principi rivelati da Gesu e tenuti vivi nella tradizione ecclesiasti(\a, sono proposti come semplici ipotesi, che comunque, secondo una logica affine alia scommessa pascaliana, vale la pena abbracciare. La seria opinione che il cristianesimo puo essere vero, sottopone gli uomini al pili rigoroso obbligo di osservarlo seriamente in ogni parte della !oro vita: dovere non esattamente identico, rna sotto molti aspetti quasi identico, a quello cui ci sottoporrebbe una piena convinzione.
A differenza di Clarke e di Wollaston, che, nel tentativo di mediazione tra ragione e rivelazione finivano per scegliere molte tesi deistiche, il sostanziale pessimismo di Butler nei confronti della condizione umana e della ragione resta fermo aile soluzioni tradizionali, approda a conclusioni fideistiche, ribadisce il primato della rivelazione e, in politica, si fa paladino di un ideale teocratico che e anzitutto opposizione al giusnaturalismo laico. La critica antideista di Berkeley (8.6), implicita in tutta la sua produzione filosofica, e sviluppata in due opere della maturita, I 'Alcifrone (1732) e I a Siris (1744). In particolare i sette dialoghi che compongono l'Alcifrone sono rivolti a confutare i prindpi dei deisti, che Berkeley definisce 'filosofi minuscoli', perche ritenuti incapaci di comprendere l'alta funzione che il cristianesimo esercita nel favorire il bene pubblico e privata, presi come sono dalle minuzie e dalle particolari difficolta che puo presentare la dottrina o un testo biblico. Pur accomunando in un'unica «setta» Hobbes e Toland, Tindal, Shaftesbury e Mandeville, le cui posizioni vengono spesso deformate caricaturalmente, l'Alcifrone riesce a mostrare efficacemente il rapporto stretto, deplorevole per Berkeley, tra liberi pensatori e ceti borghesi emergenti. Questi filosofi, che non affidano la loro riflessione a ponderosi volumi rna ad agili opuscoli e a «fogli sciolti» pur di ottenere una rapida diffusione e che non vivono pili entro le mura delle universita, rna «nei salotti, nei caffe, nelle pasticcerie( ... )>>, si rivolgono di fatto ad un pubblico di «laboriosi cittadini, prosperi banchieri, abili uomini d'affari, provinciali distinti, persone eleganti, militari( ... )». In un pamphlet del 1720, dal titolo significativo Saggio per prevenire la rovina della Gran Bretagna, Berkeley aveva preso spunto da un recente scandala finanziario per contrapporre alla classe politica e intellettuale del presente la «vecchia modestia» e la «sobrieta», l'austerita di vita e il «sacro rispetto » per le leggi e la religione che invece caratterizzavano il passato. In quello stesso scritto aveva affermato che il libero pensiero e responsabile di lusingare «le passioni degli uomini corrotti, i quali sono ben lieti di porre a tacere la voce della coscienza». .,
Tav. 3 · II secolo dei lumi.
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Ora, nell'Alcifrone, il deismo, che non puo non approdare all'ateismo- «cima e perfezione dellibero pensiero» - e attaccato nei suoi fondamenti teorici. Ridurre il cristianesimo ad una astratta religione naturale significa presupporre che la metafisica e la teologia siano assorbite dalla fisica e dalla filosofia naturale. In realta, come ha dimostrato nel Trattato (8.6), questa presupposto e, secondo Berkeley, falso: una epistemologia rigorosamente empiristica smantella Ia credenza nella realta materiale esterna, riduce drasticamente le pretese del metoda scientifico e risolve la stessa scienza naturale in una sorta di «grammatica del linguaggio divino». L'immaterialismo e posto, nel Trattato, come una nuova, originale prova dell'esistenza di Dio. Inoltre il deismo fa della divinita un principia astratto, lontano dagli uomini e dai lora bisogni, un Dio che non puo conferire alla Iegge morale quella stabilita che le e necessaria per controllare efficacemente istinti e passioni. 11 Dio della rivelazione e l'unico in grado di indicare Ia via della vera e non effimera felicita. Fondamento del sensa morale (che non e dunque autonomo come invece ritengono comunemente i deisti), il sentimento religioso trova Ia sua specificita nel sentimento interno di se, 0 inward feeling, Secondo la definizione adottata nei Dialoghi tra Hylas e Philonous (1713) per indicare Ia capacita dell'uomo di avvertirsi come coscienza o spirito in rapporto alle case sentite, una certezza d'ordine morale e non intellettivo che e intuitiva e non ha bisogno di dimostrazione. Inoltre, e su questa insiste l'Alcifrone, la fede religiosa svolge un'azione civilizzatrice indispensabile per la crescita della societa. In antitesi ai deisti, ma anche alla spregiudicata politica dell'whig Robert Walpole (prima ministro dal 1715 al 1717 e dal 1721 al 1742), Berkeley sostiene le ragioni del ruolo p~litico della religione con lo stesso vigore polemico con cui nega, qui e altrove, l'origine contrattualistica della stato (il pubblico bene e quindi Ia volonta divina esigono che al potere comunque costituito sia dovuta un'assoluta obbedienza passiva) e gli altri principi di giusnaturalismo, che nel giovanile sermone Sull'obbedienza passiva (1712) aveva definito «nozioni perniciose all'umanita e repugnanti alla retta ragione».
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9.4. La religione naturale nello scetticismo di Hume. La confutazione · decisiva del deismo e elaborata da Hume (8.8) nei Dialoghi sulla religione naturale, scritti tra il 1749 e il 1751, rna dati alle stampe postumi, nel 1779. Le opinioni del filosofo scozzese intorno al dibattito religioso sono espresse anche altrove. Ad esempio, il Saggio sulla superstizione e l'entusiasmo (1742) analizza il fenomeno psicologico della credenza religiosa - argomento poi ripreso nella Storia naturale della religione (1757) - e condanna, come Bayle e Shaftesbury, il fanatismo (il fanatica puo immaginare di vedere quel che non esiste e chi lo ascolta sa difficilmente sottrarsi al suo fascino) senza perc auspicare che il sentimento religioso sia soppiantato da una fede cieca nella ragione che anch'essa finirebbe col promuovere un innaturale dogmatismo. Nei Dialoghi sulla religione naturale Hume intende servirsi degli stessi criteri metolodogici adottati a livello epistemologico per verificare la consistenza o meno dell'essenza stessa del deismo, la legittimita cioe del tentativo di fandare la religione sulla ragione. I tre protagonisti dei Dialoghi (Demea, rappresentante dell'«ortodossia rigida e inflessibile», Cleante che sostiene il teismo
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sperimentale e newtoniano, e Filone, portavoce dello «scetticismo spregiudicato») si confrontano, infatti, circa la convinzione, fatta propria anche dal deismo, che l'esistenza di Dio si possa dimostrare razionalmente. Negata la prova a priori per l'«evidente assurdita in cui cade la pretesa di dimostrare una cosa di fatto, o di provarla con qualche argomento a priori», Hume si sofferma sull'argomento a posteriori, molto diffuso fra i deisti newtoniani, che dimostra l'esistenza di Dio come sommo artefice partendo dalla constatazione dell'ordine e dell'armonia dell'universo. L'argomento, recentemente utilizzato, come si ricordera, da Butler, pecca, secondo lo scettico Filone, di antropomorfismo e poggia tutto sull'analogia, che a sua volta si basa solo su una congettura. Vedendo una casa, noi concludiamo con la massima certezza che essa ha un architetto o un costruttore perche e precisamente· questa sorta di effetto che nell'esperienza abbiamo visto provenire da un tal genere di causa; rna non si puo affermare che l'universo abbia una tale somiglianza con una casa, che noi si possa con la stessa certezza inferire una causa simile, neche l'analogia sia qui intera e perfetta; la dissomiglianza e cosi evidente, che il piu che si possa pretendere e una supposizione, una congettura, una presunzione relativa ad una causa simile.
Comunque, ammette Hume, questa prova a posteriori s1 1mpone all'uomo con grande immediatezza, lo convince istintivamente, perche si basa sull'abitudine dell'immaginazione ad estendere oltre ogni limite l'analogia con le cose osservate nella nostra esperienza. In conclusione, nessuna argomentazione sull'esistenza di Dio e rigorosamente razionale. In chiusura del dialogo, Filone afferma: Una persona penetrata di giusto sentimento delle imperfezioni della ragione naturale, volera alla verita rivelata colla massima avidita; mentre l'altezzoso Dogmatico, persuaso di poter elevare un sistema completo di teologia col solo soccorso della filosofia, sdegna qualunque altro aiuto e rigetta questo istruttore superfluo. Essere uno scettico filosofico e, per un uomo letterato, il primo e piu essenziale passo che conduce ad essere un vero cristiano, un credente.
Le convinzioni religiose hanno un'origine diversa dal loro preteso contenuto razionale. Occorre riferirsi, come aveva suggerito Pascal, agli interessi vitali dell'uomo, alle passioni del timore e della speranza. La Storia naturale della religione (una delle Quattro dissertazioni pubblicate nel 1757) parte proprio da questo punto. Se il sentimento religioso ·trova una spiegazione nella natura dell'uomo e non nella natura in genere, ne consegue che la religione non puo essere considerata astrattamente rna deve essere sempre storicizzata, immersa cioe nella societa e nella sua storia. Abbandonando l'atteggiamento del deismo, che valutava negativamente le religioni positive, Hume si propone di indagare nel variare delle circostanze storiche la permanenza o meno dei meccanismi affettivi che stanno all'origine del fatto religioso. La sua <<storia naturale» costituisce la prima esplicita inversione di tendenza rispetto al tapas tradizionale (accreditato dall'autorita della patristi-
266/ 0 9- ll deismo fuori d 'lnghilterra ca, della filosofia medioevale e ribadito anche nel primato della religione naturale proclamato dai deisti) secondo cui il monoteismo rivelato al popolo ebraico sarebbe stato la prima forma religiosa, di cui il politeismo dei gentili sarebbe stato una degenerazione e corruzione successiva_ Seguendo, infatti, il processo naturale del pensiero, e evidente che l'uomo delle origini, ignorante e impaurito, non poteva che avere idee semplici e rozze e che solo gradualmente si e avvicinato all'idea dell'essere perfetto. La prima risposta dell'uomo al mistero della vitae della morte fu quella di immaginare le possibili cause da cui dipendono la vita e la morte come divinita con caratteri antropomorfici. Il passaggio dal politeismo al monoteismo avviene o perche si suppone la propria nazione sottomessa ad una divinita particolare, o perche, in analogia con la societa umana, si assegna ad un solo clio il ruolo di re o di supremo magistrato degli dei. Ma anche il monoteismo non e una forma definitiva; il politeismo puo riprodursi quando, non appagandosi della divinita come puro spirito, l'immaginazione popolare interpone fra se e la divinita una serie di mediatori (semidei, angeli, santi ... ). Il filosofo sa che l'ignoranza «madre della devozione» degenera nella superstizione, rna sa anche che, se esiste un popolo «interamente privo di religione», questa e certamente <
II deismo fuori d'Inghilterra 9.5. La religione in Voltaire. Dopo il 1730, l'anno in cui usci il Cristianesimo di Tindal, la carica teorica del deismo inglese sembra esaurirsi.
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Diventato rnerce d'esportazione, il deisrno conosce invece una seconda prirnavera in alcune nazioni del continente, grazie soprattutto all'eccezionale opera di apostolato svolta da Voltaire. Nella situazione francese, cosi diversa da quella inglese - il cattolicesirno e, ad esernpio, rnolto piu cornpatto e rigido. dell'anglicanesirno - Voltaire* accentua la valenza polernica ed anticristiana del deisrno, inserendo la difesa della religione naturale e della tolleranza in testa alle battaglie ideologiche che per oltre cinquant'anni lo vedono protagonista.
Fran9ois-Marie Arouet, piit nota con lo pseudonimo di Voltaire (Parigi 1694-Parigi 1778) e forse il massimo rappresentan-te dei 'lumi' e lo scrittore piit brillante del '700 francese. Figlio di un avvocato giansenista, viene educato dai gesuiti nel collegia parigino Louis Le Grand (1704-1711). Intrapresi gli studi di diritto, li abbandona quasi subito per dedicarsi alle attivita letterarie· e frequentare i circoli culturali mondani della capitate. Le sue satire contra il Duca d'Orleans, reggente di Luigi XV, gli valgono un breve esilio in Olanda e poi la prigione alia Bastiglia (1717). Nel 1718 mette in scena Edipo, la prima delle sue tragedie 'filosofiche '; nel 1723 esce, anonimo, il poema storico La lega (ripubblicato nel 1728 col titolo di Enriade), che celebra la politica di tolleranza religiosa tenuta da Enrico IV. Condotto di nuovo alia Bastiglia nel 1726, riesce a farsi commutare la prigionia in esilio e parte per l 'lnghilterra. Il lungo soggiorno nell'isola (1726-30) gli permette di entrare in diretto contatto con la realta politica e culturale inglese: frutto di questa esperienza sono le Lettere inglesi (1734). Minacciato di arresto, e ospitato da Madame du Chatelet nel castella di Cirey, in Lorena, dove resta per oltre un decennia. Grazie ai considerevoli redditi assicuratigli dalla grossa eredita paterna e da abili speculazioni economiche e finanziarie, puo dedicarsi totalmente agli studi scientifici e letterari. Fra gli scritti filosofici del periodo di Cirey ricordiamo il Trattato di rnetafisica, (1734, inedito fino al 1780) e la Metafisica di Newton (1741), dove prosegue la polemica contra i sistemi del secolo precedente ed elabora piit distesamente la propria versione del deismo. Si riconcilia con la Corte che, per intervento della Pompadour, lo nomina nel 1745 storiografo ufficiale. Deluso dalla vita di Corte, accetta I 'invito di Federico II che lo vuole a Berlino. Qui lavora al Dizionario filosofico (edito nel 1764), pubblica il racconto filosofico Micrornegas (1752), che insieme al precedente Zadig (1747) avvia la critica dell'antropocentrismo, e da alle stampe II secolo di Luigi XIV (1753), che molti considerano il suo capolavoro. L 'interesse sempre piu vivo per la storiografia si concretizza poi nel Saggio sui costurni e lo spirito delle nazioni (1756) e nella Storia della Russia sotto Pietro il Grande (1759). NeZ 1752 si interrompe bruscamente il sodalizio con Federico II e crollano le sue speranze in una monarchia illuminata. Rientrato in Francia, decide di stabilirsi a Ferney, nei pressi del confine svizzero, aile porte di Ginevra. Fra i numerosi scritti di argomento filosofico elaborati nei venti anni di Ferney dal 'papa laico' dell'Europa pensante, si possono menziona-
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re il Trattato sulla tolleranza (1763), la Filosofia della storia (1765), II filosofo ignorante (1766), L' ABC, Dio e gli uomini (1769) e La Bibbia finalmente spiegata (1776). NeZ marzo 1776 Voltaire e a Parigi per assistere alla rappresentazione della sua ultima tragedia, Irene: trionfali le accoglienze che gli sono riservale. A Parigi muore il 30 maggio di quello stesso anno, affidando al suo segretario Wagniere questa professione di fede: «Muoio adorando Dio, amanda i miei amici, non odiando i miei nemici e detestando la persecuzione». L'atteggiamento scettico, rna moderato e positivo, di Hume, fondato sull'analisi storica serena e distaccata, e impensabile e improponibile in Francia, dove e in atto, dai tempi della revoca dell'editto di Nantes (1685), una crisi profonda dell'assolutismo, che e in contrasto sempre piu aperto con le forze borghesi progressive e crede di poterne uscire affidandosi ad una politica meramente repressiva. La vis polemica voltairiana trae un materiale inesauribile da questa contesto anacronistico, facendosi anche perdonare alcuni eccessi e contraddizioni. Dopa l'esperienza decisiva del soggiorno in Inghilterra (1726-1729), Voltaire si convince che i gravi ritardi della societa francese si devono affrontare facendo leva sui peso crescente dell'opinione pubblica e che l'ostacolo ideologico fondamentale per la diffusione dei 'lumi', in Francia e in altre nazioni, e rappresentato dalla religione. E quanta si ricava dalle gia menzionate Lettere filosofiche (o Lettere inr;lesi) scritte, con molti ripensamenti. tra il 1726 e il 1733 e pubblicate nel 17 34. Definito, nella motivazione di condanna emanata dal Parlamento di Parigi, come opera atta «ad ispirare il libertinaggio piu pericoloso per la Religione e per l'ordine della societa civile», questa libra ha un grande successo (cinque edizioni nel 1734 e altre cinque trail '34 e il '39) e una straordinaria influenza nella diffusione del pensiero inglese sul vecchio continente. Le Lettere iniziano con !'apologia dei quaccheri (ben 4 lettere sono dedicate alla lora storia e ai lora costumi), l'unica setta religiosa che si salva dagli strali polemici di Voltaire, e si concludono con una requisitoria molto seria contra Pascal. Puo sembrare paradossal~ che un allievo di Locke, di Shaftesbury e di Clarke apprezzi positivamente l'intransigenza radicale e l'entusiasmo dei quaccheri (il nome stesso significa etimologicamente «colora che tremano»). In realta, i seguaci di George Fox e William Penn incarnano, a giudizio di Voltai-. re e di altri illuministi, le esigenze dei tempi nuovi. La virtu e lo spirito di uguaglianza, il pacifismo, l'antimilitarismo, rna anche lo spirito di iniziativa in campo commerciale, il rifiuto di un clero professionale e la piena tolleranza che riserbano per altri e rivendicano per se, sono tutti elementi che fanno dei quaccheri un modello del religioso ideale nel secolo della filantropia. E Pascal? perche proprio Pascal conclude un'opera che tratta di argomenti «inglesi»? Si ha quasi l'impressione che, nel dedicare Ia 25a lettera ai Pensieri, Voltaire giunga finalmente a confrontarsi con l'ostacolo teorico pili consistente. Voltaire ritorna su Pascal in piu occasioni e il suo ultimo (forse) scritto da-
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to alle starnpe sono le Ultime note sui Pensieri di Pascal, redatte nel 1777. Voltaire riconosce in Pascal un autentico «gigante», un «raisonneur», un uomo di scienza e, senza ricorrere all'arma della canzonatura che in questo caso sarebbe stata inutile, prende le difese della natura umana bistrattata dal «sublime misantropo » di Port-Royal. Quando osservo Londra o Parigi, non vedo nessuna ragione per abbandonarmi alia disperazione di cui parla Pascal: vedo una citta per nulla simile a un'isola deserta, popolosa, opulenta, ben ordinata, dove gli uomini sono felici quanto lo consente la natura umana (... ) Perche dovremmo provare orrare del nostro essere? La nostra esistenza non e cosi infelice come ci si vorrebbe far credere. Considerare l'universo come un carcere e tutti gli uomini come criminali in attesa di essere giustiziati e un'idea da fanatica; credere che il mondo e un luogo di delizie dove non c'e che piacere, e una fantasticheria da sibarita. Pensare che la terra, gli uomini e gli animali sono cio che devono essere nell'ordine della Provvidenza e, credo, proprio di un uomo saggio.
II deismo o, come Voltaire preferiva, il teismo poggia su questo ottimismo di fondo. Dio esiste: la macchina dell'universo esige una causa intelligente o un sublime orologiaio (sono adottate le prove dell'esistenza di Dio proposte da Clarke), le aspirazioni morali dell'uomo e la «pace del suo cuore» hanno bisogno di essere fondate e giustificate dalla religione naturale. Dio, come gendarme dell'ordine pubblico e della morale individuale: e questo il significato del celebre detto voltairiano: <<Se Dio non ci fosse, bisognerebbe inventarlo». La religione razionale non comporta comunque una scristianizzazione delle masse; per non scandalizzare i poveri di spirito e per mantenere l'ordine sociale e opportune, specifica altrove Voltaire, lasciarli entro i quadri tradizionali della dottrina e della disciplina fissati dalle religioni costituite. II Filone dei Dialoghi humiani avrebbe motivato questa implicita accettazione della doppia verita di sapore averroista (comune a molti illuministi, fra cui lo stesso Diderot) con la formula: <
270 0 9- II deismo fuori d'lnghilterra to, Candido (1759)- ad un significativo mutamento di prospettiva: il bersaglio polemico non e piu il pessimismo pascaliano, rna l'ottimismo leibniziano, e questa volta la vena sarcastica di Voltaire si puo esprimere pienamente. Le delusioni e le amarezze che, dalla morte di Madame du Chatelet (1749), sembrano non volerlo abbandonare e la viva commozione per il catastrofico terremoto di Lisbon a ( 17 55) lo spingono verso una sol uzione fideistica e pragmatica. Proprio nel Poema sul disastro di Lisbona si puo misurare il cammino compiuto. Filosofi in errore, che afferrnate «tutto e bene» I Accorrete, osservate queste rovine spaventose (... ) I Lisbona, che non esiste piu, fu forse piu viziosa I Di Londra e Parigi, immerse nei piaceri? I Lisbona e distrutta, e a Parigi danzano (... ) I Leibniz non mi ha insegnato quali nodi invisibili I Nel piu perfetto degli universi possibili I Fanno si che un eterno disordine, un caos di sventure, I Mescolino ai nostri vani piaceri dolori reali, I Ne perche l'innocente, come il colpevole, I Sia egualmente soggetto a questo inevitabile male. I Ne comprendo meglio come tutto potrebbe esser bene: I Sono come un dottore; ahime, non so nulla!
Nel riconoscere Ia consistenza del 'male sulla terra', Voltaire ammette l'insolubilita teorica della questione ed invita a cercare un rimedio nel lavoro e nell'impegno pratico. La pagina finale del Candido e, in proposito, esemplare: mentre Martino-Bayle afferma: <
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concordatarie con Roma. La riforma del culto, perche questo diventi meno estrinseco e superstizioso, deve congiungersi alla crescita e alla diffusione della carita cristiana che - come dimostra nel Della carita cristiana, in quanta essa e amore del prossimo (1723) - e amore di Dio in quanto e vivo e operoso amore del prossimo. Carita civile e carita cristiana delineano un'immagine della societa fondata sulla giustizia e sull'amore tra gli uomini: la giustizia puo assicurare l'ordine, rna difficilmente puo mantenere «la pace· e la concordia per quanto mai si puo, con tutti, seguendo il parere degli antichi, che scrissero: 'La guerra s'ha da avere, non con gli uomini, rna coi vizi!',, Una simile volonta riformatrice non intende comunque uscire dai limiti fissati dal dogma. Soltanto nelle verita di fede Muratori accetta il principio di autorita, in tutto il resto hanno il primato la ragione e la libera critica. I divini misteri, insegnati dalla «santissima scuola e religione di Cristo», non sono comunque contrari alia ragione, la sovrastano e sono quindi indimostrabili. Specialmente negli scritti della vecchiaia, lontani dalle posizioni un po' piu ribelli espresse in gioventu, Muratori rifiuta con decisione gli eccessi dei deisti, dei lockiani, degli scettici, degli atei e libertini, che, nello scritto Delle forze dell'intendimento umano o sia il pirronismo confutato (1745), sono riuniti, in un unico bersaglio polemico, insieme a chi ha redatto <. Col suo moderatismo, tutto huon senso (quante volte insiste sulle radici emiliane e contadinel). Muratori intende riaffermare la fiducia nella razionalita della fede e della morale cattolica, confutando sia coloro che fondano la legittimita della rivelazione sulla <<debolezza dello spirito umano», sia coloro che, adottando l'epistemologia di Locke e il pirronismo di Bayle, gettano discredito e abbandonano la religione rivelata. Aile questioni relative al giusnaturalismo e alla storia tormentata dei rapporti tra chiesa e Stato, e legato il nome di Pietro Giannone (1676-1748). Addottoratosi in giurisprudenza a Napoli, Giannone si forma sulla filosofia gassendista (che «atterro la Scolastica, professata ne' chiostri ») e cartesiana; nel 1723 pubblica l'Istoria civile del regno di Napoli. Costretto all'esilio dalla campagna denigratoria suscitata contro di llili da chi lo accusa di deismo e libertinismo, Giannone inizia l'odissea che, d{)po Vienna e Ginevra, lo conduce nel carcere torinese, dove la morte lo canonizza martire del libero pensiero. Alla base della sua monumentale (40 libri) opera storica, sta la tesi che il degrado economico e sociale dell'Italia meridionale dipende dalla supremazia che la Chiesa ha assunto sullo Stato, qui piu clw altrove, in virtu della confusione tra i poteri del governo civile e i poteri della feudalita ecclesiastica che caratterizza tanta parte dell'eta costantiniana, l'eta cioe inaugurata da «Costantino Magno» con la mondanizzazione e l'utilizzazione politica del messaggio evangelico. Nella vivacita della polemica, tesa a liberare lo Stato da ogni ingerenza chiesastica, Giannone e convinto di essere animato da un fervido <<spirito religioso di riformatore». Gli avversari lo accusano invece di essere paladino della pericolosa <> e di voler <<deprimere» la chiesa e <
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Giannone e chiaramente con Hobbes e Spinoza, con Bayle, Toland e i deisti inglesi. Vi si espone una complessa filosofia della storia riducibile al seguente schema tripartito. L'originario «regno terreno» aveva a fondamento una religione che, come attesta il Pentateuco (di cui e negata l'ispirazione divina), non «ebbe per l'uomo altro concetto che di vita mondana e terrena» e non distingueva affatto lo spirito (inteso come alito vitale) dalla materia. Lungi dal coincidere con l'insegnamento di Gesu, la separazione dell'anima dal corpo e impostura successiva, voluta dai sacerdoti per ingannare i popoli. II «regno celeste», basato sulla rivelazione del Cristo (che e interpretata Secondo la Ragionevolezza del cristianesimo di Locke) si trasforma poi nella «macchina cotanto sublime e vasta» del «regno papale» che e il rovesciamento puro e semplice della «vera religione da Cristo insegnataci». \ Erede consapevole di Bacone e Galileo, Antonio Genovesi* nel 1754 definisce «Occupazione vana e nocevole, ogni studio che non mira alia soda utilita
Nato a Castiglione, presso Salerno, nel 1713, Antonio Genovesi e destinato alla carriera ecclesiastica ma entra presto in contatto con gli intellettuali piu innovatori italiani ed europei. NeZ 1737 e ordinato sacerdote. La maggior parte dei suoi scritti sono legati all 'insegnamento: i quattro manuali, editi tra il 1743 e il 1752 col titolo complessivo di Elementa metaphysica mathematicum in modum adornata, frutto delle lezioni tenute (fin dal 1741) dalla cattedra di metafisica all'Vniversita di Napoli, suscitano le reazioni delle diffidenti autorita ecclesiastiche. Accusato di razionalismo e dteismo, escluso per due volte (nel 1743 e nel 1748) dalla cattedra di teologia, si allontana gradualmente dagli studi iniziali e si interessa sempre piu di etica e di economia. Dall 'incontro col matematico ed economista Bartolomeo lntieri prende corpo 1'idea di fondare a Napoli la prima cattedra europea di economia, che, istituita nel 1754, e affidata al Genovesi. Questi, l'anno prima, ha pubblicato il celebre Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, dove analizza acutamente la situazione economica e culturale dell 'ltalia e del meridione, confront ali con le nazioni europee. Il risultato della sua nuova attivita di professore di economia sono i due volumi Delle lezioni di commercia o \Sia d'economia civile (1765-1767): eclettico sul piano teorico, Genovesi adatta le tesi dei fisiocratici o dei mercantilisti alta situazione concreta dell'economia meridionale. Lf!.. proposte economiche di Genovesi, sostanzialmente fiducioso (come d'Alembert e Voltaire) in un dispotismo illuminato, sono di grande i11teresse. lspirandosi in gran parte all 'utilitarismo, Genovesi elabora - tra l 'altro nella fortunata Diceosina, o sia filosofia del giusto e dell'onesto (postumo, 1771)- una concezione etica che cerca di conciliare una vigile coscienza morale con la crescente diffusione del lusso e i mutamenti sociali prodotti dallo sviluppo economico. Larghissima diffusione ha avuto, fin quasi a meta dell '800, il manuale La logica per li giovanetti (1764). Antonio Genovesi muore a Napoli nel 1769.
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degli uomini». Non a caso a Genovesi, che e prete, e dal 1741 e stato professore di metafisica all'Universita di Napoli, proprio nel 1754 e affidata la prima cattedra europea di <> (noi diremmo di economia), istituita a Napoli con i soldi del fiorentino Bartolomeo Intieri. Come gli scrittori del prima Rinascimento, Genovesi oppone aile «chimere» dei <
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9.7. Le scienze religiose in Germania e Francia. Fra le novita introdotte dal Settecento nel patrimonio culturale dell'occidente sono da ricordare le scienze
274 0 9-ll deismo fuori d'lnghilterra religiose. Il fatto che la storia delle religioni e 1'esegesi biblica ricevano proprio dai 'lumi' un notevole impulse, non e casuale. Il dibattito sulla religione naturale dimostra ampiamente il tramonto dell'assoluto teologico o, se preferiamo, della teologia come scienza totalizzante. Di pari passo con la graduale laicizzazione della vita e del pensiero, il messaggio cristiano si relativizza e la teologia, o e bandita come inutile, o e costretta a parlare il linguaggio del suo tempo. L'inventario dei popoli del mondo ·Offre alla nascente curiosita etnografica una messe d'informazioni tale che si impone l'esigenza di un'analisi comparativa tra i vari sistemi religiosi, nonostante si continui ad ammettere la superiorita del cristianesimo. Gli stessi missionari cattolici in India, Cina e Giappone hanno scoperto e attestato il valore della spiritualita e delle tradizioni morali delle grandi civilta asiatiche ed entrando in polemica con Roma hanno sostenuto la necessita di evangelizzare questi popoli adottando il loro linguaggio rituale. Per la maggior parte degli illuministi non ci sono dubbi: nessuna delle religioni storiche puo arrogarsi il diritto di giudicare le altre; spetta alla ragione di scoprire un linguaggio comune tra gli uomini e di indicare l'essenza della religione, ovvero il fondo comune sotteso alle diverse forme assunte storicamente. Il discorso religiose viene cosi a desacralizzarsi: esce dall'ambito ecclesiastico, non coinvolge piu soltanto i teologi specializzati rna i laici (Cherbury, Locke, Hume, Rousseau e Kant sono tutti laici) che si sentono in diritto di spiegare l'atteggiamento religiose, inteso ormai come funzione universale della coscienza umana. In questa contesto, diventa importante risolvere le questioni, anche vecchie, relative alla mitologia e al significate dei miti. 0 si liquidano sbrigativamente dicendo, con Voltaire, che i miti e le favole non sono che «errori » compiuti dal «genere umano>> che <<e stato e sara per molto tempo insensate e imbecille>>, oppure si abbandonano i presupposti, propri anche del deismo, dell'uniformita e della staticita della natura umana e, come sta succedendo nel settore delle scienze naturali, si adotta una prospettiva genetica e storica in cui la produzione mitologica acquisti una sua intelligibilita (di natura antropologica) come tappa dell'evolversi della coscienza umana. L'interesse per il tema della religione primitiva (connessa, da Hobbes a Rousseau, con i temi dell'umanita primitiva e quindi dello stato di natura) e la nuova comprensione della coscienza mitica intuita da Vico e riproposta da Herder, fanno della mitologia un'archeologia dello spirito e gettano le basi per la storia delle religioni. La critica razionalistica del mito, si e visto (9.1), coinvolge, specialmente nei deisti radicali, anche il cristianesimo e, poiche il cristianesimo e una religione del libro, anche la Scrittura, l'unita del testo e l'unita dell'ispirazione. Che le facolta teologiche riformate siano state il luogo di sviluppo dell'ermeneutica moderna, non stupisce: una volta sottratta all'autorita del magistero ecclesiastico, che ne assicurava l'uniformita d'interpretazione, la Bibbia, (fonte unica e norma della fede) diventa materia di studio filologico e di indagine storica. Potrebbe, caso mai, stupire che sia stato un cattolico, l'oratoriano Richard Simon (1638-1712) a gettare le basi della moderna esegesi biblica, se non si dovessero ricordare le accoglienze tutt'altro che benevole riservate da Bossuet e dalle autorita religiose alla sua Storia critica del Vecchio Testamento (1678) e che proprio quest'opera, poi condannata dalla chiesa cattolica, gli costa
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I 'espulsione dall 'ordine religioso. Intendendo difender~ le posizioni tridentine contro la tesi protestante dellibero esame, Simon vuol dimostrare che il testo biblico e il risultato di stratificazioni e fonti diverse, non puo quindi costituire un'autorita religiosa sufficiente e solo la tradizione e la mediazione del magistero ecclesiastico possono assicurarne la corretta interpretazione. A tal fine esamina la Bibbia sotto il profilo storico-critico e, senza negare l'ispirazione divina (relativa, pero, alia sostanza del messaggio non alla lettera del testo), perviene a conclusioni, confermate anche dall'esegesi piu recente, quali la non autenticita mosaica dell'intero Pentateuco (negata quasi negli stessi anni dall'ebreo Spinoza) e l'attribuzione a Mose della sola parte legislativa. Nonostante il valore profondamente innovativo dell'opera di Simon, che tratta i testi sacri alla stessa stregua di qualsiasi altro testo profano, e se si eccettuano le Congetture (1753) del medico francese Jean Astruc (1684-1766) che individua le fonti jahwista ed elohista della Genesi, l'esegesi biblica resta, per tutto il '700, marginale al mondo cattolico. ll ruolo centrale che invece assume nel protestantesimo, specialmente in quello tedesco, e dimostrato dalla crescente specializzazione che lo studio della Bibbia, svincolato dalla Vulgata latina, comporta: si avverte, ad esempio, la necessita che l'universita prepari specialisti in ebraico, in greco e nelle lingue orientali. Accanto ai numerosi Javori filologici dell'orientalista Johann David Michaelis (1717-1791) si devono ricordare quelli di Semler e di Reimarus. Johann Salomon Semler (1725-1791), fondatore della scuola 'neologica' (cosi detta dal proposito di rinnovare il pensiero religioso luterano), si oppone al conservatorismo ortodosso ponendo lo studio scientifico dei testi biblici (in particolare del Vecchio Testamento) come preliminare a qualsiasi interpretazione e, pur ammettendo un 'nucleo' ispirato da Dio, riconosce una quantita di elementi 'contingenti' desunti dal contesto storico-culturale al momento della redazione. Semler e gli altri neologi, fra cui Friedrich Wilhelm Jerusalem (1709-1789), possono forse essere definiti Ia versione tedesca del deismo moderato: sostengono infatti strenuamente i diritti della religione naturale e accettano la rivelazione divina per quel tanto che e compatibile con la ragione, ritenuta in grado di dimostrare con le sole sue forze l'esistenza di Dio. Hermann Samuel Reimarus (1694-1768), orientalista ad Amburgo, si puo invece identificare con le posizioni del deismo radicale, corroborate da una spregiudicata critica storica. Le sue conclusioni, affidate ad un'opera monumentale, Apologia di colora che adorano Dio secondo ragione (lasciata inedita), sono rese parzialmente note nei Frammenti di un anonimo pubblicati da Lessing nel 1774 e nel 1778. Reimarus rifiuta ogni religione positiva e ogni rivelazione. Alla vera religione si perviene attraverso un'altra «Via», che e poi l'unica «davvero uniVersale»: «la lingua e il libro della natura, le opere di Dio e le tracce della per. fezione divina che in essa si mostrano chiaramente come in uno specchio a · tutti gli uomini, ai dotti come agli indotti, ai barbari come ai Greci, agli Ebrei come ai cristiani, in tutti i luoghi e in tutti i tempi>>. Le contraddizioni interne alla Bibbia, miscuglio di storia sacra e profana, portano alia conclusione che una rivelazione soprannaturale non e contenuta in nessuna parte della Scrittura. Soltanto il nucleo razionale del suo messaggio, in quanto coincidente con l'etica naturale, puo essere salvato. La critica
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storica di Reimarus investe anche, per la prima volta, la figura storica di Gesu: tenta cioe di demistificare la leggenda cristiana, di separare l'insegnamento e le intenzioni reali di Gesu da cio che ne ha fatto poi il cristianesimo. La figura di Gesu viene cosi a delinearsi come quella di un profeta ebraico la cui predicazione non esce dal contesto ebraico tradizionale. Sono i discepoli a trasformare, dopo la sua morte, il Gesu ebraico nel Cristo di una nuova chiesa che, abolita la legge, intende rivolgersi ai pagani; sono loro che fanno sparire il corpo del maestro defunto, creano il mito della resurrezione, e proiettano in un futuro escatologico la promessa di Gesu che il suo popolo sarebbe stato liberato nell'arco di una generazione. Dimenticati fino alla meta del secolo XIX, se non altro perche nell'immediato ha successo la controffensiva dell'ortodossia e dei moderati (anche Semler pubblica nel 1779 una lunga confutazione delle tesi rivoluzionarie di Reimarus), i Frammenti di un anonimo segnano una tappa decisiva nella storia delle origini cristiane e degli studi esegetici in genere. Insieme ai lavori dedicati da Herder all'ermeneutica neotestamentaria, pongono le questioni fondamentali su cui si sviluppera la ricerca biblica fin quasi ai nostri giorni. Per quanto riguarda il contributo di Herder (10.10) osserviamo brevemente che nei suoi scritti si puo trovare la prima formulazione del metodo dell'attuale Formgeschichte (storia delle forme), che cerca di ricostruire la personalita e le intenzioni dei redattori neotestamentari sulla base dell'assunto che la fede cristiana sia anteriore ai Vangeli e che questi debbano considerarsi piu come professioni di fede che come biografie storicamente attendibili (111.17 .5).
L'ateismo 9.8. II «Testamento» di Meslier. Nell'ottobre 1765 David Hume e ospite alia tavola del barone d'Holbach. Ad un certo punto la conversazione cade sull'ateismo: Hume non ha mai incontrato un ateo; d'Holbach gli fa notare che, su diciotto convitati li presenti, almeno quindici sono atei. L'episodio, riferito da Diderot, illustra bene il divario tra la cattolicissima Francia e l'Inghilterra delle sette e della tolleranza. Niente di strano, dunque, se i testi illuministici, che facciano aperta professione di ateismo, sono prevalentemente francesi. Come si vede dalla stampa clandestina che, nonostante o forse proprio grazie ai rigori della censura, diventa tra il 1720 e il 1750 un fenomeno rilevante e capillare, tutti i maggiori temi della polemica anticristiana (libertinismo, spinozismo, deismo ... ) subiscono in Francia una radicalizzazione anticlericale e ateistica. Fra i manoscritti clandestini si distinguono quelli a carattere deistico e quelli piu o meno apertamente atei. Fra quest'ultimi ]'opera piu esplosiva e senza dubbio il Testamento, scritto, forse verso il 1720, da Jean Meslier (1664-1729). Diventato sacerdote «per compiacere ai suoi genitori», Meslier fa per trent'anni il parroco di campagna, nelle Ardenne; alla sua morte lascia questo ponderosa Testamento dove nega l'esistenza di Dio, scon-
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fessa la religione cristiana e denuncia i legami tra potere politico e religione, fra trono e altare (che si intendono come «due tagliatori di horse»), che permettono ai potenti di imbastire l'oppressione e lo sfruttamento degli umili. Quanto ineccepibile e corretto e stato nell'esercizio del suo mestiere di parroco, tanto e indignato e ribelle, in questo prolisso atto di accusa, contro la societa dell'ancien regime. Voltaire, che ha il merito di rendere noto iJ nome di Meslier, nel 1762 pubblica un agile estratto che manipola spregiudicatamente il testo originale, trasformando in deismo il materialismo e l'ateismo del suo autore. Scopo dichiarato di Meslier, che si rivolge ai suoi parrocchiani e agli «oppressi» in genere, consiste infatti nel dare le «prove>> (ne fornisce otto) circa «la vanita e la falsita» di tutte le religioni, «che non sono altro che invenzioni umane>>. II suo 'sistema' filosofico sembra costruito piu sull'osservazione Iucida ed appassionata· della realta, che non sullo studio delle fonti culturali (libertinismo, Cartesio e, naturalmente, la Bibbia) che pur sono ampiamente presenti. Ateismo, metafisica materialistica e comunismo sono i cardini di questo 'sistema' che nasce dall'invettiva morale di chi ha visto «l'empieta regnare sulla terra» e si conclude con un inequivocabile invito alia rivolta. Mettete pure in pace il vostro cuore per tutto questo, abolite anzi tra voi tutti questi sciocchi e superstiziosi riti di preti e sacerdoti e costringeteli a vivere e a lavorare come voi. Ma non basta, cercate di unirvi tutti, tanti quanti siete, voi e i vostri simili, per scuotere definitivamente il giogo del potere tirannico dei vostri principi e dei vostri re; rovesciate ovunque questi troni ingiusti ed empi, spaccate queste teste coronate, umiliate l'orgoglio e la superbia di tutti i vostri tiranni e non tollerate mai che essi regnino su di voi. E compito dei piu saggi guidare e governare gli altri (... )
9.9. Materialismo ed ateismo: Diderot, La Mettrie, Helvetius, d'Holbach. Nel suo orizzonte sociale, che ricorda Isaia e il profetismo biblico (da una parte i contadini poveri e dall'altra i ricchi e i potenti), Meslier non coglie il ruolo che i gruppi borghesi nella loro ascesa stanno assumendo. Eppure e la borghesia che detta ormai le regale del gioco e queste condizionano visibilmente tutte le polemiche intorno all a religione e al cristianesimo. In un aforisma dei suoi Pensieri filosofici (1746) Denis Diderot* scrive: «Fu chiesto un giorno a un tale,
Denis Diderot nasce nel 1713 a Langres, nell'Alta Marna. Destinato al sacerdozio, studia nellocale collegia gesuitico e nel 1726 riceve la tonsura. Lasciata la via ecclesiastica, fa il precettore e l 'apprendista in uno studio legale. Stringe amicizia con Rousseau, Condillac e d'Alembert e quando, nel 1747, accetta l'incarico del libraio Le Breton per ridurre in francese la Cyclopaedia di E. Chambers, e nota per la sua attivita di traduttore (nel 1745 e uscita la sua traduziane del saggio Sulla virtu e il merito di Shaftesbury) e per aver pubblicato nel 1746 i Pensieri filosofici, condwwaLi a! raga dal parlamento. Nei tre anni successivi prepara, insieme a d'Alembert, il progetto ambizioso dell'Encyclopedie (8.3) e nella stessa tempo redige alcuni dei suoi scritti piu importanti, come il romanzo I gioielli indiscreti
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(1748), le Cinque memorie (1748) matematiche e la «Sovversiva» Lettera sui ciechi (1749). Vera professione di ateismo, quest'ultima gli costa, nel 1749, l 'arresto e, per tre mesi, il carcere nel castella di Vincennes. Oltre all a grande mole di lavoro svolto fino al 1766 per la grande impresa collettiva dei philosophes (stesura di oltre 1.500 articoli. rapporti con le autorita e con i collaboratori, supervisione della stampa e delle tavole tecniche relative alle arti e ai mestieri, per Ia cui realizzazione si servi ampiamente di artigiani e di operai), Diderot esprime in forma sempre piit compiuta la sua 'filosofia': rifleuendv sulla gesLUalita, Ia Lettera sui sordomuti (1751) esporze idee sulfa linguistica e sull 'estetica; i Pensieri sull'interpretazione della natura (1753) segnano l'abbandono del primitivo interesse per il rzewtonianesimo e l 'adesione ad una concezione materialistica della natura sorretta dalle nuove intuizio.ni delle 'scienze della vita'. Scrive due lavon· teatrali: II figlio naturale ole prove della virtu (1757) e Il padre di famiglia (1758), ispirati a modelli inglesi e a Goldoni e preceduti da acuti saggi teorici sulla poesia drammatica. Dopa il 1759, quando resta solo alla guida della Encvclopedie, frequenta sempre pii'l assiduamente il circolo del barone d 'Hoibach e cvllabora come critico d 'arte all a rivista Correspondance litteraire di M. Grimm. Sono di questi anni i due romanzi La religiosa (1760, pubblicato postumo nel 1796) e II nipote di Rameau (1761, inedito fino a[ 1821) nonche il Sogno di d' Alembert (1769, ma pubblicato nel 1782). NeZ 1765 Caterina di Russia acquista la biblioteca di Diderot lasciandogliene l'uso. In segno di gratitudine, si reca nel 1773-74 a Pietroburgo dove redige, su richiesta della zarina, numerosi progetti di riforme istituzionali. Sulla via del ritorno, soggiorna in Olanda, dove scrive la lunga Confutazione di Helvetius (1774) in cui dimostra la contraddittorieta di ogni determinismo totalizzante. A parte altri scritti e racconti minori, lavora anche, tra il 1773 e il 1775, al romanzo Giacomo il fatalista e al Supplemento al viaggio di Bougainville. L'appello per un 'etica antideterministica caratterizza anche la polemica contra La Mettrie, contenuta nell'ultima opera, il Saggio su Seneca e sui regni di Claudio e Nerone (1782). Muore a Parigi nel 1784.
se esistessero dei veri atei. Credete, fu la risposta, che esistano dei veri cristiani ?» Dietro il paradosso si cela un'intuizione che Diderot ha colto meglio di altri philosophes: tendenzialmente i valori borghesi sono anticristiani. Certamente l'Essere supremo dei deisti e piu consono ai nuovi tempi che non il Dio biblico. Se 1'animo piu retto - si legge in un altro aforisma dei Pensieri filosofisi dovesse basare sui ritratto che mi si fa deii'Essere supremo, sulla sua inclinazione alia collera, sui rigore delle sue vendette, su certi raffronti che ci esprimono in cifre il rapporto tra gli esseri che Egli lascia perire e quelli verso i quali Egli degna tendere la mano, esso sarebbe tentato di desiderare che Egli non esista. Si vivrebbe abbastanza tranquilli su questa terra, se si fosse abbastanza sicuri di non aver nulla a temere nell'altro mondo: il pen-
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siero dell'inesistenza di Dio non ha mai spaventato nessuno, rna piuttosto quello che ne esista uno simile al Dio che mi si dipinge.
Quando Diderot scrive i Pensieri filosofici e ancora deista; l'anno prima ha tradotto il Saggio sulla virtue il merito di Shaftesbury. Nel 1749, nella famosa Lettera sui ciechi, il suo deismo diventa aperto ateismo. Rifiutando, come Buffon, il modello meccanicistico della natura, incapace di spiegare i fenomeni della vita. il direttore dell'Encvclopedie elabora delle ipotesi 'trasformistiche' che non giustificano pili il Dio newtoniano dei deisti. L'ordine del cosmo e reale solo per coloro che vedono rna non per i ciechi; se quindi dipende dal funzionamento dei sensi del soggetto, non ha una realta oggettiva. La norma e il caos e l'ordine e l'eccezione; l'organizzazione biologica e dovuta a cause puramente meccaniche; bisogna supporre non un mondo unico rna una pluralita di mondL.. In questo quadro la contemplazione dell'organismo vivente, finora considerata una delle prove pili convincenti dell'esistenza di Dio, viene rovesciata e diventa un'argomentazione importante contro la verita di qualsiasi fede religiosa. Vedete quest'uovo?- si legge nel Sogno di d'Alembert (1761, inedito fino al 1782) - e con questo che si abbattono tutte le scuole di teologia e tutti i templi della terra. Che cos'e quest'uovo? una massa insensibile prima che il germe vi sia stato introdotto; e dopo che il germe vi e stato introdotto, cos'e altro? una massa insensibile, poiche questo germe stesso non e che un fluido inerte e grossolano. In che modo questa massa perverra ad un'altra organizzazione, alia sensibilita, alia vita? attraverso il calore. Chi produrra il calore? Il movimento ...
Ormai Diderot ha fatte proprie le osservazioni che nella Passeggiata della scettico (1747, inedito fino al 1830) aveva messo in bocca ad Ateo, Chi vi ha detto che l'ordine che ammirate qui non si smentisce in nessun punto? Vi e forse consentito di trarre coriclusioni, a partire da un punto dello spazio, allo spazio infinito? Riempi un vasto terreno di fango e macerie a caso, dove pen'> il verme e la formica trovano abitazioni comodissime. Che pensereste di questi insetti, se, ragionando col vostro metodo, si estasiassero dell'intelligenza del giardinier:e che ha disposto tutti quei materiali per Ioro?
La novita dell'ateismo di Diderot e che esso si innesta su una concezione materialistica ispirata aile nuove ipotesi «evoluzionistiche» e rende cosi superflua l'argomentazione classica delle cause finali. In parallelo all'ateismo materialistico di Diderot si muovono altri due autorevoli philosophes, fiancheggiatori dell'Encyclopedie: il medico La Mettrie ed Helvetius. Julien Offray de La Mettrie (8.10), che si dichiara seguace di Epicuro e di Lucrezio, sviluppa nell'Uomo-macchina e nell'Vomo-pianta (1748) una visione monistica della realta («nell'universo non v'e che una sola sostanza modificata») basata sull'intuizione, gia di Toland, che la materia abbia in se una «forza motrice>> che giustifica la gravitazione newtoniana e «tutte le leggi del
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moto». La Mettrie accantona ogni dualismo metafisico e in particolare l'opposizione cartesiana tra res cogitans e res extensa che, secondo lui, Cartesio avrebbe introdotto come mero «espediente stilistico» per «far sorbire ai teologi un veleno nascosto», l'introduzione cioe del meccanicismo come principia ermeneutico del comportamento degli organismi viventi. Anima e corpo «sono stati fatti insieme, nel medesimo momenta, con una sola pennellata»; tutta la materia, anche ai livelli piu bassi e inerti, e vivente e senziente; la concezione di un universo, la cui unita e costituita da una catena di esseri disposti gerarchicamente dal piu semplice al piu complesso (anche in La Mettrie, come in Digerot, e presente l'ipotesi di una evoluzione biologica della specie e dell'eliminazione selettiva degli individui piu deboli), non puo conservare nessuna idea di Dio. Quale assurdita vi sarebbe dunque nel pensare che vi sono delle cause fisiche in virtu delle quali tutto e stato fatto e aile quali tutta la catena di questo vasto Universo e cosi strettamente legata e sottomessa che nulla di cio che accade non potrebbe non accadere: cause la cui ignoranza assoluta e invincibile ci ha indotto a ricorrere a un Dio che non e neppure, secondo alcuni, un essere di ragione? Cosi, distruggere il caso non significa provare l'esistenza di un essere supremo, poiche puo esservi un'altra cosa, che non sarebbe ne il caso ne Dio, voglio dire la natura, il cui studio di conseguenza non puo fare che degli increduli, com'e provato dal modo di pensare di tutti i suoi piu felici scrutatori.
Nel suo capolavoro, Dello spirito (1758), Claude Adrien Helvetius (8.13) delinea una scienza dei giudizi e dei comportamenti morali allo scopo di costituire <>, non giovano in ogni caso alla «pubblica felicita>> e «fanno il supplizio di colora che ad esse si votano>>. Se l'ascetismo e negazione dell'umanita perche invita al disimpegno dagli «affari del mondo», la religione indebolisce sempre lo spirito pubblico perche insegna il disprezzo della vita terrena. Un'educazione e una legislazione razionale non possono non bandire Ia superstizione dei fanatici, di cui Helvetius vuol smascherare le complicita col potere politico. Se infatti le passioni e lo stesso esprit, in quanta attivita conoscitiva, dipendono dall'educazione, dai rapporti sociali e dall'abitudine, e possibile intervenire e modificare lo stato di cose esistenti. Ma mentre il curato Meslier invitava gli oppressi alia rivolta, Helvetius pensa
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quasi esclusivamente ad una «educazione eccellente» che «potrebbe moltiplicare all'infinito nei grandi imperi e i talenti e le virtu». A differenza di Voltaire, Diderot non ha fatto dell'anticlericalismo l'occupazione principale della sua vita e nutre palese simpatia per «gli atei veri», quelli, cioe, che «dicono con chiarezza che Dio non esiste e lo pensano». Eppure verso La Mettrie ed Helvetius Diderot none affatto tenero. Al primo rimprovera di aver macchiato l'ateismo con l'«impudenza di farsi apologeta del Vizio»: lo stoicismo di Diderot mal si concilia con l'Arte del godere (1751) e con !'AntiSeneca (1750) di La Mettrie. Alia confutazione di Helvetius e in particolare del suo Dell'uomo (1772) Diderot dedica nel 1773 un lungo scritto specifico, in cui disapprova l'eccessivo carattere sistematico delle tesi di Helvetius, sostiene la necessita di distinguere il sentire dal giudicare e critica l'insistenza sui determinismo sociale ed educativo, che sembra ignorare i dati forniti dalle scienze biologiche, per esempio sulla struttura del patrimonio ereditario. Diversa invece la valutazione del materialismo di d'Holbach, che e collaboratore assiduo dell'Encyclopedie ed intimo di Diderot, al quale chiede fra l'altro un'attiva collaborazione durante la stesura del Sistema della natura. In quest'opera gia ricordata (8.11) d'Holbach raccoglie e sviluppa in forma compiuta e coerente sia quanto e venuto formulando nei suoi numerosi interventi antireligiosi - famosi ll contagia sacra, ovvero Storia naturale della superstizione (1768) e il Cristianesimo svelato (1761), uno dei pamphlets anticristiani piu violenti del '700 - sia le principali argomentazioni elaborate dai critici della religione, da Lucrezio ai libertini francesi, ai deisti radicali inglesi. Nella seconda parte del Sistema (la prima e dedicata alla esposizione della visione materialistica della natura) d'Holbach esamina le origini della religione e poi della teologia, sviluppando i temi della paura e dell'ignoranza suggeriti dall'analisi critica di Hume. L'uomo e religioso perche e timoroso, teme perche e ignorante. Nonastante la varieta delle credenze e dei culti, la religione e una perche e comunque il frutto della proiezione dell'infelicita e delle paure degli uomini. Proprio perche e prodotta dalla paura, la divinita e necessariamente concepita come un essere crudele e secondo le deformazioni antropomorfiche che rispondono ai bisogni da cui e nata: un dio completamente diverso dall'uomo che senso e che utilita avrebbe? Constatando l'esistenza di popoli «atei», «troppo rozzi» per avere una religione, Bayle aveva elaborato la teoria dell'impostura (la religione sarebbe stata <> e su questa fonda l'universalita del fatto religioso. II consenso universale (non ci sono popoli atei) attesta al piu l'universalita dell'ignoranza e dell'insicurezza che hanno generato il fenomeno religioso e non puo essere addotto per provare Ia reale esistenza della divinita. Il ragionamento di d'Holbach sembra anzi opposto a quello di Bayle: quanto pili i popoli sono selvaggi, tanto pili sono inclini a farsi una religione. Seguendo ancora le intuizioni di Hume, egli sostine che i selvaggi dispersi degli inizi divinizzarono gli elementi e gli <<esseri materiali»; con l'avvento dei «legislatori>> e la comparsa delle divinita nazionali, in parallelo al costituirsi di societa stabili e or-
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ganizzate, si assiste alla prima sistemazione delle credenze in un contesto teologico. Se il monoteismo e il prodotto di una cultura piu progredita, e contraddittoria l'ipotesi deista della 'naturalita' di una religione razionale o morale: «la religione piu atroce fu Ia piu coerente>>! 9.10. II «Vero sistema» di Deschamps. La comparsa del Sistema della natura (1770) suscita clamorose polemiche e un diluvio di pamphlets. Spicca tra questi, per l'originalita dell'impostazione, La voce della ragione contra la ragione del tempo e precisamente contra quella dell 'autore del Sistema della natura (1770) che accusa l'ateismo «ignorante e senza principio» di d'Holbach di non essere adeguatamente giustificato sui piano metafisico e di proporre in definitiva una pericolosa quanto inutile rivoluzione che, per la mancanza appunto di una vera concezione metafisica, non riuscirebbe a scardinare lo «stato delle leggi divine e umane» e il «male morale>> che affliggono la societa presente. L'autore di quest'opera singolare, subito classificata dagli enciclopedisti tra gli scritti del partito devoto, accanto ai piu acerrimi loro avversari, e dom Deschamps (1716-1774), un benedettino del convento di Montreuil-Bellay. Nel 1769 egli ha dato aile stampe un altro opuscolo (sempre anonimo), le Lettere sullo spirito del secolo, che ha suscitato la reazione irata di Diderot per l'attacco violento ed intollerante che vi e contenuto contro i philosophes. In realta questo benedettino, protetto da nobili potenti, e un apostolo del materialismo e dell'ateismo; dal 1760 circa, e in contatto o in corrispondenza con i rappresentanti pili prestigiosi del partito dei 'lumi'; da anni lavora ad un'opera, il Vero sistema, in cui, senza celarsi dietro un linguaggio rispettoso dell'ordine (com'e invece accaduto nei due opuscoli ricordati), espone direttamente il suo messaggio segreto ed esoterico, rivolto finora alla sola setta massonica dei «Veggenti » che hail compito di preparare il terreno alla diffusione della Verita. Ai «mezzi lumi» dei philosophes e alla loro «filosofia distruttiva senza fondamento» Deschamps oppone il suo atheisme eclaire (ateismo Uluminato). Nella misura in cui si occupa delle leggi universali della natura (e non delle sole leggi del mondo fisico) il Sistema della natura di d'Holbach e un trattato di metafisica, rna di una metafisica che e senza principio: nega infatti Dio e al suo posto mette, senza meglio spiegarsi, la Natura «in grande, in totale, in se stessa». Meglio i dogmi della religione che un simile ateismo: per lo meno, attraverso }'idea di Dio, la religione ha mantenuto in vita nella storia una via d'accesso alia verita, all'idea del Tutto; questo ateismo invece rischia di ricondurre l'uomo allo stato primitivo. Attaccando infatti la religione come causa di tutti i mali presenti, gli atei finiscono col liberare l'uomo, o meglio i ricchi e i potenti, dai freni morali e dalla paura di Dio, col risultato di affidare la societa allo scontro degli interessi particolari e di scatenare gli egoismi piu sfrenati. I philosophes se la prendono con la religione (che non e causa, rna effetto) e non con le vere cause del male, che sono la proprieta e la legge, perche di fatto hanno l'intenzione di conservare e razionalizzare l'ordine attuale fondato sulle ingiustizie sancite dalla Iegge e dalla proprieta privata. Il Vero sistema fonda invece l'ateismo su una concezione metafisica che ripudia l'empirismo e il sensismo dominanti e tenta di individuare il «fondamento» delle cose attraverso una «grammatica metafisica».
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Deschamps si muove entro una prospettiva utopica: «Io parlo piu per gli uomini a venire che per gli uomini d'oggi; la verita rivelata infatti non puo avere un effetto cosi immediato come si desidererebbe». La societa ideale sta di fronte all'uomo, appartiene al suo futuro. Dallo «stato selvaggio>> allo «stato delle leggi» e da questo allo «stato dei costumi»: l'uomo e chiamato, per statuto ontologico, a compiere questo processo evolutivo. La societa attuale e ancora allo stato delle leggi, rna si muove inevitabilmente (le contraddizioni sempre piu stridenti attestano l'ascesa progressiva del male e l'inevitabile catarsi nella fase successiva, quella finale) verso lo stato dei costumi, dove l'assenza della proprieta e delle leggi permetteranno di convertire illavoro in gioco, di porre fi,ne alla politica e alla distinzione fra governanti e governati, in una parola, di realizzare integralmente la liberta dell'uomo. La religione, compreso il cristianesimo, e legata allo stato delle leggi: serve a sanzionare, con l'autorita di forze soprannaturali, i valori dominanti connessi alla proprieta e all'oppressione del potere politico. E dunque destinata a scomparire, una volta superato lo stato delle leggi. Convinto di possedere la verita, che .risolve «l'enigma metafisico e morale» della storia umana, Deschamps affida agli intellettuali del futuro il compito di diffondere la Verita e di guidare i popoli come i pastori guidano i greggi di pecore. Contrario sia al cristianesimo tradizionale sia all'ateismo degli intellettuali, che non giungono mai al proposito di sovvertire radicalmente le strutture sociali, il progetto utopico di Deschamps potrebbe ricordare, nella sua negazione integrale della societa contemporanea, il comunismo di Meslier. Ma mentre la vibrata protesta del curato di campagna nasce dal contatto quotidiano con la miseria dei suoi parrocchiani, la societa ideale di Deschamps (anarchica e comunista) sembra piuttosto i1 risultato di una riflessione che si e mossa entro gli ambienti colti dell'alta nobilta francese, in sintonia con gli ideali delle sette massoniche ed illuministiche. 9.11. Primato morale degli atei? Le argomentazioni addotte da Bayle e Shaftesbury intorno alia virtu degli atei (9.2) sono al centro del dibattito per tutto il '700. Gradualmente si fa strada l'idea che l'ateo e migliore non solo del superstizioso rna del credente stesso. La sua superiorita e garantita dalla mancanza delle motivazioni e dei pregiudizi che spingono di fatto all'intolleranza e, soprattutto, dalla laicizzazione della morale sociale, alla quale, come si e visto in Tindal, l'etica del Vangelo e nettamente subordinata. Non per nulla progressivamente viene meno la riserva mantenuta (sull'esempio di Locke) da Bayle, da Shaftesbury e anche da Toland, intorno al diritto della tolleranza civile che all'ateo non e riconosCiuto per ragioni di cautela e di opportunita. Quanto piu si affermano i valori etici del borghese, e in primo luogo il criterio dell'utilita sociale, tanto piu la virtu abbandona gli schemi teologici e l'ateo puo vantarsi di essere piu morale del credente. Ancora una volta il significato del processo in atto e messo in luce con maggiore evidenza dallo sguardo penetrante di Diderot. Diderot distingue gli «atei veri» dagli «scettici» (che «mancano di lumi», «non sanno pensare» e «deciderebbero volentieri a testae croce») e dai «fanfaroni del partito» che sono purtroppo i piu numerosi («vivono come se Dio non esistesse», gridano schiamazzando che Dio non esiste, rna
284 D 9- L'ateismo senza una «prova» e un «ragionamento conseguente>>). L'ateo vero merita, secondo Diderot, rispetto e stima, anzi, nella societa borghese, e moralmente superiore al credente: mentre il credente deve ammettere di «prestare a Dio a interesse» («dato che lo scopo e di agguantare il cielo per malizia 0 per forza, occorre mettere tutto in linea di conto, non trascurare alcun profitto») l'ateo da <> e non si attende nulla dalle buone azioni se non «la propria felicita su questa terra, d'essere un onest'uomo piuttosto che un furfante». n giudizio negativo riservato da Diderot agli atei «fanfaroni)) avrebbe certamente investito anche Donatien-Alphonse Francois de Sade (1740-1814) se questi non fosse nato, come scrittore, altro che nel 1782. Il «divino Marchese» e infatti il solo, assieme a La Mettrie, che predichi, nel corso del '700, l'ateismo indipendente dalla virtu e che individui la felicita sia individuale che collettiva in una permanente condizione di immoralita. L'8 dicembre · 1793 Sade e rinchiuso in carcere: il Comitato di salute pubblica sta accentrando tutti i poteri neUe proprie mani e Sade, sostenitore accanito dei sanculotti e della sovranita popolare, deve essere, come gli altri oppositori, neutralizzato o eliminato. Il governo rivoluzionario, preoccupato dalle conseguenze aperte dalla crescente scristianizzazione, sta anche per ristabilire la liberta dei culti, incluso quello cattolico, e Sade ha redatto di recente una Petizione contro il culto cattolico. Dall'altro lato, Maximilien Robespierre (1758-1794), la coscienza «incorruttibile» della Rivoluzione, e fedele ai prindpi della religione e della morale naturale, o meglio all 'idea di Dio, cosi «necessaria alla felicita» di cui parla Rousseau. La rivoluzione ha per Robespierre un'origine divina: il <>, rimane disgustato dal comportamento di chi, in nome della virtu, e pronto ad ammazzare «freddamente» chi non intende farsi spontaneamente virtuoso e dichiara amareggiato, dopo la scarcerazione: «Lamia detenzione nazionale, con la ghigliottina sotto gli occhi, mi ha fatto cento volte piu male di quanto me ne abbiano mai fatto tutte lebastiglie immaginabili».
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La religione del cuore 9.12. Tramonto del cristianesimo? La riflessione critica svolta dall'illuminismo sulla religione e sulle sue origini, sul cristianesimo e sull'interpretazione della Scrittura, sull'istituzione ecclesiastica e sui rapporti con lo Stato, non deve far dimenticare che le confessioni cristiane continuano ad assicurare all'Europa dei popoli la fisionomia tradizionale della vita comunitaria. Le contestazioni dei filosofi, degli storici e degli esegeti, le affermazioni degli atei e degli increduli (indubbio il loro carattere di eccezioni isolate) non possono e spesso, si e visto, non vogliono incrinare quell'insieme di istituzioni e di abitudini sociali che permette alla religione di affondare le sue radici nei meandri della mentalita collettiva. L'anticlericalismo degli intellettuali coincide forse con l'anticlericalisino degli Stati, che tentano di affermare la loro sovranita rifiutando qualsiasi ingerenza, rna in genere (l'Inghilterra non fa testo) l'opinione pubblica e meno interessata al dibattito teologico e culturale che non alle vicende politiche clamorose, come dimostra la passione con cui l'Europa segue, tra il 1755 e il 1765, il processo, l'espulsione e la soppressione dell'Ordine dei Gesuiti. Il declino delle istituzioni monastiche, di certe forme devozionali e alcuni segni di incipiente decristianizzazione a livello popolare (allentamento del rigore morale, minore partecipazione alla messa e ai sacramenti) dipendono in gran parte dalla priorita che la societa nel suo complesso assegna alle funzioni secolari e dall'accresciuto prestigio del laicato. In sostanza, l'Europa del '700 resta fondamentalmente «cristiana», anche se presenta importanti processi di rinnovamento. Un'utile conferma di quanto accade sul piano della riflessione, a livello di intellettuali, si ricava dalla letteratura « reazionaria» e dall'apologetica confessionale, soprattutto cattolica, che ha accorate espressio. ni sulle deviazioni filosofiche del tempo e non cessa di polemizzare contro l'edonismo dei costumi. I difensori dell'ortodossia, che non sempre sanno distinguere tra i pochi che negano il cristianesimo, o meglio il suo diritto di esistere, e i molti che negano il cattivo uso del cristianesimo, ribadiscono che la coscienza deve essere subordinata alla tradizione e all'autorita· .ecclesiastica e che se questa perde sempre piu la sua sovranita intellettuale e perche si affermano sempre piu i diritti della coscienza ribelle. Ma il fermento realmente innovativo che percorre la cultura del secolo e proprio la crescente consapevolezza che il fondamento dell'obbligazione religiosa risiede soltanto nella coscienza individuale e che quindi la salvezza e fuori della chiesa, nel fervore dei piccoli gruppi o nel rapporto diretto con Dio,. Le numerose tensioni che attraversano il mondo protestante e quello cattolico sul piano della pieta e della devozione, in opposizione spesso al Dio dei filosofi, rappresentano l'altra faccia del processo di trasformazione in atto. I capitoli piu significativi di questo risveglio della coscienza devozioriale sono: il pietismo tedesco, fondato da Ph.J. Spener (1635-1705), il metodismo inglese, avviato da John Wesley (1703-1791), il giansenismo francese e italiano, da Pasquier Quesnel (1654-1719) a Scipione de' Ricci (1741-1810), e quanto sopravvive, nel '700, del quietismo, dopo la condanna inflitta a Fran<;:ois Fenelon (16511715) nel 1699. Quel che accomuna, al di la delle molte diversita, questi movi-
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menti e la fedelta tutta interiore al Dio di Abramo, di Isacco e Giacobbe, nel senso dato da Pascal a questa espressione nella sua celebre dicotomia. Attaccata dal deismo, in nome del primato della ragione, la teologia e contemporaneamente ripudiata anche per il motivo opposto, per la sua pretesa, cioe, di voler ridurre Dio, che e al di la e al di fuori della presa della ragione, ad oggetto del discorso umano. Se il '700 abbandona gradualmente l'apologetica ecclesiastica trionfante (secondo il modello di Bossuet), Fenelon ha ancora la possibilita di penetrare nelle coscienze. 9.13. II neo-cristianesimo di Rousseau. Uno degli ammiratori pili entusiasti di Fenelon e del suo Telemaco e senza dubbio Jean Jacques Rousseau*: per
Jean Jacques Rousseau nasce a Ginevra nel 1712: la madre muore nel metterlo al mondo. II padre, orologiaio (! poi maestro di danza, stabilisce col figlio un rapporto denso di affetti e di letture; nel 1722, in seguito ad una lite con un patrizio, e costretto a fuggire e affida Jean Jacques ad uno zio che lo fa studiare presso un pastore di Bassey. Nel 1724 e messo a bottega presso un incisore di Ginevra, dove rimane fino a sedici anni, quando inizia Ia sua vita di vagabondaggio. Ospitato da Madame de Warens (chiamata nelle Confessioni 'Maman }, una dama svizzera convertita da poco al cattolicesimo, Jean Jacques stabilisce con questa matura signora un 'intensa relazione filiale, che nel 1734 si muta in accesa passione amorosa. Nel 1728 la Warens lo manda a Torino, dove frequenta un corso per catecumeni e a malincuore si converte al cattolicesimo. Sono anni di grande irrequietezza; Jean Jacques viaggia molto, esercita numerosi mestieri (fra cui quello di maestro di musica), fa letture e studi incostanti, litiga piu volte con la protettrice-amante, fino alla rottura del 1738. NeZ 1740 e a Liane, precettore in casa del magistrato Mably, e scrive il Progetto per l'educazione di Madame de Sainte-Marie. NeZ 1742 tenta l'avventura parigina, fa il copista di musica e scrive un progetto riguardo ai nuovi segni per la musica; ass unto dall 'ambasciatore francese a Venezia, lo segue nella sua sede diplomatica, rna, dopa un litigio, nel 1744 torna a Parigi. Conosce una cameriera d'albergo, Therese che diverra sua sposa, e stringe amicizia con Condillac e con Diderot, che nel1749 gli affidera il compito di redigere per l'Encyclopedie le voci musicali e la voce <<Economia politica» (1754). Nel 1750 e premiato dall 'Accademia di Digione per il Discorso sulle scienze e le arti, che segna gia la sua distanza dai philosophes, e che improvvisamente lo rende famoso. Jean Jacques non approfitta della notorieta, si ritira in una soffitta e decide di vivere con i soli proventi del suo lavoro di copista di musica. NeZ 1754 compone il Discorso sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza fra gli uomini; si reca a Ginevra, e riammesso nella chiesa calvinista e reintegrato, con tutti gli onori, nei diritti di citoyen. Nel 1756 si trasferisce all'Ermitage, una casetta nel parco della Chevrette, presso Parigi, ospite di Madame d'Epinay. Dopa la rottura definitiva con il partito dei philosophes, segnata pubblicamente dalla Lettera a
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d'Alembert sugli spettacoli (1758), in una situazione di grande isolamento intellettuale, Rousseau attende alle sue opere maggiori: Giulia o la nuova Eloisa (1761), Emilio, o dell'educazione (1762) e Il contratto sociale (1762). Mentre il romanzo ottiene un grande successo, ['opera pedagogica e quella politica scatenano violente reazioni da parte delle autorita politiche ed ecclesiastiche di Parigi e di Ginevra, che obbligano Rousseau a cercar rifugio ora in un luogo ora in un altro. Nel 1766 e a Londra, ospite (ma per pochi mesi) di David Hume. Nel 1770 si stabilisce di nuovo a Parigi. Oltre agli scritti autobiografici compone le Considerazioni sul governo della Polonia (1771-2) e nel 1774 riprende a comporre musica. Muore improvvisamente nel 1778.
convincersene, basta leggere la Professione di fede del vicario savoiardo (1761) inserita nel IV libro dell'Emilio. Rousseau vi espone il frutto delle sue meditazioni in materia religiosa, con l'intenzione di contrapporsi all'ateismo militante dei philosophes e degli enciclopedisti, dai quali si e staccato con grande ciamore nel 1758, anche se il dissenso nei loro confronti :dsale almeno al 1751. Anzi, a ben guardare, i termini del contrasto sono gHt detti chiaramente in un testo anteriore al 1745, in cui Rousseau tiene a distinguersi anche dal deismo e dallo scetticismo. Necessari sono i libri religiosi, i soli che non ho mai condannato (...) ll filosofo che s'illude di penetrare nei segreti di Dio, osa congiungere la sua pretesa saggezza alla saggezza etema: approva, biasima, impone leggi alla natura e limiti alla divinita (... ) Le scienze oggi fioriscono; la letteratura e le arti brillano tra noi; rna che profitto ne ha tratto la ragione? Chiediamolo a questa folla di filosofi che si vantano di esserne privi.
Ma veniamo alla Professione che Rousseau fa pronunciare all'educatore religioso del giovane Emilio, un prete cattolico («nato povero e contadino>>) che si e dovuto rifugiare in Italia a causa di alcune noie col vescovo della sua diocesi savoiarda. ll vicario si presenta come un esponente della non-cultura («sono uomo ignorante, soggetto all'errore», «io, uomo semplice e vero»), una sorta di Socrate redivivo che fa del «saper di non sapere» la condizione preliminare per vincere la boria delle scienze, delle arti e della filosofia («l'orgogliosa filosofia mena allo spirito forte, cosi come la" devozione cieca mena al fanatismo»). Noi non abbiamo la misura di questa macchina immensa (...), ignoriamo noi stessi (... ); dei misteri impenetrabili ci circondano da tutte le parti (... ); per squarciarli crediamo di avere dell'intelligenza, e non abbiamo che dell'immaginazione (...) noi vogliamo penetrare tutto, conoscere tutto (... ) Preferiamo rimetterci al caso, e credere quello che none, piuttosto che confessare che nessuno di noi puo vedere quello che e. Piccola parte di un grande tutto i cui confini ci sfuggono, e che il suo autore abbandona alle nostre pazze dispute, noi siamo abbastanza vanitosi per voler decidere cosa sia questa tutto in se stesso, e cio che noi siamo per rapporto ad esso.
288 0 9- La religione del cuore La dotta ignoranza garantisce e protegge l '«ingenuita» necessaria per ascottare e dare voce alia «coscienza», al «sentimento» e al «cuore», che costituiscono l'unico parametro di giudizio su cui il vicario insiste fin dalle prime battute del suo lungo discorso. Figlio mio, non vi aspettate dame ne discorsi sapienti ne profondi ragionamenti. Io non sono un gran filosofo e mi curo poco di esserlo. Ma ho talvolta del huon senso e amo sempre Ia verita. Non voglio argomentare con voi e neppure tentare di vincervi; mi basta di esporvi quello che penso nella semplicita del mio cuore. Consultate il vostro cuore durante il mio discorso: e tutto cio che vi chiedo.
Su questa premessa metodologica generale il vicario sviluppa una serie di riflessioni che approdano ai seguenti «dogmi>> o «articoli di fede>>: 1) «Credo che una v.olonta muova l'universo e animi la natura>>, 2) «se la materia mossa mi mostra una volonta, la materia mossa secondo certe leggi mi mostra una intelligenza>>, 3) «l'uomo e libero nelle sue azioni e, come tale, animato da una sostanza immateriale>>. Da questi tre articoli di fede sene possono dedurre altri: la Provvidenza ha fatto l'uomo libero mettendolo in grado di scegliere tra il bene e il male; il male «che l'uomo fa ricade su di lui senza cambiar nulla nel sistema del mondo, senza impedire che la stessa specie umana si conservi a proprio dispetto». Dato che «!'anima e immateriale, essa puo sopravvivere al corpo>>, Ia sua immaterialita giustifica la Provvidenza: infatti quanta piu rientro in me, tanto piu mi consulto e tanto piu leggo queste parole scritte nella mia anima, ossia «sii giusto e sarai felice». Senza la speranza in una vita futura come potrei spiegare «il trionfo del cattivo e l'oppressione del giusto in questa mondo?>>. Il modo di procedere nel determinare ognuno di questi dogmi e conforme alla premessa e, pur riecheggiando e avendo presente l'intero dibattito filosofico del secolo, Rousseau si appella alla forza del «sentimento>>. Registriamo, a titolo esemplificativo, i passaggi dal prima al secondo dogma. Io esisto come essere senziente, la causa e l'oggetto delle mie sensazioni sono fuori di me, quindi esistono altri esseri o (come vuole Berkeley) altre idee che «non sono io>>; riflettendo sugli oggetti delle mie sensazioni «mi sento dotato di una forza attiva che non sapevo di avere prima>>. Passando a cio che e fuori dime e che chiamo «materia>>, mi accorgo che il suo «stato naturale» e «di essere in riposo>>: mentre infatti «i movimenti degli animali sono spontanei >> (se me ne domandate il perche «vi diro che lo so perche lo sento>>), il moto della materia e «comunicato>> e niente (ne l'intuizione lockiana della materia pensante, ne l'ipotesi dei biologi sulla molecola vivente, ne la nuova ipotesi materialistica sul mondo grande animale che si muove da se stesso) puo vincere la mia «persuasione interiore)) che Ia materia e «materia sparsa e morta>> che «riceve il niovimento e lo comunica, rna non lo produce>>. Tutto poggia, come poi nella kantiana Critica della ragion pratica (12.12-16), sulla forza dell'evidenza interiore, sui diritti di quella «Coscienza>> a cui Rousseau eleva, proprio in questa testa, un commosso inno di lode.
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Coscienza! coscienza! istinto divino, voce immortale e celeste; guida sicura di un essere ignorante e limitato, rna intelligente e libero; giudice infallibile del bene e del male che rendi l'uomo simile a Dio! Sei tu che fai l'eccellenza della sua natura e la moralita delle sue azioni; senza di te non sento niente in me che mi elevi al di sopra delle bestie, se non il triste previlegio di smarrirmi di errore in errore, con l'aiuto di un intelletto senza regola e di una ragione senza principio. Grazie al cielo, eccoci Iiberati da tutto questo spaventoso apparato di filosofia: dispensati dal consumare la nostra vita nello studio della morale, abbiamo con minima spesa una guida piu sicura in questo dedalo immenso delle opinioni umane.
Se oggi la coscienza non e intesa da molti europei, e perche «parla il linguaggio della natura» e i rumori della civilta hanna soffocato questa voce. Conforme ai principi della religione naturale, la religione del vicario non ammette i «dogmi particolari» introdotti in aggiunta dalle religioni storiche ne le lora sterili diatribe teologiche, cosi come esclude la mediazione ecclesiastica («Quanti uomini fra Dio e me! Io adoro la potenza suprema e mi intenerisco sui suoi benefici. Non ho bisogno che II"~;i si insegni questa culto, esso mi e dettato dalla natura stessa») e naturalmente il «vela» della sapienza consegnato ai libri («Ho dunque chiuso tutti i libri. Ce n'e uno solo, aperto agli occhi di tutti, ed e quello della natura»). Voi trovate in quanto ho detto solo una religione naturale. :E. molto strano che ce ne voglia un'altra!
Alla stregua del deismo piu aggressivo, Rousseau sviluppa in alcune pagine una serrata polemica contra il cristianesimo, contra i miracoli, contra l'intolleranza propria di qualsiasi religione che si crede privilegiata da una rivelazione. Cia nonostante, ad un certo punta, la professione del vicario diventa «cristiana». Vi confesso che la maesta della Sacra Scrittura mi lascia attonito, che la santita del Vangelo parla al mio cuore. Guardate i libri dei filosofi con tutta la loro pompa, come son piccoli al suo confronto! Puo un libro a un tempo cosi sublime e cosi semplice essere opera degli uomini? Puo colui di cui si narra essere egli stesso un uomo e nulla piu? (...) Si, se la vitae la morte di Socrate sono di un saggio, la vita e la morte di Gesu sono di un Dio (... )
Il Vangelo e Gesu possono frapporsi tra noi e Dio perche permettono di cogliere la verita in maniera immediata. Rousseau non accenna alla morte di Gesu per affermare, come fa la teologia cristiana, il valore di mediazione e di riparazione rappresentato dal Cristo nell'opera salvifica con cui Dio e voluto intervenire nella storia degli uomini. Non per nulla, il paragone e con Socrate: due morti esemplari e quella di Gesu e piu grande per la solitudine e la sofferenza che l'hanno segnata. Prima ch'egli (Socrate) avesse definito Ia virtu, Ia Grecia abbondava di uomini virtuosi. Ma dove Gesu aveva preso presso i suoi questa morale ele-
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vat a e pur a di cui egli solo ha dato le lezioni e l 'esenipio? Dal seno del piu furioso fanatismo, la piu alta s,aggezza si fece intendere e la semplicita delle piu eroiche virtu onorc) il piu vile di tutti i popoli. Lamorte di Socrate, filosofando tranquillamente con i suoi amici, e la piu dolce che si possa desiderare; quella di Gesu, spirante fra i tormenti, ingiuriato, deriso, maledetto da tutto un popolo, e la piu orribile che si possa temere.
Nella misura in cui e indifferente verso i dogmi della religione ufficiale ed accentua il carattere 'sentimentale' dell'adesione a Dio, avversando il clero e qualsiasi mediazione razionale, il neocristianesimo di Rousseau e piu vicino al pietismo e al metodismo che non aile tesi di Voltaire e del deismo moderati, colpevoli di troppi compromessi con la filosofia e con la scienza del tempo. Del resto, allo stesso Voltaire Rousseau aveva chiarito la peculiarita della sua posizione in una bella lettera scritta nel 1756 a proposito delle amare irrisioni con cui, dopa il disastro di Lisbona, Voltaire aveva attaccato l'ottimismo della teodicea leibniziana. Credo in Dio cosi fortemente come credo in ogni altra verita, perche credere e non credere sono le cose che meno dipendono da me: lo stato di dubbio e troppo insopportabile per lamia anima, e quando lamia ragione e indecisa, la mia fede non puo restare a lungo in sospeso, rna si decide senza di essa (... ) Tutte le sottigliezze della metafisica non mi faranno dubitare un istante dell'immortalita dell'anima e di una provvidenza benefica. La sento, la credo, la voglio, la spero e la difendero sino al mio ultimo respiro.
Non e forse paradossale che proprio mentre Voltaire attacca un elemento centrale del credo illuministico, Rousseau, cosi critico verso il suo tempo, si schieri dalla parte di chi non mette in dubbio la giustizia e la benevolenza di Dio? II paradosso e spiegato dallo stesso Rousseau verso la fine della letter a a Voltaire: Non posso evitare di notare, signore, un contrasto davvero singolare tra voi e me sull'argomento di questa lettera. Pieno di gloria ... voi vivete libero in mezzo all'abbondanza; certo della vostra immortalita andate tranquillamente filosofeggiando sulla natura dell'anima, e se il vostro corpo e il vostro cuore soffrono, avete Tronchin come medico e amico. Nonostante questo, voi vedete solo male sulla terra. Mentre io, un uomo oscuro, povero e tormentato da una malattia incurabile, medito felice nel mio ritiro e trovo che tutto e bene. Qual e la fonte di queste apparenti contraddizioni? Voi stesso avete dato la risposta: voi godete la vita, mentre io ;;pero, e la speranza abbellisce ogni cosa.
Tornando alla Professione, non possiamo tacere le affermazioni conclusive del vicario, la dove recupera il valore delle «religioni particolari» definite «istituzioni salutari che prescrivono in ogni paese una maniera uniforme di onorare Dio con un culto pubblico». Questa sensibilita verso gli aspetti istituzionali della religione e confermata d:Hl'ultimo capitola del Contratto sociale (11.10), dove Rousseau tratta dei rapporti tra religione e ordinamento politico. Egli distingue tre specie di religione: quella degli uomini («o il Cristianesimo,
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non quello d'oggi, rna quello del Vangelo, che e del tutto differente>~ perche e puramente interiore e non ha «alcuna relazione particolare col corpo politico»), quella dei cittadini (che «e buona in quanto riunisce il culto divino e l'amore delle leggi», rna «e cattiva in quanto essendo fondata sull'errore e sulla menzogna essa inganna gli uomini ») e quell a de if· preti (che <<e cosi cattiva che e voler perdere il tempo divertirsi a dimostrarlo»). Accanto, dunque, al cristianesimo evangelico del vicario, il Contratto sociale propene di riconoscere l'importanza di una <> caratterizzata da pochi dogmi, «semplici >> ed «enunciati con precisione senza spiegazioni ne commentari >>: L'esistenza della Divinita potente, intelligente, benefica, previdente e provvidente, la vita a venire, la felicita dei giusti, il castigo dei malvagi, la santita del Contratto sociale e delle Leggi: ecco i dogmi positivi. Quanto ai dogmi negativi io mi limito a uno solo: e l'intolleranza; essa rientra nei culti che noi abbiamo esclusi.
Religione del cuore e religione civile appartengono ad un unico progetto che, come si legge nella quinta delle Lettere dalla montagna, vuole <
292 0 9- La religione del cuore Paolo oppose la vera sapienza di Dio all a falsa sapienza dei filosofi ateniesi, cosi Hamann contrappone se stesso e il linguaggio apparentemente oscuro della fede, agli illuministi del suo tempo. L'albero della conoscenza - si legge in una lettera a Jacobi - ci ha privata dell'albero della vita.
Mentre la coscienza e il sentimento di Rousseau non cedono quasi mai alla tentazione dell'irrazionalismo, Hamann esalta cia che sta al di sopra della ragione, rna anche cio che appartiene allato oscuro, demoniaco della personalita umana {di qui l'appellativo di 'Mago del Nord' datogli dai contemporanei). L'elemento divino none monopolio dellinguaggio biblico, rna e presente anche nel linguaggio umano quando questo e prodotto dal <
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lui, infine, c'e pur sempre il Cristianesimo, ch'egli sente cosi vero, in cui si sente cosi felice. Quando il paralitico esperimenta le benefiche scariche dell'elettricita, che gli importa se ha ragione Nollet o Franklin, oppure nessuno dei due?». Per Lessing e fondamentale sottolineare la funzione educatrice e pratica delle religioni storiche e recuperarne il valore sui piano storico. In altre parole, la religione e «educazione» dell'umanita, e questo processo di crescita spirituale si snoda lungo la storia dell'umanita. Criticare una religione positiva in modo radicale e 'astratto', se questa non ha ancora esaurito la sua funzione pedagogica (di commuovere gli uomini e di insegnare loro ad agire moralmente), e un errore grave, mentre diventa opportuno e necessaria quando la superstizione soffoca nel formalismo delle pratiche esteriori la vitalita e la efficacia morale del messaggio rivelato. II processo educativo del genere umano si puo suddividere in tre grandi «momenti», commisurati al grado di cultura e al tipo di rapporti sociali e civili dei popoli. II primo «momenta» e quello attestato nel Vecchio Testamento: gli uomini, ancora allo stato ferino, sono spinti ad obbedire alla volonta divina «mediante castighi e premi immediati, sensibili». II secondo «momenta» e incentrato nel Nuovo Testamento e nella figura di Gesu, «il primo attendibile maestro pratico dell'immortalita dell'anima>> e della remunerazione nella vita futura. Nella terza fase, quella del «Vangelo eterno», trionfera la pura religione razionale: l'uomo cerchera il bene disinteressatamente, senza attendersi alcuna ricompensa ne terrena ne ultraterrena. Anche se non sapessimo da Jacobi che }'ultimo Lessing si dichiarava, in privata, spinoziano, vediamo bene come, a differenza di Rousseau e di Hamann, Lessing rimanga nell'orbita dei 'lumi'. Tuttavia la sua concezione di un emergere progressivo della verita attraverso il divenire storico, che permette di rivalutare (rna relativizzandole) le religioni positive e illoro compito pedagogico, smantella, di fatto, alcuni presupposti importanti del pensiero illuministico, anticipando il romanticismo.
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Sommario. La fortuna di un'opera come il Dizionario storico-critico di Bayle attesta I 'interesse profondo dei 'lumi' verso la storia. Alle radici di questo interesse sta una nuova coscienza antropologica, che riconosce, immanente a! processo storico, il cammino faticoso dei valori e della cultura umana (10.1). Ne e conferma il rilievo eccezionale che Ia storia assume nel pensiero di Vico: un pensiero che si pone consapevolmente in antitesi a! razionalismo meccanicistico e aile sue conseguenze perniciose sui piano etico e religioso (10.2). Dopo aver tentato di elaborare, con il De antiquissima /talorum sapientia. un sistema filosofico alternativo (10.3), Vi co si concentra tutto sulla Scienz.a nuova, a cui e approdato grazie a! criteria baconiano del verum-factum, applicato al mondo umano, aile sue istituzioni e produzioni culturali (10.4). La 'storia ideal eterna' scandisce, secondo un ritmo triadico, il cammino percorso dall'umanita per uscire dalla ferinita primitiva e, grazie all'aiuto della Provvidenza divina, organizzare Ia civilta (10.5), che non e comunque una conquista definitiva e che, secondo Ia teoria dei corsiricorsi, puo regredire a forme di barbarie (10.6). A questa figura ciclica della storia, i 'lumi' replicano con l'immagine lineare dell'indefinita perfettibilita umana. La tesi del cartesiano de Fontenelle sui progresso scientifico indefinito (10.7) e Ia fiducia utopica dell'abate di Saint Pierre nel progresso generate della societa umana (10.8) costituiscono illuogo di nascita della moderna idea di progresso. II disegno di una storia universale, vista come graduale progredire della ragione umana verso una sempre maggiore perfezione, ispira i lavori storici del giovane Turgot (10.9). Alia sua concezione si contrappone Ia filosofia della storia di Herder, che imbastisce Ia polemica anti-illuministica sulle intuizioni vichiane e sulle proposte dello Sturm und DranJ;, aperte all'irrazionalismo (10.10). All'indomani delle due grandi rivoluzioni politiche di tine secolo, l'Abbuzzo di Condorcet ripropone Ia tesi, cara ai philosophes, che il progresso storico coincide con la graduale rna ineluttabile vittoria dei 'lumi' sull'ignoranza e sulla disuguaglianza neUe !oro varie forme (10.11). II pregiudizio di origine idealistica, che contesta all'illuminismo Ia mancanza di senso storico, non appare fondato. II Settec_ento e caratterizzato in realta da una notevole rivalutazione della storia che, coadiuvata dalla filosofia, costituisce un campo di concreta applicazione dell'esigen.:>:a riformatrice dei 'lumi' (10.12). Le fortunate opere storiche di Voltaire, Montesquieu, Hume, Gibbon e Ferguson attestano, in misura diversa, l'abbandono della storia diplomatica e militare e Ia scelta di nuovi settori di indagine, quali !'esprit di un'epoca o di una nazione e Ia storia delle istituzioni e della societa civile (10.13). Anche sui piano della consapevolezza metodologica le scienze storiche compiano, specialmente in Germania, significativi progressi, assicurando aile singole discipline uno spessore piu consistente e nuove prospettive di sviluppo (10.14).
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10.1. La coscienza storica nel Settecento. Una nuova coscienza antropologica matura nel corso del Settecento: l'asse dell'esistenza individuale e collettiva, che finora era assicurato dal rapporto col divino, e sempre piu orientato verso la storia. II sensa dell'esistenza, finora collocato nell'aldila, e ormai posto nell'aldiqua. II destino dell'individuo e dell'umanita si gioca nella temporalita. Attenuatosi il riferimento alla trascendenza, immobile e definitiva, si tenta di ricostruire nell 'immanenza il cammino dei valori, si scopre anzi che i valori e le verita umane sono il frutto di un faticoso cammino storico, di una latta ingaggiata dall'uomo con la naturae con se stesso. Nella misura in cui si riconduce ogni individuo ed ogni popolo in seno all'umanita, l'epoca della filantropia e del cosmopolitismo coltiva e sviluppa la curiosita storica e colloca nella dimensione storica le linee dell'avvenire. Convinti che l'umanita abbia raggiunto l'eta della ragione, gli intellettuali vogliono prendere coscienza del cammino percorso. A conferma della fortuna della storia nel secolo dei 'lumi', si possono citare alcuni indizi 'esteriori'. L'andamento della produzione libraria registra un netto calo delle pubblicazioni teologiche ed un contemporaneo incremento dei libri di storia, che dal 10% della produzione complessiva dell'inizio del secolo passano al 15% circa di fine secolo (rna in Germania, trail 1769 e il 1771, rappresentano oltre un quinto dell'intera produzione). Oltre allo straordinario successo editoriale dei capolavori storiografici di Montesquieu, Voltaire, Hume e Gibbon, la prospettiva storica trionfa in qualsiasi trattazione; nell'Encyclopedie circa 6.000 articoli, un decimo del totale, si possono definire storici; nella Germania del 1780-90 circolavano 131 periodici di carattere storico. L'interesse del Settecento per la storia non e in contrasto con il culto illuministico della ragione. Non e forse vero che uno dei testi sacri dei 'lumi' e proprio il Dizionario Storico-critico di Pierre Bayle (9.2), l'opera che piu di ogni altra ha insegnato il primato dellibero esame nei confronti della tradizione? Progettato, fin dal 1690, come «dizionario critico che contenesse una raccolta degli errori commessi tanto da colora che han fatto dei dizionari quanta da altri scrittori», il capolavoro di Bayle fu pubblicato in due volumi a Rotterdam (1695 e 1697) e poi, con numerose aggiunte e correzioni, in tre volumi ad Amsterdam (1702). Trail 1684 e il 1686 Bayle aveva dichiarato piu volte che non e possibile districare la verita storica dal groviglio di passioni, di pregiudizi e di menzogne in cui qualsiasi avvenimento storico si trova avviluppato. Nonostante questa professione di pirronismo storico, che ricorda Montaigne e Charron, Bayle decide di dedicarsi, col suo Dizionario, all'impresa, forse impossibile, di accertare la verita dei fatti attraverso il vaglio delle fonti e l'adozione generalizzata di un metoda storico-critico rigoroso. Per non insospettire gli editori, affida quasi esclusivamente aile note l'energica requisitoria contra le illusioni, gli errori, le furbizie e i delitti di cui gli uomini (e non solo gli storici) si sono macchiati nella storia.
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Ne risulta un'opera che di fatto considera la storia umana un oggetto degno di indagine scientifica e contesta l'opinione, dominante nel Seicento, che riconosce solo alla matematica e alla fisica la dignita di scienze in grado di consegnare conoscenze certe. Come qualsiasi altra indagine razionale, la storia non tollera le interferenze delle preoccupazioni religiose ed estende il metodo storico-critico anche ai testi sacri. L'obiettivo e quello di disingannare gli uomini e di demolire i falsi edifici eretti sulle menzogne, pur sapendo che neppure cosi la contraddittorieta dell'esistenza umana e superabile: In breve, la sorte dell'uomo e cosi disgraziata che le cognizioni che lo liberano da un male lo precipitano in un altro. Cacciate l'ignoranza e la barbarie, distruggerete cosi le superstizioni e la stolta credulita del popolo, tanto utile ai suoi capi, i quali abusano del loro potere per sprofondarsi nell'ozio e nelle dissolutezze; rna, rivelando agli uomini tali disordini, ispirerete loro il desiderio di tutto esaminare; essi indagano e sottilizzano talmente, che non trovano piu nulla che appaghi la !oro miserabile ragione.
Pagato questo tributo al pirronismo, Bayle procede deciso nella sua opera di demolizione, convinto che valga comunque la pena, sia per amore della verita sia per il bene morale che la critica storica puo promuovere, conservando viva la «memoria di tutti gli spaventosi disordini (... ) e mali» che hanno afflitto il passato. Per cogliere il significato della lezione di Bayle e utile forse ricordare che il suo capolavoro e di poco posteriore al famoso Discours sur l'histoire universelle (1681) di J.B. Bossuet, l'opera che ha segnato l'apice e il tramonto della teologia della storia. Il precettore del Delfino aveva preteso di delineare la storia «universale>> in funzione del trionfo «universale» della chiesa cattolica, limitandosi alia storia del bacino del Mediterraneo (e poi a quella dell'Europa occidentale) e assumendo, come limite cronologico invalicabile, Carlo Magno, dato che la storia successiva (Islam, fallimento delle crociate, la Riforma) mal si concilia con le premesse. Non c'e dubbio che, agli occhi dei non pochi eredi settecenteschi di Bossuet, il Dizionario di Bayle dovesse apparire un pericolosissimo veicolo di 'incredulita'. 10.2. Vi co: Ia polemica antirazionalistica. E stato detto, e con fondatezza, che Bayle ha suscitato la Scienza nuova di Giambattista Vico*. Anche ammettendo che il filosofo napoletano non lo avesse letto direttamente, e fuor di dubbio che il sostenitore della 'repubblica degli atei' costituisce (insieme ad Epicuro, Machiavelli, Hob5es e Spinoza) uno degli obbiettivi polemici, dichiarati o sottintesi, di molte pagine della Scienza nuova. Anche per Vico, Bayle e, tutto sommato, il «porco dell'armento epicureo», come piu tardi lo definira Agatopisto Cromaziano, un singolare letterato (1716-93) a cui si deve, fra l'altro il primo tentativo italiano di scrivere una storia della filosofia. Del resto, per tutto il '700 Vico e quasi sempre citato in funzione anti-Bayle. La loro scelta di campo e in realta nettamente diversa: se si eccettua una sua breve giovanile deviazione «lucreziana», Vico si mantiene fedelissimo ai poteri costituiti e si considera sempre custode geloso dell'ortodossia cattolica.
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Giambattista Vico ha raccontato, «da filosofo» e non da storico, la sua vita. Modellata sul cartesiano Discorso del metodo, l'Autobiografia (1725, ma nel 1731 segue un'Aggiunta) presenta alcuni errori e diversi 'aggiustamenti' a posteriori. Terz 'ultimo di otto figli, Giambattista nasce a Napoli nel1668, nella famiglia di un povero libraio di origine contadina. Scolaro dei gesuiti, si dedica agli studi logici, metafisici e letterari. Il padre lo vuole uomo di legge e Giambattista si iscrive all'universita, ma preferisce studiare da se («autodidascalo») le istituzioni di diritto civile e canonico. Le precarie condizioni economiche della famiglia lo spingono ad accettare il posto di precettore presso una nobile famiglia (a Napoli, a Portici e, piu a lungo, a Vatolla, nel Cilento), dove rimane per nove anni, fino al 1695. Come attesta la canzone Affetti di un disperato (1692), il giovane Vico e influenzato dal pessimismo lucreziano e dalla tematica dell 'epicureismo, leg at a a Gassendi e alla nuova fisica, che proprio a Napoli stanno incontrando un terreno fecondo di sviluppi. Rimasto forse colpito dal processo intentato contra i· «novatori» e gli «ateisti», Vico chiude rapidamente su questa debolezza giovanile, di cui, non a caso, l'Autobiografia non fa parola. Rientrato a Napoli, si impegna in una attivita esclusivamente umanistica: da rlpetizioni di retorica e di grammatica, compone su commissione discorsi, orazioni ed epigrafi in latina, attivita che non abbandonera neppure dopa che, nel 1699, ottiene la cattedra di eloquenza all'universita di Napoli (la modesta retribuzione universitaria non gli bastera per mantenere la famiglia, nel frattempo messa su, che in breve tempo si popolera di ben otto figli). · Appartato ed estraneo alia cosa pubblica, Vico non abbandona comunque gli studi filosofici ed affida il frutto delle sue riflessioni alle orazioni inaugurali pronunciate all 'inizio dell'anno accademico: nell'unica da lui pubblicata, De nostri temporis studiorum ratione (1708), difende, contra cartesiani e portorealisti, i valori della poesia, della fantasia, dell'eloquenza e della retorica. Nel 1710 da alle stampe il De antiquissima Italorum sapientia, dove !a polemica contra il cogito cartesiano si traduce nell 'individuazione di un nuovo 'sistema'. Solo nella tarda maturita Vico si fa consapevole di avere scoperto, nel sapere storico, un mondo nuovo. Decisivo, in questa processo di maturazione, l'incontro con il De jure belli et pacis di Ugo Grozio, letto piu volte tra il 1714 e 1716. Oltre 20 anni dura la tormentata elaborazione della Scienza nuova: dal cosiddetto Diritto universale (1720-1) alia Scienza nuova in torma negativa (inedita ed ora perduta); dai Principi di una scienza nuova d'intorno alla natura delle nazioni, pubblicati a spese dell'autore nel 1725, alia cosiddetta Scienza nuova seconda, edita nel 1730, sempre a sue spese, e al costante lavoro di correzione e limatura, che approda alia Scienza nuova terza, apparsa pochi mesi dopa la morte di Vico (1744). L'unico segno di riconoscimento gli viene nel 1735, quando e nominata, dal nuovo re Carlo di Barbone, <
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La sua formazione culturale, basata in gran parte su testi seicenteschi. edinatura giuridico-retorica, un'erudizione, a prima vista, arretrata e provinciale (Vico non conosceva le lingue straniere), che di fatto costituisce un efficace antidata contra l'accettazione acritica della filosofia cartesiana e ispira la geniale alternativa alia scienza contemporanea che Vico riesce ad elaborare. La prolusione universitaria del 1708, De nostri temporis studiorum ratione (ll metoda degli studi del nostro tempo), segna la prima tappa di questa alternativa: allo studio della natura Vico oppone le scienze morali e alia scienza matematica della natura lo studio della storia, del diritto, della politica e delle altre arti necessarie al vivere civile. Vico si richiama anzitutto a Bacone, che e uno dei suoi quattro <> e, dopo il 1716, Grozio. Lo sperimentalismo di Bacone hail merito di aver messo in luce i limiti della conoscenza umana («in verita, ogni cosa che ci e dato sapere e, alIa guisa dell'uomo, finita e imperfetta>>) e di avere assegnato al sapere lo scopo di apportare miglioramenti effettivi all'uomo. Una cultura che non realizzi la dignita e la felicita dell'uomo non segna un momenta di progresso nella conoscenza. Il confronto tra studi umanistici e studi scientifici va condotto nell'ottica didattica entro cui si muove la critica al razionalismo cartesiano e al metoda geometrico, ritenuti colpevoli di perseguire unicamente il <>, senza nulla concedere al probabile e al verosimile, propri invece dell'eloquenza (che ha il fine di rendere il vero comuriicabile e quindi comprensibile), della retorica e della poesia. La pretesa di Cartesio (rna anche della logica di Port Royal) che la matematica sia l'unico sapere sicuro e l'ipotesi falsamente accreditata che si possa costruire una fisica a priori, come dire una scienza matematica della natura, impediscono ogni sviluppo aile scienze morali ed entrano pericolosamente in concorrenza con Dio e con le verita della Rivelazione. Questi dotti affermano che la fisica, da essi insegnata secondo il metodo geometrico, e la natura stessa e che in qualunque modo tu ti volga a considerare l'universo sempre ti troverai di fronte a questa fisica (... ). Ma qualm-a la natura sia costituita diversamente, qualora sia falsa una sola delle regole del moto - per non dire che se n'e rivelata falsa non una soltanto - stiano attenti, stiano davvero bene attenti a non trattare con troppa sicurezza la natura (...) In realta queste cose di fisica, che sono presentate come vere, non sono se non verisimili e traggono dalla geometria il metodo, non la dimostrazione; noi dimostriamo le proposizioni geometriche perche le facciamo; se potessimo dimostrare quelle della fisica le faremmo. Ma soltanto in Dio ottimo massimo sono le vere forme delle cose sulle quali e modellata la natura di queste. Lavoriamo dunque alla fisica, da filosofi, vale a dire moderiamo il nostro animo; in cio saremo superiori agli antichi, giacche essi coltivavano questi studi per contendere empiamente in felicita con gli dei; noi al contrario lo faremo per umiliare lo spirito umano; investighiamo pure il vero, del quale tanto siamo desiderosi; rna quando non lo troviamo, questo stesso desiderio del vero ci conduca a Dio ottimo massimo che e, egli solo, verita e via alla verlta.
In questa brano, che non lascia dubbi sulle preoccupazioni religiose del
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suo autore, e adombrato il criteria del verum-factum (identita del vero con il fatto; si puo conoscere soltanto cia di cui si sia autori) che sara il motivo dominante del De antiquissima ltalorum sapientia e la premessa indispensabile della Scienza nuova. Sostenere che la geometria o la matematica sono scienze perche siamo noi che «facciamo» le «proposizioni geometriche», mentre non e possibile una scienza della natura appunto perche non siamo stati noi a crearla, non e una novita. Formulazioni analoghe si trovano in Hobbes e Gassendi e appartengono comunque alla cultura scientista dei «dotti» contra cui si volge Vico. La sua originalita sta, come si Iegge nella Scienza Nuova, nell'aver trasportato il metoda sperimentale «dalle cose naturali alle umane cose civili», nell 'aver posto il criteria del verum-facturrz a fondamento della filologia e della storia. Consapevole che gli eccessi analitici del metoda cartesiano, oltre a conculcare i diritti della fantasia e del linguaggio simbolico, sono in realta impotenti a cogliere le 'ragioni del cuore' o la complessita del vivere politico, Vico rivendica la ricchezza e Ia peculiarita irriducibili di tutto quel mondo che presuppone il libero arbitrio dell'uomo e non e quindi suscettibile di certezza assoluta ne si piega alla «necessita» della dottrina cartesiana. Tutta la seconda parte della prolusione, dedicata in larga misura all'esame della «prudenza» (intesa come capacita di pervenire alla verita nascosta nel cuore umano e nelle motivazioni che guidano l'azione umana), e ispirata dal proposito di richiamare l'attenzione sullo stato di abbandono in cui versano le scienze morali e in particolare <
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dei «punti metafisici» e l'analisi psicologica fondata sulle tre «poten'ze>> dell'uomo. II fatto che in Iatino verum e factum «hanna rapporto di reciprocita, o, per usare un vocabolo vulgato nelle scuole, 'si convertono'», cela la verita che solo Dio, facitore o creatore dell'universo, ha conoscenza piena (intelligentia) della realm. La scienza consiste, infatti, «nella cognizione della genesi delle case, cioe della guisa in cui esse si vengon facendo». L'uomo e dotato di ragione (ratio significa, in Iatino, «tanto il calcolo aritmetico quanta Ia facolta, che, peculiare all'uomo, lo discril;nina dai bruti»} e puo intelligere soltanto i numeri e gli enti matematici, che sono fatti dal soggetto umano. Viceversa, nei confronti della natura e costretto alla cogitatio («i latini dicevano 'cogitare' cio che noi, in volgare, 'pensare' e 'andar raccogliendo'»), ad una conoscenza imperfetta e limitata alle apparenze delle cose, che verte sui nomi e non sulle case, su enti arbitrariamente costruiti e non su enti reali. (...)criteria e norma del vero e l'averlo fatto; e, conseguentemente, !'idea chiara e distinta, nonche delle altre verita, non puo essere criteria nemmeno della mente che !a concepisce; giacche, nel conoscere se stessa, !a mente non fa se stessa e, non facendo se stessa, ignora !a genesi di questa sua co· noscenza, o, ch'e il medesimo, !a guisa con cui si produce quest'atto cognitivo. D'altra parte, poiche !a scienza umana e frutto eli un'astrazione, tanto meno le scienze saranno certe quanta piu esse si immergeranno nella materia corporea. La meccanica sara meno certa della geometria e della aritmetica (... ); !a fisica meno certa della meccanica (... ).
II criteria del verum-factum permette anche di confutare il cogito cartesiano: anche lo scettico «non dubita di pensare» e di esistere, tuttavia «sostiene che la sua certezza di pensare non e scienza, rna coscienza, vale a dire una cognizione volgare che si rinviene in qualunque illetterato (... ); lo scettico, insomma, pur avendo coscienza di pensare, ignora le cause del pensiero». La rispo~ta allo scetticismo non e data dal cogito cartesiano, rna dal porre Dio come «prima vero», come «comprensione delle cause, nella quale sono contenute tutte le guise, ossia tutte le forme delle cose ». La critica di Vico investe anche la riduzione cartesiana della materia ad estensione e l'atomismo: la materia e vista come apparenza fenomenica, manifestazione di un prindpio dinamico nascosto. In contrapposizione alia nuova fisica, di cui rifiuta esplicitamente il principia di inerzia e le leggi del moto, Vico propane, sotto il patrocinio di Zenone d'Elea, Ia dottrina dei «punti metafisici», che apparentemente puo ricordare Leibniz (7 .1 0), rna che forse deriva ..... dalla tradizione neoplatonica e dal vitalismo tardo-rinascimentale. La natura non e composta di atomi, quantitativamente omogenei, rna di centri di forza immateriali, i «punti metafisici», appunto, che sono animati dal conatus o «Virtu indefinita di muovere» eccitata da Dio. Nella natura esistono cose estese: prima che essa fosse, esisteva, repugnante a qualunque estensione, Dio: dunque, tra Dio e le cose estese esiste qualcosa di media, inesteso senza dubbio, rna pur capace di estensione, ossia precisamente i punti metafisici. (...) Da un lato, quiete, conato, moto; dall'altro, Dio, materia, corpo esteso. Dio, motore di tutte le cose, sta immo-
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to in se stesso; la materia e premuta da conati; i corpi estesi si muovono e, come il moto e un modo d'essere del corpo e la quiete un attributo di Dio, cosi il conato e una qualita del punto metafisico; e come il punto rnetafisico e la virtu indefinita dell'estensione, per cui esso sottosta egualmente a estesi diseguali, cosi il conato e la virtu indefinita del muovere, che esplica egualmente moti diseguali.
AI di la delle argomentazioni, a volte tortuose e non sempre perspicue, e evidente che il tentative di spiritualizzare la natura e dettato, in Vico, dall'esigenza di battere il meccanicismo seicentesco ed approda ad una posizione che tenta di far convivere soluzioni scolastico-tomiste e sperimentalismo baconiano. Vico stesso sottolinea gli obiettivi e la natura composita della sua metafisica: Eccoti una metafisica compatibile con l'insufficienza umana, la quale non ci consente ne ci nega la conoscenza di tutte le verita, rna la limita a talune; una metafisica adatta alia fede cristiana, come quella che distingue il vero divino da quello umano, e, lungi dal prendere la scienza umana quale norma di quella divina, fa l'inverso: una metafisica posta a servigio di quella fisica sperimentale, che, con tanto vantaggio del genere umano, vien coltivata ai giorni nostri: con tanto vantaggio, in quanto, per virtu di essa, noi non riteniamo vero in natura se non quello di cui, per mezzo di esperimenti, riusciamo a fare un quissimile.
L'ultima parte del De antiquissima presenta una dottrina psicologica che distingue !'anima (materiale e meccanica) dall'animo (principia di movimento, che ha sede nel cuore e non nella «glandola pineale») e dalla mente (spirituale e divina). Segue una rapida analisi delle facolta - senso, memoria, fantasia, ingegno ed attivita intellettiva (percezione, giudizio, raziocinio)- per poi concludere con Dio che con un cenno, ossia facendo, vuole e col fari (col dire), cioe con !'ordine esterno delle cause, 'fa': ch'e cio che noi, nella nostra ignoranza, chiamiamo 'causa', e riferendoci al nostro tornaconto, 'fortuna'. -
10.4. La storia come scienza. Abbandonato quasi subito il progetto del sistema filosofico, !'interesse di Vico si concentra, dopo il 1716, sui problemi del diritto e della storia. La lezione del De jure belli et pacis di U. Grozio, letto e riletto trail 1714 e il 1716, lo spinge a riconsiderare come centrali alcune intuizioni della prolusione del 1708 e a riflettere su queste per quasi trent'anni. La difesa appassionata dei diritti della fantasia e della poesia e la scoperta della storia come scienza, della cui certezza e garante il principia del verum-factum, si concretizzano nella prospettiva, intravista trarnite Grozio (6.3), di una umanita ferina e primitiva, in preda al senso e alla fantasia, che poi nel corso della storia ha dato vita agli ordini civili. L'autore del mondo umano, del linguaggio, dei miti, delle istituzioni e delle leggi, e senza dubpio l'uomo; e possibile, dunque, e legittima la sua intelligentia; la storia puo costituire una scienza, una «scienza nuova», di cui appunto tratta il capolavoro di Vico: Principj di
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una scienza nuova d'intorno alia comune natura delle nazioni (5 libri, scritti, a differenza delle due opere finora citate, in volgare). Ma, in tal densa notte di tenebre ond'e coverta la prima da noi lontanissima antichita, apparisce questo lume eterno, che non tramonta, di questa verita, la quale non si puo a patto alcuno chiamar in dubbio: che questo mondo civile egli certamente e stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perche se ne debbono, ritruovare i prindpi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana.
La storia diventa scienza se non si limita ad essere una mera congerie dei fatti, rna cerca di spiegarli da un punto di vista universale, e determina la Iegge di sviluppo delle «faccende» umane, descrivendo «una storia ideal eterna, sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni ne' loro sorgimenti, progressi, stati. decadenze, e fini ». Con gli intellettuali del suo tempo (si pensi, per esempio, a Hume) Vico condivideva il sogno di estendere la dignita scientifica al mondo umano, rna, a differenza dei suoi contemporanei, assume ad oggetto della sua riflessione la totalita delle creazioni umane, cercando di scoprire come questa si sia venuta articolando e svolgendo nel corso del tempo. Il mondo in cui gli uomini vivono non coincide con l'universo di Galileo e Newton, rna puo essere davvero conosciuto se, al di la del confuso intreccio dei fatti storici, si spiegano la genesi e l'evolversi della societa umana e delle sue produzioni culturali. Per dare alla storia dignita di scienza, occorre superare il dualismo tradizionale tra filosofia, o «scienza del vero», e filologia, o «coscienza del certo» (o meglio, di cio che del passato e accertabile). Una volta che la filologia, con i procedimenti critici di cui dispone, ha accertato i fatti dei popoli («cosi in casa, come sono i costumi e le leggi, come fuori, quali sono le guerre, le paci, le alleanze, i viaggi, i commerci»), interviene la filosofia, che rintraccia i principi della <>, il diritto e il costume morale sono prodotti storici, a cui la ragione umana e pervenuta dopo essere uscita dalla barbarie delle origini, grazie anche alla collaborazione della Provvidenza divina. La mente umana, con le sue <<modificazioni », indica la chiave di lettura delle origini e dell'intero sviluppo storico. Non e forse vero che <
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sono destinate a passare: l'eta degli dei, l'eta degli eroi e l'eta degli uomini. La prima eta, «tutta fiera ed immane», e dominata da una «natura poetica» che conferisce «a' corpi l'essere di sostanze animate di dei» e sta a fondamento dei miti religiosi primitivi (prodotti dai «poeti teologi»): l'uomo ha una conoscenza imperfetta delle cose, teme profondamente gli dei e fonda le prime comunita tribali, definite «monastiche» per la natura teocratica del governo e del diritto. Nell'eta degli eroi, l'uomo progredisce nella riflessione, il diritto si fonda sulla forza e si costituiscono governi eroici o aristocratici (esemplificati dai poemi omerici). L'eta degli uomini corrisponde allo stadio pili elevato di civilta: insieme al pensiero filosofico, compare Ia codificazione legislativa, dettata «dalla ragione umana tutta spiegata>>, e nei governi «umani», subentrati ai domini signorili, «tutti si eguagliano con le leggi». Abbandonati i criteri ermeneutici dell'erudizione e del r'azionalismo del '600, Vico interpreta in modo radicalmente nuovo le «favole» e i miti, che costituiscono la parte fondamentale delle culture primitive e che non possono essere compresi se si persevera nell'illusione di trovarvi una «Sapienza riposta» e nel postulato dell'originaria eta dell'oro, e neppure se si assume un atteggiamento liquidatorio di sprezzante antistoricismo. Se si confronta la posizione di Vico con le affermazioni di Hobbes, che liquidava le dottrine sbagliate come invenzioni arbitrarie fatte per ingannare gli uomini, o con le tesi semplicistiche dei liberi pensatori e dei deisti radicali, che nelle favole antiche vedevano il frutto dell'impostura sacerdotale, emerge vigorosamente la novita della ricostruzione storica del pensatore napoletano. Le dottrine sbagliate e le favole sono forme distorte della realta, corrispondenti a un livello inferiore dello sviluppo storico, una forma primitiva, rna necessaria, di conoscenza da cui ha avuto inizio la scienza. 10.5. La sapienza poetica. La straordinaria intuizione che ispira il secondo libro (il pili ampio) della Scienza Nuova, interamente dedicato allo studio della «Sapienza poetica», consiste nell'avere inteso il mito (identificato con la poesia) come manifestazione spontaneamente animistica, propria di una «Vasta immaginazione», estranea aile sottigliezze astratte e spiritualizzate, e nell'avere rivendicato la piena autonomia e dignita sia del mondo primitivo che del mondo del fanciullo. Un'altra intuizione fondamentale e che nel mito (rna anche nella riflessione filosofica) si riflettono i rapporti sociali (e i loro contrasti) dell'epoca storica corrispondente: i miti di Cadmo, Tantalo, Sisifo raffigurano simbolicamente la dipendenza dei plebei dai patrizi, dei famuli dai signori e le diverse forme della miseria della schiavitli; analogamente, i «principi di metafisica, di logica, di morale» espressi da Aristotele «uscirono dalla piazza d'Atene». Le varie nazioni si sono costituite, secondo Vico, in epoche molto diverse le une dalle altre, altrimenti non si potrebbe spiegare perche molti popoli extraeuropei del sec. XVIII siano ancora a un livello 'selvaggio'. Il fatto e che gli uomini non sono sempre vissuti in societa e hanno conosciuto un periodo pili o meno lungo di «erramento ferino>>. Riallacciandosi alla tradizione epicurea, Vico indugia nel descrivere la vita dei «bestioni» primitivi che, ignari di matrimoni e sepolture, vivono oppressi da una grande indigenza materiale, privi di ogni Iegge e anche del linguaggio articolato. Comunque, in questo stato di ab-
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brutimento animalesco, gli uomini sono caduti, sostiene Vico, dopa il diluvio universale, con cui Dio puni tutti (tranne gli ebrei, che sono appunto il popolo eletto) per la lora empieta. Duecento anni dopa il diluvio, «il cielo finalmente folgoro, tuono con folgori e tuoni spaventosissimi ,, ed i giganti, «attoniti dal grand'effetto di che non sapevano Ia cagione, alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo>>. Fu la Provvidenza divina che risveglio in lora il timore di un nume superiore e desto cosi la lora umanita. lnsieme al sentimento religioso, che sotto le forme del politeismo dette vita agli altari, ai matrimoni e alle sepolture, nacque Ia societa, quello stadia delle «famiglie>> a regime patriarcale che caratterizza l'eta degli dei. Vico non manca di sottolineare come questa ricostruzione delle <>. (... ) la natura loro era (... ) d'uomini tutti robuste forze di corpo, che, urlando, brontolando, spiegavano le lora violentissime passioni; si finsero il cielo essere un gran corpo animato (... ) e si incominciarono a celebrare la naturale curiosita, ch'e figliuola dell'ignoranza e madre della scienza, la quale partorisce, nell'aprire che fa della mente dell'uomo, la meraviglia (... ).Tal generazione della poesia ci e finalmente confermata da questa sua eterna propieta: che la di lei propia materia e l'impossibile credibile.
Oltre ad offrire un esempio del singolare periodare, ampio e sostenuto (complicato da latinismi, da arcaismi e da ardite metafore), con cui Vico conferisce alle sue affermazioni un tono di solennita adeguato all'importanza della «discoverta» di cui la Scienza nuova da l'annuncio, questa lunga citazione chiarisce bene Ia concezione vichiana della poesia. Parlando di «Sapienza poetica>> e qualificando come poetica la metafisica, la logica, Ia morale, l'«iconomia», la politica, la fisica, l'astronomia dei primitivi, Vico vuole cogliere ll tratto peculiare della cultura (in sensa antropologico) dei primitivi, ed imposta correttamente la ricostruzione delle 'origini' esaminando i «rottami» del passato, pervenutici come documenti di una umanita profondamente diversa da quella attuale. La tesi del carattere 'barbarico' della poesia sta a fondamento dell'esaltata ammirazione dei poemi omerici, della «discoverta del vera Omero>> (il terzo libra della Scienza nuova illustra la soluzione della questione america, indicando l'origine anonima e popolare dei due poemi nella «Sapienza volgare de' po-
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poli della Grecia, prima poeti teologi e poscia eroici »), delle considerazioni sulla poesia di Dante (espressione della «barbarie ritornata>> nel Medioevo) e del rifiuto nei confronti del classicismo e delle poetiche intellettualistiche del tempo. 10.6. I corsi e ricorsi della storia. La «storia ideal eterna>>, delineata dalla Scienza nuova come modello e norma ideale a cui necessariamente si uniforma il corso di ogni nazione, si articola nelle tre eta, o «tre speciali unita», che <> degli epicurei (e di Hobbes), accusati ambedue di essere «filosofi monastici e solitari». L'opzione vichiana per i platonici e giustificata, invece, dal fatto che le lora dottrine («che si dia provvedenza divina, che si debbano moderare le umane passioni e farne umane virtue che le anime umane siano immortali>>) riescono a rendere canto della svolgimento storico. E grazie alla provvidenza divina che i vizi originari dell 'uomo («ferocia, avarizia, ambizione ») anziche distruggere «l'umana generazione sopra la terra» ne fanno «Ia civile felicita». La provvedenza divina (...) e una divina mente legislatrice la quale delle passioni degli uomini, tutti attenuti alle ]oro private utilita, per le quali viverebbono da fiere bestie dentro le solitudini, ne ha fatta gli ardini civili per li quali vivana in una umana sacieta (... ) Perche pur gli uamini hanna essi fatta questa manda di naziani (... )rna egli e questa manda, senza dubbia, uscita da una mente spessa diversa ed aile valte tutta cantraria e sempre superiare ad essi fini particalari ch'essi uamini si avevan prapasti; quali fini ristretti, fatti mezzi per servire a fini piu ampi, gli ha sempre adaperati per canservare I 'umana generaziane in questa terra.
In virtu di questa ruolo di guida che la Provvidenza svolge nei confronti delle azioni umane, la storia diventa «una teologia civile della provvedenza divina>>. · Se la «storia ideal eterna» si puc considerare un processo di ricongiungimento al divino, realizzato in virtu dell'aiuto della grazia divina, che soccorre il debole libero arbitrio dell'uomo, si tratta pur sempre di un processo non univoco ne lineare. II quadro della storia universale si puc condensare nella sintetica constatazione che «prima furono le selve, dopa i tuguri, quindi i villaggi, appresso fe citta, finalmente l'accademie>>. Questa «corso», inevitabile nelle sue fasi, non esclude l'eventualita di un «ricorso>>, la possibilita cioe che, una volta pervenuta all'eta adulta della ragione, una nazione precipiti di nuovo nella barbarie e debba ricominciare il cammino verso la civilta. Non e un destino ineluttabile, rna si verifica ogni volta che gli egoismi individuali disgregano il tessuto della comunita: come successe nel Medioevo. Senza dunque coincidere con il determinismo naturalistico, proprio, ad esempio, di Machiavelli, la dottrina v.ichiana dei ricorsi storici, che pur si ispira alia concezione
306 D 10 - L 'idea di p rag resso classica dei 'deli storici', intende sottolineare Ia fragilita dell'edificio civile e razionale (mai realizzato definitivamente) e conferma l'opportunita dell'intervento della Provvidenza, l'intrinseca banta dei suoi «consigli» e degli «ineffabili decreti della sua grazia». L'identita fra Iegge storica e divina provvidenza permette, comunque, a Vico di affidare agli uomini il compito eterno di instaurare un ordine temporale giusto. Nella misura in cui si propane di scoprire il sensa della storia e di enunciare le leggi da seguire per realizzare nel mondo il senna e la ragione (che non sono dati a priori, come per il deismo, ne tanto meno in modo definitivo), la Scienza nuova puo essere considerata la prima filosofia della storia. E vera che a volte, nel parlare della Provvidenza come della «regina delle. faccende degli uomini», Vico sembra indulgere alla propria fede religiosa che postula un fine di salvazione divina della storia, rna e altrettanto vera che altre volte sembra anticipare cio che Hegel chiamera «l'astuzia della ragione>>, e la sua Provvidenza appare piuttosto come la Iegge mediante cui gli uomini sono indotti a formare la societa e a produrre cultura. La singolarita del pensiero di Vico, che contrasta con i valori pili diffusi nel secolo dei 'lumi' rna ne condivide alcune aspirazioni fondamentali, che e legato ad una formulazione culturale prevalentemente arretrata ed isolata, eppure anticipa genialmente concezioni fatte proprie dai secoli successivi, e ampiamente confermata dalle vicende della sua fortuna. Anche per l'oscurita della stile, che raggiunge spesso una liricita superiore a gran parte della produzione poetica coeva, e per l'insopprimibile componente religiosa. che non puo essere considerata mero infingimenlo diplomatico, il pensiero di Vico (che pure fu ammirato da Goethe e da Herder) non si integra col patrimonio comune della cultura europea del Settecento. Recuperato nell'eta del romanticismo, da allora, tra entusiastiche rivalutazioni ed incomprensioni, fraintendimenti e vivaci polemiche, Vico sara considerato un precursore dai filosofi delle pili diverse tendenze.
L'idea di progresso 10.7. Fontenelle: il progresso della conoscenza. Lo schema vichiano dei corsi-ricorsi e diverso dalla concezione della storia come sviluppo progressivo che }'Europa illuminista sembra largamente prediligere. Alia figura circolare del ritorno, la nozione di progresso oppone l'immagine lineare dell'indefinita perfettibilita umana. L'eta dell'oro non e pasta pili aile origini, rna nel futuro che gli uomini so no chiamati a costruire. Se si eccettuano le posizioni di Epicuro e Lucrezio, che sostenevano il graduale perfezionamento dell'umanita, l'antichita greca e romana era stata dominata dalla concezione platonica della storia, considerata come un decadimento della perfezione originaria, e comunque era vissuta sotto la disciplina
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di un ordine statico, animato tutt'al piu dal divenire illusorio dell'eterno ritorno. Nell'eta medioevale il pensiero cristiano, erede della agostiniana Cittit di Dio, vide nella storia una successione di avvenimenti finalisticamente ordinati dalla provvidenza divina, rna, legato com'era alia dottrina del peccato originale e ad un sostanziale pessimismo sulle possibilita dell'uomo, non riusci a cogliere il carattere progressivo del divenire storico umano. Gli inizi dell'idea di progresso coincidono con la nascita della filosofia modema, con la Nuova Atlantide di Bacone (4.10) e le sue affermazioni circa la funzione pratica della scienza, strumento fondamentale dell 'ormai prossimo regnum hominis sulla natura. Nella misura in cui l'occidente prende coscienza del potere che l'uomo ha di trasformare l'ordine planetaria, si fa strada l'idea che l'umanita e in cammino e che il miglioramento delle sue condizioni di vita dipende dal progredire della conoscenza scientifica. · La prima formulazione moderna del concetto di progresso si trova, comunque, nella Digressione sugli antichi e sui moderni (1688) con cui Bernard LeBovier de Fontenelle (1657-1757) intervenne nella annosa 'querelle' sulla superiorita degli antichi o dei moderni. Questo opuscolo vuole dimostrare la superiorita dei moderni sulla base dei principi cartesiani dell'immutabilita dell'ordine naturale, non soggetto ad interventi provvidenziali, e della perenne identita della natura umana. Proprio perche la natura e sempre uguale a se stessa ed agisce con la stessa intensita in qualsiasi periodo storico, i moderni si possono solo avvantaggiare di quanto gli antichi hanno scritto e scoperto. Illuminati dalle loro opinioni giuste e da queUe sbagliate («siamo obbligati agli antichi per aver esaurito quasi tutte le false teorie che si potevano formulare>>), i moderni sono inevitabilmente superiori agli antichi negli studi scientifici. Lo stesso vale per Cartesio e gli scienziat'i del tempo, che, secondo Fontenelle, sono destinati ad essere superati dai posteri, e cosl. via, in un processo «che non ha fine». Diverso e invece il caso della poesia e dell'eloquenza, che dipendono dalla «vivacita dell'immaginazione». Rappresentando lo sviluppo dell'umanita alla stregua della vita di un individuo, Bacone e Pascal avevano definito i moderni come l'eta adulta dell'uomo e gli antichi la sua infanzia. Nel recuperare questa metafora, Fontenelle mette in guardia dall'inferenza baconiana che vede l'umanita contemporanea sulla soglia della vecchiaia: Quest'uomo non avra vecchiaia; sara sempre ugualmente capace delle cose aile quali era adatta Ia sua giovinezza e lo sara sempre di piu di quelle che convengono all'eta virile, cioe, per uscire dall'allegoria, gli uomini non degenereranno mai e le idee giuste di tutti gli spiriti colti si aggiungeranno sempre le une aile altre.
La Digressione di Fontenelle intende abbattere l'ossequio all'autorita della tradizione e vuole gettare le basi di una storia della ragione e delle sue conquiste, da contrapporre a una storia delle illusioni e degli errori dell'umanita (Fontenelle scrisse una Storia degli oracoli e un Dell'origine delle favole). Vi e infatti esposta una teoria che pone il progresso della conoscenza nella prospettiva di un futuro indefinito e lo considera come necessaria e certo. Nella con-
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sapevolezza (comune anche a Voltaire e Hume) cne !a pertettibilita della specie non coincide quasi mai con la perfettibilita degli individui, che anche nel futuro piu radioso continueranno a compiere errori, Fontenelle dispiega la sua fiducia ottimistica nelle possibilita conoscitive della specie umana. La scienza progredisce grazie a un'accumulazione di conoscenze che l'umanita ammassa nel tempo: un capitale che non dipende dalla genialita di particolari individui e che nessun evento potrebbe rimettere in discussione. Se Cartesio non fosse nato, qualcun altro avrebbe compiuto la sua opera: C'e un ordine che regola il nostro progresso. Ogni scienza si sviluppa dopo che si sono sviluppate altre scienze preliminari e non prima; per uscire dal guscio, deve aspettare il suo turno.
10.8. L'abate di Saint Pierre: il progresso generale dell'uomo. Alia stessa cerchia di intellettuali e di ferventi ammiratori di Cartesio (i salotti di famose nobildonne parigine) frequentata da Fontenelle, apparteneva anche l'abate di Saint Pierre (1658-1743). Scrittore politico autorevole, Saint Pierre dedico gran parte della sua vita a escogitare e ad illustrare progetti ingegnosi (schemi di riforma del governo, dell'economia, delle finanze, dell'istruzione ...) volti ad accrescere la felicita dell'uomo. Imbevuto delle idee di Bayle e influenzato dal deismo inglese, fu fermamente convinto che il governo e le leggi fossero onnipotenti nel form are o riformare un popolo, che Ia forza della ragione urn ana si imponesse di per se e che quindi i progetti di riforma, per il solo fatto di essere razionali, riuscissero a persuadere i governanti e a diventare operativi. Come ebbe a osservare Rousseau, Saint Pierre nutriva una fiducia ingenua, sapeva vedere bene i risultati dei suoi progetti, «rna la scelta dei mezzi da adottare per arrivare a quei risultati era infantile». II secolo di Luigi XIV, esaltato da Voltaire nei suoi splendori, gli apparve come un'epoca dominata dall'ambiziosa politica guerresca del re Sole e dalla miseria che sempre consegue dal male assurdo della guerra. Presente al congresso di Utrecht (1712) come segretario del Cardinale di Polignac, !'abate elaboro, per l'occasione, il famoso progetto di «pace perpetua» per l'Europa, che in seguito rimaneggio piu volte. Questo piano intendeva offrire garanzie agli Stati europei peril mantenimento dello status quo ed esigeva l'abbandono della guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali. A questo scopo, i sovrani europei dovevano dar vita ad una !ega che istituisse un tribunale a cui affidare la soluzione delle divergenze, un congresso permanente, ad Utrecht o in altra citta Iibera, che favorisse i contatti tra gli Stati membri della lega, ed una forza militare internazionale capace di piegare eventuali nazioni ribelli. II progetto non era il primo del genere. Quasi un secolo prima, l'oscuro monaco parigino Emeric Cruce (ca. 1590-1648) aveva elaborate un progetto simile su scala universale, esteso anche a turchi, persiani e tartari. Quello di Saint Pierre aveva comunque il pregio di concretizzare le aspirazioni pacifiste in una prospettiva di progresso generale, non circoscritto, come in Fontenelle, al settore scientifico-intellettuale. Come infatti si Iegge nelle Osservazioni sul continuo progresso della ragione universale (1737), lo sviluppo della «ragione
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umana universale» (l'espressione e di Cartesio) e un processo di lungo termine, costantemente in ascesa, verso l'obiettivo ultimo, che e il conseguimento della felicita privata e pubblica. Riprendendo il paragone tra storia dell'umanita e vita di un individuo, Saint Pierre sostiene che l'uomo attuale (che non ha forse pili di 7.000 - 8.000 anni di storia) e soltanto «nell'infanzia della ragione umana»; tra 5.000-6.000 anni entrera nella sua prima giovinezza e, quando sara nella vecchiaia, sara ancora (a differenza dell'individuo) pili saggio e pili felice. Negli ultimi due secoli il progresso della conoscenza ha subito un'accelerazione notevole, sia in virtu dell'espansione del commercio sui mari (che ha prodotto pili ricchezza, e pili ricchezza permette a un maggior numero di persone di dedicarsi agli studi), sia grazie alia fondazione delle accademie scientifiche, all'invenzione della stampa e all'uso crescente delle lingue nazionali, .che hanno favorito lo scambio delle scoperte e delle acquisizioni scientifiche. Allo sviluppo delle conoscenze non ha corrisposto un'analoga crescita nella morale e nella felicita generale: uomini di genio come Cartesio e Newton non vi si sono dedicati a sufficienza, nell'erronea convinzione che le scienze fossero pili utili dell'etica e della politica. Gli ostacoli che impediscono il cammino della umanita verso la felicita non sono, comunque, irremovibili: la superstizione e sempre pili abbandonata; le guerre potrebbero scomparire, se si adottasse il progetto di «pace perpetua>>; le incertezze e i timori dei governanti potrebbero esser superati, se si creassero accademie che facessero per la politica e l'etica quello che fa l'Accademia delle scienze per lo studio della natura. Nell'arco di un centinaio di anni si farebbero, anche in questa campo, visibili miglioramenti e si getterebbero le basi del «perpetuo e illimitato sviluppo della ragione », che w1 giorno non lontano avvicinera concretamente l'auspicata eta dell'oro. Non e improbabile che, se gli fosse stato possibile, il buon abate avrebbe riconosciuto i suoi sogni nel romanzo avveniristico L'anno 2440 (1770) scritto da Sebastien Mercier (1740-1814), suo fervente ammiratore. In questo testo appaiono con evidenza i limiti della posizione di Saint Pierre, che non riesce atener conto della forza delle passioni e degli interessi umani, cosi cari a Machiavelli e a Vico. Non a caso la storia vi e definita «la disgrazia dell'umanita, poiche le sue pagine sono piene di delitti e di £ollie»; >. 10.9. Turgot, ovvero l'esigenza di una nuova storia universale. Nel 1750, lo stesso anno in cui Rousseau presentava. il primo Discours all'Accademia di Digione, un giovane ecclesiastico tenne alla Sorbona due discorsi, uno sui <
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si alia pubblica amministrazione, Turgot redasse il Piano dei due discorsi sulla storia universale, l'opera nella quale meglio espresse la sua dottrina del progresso, almena a giudizio di Condorcet e di Comte, che di Turgot si considereranno discepoli. Influenzato dalla ricerca delle <
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Turgot critica l'eccessivo rilievo dato da Montesquieu all'influenza del elirna e sottolinea l'importanza dei «bisogni» e in particolare dei «bisogni primari», condizione indispensabile per l'avvio di qualsiasi progresso: «senza provviste, in mezzo alle foreste, non ci si puo occupare che della sussistenza». La storia e presentata come la storia del modo in cui l'umanita ha definito i suoi rapporti con la natura e, procuratisi i mezzi per la sussistenza, ha sviluppato «Ia ricchezza delle nazioni ». Fra gli elementi di originalita presenti in questa «dottrina del progresso» meritano di essere segnalati l'analisi della «ineguaglianza del progresso delle nazioni » e il giudizio sui periodi di decadenza. Constatare che i popoli non hanna proceduto con lo stesso ritmo e con uguali risultati sulla via della perfettibilita non vuol dire negare l'unita del genere umano (che e «un tutto immenso»), ne implica un giudizio di illegittimita sull'idea del progresso. «L'ineguaglianza fra le nazioni», particolarmente nello <<stato attuale del mondo» sostiene Turgot - «dispiega innanzi ai nostri occhi in una volta e ad un tempo tutte le sfumature di barbarie e di civilta disseminate sulla terra, rivelandoci cosi con un solo colpo d'occhio (... ) le vestigia di tutti i passi dell'intelletto, I 'immagine di tutti gli stadi attraverso cui e passato, e la storia di tutte le epoche». Questa «ineguaglianza>> non dipende dall'intelletto umano, che «racchiude ovunque il principia degli stessi processi», rna da un insieme complesso di «circostanze » variabili e dalla natura che distribuisce «in modo ineguale i suoi doni». Questa ineguaglianza ha comunque favorito lo sviluppo complessivo, che e stato guidato a lungo dalle «tumultuose e pericolose passioni» e non dalla ragione ed e stato possibile grazie ai numerosi. «errori» compiuti dall'uom6. Se i popoli si fossero isolati gli uni dagli altri (come per molti secoli e accadu-
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to all'impero cinese) e, senza commercio reciproco, avessero parlato lingue diverse e incomunicabili, l'umanita avrebbe forse evitato qualche guerra rna non avrebbe mai compiuto progressi nella scienza, nell'arte e nel governo. In realta, tutte le esperienze compiute dagli uomini, compresi gli errori dettati dalle passioni e sfuggiti al controllo di una ragione ancora debole, sono stati veicoli di progresso. Per questa ragione, nessun periodo storico puo essere tacciato di oscurantismo totale e di barbarie. Non bisogna credere che nei periodi di crisi e di decadenza e neppure in quelli di barbarie e di oscurita, che succedono a volte ai secoli piu luminosi, l'intelletto umano non faccia alcun progresso. Le arti meccaniche. il commercio, i bisogni della vita civile stimolano una quantita di riflessioni che si diffondono fra gli uomini, si combinano con l'educazione e si accrescono di continuo passando di generazione in generazione. Preparano lentamente, rna proficuamente e con certezza, tempi piu felici: simili a quei fiumi che per una parte delloro corso scompaiono sotto terra per riapparire piu oltre arricchiti d'una. gran quantita d'acqua filtrata da tutte le parti del suolo che quel corso invisibile, determinato dalla pen,denza naturale, ha attraversato.
Differenziandosi nettamente dalle condanne sommarie e dai misconoscimenti di Voltaire, Turgot evidenzia le invenzioni compiute dal Medioevo nelle «arti meccaniche», nel «commercio» e in alcuni aspetti della <
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dell'umanita e opera di Johann Gottfried Herder (1744-1803), teologo, letterato e predicatore, che l'anno prima ha pubblicato, insieme a Goethe e allo storico Jakob Moser, il celebre volumetto lntorno al carattere e all'arte dei tedeschi, che e la prima opera programmatica della Sturm und Drang. Allievo di Kant a Konigsberg ed amico di Hamann (9.14), Herder si propane di fare il processo alla storiografia illuministica. Prende anzitutto di mira il carattere escatologico delle dottrine del progresso: il fatto che promettano Ia felicita e la giustizia per la fine dei tempi non e certamente una consolazione per gli uomini di oggi. In ogni epoca, la pasta in gioco e sempre I'Humanitiit (umaniUt) e in ogni epoca gli uomini si adoperano, utilizzando tutti i mezzi a loro disposizione (cultura), per affermare e realizzare Ia !oro umanita. Ogni epoca ha Ia sua verita, basta a . se stessa e da il suo contribute, originale ed insostituibile, alla storia dell'umanita. Non un uomo, non un paese, non un popolo, non una storia nazionale, non uno Stato rassomiglia all'altro; di conseguenza anche il Vera, il Bello, il Bene, in essi non si rassomigliano.
La storia e «il cammino di Dio attraverso il mondo». Nel piano della Provvidenza, ogni popolo ha una missione da compiere e quindi dei limiti entro cui si muove, come ad esempio i pregiudizi e l'odio verso gli altri popoli, che si possono considerare un bene, perc he spingono « i popoli a raccogliersi intorno al proprio centro>>: >. Se tutto questa e vero, Ia successione dei secoli non si puo interpretare secondo un criteria di sviluppo rettilineo, commisurato alIa conquista della razionalita propria del '700. Non e neppure lecito il sistematico disprezzo verso il passato, in nome di questa razionalita eretta a criteria assoluto e atemporale. L'illuminismo crede di rappresentare l'apogeo del divenire della civilta e di preannunciare un mondo ancora migliore. In realta, sono in atto processi ed esigenze che segneranno il declino dell'illuminismo e l'insorgere di nuovi valori. Ai secoli «oscuri» del Medioevo Herder grida: «Toglieteci i nostri lumi, la nostra incredulita; dateci la vostra superstizione». Come nella Scienza nuova, Ia cultura delle eta arcaiche non e stigmatizzata come barbara, rna valorizzata per la sua pienezza e spontaneita: Omero e Ossian, la poesia ebraica dei Salmi e la poesia germanica del Medioevo sono capolavori, perche esprimono !'anima delloro popolo. Herder affida alia poste'rita, soprattutto tedesca, alcune idee fondamentali: il popolo e un organismo dinamico e si sviluppa secondo leggi sue proprie, che, come perle piante, solo in parte dipendono dalle condizioni del clima e del suolo, in parte dipendono dalla realta piu profonda della sua essenza; l'individuo ha sensa solo in quanta partecipa della vitae dell'essenza del popolo; illinguaggio (che non ha origine divina, ne animale, rna specificatarnente urnana) non e solo uno strumento del pensiero rna espressione organica dell'uorno (che e «creatura linguistica>>) 0 rneglio dell'anima del popolo, e quindi e sempre poesia. A differenza di Vico, Herder concepisce una filosofia della storia tutto sornrnato naturalistica: Ia molla del progresso non e nell'uorno, rna nella natura, nel popolo-pianta. II cosrnopolitisrno dei 'lurni' conduce a un'ideologia superficiale e livellatri-
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ce, cancella le differenze e le singolarita delle diverse epoche storiche e delle singole culture, non riconosce i contributi del genio individuale. Porre la verita alla fine della storia significa precludersi la comprensione di ogni momenta della storia, che invece deve essere amato per se stesso. Come dimostra Winckelmann (11.14), che ha scoperto la storia dell'arte antica grazie alla sua passione per l'antichita, ogni epoca storica ed ogni opera di poesia sono intelligibili nella misura in cui ci si trasferisce in esse per coglierne l'individualita e la peculiarita irripetibile. Anziche continuare nella storia della ragione, Herder invita alla storia dell'umanita. L'opera successiva, Idee per la filosofia della storia dell'umanita (1784-91), riprende e sviluppa queste idee in un contesto organico di polemica antiilluministica, che per molti aspetti recupera temi e argomenti rousseauiani. Dopa aver dimostrato il primato dell'anima sull'intelletto, dell'intuizione sull'analisi e della .poesia sulla scienza, Herder vi descrive la realta come un grandioso processo unitario, nel quale la forza divina si manifesta, esprimendosi attraverso «organi » che sono forme di vita sempre pi u complesse. Attraverso il linguaggio e la ragione, l'uomo tende a forme sempre piu alte di equilibria etico ed estetico, per cui l'humanitat si configura come l'armonico comporsi delle successive conquiste storiche dell'uomo. 10.11. Condorcet: l'idea di progresso durante Ia Rivoluzione. 11 matematico ed economista J.A.N. Caritat, marchese di Condorcet (1743-94), arnica e discepolo di Turgot, che nel 1775 lo nomina <>, fu autore della scritto piu convinto e convincente che sui tema del progresso la cultura dei 'lumi' abbia prodotto. Condorcet scrisse il suo Abbozzo di un quadro storico del progresso della spirito umano tra il luglio 1793 e il marzo 1794, mentre viveva nascosto in casa di un'amica, dove si era rifugiato dopa la condanna inflittagli dalla Convenzione per aver protestato contra la proscriz\one dei girondini e contra la costituzione del 1793. Riesumando i progetti giovanili e i preziosi suggerimenti del maestro, Condorcet e animato anche dall'esigenza di ritrovare le ragioni del suo essere philosophe e rivoluzionario, o meglio filosofo che si e trasformato in combattente politico. La rivoluzione che oggi lo costringe alla clandestinita e vista come il pun to culminante del grande processo di emancipazione iniziato con, la riforma protestante e con l'invenzione della stampa. Un processo inarrestabile, che una classe politica saggia e previdente avrebbe potuto assecondare e incanalare; invece «la corruzione e l'ignoranza dei governi>>, specialmente di quello francese, hanna portato alla rivoluzione e ai «mali» presenti: (...) bisognava che il popolo instaurasse esso stesso quei principi della ragione e della natura che la natura aveva saputo rendergli cari; {... ) si dovevano acquistare la liberta e la felicita attraverso mali transitori (... ).
Partendo dalla rivoluzione in corso, Condorcet si volge a considerare la storia dell'umanita (suddivisa in nove <<epoche») ed immagina il futuro (la decima «epoca»). 11 fila conduttore dell'esposizione e costituito dall'idea che il progresso storico si identifica con la graduale vittoria dei 'lumi' sull'ignoranza,
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per cui ogni trapasso epocale e contrassegnato, non tanto dai mutamenti politici, quanta dalle piu importanti conquiste del sapere. Per esempio, Ia fine delle prime tre epoche (societa primitive, periodo della pastorizia e periodo dell'agricoltura) e segnata dall'invenzione della scrittura alfabetica in Grecia. La quarta epoca abbraccia la storia del pensiero greco fino ad Aristotele e alla divisione definitiva delle scienze; e cosi via. A differenza di Turgot, Condorcet tende a sottolineare il ruolo negativo svolto dal cristianesimo, e dal cattolicesimo in particolare, che hanno la responsabilita di aver ostacolato Ia socializzazione della scienza e di avere cosi determinato le epoche di decadenza e di imbarbarimento, a cui corrisponde l'oppressione dei piu deboli. Il successo della rivoluzione americana, l'affermazione crescente del movimento antischiavista (fra il 1785 e il 1788 Condorcet fu tra gli animatori piu attivi della Societe des ainis des noirs) e la rivoluzione in Francia lo rendono convinto di trovarsi a vivere in un momenta decisivo per il trapasso verso la decima epoca, quando la «terra apparterra soltanto a uomini liberi, senza altri padroni che Ia r,agione; perche i tiranni e gli schiavi, i preti e i loro sciocchi e ignoranti strumenti, saranno tutti scomparsi». I mutamenti violenti e radicali, sulla cui necessita il riformismo di Turgot avrebbe avuto molti dubbi, sono ritenuti indispensabili per accelerare un processo che di per se non ha uno sviluppo lineare, ne e esente da rischi. Anche se inarrestabile (alia lunga, la ragione e la liberazione degli oppressi non possono non avere la meglio ), il movimento del progresso puo variare in velocita. Studioso del calcolo integrale e del calcolo delle probabilita, che estese ed applico anche alle scienze sociali e morali, per individuare delle costanti o «valori medi» in un mondo finora ritenuto imprevedibile, Condorcet si spinge a delineare i tratti dell'epoca futura sulla base di tendenze in atto. Le nostre speranze sullo stato futuro della specie umana possono ridursi a questi tre punti fondamentali: la distruzione della diseguaglianza tra le nazioni; i progressi dell'eguaglianza in seno ad uno stesso popolo, e da ultimo il reale perfezionamento dell'uomo.
Fra i connotati piu specifici della decima epoca, Condorcet indica anche Ia fine delle guerre, la realizzazione dell'eguaglianza tra i due sessi, un notevole prolungamento della vita, grazie ai progressi della medicina e un incremento in rapidita e precisione delle operazioni mentali, grazie alia scoperta di strumenti e metodi nuovi. Il fatto che una simile visione profetica sia stata scritta alla vigilia di una morte drammatica e misteriosa (forse suicidio ), consumata in una cella della Rivoluzione, suggella esemplarmente la tensione utopica dei 'lumi' e ne consegna la preziosa eredita agli intellettuali e ai combattenti delle generazioni successive.
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Caratteri della storiografia settecentesca 10.12. La 'Storia filosofica'. L'espressione 'philosophie de l'histoire' (filosofia della storia) sembra che sia stata coniata da Voltaire, che la rese di pubblico dominio in un saggio del 1765, poi riutilizzato nelle edizioni successive del Saggio sui costumi e sullo spirito delle nazioni. Si tratta, comunque, di un'espressione poco usata nel Settecento, che tuttavia, come si e visto, di meditazioni sulle res gestae e tutt'altro che avaro. Per un newtoniano come Voltaire, e naturale proporsi di sottomettere all'ordine della ragione la varieta, spesso contraddittoria, del mondo umano. Del resto, l'epoca e dominata da un bisogno di demistificazione .e di rinnovamento che rende sempre piu inattuale ed insufficiente la storia universale dispiegata, all'insegna della trascendenza, secondo te norme della storia della salvezza alia maniera di Bossuet. E inevitabile che il risveglio del senso storico si traduca· nell'esigenza di chiamare la filosofia (e non piu la teologia) a mettere in luce l'intelligibilita, il senso del divenire storico. Non per nulla Voltaire inizia il Saggio sui costumi proprio da Carlomagno, dove era arrivato Bossuet (10.1). Una storia senza filosofia significherebbe abbandonare il mondo degli uomini al capriccio, all'errore e dunque al disorientamento. Presso tutte le nazioni - si Iegge nel Saggio sui costumi - Ia storia e svisata dalla favola, sino a che la filosofia viene infine a illuminare gli uomini, e quando finalmente giunge in mezzo a queUe tenebre, la filosofia trova gli spiriti talmente accecati da secoli d'errori, che riesce appena a disingannarli; trova cerimonie, fatti e monumenti istituiti per attestare menzogne (... ).
«La scienza della storia - afferma d' Alembert nel 1753 - quando non e illuminata dalla filosofia, e l'ultima delle conoscenze umane». Gli illuministi preferiscono, comunque, alla philosophie de l'histoire Ia histoire philosophique (storia filosofica), che si occupa delle modalita, dei criteri e dei prindpi ·metodologici della pratica storiografica. Specialmente in Francia, ci si pone sui terreno dell'histoire philosophique e si affronta il problema di come e perche scrivere storia. La storia non e, in Francia, materia di insegnamento, ne nei collegi ne nelle universita (lo diventera nel 1827, con Michelet); e stata finora considerata utile solo per la formazione dei futuri sovrani (il Discorso di Bossuet e pensato per il Delfino) e solo a fatica si libera, proprio durante il XVIII sec., dalle critiche di Cartesio e Malebranche che l'avevano confinata tra le «scienze di memoria», che «confondono lo spirito, turbano le idee chiare e offrono, in ogni sorta di soggetti, mille verosimiglianze, di cui si e paghi, per non saper distinguere, intravedere e vivere». (...) poiche soltanto la verita e una, individibile e immutabile - aveva scritto Malebranche nel Trattato di Morale (1684) - non c'e che essa che possa unire gli spiriti strettamente e per sempre. Le scienze di memoria ispirano anche, naturalmente, dell'orgoglio (... ) La mente si espande in tutte
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le parti del mondo, risale fino ai secoli passati; e invece di pensare a cio che tempo presente e a cio che sara nell'eternita, dimentica se stessa e il suo paese, per perdersi in un mondo immaginario, in storie formate di realta che non esistono piu e di chimere che non sono mai esistite.
e essa stessa nel
Questa divario, di origine cartesiana, fra storia e ragione, e preso di mira dall 'Encyclopedie, che fa della storia un campo di applicazione della baconiana 'filosofia sperimentale' nel fondamentale settore delle scienze umane. Per questa, per dirla con le parole di un suo collaboratore, Paris de Meyzieu (nell'articolo Ecole militaire), la storia e definita una «delle conoscenze piu dilettevoli e, al tempo stesso, piu utili che un uomo di mondo possa acquistare». II motivo del «dilettevole» congiunto all'«utile>> e stato sviluppato nel breve saggio La studio della storia (1741) di Hume (8.8): Gli storici sono stati, quasi senza eccezione, i veri amici della virtu. (... ) Che cosa ci puo essere di piu divertente per la mente che essere trasportata nelle epoche piu remote del mondo e osservare la societa umana nella sua infanzia, mentre fa i suoi primi deboli tentativi nelle arti e nelle scienze! Vedere quindi l'arte del governo e il gusto della conversazione raffinarsi gradatamente, e tutto cio che e un ornamento per la vita umana avvicinarsi sempre piu alia perfezione! Osservare la nascita, il progredire, il decadere e l'estinguersi degli imperi piu fiorenti, le virtu che contribuirono alla loro grandezza e i vizi che li trascinarono alla rovina! (...)Vi sono dei divertimenti, dei sensi o dell'immaginazione, che potrebbero venir paragonati a questo?
Il contributo della storia all'etica e sottolineato anche da Bonnot de Mably (11.11), che, rivolgendosi al principe di Parma, della cui educazione storica e responsabile, esclama: «La storia deve essere, durante tutta la vostra vita, la scuola in cui vi istruirete sui vostri doveri ». Sui val ore esemplare della storia, rna solo di quella antica e non senza perplessita, torna anche !'Emilio (11.7) di Rousseau, che, per le stesse ragioni etiche, bandisce lo studio della storia moderna e tiene a sottolineare le ambiguita e i <
Nei loro progetti educativi, Diderot e d' Alembert accentuano l'importanza della storia, che intendono anzitutto come scuola di comprensione del presente. Credo - dichiara Diderot nel 1775 - che occorra cominciare lo studio della storia con quella della propria nazione e, quest'ultima, come pure tutte le altre, risalendo dai tempi piu vicini fino ai secoli delle favole e della mitologia.
Su un fatto tutti concordano: la storia deve essere «storia della spirito umano e- non della vani ta degli uomini » e per questa non deve essere pi u « sto-
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ria dei re e dei conquistatori », rna <<storia degli uomini » (d' Alembert). GHt nel 1744, Voltaire aveva affermato che la storia vera e quella che fa conoscere «i grandi eventi, i costumi e lo spirito delle nazioni». La reazione contro i1 predominio della storia genealogica, militare e diplomatica conduce all'esplorazione dei nuovi campi della cultura e della civilta. La nuova elite borghese, che non ha privilegi dalla nascita, esige dalla storia }'esprit del tempo e a questa (non ai re o agli imperatori) affida il compito di «dirigere i grandi avvenimenti del mondo». 10.13. Storia delle istituzioni e della societa civile. II lavoro storiografico del '700 rispecchia adeguatamente queste premesse programmatiche. Gli illuministi sono storici impegnati rna, forse, «impuri», perche concepiscono il viaggio nel passato come un momenta della pili vasta battaglia innovatrice da condursi in tutte le sedi e con ogni mezzo. Ma hanno ben presenti le connotazioni politiche del lavoro storiografico: nella misura in cui e scuola di morale e di politica, la storia obbedisce al fine pratico di trasformare le coscienze e la realta. La loro e una storia ideologizzata. Si obiettera che la filosofia della storia proposta da Voltaire (9.5) e piu una storia della ragione (o ·una filosofia applicata) che non una storia degli uomini e che, proprio perche si vuole contrapporre a Bossuet, adotta di Bossuet la collocazione su un piano metastorico e la conseguente rigidezza e intolleranza manichea. Solo quattro eta sono definite, nel Saggio sui costumi, «felici»: quella di Pericle e Alessandro, quella di Cesare e Augusto, l'Italia del Rinascimento e il secolo di Luigi XIV, eta che «hanno conosciuto la perfezione delle arti». A proposito, invece, di Luigi XI, giudicato despota superstizioso e fanatica, si legge: « occorre conoscere la storia di quei tempi solo per disprezzarla! ». Per altro verso, si potrebbero citare molte pagine del Secolo di Luigi XIV e di altri scritti, per dimostrare come Voltaire non avesse rinunciato del tutto alla storia cronachistica e al gusto per l'aneddotica. Cio nonostante, la storiografia volteriana non e pili quella del passato: il suo interesse per gli usi, «costumi », credenze e pratiche religiose intende soprattutto delineare }'esprit di un'epoca e mette definitivamente da parte la sto-. ria intesa come teatro in cui campeggiano gli eroi, le grandi personalita. L'efficacia della sua battaglia, ispirata dall'amore per l'umanita, alimenta di fatto un reale interesse per la storia e per i periodi storici oggetto di riflessione. La nozione di storia universale si accorda, in Voltaire, con le esigenze del deismo, che implica, si e visto, una razionalita immanente alla realta umana, una razionalita che, in virtu della legge del progresso, si e liberata faticosamente dagli errori, dalle follie e dalle sventure di cui sono capaci gli uomini, vittime delle loro passioni. Dal quadro che abbiamo tracciato - si legge nella conclusione del Saggio sui costumi - dell'Europa dal tempo di Carlomagno fino ai nostri giorni e facile giudicare come questa parte del mondo sia incomparabilmente piu popolata, piu incivilita, piu ricca, piu illuminata di quanto non lo fosse allora, e che essa e persino molto superiore a cio che era l'impero romano, se se ne eccettua l'ltalia.
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Anche Hume (8.8), che non condivide lo storicismo di Vico e di Herder, insiste sull'unita ed universalita della natura umana, vera protagonista della storia, rna non pensa tanto alla ragione che affascina Voltaire e i deisti, quanto alla complessa articolazione della personalita dell'uomo, divisa tra forza istintuale, abitudini, sentimenti e intervento razionale. Preoccupato di evitare le ipotesi (secondo l'imperativo newtoniano), Hume si limita a mettere in luce certe costanti nel susseguirsi dei fenomeni storici. Grazie al suo scetticismo nei confronti della ragione universale e dell'idea di progresso, riesce ad avere una percezione migliore della relativita dei valori ed offre un tentative piu positivo nel senso dell'obiettivita storica. La sua Storia d'Inghilterra (1754-62) e la prima storia nazionale dell'Inghilterra e, anche se dal punto di vista scientifico e stata giudicata insufficiente, riscosse un grande successo, se non altro per le sue indubbie qualita letterarie. Hume e Voltaire non sono eruditi ne specialisti di studi storici, sono filosofi che proiettano nel passato le loro idee dominanti. Diverso e il caso di Montesquieu 'e di Edward Gibbon, che danno un contribute storiografico piu consistente. Montesquieu (8.13) si muove nella prospettiva della immagine ciclica della storia: alia stregua di Vico (la Scienza nuova figura tra i libri della sua biblioteca nel castella di La Brede), ammette un ritorno dei processi sociali, di cui descrive la generazione e Ia corruzione. Nello Spirito delle leggi e, in misura minore, nelle Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della [oro decadenza (17 34), Montesquieu rivela un forte sen so della dinamica intern a aile istituzioni pelitiche e sociali, accostandosi ai fenomeni storico-sociali con lo spirito dello scienziato, che vuol comprendere piu che giudicare. Come chiarisce nelle premesse metodologiche dello Spirito delle leggi, lo scopo della sua ricerca e l'individuazione dell'esprit, della totalita, cioe, dei rapporti che connettono la realta storica nei suoi molteplici aspetti. Dell'esprit fanno parte le qualita soggettive di un popolo, rna anche fattori oggettivi, quali il clima e l'ambiente geografico. Il suo peso e condizionamento sono piu forti di quanto non fosse la 'fortuna' in Machiavelli, che alia 'virtu' lasciava il cinquanta per cento delle possibilita nel controllare le cose umane. In ogni nazione - scrive Montesquieu nelle Considerazioni - c'e uno spirito generale su cui si basa il potere stesso; quando esso urta questo spirito, urta se stesso e deve necessariamente fermarsi.
Nonostante il rischio di cadere in forme di determinismo, Montesquieu tenta di rintracciare i rapporti. (del tu1to umani e naturali) di reciproco influsso fra gli elementi che costituiscono Ia realta sociale, e non concede nulla al provvidenzialismo della tradizione. L'atteggiamento di rispetto e di comprensione per ogni avvenimento storico deriva a Montesquieu dal modo stesso con cui pone le questioni principali dello Spirito delle leggi: stabilire le circostanze storiche e !'esprit di un periodo o di una nazione e determinare quale sia il sistema legislative e quali le istituzioni che garantiscono il massimo di liberta. Edward Gibbon (1737-94) eredita da Montesquieu e !'interesse per la decadenza romana e la passione per l'analisi delle istituzioni. Il suo capolavoro, Decadenza e caduta dell'Impero romano (1776-88), alla cui stesura dedico gran
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parte della vita, e divenuto un classico della storiografia. Gibbon condivide i pregiudizi dei 'lumi' verso i secoli oscuri e di decadenza; nel suo tendenziale agnosticismo, vuole spiegare come la religione cristiana abbia annientato lo splendore del mondo classico. Lo scopo della sua fatica e descrivere «il trionfo della barbarie e della religione». Cio nonostante, Gibbon non fa della filosofia applicata, ne erige un tribunale della storia, si sforza di comprendere la decadenza romana e, senza dimostrare molta simpatia per l'idea di progresso, vede in ogni conquista culturale un memento di crescita precario e non definitive, costantemente minacciato dalle forze di corruzione e di arretramento. Un altro elemento caratterizzante della storiografia illuministica e costituito dall'attenzione rivolta alla societa. civile. Nel gia menzionato Saggio sulla storia della societa civile, lo storico scozzese Adam Ferguson (8.14) dimostra come ogni ricerca sulla natura umana debba essere condotta sul piano storico e debba avere per oggetto non gli individui rna i gruppi associati. Come Montesquieu, Ferguson nega che si possa dare una «natura umana» al di fuori dei processi storico-sociali. Di qui la grande attenzione rivolta ai profondi mutamenti provocati dalla nascente societa industriale, in particolare alle conseguenze sul piano dei costumi e della morale prodotte dalla divisione del lavoro, che negli stessi anni e fatta oggetto di indagine scientifica da un altro scozzese, che incontreremo nel prossimo capitolo, Adam Smith, che di Ferguson e di Hume era amico. Un'organizzazione sociale fondata sulla pura efficienza non puo, secondo Ferguson, che soffocare gli spazi di liberta e la tensione civile che costituiscono le sole garanzie (sempre precarie) di progresso. Porre la societa civile al centro dell'indagine storiografica significa, infine, riassorbire la storia ecclesiastica (che scompare come disciplina specifica) nella piu ampia storia della societa civile. La chiesa e una istituzione come le altre; caso mai, un interesse particolare, per la valenza politica della questione, possono suscitare i rapporti tra chiesa e Stato, come si e visto nel caso di Pietro Giannone (9.6). 10.14. Lo sviluppo delle scienze storiche. Un luogo comune, di origine idealistica, colloca l'avvento delle scienze storiche nel XIX sec., nell'epoca del romanticismo e dello storicismo tedesco. Il carattere astratto e universale del razionalismo illuministico sarebbe refrattario alla storia. Il terrene di battaglia prediletto dai 'lumi' sarebbe quello dei diritti naturali, 'eterni' ed inviolabili, dell'uomo e non quello della fattualita, differenziata e complessa, del processo storico. In realta, nel '700 progredisce decisamente, si e visto, la riflessione sulla storia, sia nella direzione Vi co-Herder, che costituisce la premessa dello storicismo posteriore, sia nel senso, piu congeniale ai 'lumi', della ricostruzione storica finalizzata alla battaglia riformatrice del presente. Non solo, rna mentre si affiancano, sul piano metodologico, l'erudizione e la critica storica, la storia si afferma sempre piu come scienza degna di occupare un suo posto nell'universitas studiorum. Il caso accennato della Francia, che non ha professori universitari di storia fino al 1827, non e infatti la regola. In Germani a, la prima cattedra di storia e istituita verso il 1670 e in Inghilterra addirittura poco dopo il 1623. Puo sem-
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brare una coincidenza, rna quella parte di Europa che e stata attraversata dal sommovimento della riforma protestante assume per prima un diverso atteggiamento verso l'insegnamento della storia. Mentre la verita cattolica si poneva come universale e invariabile, le chiese protestanti si interrogavano necessariamente sulla storia del cristianesimo e sulla loro storia. Non meraviglia quindi che, gia nel sec. XVI, Melantone avesse inserito la storia universale, distinta in storia della chiesa e storia profana, nel corso di studi delle universita germaniche e che, per esempio, il re inglese Giorgio I, allo scopo di formare il personale diplomatico, creasse, nel 1724, le prime cattedre di storia moderna a Oxford e a Cambridge. In Gran Bretagna e soprattutto in Germania, le scienze storiche raggiungono, nel corso del 700, la maturita epistemologica, conferendo ad ogni disciplina una nuova coscienza della sua natura e funzione. E il caso della filosofia con la Historia critica philos0phiae (1742-44) di Jacob Brucker, dell'arte con la Storia dell'arte antica (1761) di Johann Joachim Winckelmann e dell'etnologia religiosa con i Fondamenti di storia dell'umanita (1785) di Christoph Meiners. Sempre in Germania, nella seconda meta del secolo, si impone la scuola di Gottinga, dove la storiografia e considerata frutto di un lavoro collettivo. In particolare, le opere di Johann Christoph Gatterer (1717-99), fra cui un celebre manuale di storia universale, quelle del suo collega e rivale August Ludwig Schloezer (1735-1809), insieme alla perizia di filologi della levatura di J.D. Michaelis e C.G. Haeyne, danno un importante rilievo alia storia delle istituzioni, contribuiscono decisamente alla riabilitazione del Medioevo e rendono pili solida e sicura la metodologia della ricerca storica. Accanto a questi, molti altri addetti aile scienze storiche mc;riterebbero di essere ricordati: gli italiani L.A. Muratori (9.6) e G. Tiraboschi, i membri della spagnola 'Real Academia de la Historia' (istituita nel 1735), gli associati alia francese Accademia delle iscrizioni e delle lettere, nonche i benedettini di Saint Maur (o maurini), maestri nello studio rigoroso delle fonti storiche. Per non dire del lavoro, oscuro e spesso dimenticato, di tanti antiquari, eruditi e storiografi che hanno permesso il recupero del passato e hanno offerto l'indispensabile materiale documentario su cui i grandi pensatori e gli scrittori pili brillanti (Voltaire, Hume e Gibbon) hanno elaborato le loro affascinanti interpretazioni.
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Sommario. 11 dibattito settecentesco sull'etica si svolge essenzialmente sulle linee fissate, agli inizi del secolo, in Inghilterra: da un lato l'artificialita della morale e la riduzione della virtu a mera finzione, che Mandeville ritiene di trovar confermate nell'analisi della societa borghese emergente (11.1); dall'altro, la tesi della naturale socievolezza dell 'uomo e la morale del sentimento su cui Shaftesbury rinnova le aspirazioni dell'Umanesimo e Hutcheson fonda l'autonomia del senso morale (11.2). Gli elementi utilitaristici presenti nel sistema di Hutcheson sono sviluppati nelle indagini di Hume e di Smith, che si estendono sempre pili al comportamento sociale ed individuano nella simpatia la fonte primaria delle distinzioni morali (11.3). In Francia, le questioni di etica dominanti sono la connessione tra felicita individuale e felicita collettiva e il ruolo che spetta alle istituzioni, alle leggi e all'educazione in generale nel realizzare la feliciUt pubblica. L'autonomia e l'originarieta della virtu, di una virtu 'naturale' che rifugge dall'ascetismo e si traduce in filantropia, sono difese da Voltaire e Maupertuis (11.4). Mentre Montesquieu evidenzia l'inutilita della virtu negli Stati moderni. La Mettrie ne proclama decisamente la morte in nome di una felicita naturale per troppo tempo conculcata. Altri esponenti del materialismo, come Helvetius e Morelly, invocano interventi politici radicali per combattere i vizi e ripristinare le virtu (11.5). I due Discorsi e 1' Emilio di Rousseau denunciano le contraddizioni delle societa progredite, rna demistificano anche le gravi responsabilita della cultura contemporanea (11.6). L'esigenza di salvaguardare la virtu dalla 'decadenza della specie' che accompagna il falso progresso si traduce nella ricerca di nuove forme di solidarieta politica e di un processo educativo che faccia del bambino un soggetto attivo (11.7). Si sviluppa nel Settecento la creativita utopistica. Dai viaggi immaginari ai progetti di legislazione perfetta, l'immaginario collettivo trova nel genere delle utopie una forma privilegiata d'espressione (11.8). Il pensiero politico ruota intorno alle nozioni, care al giusnaturalismo, di stato di natura e di contratto originario, su cui si redigono, fra l'altro, le Dichiarazioni delle due rivoluzioni del secolo. Le critiche di Hume ai presupposti del giusnaturalismo (11.9) e il Contratto sociale di Rousseau sono le novita pili importanti del dibattito politico (11.10). La maggioranza dei pensatori si riconosce in posizioni riformiste e confida nell'aiuto dei despoti illuminati. Le controversie sul diritto di proprieta mettono in luce una corrente 'socialista' che alimenta alcune esperienze storiche significative (11.11). Lo stesso orizzonte mentale conferisce, nella seconda meta del '700, dignita di scienza anche allo studio delle realta economiche: i fisiocratici prima e Smith poi gettano le basi della moderna economia politica (11.12). 11 Settecento ha esaltato la vocazione cosmopolita dell'uomo, segnando, nello stesso tempo, l'affermarsi di una 'letteratura dell'io' che assume come oggetto di indagine la coscienza individuale e proclama il primato della soggettivita (11.13). Raccogliendo le tendenze in atto, l'estetica si costituisce come sapere autonomo, in· grado di offrire all'uomo nuove possibilita di espressione e di conoscenza (11.4). La difesa dei diritti individuali ispira la proposta di Beccaria sull'abolizione della pena di morte e della tortura, cosi come anima molti degli studi giuridici che, oltre a preoccuparsi della costruzio-
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ne dello stato di diritto (11.15), si occupano anche di diritto internazionale e cercano di fissare le condizioni di una possibile coesistenza pacifica. La Rivoluzione francese sanziona la crisi del pacifismo settecentesco, cosi come, nel decennio anteriore al 1789, dal declino del cosmopolitismo si fa strada il concetto nuovo di 'nazione' (11.16).
II fondamento della morale 11.1. Mandeville: vizi privati, pubblica prosperita. Nel 1705 fu pubblicato a Londra un opuscolo anonimo che conteneva uno spiritoso componimento poetico: L 'alveare scontento: o i furfanti diventati onesti. Ness uno avrebbe detto che questa favola in versi sarebbe stata all'origine di uno dei dibattiti piu vivaci del Settecento. L'autore, il medico Bernard de Mandeville (1670-1733), olandese di nascita rna francese di origine e inglese di adozione, avrebbe infatti chiarito il significato «filosofico» dei suoi versi solo quando li ripubblico, accompagnati da un saggio introduttivo e da alcune note, col titolo La favola delle api: o vizi privati e benefici pubblici (1714), e soprattutto nella terza edizione (1724) che presentava altri due scritti, il Saggio sulla carita e sulle scuole di carita e la Ricerca sulla natura della societa. Condannata come «pericolo pubblico» dal tribunale del Middlesex, !'opera di Mandeville ebbe un'eco straordinaria: nove edizioni in appena tre decenni, numerose traduzioni e l'onore di una messe abbondantissima di repliche polemiche. L'apologo di Mandeville narra di un popoloso alveare dove le api «viv&vano nel lusso e nell'agiatezza». R.inomate per le loro leggi, per la scienza e l'operosita dei traffici, per illoro governo, ne tirannico ne democratico (evidente il riferimento all'Inghilterra), queste api non erano affatto virtuose. Chi aveva scorte e denaro, guadagnava molto senza faticare; chi faticava, guadagnava poco. E intorno una miriade di parassiti: avvocati, medici, preti, ministri e giudici corrotti. Cosl ciascuna parte era piena di vizi, rna I 'insieme un paradiso; (...) Tali erano le benedizioni di questo Stato: le loro stesse colpe contribuivano alia !oro grandezza e Ia virtu, che dalla politica aveva appreso mille astuzie, per questa felice influenza era diventata arnica del vizio e, quindi, anche la peggiore delle api faceva qualche cosa per il bene comune.
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Incapaci di comprendere che i vizi e la disonesta erano il vera fondamento della lora prosperita, le api pregavano insistentemente gli dei di esserne liberate e di portare la virtu nell'alveare, accordando «onesta e commercia». Alla fine, gli dei le accontentarono e resero onesti i lora cuori: ognuna si accontentava della stretto indispensabile per vivere. Ma fu la miseria, la « rovina dell'industria» e il declino di «tutte le arti e mestieri », che prima si fondavano sull'amore dellusso, sull'orgoglio e sul crimine. Insieme al vizio, anche la prosperita abbandono l'alveare. Esplicita la 'morale' dell'apologo: Cessate dunque di brontolare: soltanto i pazzi si sforzano di far diventare onesto un grande alveare (... ) La virtu da sola non puo far vivere · le nazioni nello splendore, coloro che vorrebbero far tornare l'eta dell'oro insieme con l'onesta debbono accettare le ghiande. Nel suo lucido cinismo, Mandeville si propane di dimostrare che la morale artificio e di battere in breccia la tesi, cara all'ottimismo etico, della naturale socievolezza dell'uomo. Cio che rende l'uomo un animale socievole scrive nella prefazione del 1714 - consiste non nel suo «desiderio di compagnia, nella sua buona natura, nella sua pieta, nell'affabilita e nelle altre grazie di un aspetto gradevole», rna nelle «sue qualita piu viii e piu odiose», che sono «le condizioni pili necessarie per renderlo adatto alle societa pili grandi e, secondo il mondo, pili felici e fiorenti». Erede di Hobbes e dei moralisti libertini del '600, Mandeville non si limita, comunque, a sostenere che i veri legami sociali sono le leggi e il governo e a contrapporre l'analisi della realta effettuale al dover essere della tradizione etica, ancorata a· premesse metafisiche religiose. La novita della sua posizione sta nell'affermazione che la virtu e sterile e che proprio i vizi sono il motore e il prezzo della ricchezza industriosa. Acuto osservatore della societa inglese del tempo, Mandeville si pone sulla scia di Defoe e Swift nel denunciare, con la forza della satira e del paradosso, le ipocrisie sociali, e nel cogliere le contraddizioni e l'asprezza delle leggi economiche, compresi i rapporti di sfruttamento, che accompagnano lo sviluppo di una societa mercantile in procinto di compiere il salta industriale. Le nozioni di virtu e di vizio sono appunto finzioni sociali, non casuali rna indispensabili, elaborate e predicate da «abili politici», che mirano a «rendere gli uomini socievoli e utili gli uni agli altri>>. Sono lora che hanna chiamato «vizio tutto cio che, senza nessun riguardo per cio che e pubblico, si fa per soddisfare un proprio appetitO>> e hanna data il nome di «virtu ad ogni azione con cui l'uomo, in contrasto con l'impulso naturale, tenta di beneficare gli altri o di vincere le proprie passioni per l'ambizione razionale di essere buono>>. A instaurare le categorie di vizio e di virtu e stata, insomma, quella logica di dominio che, come avevano insegnato anche Hobbes e Locke, ha permesso a un insieme di animali egoisti di costituirsi in societa.
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11.2. Shaftesbury e Hutcheson: l'autonomia del senso morale. Con il suo apologo, Mandeville prendeva a bersaglio non soltanto l'etica aristotelicoscolastica rna anche le posizioni, per pili versi nuove, di Shaftesbury (9.2). Pur facendo propria la tesi seicentesca sulla morale del piacere, fin dal giovanile Saggio sulfa virtue il merito (scritto frail 1690 e il 1695) il conte di Shaftesbury aveva infatti insistito sulla naturalita e spontaneita delle inclinazioni che inducono gli uomini al vivere sociale e al bene collettivo. Le raffinate analisi del dialogo I moralisti (1709) e delle Caratteristiche di uomini, costumi, opinioni, tempi (1711) mirano ad assicurare all'etica un fondamento naturale e autonomo sia dalla religione che dalla politica. Non e forse vero che persone, zelanti sui piano religioso, si rivelano spesso «sommamente degenerate e corrotte» ed altre, invece, ritenute atee, «agiscono in molte occasioni con cosi puri intenti e affetti verso l'umanita, che si deve riconoscere la loro virtu»? D'altra parte (in polemica con Hobbes), l'individuo sussiste solamente in seno- alia societa, o meglio, l'uomo ha una tendenza naturale alla collaborazione sociale che lo integra in un sistema pili ampio: L'uomo ed ogni altro animale, benche sia in se stesso un sistema autonomo di parti, non puo essere ugualmente autonomo rispetto a tutto il resto; rna bisogna osservare che e legato da ulteriori relazioni al sistema della sua specie; cosi pure il sistema della sua specie e legato al sistema animale; questo e legato al mondo, che e la nostra terra; e questa, a sua volta, e legata al piu ampio cosmo, l'universo,
Dall'istinto naturale alla socialita emerge il «senso morale» che risiede nel «cuore». «Atto riflessivo del sentimento», esso consente, per via intuitiva ed immediata, la percezione interna del bene e del male, dell'onesto e del disonesto, in relazione al «bene pubblico e al bene della specie». In opposizione al pessimismo angoscioso di Hobbes, l'umanesimo di Shaftesbury recupera Ia teoria classica della virtu come misura degli affetti e indica nell'ironia lo strumento pili valido per intervenire attivamente nel regolare Ia vita morale. Oltre che la scompostezza del fanatismo religioso l'ironia svela e ridic;olizza la disarmonia delle azioni moralmente sbagliate. Incline ad una riflessione varia e mobile, Shaftesbury non seppe ne voile ridurre le sue intuizioni in sistema. Il merito di aver dato veste formale e sistematica alla <<morale del sentimento» di Shaftesbury spetta a Francis Hutche· son (1694-1746). Ministro presbiteriano e, dal 1729 al 1747, docente di filosofia morale all'universita di Glasgow, Hutcheson scrisse Ia sua prima opera, Sag~ gio sull'origine delle idee della bellezza e della virtu (1725), con l'intenzione dichiarata di salvare gli scritti del suo maestro Shaftesbury dalle strumentalizzazioni irreligiose dei deisti radicali e dagli attacchi impietosi di Mandeville. In questo Saggio giovanile, pili interessante e vivace delle opere posteriori (troppo legate all'impianto della trattatistica e allo svolgimento dei corsi universitari), Hutcheson tenta di collocare il «senso morale» di Shaftesbury su basi pili rigorose, tenendosi fedele il pili possibile al sensismo di Locke. Ma mentre Locke aveva fatto derivare le nozioni morali dai dati primitivi del pia· cere e del dolore, attraverso la mediazione delle idee complesse di modo e di
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relazione, Hutcheson fa del sensa interiore un dato originario, non derivabile da altro ne riducibile in elementi semplici, alla pari dei cinque sensi. Definito come «potere di percepire la bellezza della regolarita, dell'ordine, dell'armonia», esso, proprio come ha dimostrato Locke, non fornisce idee innate. Distinto dal sensa interiore - ed e qui che Hutcheson si differenzia da Shafte~ sbury - e il sensa morale, facolta specifica che egli definisce come la «determinazione della nostra natura umana a volere il bene degli altri, ossia un istinto, che precede ogni ragione d'interesse e ci volge all'amore degli altri». Questa sensa morale si risveglia quando «le azioni che approviamo negli altri sono immaginate come tendenti al bene naturale dell'umanita o di una parte di essa». Donato da Dio per rendere l'uomo partecipe dell'ordine e del finalismo del cosmo, il sense morale ci guida nelle nostre passioni e ci procura «piaceri anche piu nobili; cosicche; quando miriamo soltanto al bene degli altri, involontariamente perseguiamo il nostro maggiore bene privata». Nonostante queste dichiarazioni, degne di un discepolo di Shaftesbury rimasto affascinato dalla teologia naturale di Newton, Hutcheson, nel tentativo di descrivere le motivazioni complesse del comportamento umano e di coglierne la dimensione sociale, elabora un prima abbozzo di quella che piu tardi Bentham chiamera «aritmetica morale». Nel paragonare tra lora le qualita morali delle azioni, per operare la nostra scelta tra varie azioni che ci si propongono, o per discernere quella dotata della massima eccellenza morale, siamo indotti dal nostro senso morale della virtu a giudicare cosi: a pari grado di felicita che ci si attende dall'azione, la virtue proporzionale al numero delle persone cui la felicita e destinata (... ); e a parita di numero la virtu e proporzionale alla quantita della felicita, o bene naturale: cioe la virtu e la ragion composta della quantita del bene e del numero di colora che ne beneficiano. Allo stesso modo, il male morale, o vizio, e proporzionale al grado della sventura ed al numero di colora che la soffrono. Sicche ottima sara quell'azione, che procurera Ia maggiore felicita possibile peril maggior numero di persone; e pessima quella che, analogamente, produrra sventura.
La formula di Hutcheson, cosi rispondente alia diffusa esigenza di tradurre in linguaggio matematico il comportamento individuale e collettivo, era destinata a grande fortuna: fu ripresa, fra gli altri, da Maupertuis e dal nostro Pietro Verti (le sue Meditazioni sulla felicita del 1763 ebbero eco europea); fu all'origine della lunga tradizione utilitaristica inglese e contribui, infine, a precisare alcuni concetti fondamentali della moderna economia politica. 11.3. Hume e Smith: Ia morale come simpatia. Anche per David Hume (8.8) il fine della morale e la felicita e la gioia di vivere del maggior numero di uomini possibile. La sua indagine morale accentua, anzi, gli elementi utilitaristici e la prospettiva sociologica della lezione di Hutcheson, eliminando ogni motivo teologizzante ed ogni retaggio dell'intellettualismo etico. Mentre il II libra (1739) del Trattato sulla natura umana e dedicato all'esame psicologico (da un punta di vista associazionistico) delle passioni, il III libra (1740) affronta le questioni relative alla distinzione irriducibile tra ragione e sentimento morale
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ed approda alla conclusione che una fondazione razionale dell'etica, analoga a quella elaborata, per esempio, da Clarke (9.1), non e legittima. Passione e ragione appartengono ad ambiti diversi, per cui nessuna passione pub essere ritenuta irragionevole, ne la ragione pub <
Non e forse vero, del resto, che le proposizioni che cadono sotto la ragione sono caratterizzate dal predicato 'e' o 'non e', mentre queUe che interessano la morale, dal predicato 'deve essere' o 'non deve essere'? La ragione, che ha la funzione di scoprire il vero e il falso, sulla base dell'accordo o disaccordo tra · le idee, pub influenzare in qualche misura le azioni, indicando, per esempio, i mezzi per soddisfare le passioni, rna non costituisce certamente il fondamento delle passioni e volizioni che generano i comportamenti. Se i giudizi di valore non sono riconducibili sotto il dominio delle regole del vero e del falso, il luogo d'origine della morale e da cercare piuttosto nel sentimento. La morale e pili sentita che giudicata; le sensazioni o sentimenti morali sono di solito cosi dolci e delicati che siamo portati a confonderli con !'idea; rna in realta le impressioni che sorgono dalla virtu sono piacevoli, le impressioni che sorgono dal vizio sono penose.
I nostri comportamenti derivano, infatti, dalla simpatia, proposta nell'accezione etimologica di 'com-passione'. Caratterizzata, come il «gusto» estetico, dal disinteresse, la simpatia e il sentimento «che si ha quando la felicita di chi ci e estraneo ci colpisce vivamente» ed ha per oggetto tutto cib che tende alla pubblica utilita, in particolare quei comportamenti che riescono a stabilire una relazione di compatibilita tra l'egoismo umano e la solidarieta sociale dell'uomo. Nessuna qualita ha maggiori titoli - si Iegge nella Ricerca sui pnnczpz della morale (1751)- per essere in generale accolta e approvata dall'umanita, quanto lo spirito di benevolenza e di umanita, di amicizia e di gratitudine, l'affezione naturale ed il desiderio del pubblico bene o qualunque altra qualita che derivi da una tenera simpatia per gli altri e da un generoso interesse per il genere umano.
Consacrando i valori emergenti nella societa borghese, Hume prospetta una morale laica e mondana, che traduce in benevola filantropia i precetti dell'etica cristiana, senza nessuna pretesa di assolutezza. Egli tiene comunque a precisare che le norme etiche non sono modificazioni di intenti egoistici camuffati e che i sentimenti di benevolenza, di generosita, di amicizia, di compassione hanno un'esistenza ed una dinamica diverse da quelle delle passioni egoistiche. Tanto Mandeville che Shaftesbury hanno il torto (per «quell'amore di semplicita che e stata la fonte di molti falsi ragionamenti in filosofia») di considerare unilateralmente, e quindi di appiattire, la complessa vita affettiva
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e istintuale dell'uomo, che puo essere invece opportunamente spiegata se si ricercano i criteri della moralita in seno all'uomo stesso e al suo essere sociale, come risposte, incarnate nel processo storico, a una serie determinata di problemi e di bisogni. La simpatia, che storicamente si concretizza nei rapporti con le istituzioni e nei criteri ispiratori della giustizia, e una, rna non l'unica, molla autentica alla quale «deve essere fatto risalire il sentimento di approvazione che nasce alla vista di tutti i proventi utili o piacevoli alla societa e alla persona stessa che li possiede·; la simpatia insomma e la fonte principale delle distinzioni morali». La simpatia e definita emozione primaria e fondamento dei sentimenti .morali anche nella Teoria dei sentimenti morali (1759), la prima opera importante di Adam Smith*, che nel 1747 aveva ereditato da Hutcheson la cattedra di filasofia morale a Glasgow. Al centro della riflessione di Smith c'e !'interesse per le motivazioni dell'agire economico e sociale, interesse non casuale, se si pensa che proprio in quegli stessi anni egli lavorava al primo abbozzo della Ricchezza delle nazioni (11.12). L'analisi della vita morale e inserita nel quadro piu ampio del comportamento sociale degli uomini («l'uomo puo sussistere soltanto nella societa»). La descrizione della simpatia (come Hume, Smith nega che sia il frutto di considerazioni dettate dall'interesse personale), della gratitudine e del risentimento, del merito e del demerito, e condotta sulla base di esemplificazioni, a volte molto particolareggiate, dei comportamenti quotidiani in seno alia societa. La valutazione e l'orientamento della nostra condotta dipendono da motivazioni che hanno un carattere piu pubblico che privato. II criteria di valutazione morale e la reazione di simpatia che un comportamento suscita in chi lo osserva e lo giudica. Essere amabili ed essere meritevoli, cioe meritare amore e meritare ricompense, sono i grandi caratteri della virtu; essere odiosi e punibili, del vizio. Ma tutti questi caratteri hanno un riferimento immediato ai sentimenti
Adam Smith nasce nel 1723 nella cittadina scozzese di Kirkcaldy. Borsista al Balliol College di Oxford dal 1740 al 1746, inizia la sua lunga carriera di insegnamento nel 1748 a Edimburgo. NeZ 1751 gli viene conferita la cattedra di logica nella universita di Glasgow; l'anno dopa, quella di filosofia morale, gia occupata dal suo maestro F. Hutcheson. La sua prima opera e ld Teoria dei sentimenti morali. Nel 1764 Adam Smith e in Europa, come precettore del giovane duca di Buccleugh: a Parigi, l'amico Hume lo introduce negli ambienti intellettuali e lo mette in contatto con Turgot e Quesnay, i fisiocratici piu celebri. Tornato a Kirkcaldy nel 1766, lavora per circa dieci anni al suo capolavoro, i cinque libri delle Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni, che escono a Londra nel 1776. Nel 1778 e nominata commissario per le dogane scozzesi e si trasferisce a Edimburgo, dove muore nel 1790.
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degli altri. Virtu non e l'essere arnabili o l'essere meritevoli per il fatto che questo e l'oggetto dell'amore di se 0 della gratitudine per se, rna per il fatto che suscita quei sentimenti in altri uomini. La coscienza che essa e l'oggetto di tali favorevoli apprezzamenti e la fonte di quella tranquillita interna e di quella auto-soddisfazione dalle quali e naturalmente accompagnata, mentre il sospetto di apprezzamenti contrari da occasioni ai tormenti del vizio.
Anche a livello individuale, 1'uomo guarda a se stesso e val uta la sua condotta con questo criterio pubblico: Supponiamo di essere noi stessi gli spettatori del nostro comportamento, e ci sforziamo di immaginare quale effetto esso, in questa luce, produrrebbe su di noi. Ouesto e l'unico specchio mediante il quale possiamo, in qualche misura, con gli occhi degli altri, analizzare e valutare se la nostra condotta e appropriata. Se osservandola in questo modo essa ci piace, siamo tollerabilmente soddisfatti.
Si viene cosi a determinare un sistema di reciproche aspettative che lega gli individui fra di loro e fa della societa un luogo in cui gli individui possono armonizzare spontaneamente la loro libera iniziativa. Comunque, anche in assenza dei motivi disinteressati, che rendono la societa piacevole e felice, la societa puo «sussistere fra uomini differenti, come fra differenti mercanti, peril sensa della sua utilita (... ) tenuta insieme da uno scambio necessaria di buoni uffici sulla base di una valutazione su cui ci si e accordati». Destinato a diventare il pili acuto interprete della rivoluzione industriale inglese, Adam Smith rifugge, come Hume, da risposte univoche circa la natura dell'uomo e preferisce mostrare empiricamente il gioco delle relazioni che si vengono a instaurare tra altruismo, egoismo e simpatia, in un intreccio che, nonostante i fini particolari perseguiti dagli individui, si risolve provvidenzialmente nel bene generale. 11.4. La virtu come filantropia. La fortuna che nel Settecento conosce il tema della connessione tra felicita personale e felicita collettiva manifesta con evidenza il trionfo dei valori borghesi. L'uomo a cui pensano i moralisti inglesi e un individuo contento di se stesso e del suo lavoro, che considera la sua presenza nel mondo non un incomprensibile accidente, rna una positiva e significante realta. Le prospettive aperte dal diffondersi dell'idea di progresso (10.7-11) implicano una crescente consapevolezza del carattere sociale dell'esistenza e la solidarieta di ciascuno con tutti, nella comune impresa di trasformare il rriondo. Non meraviglia, quindi, che anche sul continente si moltiplichino le discussioni sulla compatibilita tra felicita pubblica e privata, nonch·e sul ruolo e sulle responsabilita dei governi, delle leggi e dell'educazione. Nel Trattato di metafisica, scritto tra il 1734 e il 1737, Voltaire (9.5) fa proprie le posizioni dell'utilitarismo inglese («la virtu e il vizio, il bene e il male morale, sono dunque in ogni paese quel che e utile o nocivo alla societa»), rna non fa alcuna concessione al relativismo etico. Esistono «leggi naturali » che gli uomini sono «obbligati ad accettare in tutto il mondo» e tra queste ha un
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posto di primo piano la «benevolenza per la nostra specie», che «e nata con noi e opera sempre in noi ». In aderenza al verbo deista, Voltaire crede in una morale universale, respinge la riduzione della virtu a mero calcolo utilitaristico rna condivide la definizione che ne faun mezzo per ottenere la pubblica utilita. La virtu di cui ha oggi bisogno la societa non e pili la virtu della tradizione religiosa. Che cos'e la virtu?- scrive nel Dizionario filosofico (1764)- Far del beneal prossimo (...) Che m'importa che tu sia temperante? E un precetto di salute che tu osservi; te ne troverai meglio, e io mi felicito con te. Tu hai la fede e la speranza, e io me ne felicito ancor piu: ti guardagnerai cosi la vita eterna (... ). Noi viviamo in societa, dunque non c'e nulla che sia veramente bene per noi, se non e bene per la societa. Un solitario potra essere sobrio e pio, e vestirsi con un cilicio: vuol dire che sara santo; rna io non lo chiamero virtuoso se non quando avra fatto qualche atto di virtu di cui il suo prossima avra profittato. Finche egli e solo, non e ne benefico ne malefico, non e niente per noi. (... )La virtu fra gli uomini e un rapporto di buone azioni. Colui che non prende parte a questo scambio non deve essere tenuto nel conto.
Ecco perche la virtu somma e nell'agire «per amore dell'umanita». Come afferma Condorcet, «il sentimento dell'umaniHt>> implica «una compassione tenera, attiva per tutti i mali che affliggono la specie umana», una solidarieta generalizzata a tutti gli uomini, senza distinzione di razza, sesso, religione o istituzioni politiche, con particolare riguardo alla miseria, alia schiavitu e all'oppressione. 'Umanita', 'filantropia' e 'beneficenza' - questi ultimi due neologismi sono dovuti rispettivamente a Fenelon e all'abate di Saint-Pierre definiscono la nuova morale sostitutiva della carita cristiana, che era pur sempre una virtu teologale, finalizzata all'amore di Dio pili che all'amore del prossima. L'espressione pili significativa di questi valori-guida si trova nella ideologia della massoneria, che proprio sulla base del proprio contenuto etico rinnova profondamente le sue costituzioni e, a partire dalla grande assemblea organizzativa di Londra del giugno 1717, pone le premesse per la sua diffusione in tutta Europa. Quando siamo radunati - recita un testo massone del 1744 - diventiamo tutti fratelli, il resto dell'universo e estraneo: il principe e il suddito, il gentiluomo e l'artigiano, il ricco e il povero sono mescolati, nulla piu li distingue, nulla piu li separa.
Separati, grazie al segreto, dal resto del mondo, questi «fratelli» incamano bene la nuova elite emergente, composta di aristocratici e borghesi, che diventa consapevole della propria superiorita nella misura in cui esalta l'umanita, anzi si sente l'umanita. Secondo Diderot (9.9), la struttura morale e originaria e autonoma, e un dettame che la natura (e non Dio, come avrebbe detto Voltaire) rivolge direttamente alla ragione, al cuore e al sentimento. La natura - scrive nel 17 57 - ha fatto le buone leggi dal fondo dell'eternita; una forza legittima ne assicura l'esecuzione, e questa forza che
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tutto puo contro il cattivo non puo nulla contro I 'uomo per bene: io la cito al tribunale del mio cuore, della mia ragione, della mia coscienza, al tribunale dell'equita naturale.
Nonostante la sua evoluzione ideologica, Diderot si mantiene fedele a questa convinzione. Nel 1745 ha tradotto il Saggio sulla virtu e il merito di Shaftesbury; nel celebre romanzo La religiosa (1760) contrappone i valori della felicita naturale alle ipocrisie della morale religiosa; in Giacomo il fatalista (1771) difende il libero arbitrio dell'uomo dalle insidie del determinismo; nel 1773 non perdona ad Helvetius di aver sostenuto, nel suo Dell'uomo, ch~ tutte le nozioni morali derivano dal piacere e dal dolore sensibili. La convinzione che esista una «virtu naturale», o chela virtu vera non sia che il prolungamento della natura, e largamente condivisa dalla cultura dei 'lumi' ed e utilizzata per superare !'impasse a cui conduce l'apologo di Mandeville (la virtu ridotta a mera finzione sociale). Il presupposto sottinteso o esplicitato e, naturalmente, la fede nelle possibilita di restaurare l'ordine naturale nella societa, attraverso un'educazione razionale e grazie a una legislazione che mirino, appunto, a continuare nella societa l'opera clella natura. A'nche d'Holbach, (8.11 ), che pure propende pili di Diderot verso il determinismo (l'amore di se, che spinge l'uomo ad agire, e considerato come la forza di gravitazione nei rapporti interpersonali), nel Sistema sociale (1773) afferma che il prima e piu importante passo per realizzare la virtu naturale e combattere l'ignoranza e usare senza paura la ragione, che e «la conoscenza della vera felicita e dei mezzi capaci di procurarla». A un intervento attivo e determinante del legislatore pen sa P.L. Moreau de Maupertuis ( 1698-17 58) nel suo fortuna to Saggio di filosofia morale (1749). L'epicureismo e lo stoicismo hanna, secondo Maupertuis, affrontato correttamente la questione etica, partendo dall'assunto dell'universalita del «desiderio d'esser felice» e indicando come accrescere la somma dei beni e ridurre invece la somma dei mali, che la 'vita ordinaria' dimostra essere purtroppo superiore. E pertanto indispensabile un calcolo meditato nel dosare i beni e i mali (misurati in base all'intensita e alia durata e trattati come grandezze, rispettivamente, positiva e negativa) e nel cercare di procurare, anche a livello sociale, «la maggiore somma di felicita possibile» per il piu gran numero di persone possibile. Si possono considerare Ia felicita e l'infelicita cosi come i geometri considerano Ia quantita, ch'essi distinguono in positiva e negativa, e dire che Ia felicita reale della societa e Ia somma residua, detratti tutti i dolori particolari.
11.5. Dalla 'virtu morale' alia virtu politica. In un passo controverso della Spirito delle Leggi (incorso, non a caso, nella censura della Sorbona) Montesquieu (8.13) afferma che nelle monarchie e Ia politica, e non la virtu, «che fa compiere le grandi imprese». Lo Stato vive indipendentemente (... ) da tutte quelle eroiche virtu che troviamo fra gli antichi e delle quali abbiamo solamente udito parlare. Le leggi prendono il posto di tutte le virtu, di cui non c'e ormai alcun bisogno.
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Pur preferendo, in linea di princ1p10, la repubblica, per !'Europa del suo tempo Montesqueiu propane una monarchia moderata. Dunque nella Francia e nell'Europa del '700, non c'e piu bisogno della virtu, rna di leggi, che invece, come si e vis to, rispecchiano i «costumi » di un popolo. La virtu nei suoi riflessi pubblici appartiene al passato, aile societa del mondo greco e romano. La separazione, introdotta dal cristianesimo, tra morale privata e morale pubblica, o meglio tra moralita tout court e regale della vita politica e mondo del diritto, e diventata un tratto peculiare del mondo moderno. L'avanzata della societa borghese ne ha definitivamente sancito il successo. I politici greci, che vivevano in un governo popolare, riconoscevano nella virtu l'unica forza capace di sostenerlo. I politici oggi ci parlano di manifatture, di commercia, di finanze, di ricchezze, perfino di lusso. Quando viene a cessare questa virtu, entra l'ambizione nei cuori pronti a riceverla, e l'avidita in tutti. I desideri mutano di oggetto; cio che una volta si amava, non lo si ama pill; si era liberi con le leggi, si vuole esserlo contro di esse. Ogni cittadino pare uno schiavo fuggito dalla casa del padrone. (... )Prima i beni dei singoli formavano il tesoro pubblico; rna ora il tesoro pubblico diventa patrimonio dei singoli.
Un intellettuale come Montesquieu, che alia sua ricerca assegna l'obiettivo di determinare il sistema di leggi in grado di produrre, entro date circostanze storiche e ambientali, il massimo di liberta possibile, non ritiene che si possa parlare, oggi, di virtu, o meglio di virtu come sostegno e «molla» del governo. Nelle monarchie ben regolate, tutti saranno press'a poco buoni cittadini, rna un uomo virtuoso lo si trovera di rado. Infatti per essere un uomo virtuoso, occorre averne l'intenzione, ed amare lo Stato per se stesso, non per noi.
Le aggiunte e i chiarimenti, introdotti nell'edizione del 1757, per ovviare alIa censura della Sorbona e chiarire che si vuol parlare di 'virtu politica' e non di 'virtu morale' non sono convincenti e, caso mai, convincono che l'intenzione originaria di Montesquieu, vicina per realismo a quella di Machiavelli e Mandeville, fosse appunto di cantare la morte della virtu. Senza ambiguita si presenta invece l'epicedio della virtu pubblicato da La Mettrie (8.10), lo stesso anno in cui comparve lo Spirito delle leggi. AI di la della coincidenza cronologica, quasi niente accomuna due uomini e due filosofi cosi diversi. Studioso di medicina, La Mettrie stava pagando con l'esilio il materialismo a teo e senza cautela sostenuto nella Storia naturale dell 'anima (1745). Il-ragionamento proposto da La Mettrie nel suo Discorso sulla felicita (1748) e in breve il seguente. Come qualsiasi processo psichico, anche la felicita, a cui tutti, uomini ed animali, aspirano, e riconducibile ad un evento corporeo: I nostri organi sono suscettibili di un sentimento o di una modificazione che ci da piacere e ci fa amare Ia vita. Se l'impressione di questa sentimento e breve, si tratta di piacere; se e piu lunga, e volutta; se e permanente, si ha la felicita.
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La felicita consiste, dunque, nel seguire i dettami della propria natura, fisicamente intesa, e nell'evitare le intrusioni «spesso inutili e qualche volta funeste ed esiziali» della ragione, del sapere e di cio che tradizionalmente si intende con la parola virtu. Accanto a questa felicita 'naturale' sussiste una felicita 'artificiale', che «Consiste nel seguire i sentimenti impressi in noi dall'educazione», educazione necessaria per tenere insieme la societa e controllata da chi detiene il potere politico. La virtu e il vizio appartengono a questa tipo di felicita: non esistono quindi in assoluto, rna come nozioni «relative alla societa di cui costituiscono insieme l'ornamento e il sostegno». Passando a smontare il sistema etico costruito dall'educazione, La Mettrie mette in luce il ruolo svolto dalla vanita. e dall'esibizione nel motivare l'azione 'virtuosa', nonche le inibizioni e le tristezze causate, gia nell'infanzia, dai rimorsi e dagli scrupoli, che comunque nella societa moderna hanna una presa minore rispetto al peso crescente delle leggi e delle pene. Il caso di La Mettrie potrebbe far pensare che, a parte Montesquieu, lanegazione della virtu sia un tratto esclusivo del materialismo ateo. In realta non e cos!. Erede di Hobbes, Helvetius (8.13) identifica il bene e il male con «le sensazioni di piacere e di dolore fisici che riceviamo dagli oggetti esterni», quando i nostri bisogni ottengono soddistacimento; non ritiene il sensa morale innato e da grande importanza all'amore di se e all'amor di potere. Riconducendo i giudizi morali alia dinamica tra ricerca del piacere e ripulsa del dolore, Helvetius indica Ia sola molla dell'azione nell'interesse. Cio nono'stante, si schiera dalla parte di chi, come Diderot, difende la virtu, definita «il desiderio della felicita generale», e di chi, come Voltaire, esalta le virtu di pubblica utilita condannando
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(...)in tutti i tempi, i nostri saggi, per cercare di guarire una depravazione a torto creduta un fatale appannaggio della condizione umana, hanno cominciato con l'immaginare che l'origine di quella caducita fosse dove essa non esistette mai e hanno confuso il veleno che reputavano causa del male con il rimedio del male stesso.
Nello stato di natura, l'uomo, che «non ha ne idee ne tendenze innate», via via che soddisfa i suoi <
La restaurazione dell'innocenza primitiva e possibile purche si elimini «lo spirito di proprieUt>>, si fortifichi «questa felice riforma» con I 'educazione e si elabori una legislazione semplice ed efficace, «conforme aile intenzioni della Natura». Solo questi interventi politici radicali possono ripristinare una pace e un'armonia non precarie, assicurando il trionfo della «beneficenza», sia «at· tiva» che «passiva», della virtu che «sola innalza gli uomini all'idea di Dio e perfeziona tutte le facolta della ragione interessandole e utilizzandole per il lora vero scopo ». 11.6. Rousseau: Ia civilta corrompe, Ia natura e buona. Sui frontespizio del Discorso sulle scienz.e e le arti si Iegge questo verso di Ovidio: «Barbarus hie ego sum, quia non intelligor illis» («qui io sono un barbara, perche non sono da loro capito»). Gli scienziati, i letterati vanagloriosi e i filosofi contemporanei sono infatti accusati da Rousseau (9.13) di aver distrutto la virtu e di aver minato il fondamento stesso della vita comunitaria. E quanto si ricava, oltre che dal Discorso appena ricordato, dal pili celebre Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini (1755) e dall'Emilio (1762). Le tre opere, che, a detta dell'autore, «formano un sol tutto», elevano una denuncia solenne e appassionata delle «contraddizioni del sistema sociale» e degli «abusi delle istituzioni», evidenziando le gravi connivenze di cui la cultura dei 'lumi' e responsabile. AI quesito posto dall'Accademia di Digione («Se il rinascimento delle scien· ze e delle arti abbia contribuito a migliorare i costumi ») il prima Discorso ri-
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sponde decisamente, e con qualche punta di enfasi retorica, in sensa negativo. Le scienze e le arti hanna origine dai «vizi » (dissipazione, parassitismo, lusso, frivolezza, decadenza delle virtu guerriere e patriottiche, ozio, mediocriUt) e dalla «vana curiosita umana»; non possono quindi che corrompere la morale e i costumi sociali; la lora azione nefasta cresce nella misura in cui progrediscono verso la perfezione: Lo spirito ha i suoi bisogni, come il corpo. I bisogni del corpo sono il fondamento della societa, quelli dello spirito il suo ornamento. Mentre il governa e le leggi provvedono alia sicurezza e a! benessere degli uomini associati, le scienze, le lettere, le arti, meno dispotiche e forse piu potenti, stendono ghirlande di fiori sulle ferree catene che li gravano, soffocano in loro il sentimento di quella liberta originaria per cui sembravano nati (... ). Il bisogno elevo i troni; le scienze e le arti li hanno rafforzati.
Le scoperte e i progressi materiali, che nel volgere di poche generaziuni hanna aperto all'umanita orizzonti prima impensabili, non hanno aumentato la felicita umana, hanno anzi approfondito il solco che separa il «sembrare» dall'«essere». Come sarebbe dolce vivere tra noi, se il contegno esteriore fosse sempre I 'immagine dell 'inclinazione del cuore; se la costumatezza fosse virtu; se le nostre massime ci servissero da regola di condotta, se la vera filosofia fosse inseparabile dal titolo di filosofo!
II progresso delle arti ha moltiplicato l'inganno delle apparenze: Prima che l'arte avesse foggiato le nostre maniere e insegnato aile nostre passioni a esprimersi in un hnguaggio artificiale, i nostri costumi erano rustici e naturali e le diversita di comportamento denunciavano immediatamente Ia diversita del carattere.
Sul piano personale, a Rousseau non resta che decidere di vivere sconosciuto, di non ascoltare le voci ingannevoli della civilta moderna e di prestare orecchio soltanto agli imperativi della «propria coscienza nel silenzio delle passioni». II ripristino della virtu («scienza sublime delle anime semplici>>) richiede, come prii:no, indispensabile pas so, di «rientrare in se stessi » e liberarsi dal gioco delle apparenze, che invece e, nel profondo, il vizio del progetto mistificante dei 'lumi', il quale si appella, si, a natura e a virtu, rna in nome di un sapere che e a quei vizi indissolubilmente legato. Nelle risposte ai libellisti scesi in campo contra il suo atto di accusa, Rousseau ha modo di impostare pili correttamente le questioni sollevate e, ricorrendo ai testi dei «giureconsulti» (come Grozio) e dei «politici>> (come Machiavelli o Montesquieu), intravede l'analisi che poi espone compiutamente nel Discorso sulla diseguaglianza. Qui diventa centrale la contrapposizione tra societa primitiva (originaria) e societa moderna (artificiale), o meglio, tra stato di natura e civilizzazione. A differenza di Morelly e di altri illuministi francesi, Rousseau non parla della stato di natura come di una epoca felice storicamen-
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te reale, ne secondo l'adagio del «ritorno aile origini» implicito, per esempio, nel diffuso mito del huon selvaggio. Concordando invece con Hume nel considerare il concetto di natura un'astrazione, Rousseau sostiene tuttavia che «per giudicare bene intorno al nostro stato presente» e opportuno, sui piano metodologico, formulare un'ipotesi sullo stato di natura «che non esiste pili, che forse non e mai esistito, che probabilmente non esistera mai». Solo cos! l'uomo puo «arrivare a vedersi tal quale l'ha fatto la natura attraverso tutti i mutamenti che il corso dei tempi e delle cose ha dovuto apportare alla sua originaria costituzione». Dunque, lo stato di natura non come «la vera origine» rna come ipotesi di lavoro, simile a quei «ragionamenti ipotetici e condizionali» che «fanno ogni giorno i nostri fisici sulla formazione del mondo». II riferimento riguarda anzitutto la Storia naturale di Buffon (8.10-11), che e infatti ampiamente citata nelle note della prima parte del Discorso. Nello stato di natura non c'e disarmonia tra ragione, bisogni, passioni e risorse a disposizione. Dominato dalle sensazioni, l'uomo desidera «solo le cose che conosce» e conosce «solo quelle il cui possesso e in suo potere»: nulla e «cos! limitato come il suo spirito» e «cosi tranquillo come Ia sua anima>>. La diagnosi impietosa di Hobbes sullo spirito di aggressivita e di competizione connaturato all'uomo vale per l'uomo civilizzato, non per l'uomo naturale. La «calma delle passioni», l'«ignoranza del vizio>>, e, soprattutto, Ia pieta- «virtu tantv pili universale ed utile all'uomo, in quanto precede in lui l'uso di ogni riflessione>> - impediscono all'uomo naturale di nuocere ai propri simili. La pieta tempera «l'amore di se>>, o istinto di autoconservazione (da non confondere, come fa invece Hobbes, con «l'amor proprio», sentimento artificiale, di vanita e di orgoglio, introdotto dalla civilta), inducendo a identificarsi con chi soffre. Questa virtu, che i filosofi moderni non avvertono, si incontra tra la gente pili umile e nelle societa meno evolute, dove il processo di identificazione e pili facile: «Nelle zuffe di strada, la folia si raduna, l'uomo benpensante fugge. E la 'canaille' che separa i contendenti (... )». Cio nonostante, l'uomo naturale non ha ancora gli attributi della moralita e della socialita: ce lo dobbiamo immaginare piuttosto simile ai «bestioni>> di Vico: «vagante nella foresta, senza occupazione, senza linguaggio, senza domicilio, senza guerre e senza legami, senza alcun bisogno dei suoi simili e senza alcun desiderio di far loro del male, forse anche senza riconoscerne mai nessuno individualmente>>. Questi primitivi, premorali e asociali, sono contrapposti a quelli immaginati dai giusnaturalisti e da Hobbes, che invece, volendo giustificare la societa presente, la proiettavano nello stato di natura: «parlavano dello stato selvaggio, e dipingevano l'uomo civilizzato». II passaggio dall'innocenza e dalla limitatezza dei primi tempi alla corruzione e alla infelicita della societa civilizzata implica il passaggio da un'economia di pura sussistenza a una economia produttiva, attraverso quella fase intermedia, che caratterizza i popoli 'selvaggi' di oggi, da non confondere quindi con gli uomini primitivi. Durante questo stadio di sviluppo, gli uomini sono riuniti in famiglie e nazioni, si dedicano a «lavori che possono essere fatti da una sola persona e ad arti che non hanno bisogno della collaborazione di parecchie mani>>, vivono «liberi, buoni, sani e felici». A questa societa «naturale>>, di tipo patriarcale, fondata su una economia quasi esclusivamente agricola
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(l'artigianato e ammesso solo come completamento necessaria dell'agricoltura), a questa epoca che e stata «la vera giovinezza del mondo», segue la nascita della « societa civile». II primo che, avendo cintato un terreno, penso di dire «questo e mio» e trovo delle persone abbastanza stupide da credergli, fu il vero fondatore della societa civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie ed orrori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i piuoli o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: <
Da questo primo atto derivano la «diseguaglianza»; la violenza sfrenata dei ricchi a danno dei poveri, la modificazione dei rapporti tra gli uomini (divenuti inautentici), il rapido sviluppo della ragione (
e dette vita al <<patto iniquo» su cui si regge lo Stato e si reggono le leggi, «che diedero nuove pastoie al debole e nuove forze al ricco, distrussero senza scampo la liberta naturale, fissarono per sempre la legge della proprieta e della disuguaglianza». Dallo Stato nacquero gli Stati, e dagli Stati le guerre. 11 patto sociale ipotizzato dal giusnaturalismo altro non e che l'organizzazione legale della violenza, mediante il consenso estorto con l'astuzia; e «il progetto piu avveduto che sia mai venuto in mente all'uomo: usare cioe a proprio vantaggio le forze stesse che lo attaccavano, fare dei propri avversari i propri difensori, ispirare loro altre massime e dar loro altre istituzioni che gli fossero favorevoli quanto il diritto naturale gli era contrario ». 11.7. Rousseau: Ia nuova educazione. Poiche lo sviluppo della ragione crea nuovi bisogni, affievolisce la pieta ed offre mezzi potenti alia crescita dell'amor proprio e dello spirito di competizione, la societa civile e divenuta sempre piu immorale, anche se i filosofi hanno sempre piu parlato di etica e di sistemi morali. Mentre pen) l'uomo primitivo non e ne cattivo ne buono, solo l'uomo civilizzato puo essere moralmente responsabile. 11 momento felice nella storia del genere umano, quando l'uomo era «naturalmente» morale, e rappresentato, si e visto, dalla societa «naturale», dalla vita senza sprechi e senza consumi superflui, che l'organizzazione patriarcale e l'economia agricola hanno reso possibile. E questo ideale di societa, ben esemplificato nell'amato Telemaco di Fenelon, che anima Rousseau e la sua concezione della virtu. Que-
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sta non e il risultato di un sentimento inteso come principia dell'azione morale, ne si limita alia riscoperta della voce buona di una natura idilliaca, usata come contrappeso aile spinte egoistiche presenti nella societa e nel singolo. La virtu e il tentativo a cui e chiamato l'uomo moderno per contrastare e sconfiggere le passioni egoistiche, camuffate, magari, sotto la parvenza di virtu progredite (come nell'utilitarismo), e consiste nel recuperare, anche _con l'aiuto della ragione, i sentimenti di apertura verso gli altri, che nella « societa naturale» erano avvertiti senza la mediazione razionale. In questa Iotta contro l'egoismo, un ruolo decisivo spetta naturalmente alle istituzioni civili e alle leggi, che pero devono rinnovarsi profondamente. Come vedremo nel Contralto sociale e negli scritti piu specificamente politici (11.10), la trasformazione delle istituzioni si basa su di un consenso autentico, che sia accordo tra libere volonta e non falso accordo tra voloma asservite. 0 Emilio! Dov'e l'uomo dabbene che non deve nulla al suo paese? Chiunque sia, gli deve cio che c'e di piu prezioso per l'uomo, la moralita delle sue azioni e l'amore della virtu. Nato nel fondo di un bosco, sarebbe vissuto piu felice e piu libero; rna non avendo da combattere nulla per seguire le proprie tendenze, sarebbe stato buono senza merito, non sarebbe stato virtuoso, mentre ora egli sa di esserlo a dispetto delle sue passioni. Impara a combattere contro se stesso, a vincersi e sacrificare il suo interesse all'interesse comune. Non e vero che non ricavi alcun vantaggio dalle leggi; esse gli danno il coraggio di essere giusto, anche fra i cattivi. Non e vero che esse non l'hanno reso libero, gli hanno invece insegnato a regnare per se medesimo.
L'intero processo educativo delineato nell'Emilio mira a instaurare nel giovane, in eta della ragione, una coscienza morale autonorna, padrona del proprio destino. Questo obiettivo, che presuppone la subordinazione dei sensi, che sono <<passivi », a una r.agione <
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Per un uomo come Rousseau, che non ha mai dimenticato gli eroi di Plutarco sognati da bambino, e che ammira il mondo greco e romano, dove «ogni casa era una scuola di cittadini», non e forse contraddittorio o almena rinunciatario affidare 1'educazione di Emilio a un precettore privata? Come si concilia l'ideale supremo dell'educazione pubblica con la lunga segregazione di Emilio dalla societa? Forse Rousseau ha abbandonato il progetto di radicale riforma delle istituzioni? Rousseau stesso risponde a queste legittime domande pubblicando il Contralto sociale (11.10) nella stesso anna dell'Emilio e dichiarando che l'«educazione domestica o della natura» proposta nell'Emilio e l'unica possibile in una societa come quella dell'Europa contemporanea, dove non esistono piu patrie ne cittadini (rna monarchie) e dove il progetto politico del Contralto non e generalizzabile. Nella sua vigorosa e solitaria denuncia, che puo ricordare i toni del profetismo biblico, Rousseau e portato ad accentuare Ia dimensione etica delle questioni sollevate, rna non per questa dimentica la stretta correlazione tra morale e politica (<> e impossibile (nel Discorso sulfa disuguaglianza mette in guardia gli interpreti malevoli dal non cadere in simili banalizzazioni), afferma, d'altra parte, che i vizi dell'uomo contemporaneo «non appartengono tanto all'uomo quanta all'uomo mal governato>>. La sua riflessione e Ia sua vita si muovono su questa strada, individuando impietosamente, rna con realismo, gli ostacoli che impediscono alia trasparenza e all'autenticita di diventare i cardini della morale individuale e sociale. Uno di questi ostacoli e costituito dalla presunzione 'scientifica' dei 'lumi ', che Rousseau sente ancora dentro di se e di cui, costi que! che costi, non esita a s barazzarsi.
Utopia e progetto politico 11.8. II ritorno dell'utopia. Insieme al Rinascimento e a! prima Ottocento, il Settecento e il periodo piu fortunato per Ia creativita utopistica. E stato calcolato che trail 1676, anna in cui usci Ia Terra australe conosciuta, di Gabriel de Foigny, e il 1789, nella sola Francia sono stati pubblicati oltre 80 «viaggi immaginari>> e che, sempre in Francia, trail 1700 e il 1789, almena 150 titoli sono da attribuire al genere 'utopistico'. L'eccezionale fioritura, nel secolo dei 'lumi', di questa genere letterario inaugurato da Tommaso Moro (2.9), non puo stupire. In quanta rappresentazione di una societa alternativa a quella esistente, !'Utopia condensa in una citta del tutto nuova i sogni e le speranze dell'imma· ginazione sociale protesa alla felicita collettiva. E. naturale che la produzione utopistica aumenti via via che si intensifica il dibattito sulla riforma della societa e via via che si estendono Ia conoscenza e il confronto con i popoli 'diversi', dygli altri continenti. L'urgenza di una riforma complessiva e la cosiddetta
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'esperienza del diverso' interagiscono nell'immaginario collettivo e, concretizzandosi nei generi prediletti del viaggio immaginario (o romanzo politico) e del progetto di legislazione perfetta, alimentano l'affermarsi, in forme diverse, dell'ideale utopico. Nel Settecento, come scrive lo storico polacca Bronislaw Baczko, «troviamo utopie egalitarie e comunitarie, rna anche utopie che aspirano a un "equa' proprieta borghese; utopie spontaneistiche e di carattere anarchico, rna anche utopie stataliste in c'ui il potere regolamenta tutti gli aspetti anche particolari della vita; utopie agrarie e utopie urbane; utopie retrospettive e primitivistiche che si riconnettono ai tempi dell'Arcadia, dell'eta dell'oro e del buon selvaggio, rna anche utopie prospettiche, rivolte al progresso delle scienze e delle tecniche o anche semplicemente al progresso; utopie che si accontentano di sognare l'eliminazione degli abusi e altre che immaginano un mutamento radicale dei rapporti umani. I viaggi immaginari si svolgono in 'terre australi', in Barberia, sulla Luna, sotto il mare, all 'interno del globo, ecc. e i progetti di legislazione propongono di realizzare la pace perpetua, Ia felicita, l'abbondanza, e la razionalita perfetta». Le speranze coltivate dai 'lumi' dilatano le frontiere entro cui il Rinascimento aveva collocato l'utopia. Molti tra gli scritti e i manifesti teorici di autori sin qui menzionati, come (per restare in ambito francese) le Lettere persiane (1721) di Montesquieu, il Testamento di Meslier, il Supplemento al viaggio di Bougainville di Diderot, nonche gli scritti dell'abate di Saint Pierre, quelli di Morelly e di Deschamps, documentano la nuova ricchezza di temi e di prospettive del genere utopistico. Lo stesso si deve dire di molti romanzi - dal Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe, ai Viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift; da Micromegas (1752) di Voltaire a L'anno 2440 di Louis Sebastien Mercier e ad Aline e Valcour (1793) del marchese De Sade - dove la 'Citta ideale' s'i incarna in immagini verosimili e quotidiane o, anche quando sembrano giochi intellettuali, in narrazioni che sollecitano illettore alla realizzazione pratica. Fra il 1787 e il 1789, confondendosi con i primi atti del potere rivoluzionario, escono a Parigi i 39 volumi della raccolta di Viaggi immaginari, curata da Charles Garnier. Si potrebbe pensare che, promuovendo il gusto dell'avventura come fonte di piacere ed esaltando, attraverso il romanzesco, lo spirito di iniziativa individuale, questa genere, legato alla 'finzione' e all'artificio, rappresenti una mera e gratuita evasione. In realta, gli stessi contemporanei mettono questi wmanzi sullo stesso piano dei trattati politici, economici e sociali, ritenendoli capaci di stimolare l'immaginazione e la riflessione verso cio che e utile. Persino un paladino del riformismo piu cauto, come il francese Jean Nicolas Demeunier (1751-1814), autore di una fortunata Enciclopedia metodica, sottolinea «l 'utilita» delle utopie. I lumi sono oggi universali, ciascuno conosce gii abusi, ciascuno ne indica i rimedi e questo fermento relativo al bene pubblico ha gia prodotto un gran numero di riforme, alcune cosi importanti che non si poteva neppure sperarle all'inizio del secolo. Senza dubbio, gli amministratori si arresteranno troppo presto; troppo colpiti dalla corruzione dei popoli, troppo spaventati dai pericoli che le innovazioni portano con se, lasceranno sussistere abusi evidenti; rna lo zelo degli scrittori non deve subire un rallentamento
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(... ) essi avranno almeno la soddisfazione di presentare ai sovrani e ai giudici l'immagine dell'ordine e del benessere che le societa comportano. I progetti piu chimerici sulla legislazione e i governi offrono generalmente suggerimenti utili; gli uomini amano d'altra parte contemplare l'immagine di uno stato felice nel quale non si troveranno mai.
Nella seconda meta del secolo, l'orizzonte dell'utopia, abbandonando alcuni elementi della 'finzione' letteraria, si restringe nei confini piu limitati rna piu certi della storia effettiva e del possibile. Si fa strada, cosi, una concezione nuova dell'utopia, che si avvicina a quella dei nostri giorni. Un'anticipazione significativa e offerta, ancora una volta, da Rousseau, che non ama gli utopisti, rna non per questo accetta di adattarsi passivamente al «fattibile». Rousseau non ha scritto nessun viaggio immaginario, ne alcun progetto di legislazione perfetta; se si eccettuano le pagine della Nuova Eloisa sulla comunita modello di Clarens (8.12), le sue proposte non contengono mai i tratti delle utopie settecentesche, a cominciare dal fatto che non sono collocate in un 'non-luogo'. Prendersela con quanti elaborano sistemi che non hanno «alcun valore peri figli di Adamo>> non significa comunque, scrive Rousseau nelle Considerazioni sul governo di Polonia (1771), restare prigionieri nel «paese dei pregiudizi» e fare come «i nostri politici», che «credono fattibili solo le cose di scarsa importanza che essi fanno» e, «giudicando gli uomini in base a se stessi e a coloro che li circondano», sono ben lontani dall'immaginare «quale forza possano dare agli animi liberi l'amor di patria e lo slancio della virtu». Proponete quello che e fattibile, non si cessa dal ripetermi - si Iegge nella prefazione all'Emilio -. E come se mi si dicesse: proponete di fare cio che si fa; o almeno proponete qualche bene che possa allearsi col male esistente (... ) Padri e madri, quello che e fattibile e cio che voi volete fare.
Per evitare il rischio di cadere in un realismo rinunciatario, occorre farsi guidare da un grande obiettivo morale e sociale, che coinvolga pienamente le nostre energie, e liberarsi dei pregiudizi che schiavizzano la coscienza e l'intelletto, senza rifugiarsi nel «paese delle chimere», caro agli utopisti di professione. La nozione moderna di utopia, dovuta a Kant e alla sua scoperta della funzione «regolativa», di orientamento e di direzione, che !'utopia svolge nel processo storico, e in realta gia qui, nella lezione del grande ginevrino. 11.9. Dirltto di natura. Il pensiero politico del Settecento raccoglie l'eredita del giusnaturalismo seicentesco (6.1-4), ne diffonde le teorie e contribuisce efficacemente all'affrancamento della politica dalla teologia e alla secolarizzazione dell'ordine giuridico. Come si ricordera, il nucleo fondamentale del giusnaturalismo sta nell'affermazione che, prima di tutte le convenzioni umane, esiste una «Iegge naturale», una regola di giustizia universale e immutabile come le verita eterne, a cui ogni individuo deve conformarsi nei rapporti coni propri simili. Le leggi positive, stabilite dalla volonta di un legislatore, non sono ne universali ne immutabili, e dipendono, in posizione subordinata, dalla Iegge naturale, che esse non possono mai contraddire, pena il diritto dell'individuo alla disobbedienza.
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Espressione della stessa matrice che ispira il deismo e in generale il razionalismo religioso ottimistico, il diritto naturale postula l'idea di uno «stato di natura» come condizione originaria dell'uomo, nella quale, contrariamente alIa guerra perpetua di Hobbes, sono riconosciuti a-tutti gli individui alcuni diritti incoercibili, come la vita, la liberta e la proprieta. Proprio per tutelare l'esercizio di questi diritti nasce l'esigenza di un potere che garantisca la civile convivenza istituendo norme e pene per i trasgressori. L'uscita dallo stato di natura e la nascita di questo potere si realizzano tramite un patto in cui gli uomini, per la tutela dei diritti di ciascuno, accettano di limitarsi reciprocamente. Nonostante le diverse concezioni riguardo alla natura e al significato di questo patto fondatore, le conclusioni sono condivise da tutti: ogni autorita politica e di diritto urnano ed esercita la sovranita per delega, come risultato di un contratto; nessuna monarchia puo arrogarsi l'origine divina. Questo modello teorico, nato in ambito protestante (Altusio e Grozio erano calvinisti, Pufendorf luterano), costituisce il punto di riferimento quasi mai messo in discussione per tutto il dibattito politico del '700, dominato dalla preoccupazione di fissare ordinamenti e istituzioni capaci di salvaguardare i diritti e i doveri dell'uomo e del cittadino in seno alia societa civile. Vediamo, a titolo esemplificativo, com'e trattato nell'Encyclopedie il tema dell'uguaglianza naturale. Nell'omonimo articolo, scritto da de Jaucourt, si legge che «l'uguaglianza naturale,( ... ) principia e fondamento della liberta», si basa sui fatto che «la natura umana e la stessa in tutti gli uomini». Nella stata di natura gli uamini nascana effettivamente nell 'uguaglianza, rna non saprebbero restarvi; la societa la fa lora perdere ed essi non ridiventana uguali che attraverso le leggi.
Ouesto significa denunciare e condannare «tutte le ineguaglianze prodotte nel governo politico dalla differenza delle condizioni, dalla nobilta, dalla potenza, dalle ricchezze, ecc.>>, rna significa anche, come dice Diderot nell'articolo «Cittadino», riconoscere che «la totale uguaglianza fra i membri» e una cosa chimerica, «ed e forse in cia il principia di dissoluzione» di ogni governo democratico. So no i principi espressi nella Dichiarazione d 'indipendenza votata nel 177 6 dai rappresentanti delle tredici colonie americane insorte contra la rnadrepatria: Tutti gli uomini sono stati creati uguali; essi sono dotati dal lora creatare di certi diritti inalienabili; fra questi diritti ci sono Ia vita, la giustizia e la ricerca della telicita. I governi sono fondati fra gli uomini per garantire tali diritti ed il lora giusto potere emana dal consenso dei governati.
Piu polemica, rna sostanzialmente analoga, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, proclamata nel 1789 dall'Assemblea nazionale francese: «le cause dell'infelicita pubblica e della corruiione dei governi» sono «l'ignoranza, l'oblio o il disprezzo dei diritti dell'uomo»; questi <
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solenne» affinche «gli atti del potere legislativo, potendo essere ad ogni istante messi a confronto col fine di ogni istituzione politica, ne siano piu rispettati». Il senso generale e i temi delle discussioni politiche, almeno fino a Kant e a Fichte, non si discostano gran che dalle posizioni giusnaturalistiche. Le uniche novita di rilievo sono la critica di Hume ai presupposti del giusnaturalismo e il Contratto sociale di Rousseau. Conservatore in economia (anche se si dichiara liberoscambista, si rivela piu incline al mercantilismo) e in politica, Hume (8.8) considera mere «finzioni» sia lo stato di natura («non diversamente dall'eta dell'oro inventata dai poeti>>), sia la nozione di «pattO>>. E vano, afferma nel Trattato sulla natura umana, «cercare nelle leggi di natura una base piu salda per i nostri doveri politici che non !'interesse e le convenzioni umane>>. L'idea di stato di naturae sorta da una considerazione unilaterale delle passioni umane, prescindendo dall'intelletto, che pure fa parte della natura umana. Le leggi generali dell'equita, scrive Hume nella Ricerca sui principi della morale, non sono naturali, rna «artificiali», dipendono cioe «completamente dallo stato e dalla situazione particolare in cui gli uomini si trovano, e debbono la !oro origine ed esisterJZa a quell'utilita che risulta alla societa dalla !oro rigorosa e normale osservanza>>. Quando, immaginando lo stato di natura, ipotizziamo o «un'estrema abbondanza di prodotti >> o una !oro «estrema poverta>>, una natura umana buona o del tutto perversa, dimentichiamo la complessita del reale e rendiamo «la giustizia completamente inutile>>. La situazione comune della societa e qualche cosa di mezzo fra questi due estremi. Noi siamo naturalmente parziali verso noi stessi e verso i nostri amici; rna siamo in grado di avvertire il vantaggio che deriva da una condotta piu equa. Scarsi sono i piaceri che ci vengono offerti con mano aperta e liberale dalla natura; rna con l'arte, il lavoro e l'ingegno possiamo spremerne in grande abbondanza. Per questo le idee di proprieta diventano necessarie in tutte le societa civili; di qui Ia giustizia acquista Ia sua utilita nei riguardi del pubblico interesse e di qui soltanto provengono il merito che le spetta e l'obbligo morale che Ia caratterizza.
Correlata alla dottrina che vede nella giustizia una virtu naturale, anteriore aile convenzioni umane, e !'idea del contratto originario, tanto sbandierato dalla propaganda whig. Tutte le societa politiche sono nate senza alcun atto di consenso da parte dei sudditi; la maggior parte si sono anzi istituite su un atto di usurpazione o di conquista. Del resto, quando mai i governanti, per ottenere obbedienza, si appellano al «contratto originario»? Riguardo alla «gloriosa» rivoluzione del 1688, scrive Hume nel 1748: «( ... ) fu solo la maggioranza di un gruppo di settecento persone a decidere quel cambiamento, riguardante circa dieci milioni di persone. Non dubito affatto che la massa di quei dieci milioni acconsentisse volentieri a quella decisione. Ma la questione fu forse affidata, sia pure in minima parte, alla loro scelta?» L'ipotesi del patto originario e un espediente sofistico, introdotto per dare fondamento a una giusta conclusione, per provare, cioe, «che la nostra sottomissione al governo ammette delle eccezioni e che un eccesso di tirannia da parte dei governanti basta a liberare i sudditi da ogni legame di obbedienza civile». Ora, questa conclusione sarebbe
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fondata piu ragionevolmente se si adottasse la dottrina del convenzionalismo: il movente dell'istituzione dello Stato e dell'obbedienza al governo e !'interesse, o meglio la sicurezza e la protezione che lo Stato ci puo garantire. Sempre in nome del criterio dell'utilita, Hume si dichiara favorevole, nel 1776, all'indipendenza delle colonie americane, rna non accetta l'appello ai principi giusnaturalisti invocati dai protagonisti della vicenda. Un'altra applicazione della critica humeana ai presunti fondamenti razionali del vivere sociale riguarda la nozione di proprieta. Se si accettasse la tesi armonicistica, che fonda sul lavoro il diritto naturale alla proprieta, quasi tutte le proprieta esistenti - osserva ·Hume - risulterebbero illegittime e basate sulla frode. La proprieta non ha origine nella natura rna nell'artificio della societa, che sola permette all'uomo «di supplire alle sue mancanze». La tendenza naturale dell'individuo all'egoismo e alla soddisfazione dei propri bisogni non trova, infatti, rispondenza in un'oggettiva abbondanza di risorse e determina l'insicurezza del possesso (su cui insiste Hobbes). Per porre fine a questa insicurezza, e necessario stabilire «Una convenzione fra tutti i membri della societa» per «Conferire stabilita al possesso dei beni esterni e lasciare che ognuno goda in pace tutto cio che riesca ad acquisire casualmente o con il suo lavoro». 11.10. II 'Contratto sociale' di Rousseau. II Discorso sulla disuguaglianza di Rousseau rappresenta una chiara presa di posizione antigiusnaturalistica. lnfatti, lo stato di natura rousseauiano vale solo come ipotesi di lavoro e prevede una condizione di ferinita a-sociale e a-morale (11.6), che difficilmente puo essere assunta come base sociale naturale su cui fondare lo Stato. Analogamente, e negata la 'naturalita' della famiglia o della proprieta, sorte rispettivamente da catastrofi naturali o da eventi casuali di usurpazione, che hanno determinato sopraffazione e diseguaglianza. Lungi da essere espressione di un inesistente 'diritto naturale', lo Stato e il diritto positivo si sono limitati a sanzionare, con l'artificio di una convenzione, il diritto del piu forte. Nei quattro libri del Contralto sociale (1762), Rousseau affronta la questione della costruzione dello Stato non piu nella prospettiva dell'analisi critica dell'esistente, made iure, mirando cioe a fissare le condizioni a priori che rendono legittima una comunita politica. Si tratta di dare una risposta alla domanda sollevata nei due Discorsi: visto che un ordinamento sociale 'naturale' non esiste, quale tipo di organizzazione sociale e politica puo garantire la liberta e la dignita morale dell'uomo? La soluzione e indicata in un contratto (il «contratto sociale», appunto) che preveda come clausola fondamentale «l'alienazione totale di ciascun associato e di tutti i suoi diritti nelle mani della comuniUt». Un contratto, cioe, fra eguali, in cui il popolo «aliena» la propria sovranita esclusivamente a se stesso e non la delega ne a uno solo (Hobbes) ne ad alcuni rappresentanti della maggioranza (Locke). AI pactum unionis, che da vita alia societa, non segue, secondo Rousseau, il pactum subiectionis, che Locke e Pufendorf avevano introdotto a giustificazione dei vincoli reciproci tra sudditi e sovrano. Il contratto rousseauiano prevede che ogni individuo abdichi alia propria volonta particolare per dar luogo a <
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la sua volonta». Questo «corpo morale e collettivo» e la volonta generale, che non si identifica con la volonta di tutti, somma non omogenea di volonta particolari, ne con la volonta della maggioranza, che non necessariarnente persegue «!'interesse comune». Aderendo a questo contratto, l'individuo perde la sua liberta e indipendenza primitive, che avevano per limiti le sole sue forze, e acquista la <>. Riecheggiando Spinoza, Rousseau sostiene infatti che «I 'impulso del solo appetito e schiavitu, e l'obbedienza alia Iegge che ci siamo prescritti e liberta>>. Nell'articolo «Diritto naturale>> dell'Encyclopedie, Diderot aveva parlato della volonta generale come di una specie di saggezza, oggettiva e universale, depositata una volta per tutte nella «societa generale del genere umano >>, nel diritto dei popoli civili, nelle usanze dei selvaggi e in qualsiasi patto associativo. Per Rousseau, invece, questa «volonta generale>> esiste soltanto «nei sistemi dei filosofi,,; quella di cui parla lui e altra cosa, e l'espressione l.mmediata e sempre rinnovata del popolo sovrano riunito in assemblea. Il popolo e formato da tutti coloro che, in virtu del contratto, diventano <> (detengono tutti in modo uguale l'autorita sovrana) e <<sudditi >> (sono ugualmente sottomessi aile leggi che essi stessi si sono dati tramite la volonta generale). In quanto corpo sovrano, il popolo ha il potere legislativo e solo a lui spetta il compito di emanare leggi nell'assemblea di tutti. L'esercizio del potere esecutivo (governo), appartenga a una sola persona o a un «principe>> collettivo, si limita alia mera esecuzione, su mandata, di quanto ha deciso il corpo sovrano. La sovranita e inalienabile (non si puo affidare ad alcun rappresentante il compito di legiferare per conto dell'assemblea) e indivisibile (sia il potere esecutivo che il giudiziario non sono poteri separati, nel senso di Montesquieu, rna emanazioni dell'unico corpo sovrano). Nel momento stesso in cui il popolo e riunito legittimamente in corpo sovrano ogni giurisdizione del governo cessa, il potere esecutivo e sospeso e Ia persona dell'ultimo cittadino e altrettanto sacra e inviolabile quanto quella del piu alto magistrato; perche dove non c'e il rappresentato non c'e piu il rappresentante.
La classica controversia sulla forma ideale di governo non e dunque, per Rousseau, sostanziale e dipende prevalentemente da considerazioni di realistica opportunita, quali il numero degli abitanti o la vastita del territorio, che devono guidare alia scelta tra monarchia, aristocrazia e democrazia. La realizzazione di una repubblica fondata sulla 'democrazia diretta' richiede, ad esempio, una serie di condizioni (uno stato piccolo, moderazione di ricchezze, costumi morigerati e vigorosa <> ... ) che difficilmente si presentano tutte insieme. Comunque, guardare a un simile modello puo essere utile a «fermare, possibilmente, il progresso di quegli Stati, che per la loro piccolezza e posizione si sono salvati da una cosi rapida corsa verso la perfezione della societa e la decadenza della specie>>. 11.11. Tra riformismo e palingenesi. Il luogo privilegiato del dibattito politico settecentesco non e piu, come nel '600, l'Inghilterra. La prosperita econo-
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mica e la lunga stagnazione politica sotto il liberalismo whig stimolano !'interesse per le questioni finanziarie e amministrative, rna non la riflessione sulla politica e sull'articolazione del potere. Il compito di discutere Ia prassi liberale inglese e di farne una teoria esportabile tocca agli intellettuali del continente, che vivono oppressi dall'assolutismo, dalla burocrazia e dai retaggi feudali. Sulla base dell'analisi delle strutture costituzionali inglesi, lo Spirito delle leggi individua il modello di un governo temperato dall'equilibrio dei poteri e condanna l'autocrazia di origine divina e ogni forma di dispotismo, inteso come governo tirannico, arbitrario e assoluto di un solo uomo. Legato alla tradizione, Montesquieu (8.13) si limita, comunque, a reclamare che l'aristocrazia, decaduta dalle sue prerogative dopo Richelieu e Luigi XIV, partecipi al potere e invita a contrastare l'invadenza eccessiva della monarchia, senza contare, come Rousseau, sulla sovranita popolare. La maggior parte dei pens a tori e pubblicisti francesi, che pure credono nel diritto naturale e nel rispetto dell'individuo, mantengono, anche dopo il 1750, eccellenti rapporti con i piu importanti «despoti » europei. Si muovono in un'ottica riformista, partendo dal presupposto che possa sussistere un dispotismo utile, benefico, il cosiddetto 'dispotismo illuminato' (8.2). I cittadini - dichiara Federico II dl. Prussia, amico di Voltaire e di d'Alembert - hanno accordato Ia preminenza ad uno dei !oro simili solamente in considerazione dei servizi che essi aspettano da lui (...). II sovrano rappresenta lo Stato; e i suoi popoli non rappresentano che un corpo, che non puo essere felice se non in quanto unito dalla concordia. II principe e, rispetto alia societa che governa, que! che Ia testa e rispetto a! corpo: egli deve vedere, pensare, agire per tutta Ia comunita, allo scopo di procurarle tutti i vantaggi di cui essa e suscettibile
Aile opinioni di un monarca, che innesta l'apologo di Menenio Agrippa sullo sfondo della dottrina giusnaturalistica, si unisce la convinzione degli intellettuali che un potere forte faciliti la realizzazione delle riforme necessarie e che il progresso sia opera di grandi sovrani, opportunamente consigliati dai rappresentanti della ragione. II potere assoluto - scrive d'Holbach nel 1776 - di cui tanti cattivi principi abusano continuamente, diviene, fra le mani di un sovrano equo, un'arma necessaria per distruggere gli sforzi e i complotti dell'iniquita (... ). La saggezza e l'equita, armate di un grande potere, sono capaci di cambiare in poco tempo Ia faccia dello Stato.
Nella maggior parte dei casi, si tratta di invitare Ia monarchia a estendere la sua potenza e le sue prerogative contro, per esempio, !'influenza negativa dei gesuiti e della Chiesa, o contro I 'azione frenante dei Parlamenti, e ad assumere nuove competenze nel campo della salute, dell'insegnamento, dei lavori pubblici. Le speranze riposte dai philosophes nella Pompadour, o l'entusiasmo per la breve esperienza di governo da parte di Turgot, rappresentano i limiti di un riformismo che, non confidando nelle masse popolari e scartando l'ipotesi rivoluzionaria come mutamento globale, ritiene piu pratico e conveniente
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convincere il monarca, sulla cui legittimita non si avanzano dubbi. Un teorico non moderato, come Helvetius, dedica il suo trattato Dell'uomo (1772) a Caterina II, a Federico II e a tutti quei sovrani filantropi che «vogliono rendersi cari all'umanita e comprendono il prezzo della verita (... ); e da essi che l'universo deve essere illuminato». Indubbiamente, la lezione della Rivoluzione americana contribuisce ad accelerare le delusioni che il dispotismo illuminato non puo non provocare. Esemplare l'atteggiamento di Diderot, che verso il 1781 scrive: II rumore delle catene che si spezzano rende piu leggere le nostre stesse catene. Del resto, queste grandi rivoluzioni della liberta sono lezioni per i despot!: li avvertono di non contare su una troppo lunga pazienza dei popoli e su un'eterna impunita ·
Uno dei temi piu controversi e illuminanti del rapporto e delle divergenze tra riformismo e radicalismo palingenetico riguarda Ia nozione e la giustificazione della proprieta privata. Strenuo difensore, nella sua anglofilia, della liberta civile e dello stato di diritto, Voltaire eredita da Locke anche Ia concezione che lega il diritto di proprieta allavoro (6.21) e lo erige a benefica Iegge di natura. Sostiene, infatti, che la diseguale distribuzione della ricchezza e indispensabile allo sviluppo della societa, perche costringe una parte degli uomini a lavorare e pone cosi rimedio alla scarsezza dei beni offerti spontaneamente dalla natura: «1 'eguaglianza e al tempo stesso la co sa piu naturale in linea di diritto, e la piu chimerica in fatto». Di diritto naturale dell'uomo «sulle cose atte al suo godimento» parla Fran· ~ois Quesnay (1694-1774). Anche il fondatore della fisiocrazia (11.12) difende come regola provvidenziale (istituita dall'<<Essere supremo» per «la formazione e Ia conservazione della sua opera») la diseguaglianza delle proprieta, che <
E merito del potere politico e della legge positiva, prosegue Turgot, intervenire a difesa della proprieta e sancire la separazione (gia avvenuta, a causa del lavoro, in natura) tra proprietari terrieri, che non lavorano, e lavoratori (agricoli e artigianali) stipendiati, che i proprietari retribuiscono <
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dotta dal lavoro in salario dell'operaio, profitto del capitalista e rendita del proprietario terriero. Le analisi critiche e le contestazioni piu vivaci della proprieta privata sono anzitutto il prodotto dell'utopismo radicale. L'egualitarismo sostenuto negli scritti corrosivi del barone di Lahontan (1666-1715) nasce dalla mitizzazione dei selvaggi americani e dal tentativo di ritrovare la felicita dell'uomo nella societa, innocente e comunista, degli Uroni: Io sostengo che questa Repubblica apparentemente selvaggia e l'asilo che ha scelto Ia retta ragione scacciata dalla maggioranza delle nazioni, e che e qui che i vostri falsi sapienti dovrebbero venire per ascoltare la voce della Natura che consultano cosi di rado. Il comunismo del curato Meslier (9.8), che accentua il carattere parassitario e immorale della proprieta privata, fonte di conflittualita sociale permanente, si collega alla dura esperienza delle masse contadine, stanche dello sfruttamento feudale e della rapacita dello Stato, e per questo destinate alla sollevazione. A motivazioni di tipo giusnaturalistico si appella invece il Cod.ice della natura di Morelly (11.5), sia quando stabilisce la tendenza naturale alia socievolezza e alla cooperazione, nata dallo scarto tra bisogni e possibilita di soddisfarli, sia quando dimostra che la proprieta privata, introdotta dal diritto positivo, alimenta l'avarizia dell'uomo e stravolge l'ordine naturale. La giustizia sociale e l'uguaglianza sono il fondamento dello «Stato di costumi», la societa ideale che Deschamps (9.10) inscrive nel futuro dell'umanita, come perfezione della condizione metafisica dell'uomo e meta conclusiva del processo storico. Il tratto peculiare che accomuna questi 'socialisti' del Settecento e l'ispirazione -moralistica che, congiunta ad una scarsa considerazione delle forze economiche emergenti, resta confinata entro un orizzonte agricolo, precapitalistico, concentrato sui momento della distribuzione e divisione dei beni, e non su quello della produzione, e quasi sempre avulso dal processo storico reale. Anche quando, sul finire della Rivoluzione francese, il socialismo trova uno sbocco nel pensiero e nell'azione di Fran~ois Noel Babeuf (1760-97), il programma di collettivizzazione non perde quei connotati utopistici. Per arrivare alla «perfetta uguaglianza», il Manifesto dei plebei (1795) ritiene che l'unico mezzo e stabilire l'amministrazione comune; sopprimere Ia proprieta privata; Iegare ogni uomo al talento, all'attivita che conosce; obbligarlo a depositarne il prodotto in natura al magazzino comune; istituire una semplice amministrazione della distribuzione, un'aipministrazione delle sussistenze, la quale (... ) ripartira tutte le cose secondo la piu rigorosa uguaglianza». Lo stesso si puo dire della repubblica democratica ed egualitaria disegnata dal napoletano Vincenzo Russo (1770-99) nei suoi Pensieri politici (1798), dove, comunque, diventa acuta e viva la consapevolezza del nesso profondo che lega rigenerazione politica e trasformazioni economiche, democrazia riforma so-
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.:dale: <,. la Rivoluzione, l'esempio e la lezione di fatti e non piu di mere, anche se acca-:r':;~:.:·.:nc;rate, discussioni sui temi del diritto naturale. : t:·:'ti}:,;£•2;0~~<-}~,Altre analisi critiche della proprieta privata nascono su basi piu specifica~~;:f?·;;'f(1~mente economiche e si distinguono dall'anima palingenetica dei 'lumi' peril · ::~~}:~Z1;realismo delle proposte, tese a correggere almeno gli abusi piu gravi. Lo stori'~ ·,f~.;~;{'<'co ;e filosofo G. Bonnot de Mably (1709-85), fratello maggiore di Condillac, ,.-.~;..,.jj~,-:~~.:smonta, nel 1768, le teorie fisiocratiche. Giustificare la disuguaglianza delle -}?,~~ftproprieta significa neg are l 'uguaglianza naturale dei bisogni, su cui si regge il ' J•')\'~': ·~·:arritto individuale, e conferisce valore giuridico a! diritto del piu forte, a una · ji,;;~.~;:;.~,h~lt~itilazione di fatto. Non e vero che la proprieta privata sviluppi la produzione, y;:?· 't': '"(:~ero piuttosto il contrario, dal momento che il lavoratore senza proprieta e Y>::;,~£~:;i';{:fportato all'indolenza e, per altro verso, il lusso distoglie il proprietario dalle ·: J,/"':.:;~:attivita produttive. L'ideale sarebbe istituire la proprieta comune, l'unica in 41'.~-1~ ' · •!£rado di garantire lo sviluppo economico nel solo interesse della societa, rna il ' ~k·;~;;k,'\~.'~~,rischio dell'anarchia mette in guardia da simili tentazioni; meglio dunque limi·,Z,~f5:0.!f~¥;ia~e l'estensione della proprieta con leggi adeguate. f;~~;.,:. ;.i_ Nello scritto Sulla legislazione e sul commercia dei grani (1774), il banchie[;~-:~;;~):,C~';,~c~.re":di origine ginevrina Jacques Necker (1732-1804) critica le concezioni fisio~j,)jl~!0;:-!Y.~~:;cra!iche, difende le esigenze dell'industria nascente e denuncia le miserabili •· : •·:>;_, ·: (condizioni dovute all 'ineguale distribuzione delle ricchezze e alle leggi sulla . C•:}.proprieta che producono ingiustizia e violenza. Nonostante il suo indubbio ., '-< realismo, !'invito del Necker a porre urgentemente dei limiti ai privilegi della '~' ',';\~.:>:~:proprieta e destinato al fallimento, cosi come Ia sua azione di risanamento fi.1:· nanziario e di riforme tentata per ben quattro volte, tra il 1776 e il 1790, non ;., ,. ferinera l'incalzare della Rivoluzione.
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11.12. La nascita dell'economia politica. Il pensiero economico si e sviluppato in correlazione con il dibattito politico, rna con un certo ritardo rispetto a quest'ultimo. Se la politica si affranca, gia con Machiavelli, dalla tutela della religione, lo studio positivo dell'economia si impone nell'Inghilterra della seconda meta del '600, e soltanto nel corso del '700, precisandosi i problemi economici sempre piu come problemi di governo, diventa possibile una «storia naturale» delle realta economiche. L'ambizione di individuare anche nel mondo economico le leggi naturali che ne spieghino il funzionamento appartiene allo stesso orizzonte mentale del modello scientifico newtoniano della religione e della morale naturali. Nel suo L'ordine naturale ed essenziale delle societa politiche (1767), considerato il manifesto del movimento fisiocratico, Paul Pierre Mercier de Ia Riviere (1720-93) afferma: Esiste un ordine naturale per il governo degli uomini riuniti in societa, un ordine che ci assicura necessariamente tutta Ia felicita naturale a cui siamo destinati durante il nostro soggiorno sulla terra, tutti i godimenti che possiamo ragionevolmente desiderarvi e ai quali non possiamo aggiungere
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niente se non a nostro svantaggio; (... ) un ordine in cui tutto e bene, e necessariamente bene, in cui tutti gli interessi sono cosi perfettamente combinati, cosi inseparabilmente collegati fra di loro che, dai sovrani fino agli ultimi dei loro sudditi, la felicita degli urii non puo accrescersi che per la felicita degli altri; un ordine infine, la cui santita e utilita, manifestando agli uomini il Dio caritatevole, li prepara, li dispone, attraverso la riconoscenza, ad amarlo, ad adorarlo, a cercare per proprio conto lo stato di perfezione pili conforme alla sua volonta.
La stessa visione provvidenzialistica dell'ordine naturale caratterizza molte pagine della Rice rca sulla natura e sulle cause della ricchezza delle nazioni, il capolavoro di Adam Smith (11.3). Pubblicato nel 1776, quando inizia la guerra tra Inghilterra e colonie americane, quest'opera evidenzia il salto qualitativo compiuto, nella seconda meta del secolo, dalla scienza economica, che compone in un sistema coerente i dati raccolti e gli strumenti conoscitivi finora elaborati e definisce il proprio ambito disciplinare come teorizzazione dell'intero processo economico, non pili limitato a specifici settori, sui fondamento di principi razionali unitari. La fiducia nell'<<armonia prestabilita» tra gli interessi individuali e l'ottimismo economico, su cui poggia il liberismo economico di Smith e della cosiddetta <<economia classica» (ce ne occuperemo nel terzo volume) dipende da un 'etica dell' espansione che, consapevole delle rivol uzioni 'materiali' del secolo, indica la fonte della ricchezza nell'attivita e nella prosperita generale della societa. Il '700 ha la sua figura emblematica in Robinson Crusoe: esso segna infatti il tramonto del mercantilismo che, identificando la ricchezza con l'accumulazione sterile dei metalli pr_eziosi, limitava gli scambi e moltiplicava i controlli e i monopoli; esalta il lavoro e lo spirito d'iniziativa; scopre lo scambio come fattore decisivo di prosperita e fa dell'economia politica una scienza a cui, per dirla con Diderot, «la filosofia sul trono» deve <>. Il primo, decisivo passo per la nascita dell'economia politica come scienza e compiuto dalla scuola fisiocratica (da physis = natura e kratein = dominare) fin dal Tableau economique (Prospetto economico), del 1758-59, di Fran~ois Quesnay (11.11). Con le sue formule, oscure e discusse, questo opuscolo permette di calcolare le conseguenze positive e negative arrecate dal governo nel meccanismo della distribuzione, circolazione e riproduzione delle ricchezze, che e capace di autoregolarsi da solo ed esclude qualsiasi intervento che alteri le leggi «naturali>> dell'economia e del libero commercia. La peculiarita e il limite della fisiocrazia dipendono dal fatto che essa analizza il funzionamento di un sistema economico in condizioni statiche e non riesce a coglierne le tendenze evolutive. Non a caso, il settore produttivo in senso proprio e indicato nell'agricoltura e nell'attivita mineraria, rna non nell'industria e nel commercio, che non producono nuovo valore in assoluto, dato che si limitano a trasformare e a far circolare il prodotto precedentemente ottenuto. Come sottolineano anche Turgot e Condorcet, il settore agricolo-minerario e l'unico in grado di assicurare un'economia di sviluppo e di accumulazione, perche fornisce un'eccedenza, il <<prodotto netto>>, che va inteso come la differenza trail prodotto lordo annua-
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le e i costi dei salari (i lavoratori devono' essere retribuiti secondo 'natura', sulla base dei loro bisogni necessari) e delle spese anticipate. Contro il fissismo dogmatico dei fisiocrati si pronuncia Ferdinando Galiani {1728-87) nei fortunati Dialoghi sui commercia dei grani (1770). La pretesa fisiocratica di stabilire norme sui dazi e sull'annona, valide per ogni luogo e tempo, nasce da una scarsa consapevolezza storica delle questioni economiche e dal misconoscimento del peso che hanno le condizioni geografiche e sociali nella configurazione dei singoli paesi. Nel trattato giovanile Della moneta ( 1751 ), il Galiani aveva dato una definizione del <> e questo valore «viene necessariamente a dividersi in due parti, l'una delle quali paga i salari e l'altra i profitti realizzati dall'imprenditore». ·Di qui il contrasto d'interessi tra i salariati, desiderosi di «ricevere il piu possibile», e i capitalisti, che sono pronti a
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coalizzarsi «per dare il meno possibile>>. Secondo Smith, le richieste degli operai, di cui pure egli comprende Ia genesi (essi sono disperati e agiscono con l'aberrazione e il furore di chi, appunto, e stato condotto al limite della disperazione), sono destinate a provocare continue repressioni che non possono che approdare all'insuccesso. La teoria dello sviluppo e basata dalla Ricerca sull'ipotesi che i capitalisti non destinino tutti i loro redditi al consumo, rna ne destinino una parte all'accumulazione, per fissare quel capitale addizionale che permette di aumentare il numero dei lavoratori, di migliorare «macchine e strumenti" e di «realizzare una piu conveniente divisione e distribuzione del lavoro medesimo». Di qui l'esaltazione della parsimonia, che i percettori di rendite e profitti (gli operai, secondo Smith, consumano tutti i loro redditi!) sono tenuti a rispettare, per non danneggiare, oltre che loro stessi, l'intero corpo sociale. Se i proprietari terrieri e i capitalisti decidono di accumulare, automaticamente aumenta la domanda di lavoro e percio i salari. 11 maggior salario, caratteristica dei paesi «piu prosperosi, di quelli che con piu celerita progrediscono in ricchezza, (il riferimento e alle colonie inglesi d'America), aumenta la produttivita del lavoro: <
E. un'affermazione, si dira, che conferma la necessita dello sviluppo e il rifiuto del ristagno e di tutto cio che porta a restringere la produzione. Ma e anche una denuncia delle responsabilita che ha la nuova classe dei <<mercanti e manifattori "• mentre ai proprietari terrieri (in accordo stavolta con la fisiocrazia) e riconosciuta una sostanziale coincidenza d'interessi con la societa. La proposta di una nuova .Iegge o di un riuovo regolamento di commercio, che provenga da quest'ordine [i mercanti e i manifattori], deve sempre essere ascoltata con grande precauzione e non deve essere adottata se non dopo essere stata lungamente e diligentemente esaminata, non solo con scrupolosissima, rna con sospettosissima attenzione. Essa proviene da un
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ordine di uomini di cui !'interesse non e esattamente lo stesso di quello del pubblico; che in generale hanno un interesse ad ingannare e anche opprimere il pubblico e che in molte occasioni l'hanno ingannato e oppresso.
Individualismo e cosmopolitismo 11.13. L'esplorazione dell'io. Uno dei tratti piu caratteristici del Settecento forma di psicologia che si traduce in attenta, a volte compiaciuta, esplorazione della soggettivita individuale, ritenuta irriducibile al linguaggio scientifico e anche al discorso impersonale adatto aile verita di ragione.
e quella
M'impegno in una impresa senza esempio - dichiara Rousseau nella prima pagina delle Confessioni - e la cui esecuzione non avra imitatori. Voglio mostrare ai miei simili un uomo nella nuda verita della sua natura; e quest'uomo san) io. Io solo. Sento il mio cuore e conosco gli uomini. Non sono fatto come nessuno di quelli che ho incontrato; oso credere di non essere come nessuno di quanti esistono.
Piu che all'omonima opera di Agostino, l'idea di presentare la propria biografia come «confessione», rivolgendosi ai lettori come a dei 'testimoni', deriva a Rousseau dalla tradizione dei giornali intimi e dalle «confessioni» introspettive care ai predicatori puritani del '600 inglese e, pili probabilmente, dalla letteratura intima sviluppatasi sull'onda del pietismo tedesco. L'originalita di Rousseau sta nell'aver desacralizzato l'intimita, laicizzando il forte invito alia ricerca interiore di Dio su cui convergono le influenze diverse di Pascal e Fenelon, di Francke e Spener (9.12). La conoscenza di se diviene fine a se stessa e non piu propedeutica all'incontro con Dio. L'esigenza di consegnare se stesso e i ricordi della propria vita alia pagina scritta e in evidente polemica con la societa e corrisponde alia scelta (tanto criticata da Diderot) di vivere in solitudine. Nonostante i loro tratti originali, le Confessioni appartengono a quella 'letteratura dell'io' che nel '700 si sviluppa, di pari passo con l'affermarsi della vita privata come categoria fondamentale dell'esistenza (8.1) contrapposta alia dimensione pubblica, sempre piu avvertita come insieme di codici, riti, formulari e conformismi nemici della spontaneita e della ricchezza individuale. Questa 'letteratura dell'io', che ha i suoi prodromi in Montaigne e nei moralisti del '600, assume forme diverse: memorie, autobiografie, giornali intimi, e anche romanzi, che spesso raccolgono la confessione delle esperienze dell'autore. Non e casuale Ia fortuna del romanzo epistolare: dalla Nuova Eloisa ai Legami pericolosi (1782) di Choderlos de Laclos e aile Ultime lettere di J. Ortis del nostro Foscolo. Il gusto dell 'autobiografia e del ritratto biografico, la passione di raccogliere aneddoti e descrivere incontri, deriva dalla convinzione, espressa o sottintesa, che la personalita propria e altrui sia ricostruibile come un'entita coerente. Per cogliere le dimensioni del fenomeno, basta menzionare, limitandoci al
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solo ambito italiano, gli scritti autobiografici di Vico, Giannone, Goldoni, Genovesi, Carlo Gozzi, Casanova e Alfieri. La novita delle Confessioni, che abban-. donano i tratti della convenzionalita e della reticenza comuni alia maggior parte dei testi appena ricordati, consiste nell'aver delineato un universo in cui la memoria e il sentimento vanno a ricercare i lineamenti di una personalita in apparenza contraddittoria. L'insistenza e Ia commozione con cui Rousseau racconta alcuni ricordi d'infanzia rispondono alia scoperta della grande importanza che hanna le esperienze infantili, specialmente quelle traumatiche e al bisogno di essere totalmente sincero: «capisco che il lettore non ha troppa voglia di sapere tante cose, rna ho bisogno io di dirgliele»; «vorrei in un certo modo rendere trasparente Ia mia anima agli occhi del lettore, e per questa ragione cerco di mostrargliela da ogni visuale, d'illuminarla sotto ogni luce». Grazie anche alia magia di un linguaggio duttile e vario nei toni (ora solenne, ora ironico, ora fortemente partecipe, ora distaccato), l'autoanalisi delle Confessioni seduce il lettore, rivelandogli una 'logica' dei sentimenti che sui piano esistenziale si articola nel contrasto fra desiderio di affondare nel godimento solitario delle bellezze naturali e percezione della precarieta del vivere e delle sofferenze dovute al rapporto alienante con Ia societa. Rousseau e Ia punta emergente di un iceberg che attraversa, come tendenza, gran parte della letteratura settecentesca e finisce con approdare nella coscienza romantica. Questa tendenza, che potremmo definire come scoperta ed esplorazione dell'io, sta, per esempio, a fondamento dell'attenzione che i romanzieri prestano all'«educazione sentimentale» dell'adolescente, all'indagine psicologica di una personalita ancora da definire. Moll Flanders (1721) di Daniel De Foe, Manon Lescaut (1731 di Antoine Franc;ois Prevost, Pamela (1740) di Samuel Richardson e Tom Jones (1749) di Henry Fielding affrontano, in pagine rimaste celebri, Ia tematica dello sviluppo fisico e morale di un adolescente e, in forme e con esiti diversi, pongono al centro della loro analisi Ia vita dei sentimenti, delle passioni e delle idee che animano l'individuo nel gioco, o nel dramma, sociale. Proprio perche ricorrono alla mediazione di personaggi e situazioni inventate, i romanzi di Prevost e Richardson, di Sterne e Goethe, offrono all'autore Ia possibilita di raccontare la propria vita con maggiore liberta, contribuiscono all'esplorazione del mondo sotterraneo della coscienza e proclamano il primato della soggettivita. L'approfondimento dell'indagine psicologica dell'io e favorito dalla crescente spregiudicatezza con cui si sviluppa Ia riflessione sull'erotismo, contemporaneamente all'evolversi del costume sessuale nella societa aristocratica europea. II termine «libertino», usato talvolta nel '500 per indicare i governi popolari, e diventato nel '600 sinonimo di materialista o ateo e, nel corso del '700, acquista ancl:te un significato sessuale che ha mantenuto fino ad oggi. La ricerca della felicita erotica individuale nasconde spesso un fondo di illusorieta e tragedia. II Don Giovanni (1787) di Mozart illustra bene i caratteri del libertino settecentesco, che e seduttore e libero pensatore, e al piacere della conquista femminile congiunge il gusto della trasgression~ dei valori consacrati e la contestazione di ogni autorita repressiva. La vicenda raccontata in questa dramma si riassume nei numerosi tentativi di seduzione, tutti risolti con esito negativo, e nell'atroce morte del protagonista che, ostinatosi a rifiutare l'invi-
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to al pentimento rivoltogli dalla statua del commendatore, e inghiottito dalle fiamme infernali fuoriuscite dal pavimento. La passione amorosa si intreccia alia frustrazione della slancio erotica, cosi come il tema del piacere si collega al tema della morte e della fuga inarrestabile del tempo. L'esaltazione dell'individuo e della volutta erotica sono estremizzati negli scritti del Marchese De Sade (9.11), al punta che si risolvono nella negazione del vivere sociale e dei principi (laboriosita, ricerca dell'utile, ordine) che ne rendono possibile la conservazione. La sovranita dell'individuo si afferma in Sade come rifiuto dei limiti imposti dalla ragione e come ricerca totalizzante di un piacere che e eccesso e trasgressione e inevitabilmente si associa alia violenza, al crimine e alia sofferenza degli altri. Pur ammettendo, come suggeriscono alcuni interpreti, che il pensiero nichilista del «divino Marchese» si debba considerare una conseguenza della disgregazione di valori operata dall'ateismo dei 'lumi' materialisti, e fuor di dubbio che le sue sconcertanti provocazioni sono in stridente contrasto con le idee-forza del secolo e in modo specifico con il suo slancio utopico riformatore.
11.14. Arte e natura: Ia nascita dell'estetica. Nel 1750 fu pubblicata, a Francoforte sull'Oder, l'Aesthetica di Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-62), un indigesto trattato in Iatino che ebbe il merito di fondare una nuova disciplina filosofica, I'estetica appunto, e di consacrare un neologismo (dal greco aisthesis = sensazione) destinato ad arrivare, con Ia mediazione di Kant (12.19-22), fino ai nostri giorni. Discepolo di Wolff, Baumgarten definisce l'estetica come scientia cognition is sensitivae (teoria della conoscenza sensibile), che ha per oggetto sia la mera conoscenza sensibile sia le impressioni o sensazioni prodotte dal bello naturale e artistico. Inferiore alia logica, che si occupa della conoscenza intellettuale ed ha ache fare con idee chiare e distinte, l'estetica (detta gnoseologia inferior) produce conoscenze vaghe e confuse, rna autonome e diverse da quelle logiche. Mentre la logica verte sull'universale astratto, l'estetica si occupa del particolare concreto, dell'evidenza sensibile che, pur essendo intuitiva e immediata, e un 'analogo' della dimostrazione intellettuale. Nelle competenze dell'estetica, che ha in se Ia propria giustificazione, rientrano tutte le «arti liberali», poetiche, letterarie, figurative e musicali, e non soltanto la poetica e Ia retorica, come tradizionalmente si ritiene. La verita estetica, o verisimilitudo, non dipende del criteria esterno dell'imitazione della natura, rna da un criteria di coerenza interna al fatto estetico. Si viene cosi a confermare il valore autonomo della conoscenza estetica, che obbedisce a leggi proprie, non riducibili ne ai criteri razionali di falso e vero, ne aile pure impressioni di piacere. Piu che una svolta, il trattato di Baumgarten rappresenta la consacrazione formale di una tendenza rinnovatrice, in atto dagli inizi del secolo. Gli intellettuali del Seicento non avevano studiato le modalita della creazione artistica o il significato delle emozioni provate dinanzi a un'opera d'arte o ad uno spettacolo della natura. E nel Settecento che si modifica !'ambito proprio dell'estetica: da semplice riflessione tecnica sui mezzi, sulle intenzioni e sui precetti canonici relativi a singole arti, ora vuole rendere conto dell'attivita artistica in see finisce per interessarsi della condizione umana nel suo insieme. Una volta
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decifrato il privilegio segreto.di umanita che l'artista racchiude in se, e possibile far luce sull'uomo ed aprire nuovi orizzonti alle possibilita individuali e al bisogno di liberta. La creazione artistica e il giudizio estetico diventano espressioni globali dell'essere umano e veicoli per una sua piu piena conoscenza. L'arte stessa cambia di significato: non piu un mestiere speciale, rna una vocazione a realizzare compiutamente l'umanita, com'e implicito nel progetto educativo di Schiller del 1795, Lettere sull 'educazione estetica dell 'uomo (111.1.3). Gli inizi di questa mutamento sono attestati in Shaftesbury (9.2), che considera l'atteggiamento estetico come una forma del rapporto che l'uomo ha con il mondo che lo circonda. II «virtuoso» di Shaftesbury sanziona il primato del sensa intima dei valori sui dati dei · sensi esterni. I criteri puramente intellettuali sono subordinati aile esigenze del buon gusto e all'osmosi di bellezza e moralita su cui si regge l'idea fondamentale di armonia. «Ogni uomo e un virtuoso di rango piu o meno elevato, ugni uomo e al seguito di una Grazia e corteggia una qualche Venere». Un poeta autentico, che sa ritrovare l'armonia della realta, e «un secondo Creature»: crea «un tutto, coerente e ben proporzionato, in cui le parti diverse rispettano la disciplina dell'insieme>>, «traduce il sublime dei sentimenti e delle azioni, distinguendo il bello dal deforme, cio che e amabile da cio che e odioso». L'influenza delle idee di Shaftesbury si fa sentire sia nella cultura angloscozzese (da Hutcheson ad Edward Young), sia in quella tedesca e francese (dalle famose Riflessioni sulla·poesia e sulla pittura di J.B. Du Bos agli scritti estetici di Diderot). La contemplazione estetica e fonte di piacere e di crescita interiore per chi, dotato di sensibilita e di «gusto», puo fruirne. Partendo dai temi centrali inerenti al rapporto tra natura e arte - natura che si fa arte e arte che cerca di farsi natura - il dibattito critico si focalizza su alcuni concetti chiave: sul «gusto» oil «non-so-che», fino al 1760-70, e sul «genio» e sul «sublime» con sempre maggiore frequenza negli ultimi decenni del secolo . .Sebbene riassuma i criteri soggettivi di bellezza, contrapposti a quello oggettivo dell'aderenza o meno ai grandi modelli classici, la nozione di «gusto» e fandata, anche tra i sostenitori piu convinti dell'empirismo, su un fondamento «universale»: per esempio, Du Bos la collega al sentimento, Hume alla fantasia e lo svizzero Johann Jakob Bodmer (1698-1783) all'«intelletto intuitivo», facolta creativa, e non meramente rappresentativa, propria del genio. L'idea di Shaftesbury, fatta propria anche da Diderot, che in ogni uomo ci sia una vocazione estetica e che l'artista sia il paradigma emblematico dell'essere umano, viene, dopa il1770, esasperata dai giovani della Sturm und Drang (8.12). Illoro appello perdu~ l'uomo sia artista della propria vita rivendica un primato dell'arte per l'arte, che fa dell'esperienza estetica il momenta piu alto (divino) del cammino umano. La stessa radicalizzazione, nel sensa di una prospettiva metafisica, trascendente il linguaggio quotidiano e le possibilita dell'intelletto, e operata, dopa il 1770, nei confronti di due nozioni come «genio» e «sublime», che pure appartengono al milieu illuministico, rna che solo sul finire del secolo acquistano, particolarmente in Germania, la valenza irrazionale ed anti-illuministica con cui penetrano nella cultura romantica. Nella stesso tempo, emerge sempre pii.l netta la relativita e quindi la storici-
356 D 11- lndividualismo e cosmopulitismu ta del giudizio estetico. Le geniali intuizioni della Scienza nuova di Vico sulla necessaria connessione tra estetica e filosofia della storia sono adottate anche dalla Critica del giudizio di Kant e riescono a spiegare la profonda differenza tra l'arte antica e l'arte moderna, nonche la diversita di produzione fra le singale nazioni nel presente. Gli anni decisivi per il dibattito sull'estetica sono quelli compresi tra il 1750, anno della pubblicazione del trattato di Baumgarten, e il 1764, quando compare la celebre Storia dell'arte nell'antichita di Johann Joachim Wlnckelmann (1717-68), che interpreta i capolavori dell'arte greca classica come incarnazioni di una forma superiore di umanita. Proprio nel momento in cui i sovrani illuminati tentano di razionalizzare l'amministrazione dello Stato e all'orizzonte si profila l'ordine disumano che Ia rivoluzione industriale sta per imporre all'Europa, il pensiero estetico si afferma con decisione e conosce uno sviluppo impensabile. Come non vedervi un fenomeno di compensazione rispetto al razionalismo trionfante? Nella misura in cui raccoglie ed esalta aspirazioni di tipo emozionale, l'estetica reagisce allivellamento, operato dalla ragione scientifica, e congiunge le proprie forze con quelle della riflessione morale e religiosa che, si e visto, tendono a valorizzare sempre pili l'esperienza interiore e immediata della coscienza individuale. 11.15. Stato e garanzie indlviduali: Beccaria. L'ultimo processo, in lnghilterra, a carico di una strega fu celebrato nel 1712 e, per quanto i giurati condannassero la poveretta, il giudice dell'Hertfordshire riusci a raccogliere prove in suo favore e ottenne la revoca della sentenza. Il XVIII sec. ha visto la fine dei processi e l'abolizione delle leggi contro stregoneria e magia. E uno dei segni del processo di secolarizzazione compiuto dalla dottrina giuridica illumimista. Tale processo consiste nel sottrarre alla punizione giuridica statale ampie zone del comportamento umano, finora indebitamente ritenute passibili di giudizio da parte dell'autorita civile, e nel rendere quindi pili vasta la sfera di espansione della liberta individuale. Come l'umanizzazione delle pene impedisce le crudelta pili efferate delle tirannidi, cosi l'attuazione del principio della legalita e della certezza del diritto pone limiti precisi all'arbitrio del potere e alia funzione giudiziaria e intende garantire la sicurezza e la liberta dei cittadini. Una delle tappe pili significative del dibattito, che aimeno formalmente si conclude con Ia costruzione kantiana dello Stato di diritto (12.17), e rappresentata dal breve trattato di Cesare Beccaria* Dei delitti e delle pene, uscito a Livorno nel 1764. Nata dall'entusiasmo del suo autore peri 'lumi' francesi (Montesquieu e soprattutto Rousseau) e inglesi (Hume) e dalle discussioni che animavano gli intellettuali milanesi riuniti, su iniziativa di Pietro e Alessandro Verri, n~lla «Societa dei Pugni », !'operetta di Beccaria ottenne un successo europeo (senza precedenti per un'opera italiana) che la condanna all'Indice (1766) contribui a incrementare. Il presupposto teorico da cui parte Beccaria e affine al contrattualismo di Locke e Montesquieu, secondo cui l'autorita dello Stato e delle leggi deriva dal consenso dei governati:
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Fu dunque la necessita che costrinse gli uomini a cedere parte della propria liberta: egli e adunque certo che ciascuno non ne vuol mettere nel pubblico deposito che la minima porzion possibile, quella sola che basti ad indurre gli altri a difenderlo. L'aggregato di queste minime porzioni possibili forma il diritto di punire; tutto il di piu e abuso e non giustizia, e fatto rna non gia diritto.
Per questo, «ogni pena che non derivi dall'assoluta necessita (... ) e tirannica». La pena di morte e illegittima, proprio perche la «minima porzion possibile» di liberta che l'individuo cede allo Stato non puo comprendere anche il diritto di ucciderlo: «come mai nel minima sacrificio della liberta di ciascuno vi puo essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita?». Resta comunque fuor di dubbio che «l'unica e vera misura dei delitti e il danno fatto alla nazione» e che non si deve fare confusione trail «peccato» (di cui solo Dio e giudice) e il «delitto» contra l'«utilita comune» di cui giudicano gli uomini. Le pene, che non hanna il carattere dell'espiazione religiosa, e la loro entita devono essere decise al solo fine «d'impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal fame uguali ». II fine delle pene non e di tormentare ed affliggere un essere sensibile, ne di disfare un delitto gia commesso. Puo egli in un corpo politico, che, ben lungi dall'agire per passione, e il tranquillo moderatore delle passioni particolari, puo egli albergare questa inutile crudelta stromento del furore e del fanatismo o dei deboli tiranni?
Cesare Beccaria nasce a Milano nel1738 da famiglia aristocratica. Dopo aver studiato nel collegia dei gesuiti di Parma, consegue la laurea in giurisprudenza nel 1758 all'universita di Pavia. Con Ia lettura, nel 1760, delle Lettere persiane di Montesquieu, si converte alla filosofia dei 'lumi: si lega al gruppo di intellettuali sorto intorno ad Alessandro e Pietro Verri, partecipa alla fondazione (1761) e all'attivita dell'Accademia dei Pugni ed e tra i principali collaboratori de Il caffe (1762-64). Nel 1762 da alle stampe un primo libello, di argomento economico, Del disordine e de' rimedi delle monete nella Stato di Milano e, nel1764, il celebre Dei delitti e delle pene. ll saggio, scritto su consiglio diP. Verri, suscita una vasta eco in tutta Europa ed aspre polemiche (e messo all'indice nel1766). Nel 1766, insieme ad A. Verri, Beccaria si reca a Parigi dove entra in contatto con gli enciclopedisti, ma dopo poche settimane ritorna a Milano. Nel 1770 pubblica le Ricerche intorno alla natura della stile, che sviluppano un 'estetica ispirata al sensismo di Condillac. Da ricordare anche gli Elementi di economia pubblica (pubblicati postumi nel 1804), in cui confluiscono i materiali dei corsi di economia politica tenuti nel1769 e 1770 nelle scuole palatine. Nominata, nel 1771, consigliere nel Supremo consiglio di economia, intraprende una carriera burocratico-amministrativa in cui si vengono affievolendo gradualmente le spinte innovatrici della gioventu. Muore a Milano nel 1794.
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Lo Stato e, infatti, tanto piu autorevole quanto meno e arbitrario, crudele e tirannico. La sua forza dipende dal suo potere di decisione e dal controllo che riesce a esercitare su tutti i sudditi, compresi i gruppi privilegiati (nobili e clero), nonche dalla capacita di ottenere un'applicazione delle leggi tempestiva e uguale per tutti i cittadini. 11 commento migliore di queste affermazioni doveva scriverlo il nipote di Beccaria, Alessandro Manzoni, nel cap. I e nelle altre pagine dei Promessi Sposi, in cui e tracciato il quadro storico della societa lombarda del '600. Una conferma e nella constatazione che il primo paese ad abolire in Europa Ia pena di morte sia stata, nel 1786, proprio la Toscana, dove Pietro Leopoldo aveva costruito lo Stato piu solido e moderno d'Italia. Le proposte concrete di Beccaria si possono sintetizzare nelle seguenti. La filantropia e la pieta esigono l'abolizione della tortura e una maggiore mitezza delle pene; la pena di morte non e «un diritto» rna «una guerra della nazione con un cittadino», deve essere pertanto sostituita dall'incarceramento (a vita, nei casi gravi), che e strumento piu efficace di dissuasione: Non e il terribile rna passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, rna illungo e stentato esempio di un uomo privo di liberta, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella societa che ha offesa, che e il freno piu forte contro i delitti. Per applicare prontamente le leggi penali e garantire la sicurezza individuale, occorre una riforma giudiziaria, cosi come per prevenire i delitti e indispensabile un'azione politica che perfezioni l'educazione e che, facendo si che «i lumi accompagnino la liberta>>, rimuova le cause sociali della delinquenza. Quali sono queste leggi ch'io debbo rispettare - si domanda, secondo Beccaria, il delinquente - che lasciano un cosi grande intervallo tra me e il ricco? Egli mi nega un sol do che gli cerco e si scusa col comandarmi un travaglio che non conosce. Chi ha fatte queste leggi? Uomini ricchi e potenti, che non si sono mai degnati visitare le squallide capanne del povero, (... ) Rompiamo questi legami fatali alla maggior parte ed utili ad alcuni pochi ed indolenti tiranni, attacchiamo I'ingiustizia nella sua sorgente. 11.16. Cosmopolitismo e pacifismo. Membri della «repubblica delle lettere», gli uomini dell'illuminismo si sentono e si proclamano, tranne rare eccezioni, cosmopoliti. Come abbia:mo visto, la religione naturale, la morale naturale e il diritto naturale seguono ed indicano criteri di giudizio e di verifica di livello universale, che vanno ben oltre i parametri e gli interessi di una societa particolare o nazionale. Nel 1789, Schiller dichiara che «scrivere per una nazione soltanto>> e «un ideale angusto e banale (... ) semplicemente intollerabile per uno spirito filosofico >>. II cosmopolitismo giustifica, in molti casi, Ia condanna della guerra e l'esaltazione della coesisteriza pacifica fra i popoli. Mentre I viaggi di Gulliver ridicolizzano le giustificazioni correnti delle guerre, i vari progetti di «pace perpetua» - da quelli del quacchero William Penn e dell'abate di Saint Pierre (10.6) a quello di Kant (12.18)- cercano di dare corpo all'istanza cosmopolita propo-
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nendo vie di uscita utopiche rna razionali. La questione interessa naturalmente anche i giuristi che, sulla scia di Grozio, sviluppano riflessioni &istematiche intorno ai temi del diritto internazionale. La fortuna del trattato II diritto delle genti o i principi della Iegge naturale applicata alla condotta e agli affari delle nazioni e dei sovrani (1758), in cui lo svizzero Emeric de Vattel (1714-67) definisce le condizioni di possibilita di una comunita politica europea, dimostra quanta fosse avvertita l'esigenza di perseguire il superamento della «soyranita>> dei singoli stati. Chi fa professione di fede nella ragione, giudica la guerra «un frutto della depravazione dell'uomo; una malattia convulsiva e violenta del corpo politico», come si Iegge nell'articolo, non firmato, «Pace», dell'Encyclopedie. Per altri, le ragioni dell'industria e del commercia sono ancor piu persuasive. Il marchese di Chastellux ( 1734-88), convinto assertore del liberismo economico, scrive: Speriamo che, stanchi finalmente di tante inutili dispersioni e di tanti pericolosi malintesi, si cominci a vedere che gli interessi di tutte le nazioni sono identici e possono essere fra !oro conciliati (...). II primo di tutti i beni, cui un popolo deve aspirare, e la pace.
Se la guerra, dichiara Condorcet nel 1793, e «il peggiore dei crimini», sono proprio le nuove prospettive aperte dallo sviluppo economico a dimostrarne l'infondatezza e a spezzare le catene della sfruttamento che assoggetta i popoli coloniali, accelerando cosi «i progressi della fratellanza tra le nazioni ». Nonostante queste convinte asserzioni, l'ideale di una societa cosmopolita e entrato in crisi prima ancora che scoppiasse Ia Rivoluzione francese. Helvetius fa notare che, in assenza della societa internazionale necessaria per avere una morale universale, l'umanita e totalmente presa dal sentimento patriottico. Rousseau esalta la virtu del patriottismo civile, rifiutando esplicitamente le mistificazioni del cosmopolitismo: Ogni societa, quando e piccola e saldamente unita, si estranea dalla comunita piu vasta. Un patriota e sempre duro verso gli stranieri: sono soltanto uomini, nulla ai suoi occhi. Fuori della sua patria, lo spartano era ambizioso, rapace, ingiusto; rna il disinteresse, la giustizia e la pace regnavano fra le mura della sua citta. Guardatevi da quei cosmopoliti, che ricercano in remote questioni libresche i doveri che sdegnano di adempiere nel proprio ambiente.
Il pacifismo di Rousseau non si regge sui cosmopolitismo, rna sulla speranza che nei singoli stati si affermino delle costituzioni democratiche e che, riducendo a giuste dimensioni l'estensione degli stati, sia possibile un ordine internazionale non piu basato sulla guerra e sui giochi diplomatici. Le connessioni tra il concetto di volk, in Herder (10.10), e il recupero, compiuto dalla poesia tedesca (Klopstock, Kleist e lo stesso Goethe), della mitologia germanica, in esplicita polemica contra l'egemonia della romanita, attestano sia la crescita della Germania in autocoscienza culturale, sia la valenza anti-illuministica con cui si fa strada il concetto di nazione. Al declino del cosmopolitismo, maturate nel decennia anteriore al 1789,
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corrisponde la nascita di una nuova concezione, che assegna a ogni nazione un'indole propria ed esclusiva, fondata sulla consapevolezza della sua natura di entita che nel corso della storia si evolve e si realizza. La Rivoluzione francese contrappone drammaticamente le due concezioni e ne muta il segno e le conseguenze. Eredi del cosmopolitismo illuministico sembrano coloro che sottolineano la dimensione universalistica della Rivoluzione in marcia e proclamano, con il leader girondino Pierre-Jacques Brissot, l'avvento di «una nuova crociata, una crociata per la liberta universale». La guerra si giustifica in quanto strumento di liberazione dell'umanita oppressa dai tiranni e chiama tutti i francesi alla mobilitazione generale, a dare il proprio contribute per il successo dell'armata della Francia repubblicana. Erede di Rousseau e invece Maximilien Robespierre, che il 2 gennaio 1792 replica a Brissot: «Cominciate col riportare i vostri sguardi sulla vostra situazione interna; rimettete ordine in casa vostra pri!J1a di portare la liberta altrove»; voluta dagli «ambiziosi», dai «moderati» e dagli «agitatori», la guerra serve soltanto a distrarre il popolo con obiettivi che non lo riguardano. Lungi dal riprodurre la serena convivenza della comunita morale di Clarens, che tanto gli fa amare la Nuova Eloisa, Robespierre e il «partito della pace>> propugnano e combattono, perc, un'altra guerra, che deve eliminare .i nemici della rivoluzione, gli avversari dell'uguaglianza, della liberta e della fraternita. Giustificata come «1 'ultimo sacrificio sanguinoso >> richiesto ai francesi per «sigillare per sempre i diritti dell'umanita>> (l'espressione e del giacobino Billaud), la ghigliottina del Terrore sanziona anche la crisi del pacifismo rousseauiano e di fatto spiana la strada a chi, usando il concetto di nazione, preferira consegnare nelle mani di Napoleone Buonaparte le esigenze e i privilegi della borghesia.
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Sommario. Nel pensiero di Immanuel Kant confluiscono, accanto alla tradizione del pietismo protestante, la scolastica leibniziana di Wolff, il metodo di Newton, lo scetticismo empirista di Hume e la dottrina del sentimento di Rousseau (12.1). La prima fase della ricerca kantiana si svolge sui temi posti dal naturalismo del tempo, rna obbedendo a una precisa esigenza, quella di separare la fisica dalla metafisica (12.2). Col 1760 gli interessi di Kant si concentrano sulla questione della possibilita della fondazione di una nuova metafisica (12.3). La via da battere a questo scopo Kant la intui nel 1769: la separazione metodologica dei contenuti del mondo sensibile dai prindpi formali dell'esperienza, a cominciare dallo spazio e dal tempo (12.4). Nel 1781 appare la Critica della ragion pura, che imposta in modo critico il problema della metafisica a partire dall'ipotesi che siano gli oggetti a regolarsi sulla ragione e non viceversa (12.5). Questa ipotesi porta con se quella se i giudizi di .cui si serve la conoscenza scientifica non siano giudizi basati, si, sull'esperienza (sintetici) rna tali che il predicato sia gia presente nel soggetto indipendentemente dall'esperienza (a priori) (12.6). Kant verifica questa caratteristica del conoscere gia nella fase della sensibilita, dove le forme a priori sono lo spazio e il tempo (12.7). L'oggetto data dall'intuizione sensibile viene pe11satu dall 'intelletto mediante i suoi concetti puri (categorie), che divengono predicati del giudizio (12.8). Il centro di unificazione dell'attivita conoscitiva dell'intelletto, e cioe della costruzione della natura, e l"Io penso' (12.9). La corrispondenza tra le categorie e i fenomeni e assicurata dalla mediazione di schemi immaginativi che funzionano secondo precise regole dell'intelletto puro (12.10). La conclusione a cui Kant giunge e che i confini della conoscenza scientifica sono quelli del fenomeno sensibile e che dunque la metafisica non e scienza. E tuttavia, egli dice, ci sono nell'uomo esigenze metafisiche che si trasformano illusoriamente in oggetti: il mondo, !'anima, Dio. Kant confuta una dopo l'altra queste tre illusioni, concludendo che comunque esse esprimono irrinunciabili ideali regolativi della conoscenza (12.11). La metafisica trova il suo fondamento solo nell'ambito dell'esperienza morale, che Kant, nella Critica della ragion pratica, analizza col suo metodo critico, stabilendo che anche in essa si da un elemento a priori, la volonta pura (12.12). La volonta e pura quando e determinata dal dettame della ragione, l'imperativo categorico, distinto dagli imperativi ipotetici. In questa distinzione si svela la duplice appartenenza dell'uomo all'ordine fenomenico e all'ordine noumenico (12.13). In quanto causalita autonoma, la Iegge morale e istitutiva di un regno indipendente dalla natura fisica, il regno dei fini (12.14). Il regno dei fini e un orizzonte della fede morale che abbraccia tutte le condizioni che rendono possibile l'imperativo categorico. Tra queste condizioni vi sono proprio le tre certezze (postulati) che Kant aveva confutato nella sua prima Critica, relative al mondo in se, all'anima e a Dio (12.15). In ragione del suo primato, l'imperati\'o morale esige di ricondurre sotto di se tutti gli ordini dell'attivita pratica, a cominciare daHa religione, che deve essere risolta criticamente dentro i limiti della ragione e che ha come suo orizzonte Ia 'chiesa invisibile', di cui le chiese visibili sono anticipazioni e strumenti (12.16). Alla Iegge morale devono sottostare tutti i rapporti dell'uomo con se stesso e con gli altri, sia nella sfera etica che in quella giuridica, che hanno come fine comune Ia li-
362 0 12- Kant precritico berta (12.17). La liberta e il fine della storia umana, che procede verso la sua meta in modo conflittuale. II conflitto non e secondo natura rna e nato da una trasgressione originaria e trova espressione nella guerra, che dunque nemmeno essa e necessaria, rna puo essere superata nella 'pace perpetua', mediante opportuni ordinamenti cosmopolitici (12.18). L'analisi del conoscere e dell'agire ha condotto Kant alia determinazione di due mondi tra !oro contrapposti: il mondo della necessita meccanica e quello della liberta. Nella terza Critica, Kant ricerca l'anello di congiunzione nel sentimento, considerato come facolta fondamentale della ragione che si esprime nel giudizio riflettente (12.19). II giudizio riflettente puo essere estetico o teleologico. II giudizio estetico ha per suo contenuto non l'oggetto in se rna Ia sua rappresentazione come tale, in quanto essa entrain libero gioco con le facolta conoscitive. Quello estetico e un piacere disinteressato (12.20). La parentela tra il 'bello' e il 'buono' si rivela soprattutto nell'esperienza del sublime, che consiste nella sproporzione tra l'intuizione sensibile (finita) e !'idea della ragione (infinita), come pure si rivela nella essenza stessa della produzione dell'arte, possibile solo al genio, e cioe all'uomo che crea gli oggetti in modo disinteressato, alia maniera della natura: anche l'arte e un fine in se (12.21). L'idea di fine puo essere riferita all'ordine esterno dei fenomeni; allora essa permette di integrare anche Ia causalita meccanica in un finalismo che apparenta Ia natura e Ia liberta morale. E cosi Kant chiude Ia frattura tra i due mondi (12.22).
Kant precritico 12.1. I 'maestri'. Un tratto davvero eccezionale della filosofia di Immanuel Kant* e, per ripetere l'espressione che il suo contemporaneo Winckelmann usava a proposito della bellezza ellenica, «Ia grande tranquillita e la tranquilla grandezza». Le opere in cui essa si e tradotta sembrano partorite dalla ragione umana nel suo stato di piena maturita e di totale autonomia, governata solo dal rapporto con le esigenze interne della propria natura. Questa impressione e sostanzialmente giusta, rna va contenuta o corretta da due riserve. La prima e che per raggiungere la piena conformita con se stesso Kant ha dovuto attraversare un lungo periodo di ricerca - piu di un trentennio - che si e soliti chiamare il 'periodo precritico', del quale ci occuperemo in modo diffuso in Immanuel Kant nasce a Konigsberg (oggi Kaliningrad) nel 1724 da una modesta famiglia di artigiani. La madre, una fervente pietista, ottiene dall'amico pastore Albert Schultz che Immanuel entri nel collegia Fridericianum (1732), da lui diretto con metodi che lasceranno in Kant ricordi «di terrore e di angoscia>>. Nel1740 entra all'universita dove, piu che le lezioni di teologia, segue i corsi umanistici e scientifici di orientamento
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wolffiano. La morte del padre (1746) lo costringe a procurarsi il necessaria facendo l'istitutore: lontano da Konigsberg, ospite con tale mansione della Contessa Keyserling, sviluppa il gusto per la raffinatezza del vivere e della conversazione brillante che lo rende molto ricercato nella buona societa. Lo spettacolo della miseria contadina lo porta a far suoi gli ideali illuministici di riforma sociale. Nel 1755 torna a Konigsberg per iniziare, in quella universita, come Libera docente, Ia sua carriera di professore, che avra !ermine nel 1797. Solo nel 1770, a 46 anni, diviene titolare di cattedra, uscendo cosi dalle ristrettezze. Conduce le sue ricerche con rigoroso metoda: viene svegliato alle 5 del mattino e si corica regolarmente alle 22. La mattinata e dedit a all 'insegnamento e alia rice rca; a pranzo ama avere invitati con i quali conversare per alcune ore, fhJ.o alia sua passeggiata pomeridiana, che avviene in modo cosi regolare da far nascere l'aneddoto dei concittadini che rimettono gli orologi nel vederlo passare. Delle sue pubblicaziorii rendiamo canto analiticamente nel testa. Merita segnalare la data del 1769 come quell a dell 'an no in cui Kant intuisce la sua via filosofica. La farna di Kant si diffonde in Germania, anzi in Europa, quando, nel1781, esce Ia sua Critica della ragion pura. Nel 1788 esce Ia Critica della ragion pratica e nel 1790 la Critica del giudizio. L 'unico episodio che turba il tranquillo svolgimento della sua vita e la censura di Federico Guglielmo II contra la sua opera La religione nei limiti della semplice ragione (1793). Si impegna a non pubblicare altro sull 'argomento per lealta al sovrano, ma, quando questi muore, nel 1798, Kant riprende la sua liberta. Finito l'insegnamento, vive in solitudine e in lenta decadenza mentale, assistito da una sorella anch 'essa vecchia. Muore nel 1804 pronunciando le parole Es ist gut (E bene). La fine di Kant e cia che subito dopo avviene sembrano una riprova della sua dottrina sul 'male radicale'. Un nostro filosofo, tanto congeniale a Kant, Piero Martinetti, ha scritto a riguardo una pagina che mi piace riportare: «l discepoli sono scomparsi; i vecchi e provati amici sono morti. Questa mancanza di un amico affezionato e fedele si vede anche nel destino delle sue reliquie. Esse sono vendute ad alto prezzo, come curiosita: il suo berrettino da mattina e venduto per 10 sterline ad un inglese; dei suoi bianchi capelli si fanno anelli che sono venduti e in breve ci sono piit anelli di quanti capelli Kant avesse mai avuto; da ogni parte, anche dall 'estero, arrivano commissioni per 1'acquisto di qualcuna delle reliquie di Kant a qualunque prezzo. Ma intanto le sue carte manoscritte sono abbandonate al libraio Nicolovius e dopo Ia sua morte sono vendute, col resto, a peso ai bottegai di Konigsberg; e solo per un caso fortuito se ne salvo una parte. Un predicatore trovo presso un merciaio un esemplare delle Riflessioni sui bello e sul sublime con fogli e aggiunte di mano di Kant. E in mezzo a tanto entusiasmo nessuno si cura di salvare dalla profanazione la casa di Kant, che e trasformata in un caffe; la stanza dove aveva scritto la Critica della Ragion pura diventa una sala di bigliardo. E nel 1893 la sua casa e distrutta per rinnovamenti edilizi. Cosi la Germania ha saputo custodire le reliquie del piit glorioso dei suoi figli».
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questa prima parte del capitola. L'altra e che, mentre non ha mai approfondito la conoscenza del pensiero classico, Kant si e immerso, fin dagli inizi, con insaziabile curiosita, nella 'spirito del·tempo', accogliendo e filtrando criticamente le influenze che, passo dopa passo, lo andavano guidando verso Ia costruzione della propria identita. La potenza della sua ragione era tale che ogni apporto. veniva da lui rapidamente assimilato e tradotto in sostanza propria. Possiamo qui indicare sommariamente gli apporti piu importanti che si sono via via inseriti nel lungo itinerario da lui percorso prima che, nel 1769, si accendesse nella sua mente la «grande luce» di un pensiero totalmente autonomo. Tanto in famiglia come nel collegia, dove entro a otto anni, Kant si nutri di quel singolare sentimento religioso che il pietismo (9.12) aveva risvegliato nella Germania del Settecento, specie in Prussia. Nonostante la sua rivoluiione antimetafisica, egli rimarra sempre fedele, a suo modo, ad alcune caratteristiche del pietismo, quali il primato della coscienza nell'adesione aile verita religiose, Ia realta del male, anzi del «male radicale>>, Ia necessita della conversione del cuore. Un riflesso del pietismo infantile e facilmente riconoscibile in alcuni momenti chiave della sua filosofia, come nel 'formalismo' del pensiero e della vita morale e nel dualismo tra la liberta e la necessita delle leggi di natura e degli impulsi della sensibilita. Sia in collegia che nell'Universita di Konigsberg,· dominava all ora il pensiero di Christian Wolff (8.7), che aveva sostituito alia scolastica aristotelica una nuova scolastica derivata da Leibniz, dando cosi inizio a un illuminismo filosofico tedesco dagli esiti, tutto sommato, piuttosto moderati. II suo razionalismo infatti non era critico rna 'dommatico', nel sensa che, a partire dal principia di ragion sufficiente, equiparato al principia della semplice possibilita logica, egli riteneva che il mondo fosse, in tutte le sue parti, intelligibile. Kant ammirera sempre il rigore formale delle sue analisi, rna, come confessa nella prefazione alia seconda edizione della Critica della ragion pura, nel confutare le costruzioni arbitrarie degli · architetti di metafisica avra di mira soprattutto il dommatismo wolffiano. Come si e detto, il pensiero di Wolff era, almena in parte, una rielaborazione di stampo scolastico della metafisica di Leibniz, sicche di fatto l'irradiazion~ del filosofo delle monadi avveniva secondo i modi e i limiti del suo mediatore. Questa fino al 1765, quando vennero dati aile stampe, per la prima volta, i Nuovi saggi sull 'intellettv umano di Leibniz, rimasti sepolti per sessant 'anni nella biblioteca di Hannover. Ci fu allora una vera e propria 'rinascita' di Leibniz, che per la prima volta si presento nel suo profilo di teorico della conoscenza. Ed e con questa Leibniz gnoseologo, e piu precisamente con la sua dottrina delle idee «virtualmente innate>> (7.11), che Kant si misurera nel travaglio immediatamente precedente alia svolta del 1770, che potremmo considerare, vedremo perche, l'anno di nascita del 'kantismo'. Antica e costante fu invece la devozione di Kant per Newton, il cui metoda sperimentale gli fu di appoggio nella sua iniziale presa di distanza dalla metafisica deduttiva. I primi scritti kantiani, a carattere naturalistico, portano ancora i segni della confusione tipicamente newtoniana tra metafisica e fisica (6.14). E. proprio a riguardo della concezione della spazio quale condizione dell'esperienza umana che, come diremo tra poco, sorge in Kant l'esigenza del
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problema critico. Fin dal 1756 all'influenza di Newton si intreccia quella di David Hume, di cui Kant Iegge, in traduzione tedesca, la Ricerca sull'intelletto umano (8.8) e la Ricerca sui principi della morale (11.3). Venticinque anni dopo, nei Prolegomeni ad ogni metafisica futura, Kant confessed! che Hume lo aveva, molto tempo prima, «svegliato» dal suo «Sonno dommatico». L'incidenza di Hume impresse alia fase precritica di Kant una svolta di tipo scettico, che solo piu tardi egli superera, quando arrivera a convincersi che l'intelletto non e, nei suoi principi fondamentali come quello di causa, un prodotto dell'esperienza, al contrario ne e l'artefice, per mezzo delle forme universali che costituiscono la sua struttura. A quella di Hume si aggiunge, nel giro degli stessi anni, !'influenza di Jean Jacques Rousseau, di cui Kant Iegge il Discorso sulla diseguaglianza (11.6), I' Emilio (11. 7) e il Contralto sociale (11.10). Come la lettura di Hume aveva svegliato in lui un processo critico, che lo avrebbe condotto a superare il rischio dello scetticismo con la determinazione delle condizioni che danno universalita e necessita al conoscere, cosi la lettura di Rousseau (tanto appassionante da fargli rinunciare per piu giorni alia sua passeggiata quotidiana, eccezione che si ripetera solo quando arriveranno le notizie della rivoluzione francese) gli apre la via al riconoscimento del primato della ragion pratica. Sara Kant stesso a confessarlo: l'eloquenza di Rousseau valse a liberarlo dall'illusione che ci fosse per l'uomo altro autentico progresso che quello radicale della propria natura morale. Rousseau apparve a Kant come il Newton del mondo morale: quel che e la gravitazione nell'ordine cosmico e il sentimento nell'ordine del bene. Anticipando quanto dovremo dire diffusamente in seguito sulle origini e la formulazione del problema critico, possiamo cosi riassumere concisamente le 'influenze' ora ricordate: la scienza esiste, come ha provato Newton; Ia morale esiste, come ha stabilito Rousseau, e tuttavia Hume dimostra che la scienza non e certa, cosi come non lo e la morale. Di qui le grandi questioni: come e possibile la scienza? Come e possibile la morale? E come e possibile l'accordo tra scienza e morale? A questi interrogativi, che definiscono, nelloro insieme, Ia genesi logica del suo 'criticismo', Kant giunge con un lungo itinerario, scandito in due fasi fondamentali, quella naturalistica e quella metafisica. 12.2. La fase naturalistica. I primi passi Kant li muove sulla linea della filasofia dominante, quella wolff-leibniziana, in cui non si clava vera e propria distinzione tra metafisica e fisica, e li muove secondo interessi, divenuti di moda attorno alia meta del secolo, di carattere scientifico, fino a che, dopo il 1760, Ia questione piu direttamente metafisica non assorbi, in modo sempre piu imperioso, le sue ricerche. Questi gli scritti di maggior rilievo pubblicati in questo periodo:
1746 1755 1755 1755
Pensieri sulla vera rivoluzione delle forze vive Storia naturale universale e teoria dei cieli De igne Principiorum primorum cognitionis metaph_ysicae nova delucidatio (tesi di docenza universitaria)
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1756 1756 1756 1757 1759
I terremoti Teoria dei venti Monadologia fisica Progetti di un collegia di geografia fisica Sull'ottimismo
Fermiamo la nostra attenzione sulle due opere che pili direttamente affrontano la questione che, piu o meno consapevolmente, guida la riflessione di Kant, e cioe in che modo sia possibile separare la fisica dalla metafisica, e questa non in nome di una pregiudiziale scettica nei confronti della trascendenza, rna, al contrario, per assecondare un amore che, al dire di Kant, era il suo stesso destino: l'amore per la metafisica. Le due opere sono: la Storia universale della natura e teoria dei cieli e la Monadologia fisica. La Storia universale della natura, per quanta nel suo sottotitolo (ricerca inlorna alla costituzione e all'origine meccanica dell'intero sistema del mondo condotta secondo i principi newtoniani) si presenti come uno sviluppo dei Principi di Newton (6.13), e un tentativo di spiegare l'origine dell'universo con le leggi generali della natura, senza chiamare in causa, se non nel primissimo atto originario, la potenza del Creatore. Quello di Kant e quindi, nei confronti di Newton, un passo avanti nella laicizzazione della scienza e, piu precisamente, nella separazione delle spiegazioni scientifiche dal loro involucra metafisico. L'universo e per Kant un sistema di sistemi, i cui confini si estondono all'infinito, sorpassando «ogni potere degli umani concetti». E tuttavia, a presiedere allo svolgimento e all'ordinamento dei sistemi, compreso naturalmente quello solare, e una sola e medesima Iegge meccanica: a partire da una nebulosa originaria, composta di particelle di densita diversa, si sono generati, proprio in ragione della densita ineguale, diversi centri di attrazione e di repulsione. Come si vede, al meccanicismo di Cartesio, peril quale l'estensione e in ogni sua parte omogenea e priva di forze interne, si combina la legge newtoniana della gravitazione. La caduta verticale delle particelle da luogo a traiettorie curvilinee, distribuite tra loro in modo che le pili dense si avvicinano al centro di pili che non le particelle meno dense. Di qui, nel nostro sistema, come d'altronde in tutti gli altri, una gerarchia di carpi celesti, dai pili densi e percio pili vicini al sole, ai pili rarefatti e perdo pili remoti. Discutendo dell'ipotesi di abitanti in altri pianeti, Kant arriva a precisare che quelli di Mercurio (il pianeta pili vicino al sale) e quelli di Saturno (il pili lontano) sono gli uni e gli altri sgravati di responsabilita morali, per ragioni opposte e simmetriche: perche del tutto sopraffatti dalla materialita, i primi, e del tutto affrancati dall'obbligazione morale i secondi, data la lo" ro perfettissima costituzione materiale. I 'terricoli', invece, hanna, perche centrali nel sistema, la materialita dei primi e la spiritualita dei secondi: ecco perche conoscono il conflitto tra il bene e il male. A parte queste divagazioni ancora piuttosto arcaiche, l'ipotesi di Kant (rimasta senza grande eco quando apparve, anche perche, andato in fallimento l'editore, l'opera divenne introvabile}, proposta nel 1796 da Laplace ( e giusto dirlo: del tutto ignaro del precedente di quarant'anni prima}, merito di passare alia storia della scienza col nome di ipotesi Kant-Laplace.
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Il meccanicismo di Kant, in questa prima fase, ha il suo limite, oltre che nel riconoscimento di una forza immanente all'estensione, secondo i principi newtoniani, anche nel riconoscimento che esso vale a spiegare soltanto i corpi fisici e non quelli organici, il moto degli astri, rna non, ad esempio, la nascita di un filo d'erba. Questa impossibilita di ridurre i corpi alia geometria e ribadita anche nella Monadologia fisica, che e un tentativo di render conto di come nella natura si debbano distinguere e combinare l'estensione geometrica e le 'forze vive', di cui, secondo Leibniz, le monadi sono dotate. Siamo qui alle prime avvisaglie di quella che sara, nel Kant maturo, la distinzione tra fenomeno (l'estensione soggetta al meccanicismo) e noumeno (Ia forza viva non riducibile alia quantita). Il rapporto .tra le due prospettive, la scientifica e la metafisica, viene esemplificato nella spiegazione della natura dello spazio. Newton parlava di uno spazio assoluto, e cioe di uno spazio che resterebbe tale anche senza i corpi (6.13), mentre in Leibniz lo spazio e il prodotto dell'energia delle monadi che costituiscono i corpi (7.10). Ricordiamo qui, data la rilevanza che in Kant avra il problema, che riguardo allo spazio egli aveva dinanzi a se tre posizioni: per Cartesio, lo spazio e l'essenza dei corpi (senza corpi non si da spazio); per Newton, lo spazio e il luogo che contiene i corpi (senza corpi ci sarebbe lo spazio); per Leibniz, lo spazio non precede i corpi ne si identifica con loro, ne e un prodotto. Kant fa sua la concezione leibniziana della fenomenalita dello spazio, come dire, della sua relativitain rapporto alla sostanza. Nelle ultime righe della sua opera, Kant mostra di rendersi conto delle difficolta inerenti a questa concezione. Ad esempio: se e una proprieta dei corpi, nel senso che e un loro prodatto, lo spazio dovrebbe essere conosciuto solo con l'intuizione sensibile. E perche, allora, esso e oggetto della matematica che e una conoscenza a priori, del tutto indipendente dai contenuti sensibili? Come puo l'intuizione dello spazio star prima dell' esperienza sensibile? Come si vede, in un modo o in un altro, la questione metafisica risorge continuamente anche nel Kant naturalista. 12.3. La fase metafisica. Nel decennia che si apre col 1760, il pensiero di Kant si va rapidamente districando dalla problematica in uso negli ambienti universitari piu illuminati, per assumere via via tratti sempre piu originali, come dimostra la serie dei suoi scritti di questo periodo:
1763 17 63 1763 1764 1764
La falsa sottigliezza delle quattro figure sillogistiche
L'unico argomento possibile per dimostrare 1'esistenza di Dio Saggio per introdurre in metafisica il concetto di grandezze negative Osservazioni sur sentimento del bello e del sublime Ricerca sull 'evidenza dei principi della teologia naturale e della morale 1765 Notizia sull'indirizzo delle lezioni per il semestre invernale 17651766 1766 Sogni di un visionado chiariti coi sogni della metafisica 1770 De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis (con quest'opera Kant diviene professore ordinaria).
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II sensa unitario di questi scritti e la progressiva messa a fuoco di quello che sara in assoluto l'impegno speculativo di Kant: una nuova fondazione della metafisica. Finito il luminoso incantesimo wolffiano, la metafisica appare agli occhi di Kant tome un «Oceano tenebroso e senza sponde ne fari», «ancora non solcato» e reso infido da «inavvertite correnti marine>>, come egli scrive in una delle opere piu importanti di questa periodo, L'unico argomento possibile per una dimostrazione dell'esistenza di Dio (1763). Pur restando in un orizzonte metafisico ancora leibniziano, Kant compie un'analisi del concetto di esistenza che sara uno dei punti cardine del suo pensiero piu maturo. Nel prendere in esame i tradizionali argomenti a priori per la dimostrazione dell'esistenza di Dio (noti fra tutti quelli di Anselmo d'Aosta e di Cartesio), Kant nega che l'esistenza sia unci di quei predicati con i quali si aggiunge o si toglie qualcosa alla perfezione della cosa in esame, e la posizione delle cose pura e semplice. Tra una cosa pensata come possibile e la stessa cosa pensata come esistente non c'e nessuna differenza di qualita e di caratteri. Ma, pur scartando la via deduttiva dell'argomento ontologico (le prove induttive o cosmologiche egli le scarta tutte fin d'ora, senza perplessita), Kant ritiene che la certezza dell'esistenza di Dio e implicita nella teoria metafisica dei 'possibili', e cioe di quelle verita eterne che si basano sul principia di identita e di non contraddizione. Se non si desse in assoluto nessuna esistenza, scrive Kant, non si darebbe nemmeno il sistema delle verita possibili, dato che <<se non esiste nulla, neppure e dato nulla che sia allora pensabile>>. L'essere assoluto e dunque la condizione senza la quale non si darebbe il sistema delle verita possibili. E questa l'ultimo aggancio che lega Kant alla tradizione metafisica nella versione wolffiana. Ma e un aggancio esile, che si accompagna ormai a una convinzione che da la misura di quale fosse l'ardimento del suo impegno speculativo: <<senza dubbio la metafisica e la piu difficile di tutte le scienze: solo che non ne e stata ancora scritta mai nessuna>>. Affermazione sconcertante, che si potrebbe anche dire presuntuosa, se non ci trovassimo dinanzi a uno spirito dotato della massima severita morale. E che. in attesa di una rifondazione della ricerca metafiska, le grandi costruzioni messe in piedi dai filosofi del passato, a questo punta appaiono a Kant come «diversi mondi campati in aria>>, in ciascuno dei quali abita tranquillamente il rispettivo architetto, poco o niente preoccupato di sapere se il suo «mondo campato in aria>> abbia o meno un rapporto con la realta. E quanta Kant dice in una sua singolare opera, apparsa anonima nel 1766, Sogni di un visionario chiariti coi sogni della metafisica. Gli estimatori di Kant, che erano gia molti e di alto livello, non potevano capacitarsi che un pensatore rigoroso come lui potesse davvero essere l'autore di pagine cosi abbandonate al gusto dello scherzo e della caricatura. Il «visionario>> era Emanuel Swedenborg (1688-1772), un ecclesiastico svedese che aveva dedicato al mondo sovrasensibile, popolato di spiriti, un'opera, Arcana coelestia (1756), in otto volumi in quarto, che Kant aveva attentamente letto, traendone una vivace eccitazione di quella vena ironica che per certi lati lo apparentava a Voltaire. La sbrigliata fantasticheria del visionario svedese gli sembro del tutto affine alla severa ragione degli architetti dei mondi immaginari. Un'idea si era fatta chiara in Kant: la metafisica e la piu importante delle scienze, rna essa non e niente altro che «la scienza dei limiti della ragione>>. II
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resto e fantasia. Ne vale 1'argomento che in tal modo si tolgono i fondamenti stessi della vita morale. Non puo dirsi virtuoso l'uomo che si abbandonerebbe ai vizi se non fosse certo dell'al di la. Hanno gia preso chiarezza, in Kant, temi fondamentali della sua futura costruzione: i limiti della 'ragione e l'autonomia della legge morale. 12.4. La 'grande luce'. «L'anno 1769 mi diede una grande luce», scrive Kant a J .H. Lambert, in una lettera del 2 settembre 1770. E spiega in che modo la «grande luce» gli fu data. Quasi a dimostrare che le costruzioni metafisiche equivalgono ai sogni di un visionario, egli si era esercitato nel formulare, attorno alle questioni centrali della metafisica, affermazioni tra loro antitetiche che, prese a coppie, sono l'una e l'altra dimostrabili con pari forza d'argomentazione. E questo esercizio Kant lo intraprese «non per costruire una dottrina scettica - cosi egli racconta - rna perche presumevo di scoprire un'illusione dell'intelletto e in che cosa essa stesse». E fu proprio nello sforzo di uscire dalla morsa della antitesi che egli intui, come «in un barlume crepuscolare>>, il nuovo concetto teorico: la separazione metodologica dei contenuti del mondo sensibile dai contenuti del mondo intelligibile. H criticismo kantiano, nella sua idea generativa, era gHt nato. Pochi giorni prima della lettera al Lambert, il 20 agosto 1770, nel prendere possesso della cattedra di Logica e Metafisica, Kant, gia quarantaseienne, aveva pronunciato la sua Prolusione (Dissertatio) sui principi e la forma del mondo sensibile e del mondo intelligibile, in cui offriva le linee di fondo della nuova metafisica, intesa come fondazione critica cl.elle possibilita e dei limiti della ragione. «Mi sembra, si legge ancora nella lettera citata, che una tale disciplina propedeutica, che preservi la metafisica da ogni mescolanza col sensibile, si potrebbe facilmente condurre, anche senza grandi fatiche, ad utile ampiezza ed evidenza». E qui Kant si ingannava. Gli ci vollero undici anni di intensa ricerca, contenuta nel pili totale silenzio (in questo periodo egli non pubblico quasi nulla), per svolgere con 'ampiezza' ed 'evidenza' il suo progetto. Sono gli anni che separano la Prolusione dalla Critica della Ragion pura (1781). Le tesi di fondo della Prolusione sono i presupposti della grande opera che avrebbe segnato, secondo un giudizio dello stesso Kant, la rivoluzione copernicana nel mondo del pensiero. 11 primo presupposto e la distinzione tra sensibilita e intelletto, dotati l'una e l'altro di «concetti puri», cioe di concetti che non sono veri e propri contenuti della mente, come le idee innate:;-ma leggi originarie mediante le quali il soggetto conoscente si rappresenta sia il mondo esterno che il mondo interno. Senza la sensibilita, nessun oggetto ci sarebbe dato, senza l'intelletto, nessun oggetto sarebbe pensato. La sensibilita ci da la materia del conoscere, l'intelletto la forma. 11 secondo presupposto e la concezione dello spazio e del tempo come forme a priori della sensibilita. Nella sua prima fase (12.2), Kant aveva inteso lo spazio come un prodotto della sostanza, alla maniera di Leibniz. Ora, esso e una intuizione pura, che non risultc:. da un aggregate di sensazioni rna e la condizione stessa perche nel soggetto le sensazioni si aggreghino secondo rapporti di contiguita. Lo spazio e, dunque, non una proprieta delle cose rna una esigenza del soggetto, che, nel momento in cui e modificato dall'oggetto; se lo rappre-
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senta necessariamente nelle forme dell'intuizione spaziale. Analogamente, il tempo e la condizione formale della rappresentazione degli eventi interiori e, per loro mediazione, anche di tutti i fenomeni esteriori: non tutto cio che e temporale e anche spaziale, rna tutto cio che e spaziale e anche temporale. Solo un 'intelletto archetipo', che sia non condizionato dalle forhle che invece determinano il funzionamento dell'intelletto dell'uomo, puo cogliere il mondo esterno come e in se. L'uomo conosce il mondo cosi come gli appare nella sintesi tra la materia fornita dalla sensazione e Ia forma che e Ia struttura innata della sensibilita e dell 'intelletto. La Prolusione ci mostra un Kant gHt in pieno possesso del proprio metodo e dei propri obiettivi. II metodo e quello dell'analisi trascendentale, e cioe della ricerca di quei principi formali, congeniti allo spirito umano, che sono condizione dell'esperienza e ne determinano attivamente l'esito, al punto che quella che noi chiamiamo Ia realta e, di fatto, a partire dal momento passivo della sensazione, un prodotto del soggetto conoscente. L'obiettivo di questa metodo e, in linea con gli esponenti piu autorevoli dell'epistemologia settecentesca (8.5-9), Ia delimitazione dei confini dell'umana conoscenza, una delimitazione che pero non e stabilita con l'intento scettico della squalifica di ogni verita che si pretenda universale, rna, al contrario, con l'intento di mostrare Ia potenza della ragione che, dentro i propri limiti da se stessa riconosciuti, non ha altra Iegge che se stessa. L'analisi cosi condotta si dice trascendentale, in quanta e volta a verificare non gia cio che sta al di Ia dell'esperienza- il trascendente -rna cio che e Ia condizione formale dell'esperienza e che dunque si realizza solo dentro i suoi confini. Nella Prolusione, questa analisi si limita a stabilire le condizioni formali del mondo sensibile, non quelle del mondo intellettuale, che in qualche misura rimane ancora soggetto ai principi della metafisica dommatica. Kant impiego undici anni per estendere l'analisi trascenden.tale a tutte le sfere dell'umana esperienza. In una lettera del 1771 scriveva: ' Sto lavorando ad un'opera la quale, sotto il titolo llimiti della sensibilita e della ragione, non solo deve trattare dei principi e delle leggi fondamentali che concernono il mondo sensibile rna deve anche essere un abbozzo di cio che costituisce la dottrina del gusto, della metafisica e della morale.
Come si vede, Kant ha gia posto, in modo chiaro, il tema centrale delle tre Critiche. In una lettera di otto mesi dopo si riteneva vicino alla meta: Io sono ora in grado di proporre una Critica della ragion pura che tratti della natura della conoscenza, sia teoretica che pratica, in quanta puramente intellettuale. Della prima parte, che tratta prima le fonti della metafisica e i suoi limiti, poi i principi puri della moralita, pubblichero cio che concerne il prima argomento fra circa tre mesi.
I tre mesi furono invece nove anni. La Critica della ragion pura apparve, infa tti, alia fine del 1781.
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Kant: Ia ragion pura 12.5. II problema critico. Quando l'editore Hartknock di Riga, il 1° maggio 1781, gli consegno Ia prima copia dell'edizione della Critica alia ragion puraun volume in ottavo di 856 pagine, piu 24 di introduzione - Kant era convinto di avere aperto al pensiero umano un nuovo sentiero che prima della fine del secolo sarebbe diventato una pacifica strada maestra. Ma le cose non andarono proprio cosi. La mole della sua opera, il suo linguaggio «spesso cos! fiacco e indeterminate, come scrive il Windelband, in strano contrasto con Ia sua solita pedanteria» e, insieme allinguaggio, quel suo periodare pesante, che «contribuisce tanto all'oscurita dei suoi scritti e da un'immagine evidente del faticoso e continuo lavorio del suo pensiero», favorirono una certa disattenzione da parte del mondo filosofico. Moses Mendelsshon, ad esempio, il Mentore della repubblica filosofica prussiana, al cui giudizio anche Kant teneva molto, mise !'opera da parte, senza curarsene. Altri che invece l'avevano letta, ne scrissero in modo da mostrare d'averla fraintesa. Per questo, Kant preparo e pubblico, nel 1783, una esposizione piu accessibile della sua Critica in un'opera piu snella, intitolata Prolegomeni a ogni futura metafisica che si vorrii presentare come scienza. Tre anni dopo, nel 1786, con I primi principi metafisici della scienza della natura, voile mostrare come Ia sua dottrina della conoscenza potesse applicarsi perfettamente alia fisica di Newton, e l'anno successive, nel 1787, pubblico Ia seconda edizione della Critica, in piu parti rimaneggiata e arricchita di una lntroduzione di fondamentale importanza per Ia comprensione della genesi del suo pensiero. E su queste opere che si basa Ia considerazione di Kant, nata in quegli anni, come di uno «sgretolatore di ogni cosa» - cos! l'aveva chiamato Mendelsshon- e piu precisamente come di colui che ha ritenuto di aver posto fine per sempre all'illusione di poter raggiungere la conoscenza valida della realta che sta oltre il sensibile. Dio, come causa prima di tutti gli esseri, !'anima, come sostanza spirituale dotata di immortalita, e la liberta, che consente all'uomo di porsi come soggetto di iniziative autonome di fronte aile leggi della necessita che governa Ia natura: questi i capisaldi della metafisica tradizionale che Kant avrebbe sgretolato. La verita - non solo negli intenti di Kant, rna anche in un sereno consuntivo che a noi, a due secoli di distanza, e possibile tracciare - e diversa. La verita e che, come dovrebbe aver messo in chiaro l'itinerario appena tracciato, le tre tendenze metafisiche sono ritenute da Kant inestirpabili (e gia in questo egli prende le distanze dagli indirizzi dominanti nell'illuminismo anglo-francese), perche inscritte nella natura umana a tal punto che anche se, per ipotesi, si tornasse alia piu assoluta barbarie, risorgerebbero per forza propria. Si e gia visto come, nel giudizio maturo di Kant, le costruzioni dei metafisici, tra le quali un tempo egli si era aggirato con ammirazione, avessero finito col rassomigliare ai sogni dei visionari. Una volta - cosl. egli scrisse nell'lntroduzione della sua Critica - Ia metafisica era detta Ia regina delle scienze, <>. E prosegue osservando
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Tav. 4 ·Schema sinottico I. ESTETICA TRASCENDENTALE
II. ANALITICA TRASCENDENTALE
Com 'e possibile Ia matematica pura?
Com 'e possibile Ia fisica?
LA SENSIBILIT A
L'INTELLETTO
pura ricettivita, fornisce le conoscenze che riguardano immediatamente gli oggetti che ci modificano: intuizioni empiri~ che.
conduce ad unita i fenomenj.(oggetti indeterminati delle intuizioni empiriche) per mezz.:, delle categorie.
1. SPAZIO: forma a priori della sensibilita esterna.
A. ANALITICA DELLE CATEGORIE a) Deduzione metafisica: determina, attraverso I 'analisi, i principi di ogni conoscenza a priori, cioe Ia 'metafisica della scienza '.
2. TEMPO: forma a priori della sensibili-
ta interna.
I giudizi
I. Quantita
2.Qualitii
3. Relazione
4. Modalita
I I I I
Le categorie
Universali Unita Particolari Pluralita Singolari Totalita
Affermativi Realta Negativi Negazione Limitativi Limitazione
Ipotetici Sostanza Categorici Causa Disgiuntivi Reciprocita
Problematici Possibilita Assertori Esistenza Apodittici Necessita
B. ANALITICA DEl PRINCIPI DELL'IN·
b) Deduzione tra- c) Schematismo tra.
scendentale; legittima le categorie nella !oro applica~io ne agli oggetti me'diante I 'unificazione del molteplice dell 'intuizione nell'unita dell'lo penso, che conferisee !oro l'oggettivita.
TELLETTO PURO
scendentale: unione dei concetti Sintesi a priori che regola l'uso. oggettivo delle categorie. semplici e universali con le intuizioni complesse e particolari, per mezzo degli schemi trascendentali dell'immaginazione e dell'intelletto puro, secondo Ia forma del tempo. 1. II numero
!. Assiomi dell 'intuizione. Tutte le intuizioni sono grandezze estensive.
2. La realta nel tempo
2. Anticipazione della percezione. In ogni fenomeno il reale oggetto della sensazione ha una grandezza intensiva e cioe un grado.
3. Permanenza successione simultaneita
3. Analogie dell 'esperienza. L'esperienza e possibile solo me· diante il nesso necessario delle percezioni (sostanza, causa/ita, reciprocita).
4. Esistenza dell'og- 4. Postulati del pensiero empirico getto nel tempo, sein generale: condo possibilita, a) Cio che si accorda 1'-•n••rh•n-.. dizioni form ali realta, necessitii. za (forme dell •;n,,,;,,;n~,e categorie) e possibile. b) Cioche si accordacon lecon· dizioni materiali dell 'esperienza (sensazione) e rea/e. c) Cio il cui accordo con il reale. e determinato secondo le condizioni generali dell 'espe· rienza, e necessaria.
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RAG/ON PURA
IIL DIALETTICA TRASCENDENTALE
A quali condizioni e possibile una metafisica? LARAGIONE
;"lenta di ricondurre a UI)ita Je regole dell'intelletto per mezw di certi principi che realizzano l'incondizionato forma di un oggetto determinato: Je idee, che mirano a cogliere iJ noumeno,le cose in se,le quali invece inconoscibili per mancanza di una corrispondente intuizione intellettuale. Di qui l'illusione metafisica, '{.confutabile in ciascuna delle sue specifiche ripartizioni. ' 'f~tto
~)sono
LL'IN·
)'J#.. PSICOLOGIA RAZIONALB
~dea dell'anima l'uso- ::;c" e. 'J'aralogismo ';,l'e cioe il falso sillogi·l~ino
con cui si intende :;'ilimostrare Ia sostan;alita dell'anima e che ·,:lnvece si basa sull'uso :'!!tdebito delle categoXrie Ia dove manca il ·supporto dell'intuizio:sne. delle ~;
!Zione.
ggetto l
una
e ciof::
>lome· s:tanza,
lecon· peri en· ione e lecon· ll'espe· ·eale. il reale ndo le ll'espe·
B.
CosMOLOGIA RAZIONALB
C. TEOLOGIA RAZIONALE
Idea del mondo
Idea di Dio
Le antinomie
1. Argomento ontologico (Dimostra l'esistenza di Dio dall'analisi del suo concetto).
Assumendo come oggetto Ia rappresentazione del mondo ci si condanna a prendere per vere proposizioni tra !oro contraddittorie.
Tesi Antitesi I. II· mondo ha I. II mondo non un'origine nel ha origine nel tempo ed e litempo, ne nello mitato nello spazio. spazio. mondo II. Nessuna soII. Nel ogni sostanza stanza composta consta di consta di parti semplici o atoparti semplici, rna tutto e divimi. sibile, all'infinito. III. Oltre alia cau- III. Non vi e Iibersalita naturale ti!, tutto si svolvi e anche una ge per causaliIibera causalita naturale. ta. IV. All'inizio delle IV. Non vi e alcun cause agenti vi essere necessa· e un essere nerio, ne nel mondo, ne fuori: cessaria. tutto e contingente.
2. Argomento cosmologico (La dimostrazione si basa sulla
contingenza del mondo). 3. Argomento fisico-teologico (La dimostrazione si basa sull'or-
dine del mondo). II 2° e 3° argomento rimandano al I 0 che, scambiando iJ possibile per iJ reale, non e che una illusione trascendentale.
Conc/usione: le tre idee sopo dei possibili privi di contraddizione che riceveranno un contenuto
categorico dal !oro legame necessaria con l'esistenza della Ji. berta, i cui contenuti sono posti dalla forma a priori del dovere e sono dunque oggetti non di scienza rna di fede.
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che tra i matematici e i fisici nascono certo dei dissensi, rna prima 0 poi essi trovano un accordo sulla base di dimostrazioni, affidate, secondo i rispettivi metodi, al calcolo o all'esperimento. Al contrario, tra i metafisici le vertenze non finiscono mai, rna si trasmettono e si rinnovano di secolo in secolo, con grande profitto degli scettici. Situazione tanto piu intollerabile in quanta nell'area dei problemi metafisici, la ragione si trova, come in nessun altro luogo, a casa sua, nel sensa che quei problemi non le sono posti dall'esterno, dal caos delle case, rna dalle sue stesse intime leggi. La ragione del contrasto tra la solidita delle altre scienze e la sterilita e vacuita della metafisica non potrebbe nascondersi, si domanda Kant, nel fatto che, mentre matematici e fisici hanna compiuto in tempi diversi la !oro rivoluzione - quando si decisero, con l'antico Euclide e col moderno Galileo, a cercare i prindpi della conoscenza non nei lora oggetti, rna nella ragione stessa - la metafisica e rimasta ancorata ai pregiudizi dommatici della tradizione? II discorso metafisico ha sempre preso avvio dal suo proprio oggetto, e cioe dall'essere in se. Forse e venuto il momenta di compiere, anche in campo metafisico, la rivoluzione gia verificatasi in campo matematico e fisico, una rivoluzione che rassomigli a quanta fece Coperriico, «il quale, poiche non trovava conveniente procedere nella spiegazione dei moti celesti in base all'assunzione che l'intera volta stellare ruoti intorno all'osservatore, cerco se cio non poteva riuscirgli meglio facendo ruotare l'osservatore e all'incontro stare quiete le stelle>>. E cioe, non sarebbe opportuno fare l'ipotesi che, invece che la ragione sugli oggetti, siano gli oggetti a regolarsi sulla ragione, a ruotare attorno ad essa, ricevendone luce e ordine? Per rispondere all'interrogativo, invece che stare ferma alle apparenze, come fa nel realismo ingenuo, la ragione dovrebbe decidersi, in risposta aile esigenze maturate nel tempo, a «intraprendere a nuovo la conoscenza di se», istituendo «una corte di giustizia che l'assicuri delle sue giuste rivendicazioni », e <
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rienza, data che Ia pura idea di corpo non implica di per se Ia pesantezza. Siccome i giudizi analitici nascono in noi mediante Ia semplice attivita del pensare, senza bisogno di esperienza, si dicono a priori. In quelli sintetici, invece, come si e detto, il predicato non puo che essere desunto dall'esperienza: ecco perche essi si dicono a posteriori. Sono questi i tipi di giudizio che assicurano alia matematica e alla fisica le caratteristiche che sopra abbiamo contrapposte allo stato di collasso della metafisica? No, certo. La conoscenza scientifica richiede giudizi che siano necessari e universali, per un verso, e, per l'altro, idonei a produrre accrescimento del sapere. Ora, i giudizi analitici a priori assicurano senza dubbio l'universalita e la necessita, data che si basano sul principia di identita e di non contraddizione, rna non apportano nulla di nuovo. I giudizi sintetici a posteriori arricchiscono si, la conoscenza, rna non hanna nessuna necessita intrinseca, e quindi non hanna universalita. A giustificare i due tratti essenziali della conoscenza scientifica dovrebbero darsi giudizi che fossero, come gli a1wlitici, universali e necessari, e come i sintetici, accrescitivi del sapere. Dovrebbero essere, insomma, sintetici e a priori. Chiedersi se si danno nella ragione giudizi del genere equivale a domandarsi se sono veramente fondate le pretese della matematica e della fisica di essere vere e proprie scienze, anzi se, in assoluto, Ia scienza e possibile. Di fronte a tale questione del fondamento della scienza, il dibattito filosofico del tempo si riduce, per Kant, alle due posizioni dominanti, quella dei razionalisti alia Wolff e quella degli empiristi all~ Hume. Per i primi, gli unici giudizi generatori di certezza sono gli analitici a priori; per i secondi, gli unici giudizi possibili sono i sintetici a posteriori. Chiusi nelle rispettive pregiudiziali, ne gli uni ne gli altri sanno rendere ragione delle pretese della scienza. Sostenendo Ia possibilita dei giudizi sintetici a priori, Kant si pone al di Ia dei due schieramenti contrapposti, mettendo allo scoperto i limiti della lora impostazione gnoseologica. Del resto, egli dice, di giudizi sintetici a priori noi facciamo usa, senza rendercene canto. Nella semplice operazione aritmetica «7+5 = 12» (che e un vero e proprio giudizio: sette piu cinque e uguale a dodici), il predicato 12 non rientra in nessuno dei due addendi che costituiscono formalmente il soggetto. Esso aggiunge qualcosa di nuovo: e sintetico. E non si basa sull'esperienza, anzi Ia precede: e a priori. Ma anche quando io dico: «tutto cio che accade ha una causa», compio un giudizio sintetico a priori, dato che l'idea dell'accadere non ha in se il concetto di causa e data che questa giudizio e posto dalla ragione con necessita, prima di qualsiasi esperienza. E cosi, Kant ha determinato con chiarezza il tema della sua ricerca: Ia scienza come conoscenza certa e progressiva e possibile in quanta sono possibili i giudizi sintetici a priori. I risultati della ricerca ci metteranno in mana gli elementi necessari per affrontare la questione principe: e possibile Ia metafisica come scienza? La risposta, come vedremo, sara negativa, rna non nel sensa della scetticismo. E sara una risposta di cui si perderebbero i contenuti non meramente negativi se la si isolasse dal lungo itinerario che Ia prepara e che si snoda in un terreno ancora intatto, quello della soggettivita ritenuta in possesso - e questa il paradosso kantiano - dell'oggettivita del conoscere. Prima di Kant, l'oggettivita veniva riposta nella coincidenza tra i modi di pen-
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sare e i modi di essere. L'oggetto era dato: il pensiero gli si trovava di fronte con Ia possibilita di adeguarglisi. L'ipotesi e poi Ia ferma tesi di Kant e che al contrario, sia l'oggetto ad adeguarsi al soggetto. Gli elementi del conoscere 'sono, ~a una p~rte, Ia cosa considerata in se stessa, dall'altra, il soggetto in se considerate: II sole - ecco il momenta copernicano di Kant - e da questa parte. 12.7. Estetica trascendentale. Gli oggetti della nostra conoscenza non sono le cose, sono le rappresentazioni che ce ne facciamo nel momenta della sensazione (in greco aisthesis, da cui estetica). Ho dinanzi a me questa libro. La sua rappresentazione immediata mi da colori, durezza, forma, estensione, e cioe spazialita. Pur essendo anch'essa intuitiva, cioe colta immediatamente, la spazialita non e sensibile alia maniera delle altre qualita relative ai miei sensi. Cio che ho dinanzi a me e una semplice addizione di qualita sensibili e di spazialita: e qualcosa che si contrappone a me e a cui attribuisco sia lo spazio che le qualita sensibili. E, insomma, una sostanza. Nella rappresentazione ho dunque tre elementi distinti: le sensazioni, lo spazio, la sostanza. Oltre che distinti, questi elementi sono, in progression.e, l'uno assunto nell'altro, per cui il posteriore comprende l'anteriore: la sostanza comprende lo spazio, lo spazio com~ prende le qualita sensibili. I momenti conoscitivi sono dunque tre: la sensazione, l'intuizione spaziale e la categoria di sostanza. La categoria di sostanza appartiene all'intelletto, e ne diremo tra poco. Se nell'analisi della rappresentazione «libro » prescindo dal suo carattere di so stanza e anche dalle sensazioni relative ai miei organi sensoriali, resta solo la spazialita, la forma pura del fenomeno. Ebbene, questa forma pura non inerisce all'oggetto in se, e un modo della conoscenza, e una «intuizione pura». Lo spazio, cioe, non appartiene aile cose esterne, ne come loro qualita intrinseca ne come realta ad esse anteriore, come Kant aveva dimostrato nella Prolusione del 1770 (12.4): e una funzione del soggetto che modella la realta esterna non appena le viene fornita dalle sensazioni. Non diversamente si procede per isolare, nelle sensazioni interne, l'intuizione pura del tempo: la successione delle sensazioni interne non e data da esse rna e posta dal soggetto. Il tempo e, dunque, Ia intuizione pura del senso interno, che ci fa percepire le modificazioni interiori secondo l'ordine della successione. E siccome non si da intuizione empirica del mondo esterno che non dia luogo a una intuizione interna del suo accadere (io vedo il libro e ho in me Ia percezione che in questa momenta sto vedendo il libro), ne deriva che l'intuizione pura del tempo abbraccia in se, oltre che le sensazioni interne, anche quelle esterne. II tempo e dunque la forma pura coestensiva all'intera attivita sensitiva: essa assume in se anche la forma spazio. Inutile chiedersi che cosa siano le 'cose in se', dato che, non appena varcano Ia soglia della nostra conoscenza, esse diventarro 'case per noi', e cioe fenomeni (nell'etimo greco, fenomeno vuol dire «cio che appare»). Esse sono pensabili, sono noumeni (che nell'etimo greco vuol dire, appunto, «pensabili»), rna non conoscibili. Non appena esse entrano nella nostra soggettivita, diventano altre da quel che sono, diventano spaziali e temporali. Quando dic~amo che lo spazio e il tempo sono infiniti, vogliamo solo dire che tutte le singole grandez-
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ze dello spazio e del tempo non sono che determinazioni dell'unico spazio che tutto circoscrive e dell'unko tempo nel quale ogni possibile successione e contenuta. Ma quella infinita e questa illimitatezza non sono dati esterni, esprimono l'inesauribile potenzialita dell'intuizione nel collocare le sensazioni in rapporto di contiguita (spazio) e di successione (tempo). Lo spazio e il tempo non sono, insomma, gia pronti come contenitori del nostro sentire, sono principi costruttivi dell'intuizione, che, in quanto produce determinazioni concrete spaziali e temporali, si dice intuizione empirica, e in quanto viene considerata in se, a prescindere dai suoi contenuti, si dice intuizione pura. Siamo dunque in grado di spiegare e di giustificare il carattere scientifico della matematica, sia come geometria che come aritmetica: i giudizi geometrici sono sintesi a priori il cui contenuto e l'intuizione pura dello spazio; quelli aritmetici sono sintesi a priori il cui contenuto e l'intuizione pura del tempo. In sintesi: la matematica pura e lo studio dei modi possibili con cui il soggetto costruisce le cose nello spazio e nel tempo. 12.8. Analitica trascendentale. L'oggetto e dato dall'intuizione sensibile, rna e pensato dall'intelletto. Quando Kant dice «oggetto», non allude alia cosa in se, allude alla rappresentazione che della cosa e fornita dall'intuizione. Tra l'intuizione e l'intelletto c'e un nesso inscindibile: La nostra natura porta con se che l'intuizione non puo mai essere che sensibile, cioe contiene soltanto Ia maniera in cui noi possiamo essere impressionati dagli oggetti. Invece l'intelletto e Ia facolta di pensare l'oggetto dell'intuizione sensibile. Nessuna di queste proprieta e da posporre all'altra. Senza sensibilita non ci verrebbe dato nessun oggetto, e senza intelletto nessuno ne verrebbe pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche.
La spontaneita dell'intelletto e dunque relativa, perche esso non produce i suoi oggetti, li attende. Ma, dentro questo limite, l'intelletto, come il demiurgo di Platone, assolve una funzione in qualche modo creativa, perche unifica il molteplice sensibile e lo coordina mediante giudizi universali e necessari. Ecco perche questa parte della Critica (che e poi una ripartizione della Logica) viene detta da Kant Analitica, alia stregua degli Analitici di Aristotele, che esaminano le specie fondamentali dei ragionamenti. Kant esamina nella sua AnaUtica la facolta intellettiva per individuarvi i concetti puri o forme a priori del conoscere e le regole del !oro uso. Per designare le forme a priori assume da Aristotele anche il termine categorie. Ma, mentre per Aristotele le categorie erano modi di essere e solo di conseguenza, in seguito al processo astrattivo, anche modi di pensare (1.5.3), per Kant esse sono modi di pensare e solo di conseguenza anche mod1 di essere. Pensare, per Kant, non e astrarre, e giudicare, e non rispecchiando la realta in se, rna elevando il contenuto sensibile a una sintesi col predicate universale, la categoria. Pensare e dunque costruire il mondo. Per stabilire il numero e la diversita specifica delle;:: categorie, Kant si e servito del materiale fornito dalla logica tradizionale, e precisamente dalla classi-
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ficazione delle forme di giudizio di cui essa faceva uso e che egli ha determinato in dodici (v. tav. 4), distribuendole in quattro divisioni fondamentali: quantita, qualita, relazione, modalita. E la parte pili discutibile (e di fatto pili discussa) della costruzione kantiana, perche risulta dalla combinazione, non sorretta da nessuna intima necessita, tra la classificazione descrittiva della vecchia logica (proprio di quella logica a cui Kant rimprovera di voler far passare la descrizione per spiegazione) e il carattere trascendentale, come dire produttivo, del giudizio. Ma la difficolta maggiore con cui Kant dovette misurarsi (forse proprio quella che lo costrinse a dilazionare a lungo la pubblicazione della Critica) riguarda la giustificazione della pretesa delle categorie di fondare l'oggettivita della conoscenza. Com'e possibile che il fondamento dell'oggettivita del conoscere risieda nella soggettivita? Se e vera, come Kant afferma nella lntroduzione alia seconda edizione della Critica, che «noi conosciamo delle case soltanto l'apriori che noi stessi vi poniamo>>, quali sono le regale non arbitrarie secondo le quali va compiuta questa trasposizione dal soggetto all'oggetto? Com'e facile capire, e in gioco, a questa punta, la fondatezza della «rivoluzione copernicana>> di cui Kant si sente l'artefice. Mutuando il termine dal linguaggio giuridico (in cui significa <>), Kant chiama deduzione l'insieme degli argomenti con cui e possibile fondare la legittimita della pretesa dei giudizi intellettivi di costruire l'oggettivita della scienza e cioe- le due case si equivalgono- l'ordine dell'universo. 12.9. La deduzione trascendentale. Nella metafisica classica, caratterizzata dal realismo ingenuo, i rapporti che danno carattere di necessita aile nostre conoscenze scientifiche hanna il lora fondamento nelle case a cui quelle conoscenze si riferiscono. Se a una data temperatura l'acqua bolle, e perche un fenomeno (la temperatura) ne produce un altro (l'ebollizione). La necessita del giudizio ha fondamento, dunque, secondo quella tradizione, nel rapporto fra le case in se considerate. Al contrario, nella tradizione empirica, almena nelle versioni piu recenti di Berkeley e di Hume (8.8), il giudizio scientifico non ha nessun carattere di necessita. Esso traduce la nostra attesa (generata, secondo Hume, dall'abitudine) che al fenomeno da noi osservato succeda l'altro fenomeno che per solito gli fa seguito: la legge, dunque, e solo una <<Speranza statistica>>. Per Kant, la connessione tra i due fenomeni e pasta dall'intelletto in modo necessaria, nell'atto stesso di pensarli. L'intuizione empirica ci da, ad esempio, la successione tra una determinata temperatura e l'ebollizione: l'intelletto trasforma la successione in necessita: a quell a temperatura, 1'acqua non puo non bollire. I fenomeni che, nel lora insieme, costituiscono la natura sono reali; hanna cioe un fondamento extrasoggettivo, perche traggono origine da una modificazione prodotta nel soggetto dall'esterno, mentre il sistema dei rapporti che li legano gli uni agli altri vierie posto dal soggetto nella sua attivita di giudizio. Vista dal lata delle 'case in se' (materialiter), la natura e, si, pensabile come esistente, rna non conoscibile, perche sta oltre la linea spaziotempo; vista come sistema di leggi che le danno intelligibilita e regolarita (formaliter), essa e prodotta dalla ragione mediante l'attivita delle categorie.
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Sorge a questo punto un problema, che ci conduce a una delle articolazioni portanti del sistema kantiano. Dire natura e dire ordine, e porre un orizzonte unitario di fenomeni, ciascuno dei quali ha senso in una totalita che, come tale, non puo essere oggetto di nessuna delle categorie. Ecco perche la coscienza individuale e portata a ritenere gli oggetti che costituiscono la natura come gia dati: che essi siano un prodotto delle categorie e un fatto che le sfugge. Ma la coscienza individuale, osserva Kant, non e la coscienza trascendentale; l'io empirico in cui l'individuo si identifica non e l'io trascendentale, che e il punto di riferimento unificante dell'attivita conoscitiva della ragione. A rigore, l'analisi dell'attivita delle categorie condotta finora ci permette di considerare il mondo come un insieme disorganico e molteplice, che ha i suoi confini, da un lato, nella linea delle intuizioni empiriche spaziali e temporali, dall'altro nel molteplice delle categorie. Dove trovare allora il fondamento dell'unita della natura? Nella sua analisi, Kant riconnette le forme pure dell 'intelletto a una forma generalissima, quasi categoria delle categorie, che e l"Io penso', e cioe una appercezione trascendentale che accompagna ogni giudizio particolare. Il giudizio «il sole scalda la pietra>> sottintende l'appercezione con cui il soggetto l'accompagna. Per esporre in esteso il giudizio, dovremmo dire: «lo penso che il sole scalda la pietra>>. Non si tratta dell'io inteso, come lo intendeva Cartesio, quale sostanza spirituale, come un io stabile e permanente che soggiaccia all'attivita conoscitiva, dato che la categoria di sostanza e una forma pura dell'intelletto che entra in sintesi con i contenuti empirici e non puo certo essere pensata come realta esistente indipendentemente da questa sintesi. E non e nemmeno l'insieme delle impressioni sensibili che fluiscono nel soggetto e che non hanno altra consistenza che quella psicologica: e proprio in questa stoffa fenomenica che l'individuo ritaglia Ia sua identita mutevole e provvisoria, prodotto, anche lui, della sintesi a priori e non suo artefice. L'Io penso non puo essere oggetto di percezione, perche assolutamente trascendentale, principio che sintetizza in se tutte le sintesi particolari operate dalle categorie e produce in tal modo l'unita della natura, non solo in quanto conosciuta rna anche in quanto conoscibile, e cioe in quanto orizzonte di tutte le possibili esperienze. Si tratta comunque, e bene ricordarlo, di una centralita meramente funzionale, che non comporta la dissoluzione del mondo esterno come dato indipendente. Quello di Kant, infatti, e un idealismo trascendentale, nel senso che ripone la legalita dell'universo (e cioe la sua conformita alle leggi) nelle forme a priori del soggetto e, in ultima istanza, nell'autocoscienza pura che e l"Io penso', rna non il vero e proprio idealismo che Fichte (III.l.S) credera di poter trarre dalla dottrina del maestro. Nella seconda edizione della Critica, Kant, a scanso di equivoci, aggiungera una <
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gno, come il nostro, di una intuizione su cui applicare le sue forme pure, per poi sintetizzarle in se stesso. Come intelletto creativo, esso e totalmente intuitivo, nel senso che produce da se stesso l'oggetto che conosce, e pertanto non ha bisogno dell'unita sintetica dell'autocoscienza. 12.10. Lo schematismo trascendentale. Una volta dimostrati, con la dottrina dell'Io trascendentale, la possibilita e il fondamento dell'attivita trascendentale, resta un altro problema: come possiamo garantire la corrispondenza tra le categorie e i fenomeni naturali? Difatti e sempre possibile che le categorie vengano applicate ad arbitrio, come accade nel sogno o nei giochi della fantasia. Per risolvere il problema, Kant introduce la nozione di schema. Lo schema e una rappresentazione sui generis, che da una parte e apparentata alla· sensibilita, perche e prodotta dall'immaginazione, e, dall'altra, e omogenea ai modi di comportarsi dell'intelletto. Proprio per questa ambivalenza lo schema e in grado di fungere da mediatore tra categoria e intuizione sensibile. Esso e trascendentale, perche sgombro di ogni contenuto empirico, e tuttavia e di natura immaginativa, perche prefigura tutte le possibilita dell'immagine. Come in geometria nessuna figura geometrica coincide con le forme spaziali di un oggetto concreto, rna nessun oggetto concreto puo essere immaginato senza forma geometrica, cosi nessuna particolare immagine schematica esaurisce la possibilita di contenuti sensibili diversi. Kant determina gli schemi in rapporto aile categorie (v. tav. 4). Lo schema della quantita e il numero; quello della qualita e la cosa; quelli della relazione sono la permanenza, la successione e la simultaneita; quello della modalita e l'esistenza nel tempo, che a sua volta puo essere esistenza in un tempo qualsiasi (possibilita), in un tempo determinato (realta), in ogni tempo (necessita). 11 compito dello schema e di preparare il materiale sensibile in modo che l'intelletto non abbia che da ratificare o confermare i rapporti gia preesistenti, sebbene in altro grado, nello stesso materiale sensibile. Questa applicazione (dalla quale dipendono la validita e ·1o sviluppo della scienza) avviene secondo regole che Kant chiama principi dell'intelletto puro (v. tav. 4), corrispondenti anch'essi alla tavola delle categorie. 1. alle categorie della quantita corrispondono i principi in virtu dei quali il fatto soggettivo che noi percepiamo la quantita spaziale e temporale solo percependone successivamente le parti si trasforma nel fatto oggettivo che ogni quantita e composta di parti; 2. oltre alla quantita estensiva c'e anche una quantita del grado, che corrisponde aile categorie della qualita. Infatti, la percezione della qualita intensiva (che non si compone di singole parti, l'una fuori dell'altra, rna puo essere tutta in un punto) si tramuta in percezione della qualita oggettiva e delle sue mutazioni possibili nel passaggio da un punto a un altro della durata; 3. alla categoria della relazione corrispondono le analogie dell 'esperienza, che ci permettono di riconoscere, sotto il mutare delle percezioni, un substrata permanente, cioe la sostanza; non solo, rna sostituiscono alla semplice successione dei fenomeni il nesso necessaria della causalita e finalmente, mediante il rapporto di azione reciproca, giustifi<::ano la simultaneita dei fenomeni.
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che non ci puo essere data dalle percezioni in quanta esse sono necessariamente successive; 4. aile categorie della modalita corrispondono i postulati del pensiero empirico in base ai quali e possibile stabilire: a. che cia che si accorda con le condizioni formali dell'esperienza, e cioe con le forme dell'intuizione e dell'intelletto, e possibile; b. che cia che si accorda con le condizioni materiali dell'esperienza, e cioe con Ia sensazione, e reale; c. che cia il cui accordo col reale e determinato dalle condizioni universali dell' esperienza e necessaria (le leggi fisiche, ad esempio, sono necessarie ). Sono questi i principi che g:arantiscono l'og:g:ettivita della conoscenza e fondano, pertanto, la possibilita della scienza. Essi tracciano, come si e detto, la linea di demarcazione tra l'esperienza vera e il puro gioco dell'immaginazione. Dalla nostra esposizione sommaria, anche per questa inevitabilmente oscura, e facile rendersi canto di quanta arduo e inquieto sia stato l'impegno speculativo di Kant, che proprio su questa parte della sua Critica continuo a riflettere, buttando giu appunti sempre piu informi, fin nell'ultima eta senile. Nel tessere le complicate maglie della schematismo trascendentale, Kant non obbediva all'intento di ridurre tutta la realta al fenomeno misurato dalla matematica e dalla scienza sperimentale. La complicazione non e, nel suo caso, sintomo di debolezza del pensiero, e il riflesso del suo coraggioso impegno nel tracciare un confine fra cia che e conoscibile e cia che conoscibile non e, pur essendo pensabile. Kant non e l'illuminista che si affida alia scienza, e del resto non si cura. Mentre delimita in modo rigoroso i confini del conoscibile, Kant ha la piena e dichiarata consapevolezza che quei confini sono ristretti. «Non basta lasciarsi dire cio che e vero, rna ci si deve anche dire cia che si desidera sapere».. Il territorio misurato dalla matematica e dalla scienza segna non i limiti di cia che si desidera sapere, rna i limiti di cia che si puo sapere: Questa territorio e un'isola che la natura stessa ha chiuso in confini immutabili. E il territorio della verita, circondato da un ampio e tempestoso oceano, la sede propria della parvenza, dove vari banchi di nebbia e masse di ghiaccio che tosto si fonde simulano Ia presenza di nuove terre, ingannando con vuote speranze il navigante che gira intorno per fare nuove scoperte e ingolfandolo in avventure da cui non potra mai liberarsi e che non potra mai portare al !oro compimento.
12.11. Dialettica trascendentale. Fuori dell'isola del conoscibile, dentro la quale la ragione si muove non condizionata che dalle proprie strutture formali, si estende l'infinito mare del nuomeno. Ed e in questa mare che finalmente Kant si avventura, obbedendo alle sue due esigenze fondamentali: l'esigenza insopprimibile della ricerca metafisica e l'esigenza della verifica critica delle possibilita della ragione di condurre a termine questa ricerca. Una corretta lettura del suo pensiero chiede che si rispetti questa sua struttura antinomica, in cui risiede, in modo eminente, il sensa, in positivo e in negativo, del suo poderoso impegno critico. Se Kant conclude e supera l'eta illuministica, di cui pure e figlio, e soprattutto perche l'orizzonte della ragione non si chiude, per
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lui (come anche per Rousseau), la dove si chiude la competenza della scienza. La ragione e, per Kant, non solamente la facolta che, mediante l'intelletto con le sue forme a priori, costruisce come suo mondo Ia natura, e anche la facolta che tende a superare i confini dell'esperienza intellettuale per raggiungere l'incondizionato, e cioe il sovrasensibile. In quanto soggetto conoscente, l'uomo e sensibilita, intelletto e ragione: la sensibilita e a contatto con la cosa in se; l'intelletto e in contatto con la sensibilita nelle sue intuizioni empiriche; la ragione e bifronte: per un verso, si rapporta all'intelletto, determinando il mondo fenomenico, per l'altro, si apre al sovrasensibile senza piu nessun ausilio che quello delle sue forme pure, che Kant chia~a. con un termine che in lui ritrova un significato platunicu, le idee. Ma siccome la conuscenza universale e necessaria si da soltanto quando la ragione ha dinanzi a se l'oggetto nelle forme spaziali e temporali, ne deriva che sui versante del sovrasensibile, dove per definizione non si dane spazio ne tempo, la conoscenza vera e propria e impossibile. Quando si presume di averla, si cade in preda alle illusioni. La dialettica e appunto, Secondo l'uso che i sofisti facevano del termine, I'arte di dare forma logica aile apparenze, imitando illegittimamente le regole che la logica vera e propria segue legittimamente nell'ambito che e il suo. La dialettica e, dunque, la logica dell'illusione. Questo smarrimento non avviene a caso, per puro arbitrio. Mentre i 'lumi' si limitavano a denunciare l'arbitrarieta mistificante implicita nelle nozioni di sistema e di metafisica, proprie di un passato ormai inesistente, Kant vuol comprenderne la genesi. Alle radici dello smarrimento dialettico c'e un bisogno, che potremmo chiamare, appunto, il bisogno metafisico: mentre nell'area intellettiva la ragione spiega i fenomeni mostrando come le loro condizioni dipendano da altre condizioni (e tutto, nell'area intellettiva, e condizionato), fuori dei confini dell'intelletto, essa tende all'incondizionato come a sintesi e spiegazione di tutte le condizioni, insomma come «totaliU.t». E questa operazione essa la conduce in virtu delle idee, che sono a priori in quanto appartengono anch'esse alla naturae all'organizzazione della facolta conoscitiva propria della specie umana. Ma, in se considerate, esse sono niente piu che la rappresentazione ideale di un compito della conoscenza, quello di raggiungere !'ultimo anello della catena del condizionato. Solo che Ia rappresentazione ideale non e Ia stessa cosa che la rappresentazione di un oggetto. L'errore nasce, appunto, dalla trasformazione dell'ideale in oggetto rappresentatu . .; Nel sistema kantiano, queste idee sono tre (v. tav. 4): la rappresentazione di un substrata incondizionato di tutti i fenomeni del senso interno .e l'idea dell'anima: l'idea psicologica; la rappresentazione di un nesso incondizionato di tutti i fenomeni esterni e l'idea del mondo: l'idea cosmologica; la rappresentazione dell'essenza incondizionata che unifica in se tutti i fenomeni, sia interni che esterni, e l'idea di Dio: l'idea teologica. A queste tre idee corrispondono le tre ripartizi-oni della metafisica. secondo Ia sistemazione che ne aveva dato Wolff (8.7)in coerenza con la tradizione scolastica. E. proprio a causa del carattere naturale delle idee in quanto esigenze metafisiche che l'illusione della ragione, come la storia dimostra, di continuo confutata, di continuo risorge. II compito che Kant si propane e di mostrare, una volta per sempre, il meccanismo segreto di questa illusione.
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1. Alla base della psicotogia razionale sta un sillogismo sbagliato, che Kant chiama paralogismo. La falsita del paralogismo sta nel fatto che un suo termine e preso, nelle tre proposizioni di cui il sillogismo e composto, con significati diversi. Ad esempio, nel sillogismo: l'io puro e sostanza; io come soggetto sono un io puro, dunque sono una sostanza, la parola sostanza e presa in due sensi. Nella maggiore, e presa come categoria pura, come principia formale di ogni sostanzialita; nella conclusione, e presa nel senso di sostanza determinata, di oggetto fra gli oggetti. In realta, i termini, contro ogni regola del sillogismo, non sono tre, sono quattro. In un errore del genere cadde, ad esempio, Cartesio, che uso in modo univoco i concetti di <do penso» e di sostanza spirituale. L'illusione della psicologia razionale consiste, dunque, nell'uso indebito della categoria di sostanza, 'che puo applicarsi solo, come ogni altra categoria, al fenomeno sensibile. L'anima come cosa in se non e dunque dimostrabile. Ma nemmeno e confutabile. La confutazione kantiana colpisce, sl, lo spiritualismo, rna anche il materialismo, che senza adeguati argomenti nega l'esistenza dell'anima. Non solo. rna essa colpisce anche il dualismo tra anima e corpo, che, in conformita aile regale dell'analitica trascendentale, e una indebita estensione sostanziale della differenza meramente psicologica tra sen so interno e sen so esterno, che si unificano nel pr~ncipio trascendentale della coscienza. 2. La cosmologia razionale si fonda sulla stessa falsa premessa che il mando, e cioe Ia totalita coordinata dei fenomeni, sia un possibile oggetto di conoscenza. E. da questa falsa premessa che nascono le antinomie della ragion pura. Ricordiamo che fu proprio mentre era impegnato nel riflettere sulle antinomie che, nel 1769, Kant ebbe la <
il predicato esistenza non può essere tratto analiticamente dal concetto di essere perfettissimo, perché l'esistenza è una categoria dell'intelletto, che, alla pari delle altre categorie, non può essere applicabile al di fuori dello spazio e del tempo e che in ogni caso nulla aggiunge e nulla toglie alle qualità di un'essenza
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anche in questo caso si usa una categoria, quella di causa, con riferimento a ciò che sta fuori del tempo e dello spazio.
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anch'essa sia infondata appare chiaro dalla inconcludenza delle dimostrazioni dell'esistenza di Dio trasmesse dalla tradizione metafisica e fatte proprie dal deismo settecentesco (9.1). II nucleo essenziale, in questa tradizione, e la prova ontologica, di cui Kant si era gHt occupato nella fase precritica (12.3). Kant contesta a quella prova l'uso indebito della categoria dell'esistenza. E nota la sua battuta <
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mo giudizio che egli esprime a questo riguardo, eccolo gia nell'ambito della· metafisica. Vuole egli forse affidarsi qui, senza guida alcuna, aile sole suggestioni che gli possono nascere dentro, pur non avendo nessuna carta del campo che in ten de percorrere? In questa buio Ia critic a della ragion pura rnette Ia fiaccola, non per illurninare le regioni a noi sconosciute al di Ia del rnondo sensibile, rna lo spazio buio del nostro proprio intelletto.
Vedremo, nelle prossime pagine, quali altre vie, alternative a quelle teoretiche, Kant ritiene di pater tracciare per penetrare nel mondo al di la del sensibile. Ma anche in rapporto agli <<Spazi bui>> dell'intelletto, le idee metafisiche, se rettamente intese, hanna una funzione illuminante. II loro valore non e costitutivo, nel sensa che esse non danno conoscenza di nuovi oggetti, rna e regolativo ed euristico, nel sensa che incitano l'intelletto a rapportare le sue conoscenze ai principi di unita sistematica che esse rappresentano. L'idea psicologica spinge a ricercare una sempre maggiore unita nei fenomeni interiori, come se davvero essi fossero Ia manifestazione di una sostanza semplice; analogamente, )'idea cosmologica spinge a raccordare fra !oro i fenomeni naturali, come se nel loro insieme essi costituissero un mondo unico; l'idea teologica, infine, sospingera l'intera esperienza umana verso una sempre piu perfetta organizzazione sistematica, come se davvero tutto dipendesse da un unico creatore e tutto volgesse a un medesimo fine. Ma il valore positivo delle idee, una volta liberate dalla loro degenerazione dogmatica, e soprattutto un altro: esse delimitano la sfera del fenomeno come inadeguata a esaurire la totalita delle esigenze dell'uomo in quanta natura razionale, e in tal modo rimandano, al di la del conoscere, all'attivita pratica della ragione, e cioe rimandano dalla sfera della necessita di natura, dominio della scienza, alla sfera della liberta, dominio della morale. E. quanta Kant dimostra ampiamente nella seconda parte della sua Critica. Se cornpreso nel suo significato soggettivo, dice Kant, ogni interesse della rnia ragione (sia lo speculativo che il pratico) si unifica nelle tre dornande: <
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La Critica delle ragion pura ha risposto solo alla prima domanda. Le altre due richiedono la scoperta di un mondo diverso da quello fenomenico, di un mondo la cui Iegge sia: <
Kant: Ia ragion pratica 12.12. L'a priori morale. Esclusa dall'ambito della scienza, la metafisica ha il suo incrollabile fondamento in quello dell'esperienza morale, che e anch'esso un ambito della ragione: e quanta Kant si propose di dimostrare con la Critica della ragion pratica, pubblicata nel 1788. Se la prima Critica porta tutti i segni, anche linguistici, della creazione fati-
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cosa, la seconda appare quasi sempre animata da una felicita espressiva che gia di per se e un segno della sua perfetta rispondenza alla qualita piu intima del suo autore. Certo e che Kant non si accinse a questa sua seconda grande opera per colmare il vuoto aperto dall'impegno distruttivo della prima: le due Critiche furono pensate contestualmente, come due momenti di un medesimo progetto architettonico. Del resto, l'attenzione di Kant agli aspetti 'pratici' dell'esistenza, anche di quelli che oggi diremmo di antropologia culturale, era stata viva - come dimostra il solo elenco delle sue opere - anche nella sua fase precritica. E dopo che, nel 1770, ebbe imboccato la via del criticismo, egli dedico ai temi piu o meno attinenti alla vita pratica numerosi scritti, di diverso impegno e di diversa mole. E siccome essi illustrano o completano la dottrina della seconda Critica, e proprio per questo dovremo a piu riprese e promiscuamente tenerne conto, e utile averne subito sotto gli occhi un elenco selezionato. 1784 Idee di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico 1784 Risposte alla domanda: Che cos'e l'Illuminismo? 1785 Fondazione della metafi&ica dei costumi 1788 Critica .della Ragion pratica 1793 La religione nei limiti della semplice ragione 1794 La fine di tutte le cose 1795 Per la pace perpetua 1797 La metafisica dei costumi 1798 Antropologia prammatica. Nel loro insieme, queste opere ci danno dell'uomo morale una rappresentazione articolata, che abbraccia, da un lato, gli aspetti empirici della sua condizione storica, come la geografia o la razza, e dall'altro le strutture formali che lo sollevano, al di sopra dello spazio e del tempo, nella sfera pura dei principi universali dell'azione morale. A questa sfera trascendentale Kant arriva con un metodo analogo a quello seguito nella prima Critica, che gli consente di mettere in luce gli elementi dell'agire: da una parte la forma pura, dall'altra i suoi contenuti empirici. 11 punto di partenza per la determinazione dei due elementi e il vaglio critico dei giudizi morali cosi come ricorrono nell'uso comune. Tali giudizi, che qualificano come 'buoni' o come 'cattivi' gli atti, sono di tipo empirico, perche stabiliscono il predicato in base al rapporto che quegli atti hanno con i bisogni dell'individuo, sensibili o spirituali. In analogia con i giudizi dell'intelletto, essi possono esser detti sintetici a posteriori, perche basano la loro valutazione su qualcosa che e fuori della coscienza. Eppure essi presumono di essere validi per tutti e per sempre. Ma noi sappiamo gia che i caratteri della universalita e della necessita possono fondarsi solo su di una determinazione formale, e cioe su di un principia a priori . .Ebbene, questa principia formale si da: e la volonta pura, cioe da niente altro determinata che dalla ragione. Solo della volonta, considerata al di fuori di ogni condizionamento esterno a se, si puo dire che e assolutamente e in ogni caso buona. E buone possono dirsi anche le azioni da essa prodotte in obbedienza al suo dettame interno, che e un dettame della ragione. Proprio perche il predicato del
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giudizio pratico non e dato dall'esperienza rna e posto dalla volonta pura, possiamo dire che quel giudizio e sintetico a priori e, in quanta tale, universale e necessaria. L'incondizionatezza della volonta implica, da una parte, che essa non puo essere dimostrata rna semplicemente constatata come un «fatto della ragione», e, dall'altra, che essa resta buona in ogni caso, anche se fosse impedita di porre un'azione a se corrispondente, o da un impedimenta esterno, come la coercizione. o da un impedimenta interno, come un impulso sensibile irrefrenabile. La volonta e dunque, nella stesso tempo, suddita e sovrana di se stessa: suddita, perche «sceglie soltanto cio che la ragione, indipendentemente dall'inclinazione, riconosce come praticamente necessaria, cioe buono>>; sovrana, perche esclude ogni determinazione estranea alla propria Iegge, fosse pure la volonta di Dio. Se un'azione di per se conforme alla Iegge fosse determinata, supponiamo, da una inclinazione istintiva, essa non potrebbe certo dirsi cattiva, rna nemmeno buona, appunto perche non determinata dalla volonta pura. Se, ad esempio, io restituisco un prestito solo per salvare la mia reputazione, la mia azione e, sl, conforme alla legge, rna non e pasta per il solo motivo della legge: essa e legale, non morale. La legalita e per Kant la qualita di un'azione conforme alia Iegge, rna compiuta per un motivo esterno alla Iegge; la moralita e la conformita alla Iegge in nome della Iegge e di niente altro. La Iegge. di cui qui si parla. e naturalmente Ia determinazione pratica della ragione, e il dovere. Come si vede, decisivo, per Ia moralita di un'azione, none il suo contenuto empirico, e il suo movente, la sua massima (cos1 Kant chiama il principia su cui si basa la scelta), che, quando l'azione e autenticamente buona, si identifica con la forma pura della volonta. Per questa la morale kantiana viene detta anche formale, mentre viene detta materiale la morale determinata dai suoi contenuti. Nel formalismo di Kant trovano attuazione e semplificazione razionale influssi di varia provenienza. Innanzi tutto, la tesi luterana (mediata dal soggettivismo pietista) che e sufficiente la sola fede per la giustificazione. In Secondo luogo, la dottrina di Rousseau, che ripone la bonta morale nel sentimento e non nel sapere, che invece e quasi sempre tramite di corruzione (9.13 e 11.6). lo sono uno studioso, cosi scrisse di se Kant, e sento tutta la sete di conoscere che puo sentire un uomo. Vi fu un tempo nel quale io credetti che questo costituisse tutto il valore dell'umanita: allora io sprezzavo il popolo che e ignorante. E Rousseau che mi ha disingannato. Quella superiorita illusoria e svanita; ho imparato che la scienza per se e inutile se non serve a mettere in valore l'umanita.
In terzo luogo, Kant da forma a un'esigenza mutuata dall'illuminismo, che e il ripudio dell'arroganza dell'uomo che osa sorpassare, con la metafisica, i limiti del conoscere umano e, col fanatismo morale, i limiti dell'umana condotta. 12.13. L'imperativo categorico. Abbiamo appena accennato alla differenza trail dovere e l'inclinazione. E proprio in questa differenza che prende luce la natura 'metafisica' della morale kantiana. Confrontando tra loro il dovere e
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l'inclinazione (l'impulso sensibile provocato da uno stimolo ad esso corrispondente), siamo condotti a constatare che nell'uomo ci sono due ordini di causalita. La causalita del dovere non trova limiti nella realta fenomenica, in quanto essa si esplica nel non-reale, addirittura nell'impossibile, se si desse retta al punto di vista empirico. La causalita degli impulsi appartiene, invece, all'ordine dei fenomeni. Anche dei fenomeni si dice che devono accadere, in quanto si raccordano tra loro secondo un rigido determinismo causale. Date certe circostanze (supponiamo, un fuoco acceso accanto alia cera), qualcosa deve accadere (la liquefazione della cera) e immancabilmente accade. A sua volta, il dovere si esprime in una norma secondo la quale, in ogni circostanza, qualcosa deve accadere (supponiamo la restituzione di un prestito) che non sempre, ed ecco la differenza, realmente accade. La legge di natura determina con necessita; la Iegge morale comanda con necessita, anche se non produce cio che comanda. Questa distinzione ci permette di comprendere la particolare natura degli imperativi della ragion pratica. In quanto e natura, I 'uomo rientra nella concatenazione delle cause e degli effetti. che e una concatenazione meccanica, non finalistica (tra le categorie non si da quella di 'fine'). E tuttavia, il meccanismo naturale delle inclinazioni istintive e attraversato dall'aspirazione alla felicita, che possiamo considerare come il fine supremo dell'attivita pratica dell'uomo. In concreto, i fini per cui l'uomo agisce sono molti, rna tutti hanno valore di mezzo in rapporto a que! fine supremo. Io posso impegnarmi allo studio in vista della promozione. E posso propormi Ia promozione come mezzo per una brillante carriera. E cosi, di fine in fine, le mie scelte mirano al fine di tutti i fini, che e appunto, la felicita. Ma l'aspirazione alia felicita, in quanto Iegge di natura, non puo far da fondamento alla legge morale. Se cosi fosse, la legge morale non sarebbe assoluta, rna condizionata dal raggiungimento di un fine, e dunque sarebbe ipotetica: «se vuoi esser promosso, devi studiare; se vuoi assicurarti la carriera, devi essere promosso», e cosi via. Cadendo l'ipotesi, cadrebbe il dovere. L'imperativo ipotetico non ha carattere di necessita: i fini sono tanti quanti sono gli individui. L'imperativo ipotetico e l'imperativo dell'abilita e della prudenza. La sua e la morale dei mezzi in rapporto a un fine, il suo orizzonte e, insomma, quello della natura, dove non c'e spazio per la liberta. Ma l'uomo non e solo natura, come si e detto. In quanto causalita non causata, egli appartiene al mondo sovrasensibile, noumenico, non soggetto alle determinazioni delle categorie dell 'intelletto, Ia cui stoffa e quell a dello spaziotempo. La 'ragion pura pratica' ha dinanzi a se solo se stessa ed ha in se Ia forma pura delle proprie determinazioni. Questa forma pura, e cioe questa categoria sgombra di ogni contenuto empirico, e l'imperativo del dovere, che appunto per questo si chiama categorico. Esso si potrebbe definire come «la Iegge della conformita alia Iegge». La Iegge e quella del «tu devi». La ragione del dovere. e il dovere stesso. Esso e, pertanto, una sintesi a priori pratica: a priori, perche non deriva da nessuna esperienza; sintetica, perche vincola direttamente la volonta alla Iegge della ragione. Dell'imperativo categorico Kant ha dato, a piu riprese, alcune formulazioni, che potremmo cosi disporre, in successione logica: ·
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1) «Agisci unicamente secondo quella massima in forza della quale tu puoi volere nello stesso tempo che essa divenga una Iegge universale>>. Da questa formula moho generale ne derivano altre tre, che ne mostrano in modo piu determinato Ia praticabilita. 2) «Agisci come se la massima della tua azione dovesse div~ntare per tua volonta una Iegge universale della natura»; l'imperativo categorico appare in questa formula nel suo rapporto diretto con la natura regolata da leggi. Violare I 'imperativo equivale a volere che sia distrutta Ia natura stessa in quanta regolata da leggi. Chi si toglie la vita, ad esempio, compie un gesto il cui significato e l'annullamento stesso dell'ordine della natura. 3) <, sempre nello stesso tempo come un fine e mai unicamente come un mezzo». La volonta non puo determinarsi che per un fine, rna il fine, in un essere razionale, non puo che essere la ragione assunta nella sua purezza. In quanta dotata di ragione, la persona puo anche essere uno strumento, rna mai semplicemente uno strumento. Per questa e nell'ordine dei fini, non delle cose. 4) «Agisci in modo che la volonta, con la sua massima, possa considerarsi come principia di una legislazione universale». La quarta formula assomiglia alla prima, rna mentre questa metteva in rilievo la legge, la nuova formula mette l'accento sui fatto che e Ia volonta come tale a porre Ia Iegge a se stessa. II senso comune alle quattro formule e che, con la sua attivita morale, l'uomo realizza un mondo che non e quello della natura empirica, dato che a costituirlo e niente altro che Ia volonta pura. Esso e un mondo oggettivo, nel senso che il termine ha in Kant: e dotato, cioe, di necessita e di universalita, proprio in quanta e a priori. Ogni altra dottrina morale non e in grado, per una ragione o per l'altra, di fondare l'obbligazione assoluta dell'imperativo morale. E il caso, ad esempio, dell'eudemonismo, da quello aristotelico a quello recente degli empiristi (11.1-5). L'errore dell'eudemonismo, quale che sia il suo concetto di felicita, e nel subordinare I 'azione morale a un fine ad essa estraneo e proprio per questa incapace di garantire I 'universalita all a Iegge della coscienza. II suo principia e, infatti, nettamente smentito dall'esperienza, che ci dimostra ad abbondanza come la fedelta alla Iegge morale, lungi dall'assicurarci la felicita, l(:l compromette. Se Ia natura ci avesse destinati alia felicita, non avrebbe posto in noi l'insaziabile contrasto tra gli impulsi istintivi e la coscienza morale. Sembrerebbe siuggire ai limiti dell'eudemonismo la morale teologica, che deduce l'imperativa morale dalla legge divina, subordinando cosi la volonta umana a un'altra volonta. Questa subordinazione puo essere motivata o con ragioni psicologiche o con ragioni propriamente teologiche. Nel primo caso, I 'obbedienza all a Iegge divina viene basata sull 'aspirazione alia felicita eterna e sui timore dell'eterno castigo: si ricade, cosi, nei limiti dell'eudemonismo. Nel secondo caso, e cioe nel caso che si riponga la moralita nell'obbedienza alia volonta divina perche santa, si cade in un circolo vizioso; altro modo non c'e di verificare Ia santita della volonta divina se non di metterla in confronto con la Iegge morale interna a noi.
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12.14 II regno dei fini. La volonta legislatrice di se stessa e, dunque, altra cosa dalla volonta empirica, che invece e determinata solo e sempre dall'inclinazione naturale, comunque poi essa si camuffi con speciose ragioni eudemonistiche e teologiche. L'analisi dell'imperativo categorico ci ha permesso di comprendere il carattere fondamentale della moralita, l'autonomia, da intendere, secondo l'etimo, come capacita della volonta di dare a se stessa le proprie leggi. Al contrario, la morale che si basa su fini esterni alla volonta stessa - che e quanto dire su fini determinati dall'inclinazione naturale - va detta eteronoma, nel senso che e determinata da altro che da se stessa. Come tale, essa non ci consente di sollevarci al di sopra del mondo dei fenomeni, dove ogni cosa e un mezzo per un'altra cosa. Come si vede, nel procedere dalla morale comune alia «metafisica dei costumi», Kant procede con metodo parallelo a quello seguito nella prima Critica e raggiunge conclusioni analoghe. Il metodo e quello dell'analisi regressiva, che parte dai dati comuni dell'esperienza per risalire all'a priori; la conclusione e, nella prima Critica, la determinazione delle categorie e, al di Ia di esse, dell"Io puro' come forma trascendentale del conoscere; nella seconda Critica, la determinazione della ragion pura pratica intesa come volonta legislatrice di se stessa, e cioe autonoma. In quanto autonoma, la volonta non rientra nella catena della serie causale, e anzi essa stessa principio originario di una diversa serie causale. E. gia detto, con questo, perche la liberta - libera si dice l'azione che ha in se la propria causa- non rientri nell'orizzonte delle compe· tenze conoscitive dell'intelletto. Inutile dunque chiedere alia ragione teoretica Ia giustificazione dell'a priori· morale. E tuttavia e bene ricordare, a questo punto, le due ipotesi, per cosl. dire, extraterritoriali emerse nello svolgimento della Critica della ragion pura: quella di un «intelletto archetipo» (12.9), capace di intuire direttamente la cosa in se, senza Ia mediazione dello spazio e del tempo, e quella, interna alia terza antinomia (12.11 ), di una causalita Iibera, in antitesi alla causalita meccanica. La prima ipotesi era stata sollevata da Kant per esser subito negata e comunque dichiarata senza rapporto con le possibilita umane. La seconda, invece, naturalmente come ipotesi, l'aveva ritenuta ammissibile. E. vero, la liberta ipotizzata nell'antinomia e di tipo cosmologico, mentre la liberta affermata nell'ambito della ragion pratica e di tipo etico. Comunque, ad accomunare i due concetti e l'idea del carattere sovrasensibile della persona, un'idea ritenuta appena possibile nel quadro dell'analisi conoscitiva e affermata come neces· saria nel quadro della ragion pratica. Il che comporta, quanto meno, che da parte della ragione teoretica non possa essere avanzato nessun argomento che contesti Ia realta di quell a Iibert a che l'analisi dell 'attivita pratica ha dedotto come condizione prima dell 'azione morale. Proprio perche a priori, Ia Iibert a esiste in virtu di se stessa e, se non puo essere dimostrata, puo essere creduta con una fede morale che e anch'essa una necessita generale della ragione umana. L'intelletto costituisce il regno dei fenomeni, dove tutto e riconducibile al nesso causa ed effetto, come dire all'oggettivita determinabile della cosa strumento di altra cosa; Ia volonta morale e, a sua volta, costitutiva di un mondo sovrasensibile, nel quale tutti gli esseri razionali, in quanto soggetti di attivita morale, sono in comunione tra loro in virtu dell 'unico e medesimo fine, il fine
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che Ia loro volonta si pone quando e determinata dalia Iegge del dovere. Questa «unione sistematica di esseri ragionevoli mediante leggi oggettive comuni » e chiamata da Kant regno dei fini, che va inteso naturalmente non come una regione successiva e comunque estranea al regno dei fenomeni, rna come pura e semplice realta ideale. Non e oggetto di dimostrazione, e solo un orizzonte della fede morale. 12.15. I postulati della ragion pratica. Siamo gia entrati, cosi, in quel dominio della metafisica, al cui confine Ia ragion pura aveva posto le colonne d'Ercole da non sorpassare. E tuttavia, quel che e precluso alia scienza non e prt:cluso al1a fede morale. Nella visione di Kant, Ia fede morale non e una pura esigenza soggettiva, alia maniera del sentimento di Rousseau. Essa ha, a suo modo, una solida struttura razionale, dato che il suo contenuto non e soltanto Ia Iegge del dovere e, come orizzonte ideale di questa Iegge, il regno dei fini. Essa abbraccia anche tutte le condizioni senza le quali l'a priori della Iegge morale non e possibile. E bene ribadirlo: Kant non riapre qui il capitolo che aveva definitivamente chiuso nella sua prima Critica. Le prove che egli adduce per fondare la certezza metafisica, alia quale il puro criticismo ha sottratto i fondamenti tradizionali, non hanno in nessun senso il valore di una dimostrazione teoretica. Egli le chiama infatti postulati. II postulato e una «dimostrazione teoretica, rna come tale non dimostrabile, in quanto inerisce inseparabilmente ad una Iegge pratica che vale incondizionatamente a priori». E cioe una implicazione necessaria di una certezza che gia si presuppone presente alia co· noscenza. Come dire: se tu credi alia necessita e alia universalita della Iegge morale, allora devi credere anche aile condizioni che la rendono possibile. Ed e cosi che si ripresentano all'orizzonte della filosofia pratica, sebbene con tin ordine diverso e con diversa forma, quelle tre idee della ragione (12.11) che nella prima Critica erano state riconosciute non come oggetti del conoscere, rna come suoi compiti. 1. Si e gia visto come la certezza di poter determinare in modo autonomo le nostre azioni ci apra l'accesso a quel mondo non fenomenico che invece restava precluso alla nostra attivita teoretica. «Puoi, perche devi». II dovere attesta, per virtu propria, la nostra possibilita di vivere secondo una causalita che non e quella meccanicistica del mondo sensibile, attesta cioe che noi viviamo simultaneamente nel mondo fenomenico, in quanto esseri sensibili, e nel mondo noumenico (o pensabile, intelligibile), in quanto persone. La necessita e la no~ stra natura, in quanto anche noi siamo a noi stessi oggetto del conoscere (inutile, dunque, voler dimostrare, partendo dal suo contenuto empirico, che una nostra azione qualsiasi e libera), rna e nostra natura anche Ia liberta, in quanto esseri intelligibili, che danno a se stessi le proprie leggi. Mentre la psicologia sperimentale puo proficuamente occuparsi della faccia esterna della nostra realta, solo la fede morale puo rendersi conto della sua faccia intima. Dunque c'e, al di la della nostra esperienza, come dire delle nostre rappresentazioni, un mondo in se, quel mondo che la dialettica della ragione aveva constatato come meramente possibile. 2. La duplicita della nostra natura si esprime nell'antagonismo tra l'inclinazione sensibile, che ha come suo principio supremo Ia felicita, e l'imperativo
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morale, che ha come principia supremo la virtu. Se non regge la dottrina di Epicuro, che fondava Ia virtu nella ricerca della felicita, non regge nemmeno la dottrina stoica, che, all'opposto, fondava la felicita nella virtu. Le massime della felicita non generano la virtu, cosi come le massime della virtu non generano Ia felicita. Ma la natura umana e una sola: di qui la necessita di raggiungere una armonia tra i due princlpi antagonistici. L'armonia tra virtue felicita e detta da Kant sommo bene. La virtue gia di per se il bene supremo, in quanta e la condizione di tutto cia che e desiderabile, rna non e il bene inteso per esseri finiti come noi, che aspiriamo alia felicita. Aver bisogno della felicita ed esserne degno e tuttavia non esserne partecipe, non e compatibile col volere perfetto di un essere razionale che avesse insieme anche l'onnipotenza, solo che cerchiamo di rappresentarci un tale essere.
Solo che, per essere da~vero degno della felicita, l'uomo dovrebbe aver raggiunto quella condizione di perfezione morale, la santita, che non e possibile nella vita terrena, dove l'antagonismo tra i due principi e una legge moralmente invincibile. Non si puo che postulare «un progresso che va all'infinito verso quella conformita completa tra felicita e virtu e cioe non si puo che postulare l'immortalita dell'anima». Kant si fa premura di sottolineare che l'immortalita dell'anima e un postulato della vita morale, non un suo fondamento stabilito teoricamente. Se cosi fosse, se cioe la virtu si basasse sulla prospettiva di una eternita di felicita e di castigo, cadrebbe gia per questo l'autonomia della Iegge morale e «la condotta dell'uomo sarebbe mutata in un semplice meccanismo in cui, come nel teatro delle marionette, il tutto gesticolerebbe bene, rna nelle figure non si troverebbe vita alctma». 3. Questa riserva vale anche per la certezza dell'esistenza di Dio. Se essa fosse la condizione della vita morale, questa perderebbe, per la ragione appena detta, ogni fondamento autonomo. La legge morale e quella che e, appunto perche esige da noi un rispetto disinteressato, «e solo quando questo rispetto diventa attivo e dominante, solo allora e solo percio consente di gettare uno sguardo, ed anche con debole vista, nel regno del sovrasensibile». Questo sguardo mosso dal rispetto morale si posa anche su Dio, non inteso quale spiegazione e 'inizio' del mondo, rna come garante della sua fine, anzi del suo 'fine' morale, come dire del suo destino. II sommo bene, e cioe la conciliazione tra virtu e felicita, e possibile solo se si assume come causa suprema della natura un essere la cui onnipotenza corrisponda perfettamente all'intenzione morale. E l'essere che noi chiamiamo Dio. E cosi quel mondo sovrasensibile, di cui la ragione teoretica non poteva fornirci che l'ipotesi, dischiude se stesso alia ragion pratica, sia pure in modo problematico, qualora essa si faccia coerente con la propria intima legge. Non e dall'ordine dell'universo, metafisicamente perlustrato, che deriva la legge morale; al contrario, e sui fatto trascendentale della coscienza che quell'ordine trova fondamento. E qui che meglio si definisce, per Kant, il primato della ragion pratica ed e qui che, in ogni caso, il grande filosofo da la pili completa immagine di se stesso. Con profondo intuito, i suoi discepoli vo1lero che sulla sua tomba fossero scritte queste prime righe di una sua celebre pagina:
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Due cose colmano !'animo di meraviglia e di venerazione: il cielo stellato sopra di me e Ia Iegge morale in me.
12.16. La filosofia della religione. Il primato dell'imperativo morale non si esprime soltanto nel suo rapporto con Ia ragion pura. In modo piu diretto e cpnseguenziale, esso investe l'universo delle condizioni empiriche dell'esistenza individuale e collettiva, come la religione e l'intero sistema di relazioni che danno sostanza alia societa e allo Stato. Qui si haa che fare col canone della ragione pratica, in cui il valore della prassi riposa interamente sulla sua conformita alia teoria che le sta a fondamento, e tutto va perduto quando le. condizioni empiriche e, com~ tali, contingenti dell'esecuzione della Iegge siano elevate a condizioni della Iegge stessa.
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Difatti, sia nel contesto della seconda Critica, sia in altre opere pubblicate primae dopo, Kant tento di ricondurre nei confini della ragione morale le giurisdizioni della vita umana che per lo piu venivano trattate con la presunzione di una ]oro autonomia nei confronti di que! canone e cioe: a) la religione, identificata praticamente con quella delle chiese b) l'ordine giuridico, che ha il suo luogo di sintesi nello Stato c) e finalmente l'intero ambito dell'organizzazione morale e legale dell'umanita. Nell'affrontare temi cosi diversi, Kant nori fa che cercare conferma e svolgere i corollari di que! suo canone (il primato dell'imperativo morale) stabilito teoricamente, una volta per sempre, nella Critica della ragion pratica. Questo suo intento e reso esplicito nell'opera che fu per lui ragione di guai da parte delle autorita prussiane: La religione nei confini della sem.plice ragione. Quali siano questi confini appare chiaro nella seconda Critica, e specialmente nella parte dedicata ai postulati: essi coincidono con l'orizzonte della fede morale. La fede morale non va confusa ne con quella insegnata e praticata dalle religioni positive, basate cioe su di una presunta rivelazione, ne con l'intuizione oscura di cui, con vario linguaggio, parlano i mistici di ogni epoca e di ogni luogo. E tuttavia l'uomo, cosi come si trova a vivere nello spazio e nel tempo, non attinge le sue convinzioni religiose dalla fede morale, rna da tradizioni storicamente determinate. Il compito della filosofia critica sara allora non di descrivere queste forme religiose, ne tantomeno di dimostrare quale tra di esse sia la vera, rna di rintracciare, al di Ia di tutti i loro aspetti empirici e di tutti i loro dogmi, quali siano i principi di cui una fede puramente razionale fa obbligo alia coscienza. Nel far questo, Kant non procede confrontando in modo astratto fede morale e fede religiosa, rna parte dall'uomo empirico, proprio come aveva fatto nell'anali:zzare il conflitto tra virtu e felicita. Il sommo bene richiede una loro riconciliazione, rna l'uomo concreto' sperimenta invece, irrimediabilmente, la loro contraddizione. Da una parte, egli avverte in se la santita dell'imperativo morale, dall'altra, l'impossibilita di obbedirgli completamente. Da una parte, la coscienza gli dice: devi, dunque puoi; dall'altra, l'esperienza lo persuade della sua impotenza. Dire coscie:t;~za morale equivale, insomma, a dire consapevo-
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lezza della propria dipendenza dal mondo sensibile. Di qui un'esigenza insopprimibile, quella della liberazione da questo stato di schiavitu. Il concetto di liberazione della volonta accerchiata dagli impulsi empirico-sensibili non fa che trascrivere in termini razionali il concetto di redenzione proprio delle religioni positive. E in questa concetto il punto di coniugazione tra le religioni positive e la religione razionale, equivalente alla fede morale. L'esigenza della ragione sarebbe che le prime si risolvessero tutte nella seconda, dato che l'etica respinge ogni forma di eteronomia, compresa quella teologica. Ma questa riduzione delle religioni nei confini della semplice ragione non puo darsi sui piano storico: il !oro incontro si da nell'infinito. Sui piano storico, si puo, al piu, stabilire quale fra le religioni positive meglio traduca, sia pure col sostegno di segni visibili e di dogmi, i tratti della religione razionale e naturale. Per Kant non ci sono dubbi: Ia religione piu pura e quella cristiana. Egli aveva sott'occhio, anzi nelle fibre stesse della sua personalita, Ia forma di cristianesimo in cui era stato educato, il protestantesimo pietista. In questa tradizione luterana aveva preso particolare sviluppo Ia dottrina del peccato come condizione insuperabile dell'uomo, una dottrina che ha il suo perfetto riscontro in quella consape-volezza razionale dell'impotenza al bene che, come abbiamo appena ricordato, e parte costitutiva dell'esperienza morale. La dottrina cristiana aiuta a penetrare piu a fondo nella notte di questa inevitabile miseria. Miseria inevitabile, ci dice l'esperienza, rna non necessaria, ci dice la ragione. Non e infatti necessaria che l'imperativo morale soccomba all'impulso sensibile. Nell'uomo naturale, Ia subordinazione del sensibile all'etica dovrebbe avvenire con spontaneita. Dunque, come insegna la dottrina del peccato originale, si e dato storicamente un capovolgimento dell'ordine di natura. E il capovolgimento che Kant chiama male radicale, perche porta con se Ia corruzione del fondamento (della radice) di tutte le massime della ragion pratica. Pur non essendo deducibile dal concetto di specie umana, esso e tuttavia attivo in ogni luogo e in ogni tempo, per cui e lecito, in qualche modo, dire che l'uomo e cattivo per natura. ln Adamo, tutti abbiamo peccato. E tutti pecchiamo volontariamente, anche se in forza di una inclinazione che non ci puo essere imputata come singoli individui. E questa la dottrina di Kant che suscito delusione in alcuni suoi ammiratori, come Goethe e Schiller. Herder arrivo a scrivere che con Ia dottrina del 'male radicale' Kant aveva imbrattato il proprio mantello di filosofo <
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venti, in qualche modo, uomo. E questo l'ideale morale di cui Gesu Cristo e la piena incarnazione. 11 Cristo a cui Kant si riferisce e, come nella Professione del vicario savoiardo di Rousseau (9.13), il Cristo maestro, nella vita e nella dottrina, dell'ideale morale. Io distinguo la dottrina di Cristo dalla notizia che noi abbiamo della dottrina di Cristo e, per riuscire a scoprire semplicemente la prima, in primo luogo cerco di estrarre, isolata da tutti gli ordinamenti neotestamentari, la dottrina morale. Questa e certamente la dottrina fondamentale del Vangelo, tutto il resto del quale puo essere soltanto la dottrina ausiliaria.
«Tutto il resto>>: cioe le pratiche liturgiche e sacramentali, il culto, la preghiera di petizione e cosi via. Incominciarono gHt gli apostoli a mettere la «dottrina ausiliaria» al posto di quella morale, o quantomeno al primo posto. E hanno continuato le chiese, condizionate, in questa capovolgimento del giusto ordine delle verita evangeliche, dalla degradazione storica in cui, a causa del male radicale, gli uomini si trovano a vivere. Nel trasferire i misteri del cristianesimo, una volta spogliati dal loro involucra simbolico, nel registro della fede morale, Kant e convinto di assecondare la stessa intenzione con cui Cristo li insegno. Non che egli miri a togliere ogni valore aile chiese storiche: presentando come parola di Dio la Iegge morale di cui la coscienza e di per se maestra, le chiese non fanno che assecondare la necessiti:t storica dell'uomo imperfetto. Per questa ragione, esse resteranno indispensabili fino al giorno in cui, pienamente conformi all'ideale morale, gli uomini non formeranno una sola cornunita retta dal vincolo della fede religiosa pura e della santita morale ad essa conforme. Si tratta di una condizione postulata come orizzonte della coscienza morale, e non di un evento «storico da collocare in un punto qualsiasi del tempo futuro». Proprio come il «regno di Dio>>. Ma, in quanto ideale della ragione pratica, la chiesa invisibile vale come punto di riferimento e come criteria di giudizio per tutte le chiese visibili, che sono come sue prefigurazioni provvisorie, investite di compiti educativi. Se si sottraggono a questa loro ragion d'essere, esse diventano covi di servitu e di ipocrisia. 12.17. La filosofia del diritto. In virtu della propria universalita, la legge morale chiede di ricondurre nei propri confini, oltre che l'esperienza religiosa, anche l'insieme dei rapporti empirici in cui, nel privata e nel pubblico, si esprime l'interiorita umana. Niente e piu lontano dal pensiero di Kant quanto il detto (sul quale scrisse, infatti, un articolo di confutazione): «questo puo essere giusto in teoria, rna non in pratica>>. Per usare il titolo di una sua opera, c'e anche una «metafisica dei costumi >>, e cioe una deduzione dalla legge morale di quegli imperativi particolari dai quali devono essere regolati i rapporti dell'uomo con se stesso e con gli altri. Come si e visto (12.12), in rapporto all'imperativo categorico l'azione dell'uomo puo essere o morale o meramente legale. Da qui i due ambiti dell'analisi kantiana: quello dei doveri richiesti dalla virtu e quello dei doveri determinabili dal diritto.
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A determinare i comportamenti conformi a virtu c'e il principia della dignita umana, che illumina e discrimina i rapporti dell'uomo con se stesso e con gli altri. Ricordiamo che la terza formula dell'imperativo categorico impone il rispetto della dignita umana sia nella propria persona che in quella degli altri. La dignita dell'uomo consiste nel fatto che egli e, in un mondo di cose, un fine, e mai solo un mezzo. A questa dignita si ispirano tutti i doveri verso se stesso, dalla castita alia veracita. L'insistenza di Kant sulla veracita e rigorosa fino all'estremo: nemmeno per salvare la vita di un amico e lecito dire una bugia! A questa rigore si ispirano anche le implicazioni pedagogiche, tra le quali la regola principe e 1'educazione del fanciullo all a piu assoluta veracita: Non minore e il rigorismo kantiano riguardo ai doveri verso gli altri. Perfino le buone inclinazioni, come quella della pieta, sono per lui contaminazioni della piena moralita. Oltre a questa del rigorismo, l'etica kantiana mostra evidente un altro limite, che ne fa un'etica squisitamente borghese: i doveri morali toccano le relazioni tra individuo e individuo e non le istituzioni, che restano relegate nella sfera della semplice legalita. Certo, egli ha insistito come nessun altro, senza nessun compromesso con la logica di Machiavelli, sulla subordinazione delle istituzioni aile finalita morali imposte dalla dignita umana. Ma nessuna luce di moralita le illumina all'interno, Ia dove Ia pluralita degli individui da luogo a una comunanza di intenzioni e di responsabilita. Basti il caso del matrimonio, ridotto da lui alia semplice natura del contratto. La finalita morale, a cui le istituzioni, al pari degli individui, sono soggette, e la liberta: e qui il nesso che articola tra !oro la stera etica e quella giuridica, che e la sfera in cui vige il principia che la volonta dell'uno si accordi con la volonta dell'altro. Di questa principia Kant ci ha dato anche la formula, analoga a quella dell'imperativo categorico: «agisci esternamente in modo che illibero uso del tuo arbitrio possa coesistere con Ia liberta di ognuno, secondo una Iegge universale». Se gli uomini fossero in grado di servirsi della liberta per attuare la Iegge morale, la relazione tra i due arbitrii sarebbe tale che ciascuno realizzerebbe pacificamente il proprio fine. Ma quella degli uomini e, Secondo una felice espressione kantiana, una <> con Ia quale si vuol porre <
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per pura accidentalita storica, rna perche non potrebbero adempiere Ia propria umanita senza «entrare a far parte di una qualche costituzione civile». La costituzione civile piu conforme a ragione e quella 'repubblicana', come dimostra l'entusiasmo con cui e stata salutata generalmente Ia rivoluzione francese. Essa ha fatto capire una volta per sempre (a parte le sue degenerazioni, cosi gravi da rendere temerario lo stesso desiderio di ripeterla altrove) che l'ideale di una costituzione in accordo con i diritti naturali dell'uomo non e una vuota chimera. Quanta a Kant, le sue preferenze andavano all'istituto monarchico e, in concreto, a quello di Federico II, nel quale egli vedeva come l'incarnazione dell'imperativo categorico nella vita politica. A differenza dei 'lumi' piu radicali e della stesso Rousseau, Kant ritiene che Ia ribellione al potere legittimo in virtu delle clausole del contratto sociale non rientri nei diritti del cittadino, al quale era lecita, al piu: una opposizione spirituale 'ridotta quasi soltanto alla «liberta di penna». Dice molto su questa punta il contegno che Kant adotto quando, nel 1794, fu colP.ito da censura a causa del suo libra sulla Religione nei confini della semplice ragione. Egli si impegno, non certo a ritrattare le sue idee, rna ad astenersi «per intero da ogni pubblico riferimento alia religione sia naturale sia rivelata, vuoi nelle lezioni, vuoi negli scritti ». <<Se tutto cio che si dice, scrivera in seguito, deve essere vero, non e pen'> dovere dire pubblicamente tutta Ia verita». 12.18. La filosofia della storia. La dottrina politica di Kant si distingue da quelle dominanti nel suo secolo per Ia rigorosa subordinazione di tutte le forme giuridiche, a cominciare dallo Stato in quanta tale, ai principi della Iegge morale. II fine della Stato non e la felicita, e la moralita, o, se si vuole, e Ia liberta, intesa pero come attuazione della Iegge morale. Ma oltre che l'impostazione eudemonistica Kant respinge, della cultura politica del suo tempo, una visione della storia di tipo unilaterale, volta cioe immancabilmente verso il meglio. Certo, anche per lui <
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Proprio in nome di questa visione drammatica del corso della storia, Kant aveva criticato, gia nel 1785, lo scritto di Herder, Idee sulla filosofia della storia dell'umanita, in cui lo sviluppo della specie era rappresentato come armonico e progressivo, governato dall'infallibile aspirazione alla felicita (10.10). Con queste riserve sull'eudemonismo evolutivo, Kant prende parte al grande dibattito, che caratterizza il suo secolo, circa i rapporti tra naturae cultura (8.13-15), e piu precisamente circa la capacita della Civilisation c;li produrre nell'umanita piu o meno felicita di quanta la natura ne avrebbe prodotta da sola. Al riguardo, Kant fa sue le idee di Rousseau, trasferendole nella propria prospettiva filosofica. Secondo lui, nello stato di natura l'uomo si muoveva, con forza istintiva e serena, verso la felicita, senza ancora il turbamento della coscienza morale. La coscienza morale nacque con l'atto stesso della trasgressione originaria, e con la coscienza morale e nata la storia. 11 senso intimo della storia umana e la ricerca di un riscatto, non gia mediante un ritorno, ormai impossibile, allo stato di natura, rna subordinando alla legge morale l'inclinazione sensibile, in vista dell'ideale della santita e cioe della conciliazione tra felicita e virtu. Ma sia chiaro, piu cresce la cultura morale (e la cultura che non sia morale non merita tale nome), piu aumenta l'infelicita. 11 che non autorizza l'inversione di rotta del progresso, dato che il suo fine non e la felicita, rna la liberta. E in questo quadro che va letto il significato della guerra, e cioe della forma estrema del conflitto. Contro Hobbes, Kant esclude la guerra della stato di natura; come per Rousseau, anche per Kant la guerra e nata col nascere della cultura. Ma, contro Rousseau, egli ritiene che il passaggio alla cultura sia un fatto positivo, conforme alla dignita dell'uomo, e che dunque anche la guerra abbia avuto una sua funzione provvidenziale. Essa e stata un fattore di progresso, rna, con un capovolgimento causale, il progresso, varcata la soglia dell'eta dei 'lumi', tende a sdpprimere Ia guerra come og.ni altra forma di conflitto e, attraverso un processo di autolimitazione, la guerra finira con l'esaurire se stessa per lasciare il posto alla realta di una pace perpetua. La necessita provvisoria della guerra si dimostra nel fatto che, nelle condizioni attuali, lo Stato e pur sempre uno Stato fra gli Stati. Se uno di essi, per ipotesi, riuscisse a realizzare al suo interno il fine morale, siccome permane, nei rapporti interstatali, l'antagonismo prodotto dal male radicale, esso, lo Stato moralmente perfetto, diverrebbe facile preda degli altri Stati, se non si tutelasse con la guerra. L'unica via per raggiungere una pace perpetua, che non sia quella dei cimiteri, sarebbe una lega tra i popoli (Volkerbund) che, in base a «un diritto internazionale stabilito in comune», fungesse da tribunale supremo in caso di conflitto. Pur tenendosi in guardia da ogni fantasioso cosmopolitismo, Kant e convinto, come appare nella sua definizione dell'illuminismo, che l'umanita e ormai «uscita dallo stato di minorita» (8.3). Proprio perche ormai matura, l'umanita e in grado di avvertire l'imperativo morale che fa divieto di ogni guerra, sia tra gli individui che tra i popoli. In ogni caso, l'uomo deve ormai agire come se la pace perpetua fosse possibile, e pertanto deve mettere in atto le strutture giuridiche dell'ideale cosmopolitico (11.16). E cosi Kant poteva dire di avere arricchito di una nuova prospettiva la sua
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risposta al terzo interrogativo formulato nell'ultima parte della sua prima Critica: che cosa possiamo sperare? Ma anche qui la sua risposta rimane problematica, anzi, se si va al di la della solenne e serena razionalita del suo svolgimento logico, si fa drammatica. 11 dominio della Iegge morale sugli individui, l'adempimento della chiesa invisibile e Ia pace perpetua _tra i popoli restano come tre parallele che tendono verso un medesimo punto, luminoso certo, rna infinitamente distante.
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12.19. L'ultimo anello del sistema. In una lettera a Reinhold, del25 dicembre 1787, Kant da notizia di aver scoperto «Una nuova specie di prindpi a priori » e di essersi impegnato in una «critica del gusto». E i1 primo annuncio della sua terza opera fondamentale, Ia Critica del giudizio. Mentre le prime due Critiche erano state progettate nel quadro di un medesimo disegno, questa terza viene partorita dalla necessita di colmare la frattura che esse avevano lasciato aperta nella visione della realta. Infatti, l'analisi delle condizioni trascendentali del conoscere e dell'agire morale era approdata alla distinta determinazione di due mondi, quello dell'essere e quello del dovere. quello dell natura, costruito dall'attivita legislatrice dell'intelletto e quello noumenico, in cui si esplica la Iibera causalita della volonta pura. 11 primo e il mondo della necessita meccanica, che esclude da se tutto cio che non rientra nella rete dei nessi causali; il secondo e il mondo della liberta, nel quale le scelte della volonta sono determinate esclusivamente della volonta stessa in quanto principia costitutivo del regno dei fini. Ma gia a questo punto del pensiero kantiano, il dualismo tra i due regni e meno rigido di quanto non faccia pensare la semplificazione schematica che ne abbiamo dato. In piu momenti della nostra esposizione, abbiamo visto come la ragion pura, per render conto del proprio percorso, rimanda alla ragion pratica, e viceversa. Sicche, se per un verso esse si escludono, per l'altro si richiamano a vicenda, quasi obbedendo al postulato di una !oro radice unitaria, di un anello che connetta tra !oro le due diverse, anzi contrastanti, sfere in cui si dispiega rispettivamente Ia !oro attivita. Se Ia ricerca di Kant su di un tema specialistico come quello del «gusto» si dilato nell'ampia e articolata tematica della Critica del giudizio, fu proprio per impulso della Iegge sistematica nella quale si impone, per forza propria, la natura unitaria dell'uomo. Si e gia visto come questa esigenza unitaria si sia fatta valere tanto nell'analisi del processo costitutivo del regno della natura, con la dottrina dell"Io puro', quanto nell'analisi della Iegge morale, con la dottrina dell'imperativo categorico. La stessa esigenza imponeva un passo ulteriore, che conducesse, al di la del punto d'origine del solco di divisione tra il mondo della necessita e quello della liberta, in un territorio diverso, che di questi due mondi sia come. il substrata comune. Questo 'luogo' e la 'facolta di giudizio' in se considerata, che sta alia
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base di ogni scomposizione della coscienza in singole facolta e quindi anche delle due attivita giudicatrici, quella conoscitiva e quella morale. Infatti, in una piu esatta traduzione, il titolo della terza Critica dovrebbe essere: Critica della facolta di giudizio (Urteilskraft). Non si tratta, dunque, di determinare un terzo territorio, che stia tra quello della conoscenza fisica e quello dell'attivita morale, rna semplicemente di verificare se vi sia un principia, anch'esso a priori, che assicuri tra i due territori una mediazione unificante. Cos! scrive Kant, prendendo le mosse dalla riaffermazione del primato della ragion pratica: Sebbene vi sia un incommensurabile abisso tra il dominio del concetto della natura o il sensibile, e il dominio del concetto della liberta o il soprast:nsibile, in modo che nun e pussibile nessun passaggio dal primo al secondo (mediante l'uso teoretico della ragione), quasi fossero due mondi tanto diversi che il primo non potesse avere alcun influsso sul secondo; tuttavia il secondo deve avere un influsso sul primo, cioe il concetto della liberta deve realizzare nel mondo sensibile lo scopo posto mediante le sue leggi, e la natura, per conseguenza, deve poter essere pensata in modo chela conformita alle leggi, che costituiscono la sua forma, possa almeno accordarsi con la possibilita degli scopi, che in essa debbono essere realizzati secondo le leggi della liberta. Sicche vi deve essere un fondamento dell'unita trail soprasensibile, che sta a fondamento della natura, e quello che il concetto della liberta contiene praticamente; un fondamento il cui concetto e insufficiente, in verita, a dame la conoscenza, sia teoreticamente che praticamente e quindi non ha alcun dominio proprio, rna che permette nondimeno il passaggio dal modo di pensare secondo principi dell'uno al modo di pensare secondo i princlpi dell'altro.
Nella sua ricerca sulla natura di questo 'fondamento', Kant fece uso di una indicazione della cultura del suo tempo di tradizione empiristica, che aveva posto in evidenza, quale facolta distinta dall'intelletto e dalla volonta, il sentimenta (11.2-3 e 11.14). E difatti Kant chiama sentimento la facolta che, diversa da quella teorica e da quella pratica, e in grado di coniugarle tra loro. Essa e un principia razionale a priori, nel sen so che e una riflessione dell 'io su se stesso, in concomitanza con l'attivita conoscitiva e con l'attivita volitiva. Questa riflessione su di se l'io la compie quando, dopo aver assunto nelle categorie il contenuto della sensibilita e averlo ordinato secondo leggi generali di natura meccanica, in una seconda fase considera gli oggetti, cosi determinati, nella loro rispondenza o meno ai suoi bisogni soggettivi, e cioe come fonte di piacere 0 di dolore. Il primo giudizio e detto determinante, appunto perche e per suo mezzo che l'intelletto attua l'attivita legislativa, con cui costituisce l'ordine di natura; il secondo e detto riflettente, perche con esso noi valutiamo la rappresentazione oggettiva nella sua rispondenza o meno, non piu alla legge dell'intelletto, rna a quel bisogno fondameritale del soggetto che nella coscienza morale si esprime con !'idea di finalita. Ecco perche il giudizio riflettente e mediatore tra i giudizi intellettivi e i volitivi: esso constata che la natura (dominio dell'intelletto) e diretta a rendere possibile la liberta (dominio della volonUt), e lo constata mediante la convenienza dell'oggetto con il concetto di fine.
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Un giudizio del genere non ha rilevanza dal punto di vista della conoscenza teorica, dato che quello di fine non rientra tra i concetti puri dell'intelletto, e nemmeno ha rilevanza etica, perche, per quanto avvenga mediante l'idea di fine, non e tra i giudizi posti dall'a priori morale. E tuttavia, in quanto e una manifestazione della natura razionale dell'uomo, il giudizio riflettente gode anch'esso di una universalita sua propria. C'e in noi l'esigenza che il giudizio con cui qualifichiamo come bello un oggetto sia condiviso da tutti, a diversita del giudizio con cui diciamo, ad esempio, che un certo cibo ci piace. La piu precisa determinazione dell'universalita del giudizio riflettente ci porta a distinguere i casi in cui la rispondenza dell'oggetto al fine e percepita in modo soggettivo, e cioe con riferimento al concetto di finalita, e allora si dice giudizio estetico. Nei casi in cui la rispondenza delle rappresentazioni al fine si basa sui rapporto che essa ha con l'articolazione oggettiva della natura, allora si dice giudizio teleologico. Se nell'osservare un albero in fiore il mio sentimento di piacere si basa sulla mia esigenza di sentire che anche la natura vive con la liberta che io vivo come soggetto sovrasensibile, il mio· e un giudizio estetico; se invece il mio piacere nasce dalla constatazione che anche la natura nel disporre uno dopo l'altro i suoi fenomeni persegue un fine, allora il mio giudizio e teleologico. 12.20. II giudizio estetico: il bello. L'ipotesi che si dia nell 'uomo una facolta originaria capace di pronunciare giudizi universali, non di natura logica ne pratica, nacque in Kant, come si e detto, durante la sua ricerca sulla natura del gusto. Scartando la via, gia abbandonata in parte dal suo tempo, che consisteva nel determinare, astraendole dalle cose belle, le regole a cui attenersi nella loro produzione, Kant cerco di spiegare il dato di fatto che chi giudica bello un oggetto ha l'esigenza - in deroga all'adagio che sui gusti non si discute - di veder condiviso da tutti il suo giudizio. In conformita al suo metodo critico, egli fece l'ipotesi che anche quello estetico sia, a suo modo, un giudizio a priori, non desunto, cioe, dall'esperienza del bello, rna, al contrario, costitutivo di questa esperienza. La via da seguire, per verificare la fondatezza di questa ipotesi, non poteva che essere la determinazione di quanto c'e di spedfico nel concetto di bello, in rapporto agli altri i concetti che esprimono un apprezzamento soggettivo, come quelli di piacevole, utile, buono. E piacevole tutto cio che appaga i nostri bisogni sensibili; e utile cio che risponde a uno sforzo diretto al piacevole; e buono cio che risponde alle regole del dovere. In tutti questi casi, l'oggetto rappresentato risponde a un interesse che gli e estraneo e che e la condizione soggettiva del senso di appagamento. Ebbene, il bello ha questo· di proprio, che esso piace senza nessun rapporto con un interesse qualsiasi. Il piacere estetico nasce nella semplice contemplazione dell'oggetto. Se, ad esempio, dice Kant, mi si domanda se quel palazzo mi piace, non ha nessuna importanza, per lamia risposta, il fatto che io ci possa o no abitare, anzi, a rigore nemmeno il fatto che esso esista nella realta. Quel che importa nel giudizio estetico e solo la rappresentazione come tale, a prescindere dai rapporti che la cosa rappresentata ha con la cosa in se e, come gia in Baumgarten (11.14), con il sistema di relazioni in cui l'intelletto puo collocarla. Quel che conta e la forma della rappresentazione in se assunta, in quanto essa risponde
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con immediatezza, senza sforzo, aile mie facolta conoscitive, e cioe alla mia immaginazione, intesa come facolta che unifica il molteplice dell'intuizione, e al mio intelletto, inteso come facolta che unifica i dati dell'immaginazione. · Normalmente, nel processo conoscitivo c'e un dispendio di energia connesso alia intenzionalita del conoscere: le due funzioni ordinatrici della realta non si armonizzano spontaneamente, o perche alia eventuale chiarezza dell'intuizione non risponde una altn~ttanto chiara penetrazione dell'intelletto o, viceversa, perche la cosa pensata con adeguati concetti non e provvista immediatamente della necessaria compiutezza intuitiva. Basta ricordare quanta complessi sono gli schematismi trascendentali (12.10)! Nel caso, invece, in cui la rappresentazione si presti ad essere semplicemente contemplata, le facolta del conoscere si muovono !'una con l'altra e l'una verso l'altra nella gioiosa liberta di un gioco. Ecco perche il giudizio estetico ha la pretesa di essere universale e comunicabile a tutti: il suo vero contenuto non e l'oggetto in quanto appartiene all'ordine delle cose in se e in quanta risponde a bisogni soggettivi inerenti alIa sensibilita, e la rappresentazione in quanto su di essa le facolta conoscitive si trovano in libero gioco. Proprio per questa sua consistenza meramente formale, il bello appare come un fine in se, cioe come un dato che, per avere senso, non va riferito ad altro. Ecco perche e nella natura del bello non avere alcun significato. Ha significato cio che risponde a un nostro interesse, e dunque a un nostro scopo. Si potrebbe dire che la bellezza risponde al fine, rna e senza un fine. II suo fine e il suo stesso esserci, proprio come gli atti posti dalla volonta morale: di qui l'affinita tra il bello e il bene. II bello e come il simbolo del bene. Esso infatti ci offre, sia pure sporadicamente, quella congiunzione armoniosa tra mondo fenomenico e mondo noumenico che e il postulato della finalita morale. In quanta inerisce alia rappresentazione sensibile di un oggetto, la bellezza appartiene al mondo dei fenomeni, rna in quanta trascende tutti gli interessi, rispondendo spontaneamente all'idea di fine propria della natura sovrasensibile dell'uomo, essa appartiene al noumeno. Pur essendo un predicato delle cose sensibili, la bellezza non inerisce aile cose, e data ad esse nell'atto in cui, tramutate in pure rappresentazioni, vengono assunte, in virtu del libero gioco che riescono a svolgere nelle sfere conoscitive, dal sentimento puro, dove si rivela apparentata con l'ordine morale. 12.21. II giudizio estetico: il sublime e il genio. II nesso tra contemplazione estetica e coscienza morale appare in tutta evidenza nella dottrina kantiana del sublime. Come la bellezza non e nell'oggetto che noi diciamo bello, rna nell'effetto che la sua rappresentazione produce in noi, e precisamente neUe nostre facolta conoscitive, immaginazione e intelletto, cosi quel particolare evento estetico che viene chiamato sublime non e dovuto a oggetti in se sublimi - un oceano in tempesta, una imponente catena di montagne, ad esempio - rna ai riflessi che essi hanno in noi, e questa volta non nella sfera dell'immaginazione e dell'intelletto, rna in quella delle idee della ragione. Si danno degli oggetti che, a causa della loro estensione (sublime matematico) o a causa della loro potenza (sublime dinamico), provocano la nostra immaginazione a proseguire di grandezza in grandezza e di potenza in potenza all'infinito, senza riuscirci, e mettono in moto !'idea di infinito incondizionato propria della ra-
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gione. Ouesto contrasto tra intuizione sensibile (finita) e idea della ragione (infinita) produce in noi due sentimenti opposti: di dispiacere, a causa dell'insufficienza della nostra sensibilita, sopraffatta dall'oggetto, e di esaltazione, a causa della smisurata superiorita della nostra facolta sovrasensibile in confronto alia nostra facolta sensibile. C'e qui qualcosa del «gigantesco destino che sublima l'uomo proprio quando lo calpesta». Ed e cosi che l'esperienza estetica sconfina nel campo etico, nel senso che suscita uno stato d'animo il cui motivo piu intimo e il rispetto per la dignita della natura umana nella sua dimensione sovrasensibile, e cioe nella sua capacita di porre fini universali a cui anche il mondo fisico deve assoggettarsi. Mentre nel sentimento del bello i due aspetti della natura umana, il sensibile e il noumenico, si congiungono in una spontanea unita armoniosa, nel sentimento del sublime l'unita si scompone in una subordinazione del sensibile al noumenico, com'e nell'esigenza della vita morale. Insieme alla dottrina del sublime, quella del genio rappresenta uno dei punti piu alti della dottrina kantiana e anche uno dei piu fecondi di sviluppi nella storia del pensiero. Essa presuppone una stretta analogia tra il bello di natura e il bello d'arte. L'arte e la produzione intenzionale di oggetti belli. Il che sembra implicare una contraddizione: se il bello, come si e detto, risponde a un fine senza averne l'intenzione (una «finalita senza un fine»), come potra dirsi bella un'opera d'arte prodotta con intenzione? L'antinomia si risolve se si ammette che l'arte e possibile solo come prodotto del genio. Se un prodotto artistico rivela, nei suoi particolari, la fatica della produzione e l'intenzionale conformita a regole prestabilite, gia per questo esso non potra dirsi un'opera d'arte. Come il gusto e la capacita di godere il bello in modo del tutto disinteressato, e cioe a prescindere da ogni altra ragione che non sia la rappresentazione stessa, cosi il vero artista produce le sue opere non secondo intenzione ne secondo regole, rna con ingenua immediatezza, come fa la natura. Produce l'opera e, incorporate in essa, le regole dell'opera. E. esemplare, rna non segue esempi. E per quanto esemplare, non puo a sua volta essere imitato da nessuno. A differenza dello scienziato (Kant nomina Newton), che potrebbe rendere visibili e additare all'imitazione tutti i suoi passi, dai primi elementi della geometria fino alle grandi e profonde scoperte, nessun Omero potrebbe fare altrettanto della sua opera, le cui cause e le cui regole sfuggono a lui stesso. Il genio nasce tale per dono di natura, e per questo le sue opere mantengono un che di misterioso e di inesplicabile. 12.22. II giudizio teleologico: il finalismo della natura. L'analisi del bello ha permesso a Kant una raffinata elaborazione del concetto di fine. In rispondenza alia sua rivoluzione copernicana, questo concetto, passato dall'ordine delle cose all'ordine delle idee, diventa in lui un principia connettivo formale, che condiziona la nostra valutazione dei fenomeni nelloro rapporto con la totalita. Nel giudizio estetico, la finalita riguarda il rapporto tra le rappresentazioni degli oggetti e le facolta conoscitive. Se la finalita viene invece riconosciuta nelle articolazioni stesse dei fenomeni naturali, si ha allora il giudizio teleologico. Si e ricordato sopra come gia nella sua prima Critica Kant aveva determinato con chiarezza i limiti della concezione meccanicistica della natura, che
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pure resta per lui l'unica concezione conforme aile richieste della scienza. II prima di questi limiti e intrinseco alia qualita stessa delle leggi paste dall'intelletto alia natura: esse sono leggi universali appunto perche meramente formali. Ma la natura non e solo una trama di leggi, e anche un insieme infinito di cose particolari, il cui principia di individuazione non e affatto deducibile da quelle leggi. Ne viene che, mentre le leggi sono perfettamente conoscibili, appunto perche date dal soggetto, i loro contenuti empirici, in quanta dati al soggetto, conservano sempre un carattere casuale. L'intelletto conosce la natura nella sua legalita, rna i contenuti in cui questa legalita prende corpo gli restano inaccessibili. Non solo - ed ecco il secondo limite -rna la realta viene spiegata dall 'intelletto secondo nessi causali che vanno dall'alto in basso, e cioe scendono da un dato a quello precedente e da questa a un altro ancora precedente, rna l'insieme di tutte le serie causali, fossimo pure in grado di ripercorrerne ciascuna da cima a fonda, ci risulta inesplicabile, perche ci sfugge il prima dato da cui Ia serie ha avuto origine. D'altronde, anche se, per ipotesi, questa prima dato ci fosse conoscibile, esso entrerebbe gia per questa nel numero della serie e ci troveremmo da capo di fronte allimite, nella stesso stato d'impotenza. Che da questa stato non si possa uscire mediante l'argomento cosmologico, risalendo cioe dagli effetti finiti alia Causa assoluta, e quanta Kant ha gia dimostrato nella Dialettica trascendentale (12.11). In ogni caso, precisa Kant nella terza Critica: se anche si concedesse che un supremo architetto ha creato immediatamente le forme della natura, quali sono sempre state, o ha predeterminate quelle che nel corso della natura si realizzano continuamente secondo lei stesso modello, Ia nostra conoscenza della natura non progredirebbe minimamente; perche noi non conosciamo affatto Ia maniera di ag:ire di quell'essere ne le sue idee che debbono contenere i principi della possibilita delle cose naturali e non possiamo percio spiegare con esse a priori Ia natura dall'alto al basso.
Per render canto degli aspetti non meccanici della natura, non c'e bisogno di rifarsi ad un «orologiaio occulto», basta riferirsi a una struttura interna alIa stessa natura fisica, che corrisponde, appunto, al concetto di finalita proprio della facolta del giudizio. La struttura, che non puo essere spiegata se non con le cause finali, e quella propria degli organismi (8.10), cioe di quelle formazioni fenomeniche nelle 4ual1 le parti sonu l'una dfettu e causa delle altre e tutte insieme effetto e causa del tutto. In un orologio, ad esempio, ogni rotella serve al movimento delle altre rna nessuna ne produce un'altra, mentre in un albero le parti collaborano all 'esistenza del tutto e a loro volta sono prodotte dal tutto, in un nesso di reciprocita che nessun meccanicismo potra spiegare. Ecco perche gli esseri organici chiamano in causa il concetto di fine: essi non possono essere compresi, in quanta organici, se non come aventi in se stessi il proprio fine. Cumun4ue, il giudiziu meccanicistico dell'intelletto, su cui si basa la scienza, e il giudizio teleologico non si escludono l'un l'altro, perche essi condividono il medesimo oggetto, anche se lo osservano da due punti di vista diversi. Se, ad esempio, io studio la struttura dell'occhio e, dopo aver usato tutte le spiegazioni meccaniche del caso, faccio uso della rappresentazione del fine,
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e perche essa mi serve per capire che il cristallino ha per fine di produrre la convergenza del raggio nella retina. L'idea di fine funziona come 'principia regolativo' della conoscenza scientifica. Ammett'endo la possibilita di applicare alia natura il concetto di fine, si evitano, secondo Kant, due forme di dogmatismo: quella di chi vive nella convinzione che un giurno o l'altro la scienza potra spiegare meccanicisticamente la nascita e la crescita di un fila d'erba e quello di chi non sa concepire altri fini nella natura che quelli in essa preordinati dal suo Creatore. La natura dell'uomo e sufficiente a render canto sia della legalita meccanica che governa il mondo fisico, sia del concetto di fine, che e l'asse unitario della sua esperienza noumenica. La scienza, dice Kant in polemica con lo scientismo meccanicistico, del resto in via di superamento anche ad opera degli illuministi pili avvertiti (8.11), non ha di che temere dal retto uso del giudizio teleologico. Cosi come si dischiude alia conoscenza logica, la natura appare una infinita articolazione di cause e di effetti, nella quale il finalismo degli esseri organici si pone non come un concetto alternativo, rna come un concetto limite, un data di provenienza estranea alle verifiche logiche e tuttavia necessaria alia conoscenza scientifica come stimolo a una sempre pili ampia e pili profonda organizzazione di se. Che il pili perfetto degli organismi, quello umano, nel quale trova il suo ultimo approdo l'intera gerarchia degli organismi presenti in natura, contenga in se anche la vita morale, nella quale la finalita non e un concetto estraneo rna il principia costitutivo, e gia un argomento sufficiente per affermare che e proprio qui, nel finalismo morale, il sensa supremo dell'intero ordine di natura.
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Sommario. A partire dalla conquista di Costantinopoli (1453) da parte di Maometto II, l'Islam, costretto poco dopo a ritirarsi dalla Spagna (1492), e a diretto contatto con la cristianita, rna in un rapporto di profonda estraneita culturale. Mentre in occidente si prepara la rivoluzione scientifica, l'Islam sembra aver perso di creativita culturale, eccetto che nell'Iran, dove ferve ancora la speculazione filosofica di tipo esoterico (13.1). Chiuso l'episodio della filosofia ispirata ai grandi pensatori greci, sopravvive in Iran la riflessione basata direttamente sull'esperienza mistica (13.2), come nella scuola di Isfahan, Ia capitale, che ha la sua massima espressione in Molla Sadra Shirazi e il suo tema centrale nel rapporto tra essenza ed esistenza. Caduta Isfahan (1772), il centro si sposta nella scuola di Teheran (13.3). In India, nel sec. XVI, diventa dominante !'influenza musulmana, non tanto perche musulmana e la dinastia dei Mogol, quanto perche in quella dinastia emerge Ia figura di Akbar, un singolare re filosofo ispirato al piu largo ecumenismo (13.4). Prima di lui, avevano tentato Ia fusione tra islamismo e induismo il poeta Kabir e il guru Nanak, il fondatore dei sikh (13.5). L'induismo si ripiega quasi del tutto nella religiosita superstiziosa e devozionale del popolo e accentua il momento della devozione (bakti) anche nelle sue espressioni speculative, come quella di Villabha, che ripropone Ia metafisica delVedanta in forma monistica (13.6), e come quella di Caitanya, uno sconcertante mistico in cui l'unita dell'Assoluto si concilia con la diversita tra Dio, mondo e anima, una diversita che si trascende soltanto nell'estasi (13.7). Come in tutti i fenomeni di decadenza, nell'induismo di questo periodo (sec. XVII-XVIII) prevalgono le tendenza enciclopediche ed eclettiche: Vijana Bhiksu propone una conciliazione delle sei scuole filosofiche riducendole a gradini diversi di un processo che ha il suo culmine nel Vedanta teistico (13.8). In Cina, nonostante il definitivo trionfo della Scuola dei Principi universali, per merito di Chu Hsi, la seconda scuola neoconfuciana, detta dello Spirito universale, mantiene la vivacita che aveva avuto con l'avversario di Chu Hsi, Lu Chu-yiian (13.9), e raggiunge la sua piu rigorosa sistemazione nell'idealismo di Wang Shou-j€m, che unifica in una suprema mente cosmica sia l'ordine soggettivo che quello oggettivo, e fonda su questo monismo una rigorosa etica razionale (13.10). Agli inizi dell'eta moderna, il neoconfucianesimo di Chu Hsi si diffonde in Corea e in Vietnam e, nel sec. XVII, in Giappone, dove riesce ad adeguarsi allo spirito locale (13.11). In questo periodo si verifica, soprattutto per opera di Matteo Ricci, un primo fecondo anche se labile confronto culturale fra l'occidente cristiano e Ia civilta orientale (1.12). Anche in reazione alla dinastia Manciu, subentrata al posto dei Ming nel 1644, si ha in Cina un ritorno, in chiave nazionalistica, all'insegnamento di Confucio anteriore aile contaminazioni buddiste, com'era quello dell'epoca della dinastia Han: per questo il movimento vien detto Scuola Han (13.13). Anche in Giappone il neoconfucianesimo conosce una piega nazionalistica, che favorisce la ricerca storica e accentua le distanze dalla Cina. Ma ormai l'occidente, spinto soprattutto dalla logica di mercato, bussa aile porte dell'Estremo Oriente: l'incontro tra i due mondi e vicino (13.14).
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L'Islam nell'eta moderna 13.1. Vicende storico-culturali. E bene ricordare che il periodo in cui l'Islam ha toccato il massimo della sua fecondita creativa e della sua egemonia culturale nello spazio euroasiatico 'corrisponde al nostro medioevo, AI contrario, il periodo coevo al nostro Rinascimento e alia successiva rivoluzione scientifica fu, per l'Islam, di quasi totale immobilismo, un immobilismo bruscamente interrotto solo dalle spedizioni di Napoleone in Egitto e in Asia Minore. Le date che delimitano questa lunga stagione di immobilita sono il 1453, l'anno dell'assedio e della conquista di Bisanzio (ribattezzata Istambul) da parte di Maometto II, e il 1798, l'anno, appunto, della spedizione napoleonica. Quando Bisanzio cadde, cadde anche l'ultimo baluardo della cristianita in medio-oriente, rna nello stesso giro di anni l'Islam indietreggio dall'Europa occidentale: Granada fu espugnata dai Re cattolici nel 1492. II volto del mondo s1 semplifico: non piu tre entita politico-culturali, in tensione tra loro, nella zona che aveva per centro il Mediterraneo - la cristianita latina, quella bizantina e l'Islam - ma due, la cristianita latina, ormai sempre piu indifferente aile mobilitazioni dei Papi contro gli infedeli, e l'impero ottomano, la nuova formazione politica che prese il posto dei califfati ed ebbe come nerbo il gruppo etnico dei turchi. Nonostante tutto, la mediazione bizantina aveva favorito un certo scambio vitale tra i due blocchi maggiori, quello cristiano-europeo e quello islamico: venuti a diretto contatto, essi rivelano in pieno la loro estraneita reciproca. Se Dante aveva rappresentato l'urto cristianita-Islam con lo schema classico dell'urto tra Roma e Cartagine, nel bel me:z:zo dell'umanesimo quattrocentesco papa Pio II, Enea Silvio Piccolomini, per descrivere Maometto II, il grande conquistatore di Bisanzio, prende a prestito i moduli retorici con cui Tito Livio aveva descritto Annibale. Ma e, appunto, in Pio II che gia si rivela, pur dentro i limiti di un umanesimo tutto sommato provinciale, lo slancio creativo che avrebbe dato all'occidente cristiano un rapido primato culturale. Nel 1461, il papa umanista scrisse al sultano Maometto II per fargli una proposta: se si fosse convertito al cristianesimo, gli avrebbe concesso l'investitura di imperatore. Ma, a parte questa spropositata considerazione di se, £ondata su pregiudizi teocratici aggravati dal narcisismo umanistico, Pio II, per mostrare la superiorita dell'occidente, porta in campo dati di fatto incontestabili, come un piu libero ricorso alla ragione per affrontare le questioni di fede e soprattutto un piu sicuro e piu continuo culto delle scienze. Se non propriamente riguardo al p_assato e al presente, il giudizio di Pio II valeva come anticipazione di cia che era imminente: il mondo occidentale stava per dare inizio alia sua straordinaria avventura scientifica, da cui avrebbe tratto un dinamismo creativo in ogni altro ambito del sapere e dell'agire. Nei suoi confronti, l'Islam sembrera un dinosauro imbalsamato. Ma prima dell'esplosione scientifica, e cioe durante il '400, !'ambito delle possibilita era presso a poco lo stesso per ambo le parti, la cristianita e l'Islam. Come scrive l'islamologo Gustave Grunebaum, «nel Quattrocento (e nel Cinquecento) il mondo cristiano e quello islamico vissero per un'ultima volta nello stesso universo delimitato da linee
408 0 13 · L'lslam nell'eta moderna di confine essenzialmente identiche nel campo del possibile, in senso fisico come in senso psicologico ... La penetrazione in nuove sfere del possibile, che nello stesso tempo trasformava il mondo del pressappoco in una precisione misurabile, e cio che in epoca moderna decise il sopravvento dell'occidente>>. A questa ragione di fondo, e cioe a! fatto che Ia rivoluzione scientifica sia accaduta in occidente invece che nell'Islam, che pure durante il nostro medioevo aveva esercitato un certo primato nel campo delle matematiche, delle scienze naturali e della medicina, altre ragioni si aggiungono per spiegare il crescente divario tra i due mondi. Come dirnenticare chela scoperta dell'America sposto l'asse delle attivita economiche dal Mediterraneo all'Atlantico? I paesi della Umma divennero sempre piu marginali. Agli effetti negativi di questo spiazzamento si sommino quelli della frattura, interna alia Umma, tra un'area a predominio arabo e un'area a predominio persiano: la prima comprendente tutti i paesi di lingua araba, come l'Asia minore a ovest dei Due Fiumi, }'Africa settentrionale e la Spagna, ormai rientrata nella sfera dei Re cattolici; la seconda, l'antico Iran, i Turchi, i Mongoli islamizzati, }'India musulmana. Mancando ormai l'autorita suprema del Califfo (la carica fu attribuita nel 1517 al sultano di Bisanzio, rna non ebbe piu valore effettivo), la frattura interna si consolido sopratutto dal momento in cui la dinastia dei Safavidi, in Iran (1500-1722), ravvivo il culto degli Imam e Ia devozione ad All, tratti distintivi degli sciiti (1.9.13), considerati eretici dai seguaci della sunna (sunniti), e cioe della tradizione risalente allo stesso Maometto. Gli sciiti ritenevano chc Ia funzione di guida fra i musulmani toccasse al genero di Maometto, Ali, e ai suoi discendenti, il dodicesimo dei quali (ecco perche si parla di sciiti duodecimani), a loro giudizio, non era morto, rna soltanto scomparso per tornare come madhi, cioe come messia. La dinastia dei Safavidi, specialmente con Abbas il Grande (1587-1629), favon in ogni modo !'incremento della cultura, attrezzando a tale scopo di non poche strutture la capitale Isfahan, che divenne anche centro di una scuola filosofica di cui dovremo subito occuparci. La vita dell'Islam in questo periodo e dunque polarizzata da Bisanzio e dall'Iran: l'impero ottomano, con capitale Istambul, terrorizza !'Europa con incursioni che arrivano in Ungheria (1526) e perfino a Vienna (1687); !'Iran, tagliato fuori da contatti vivi con !'Europa, svolge tuttavia, sotto il regno sciita, una sua funzione culturale non indegna dell'antico splendore. 13.2. II ripiegamento esoterico. Come si e ampiamente mostrato nel I volume, quella che nelle nostre sistemazioni storiografiche noi chiamiamo filosofia musulmana, o anche piu semplicemente (e piu impropriamente) filosofia araba, non e che un episodio marginale nella complessa storia del pensiero islamico. Precisamente, e l'episodio dell'incidenza di Platone, rna soprattutto di Aristotele, iq alcuni pensatori dell'Islam, importanti fra tutti Avicenna e Averroe, detti dai loro correlegionari falasifa (1.10.10), con un termine evidentemente importato dalla lingua greca. Con la morte di Averroe (1198), l'episodio si chiude e il pensiero islamico, per opera soprattutto di Ibn Arabi (1.11.16) e Suhrawardi (1.12.18), rientra nell'asse suo proprio, che e quello centrato sui Libro sacro, il Corano. La diversita di orientamento fra le varie famiglie filosofiche e teologi-
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che, si misura, nell'Islam, sui loro modo di raccordarsi con il Libro sacro. I sunniti, ad esempio, e cioe la tendenza largamente maggioritaria nell'Islam, si rifanno direttamente al Libro sacro e aile regole di comportamento derivate per tradizione dal profeta. Gli sciiti invece, a parte la loro origine che li lega ad Ali, si differenziano dai sunniti perche ritengono che la veridt del Corano e una verita nascosta e non puo essere conosciuta senza la guida di un Imam, il cui tratto caratteristico e la walaya, e cioe l'amicizia di Dio, che lo rende capace di continuare la funzione della profezia. La conoscenza della verita e dunque esoterica, riservata a coloro che ne fanno esperienza interiore. In questo caso, gli sciiti sono molto affini ai sufi (!.9.13), e cioe ai monaci che, non di rado in comunita isolate, trasformano la. fede islamica in una rigorosa esperienza mistica. Anche nel periodo che corrisponde, ·nella nostra periodizzazione occidentale, all'eta moderna, sono tre le tendenze di pensiero che, con maggiore o minore fecondita, animano la meditazione e la riflessione filosofica dell'Islam: l.Il pensiero sunnita; 2. il sufismo; 3. il pensiero sciita, in questo periodo particolarmente fecondo. Nel loro contrapporsi l'una all'altra o nel loro intrecciarsi. queste tendenze disegnano un ventaglio di posizioni che vanno dal proseguimento tranquillo e piuttosto pedissequo della scolastica sunnita, cioe del Kalam (che vuol dire 'discorso', 'ragionamento'), fino alle identificazioni esoteriche della conoscenza con l'esperienza interiore, da custodire nella sua totale ineffabilita. Man mano che ci si sposta da un rapporto col Corano basato sulla ragione verso un rapporto basato sulla fusione mistica, si passa dalla teologia alla teosofia, dalla filosofia della storia a quella che Henri Corbin chiama storiosofia, e cioe conoscenza dei fatti storici non nel loro significato fenomenico, da vagliare con la ragione, rna nel loro significato simbolico, in quanto essi rimandano ad altro, e cioe all'azione di Dio. Usando un'immagine cara alla tradizione mistica dell'islamismo, nelle tendenze di tipo sapienziale (teosofia, storiosofia) l'uomo e visto come immagine di Dio, anzi come 'specchio' in cui si riflette la luce di Dio. Dal termine speculum deriva anche quello di speculazione; ebbene, nel Kalam la speculazione e, secondo un'accezione del termine ormai comune, una indagine discorsiva che l'uomo fa su Dio e su ogni altro tema di ricerca, rna nel linguaggio dei sufi e degli sciiti la vera speculazione e quella che si ha quando la luce divina si rifrange nello specchio umano. Essa e, dunque, una conoscenza esoterka, non diversa da quella che la gnosi, all'interno delle piu diverse giurisdizioni religiose, ha sempre contrapposto alla conoscenza concettuale e a quella immaginativa propria della massa. L'elemento gnostico ha stabilito non pochi intrecci tra sufismo e sciismo, intrecci che non e possibile districare, perche faceva parte della consegna esoterica tenere nascoste al gran pubblico le reali convinzioni e le appartenenze a questa o quella comunita. Nei tre secoli di cui stiamo tracciando il panorama, e proprio nell'area esoterica che 1'Islam mostra una qualche fecondita: accerchiato dalla crescente egemonia della cultura occidentale, il pensiero musulmano ritrova nell'Iran i richiami dell'anima contemplativa della tradizione e i supporti, anche geografici, di un ripiegamento su se stesso senza piu il gravame delle cure politiche e militari, sempre di piu monopolizzate dall'impero ottomano.
410 0 13- L'/slam nell'eta moderna 13.3. La scuola di Isfahan. Sadra Shirazi. Distrutta da Tarnerlano nel 1388, Isfahan, l'antica Apadara di Tolomeo, in Iran, fu ricostruita dai Safavidi che ne fecero la capitale della Persia. Raggiunse il suo massimo splendore con Abbas I il Grande, che non solo ricompose l'unita politica dell'Iran, rna fece della sua capitale, con 600.000 abitanti, un centro culturale di grande richiamo. Fu ad Isfahan che si formo Ia scuola filosofica piu importante dell'Islam moderno. L'orientamento caratteristico della scuola sciita di Isfahan sta nella sostituzione della metafisica dell'essenza con una metafisica dell'esistenza, nel senso che viene data priorita, come aveva fatto in occidente Tommaso d'Aquino, all'atto di esistere. Questa spostamento dell'asse metafisico dall'immutabilita delle essenze alia dinamica dell'esistere viene espresso e svolto in una grande varieta di posizioni, il cui comune denominatore e, appunto, l'aderenza ai moti concreti della storia, con quella sintesi tra particolare e universale che sara il fulcra delle storiografie idealistiche occidentali. Ma in oriente Ia comprensione della storia non si da secondo le proposte anticipatrici di Ibn Khaldun (1.12.17), cosi lucidamente Iaiche, rna secondo l'ispirazione sapienziale, cannessa con Ia dittatura dell'Iman, che sbocca, come si e detto, in una storiosofia. II primo maestro della scuola, sistemata nella Madras a Sadr, una specie di College dotato di un grande giardino, che e, a tutt'oggi, sia pure senza l'antico prestigio, la sede della 'scuola di Isfahan', fu Mir Damad (m. 1631), che gli alunni chiarnavano il 'terzo maestro' (la tradizione chiarnava Aristotele magister primus e al-Farabi magister secundus), un peripatetico su cui molto influi tuttavia il pensiero di Suhrawardi e che molto si occupo di esperienze mistiche. Fu lui a porre per primo la questione che stara al centro del dibattito della scuola: tra il mondo che e ab aeterno e cio che avviene nel tempo, si da l'idea eterna di cio che avviene nel tempo? una idea immutabile dell'evento nuovo? Accanto a Mir Damad insegno a Isfahan Mir Fendereski (m. 1640), anche lui peripatetico, a cui va soprattutto il merito d'aver incentivato lo scambio culturale tra l'Iran e l'India, con la traduzione di testi sanscriti in persiano. Nella scuola di Isfahan, le esplorazioni nelle culture non islamiche erano di regola. Non si dimentichi che la dottrina centrale dello sciismo, e cioe quella del ritorno dell'Imam, alimentava una tensione escatologica del tutto omogenea all'antico insegnamento di Zaratustra (1.1.24), mai del tutto estinto in Iran. Il pensatore che conduce a sintesi i contributi di maestri cosi diversi, e svolge, in un discorso suo fortemente originale, i fermenti piu vivi della scuola di Isfahan e Molla Sadra Shirazi (1572-1640), senza dubbio il piu importante filosofo dell'Iran dell'eta moderna, le cui opere, specie I quattro viaggi dello spiriLV {mille pagine in-lulw!), sunu ancora uggi oggettu di commento. Come lui stesso racconta, la sua ricerca filosofica divenne percezione intuitiva, visione diretta, durante dodici anni di ritiro nel deserto, alia maniera dei sufi. Della smisurata problematica affrontata da Sadra Shirazi, possiamo isolare alcune tesi, quelle che meglio ne riflettono l'originalita. 1. La prima riguarda il primato dell'esistenza sull'essenza: tema trattato con profondita dal maestro, Mir Damad. Non ci sono essenze immutabili, dato che ogni essenza e determinata e variabile in funzione del suo atto d'esistere. Ci sono tre livelli diversi di esistenza: quello del mondo sensibile; quello del 'mondo immaginale' (su questa punto Sadra dipende da Suhrawardi); quello del-
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le pure intelligenze. In base a questa ontologia gerarchica, l'immaginazione non e una facolta sensitiva, e percio non e mortale come lo e l'organismo sensibile. E come un sottile involucra dell'anima. Si sa l'importanza che Ia tradizione avicenniana aveva attribuito a questa immaginazione nelle funzioni profetiche. 2. L'universo delle essenze, proprio a causa di questi diversi gradi di essere, e un universo in perenne mutarnento, percorso da una specie di profonda inquietudine, che trova il suo vero senso nella trasformazione ascensionale, le cui tappe vanno dalla materia inorganica fino alia 'soglia' uomo, il quale, appunto, non e l'approdo ultimo dello slancio ascendente delle essenze, rna una soglia oltre la quale l'ascensione continua. 3. Essendo costituito di corpo, anima e spirito, l'uomo conosce tre diversi gradi di ascensione: questa mondo, l'intermondo, l'oltremondo. La nascita e una 'resurrezione' dell'uomo al mondo sensibile; la morte e Ia seconda resurrezione, nella quale !'anima entra nell'intermondo; la resurrezione maggiore, quella riservata all'uomo spirituale, introduce nell'oltremondo. 4. Anche il processo conoscitivo avviene in tre gradi, che corrispondono alIa scala ontologica appena descritta. I gradi sono: Ia sensazione, l'immaginazione, l'intelletto. 5. Di grande ricchezza e Ia dottrina sadriana della 'presenza'. ll grado di esistere e, nell'uomo, funzione del grado di presenza a se stesso, come dire noh solo a questa mondo terreno rna anche ai mondi che sono al di Ia della morte. Essere presente vuol dire non solo che uno e presente a una cosa, rna anche che la cosa e presente a causa di colui che le e presente. Insomma, la presenza ha una struttura di reciprocita. Qui si innesta la dottrina teologica dell'Imam: l'Imam e, nello stesso tempo, la presenza di Dio agli uomini e la presenza degli uomini a Dio. Questa dottrina dimostra che la tesi sciita dell'Imam (l'imamologia) non si basa tanto su genealogie storiche, quanta su di una struttura ontologica dell'atto di esistere, cioe dell'atto di presenza. I discepoli di Sadra Shirazi, dei quali il piu importante fu Rajah All Tabrizi (m. 1679), svilupparono,.con maggiore o minore originalita, l'insegnamento del maestro, rna la scuola di Isfahan ando verso un declino che divenne catastrofe nel 1772, quando la citta fu assediata, occupata e messa a ferro e fuoco dagli Afgani. L'occupazione afgana duro pochi anni, rna il ruolo di focolare culturale dell'Iran passo, sui finire del '700, a Teheran. E intanto qualcosa andava mutande> nei rapporti tra l'impero ottomano e l'occidente. Il tempo in cui Isfahan restO- occupata dagli Afgani e ricordato, nella storia dell'impero ottomano, come il periodo dei tulipani (1717-1730), per la mania che !'alta societa turca ebbe per i tulipani olandesi. Ma gli scambi con l'occidente non si limitarono all 'importazione di fiori. Nel 1727 un ungherese divenuto musulmano ottenne il permesso di stampare i libri dell'impero ottomano. La parete era caduta. La storia culturale dell'Islam, con l'introduzione della tecnica, diventa un capitola di una storia piu vasta, quella dell'espansione colonialistica dell'occidente.
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L'India nell'eta moderna 13.4. L'impero dei Mogol. Akbar. La storia politica dell'India, a partire dal sultanato di Delhi (1226-1398) e soprattutto dalla instaurazione dell'impero dei Mogol, nel 1526, fino all'occupazione del Bengala (1757) da parte della East India Company, potrebbe anche considerarsi, per certi versi, come un capitolo della storia dell'Islam. I sultani di Delhi si limitarono a dominare l'India col terrore e con le vessazioni fiscali, senza vera incidenza nella societa indu. Le cose cambiarono quando il turco Babur, discendente da Gengis Kan, con un esercito di turchi e di mongoli di fede musulmana, sbaraglio a Panipat, nel 1526, una coalizione di principi indiani e dette inizio al suo regno, che venne detto dei Mogol o Mogul (deformazione di Mongolo), anzi dei 'Gran' Mogol, per la munificenza che la dinastia raggiunse con Akbar (1542-1605), il vero costruttore dell'impero. Gia durante la sua vita, il suo nome correva in Europa con un alone di leggenda, a opera dei portoghesi che, da tempo installati a Goa, avevano ottenuto da lui il monopolio del commercio marittimo. Sebbene avesse costruito l'unita indiana attraverso guerre di conquista incredibilmente spietate e sebbene non sapesse ne leggere ne scrivere, egli e passato alia storia, alla pari del re buddista Asoka (I.6.21), non solo come sovrano dotato di straordinarie capacita organizzative (la struttura amministrativa che egli dette all'India duro per almeno un secolo dopo la sua morte) e di un singolare spirito di tolleranza, che lo rese odioso ai suoi correligionari, i musulmani (e ai missionari gesuiti, che in certi casi emulavano i musulmani nel fanatismo), rna come un filosofo e un mistico di profonda ispirazione. Un filosofo-re, e per di piu analfabeta, costituisce una tale anomalia che gia per questo merita la nostra attenzione. Oltretutto, l'evento, nella sua eccezionalita, traduce gli aspetti migliori dello spirito dell'India moderna, che difatti, sebbene Akbar fosse di altra razza e di altra provenienza religiosa, lo ha sempre considerato come uno dei suoi grandi modelli. A Kabul, prima delle sue imprese militari, Akbar aveva avuto contatto con i monaci sufi, movimento esoterico dell'islamismo ad alta tensione mistica, e in seguito, venuto a conoscenza, anche tramite le sue mogli indiane, del misticismo di ispirazione vedantica, aveva concepito l'idea che sotto le diverse forme religiose ci fosse una verita comune molto pili importante delle differenze. I musulmani dell'ambiente indiano, di obbedienza sunnita e cioe tradizionalisti, lo consideravano un traditore, rna in realta egli rimase sempre fedele al Corano, sia pure secondo l'interpretazione spiritualistica dei sufi. Raccolse una ricca biblioteca ed ebbe come ospiti permanenti molti filosofi, poeti e maestri di spirito, dai quali si faceva leggere, affidandosi a una sorprendente memoria, le opere classiche piu importanti. E cosl. sviluppo la sua intuizione universalistica in una sua religione di tipo eclettico, denominata Din-1-Ilahi (che potremmo tradurre con 'fede divina'), nella quale si ritrovavano armonizzate le verita fondamentali delle religioni da lui conosciute, a cominciare dal culto di Zaratustra per il sole. In questa sua impresa dottrinale non lo aiutarono soltanto i libri che si faceva leggere. In un 'tempio delle religioni', fatto appositamente costruire, egli era solito convocare teologi di ogni confessione, brahmani, mullah e gesuiti, per discutere con loro problemi di fi-
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losofia e di teologia, rna ben presto fu preso da sgomento per la loro angustia e litigiosita. AI suo sgomento fece riscontro l'irritazione risentita dei musulmani e dei gesuiti, che si erano riproposti di convertirlo. E vero che la 'fede divina', di cui egli era maestro, ebbe seguaci soltanto nell'ambito della sua corte e praticamente mori con lui, rna la sua magnanimita e la sua lungimiranza, affidate alla sua immagine mitica, hanno sicuramente iriciso nella storia spirituale dell 'India. Ai tempi dei Mogol, l'India, uscita da tempo dalla sua fase creativa, si era ripiegata in una religiosita ritualistica, dalle folte vegetazioni superstiziose, o nello sviluppo della bakti e cioe della devozione dominata dal sentimento. Una ragione di questo declino speculativo e da ricercare nel venir meno degli stimoli dialettici dopo che il buddismo era praticamente scomparso dalla penisola, per rifugiarsi e rinnovarsi in Cina e in Giappone, e dopo che la presenza dei nuovi dominatori, i musulmani, per lo pili sunniti, intenti all'esercizio del potere e allo sfruttamento, aveva costretto l'induismo a vivere appartato o immerso nella fede delle masse, di loro natura indifferenti aile speculazioni teoriche. I pensatori di cui stiamo per occuparci risentono di questo clima. 13.5. Tra induismo e islamismo. Il tentativo di Akbar non era isolato. Nel crogiuolo della religiosita popolare indiana la fusione delle due fedi, l'induista e l'islamica, era gia avvenuta per opera di due mistici la cui esperienza sconvolgente si pone al di fuori di ogni preciso confine confessionale. Il primo di essi, Kabir (1440-1418), pur essendo anche lui un illetterato, e ritenuto uno dei pili grandi lirici indiani, anzi il padre della letteratura hindi, come Lutero lo fu di quella tedesca. Era un povero tessitore di Benares, la citta santa dell'induismo. Di origine musulmana, come rivela il suo nome, rna accostatosi in seguito al vishnuismo di tendenza nirguna (da nir, prefisso negativo, e guna, qualita, attributo: tendenza ad adorare un Dio senza nessun attributo, che trascende ogni forma), Kabir e pili affine alia mistica sufi e al devozionalismo vishnuita (egli chiama Dio, di preferenza, col nome Ram) che non aile tradizioni ortodosse dell'Islam e dell'induismo. L'unicita assoluta di Dio, al di la dei nomi e delle forme attribuitigli dall'uomo, il primato della contemplazione e dello slancio devoto come via per l'esperienza del divino, inconoscibile razionalmente, sono i temi ricorrenti del suo pensiero, espresso in ardenti composizioni poetiche, che, trasmesse oralmente, vennero raccolte, in seguito, in tre distinte compilazioni e iinalmente edite in edizione critica, nel 1965. Il linguaggio di Kabir, che e mistico e poetico, resta concettualmente ambiguo nei suoi punti chiave, come il rapporto tra !'anima individuale e il Brahman e come la trascendenza e l'immanenza di Dio in rapporto al mondo. «Io sono divenuto folie e lamia anima si e disciolta nell'Assoluto», dichiarava Kabir. Mala sua follia mistica ha delle costanti dal significato molto preciso. Ad esempio, il suo rigetto, non di rado ironico, di ogni 'Scrittura', si tratti dei Veda o del Corano («a forza di leggere e di leggere, il mondo e morto e nessuno e diventato sapiente>>), o la sua condanna, anch'essa per lo pili sarcastica, contro ogni ritualismo. Ecco due frecce della sua faretra, una contro le pratiche musulmane, l'altra contro queUe brahmaniche:
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I~
414 D 13- L'lndia nell'eta moderna Se Dio voleva circoncidermi, non poteva farlo lui stesso? Se ripetendo Ram il mondo e salvo allora ripetendo 'zucchero' Ia bocca e zuccherata?
Per Kabir, l'unico maestro e quello interiore e l'unica rivelazione e la Parola silenziosa con cui il Maestro, arciere infallibile, trafigge l'anima nelle sue profondita. Solo allora si accende la conoscenza, che conduce di la da ogni percezione distinta e abolisce in un sol colpo ogni dualismo:
e vuotata, l'olio si e esaurito II tamburino tace, il danzatore dorme II fuoco e spento, nessun fumo si leva. L'anima si e assorbita nell 'Unico e non vi e piu dualita.
La lampada si
Due temi arricchiscono di vibrazioni esistenziali, sia pure in funzione metaforica, un cosi assoluto fervore mistico: la morte e l'amore. Il mondo e, agli occhi di Kabir, un immenso regno della Morte, un regno che egli descrive come una gigantesca altalena: Miriadi di esseri viventi oscillano mentre Ia Morte medita. Milioni di eta sono passati e mai essa ha subito una sconfitta!
L'unico metodo per vincere la morte e la 'morte vivente' («se io brucio la casa essa e salva, se la preservo essa e perduta»), e cioe lo svuotamento di se, condizione prima per quella contemplazione mistica che rende il discepolo una sola cosa con l'Altro, l'Assoluto. II discepolo era Ia ed teggiamento.
e scomparso:
solo le ceneri conservano il loro at-
Ciascun uomo e solo, nell'immenso ciclo delle trasmigrazioni, e deve da solo affrontare il suo destino. Puo affrontarlo, vincendo la legge del ciclo, solo se vive cosi come la sposa (nel costume indu il patto di matrimonio si celebrava anche nella primissima infanzia) attende la venuta dello Sposo. Essa trema, essa trema Ia mia piccola anima: io non so quel che il mio sposo fara di me ...
Un messaggio di tale intensita, ed espresso con immagini cosi calde, non poteva non guadagnare a Kabir molti seguaci, specie negli strati sociali piu umili a cui il tessitore-poeta apparteneva. E furono i Kabir-panthis ('coloro che seguono la via di Kabir') a raccogliere e trasmettere gran parte dei suoi poemi, che hanno arricchito di una vena di squisita liricita la tradizione filosofica indiana. Qualche incrocio con la 'via dei seguaci di Kabir' ebbe quella contemporanea dei sikh (discepoli), un movimento nato dall'insegnamento del guru Nanak
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(1469-1538), vissuto in quella parte del Punjab che ai nostri tempi doveva diventare il Pakistan. II movimento si sviluppo ad opera di una serie di dieci guru, l'ultimo dei quali, Govind Singh (1675-1708), impresse ai sikh quel carattere marziale (nel rita iniziatico si consegnava ai discepoli, uomini e donne, anche una spada) che ha segnato in piu momenti il destino dell'India. Indira Gandhi e stata uccisa nel 1984 da un sikh. Ma Govind Singh si occupo anche di redigere una raccolta unitaria, detta Adigranth, delle poesie di-Nanak e degli al- · tri ~uru, le sue comprese (in tutto ben 5894), che costituiscono ancora oggi il testa sacra dei sikh. Anche la dottrina di Nanak (che di origine era induista) e dei suoi seguaci e rigidamente monoteistica, con una oscillazione, che abbiamo vista anche in Kabir, tra le affermazioni della trascendenza di Dio e quelle della sua immanenza:
Tu hai migliaia di occhi, rna nessun occhio e tuo. Tu hai migliaia di forme, rna nessuna forma e tua. Tu hai migliaia di piedi, rna nessun piede e tuo. Senza alcun naso che sia tuo, Tu hai migliaia di nasi. Questo tuo gioco mi ha stregato! Per sottrarsi ai rischi di questa 'gioco di Dio', Nanak preferisce nominarlo col numerale 1: le parole sono ambigue, i numeri no. Del resto i nomi non importano: «credi in un'unica realta eterna e chiamala Dio, Allah o Rama». La componente islamica della fede sikh appare soprattutto nella insistenza sui rapporto tra Dio e mondo, che e di creazione, anche se si tratta di una creazione ripetuta infinite vulte, cus1 come iniinita e la serie dei cicli dell'universo. Ma come Dio e reale, cosi cio che Egli ha creato e reale. L'induismo, invece, torna in prima piano con la dottrina del samsara, dalla quale Nanak deriva, sviluppando il principia del karman, cioe della sedimentazione delle azioni umane, buone e cattive, una singolare visione dell'ego. L'ego e una malattia profondamente radicata ... le azioni basate sull'ego divengono un nodo scorsoio intorno alla nostra gola. Noi aderiamo al 'mio' e circondiamo di trappole i nostri piedi.
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L'uscita dalla prigionia del karman e possibile solo se si incontra un guru che, pur essendo uomo come gli altri, e giunto all'ultimo anello della catena delle trasmigrazioni. L'obbedienza al guru e obbedienza a Dio, anzi, il guru e il luogo della manifestazione di Dio. Mettendosi aile dipendenze del guru, il discepolo si libera totalmente dall 'ego ed esprime questa liberta nella dedizione al lavoro e nell'amore senza limiti peril prossimo. La combinazione tra totale spoliazione di se e to tale obbedienza al guru spiega in parte l 'impronta rigidamente militare, da puritani di Cromwell, che contraddistingue ancora oggi i discepoli di Nanak, che sono all 'incirca dieci milioni. 13.6. La terza fase del Vedanta: Vlllabha. Presso a poco nella stesso periodo in cui fiorirono, nella linea d'incontro tra islamismo e induismo, i poetifilosofi Kabir e Nanak, riprese vigore la scuola del Vedanta, su cui gravava,
416 0 13- L'lndia nell'eta moderna come inevitabile punta di riferimento, l'autorita del massimo filosofo induista, Shankara (!.9.15.). Quella del Vedanta era una delle sei scuole ortodsse (darsana) nate in epoca classica (!.7.26.) ed aveva come suo quadro di riflessione i temi metafisici dei libri vedici, e in particolare il tema dei rapporti tra brahman e at man, tra I 'anima universale e I 'anima individuale, che nelle Upanishad erano poste in piena equazione. Di qui la distinzione, all'interno del Vedanta, tra il dualismo (dvaita) e il non dualismo o monismo (advaita). II non dualismo pi.u rigoroso e quello di Shankara che, accogliendo in qualche modo il nichilismo dei buddhisti, poneva una totale identita tra Dio e il mondo, riducendo a pura illusione. dovuta all'ignoranza (avidva), Ia sfera dell'esperienza sensihile. Quattro secoli dopo, Ramanuja e Madhva (1.10.16), in opposizione a Shankara (Madhva lo accusava di essere un demonio ingannatore), avviarono Ia seconda fase del Vedanta, ispirata da una pro fonda devozione (bakti), nell 'in ten to di ristabilire il dualismo tra il Brahman e !'anima individuale. Ebbe cosi inizio il Vedanta vishnuita, nel quale vennero riconosciuti aile anime individuali come tali una esistenza e un destino eterno e il Brahman fu identificato con Vishnu, il Signore beato e misericordioso dalla cui grazia dipende Ia liberazione delle anime. II ritorno al non-dualismo di Shankara si ebbe con Villabha (1479-1531), predicatore e scrittore instancabile, di formazione vishnuita, attorno al quale nacque una scuola che sopravvive anche oggi. Viene detta Ia scuola del 'nondualismo puro', perche nega qualsiasi dualita tra il creatore e il cosmo, in quanta il Brahman e insieme realta trascenJente e unmanente, causa dticiente e materiale di tutto cia che esiste, e tuttavia, pur dispiegandosi nel cosmo, resta 'puro', non viene cioe contaminato dall'azione della maya. II mondo dunque non e, come voleva Shankara, pura illusione, e Ia volontaria manifestazione di Dio. A sorreggere questa sua testimonianza, Villabha chiama in causa i libri sacri, che invece Shankara subordinava alla ragione, e i libri sacri ci descrivono il Brahman sotto tre diverse forme: come principia supremo, trascendente e personale, identificato con Krishna; come principia cosmico, impersonale, che origina sia il mondo fisico, sia le anime; come essenza spirituale, che governa, risolvendo in se ogni contraddizione, tutto ·cia che esiste e si muove nel tempo e nello spazio. Molte di queste tesi le ritn)\'eremo, naturalmente in un quadro razionale molto diverso, nell'idealismo tedesco e in particolare nella dottrina di Friedrich Schelling sull'Indistinto (III.1.12), che in se risolve la dualita tra Natura e Spirito. Anche per Villabha, le anime e il mondo materiale sono della stessa essenza del Brahman, perche si identihcano con Ia sua autocreazione, in cui dunque \'anno distinti il supremo principio, di per se puro e indiviso, e il suo Se, e cioe Ia molteplicita del creato materiale e spirituale che egli emana e riassorbe, per il puro piacere del proprio gioco (lila). esprimendo in tal modo l'infinito potere della propria liberta. Il creato in quanta tale e dunque reale, e non un frutto illusorio della maya, Ia quale si limita a distorcere Ia percezione che del mondo hanno le singole anime, prigioniere dell'ignoranza, e percia incapaci di scorgere, al di la della molteplicita, il suo comune fondamento. La differenza tra il Dio supremo e il Dio creato consiste nel fatto che, mentre il primo possiede
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tutti gli attributi possibili, anche quelli contraddittorii, il secondo ne possiede solo alcuni e in modo parziale. II Dio supremo inchiude in se tre attributi fondamentali: l'essere (sat), Ia coscienza (cit) e Ia beatitudine (ananda), ed e per questa che nella tradizione vedantica viene detto Satcitananda. Nel generare da se stesso il mondo materiale, Egli ha volontariamente offuscato gli attributi della beatitudine e della coscienza, lasciando solo quello dell 'essere (sat), mentre nell 'em an are da se le anime ha preservato intatti in esse gli attributi di coscienza (cit) e di esistenza (sat), offuscando quello di beatitudine (ananda). Una volta raggiunto lo stato di suprema purezza, le anime ritrovano anche Ia beatitudine e diventano percio, in tutto e per. tutto, identiche all'essenza divina. Ma come raggiungere Ia totale liberazione? Oltre che Ia facolta di oscurare nelle anime Ia· beatitudine, Dio ha quella di donarla ]oro in misura sconfinata, a condizione che esse si rivolgano a Lui e lo amino incondizionatamente. La grazia divina si pub ottenere soltanto con questa assoluta devozione (bakti). Si danno, percio, diverse classi di anime, a secunda del livello di perfezione che riescunu a raggiungere: 1. quelle che si muovono senza meta nel mondo, seguendo gli impulsi delle passioni e senza mai pensare a Dio: sono Ia 'corrente del mondo', del tutto soggetta aile leggi del samsara; 2. quelle che, studiando le Scritture, ottengono una relativa conoscenza dell'essenza di l>iu e, osservandu le regale dei riti, lu aduranu in modo corretto: esse otterranno una provvisoria Jiberazione, per rientrare poi nel circolo delle reincarnazioni; 3. quelle che adorano Dio col massimo ardore e percio ricevono Ia sua grazie e alh1 morte ottengono una liberazione immediata e definiti\'a . .In Villabha si armonizzano, in qualche modo, la severa razionalita di Shankara e l'entusiasmo estatico di Ramanuja. Dopo di lui, il Vedanta non ebbe piu nessuna personalita creativa. 13.7. II vishnuismo bengalese: Caitanya. La corrente calda del devozionalismo, che aveva discioltGl, in Villabha, il monismo razionalistico shankariano in una proposta mistica dominata dalla Iegge del sentimento puro, prosperava, nelle estreme zone orientali dell 'India, in forme superstiziose e in abnormi combinazioni tra misticismo ed erotismo. Il Bengala era, da tempo, Ia roccaforte del vishnuismo, rna nell'epoca di cui stiamo trattando Ia tradizione vishnuita si era combinata con influssi del Tantrismo, che aveva dato, fra l'altro, sviluppi eccentrici al mito degli amori tra Krishna e Radha. Contra queste degenerazioni e allo scopo di mettere un argine aile sempre piu frequenti conversioni all'islamismo, specie negli strati sociali pili umili, i brahmani avevano stretto i freni, ristabilendo Ia rigida disciplina delle caste e polemizzando contra le deviazioni devozionali. Nella citta bengales~ di Navadvipa c'era una comunita vishnuita molto fervente, che resisteva ai nuovi indirizzi della disciplina brahmanica. In questa comunita fu maestro Caitanya (1485-1534). Egli non ha lasciato nulla di scritto, rna Ia sua dottrina ci e ampiamente nota grazie aile opere dei suoi seguaci. II suo luogo di insegnamento erano riunioni popolari in cui si alternavano i canti e le prediche e a cui partecipavano, senza distin-
418 0 13- L'lndia nell'eta moderna zione, donne e paria, brahmani e non-indu, soprattutto musulmani. II suo comportamento era stravagante: cadeva spesso in trance, esplodeva in accessi deliranti, non camminava se non danzando. Stravagante fu anche la sua morte: si annego in mare dinanzi ad un grande tempio vishnuita. 'Eretico' in tutto, dunque, e non solo nell'aprire le porte della sapienza aile donne e ai paria. Ma questa follia non era che un rifless.o della sua metafisica, un singolare innesto trail Vedanta e il vishnuismo, a cui si e dato il nome complicato di 'inconcepibile differenza differenziata'. E infatti la tesi di fondo della dottrina di Caitanya ('inconcepibile' perche non attingibile dal pensiero razionale) e che Dio, le anime e il mondo sono, nello stesso tempo, identici e diversi. L'intuizione di questa verita presuppone il dischiudersi nell'uomo di una superiore vista spirituale, che e il frutto di una corretta interpretazione delle sacre Scritture: soltanto i Veda, infatti, posseggono l'infallibile autorita circa la conoscenza del Brahman. Nella sua paradossale immanenza-trascendenza, l'assoluto si puo considerare, secondo Caitanya, sotto tre diversi punti di vista: 1. come assoluto impersonale e privo di qualita, fondamento metafisico di ogni essere (Brahman); 2. come supremo Se spirituale, che pervade ogni anima e ogni cosa (Paramatman); 3. come il Dio personale (Bhagavan), superiore ad ogni manifestazione dell'Assoluto: Caitanya lo identitica con Krishna. II Signore supremo, Krishna, manifesta se stesso tramite le sue 'potenze'(shakti), suddivise in tre principali categorie, a seconda che sono del tutto interne al principia divino, o a meta fra questo principia e il creato, oppure completamente proiettate nel creato. 1. La 'potenza della coscienza', del tutto intrinseca al principia divino, comprende, a sua volta, tre aspetti particolari, in corrispondenza con i tre attributi divini di cui abbiamo detto trattando di Villabha: l'essere (sat), la coscienza (cit) e la beatitudine (ananda); il primo, corrispondente all'essere, rappresenta l'essenza di Dio e il suo potere di conferire l'esistenza aile creature; il secondo, corrispondente alia coscienza, rappresenta l'onniscenza di Dio e il suo potere di conferire consapevolezza agli esseri; il terzo, corrispondente all a beatitudine, rappresenta Ia felicita di Dio e il suo potere di rendere felici gli esseri. 2. La 'potenza dell'anima vivente', che sta al confine tra Dio e il creato, genera le anime individuali. A causa della loro origine, queste ultime si trovano davanti a un bivio: possono, infatti, ascendere verso la piena e cosciente identita con JJw, uppure cadere nel completo oblio della propria origine divina e perdersi nelle tenebre del rnondo materiale. 3. La 'potenza della creazione magica' (maya) e completarnente esterna al principia divino trascendente, in quanto oggettivata nel mondo della molteplicita, di cui costituisce la causa materiale e strumentale. Per usare una nota metafora: se Dio e il vasaio, Ia 'potenza della creazione rnagica', cioe della maya, e insieme l'argilla e il tornio in cui si form"\ il vaso (= il mondo). La potenza della maya, dunque, si identifica con la natura materiale, col tempo e con la Iegge della causalita etica (karman) che presiede al ciclo delle rinascite. Nel grandioso quadro dell'universo, formato dall'eterno gioco delle potenze divine, le anime dipendono da Dio come le scintille dal fuoco e i raggi di luce dal sole. Immerse nel ciclo di nascita, morte e sofferenza (samsara), a causa dell'ignoranza che le fa illusoriamente apparire come tanti individui singoli e
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separati, le anime possono giungere alia liberazione soltanto col prendere coscienza- tramite i preliminari costituiti dalle buone opere e dalla conoscenza retta - della propria indivisibile connessione con Dio. La piu alta forma di pratica spirituale e, per Caitanya, la devozione (bhakti) a Krishna, dalla quale puo nascere quell'estasi suprema d'amore in cui l'individuo perde se stesso in una beatifica comunione con Dio. La metafora con cui Caitanya indica lo stato di suprema liberazione e quella delle pastorelle (gopi) che prendono parte ai mitici giochi di Krishna. L'anima del devoto si identifica con Radha, la pastorella che, rapita d'amore per Krishna, abbandona tutto per darsi completamente a lui, in una unione estatica nella quale essa e paradossalmente identica e diversa da Krishna, come identiche con lui e diverse da lui sono le sue tre potenze di cui abbiamo detto. La follia di cui Caitanya clava spettacolo nelle riunioni con i suoi discepoli era la stessa follia amorosa di Radha. 13.8. L'eclettismo. II declino del pensiero indiano. Nel panorama del pensiero indiana che abbiamo sommariamente tracciato, anche le menti piu vigorose, come quella di Villabha, obbediscono a un'esigenza sincretistica, come se, venuto meno lo slancio creativo, non resti che verificare la possibilita di ridurre a sintesi quanta nella tradizione si presentava con i tratti delle diversita. Si trattasse del Vedanta o della devozione vishnuita, o addirittura dell'induismo e dell'islamismo, il genio metafisico indiana, in questa fase di ripiegamento, tende a smussare i contrasti dialettici e a sottolineare i punti di contatto. Questa inclinazione sincretistica investe anche i rapporti interni delle sei scuole filosofiche classiche, tra le quali, da Shankara in poi, dominava il Vedanta. Come si e detto, l'incombenza minacciosa deli'Islam, che portava in prima piano, all'interno del mondo induista, le ragioni della bhakti, e l'allontanarsi del buddidismo dall'orizzonte indiana, che aveva tatto scomparire le provocazioni polemiche, concorrevano nell'incentivare, in seno aile scuole classiche, la ricerca della mutua comprensione sulla base di elementi comuni. restati nell'ombra ai tempi delle grandi dispute. Non e un caso che, nei secoli XVII e XVIII, prima del risveglio nell'eta coloniale (che sara un risveglio basato esclusivamente sulla riscoperta del Vedanta), le scuole filosofiche fossero in stato di letargo, lasciando libero campo allo spirito di devozione (bhaktz), che placa le inquietudini razionali col predominio del sentimento e dell'immaginazione. Un po' come era avvenuto in Grecia nell 'eta alessandrina, il declino dello slancio creativo alimenta il gusto della sistemazione enciclopedica e della armonizzazione eclettica delle diverse vie battute in precedenza dal pensiero speculativo. Il piu famoso fra gli eclettici che interpretarono, con questa spirito, i sei sistemi filosofici dell'ortodossia indu fu Vijana Bhiksu, un brahmano vissuto nel XVI secolo nella regione di Benares, che commento i sistemi filosofici (1.7 .26) disponendoli in una prospettiva evolutiva come gradini ascendenti di una visione sostanzialmente unitaria. La verita suprema, secondo Vijana Bhiksu, e compiutamente espressa soltanto dal Vedanta teista, cosi come compare nelle Upanishad, nella Bhagavad-Gita e nei Brahmasutra: oltre al supremo Dio Personale (identificato con Vishnu), fondamento di ogni essere, anche le anime individuali e il mondo materiale hanno esistenza effettiva e non illusoria. Jn
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questo contesto, il termine maya sta ad indicare non l'illusorieta del mondo differenziato (come nel Vedanta di Shankara) rna la natura primordiale, soggetta a continue trasformazioni. Secondo l'eclettismo sincretico di Vijana, non e da tutti cogliere nella sua pienezza questa verita, come dimostra la varieta e l'incompletezza dei sistemi filosofici che di quella verita hanno approfondito l'uno o l'altro aspetto, rna mai, come invece il Vedanta, la totalita. Come in occidente fara Hegel nella sua ricostruzione della storia della filosofia quale processo storico, e insieme logico, che solo nella sua filosofia dello Spirito trova il suo compimento, Vijana rivaluta i sistemi non vedantici come graduale approssimazione alia meta suprema. Cos!, ad esempio, le scuole nyaya e vaisheshika (nell'insegnamento brahmanico le due scu.ole venivano ridotte a una) hanno il pregio di aiutare il pensiero a distinguere il corpo materiale dall'anima spirituale, anche se attribuiscono a quest'ultima una serie di attivita mentali che, in realta, appartengono al mondo della materia. Un passo avanti e compiuto dalla filosofia samkhya, che nell'anima vede soltanto una pura coscienza passiva, Iibera da ogni attivita mentale, e su questo presupposto discrimina, con sottigliezza e profondita, lo spirito e la materia. Ma proprio per concentrarsi totalmente in questo compito, il samkhya trascura completamente di menzionare l'esistenza di Dio. Questa unilateralita, che ha fatto ritenere il samkhya come un sistema ateo, trova la sua integrazione e il suo riscatto nel Vedanta teista, in cui la centralita di un Dio supremo fa compiutamente brillare la luce della verita assoluta al di la delle formulazioni parziali. ·
L'Estremo Oriente nell'eta moderna 13.9. Sviluppi della 'Scuola deilo Spirito universale'. Mentre nell'Europa stava avviandosi a fioritura l'eta della scolastica, e cioe nel sec. XII, in Cina era nel vivo il dibattito tra le due scuole confuciane (I. 11.18), quella a tendenza materialistica, detta dei 'Prindpi universali', e quella detta dello 'Spirito universale', a tendenza idealistica. Secondo la prima, si da una netta differenziazione tra i prindpi universali (li) e la natura, intesa come natura naturans (ch'i), come energia che pervade tutte le cose. Sulla base di questa distinzione, si puo ulteriormente distinguere, nell'uomo, una natura umana (hsing), che rientra nella sfera dei principi universali, e quindi e di per se buona, e la coscienza (hsin), che risulta dall'incontro tra i prindpi (li) e l'energia universale (ch 'i), e pertanto puo essere buona o cattiva. Era la posizione difesa in quel periodo da Chu Hsi (I, 12.20-23), il piu grande filosofo del neoconfucianesimo, che sarebbe diventato l'autorita somma per la Cina dei secoli successivi, fino all'inizio del nostro secolo. Le posizioni della scuola dello Spirito universale vennero difese, contro di lui, anche in pubblici dibattiti, da Lu Chu-yiian (1139-1193), accusato da Chu-
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Hsi di essere un buddista zen camuffato. Esse richiamano alla mente in modo irresistibile l'idealismo europeo dei primi del secolo scorso. Infatti, secondo Lu Chu-yiian, l'unica vera realta e lo Spirito (hsin), che abbraccia tutto l'universo e contiene in se i principi universali delle cose (li) come categorie soggettive attraverso cui crea, modella e conosce la realta. I principi non sono dunque intesi qui come forme a priori di ogni realta, sia fisica che mentale, rna come idee connaturate allo Spirito (o Coscienza) universale che tutto abbraccia. Tale Spirito e l'eterno creatore e sostenitore dei due diversi ordini di realta, quello universale incorporeo (li) e quello contingente corporeo (ch'i). Al dualismo ontologico della Scuola dei Principi universali - che, come si e appena ricordato, amm.ette due distinti ordini di realta, uno universale incorporeo (li) e uno contingente corporeo (ch 'i), dal cui intersecarsi nasce il campo della mente umana - viene contrapposto il monismo di un'unica realta, lo Spirito Universale (hsin), che ha connaturati in se sia i principi formali universali (li), sia il dispiegarsi materiale della sostanza-energia (ch'i). Ne consegue che per Lu Chu-yiian la pluralita delle menti individuali non ha reale esistenza: esiste solo lo Spirito Universale, unico e indiviso, che si rifrange in molteplici apparenze diverse, di consistenza meramente illusoria. Percio il cammino verso l'illuminazione non partira - come per Chu Hsi - dall'investigazione delle singole cose, classificate secondo categorie diverse, rna implichera una progressiva presa di coscienza della natura illusoria di qualsiasi individuazione contingente, fino a risalire verso la sorgente unica di ogni manifestazione fenomenica, verso il Grande Spirito Universale che tutto contiene in se, sfondo immoto di ogni realta. Scrive Lu Chu-yiian: Lo Spirito e solo Uno. Il mio spirito, quello del mio amico o quello di un saggio di mille generazioni fa (... ) tutti sono soltanto uno (... ). Se posso sviluppare completamente il mio spirito, vengo percio ad identificarmi con il cielo (...). Concentriamo il nostro spirito e agiamo da padroni di noi stessi. Dacche 'tutte le cose sono complete dentro di noi', che cosa mai ci potra mancare? Quando sia tempo per compassione, manifesteremo spontaneamente compassione; quando sia tempo per vergogna (... ), manifesteremo spontaneamente vergogna; (...) quando sia tempo per dolcezza (... ) manifesteremo spontaneamente dolcezza; quando sia tempo per forza, (... ) manifesteremo spontaneamente forza.
Percorrere la via della saggezza significa dunque, per Lu Chu-yiian, trascen-. dere gli strati superficiali della illusoria mente individuale (con i suoi desideri e le sue paure) per calarsi nelle profondita dello Spirito Universale indiviso, che e uno e tutto allo stesso tempo, fonte perenne di ogni realta visibile e invisibile, lasciando poi che le azioni quotidiane si facciano veicolo di questa intelligenza originaria ed eterna. 13.10. L'idealismo di Wang Shou-jim. Dopo il sec. XII, a differenza della Scuola dei Principi uniyersali - che con la grande sistematizzazione di Chu Hsi si era cristallizzata in una struttura immutabile, rappresentante dell'ortodossia ufficiale - la Scuola dello Spirito universale aveva invece continuato a -
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422 D 13- L'Estremo Oriente nell'eta moderna evolversi liberamente, attraverso formulazioni originali che culminarono nel pensiero di Wang Shou-jen* (1472-1528). Secondo la visione filosofica di Wang, esiste un'unica indivisibile realta, costituita dall'universo nella sua globalita. Anche i li (ossia i principi universali astratti delle cose) vi sono contenuti, e non risiedono in un empireo a parte, come affermavano Chu Hsi e la Scuola dei Principi universali. Questa grande unita di tutte le cose e anche concepita come una mente cosmica universale, in cui soggetto e oggetto coincidono. Infatti, l'esperienza comune insegna che non puo esistere una coscienza di se senza la presenza di uno specifico contenuto di consapevolezza: quando c'e coscienza, si e sempre coscienti di qualcosa. D'altra parte, ogni oggetto per noi esiste soltanto quando ne siamo consapevoli, ossia quando entra nel campo della nostra coscienza. Quindi, coscienza e contenuto, soggetto e oggetto costituiscono due facce della stessa realta, che Wang Shou-jen vede come un grande Spirito universale, una coscienza cosmica capace di abbracciare ogni cosa. E scritto nella Raccolta delle lstruzioni: Mentre il Maestro era in vacanza a Nan-chen, uno dei nostri amici, indicando dei fiori e degli alberi su un picco, gli disse: - Tu affermi che sotto il cielo nulla esiste che sia estraneo allo Spirito. Ma quale rapporto c'e fra il
Wang Shou-jen, piit conosciuto col nome di Wang Yang-ming che gli dettero gli scolari, nasce nel 1472. In gioventit aderisce alia Scuola dei Principi Universali e, volendo sperimentare Ia validita dell'assunto secondo cui una qualsiasi cosa particolare, se investigata a fonda, dovrebbe rive/are non solo il proprio astratto principia universale (li), ma anche il Supremo Li comune a tutti gli esseri, tenta di contemplare illi di un bambit, senza pero ottenere alcun risultato. Abbandonata quindi la Scuola dei Principi Universali, dopa una maturazione speculativa, stimolata anche da incontri con esponenti del taoismo e del buddismo, giunge infine a elaborare un pensiero originale che si inserisce perfettamente - rinnovandola - nella tradizione della Scuola della Spirito universale. La maturazione filosofica di Wang Shou-jen culmina in una esperienza di illuminazione improvvisa, avvenuta di notte, in una regione selvaggia e montagnosa, dove egli era stato esiliato per motivi politici (1508). L'intuizione che lo illumina e questa: «Per attingere il Tao dei Saggi, la mia propria natura e sufficiente, ed e errata andare a cercare i li fuori di me in avvenimenti e case». A partire da questa germe speculativo, Wang Shou-jen elabora, negli anni successivi, una nuova sintesi originale della Scuola della Spirito Universale che ci e stata tramandata da opere come Questioni Relative al Grande lnsegnamento- attribuite a lui stesso- o Raccolta di Istruzioni - compilata da un suo discepolo. Alla morte di Wang, nel1529, l'imperatore proibisce di insegnare la sua dottrina perche sovversiva, ma cinquant'anni dopa le sue opere verranno deposte religiosamente, insieme a quelle di Chu Hsi, nel tempio di Confucio.
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mio spirito e questi fiori e alberi d'alta montagna, che da soli fioriscono e cadono? II Maestro rispose: - Quando non guardate questi fiori, essi e il vostro spirito sono in quiete; quando li guardate, il loro colore si fa d'un tratto evidente. Da questo fatto potete capire che quei fiori non sono estranei al vostro spirito (... )
Il fulcro germinale di tutto il sistema filosofico di Wang Shou-jen si puo sintetizzare nelle seguenti affermazioni tratte dalle sue opere: Nulla vie di estraneo allo Spirito o Coscienza; esso contiene i prindpi di tutte le cose, poiche i caratteri delle cose si rendono evidenti allorche vengono toccati dallo Spirito 0 coscienza. L'uomo e lo Spirito del Cielo, della terra e di tutte le cose; il suo spirito o coscienza e consapevolezza universale, dalla quale l'uomo si e separato a causa della sua forma corporea. Se non ci fosse lo spirito o coscienza, non ci sarebbero i li.
Questa ultima affermazione getta luce sui punto di maggiore divergenza tra le due scuole neo-confuciane. Per Chu Hsi e la Scuola dei Principi universali, i li trascendono la realta empirica, come le idee platoniche, sussistendo in una dimensione spirituale che costituisce la vera realta: la coscienza non e che un epifenomeno generato dall'interagire dei li con l'energia del mondo materiale (ch'i), e come tale deve la propria esistenza ai li, che la trascendono. Per Wang Shou-jen e la Scuola dello Spirito universale, invece, la vera realm consiste nello Spirito o Coscienza universale, che contiene in se ogni cosa: anche i li, dunque, sussistono interamente entro lo Spirito e da esso traggono tutta la propria esistenza in qualita di idee universali, cosi come, nelle tarde correnti filosofiche ellenistiche d'ispirazione neo-platonica, le idee di Platone divennero semplici contenuti della divina mente universale (nous o logos). Da queste basi metafisiche Wang Shou-jen deriva la propria concezione etico-sapienziale. La via verso la saggezza procede lungo le linee di un'originale riformulazione dello schema contenuto nel Grande lnsegnamento (Ta Hsueh), che si articola secondo le «Tre Corde Maggiori» (1. Manifestare la virtu illustre; 2. Amare il prossimo; 3. Dimorare nel bene supremo) e gli «Otto Fili Minori» (1. Estensione della conoscenza; 2. Osservazione delle cose; 3. Sincerita del pensiero; 4. Rettificazione dell'intelletto; 5. Educazione di se stessi; 6. Ordine nella propria famiglia; 7. Ordine nello Stato; 8. Pace nel mondo). Le 'Tre Corde Maggiori' costituiscono per Wang Shou-jen i cardini dell'educazione spirituale, talmente interconnessi l'uno con l'altro da diventare aspetti diversi di un'unica essenza. Per rendere palese il significato della prima corda ('manifestare la virtu illustre'), Wan Shou-jen scrive: L'uomo superiore e una unita onnipervadente; uno con il cielo, Ia terra e tutto cio che esiste. Coloro che evidenziano troppo Ia separazione delle forme corporee e distinguono se dagli altri, sono uomini dappoco. II motivo per cui l'uomo superiore e capace di essere uno con il cielo, Ia terrae tutte Je cose, non sta nel fatto che egli sia cosi di proposito, rna perche tale lo
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rende l'innata sensibilita (o amore) del suo spirito. 'Manifestare Ia virtu illustre' significa allontanare da se i desideri egoistici che ci rendono divisi dal mondo e ritornare all'originario stato di unione con il cielo, Ia terra e tutte le cose. Nulla e possibile aggiungere allo stato originario.
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E sulla seconda corda maggiore (amare il prossimo): Se 'manifestare Ia virtu illustre' significa stabilire Ia natura dell'unita del cielo, della terra e di tutte le cose, allora 'amare il prossimo' significa esercitare e mettere in funzione questa unita. La manifestazione della virtu illustre consiste quindi nell'amare il prossimo e amare il prossimo significa manifestare Ia virtu illustre. Se io amo mio padre, i padri di alcuni altri uomini e i padri di tutti gli uomini, il mio amore diverra veramente piu vasto attraverso l'amore per tali padri (... ). A partire da tutte queste relazioni umane per giungere poi ai monti, ai fiumi, agli spiriti e agli dei, agli uccelli e agli altri animali, aile erbe e agli alberi, tutto dovrebbe essere amato per poter rendere piu vasto il nostro amore. In tal modo non v'e nulla che non si renda manifesto attraverso Ia nostra virtu illustre e noi allora siamo tutt 'uno con il cielo, Ia terra e tutte le cose.
E infine, sulla terza corda maggiore (dimorare nel bene supremo): <>. Quando le cose giungono ad essa, il giusto e giusto, l'ingiusto e ingiusto; l'importante e importante e il dappoco e dappoco. Essa e in accordo con le cose e muta con le circostanze, rna trova sempre Ia Yia piu naturale.
Secondo la filosofia di Wang Shou-jen, dunque, essere uno con il tutto (I Corda), fondersi in comunione d'amore con il tutto (II Corda) e avere la consapevolezza intuitiva di questa unita (III Corda) rappresentano aspetti diversi di una sola indivisibile realta, che costituisce la meta piu alta per il saggio. La concezione secondo cui in ogni uomo alberga una natura originaria incontaminata, che non va quindi prodotta (perche gia c'e), rna soltanto scoperta tramite un atto di intuitiva ed immediata consapdolezza- capace di rivelare l'illusoria separazione dell'io individuale e di risvegliare la coscienza di un'identita suprema con il tutto, in un afflato di amore universale - mostra chiari influssi di derivazione buddista. La conoscenza intuitiva che, nell'immediatezza di un'azione spontanea e non calcolata, scorge ed esprime, al tempo stesso, la natura originaria celata in ogni essere (che si identifica con l'unita di tutte le case), va coltivata strenuamente attraverso i vari gradi progressivi della educazione spirituale, omologa· ti da Wang Shou-jen agli 'Otto Fili Minori' del Grande Insegnamento. I primi due Fili Minori - 1"estensione della conoscenza' e la 'osservazione
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delle case' - sana strettamente interrelati: infatti la visione intuitiva (che per Wang e la vera conoscenza) puo essere estesa ed approfondita soltanto grazie a una capillare osservazione delle case (ko wu). Pero Wang intende quest'ultima espressione - in modo alquanto originale - come <>: man mana che si estende la conoscenza intuitiva tramite l'osservazione delle case, infatti, queste ultime assumono la lora gi usta e naturale prospettiva originaria ( = rettificazione) rispetto al tutto, anche sotto il profilo etico. In altri termini, l'osservazione e la chiara visione delle cose permettono un comportamento morale armonico e conforme a verita: Quando la propria attivita mentale si dirige verso il vedere, udire, parlare ed agire, ognuna di queste attivita diviene un oggetto rettificato. ·
I due successivi Fili Minori incarnanq le condizioni soggettive che permettono l'attuazione dei primi due: la 'sincerita di pensiero' o'ffre la necessaria base di semplicita e schiettezza per la 'rettificazione degli oggetti' e 1"espansione della conoscenza', eliminando ogni esitazione: tutto cio sfocia nella 'rettificazione dell 'intelletto', grazie a cui ci si puo porre in rapporto con cose e si tuazioni cosi come sana oggettivamente, al di la dei propri interessi egoistici. Da tali premesse derivano tutti gli altri Fili Minori: l"educazione di se stessi' si identifica con la coltivazione della 'estensione della conoscenza intuitiva' e rende palese quell"amore per il prossimo' - naturalmente presente in ogni uomo - che ci pone in comunione con il tutto. Di qui scaturisce automaticamente il rispetto non solo per se stessi, rna anche per la propria famiglia ('ordine nella famiglia'), per lo Stato ('ordine nella Stato') e per il mondo intero ('pace nel mondo'). A questa punta, appare evidente che tutto il sistema filosofico di Wang Shou-jen non ha fatto che illustrare le multiformi sfaccettature di un unico prisma, distinguendo vari aspetti di una sola, indivisibile realta. 'Natura originaria', 'virtu illustre', 'Amore', 'conoscenza intuitiva', rappresentano soltanto nomi diversi di un'unica identita suprema. Straordinaria e Ia rassomiglianza tra la metafisica di Wang Shou-jen e quella che, due secoli dopa, sara costruita dal filosofo cartesiano Spinoza da noi gia studiata (7 .1-7). Scrive Wang Shou-jen: Lo spirito dell'uomo e il cielo. Nulla c'e che non sia parte dello spirito dell'uomo. Tutti noi siamo quest'unico cielo, rna a causa dell'oscuramento provocato dall'egoismo, lo stato ori!rinario del cielo non e manifesto. O!rni qualvolta estendiamo Ia nostra conoscenza intuitiva, rischiariamo l'oscurita, e quand'essa e tutta rischiarata, Ia nostra natura originaria e restaurata e torniamo ad essere parte di questo cielo. La conoscenza intuitiva della parte e conoscenza intuitiva del tutto e quest'ultima e conoscenza intuitiva della parte. Ogni cosa e l'unico tutto.
Nonostante le somiglianze tra la sua dottrina e quella buddista - o forse proprio a causa di esse - Wang Shou-jen critico malta le tendenze ascetiche
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dei buddisti e i rischi impliciti nella coltivazione del vuoto mentale come stato di coscienza di se, separato dal resto: I buddisti hanno il terrore delle difficolta implicite nelle relazioni umane, e yuindi Lentano di stuggirvi; sono costretti a stuggirle in quanto ancora attaccati ad esse. Noi confuciani siaJ11o diversi: essendoci una relazione fra padre e figlio, noi rispondiamo ad essa con l'amore; essendoci una relazione fra sovrano e suddito, rispondiamo ad essa con Ia rettitudine. Essendoci una relazione fra marito e mo!llie. rispondiamo ad essa con il reciproco rispetto. Noi non abbiamo attaccamento ai fenomeni.
13.11. Diffusione del neoconfucianesimo in Estremo Oriente. Nei decenni a cavallo del 1500, il pensiero di Wang Shou-jen gode di un vero predominio nella Cina della dinastia dei Ming (1368-1644). Ma, in ragione del suo soggettivismo, esso non si presta a fare da ideologia di una dinastia imperiale in cerca di legittimazione e percio incline a far sua Ia dottrina tradizionale per eccellenza, quella confuciana, a cui Chu Hsi aveva dato una sistemazione quanto mai adatta aile esigenze della scuola e della burocrazia amministrativa. Dal 1417, i commenti di Chu ai libri canonici della Cina divennero testo di esami per chiunque intendeva entrare nella carriera pubblica, e cosi il confucianesimo della Scuola dei principi universali si trovo ad, essere, per cosi dire, dottrina di Stato, ne perse questa suo primato ufficiale per il momentaneo risveglio della Scuola dello Spirito universale. Anzi, sull'onda dell'espansione politica e militare dei Ming, il neoconfucianesimo di Chu varca i confini della Cina e si stabilisce, sia pure attraverso profondi riadattamenti, negli altri paesi dell'Estremo Oriente. Se in Vietnam e in Corea Ia Cina non riesce, dopo alterne vicende, a consolidare un dominio politico diretto, Ia penetrazione del suo modello culturale e invece pressoche incontrastata. Non si tratta pero di un'accettazione totalmente passiva. almeno nel caso della Corea, che aveva raggiunto, gia da tempo, una propria fisionomia e una propria identita nazionale. Qui la dotlrina Ji Chu Hsi - introdotta gia nel XIII secolo dallo studioso An Yu - conosce uno sviluppo relativamente originale ed e al centro di sottili dispute esegetiche da parte di circoli letterari e di pensatori politici. Va inoltre tenuto presente che la dottrina neo-confuciana, per i suoi stessi presupposti ideologici, esercitava un'attrazione soprattutto sulle classi dominanti, e sui ceto burocratico in particolare, mentre non si prestava - a differenza del buddismo - alia creazione di una comunita unitaria in qualche modo indipendente dalla stratificazione sociale. Ariche in Giappone il sistema etico e ~etafisico di Chu Hsi viene scelto come il supporto ideologico dell'ordinamento statale, allorche, all'inizio del XVII secolo, dopo un periodo Ji anarchia e di turbolenza, il Paese ritrovo unita e stabilita. Elementi originali rispetto al modelio cinese si rilevano gia in Fujiwara Seika (1561-1619), alia cui influenza e in gran parte dovuto il nuovo orientamento filosofico-politico dell'establishment giapponese. Preoccupato di non creare una frattura tra la tradizione religiosa autoctona e le nuove idee importate dalla Cina, Seika cerco di armonizzare gli assunti fondamentali dello Shintoismo (la religione tradizionale giapponese) con il pensiero di Chu Hsi, aprendosi nel contempo, al di Ia del rigido nazionalismo imperante in Giappo-
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ne, .alle suggestioni e agli spunti provenienti dalle civilta straniere. Questa tendenza peculiare del pensiero di Seika, incline - forse anche per il suo passato di monaco buddista - alia apertura e alla tolleranza, fa da riscontro al suo interesse per i problemi posti dalle relazioni economiche del Giappone con !'estero e dall'inquadramento della nuova classe dei mercanti all'interno del sistema confuciano. il suo discepolo Hayashi Razan (1583-1657) e il maggior esponente del neoconfucianesimo giapponese di questo periodo; fedele al pensiero di Chu Hsi nel quale innesta, perc), una propria elaborazione della cosmogonia di Wang Shou-jen - e ricordato anche come eminente storiografo e polemista, sostenitore dell'ortodossia confuciana contro il proselitismo cristiano che - come diremo del paragrafo seguente - aveva vissuto, verso la fine del XVI secolo, un momento di notevole espansione. Con Razan, i confuciani assumono in Giappone un ruolo predominante e una condizione di privilegio, soprattutto nell'ambito dell'istruzione pubblica: la direzione della scuola dello Shoheiko passera sempre, per diritto ereditario, ai suoi discendenti. 13.12. L'ingresso del pensiero occidentale in Estremo Oriente (XVI-XVII
sec.). La prima fase del confronto culturale fra l'occidente cristiano e le civilta dell'Asia Orientale si colloca all'incirca tra i primi decenni del XVI e il terzo decennio del XVII secolo, e vede come protagonisti, sul versante europeo, i missionari gesuiti. Se il Vietnam, a causa della sua debolezza politica, subisce piuttosto passivamente la cristianizzazione e la colonizzazione francese, la Cina e il Giappone sono in grado di fornire una risposta c~lturalmente e filosoficamente piu elaborata alle stimolazioni provenienti dal mondo occidentale. Il gesuita Matteo Ricci (1552-1610), giunto a Canton nel 1582, intui con chiarezza la necessita di un approccio alla cultura cinese paritetico ed essenzialmente intellettuale, quanto piu possibile indipendente, cioe, dai metodi e dagli esiti della penetrazione commerciale e politica cui miravano, in quegli stessi anni, i portoghesi. Si inscrive in questo atteggiamento di fondo la sua scelta di affiancare all'attivita missionaria un confronto sui piano della scienza e della tecnica, sfruttando !'interesse dei cinesi colti per le acquisizioni dell'Europa moderna. Traduce in cinese Euclide, inventa e distribuisce orologi a soneria, strumenti di astronomia e di musica, costruisce un mappamondo (1584) che ottiene grande successo. A dimostrazione dell'influenza esercitata su questo campo dagli europei, bastera ricordare che, dalla morte di Padre Ricci (1610) fino al 1838, in Cina la direzione dell'Ufficio del Calendario -una sorta di Accademia imperiale delle scienze matematiche ed astronomiche - spettera ai gesuiti. Ottenuto a Pechino il favore dell'Imperatore, Matteo Ricci indossa l'abito dei letterati e padroneggia la loro lingua, che gli consente lo studio diretto dei classici anteriori a Chu Hsi, allo scopo di dimostrare la conformita tra i suoi insegnamenti e la legge di Dio. La sua tesi che la religione cristiana non e straniera, anzi da compimento a quanto di meglio c'e nella tradizione cinese, egli la espresse in una specie di catechismo di grande diffusione, il T'ien-chu Shih-yi (L 'insegnamento del Signore del Cielo), una 'rilettura' del pensiero di Confucio alia luce della dottrina cattolica. Anche sul piano rituale, Padre Ricci cerco di non proporre il
428 0 13- L'Estremo Oriente nell'eta moderna cristianesimo come totale abpandono delle tradizioni del passato, giudicando non incompatibili con il rito della Messa il culto degli antenati e la venerazione dell 'imperatore e di Confucio. Contra Ia 'strategia' missionaria di Matteo Ricci insorgeranno i francescani e i domenicani, che otterranno, al termine di una annosa disputa, nota come 'Questione dei Riti', il riconoscimento delle proprie posizioni con la bolla papale del 1742. In Giappone, i gesuiti erano giunti gia nel 1549. La disgregazione politica del paese aveva favorito la penetrazione delle missioni: il cristianesimo si era notevolmente diffuso, specialmente nella parte meridionale dell'arcipelago e fra i ceti contadini. Con il nuovo regime, lo shogunato dei Togukawa, ebbe origine un periodo di persecuzioni contra gli europei e, parallelamente, il confucianesimo intraprese in modo sistematico Ia confutazione della dottrina cristiana (ricordiamo, a questo proposito, soprattutto Razan, 13.11). Nella polemica contro la metafisica e la teologia cattoliche si fanno a volte convergere argomentazioni confuciane e buddiste, mentre cristianesimo e buddismo vengono accomunati nell'accusa di indebolire l'impegno etico e politico dell'individuo nei confronti della Stato. Insostenibili appaiono la preesistenza, l'indipendenza e la trascendenza di Dio rispetto al Li Supremo, la Iegge fondamentale dell'universo, mentre si dimostra la inconciliabilita, sul piano logico, deg:l i attributi divini di infinita banta e onnipotenza. Anche il monoteismo assol uta delle Sacre Scritture e, in genere, rifiutato dagli oppositori, soprattutto perche vi si scorge un pericolo per quella concezione della sacralita imperiale che era garanzia di ordine e concordia sociale. 13.13. La fase critica e filologica del confucianesimo. Nel 1644, in seguito a gravi disordini interni, dovuti a una persistente crisi economica e a un diffuso spirito di rivolta nella classe dei contadini, Ia dinastia dei Ming cade e viene sostituita dalla dinastia dei Manciu, che prende il titolo ufficiale di Ch'ing. Come quella dei Mongoli, si tratta di una dinastia straniera, che si impone alla popolazione secondo i metodi dei regimi militari, tanto che la fedelta ai Ming (ritiratisi nel sud, dove organizzano una lunga resistenza) equivale alla fedelta patriottica. Solo in seguito, per merito soprattutto del grande imperatore K'ang-hsi, i rapporti tra la popolazione e gli occupanti si addolciranno, anche a causa di una efficace politica espansionistica perseguita dalla nuova dinastia. II clima culturale cambia. II risveglio patriottico sostituisce alla polemica contra i Mancil! la ricerca delle cause della decadenza che ha permesso il passaggio del potere imperiale agli stranieri. Nelle sfere intellettuali prevalgono il ritorno al confucianesimo originario e la messa sotto accusa delle due Scuole neoconfuciane, nelle quali si scoprono influssi taoisti e buddisti. Nemmeno il grande Chu Hsi viene risparmiato. Un esponente di questa 'ritorno agli antichi' fu Wang Fu-chih (1619-1692), nato in una famiglia di letterati della Cina meridionale e divenuto precocemente un uomo di prima piano fra i funzionari dei Ming. Travolta dalla caduta della dinastia, prende parte alla resistenza che essa organizza nel sud del paese. In seguito, vive appartato, alieno da ogni compromesso col nuovo potere, per dedicarsi aile sue ricerche storiche e filosofiche, aiutato da un metoda filologico piuttosto inconsueto nell'ambito confuciano. Oltre che nella confuta-
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zione del dualismo metafisico di Chu Hsi, il metodo gli serve nel campo della storiografia, in cui Wang rivela in pieno la sua originalita. Nelle sue opere (ricordiamo il Commentario sullo specchio della storia) egli si ispira a una concezione militante della storiografia: il progresso delle istituzioni e irreversibile, perche e il prodotto di forze naturali, rna esse trovano il loro senso nel porsi al servizio del popolo. Si capisce perche i pensatore rivoluzionari dell'inizio del nostro secolo, compreso Mao Tse-tung, avessero Wang Fu-chih in grande considerazione. Fra i padri del nazionalismo cinese e annoverato Ku yen-wu (1613-1682), anche lui travolto dalla caduta dei Ming, anche lui, dopo la resistenza nel sud, dedito aile ricerche, senza nessun compromesso c;on la nuova realta politica, reso intangibile dalla stima universale da cui era circondato. 11 suo itinerario intellettuale fa pensare a quello dei nostri umanisti, perche animato sia dall'intento di restituire i testi classici alla loro autenticita filologica, sia da una insaziabile curiosita per il mondo antico, curiosita di cui e un eccellente documento la sua opera pili celebre, Diario intellettuale, una specie di Zibaldone leopardiano, in cui egli ha raccolto le note prese via via durante le sue letture. Memorabili i suoi studi di archeologia e di epigrafia, soprattutto i suoi Cinque studi di fonetica, che dimostrano quanto ricchi e vari fossero i suoi strumenti di approccio al mondo antico, e cioe il mondo di Confucio o degli Han, dal nome della dinastia (206 a.C.-20 d.c.) dell'epoca dei primi commentari . di Confucio e anteriore alla penetrazione in Cina del buddismo. 11 'ritorno agli Han' divenne un vero e proprio movimento, che prese il nome di Scuola Han, in contrapposizione alia Scuola Sung (o Ming) con cui si cominch'> a designare, anche qui con riferimento alla dinastia dell'epoca della sua fioritura, il neoconfucianesimo. Si e g:ia detto quale fosse il programma della Scuola Han: i1 rigetto delle idee taoiste e buddiste, dissimulate sotto l'involucro confuciano. 11 che voleva dire, in termini pili diretti, il ritorno dal soggettivo all'oggettivo, dall'astratto al concreto, dalle speculazioni ontologiche alla discussione degli avvenimenti storici e della vita quotidiana. Ecco perche alcuni storiografi paragonano questo periodo del pensiero cinese all'umanesimo del nostro Rinascimento. Vi si ritrovano, infatti, alcuni tratti analoghi: il rifiuto della scolastica e il recupero delle filosofie classiche, lo sviluppo del metodo filologico e scientifico, la riscoperta della societa e dell'individuo. 11 ritorno a Confucio, una volta messo in opera il metodo filologico, non poteva non dilatarsi anche alia riscoperta degli altri classici antichi, rimasti del tutto trascurati a causa della dominante ortodossia neoconfuciana. Prima ancora che vi provvedessero gli studiosi europei, i pensatori della Scuola di Han avevano compiuto una imponente opera di riconquista della classicita cinese. L'iniziatore di questa corrente esegetica e Yen Yiian (1635-1704). 11 suo itinerario filosofico fu piuttosto accidentato: giovanissimo, si dedica agli studi esoterici di matrice taoista; nel 1658 fonda un"aceademia' dedita allo studio dei neoconfuciani; nel 1668 scopre che la sua famiglia e solo adottiva, perche il suo vero padre e stato ucciso durante l'invasione dei Mancili: ne resta sconvolto, fino a decidersi di dedicare se stesso alla ricerca della identita di suo padre e, quasi fosse la stessa cosa; del confucianesimo antico. Nel 16,85 scopre la tomba del padre e nello stesso periodo da vita all'accademia Fei-hiang, con un
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programma incentrato su di una educazione di tipo pratico: strategia, tiro dell'arco, equitazione, pugilato, meccanica, matematica, astronomia e storia. A suo giudizio, il contatto con le realta concrete e piu adatto a formare uomini liberi e coraggiosi che non le conoscenze basate sui libri. Le sue idee furono conosciute e celebrate solo dopo Ia sua morte. II divorzio tra intellettuali e potere si attenuo, per merito dell 'imperatore K'ang-hsi, fino a scomparire nel 1700, per dar luogo a uno sviluppo culturale meno turbato da sottintesi nazionalistici. La reazione alia dottrina di Chu Hsi - soprattutto all'interpretazione metafisica del li - assume con Tai Chen (1723-1777) una valenza piu decisamente innovatrice: contra una visione rigida delle leggi morali e ·dell'ordine sociale necessariamente immutabile, se concepito come il riflesso di un ordine trascendente i cui valori siano dati ab eterno - Chen riporta al centro della speculazione l'antica concezione dinamica e armonicistica del Tao, Iibera dall'ontologia dei commentatori posteriori e quindi piu compatibile con il suo relativismo etico e politico. AI tempo stesso, egli fonda una metodologia della conoscenza della natura - contrapposta alia conoscenza soggettiva, ossia alia semplice opinione - che si puo definire 'scientifica', in quanto accostabile, per qualche verso, aile acquisizioni del pensiero occidentale moderno. II li - la natura-e concepito come un principia immanente, come cio che da forma ad ogni singolo fenomeno, caratterizzandolo in relazione agli altri fenomeni. Fra le opere principali di questa pensatore vanno ricordate il Yuan Shan (Sull'OriRine del Bene) e il MenR-tzu Tzu-vi Su-chenR (Esame sui Sie.nificato del Mencio). in cui Chen si propane come autentico interprete della dottrina di Confucio. 13.14. II pensiero giapponese nei secc. XVII e XVIII. In questa periodo, nel pensiero giapponese, accanto alia corrente neo-confuciana ispirata al sistema di Chu Hsi e che continua a svilupparsi, vengono a delinearsi nuove tendenze: da una parte, il rigetto delle interpretazioni 'scolastiche' del pensiero di Confucio e l'esigenza di tornare alia dottrina antica si concretizzano nella 'scuola antica' (Kogaku), impegnata nella riaffermazione dei valori della cultura nazionale contra !'influenza cinese; dall'altra, la diffusione in Giappone del pensiero di Wang Shou-jen stimola la rielaborazione originale di alcuni aspetti del neoconfucianesimo. Principale esponente di quest'ultima tendenza e Nakae Toju (1608-1648), che assimila da Wang Shou-jen soprattutto la concezione dell'identita tra conoscenza e azione. Si deve, forse, all'influenza del cristianesimo il suo sviluppo in senso apertamente teistico del concetto di Shang-ti, il principia ordinatore primordiale della filosofia cinese antica. Toju giunge a interpretare anche i due principi base della cosmologia confuciana - il li e il ch 'i come attributi del Dio Padre Supremo. 1 pensatori che si rilanno piu direttamente alia tilosolia cinese, convergendo nella scuola Han (contrapposta alia 'scuola antica'), avvertono anch'essi l'esigenza di non appiattire Ia cultura giapponese sui modelli stranieri. 11 XVII secolo e, del resto, il periodo in cui vengono codificati quegli elementi dell'etica nazionale giapponese - cui non e estraneo anche un certo orgoglio razziale rimasti sostanzialmente immutati fin quasi ai giorni nostri. Ricordiamo, a questa proposito, J'Onna Daigaku (ll Grande Studio per le Donne), composto da
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Kaibara Ekiken (1630-1714), e il codice cavalleresco del Bushido, tramandato oralmente, alla cui elaborazione contribui Yamaga Soko (1622-1685), importante esponente della 'scuola antica'. Ma i piu originali spunti teoretici della 'scuola antica' si trovano nell'opera di Ito Jinsai (1627-1705), che muove dalla critica al razionalismo di Chu Hsi e dal capovolgimento della teoria della subordinazione del ch 'i al li per fondare una filosofia della natura e dell'istinto, libera dal moralismo razionalistico di Chu Hsi. La 'scuola antica' e interessante anche per la convergenza delle sue principali problematiche con le tendenze della letteratura e del teatro di quel periodo. Nel Settecento, in simmetria con quanto sta avvenendo in Cina, si fa ancora piu viva, in Giappone, l'esigenza di un recupero della propria identita culturale, e di conseguenza si allenta la subalternita nei confronti del pensiero cinese. Cosi, alla critica del neo-confucianesimo e ai nuovi fermenti di opposizione al tradizionalismo di Chu Hsi - influenzati anche dall'ascesa delle n:uove classi mercantili e dai mutamenti sociali che ne derivano - si affiancano le espressioni del pensiero nazionalista, interessato alla riscoperta e alla valorizzazione della tradizione piu autenticamente nipponica: la Kokugaku (Scuola nazionale) e la scuola storiografica di Mito, contrapposta alla Hayashi - di orientamento filocinese - e incaricata di redigere la storia nazionale ufficiale, il Dai Nihon-shi. Anche in Vietnam e in Corea la analoga esigenza di indipendenza culturale dalla Cina e di affermazione dei valori nazionali si esprimera soprattutto con le cronache ufficiali e con la storiografia nazionale. Ma un altro filone storico, metodologicamente innovativo, fa la sua comparsa in Giappone nella prima meta del secolo: e quello degli storici non ufficiali, fra i quali si trovano alcuni dei maggiori pensatori di questo periodo. E il caso di Taminaga Nakamoto (1715-1746), condannato per Ia sua eterodossia rispetto al pensiero di Chu Hsi, e soprattutto di Arai Hakuseki (16561725), che fu anche eminente economista e uomo politico. Egli va ricordato non soltanto per la sua lucida critica alla metodologia delle due scuole di Mito e Hayashi (alia prima rimprovera soprattutto l'impostazione metafisica, alla seconda la riduzione della ricerca storica a una mera cronologia dei fatti), rna anche perche nella sua opera per la prima volta la storia giapponese viene analizzata anche in relazione a quella europea. Nel campo piu direttamente filosofico, Ando Shoeki (prima meta del XVIII secolo) individua nella dottrina di Chu Hsi - soprattutto nella metafisica del li - i presupposti ideologici dell'oppressivo sistema feudale giapponese, e Miura Baien (1723-1789) pone al centro della propria indagine il problema della conoscenza scientifica della realta. Nelle sue tre opere, Gengo, Zeigo e Kango, Baien sviluppa un sistema filosofico organico, in cui gioca un ruolo fondamentale il concetto di jori (da jo = fenomeno, e ri = trascrizione giapponese di li). Poiche la realta- si Iegge nel Gengo - e fondata sulla dinamica di Yin e Yang (i principi antitetici dalla cui integrazione scaturisce l'insieme unitario del cosmo), la conoscenza deve avvalersi di un metodo - lo jori, appunto - che ne rispecchi la struttura intrinsecamente dialettica. La ricerca della verita - quest'ultima intesa come l'accordo tra reale e razionale Uo e ri) - si deve avvalere della verifica offerta
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dall'esperienza empirica e presuppone l'abbandono di ogni schema pregiudiziale. Unico fra gli oppositori dell'ortodossia di Chu Hsi, Baien godette, gii1 in vita, di notevole fama e prestigio: cio nonostante, egli non accetto mai di ricoprire alcuna carica ufficiale. Ma lo sviluppo dell'identita culturale delle nazioni dell'Estremo Oriente non sarebbe avvenuto in modo autonomo. Alia fine del Settecento 1'-occidente bussa aile porte, e in modo molto meno rispettoso di come avevano fatto i Gesuiti due secoli prima. La Compagnia delle lndie ha bisogno di allargare la rete dei suoi mercati. II re d'Inghilterra Giorgio III invia all'imperatore della Cina, Ch'ien lung, una ambasceria per ottenere relazioni diplomatiche. Ma tra la dottrina inglese del free trade e la concezione cinese del 'controllo dei barbari' non c'e possibilita di intesa. L'imperatore non si lascia sedurre dalle belle maniere e nel rispondere al re, con raffinato linguaggio, gli fa capire che la Cina non ha bisogno di nessuno, basta totalmente a se stessa, dato che «la maesta della sua dinastia si e estesa su tutti i paesi sotto il cielo». Se pure tu affermi - scrive l'imperatore - che Ia tua riverenza verso la nostra celestiale dinastia ti riempie del desiderio di acquistare gli elementi della nostra civilta, il nostro cerimoniale e i nostri codici di leggi differiscono cosi radicalmente dai vostri che, anche se il tuo inviato riuscisse ad impadronirsi dei rudimenti della nostra civilta, tu non potresti mai riuscire a trapiantare le nostre maniere e i nostri costumi nella tua terra straniera. Percio, per quanto esperto possa il tuo inviato divenire, non potrebbe esserci alcun vero vantaggio. Nel reggere il vasto mondo, io non ho che uno scopo, quello di mantenere un huon governo e di adempiere ai doveri dello Stato: oggetti strani e costosi non mi interessano.
La storia avrebbe seguito altre vie, e questa volta tracciate davvero dall'astuzia della ragione. L'occidente sarebbe entrato nel celeste impero non per trasmettere le sue idee, rna per costringerlo ad aprirsi al mercato dell'oppio (1839-1842). Anche la filosofia occidentale sarebbe entrata in Cina, rna dopo la guerra dell'oppio.
Indice analitico
I numeri in neretto indicano le pagine in cui si parla dell'Autore in maniera specifica e quelli in corsivo Ia pagina in cui si trova Ia sua scheda biografica.
Abbas I, il Grande, 408, 410 Abramo, 132, 253, 286 Addison, Joseph, 215, 220 Agatopisto Cromaziano, 296 Agostino di Tagaste, 2, 3, 5, 44, 68, 106, 116, 127, 129, 352 Agrippa di Nettesheim, Cornelio, 11, 54, 57 Akbar (re), 406, 412-413 Alberti, Leon Battista, 1, 5, 6, 11, 14, 80, 81 Alembert, Jean-Baptiste d', 162, 165, 210, 211, 212, 219, 228·, 244, 250, 263, 272, 277. 315. 316. 317, 345 Alessandro di Atrodisia, 20 Alessandro Magno, 317 Alessandro VI (papa), 11, 28, 32 Alfieri, Vittorio, 353 Algarotti, Francesco, 219 Alighieri, vedi Dante Alighieri Altusio, Giovanni, 147, 341 Ando Shoeki, 431 Angelico, Beato, 11 Annibale, 407 An Yu, 426 Anselmo di Aosta, 116, 368 Arabi. Ibn, 408 Arai Hakuseki, 431 Archimede, 79, 88, 96, 113 Arduino, Giovanni, 218 Ariosto, Lodovico, 11, 88 Aristarco di Sarno, 83
Aristotele, 1, 3, 5, 11, 13, 14, 15, 17, 20, 21, 23, 31, 38, 59, 60, 66, 73, 78, 83, 90, 91, 92, 93, 97, 98, 101, 104, 107, 112, 120, 124, 125, 168, 179, 237, 245, 303, 314, 350, 377, 408, 410 Arnauld, Angelique (mere), 131 Arnauld, Antoine, 120, 124, 125, 234 Asoka (re), 412 Astruc, Jean, 275 Auenbrugger, Leopold, 218 Augusto (imperatore), 317 Averroe, 11, 17, 20, 21, 408 Avicenna, 55, 408 Babeuf, Fran~ois Noel, 347, 348 Babur, 412 Bach, Johann Sebastian, 216 Bacone, Francesco, 56, 78, 98-105, 99, 107, 108, 124, 142, 164, 211, 212, 214, 22~ 272, 298, 299, 307 Baczko, Bronislaw, 339 Baillet, Adrien, 112 Barbaro, Ermolao, 17 Barberini, Maffeo, 89 Baronio, Cesare (cardinale), 93 Baumgarten, Alexander Gottlieb, 354, 356, 401 Bayle, Pierre, 202, 208, 210, 211, 252, 253, 258, 260, 263, 264, 266, 270, 272, 281, 283, 294, 295-296, 304, 308 Beauzee, Nicolas, 250 Beccaria, Cesare, 209, 216, 233, 263,
436 0 lndice analitico 321, 356-358, 357 Bellarmino, Roberto (cardinale), 89, 90, 91, 92 Bentham, Jeremy, 325 Bergson, Henri, 140 Berkeley, George, 127, 205, 220-224, 220-221, 229, 230, 232, 235, 237, 252, 261, 262-264, 288, 378 Berulle, Pierre, 118 Bessarione, Giovanni, 13 Billaud, Jacques-Nicolas, 360 Black, Joseph, 218 Boccaccio, Giovanni, 3 Bodin, Jean, 24, 51, 52, 76, 244 Bodmer, Johann Jacob, 355 Boerhaave, Hermannus, 238 Boezio, Severino, 6 Bonnet, Charles, 218 Borgia, Cesare, 11, 32 Bossuet, J acques-Benigne, 192, 274, 286, 296, 310, 315, 317 Botticelli, Sandra, 11, 17 Bracciolini, Poggio, 1, 5 Brahe, Tycho, 84, 86 Braudel, Fernand, 208 Brissot, Pierre-Jacques, 360 Brucker, Jacob, 320 Brunelleschi, Filippo, 11, 17 Bruni, Leonardo, 1, 5, 20 Bruno, Giordano, 54, 62-65, 63, 66, 67, 86, 88, 92, 95, 120, 124, 175, 182, 195, 255 Bruto, 203 Buffon, Georges-Louis-Leclerc, 205, 210, 211, 218, 219, 237-240, 243, 244, 246~47, 263, 279, 335 Buonaparte, Napoleone, 360, 407 Buonarroti, Michelangelo, vedi Michelangelo Butler, Joseph, 252, 261-262, 263, 265 Caitanya, 406, 417-419 ::::alvino, Giovanni. 7, 9, 23, 45-47 Campanella, Tommaso, 54, 62, 66-70, 67, 79, 100, 124, 147 Carlo Magno, 296, 315, 317 Carlo I, Stuart (re), 144, 149, 163, 169 Carlo II, Stuart (re), 101, 145, 149, 155
Carlo V (imperatore), 11, 33, 40 Carlo VIII (re di Francia), 11, 28 Cartesio (Descartes), Rene, 35, 61, 69, 71, 95, 97, 101, 106, 107-126, 107108, 127, 128, 130, 132, 133, 134, 135, 137, 139, 140, 141, 142, 143, 144, 145, 148, 149, 152, 157, 158, 160, 164, 166, 167, 168, 175, 176, 177, 178, 180, 181, 182, 190, 193, 195, 198, 199, 200, 201, 212, 223, 225, 227, 232, 236, 237, 277, 280, 298, 307, 308, 309, 310, 315, 366, 367, 368, 379, 383 Casanova, Giacomo, 353 Castelli, Benedetto, 89 Caterina de' Medici, 52 Caterina II di Russia (imperatrice), 209, 278, 346 Catone, Marco Porcio, 75 Cavendish, Henry, 218 Cavour, Camillo Benso conte di, 34 Cesare, Caio Giulio, 56, 194, 203, 228, 317 Cesi, Bartolomeo, 97 Chambers, Ephraim, 211, 277 Charron, Pierre, 54, 76-77, 76, 124, 295 Chastellux, marchese di, 210, 359 Cherbury, Herbert di, 253-254, 255, 274
Cheselden, William, 223 Ch'ien lung (imperatore), 432 Chu Hsi, 192, 406, 420, 421, 422, 423, 426, 427, 428, 429, 430, 431, 432 Cicerone, Marco Tullio, 3, 5, 27 Cisneros, Francisco Jimenez de (cardinale), 48 Clairaut, Alexis-Claude, 219 Clark, Colin, 25 Clarke, Samuel, 252, 255-256, 257, 262, 263, 268, 269, 326 Clavio, Cristofaro, 90 Clemente VII (papa), 33 Co let, John, 24, 36, 39 Collins, Anthony, 252, 255, 263 Colombo, Cristofaro, 11, 25, 83, 245 Comte, Augusto, 251, 310
lndice analitico 0
Condillac, Etienne Bonnot de, 205, 210, 233-236, 233, 249, 250, 263, 277, 280, 286, 348, 357 Condorcet, Caritat J.A.N. marchese di, 209, 210, 214, 244, 263, 294, 310, 313-314, 329, 349. 359 Confucio, 124, 406, 422, 428, 429, 430 Copernico, Niccolo, 62, 63, 78, 83-86, 87, 88, 89, 91, 136, 156, 374 Corbin, Henri, 409 Cortes, Hernan, 11 Cosimo II, de' Medici, 89 Cosimo il Vecchio, de' Medici, 14, 34 Costantino, 6, 271 Coulomb, Charles Augustin de, 218 Cremonini, Cesare, 90, 91, 124 Cristina di Svezia (regina), 108 Cristo, vedi Gesu di Nazareth Cromwell, Oliver, 145, 149, 155, 163, 172, 415 Cruce, Emeric, 308 Cusano, Nicola, 1, 7-13, 7, 13, 15, 24, 53, 62, 81, 136, 182 Cuvier, Georges-Leopold, 218, 240 Dante Alighieri, 24, 32, 305, 407 Darwin, Charles-Robert, 240, 251 De Foe, Daniel, 215, 323, 339, 353 De Gama, Vasco, 11 De Jancourt, 212, 341 Demeunier, Jean Nicolas, 339 Democrito, 95, 100, 101, 124 Derham, William, 237, 252, 256 De' Ricci, Scipione, 285 De Saci, Isaac Louis Lemaistre, 137 De Sade, Donatien-Alphonse Fran<;ois, 208, 252, 263, 284, 339, 354 Descartes, Rene, vedi Cartesio Deschamps (Dom), 252, 263, 282-283, 339, 347 De Vattel, Emeric, 359 De Vitoria, Francisco, 11, 49, 50, 51, 146, 147 De Witt (fratelli), 177 Diderot, Denis, 205, 209, 210, 211, 212, 214, 216, 217, 228, 233, 238239, 244, 247, 250, 252, 258, 263, 269, 276, 277-282, 277-278, 286, 311,
437
316, 329-330, 332, 339, 341, 344, 346, 349, 352, 355 Dini, Pietro, 92 Dionigi l'Aeropagita (pseudo), 8 Dioscoride, 79 Dryden, John, 156 Du Bos, Jean-Baptiste, 355 Duclos, Charles, 208 Eckart, (Meister) Giovanni, 8 Einstein, Albert, 160 Elisabetta di Baviera (principessa 'palatina'), 122, 126, 178 Elisabetta (regina d'Inghilterra), 99, 104, 144 Empedocle, 240 Enrico III (re di Francia), 51 Enrico IV (re di Francia), 107, 267 Enrico VII (re), 228 Enrico VIII, Tudor, 11, 41 Epicuro, 1, 6, 124, 279, 296, 306, 392 Epinay, Madame de, 286 Epitteto, 137, 138 Erasmo di Rotterdam, 6, 11, 23, 24, 35-38, 39, 40, 41, 44, 48, 50, 71, 73, 80, 147, 192 Euclide, 79, 110, 146, 149, 152, 374, 427 Euler, Leonhard, 218 Farabi, al-, 410 Federico Guglielmo I (re), 225 Federico II di Prussia, 209, 213, 225, 263, 267, 292, 345, 346, 363, 397 Fenelon, Fran<;ois, 285, 329, 336, 352 Ferdinanda di Borbone, 233 Ferdinanda di Spagna (re), 11, 49 Ferguson, Adam, 214, 248, 263, 294, 319
Fichte, Amedeo, 342, 379 Ficino, Marsilio, 1, 11, 13-17, 13, 18, 19, 20, 24, 27, 35, 36, 55, 79, 253 Fielding, Henry, 215, 353 Filippo II (re di Spagna), 143, 149 Filmer, Robert, 169 Filolao, 79 Foigny, Gabriel de, 338 Fontenelle, Bernard Le Bovier (de), 126, 263, 294, 306-308, 310
438 0 Indice analitico Foscarini, Antonio, 91 Foscolo, Ugo, 241, 352 Fox, John, 145, 268 Fracastoro, Gerolamo, 57 Francesco I (re), 33 Francke, August Hermann, 352 Francklin, Benjamin, 218, 293 Freud, Sigmund, 251 Frugoni, Carlo Innocenzo, 233 Fujiwara, Seika, 426, 427 Galeno, 55, 79 Galiani, Ferdinando (abate), 216, 263, 350
Galilei, Galileo, 28, 30, 54, 55, 59, 62, 64, 66, 67, 69, 71, 78, 79, 83, 84, 86, 87-97, 88-89, 98, 103, 106, 107, 108, 112, 117, 125, 133, 142, 149, 156, 158, 159, 160, 167, 182, 272, 302, 374 Galvani, Luigi, 218 Gandhi, Indira, 415 Garnier, Charles, 339 Gassendi, Pierre, 106, 108, 114, 124125, 130, 297, 299 Gatterer, Johann Cristoph, 320 Gemisto Pletone, Giorgio, 1, 13, 20 Gengis Kan, 412 . Genovesi, Antonio, 252; 263, 270, 272, 273, 353 Gentillet, 52 Gessner, Salomon, 216 Gesu di Nazareth, 1, 3, 6, 7, 8, 12, 13, 15, 26, 28, 33, 36, 37, 38, 40, 41, 43, 44, 46, 57, 106, 125, 132, 138, 173, 188, 189, 203, 252, 254, 257, 262, 271, 272, 276, 289, 293, 395 Geulincx, Arnold, 126 Ghiberti, Lorenzo, 11, 26, 80 Giacobbe, 132, 253, 286 Giacomo I, Stuart, 50, 99 Giacomo II, Stuart, 144, 145, 163 Giamblico, 124 Giannone, Pietro, 214, 263, 270, 271, 273, 319, 353 Giansenio (vescovo), 131 Gibbon, Edward, 263, 294, 295, 318319, 320
Gilbert, William, 87, 104 Giobbe (profeta), 149 Giorgio di Hannover (Elettore), 191, Giorgio I (re), 320 · Giorgio III d'Inghilterra (re), 432 Giorgio di Trebisonda, 11, 14, 20 Giotto, 26 Giovanni il Battista, 66 Giovanni Paleologo (imperatore), 13 Girolamo (san), 48 Giuliano l'Apostata, 117 Giuliano de' Medici, 14 Giulio II (papa), 36 Goethe, Johann Wolfgang von, 55, 207, 216, 241, 291, 306, 312, 353, 359, 394 Goldoni, Carlo, 278, 353 Govind Singh, 415 Gozzi, Carlo, 353 Grassi, Orazio, 89 Gray, Thomas, 216 Grimm, Friedrich Melchior, 278 Grosley, P.J., 207 Grozio, Ugo, 141, 145-147, 148, 297, 298, 301, 334, 341, 359 Grunebaum, Gustave, 407 Gua de Malves, Jean-Paul de, 211 Guettard, Jacques-Etienne, 218 Guglielmo II d'Orange (re), 145, 157, 163, 171, 173, 254 Guglielmo III d'Orange (re d'Inghilterra), 172 Guicciardini, Francesco, 23, 33-35 Gusdorf, Georges, 251 Gutenberg, Giovanni, 11 Haeyne, C.G., 320 Halley, Edmund, 157, 217, 219 Hamann, Johann Georg, 242, 253, 263, 291-292, 312 Handel, Georg Friedrich, 216 Harvey, William, 104, 120 Haydn, Franz Joseph, 216 Hegel, Georg, 134, 226, 251, 306, 420 Helvetius, Claude Adrien, 205, 210, 212, 244, 245-246, 252, 263, 277, 278, 279, 280, 311, 321, 330, 332, 359
Jndice analitico D 439
Herder, Johann Gottfried, 241. 248, 250, 263, 274, 276, 294, 306, 311313, 318, 319, 359, 394, 398 Herschel, Friedrich William, 218 Hobbes, Thomas, 108, 114, 141, 145, 148-156, 149, 164, 169, 170, 171, 176, 187, 248, 256, 260, 262, 272, 274, 296, 299, 303, 305, 323, 324, 332, 335, 341, 343, 398 Halbach, Paul-Henry de, 205, 210, 211, 212, 236, 240-241, 252, 263, 276, 277, 278, 281-282, 311, 330, 345 Home, Henry, 228 Hooker, Richard, 170 Hume, David, 205, 214, 227-232, 227228, 233, 235, 248, 249, 252, 261, 263, 264, 265, 268, 274, 276, 281, 287, 294, 295, 302, 308, 311, 316, 318, 319, 320, 321, 325-326, 335, 342-343, 355, 356, 361, 365, 375, 378, 384 Hutcheson, Francis, 229, 263, 321, 324-325, 327, 355 Hutton, James, 240 Huygens, Costantino, 130, 223 Ignazio di Loyola, 49, 269 Innocenzo VIII (papa), 17 Innocenzo X (papa), 131 Intieri, Bartolomeo, 273 Ippocrate, 79 Isabella di Spagna (regina), 11, 49 Isacco, 132, 253, 286 Ito Jinsai, 431 Jacob\, Friedrich Heinrich, 292, 293 Jerusalem, Friedrich Wilhelm, 275 Kabir, 406, 413, 414, 415 Kaibara Ekiken, 431 K'ang-hsi (imperatore), 428, 429 Kant, Immanuel, 114, 116, 129, 165, 204, 205, 213, 215, 218, 225, 235, 263, 274, 291, 312, 340, 342, 354, 356, 358, 361-405, 362-363 Keplero, Giovanni, 78, 86-87, 92, 104, 156, 160 Khaldun, Ibn, 410 Kleist, Heinrich, 359 Klinger, Friedrich, 241
Klopstock, Friedrich, 359 Kremer (il Mercatore), 25 Ku yen-wu, 429 La Boetie, Etienne de, 74 Laclos, Choderlos de, 352 La Condamine, Charles-Marie de, 219 Lafitau, Joseph-Fran<;ois, 247, 263 Lagrange, Luigi, 218 Lahontan, barone di, 347 Lamarck, Jean-Baptiste, 240, 245 Lambert, Johann Heinrich, 218, 369 La Mettrie, Julien Offroy de, 210, 237, 252, 263, 277, 278, 279-281, 284, 331-332
Landino, Cristofaro, 14 Laplace, Pierre-Simon, 161, 218, 366 Las Casas, Bartolomeo, 11, 50, 51 Laud, William (arcivescovo), 144 Lavoisier, Antoine Laurent, 218, 250 Le Breton, A.F., 211, 277 Le Brun, L.S., 218 Lefevres d'Etaples, Jacques, 24, 36 Lehmann, Johann Georg, 218 Leibniz, Gottfried Wilhelm, 161, 165, 175, 177, 190-204, 190-191, 208, 212, 215, 225, 227, 240, 249, 251, 255, 25~ 27~ 30~ 36~ 367, 369 Lenz, Jakob Michael, 241 Leonardo da Vinci, 11, 78, 80-82, 83, 97, 98 Leone X (papa), 11, 26, 33, 42 Leopardi, Giacomo, 241 Leopolda, Pietro, 358 Lessing, Gotthold Ephraim, 253, 263, 275, 292-293 Linneo, Carlo, 239, 250, 263 Locke, John, 141, 142, 143, 157, 162174, 163, 176, 189, 191, 197, 204, 205, 208, 212, 214, 219, 221, 222, 223, 229, 230, 233, 234, 235, 249, 252, 254, 255, 256, 258, 262, 268, 271' 274, 280, 283, 323, 324, 325, 343, 346, 356 Lodovico il Moro, 11, 9 Lombardo, Pietro, 50 Lomonosov, Michail, 218 Lorenzo il Magnifico, de' Medici, 11,
440 0 lndice analitico 14, 25, 27, 28 Lu Chu-yi.ian, 406, 420, 421 Lucrezio Caro, 241, 279, 281, 306 Luigi XI (re di Francia), 317 Luigi XII (re), 67 Luigi XIV (re), 123, 210, 215, 259, 260, 267, 308, 317, 345 Luigi XV (re), 267 Lullo, Raimondo, 65, 193 Lutero, Martin, 7, 11, 23, 36, 37, 38, 4145, 46, 48, so. 55, 84, 90, 413 Lyell, Charles, 218 Mably, Gabriel Bonnot de, 210, 233, 263, 316, ·348 Machiavelli, Niccolo, 6, 11, 23, 27, 2835, 29, 38, 45, 50, 52, 146, 147, 152, 186, 296, 299, 305, 309, 318, 331, 334, 348, 396 Madhva, 416 Magellano, Ferdinanda, 11 Maillet, Benoit de, 237 Malebranche, Nicola, 106, 126-129, 130, 315 Malesherbes, Chretienne Guillaume, 212 Mandeville, Bernard de, 262, 263, 321, 322~23, 324, 326, 330, 331, 336 Manzoni, Alessandro, 358 Maometto, 408 Maometto II, 11, 406, 407 Mao tse-tung, 429 Maria d'Orange, 145, 163 Marlowe, Christopher, 105 Martinetti, Piero, 363 Marx, Karl, 134, 251 Massimiliano di Baviera, 107, 110 Maurizio di Nassau (principe), 107 Maupertuis, Pierre-Louis Moreau de, 210, 219, 228, 238, 239, 250, 263, 321, 325, 330 Meiners, Cristoph, 320 Melantone, 48, 226, 320 Mendelssohn, Moses, 263, 371 Menenio Agrippa, 345 Mercier, Louis Sebastien, 309, 339 Mercier de la Riviere, Paul-Pierre, 348
Mersenne, Marin, 107, 124, 130, 149 Meslier, Jean, 210, 211, 252, 263, 276 280, 283, 339, 347 Meyzieu, Paris de, 316 Michaelis, Johann David, 275, 320 Michelangelo, 11, 428 Michelet, Jules, 315 Milton, John, 145 Mir Damad, 410 Mir Fendereski, 410 Miura Baien, 431, 432 Mocenigo, Giovanni, 63 Moliere, Jean-Baptiste, 123 Mollar, J., 248 Molyneux, W., 223, 235 Mondobbo, James Burnett, 248, 263 Montaigne, Michel de, 54, 74-76, 74, 77, 113, 124, 137, 138, 245, 295, 352 Montesquieu, Charles Louis de, 52, 205, 207, 208, 209, 210, 211, 214, 228, 243-244, 243-244, 246, 248, 263, 294, 295, 310, 318, 319, 321, 330-331, 332, 334, 339, 344, 345, 356, 357 Morelly, 210, 321, 332, 334, 339, 347 Morgagni, Giovan Battista, 218 Moro, Tommaso, 11, 23, 24, 35, 38-41, 71, 80, 100, 338 Mose, 67, 188, 251, 275 Moser, Justus, 312 Mozart, Wolfgang Amadeus, 216, 353 Miintzer, Thomas, 11, 45, 145 Muratori, Lodovico Antonio, 252, 263, 270-271, 273, 320 Mussolini, Benito, 194 Nakae Toju, 430 Nana~ 406, 414, 415 Necker, Jacques, 348 Needham, Joseph, 192 Newton, Isaac, 97, 112, 119, 141, 143, 156-162, 157, 162, 165, 191, 208, 212, 214, 217, 219, 220, 222, 223, 229, 230, 233, 236, 254, 256, 267, 302, 309, 325, 361, 364, 365, 366, 367, 371, 403 Niccolo V (papa), 26 Nicole, Pierre, 131, 132, 234 Nietzsche, Friedrich, 291
i·
Indice analitico 0
Nollet, Jean Antoine, 293 Occam, Guglielmo, 7, 43 Omero, 251, 292, 304, 312 Orazio, 27 Osiander, Andrea, 84, 88 Ossian, 216, 251, 312 Ovidio, 333 Paolo di Tarso, 36. 42. 7?,. 2S4. 2q1 Paracelso, 11, 54, 55, 57, 58 Pascal, Biagio, 106, 118, 121, 129-140, 142, 143, 158, 164, 181, 190, 253, 257, 265, 268, 269, 286, 307, 352 Pascal, Gilberte, 130, 132 Pascal, Jacqueline, 130, 132 Pascal, Stefano, 130 Pauw, Corneille de, 247 Penn, William, 268, 358 Pericle, 317 Petit, Pietro, 123 Petrarca, Francesco, 1, 2-3, 4, 5 Petrarca, Gherardo, 2 Piccolomini, Enea Silvio, 407 Pico della Mirandola, Giovanni, 1, 11, 14, 17-19, 20, 24, 26, 27, 28, 35, 36, 39, 55, 79, 104, 253 Piero della Francesca, 80 Piero de' Medici, 28 Pietro (apostolo), 41 Pietro il Grande di Russia, 191, 267 Pio II (papa), 7, 11, 407 Pitagora, 15, 79, 101, 177, 230 Platone, 1, 3, 5, 11, 13, 14, 15, 16, 17, 20, 24, 28, 31, 39, 40, 52, 70, 88, 92, 98, 100, 101, 125, 127, 166, 179, 298, 377' 384, 408, 423 Plauto, 153 Plinio, 79 Plotino, 1, 11, 14, 15, 16 Plutarco, 338 Poliziano, Angelo, 11 Pompadour, Madame de, 212, 267, 345 Pomponazzi, Pietro, 1, 11, 20, 21-22, 124 Pope, Alexander, 160 Porfirio, 124 Prevost, Antoine Franc;ois, 353
441
Proclo, 8, 14, 15 Pufendorf, Samuele, 147, 341, 343 Quesnay, Franc;ois, 211, 263, 327, 346, 349
Quesnel, Pasquier, 285 Rabelais, Franc;ois, 11, 54, 71-74, 72 Racine, Jean, 131 Ramanuja, 416 Rawley, William, 99 Raynal, 210 Razan, Hayashi, 427, 428 Reid, Thomas, 214 Reimarus, Hermann Samuel, 252, 263, 275, 292 Reinhold, Karl Leonhard, 399 Re Sole, vedi Luigi XIV Rezzonico, Carlo, 233 Ricci, Matteo, 406, 427, 428 Richardson, Samuel, 215, 353 Richelieu, Armand (cardinale), 67, 345 Robertson, William, 248 Robespierre, Maximilien, 252, 263, 284, 360
Rouhean, 274 Rousseau, Jean Jacques, 129, 205, 209, 210, 211, 214, 216, 228, 233, 242-243, 247-248, 250, 253, 263, 274, 277, 284, 286-290, 286, 291, 292, 308, 309, 311, 316, 321, 333, 334, 335, 336-338, 340, 342, 343-344, 345, 352-353, 356, 359, 360, 361, 365, 382, 384, 387, 391, 395, 396, 397, 398 Rudiger, Andreas, 225, 226, 263 Russel, Bertrand, 104 Russo, Vincenzo, 347-348 Saint Cyran (abbe), 130, 131 Saint Pierre, 263, 294, 308-309, 311, 329, 339, 358 Saint Simon, Claude-Henri, 251 Salomone, 37, 100 Salutati, Coluccio, 1, 4, 5 Sarpi, Paolo, 67 Saverio, Francesco, 48 Savonarola, Gir9lamo, 11, 19, 23, 24, 26-28, 31 Schelling, Friedrich, 416
442 0 lndice analitico Schiller, Friedrich, 355, 358, 394 findal, Mathew, 252, 257, 258, 262, Schloezer, August Ludwig, 320 263, 266, 283 Schultz, Albert, 362 Tiraboschi, Gfrolamo, 320 Semler, Johann Salomon, 263, 275 Tito Livio, 407 Shaftesbury Anthony Ashley, conte di, Tiziano Vecellio, 11 163, 164, 229, 252, 258, 260, 262, Toland, John, 174, 252, 254-255, 256, 263, 264, 266, 268, 277. 279, 283. 262, 263, 272, 279, 283 321, 324-325, 326, 330, 355 Tolomeo, 60, 79, 83, 90, 410 Shakespeare, William, 292 Tommaso d'Aquino, 15, 48, 49, 93, Shankara, 416, 419, 420 116, 127, 170, 200, 410 Shelley, Percy, 241 Torricelli, Evangelista, 130 Shirazi, Molla Sadra, 406, 410-411 Torricelli, Paolo, 80 Simon, Richard, 274 Trismegisto, Ermete, 14 Sisto IV (papa), 24 Tucidid/, 149, 152 Smith, Adam, 214, 227, 248, 263, 319, Turgot, Robert-Jacques, 210, 211, 250, 321, 327-328, 327, 346, 349, 350, 351 263, 294, 309-311, 313, 314, 327, Smith, William, 218 345, 346, 349 Soave, Francesco, 233 Urbano VIII (papa), 89 Socini, Fausto, 144 Valla, Lorenzo, 1, 6-7, 11, 35 Socrate, 3, 37, 52, 75, 224, 287, 289, Van den Ende, 177 291 Vanini, Cesare, 259 Spallanzani, Lazzaro, 218 Vasalio, Andrea, 11, 80 Spener, Philip Jakob, 285, 352 Vasari, Giorgio, 26 Spinoza, Baruch, 97, 127, 165, 175, Verri, Alessandro, 356, 357 176-190, 177, 190, 191, 195, 200, Verri, Pietro, 325, 356, 357 201, 215, 225, 256, 272, 275, 296, Verrocchio, 81 305, 344, 425 Vespucci, Amerigo, 39 Stafford, barone di, 144 Vettori, Francesco, 29 Stahl, Georg, 238 Vico, Giambattista, 114, 214, 247-248, Steele, Richard, 215, 220 251, 263, 266, 274, 294, 295-306, Sterne, Laurence, 215, 353 297, 309, 312, 318, 319, 335, 353, Strabane, 79 356, 397 Suarez, Francisco, 50, 51 Vijana Bhiksu, 406, 419, 420 Suhrawardi, 408, 410 Villabha, 406, 415-417, 418, 419 Swedenborg, EIT\anuel, 368 Viret, Pierre, 253 Swift, Jonathan, 220, 263, 323, 339 Virgilio, 27 Swinburne, Charles, 207 Vives, Lodovico, 80 Tabrizi, Rajah All, 411 Viviani, Vincenzo, 88 Tacita, 186, 298 Volta, Alessandro, 218 Tai Chen, 430 Voltaire (Fran<;ois-Marie Arouet), 7, Tamerlano, 410 206, 208, 209, 210, 211, 214, 216, Taminaga Nakamoto, 431 219, 227, 233, 246, 247, 252, 263, Tartaglia, Niccolo, 79 ' 266-270, 267, 269, 270, 272, 273, Tasso, Torquato, 88 274, 277, 281, 290, 294, 29, 308, 311, Telesio, Bernardino, 54, 59-62, 66, 67 315, 317, 318, 320, 321, 328-329, Thomasius, Christian, 224-225, 226, 332, 339, 345, 346, 368 Walpole, Robert, 263 263
lndice analitico 0
Wang Fu-chih, 428, 429 Wang Shou-jen, 406, 421-426, 422, 427, 430 Wang Yang-ming, vedi Wang Shou-jen W arens, Madame de, 286 Weber, Max, 47 Wesley, John, 285 Whiston, W., 237 Winckelmann, Johann Joachim, 263, 292, 313, 320, 356, 362 Windelband, Wilhelm, 371
443
Wolff, Christian, 225-227, 225, 263, 354, 361, 364, 375, 382 Wollaston, William, 252, 256, 262 Wright, T., 237 Yamaga Soko, 431 Yen Yuan, 429 Young, Edward, 216, 355 Zaratustra, 15, 410, 412 Zenone di Elea, 300 Zoroastro, vedi Zaratustra Zwingli, Ulrich, 11, 36